In tema di usi civici – SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938
Civile Ord. Sez. U Num. 13938 Anno 2024
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: ORILIA LORENZO
Data pubblicazione: 20/05/2024
Oggetto
USI CIVICI
R.G.31329/2018
Cron.
Rep.
Ad. 30/01/2024
CC
ORDINANZA
sul ricorso 31329-2018 proposto da:
ENEL PRODUZIONE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RUGGERO FAURO 43, presso lo studio dell’avvocato UGO PETRONIO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI ANVERSA DEGLI ABRUZZI, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI DI MASSA;
– controricorrente –
nonchè
REGIONE ABRUZZO;
– intimata –
avverso la sentenza n. 4754/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 10/07/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/01/2024 dal Presidente di Sezione LORENZO ORILIA.
FATTI DI CAUSA
Il Prefetto dell’Aquila, con decreto del 7.7.1932, espropriò alcuni terreni gravati da usi civici nel territorio del Comune di Anversa degli Abruzzi. Con l’espropriazione, fu autorizzata l’occupazione permanente dei suoli in favore delle Ferrovie dello Stato, ente a cui è succeduta, per effetto di trasferimenti immobiliari, l’Enel Produzione spa. Successivamente, il Comune di Anversa degli Abruzzi effettuò una verifica demaniale del territorio segnalando alla Regione Abruzzo la richiesta di reintegra in via amministrativa delle terre civiche avanzata dall’Enel.
A seguito dell’opposizione formalizzata dall’ENEL venne quindi disposta la convocazione delle parti davanti al Commissario per il Riordino degli Usi Civici nella Regione Abruzzo e in quella sede venne nominato un consulente tecnico di ufficio, il quale concluse la sua relazione ravvisando la natura demaniale delle particelle n. 72, 733, 145, 348, 722, 724, 725 del foglio 9 e n. 813, 814, 815, 816, 817, foglio 14.
Con sentenza n. 18/2016 il Commissario dichiarò il proprio difetto di giurisdizione osservando che il decreto di espropr d e l 1932 aveva legittimamente trasferito i fondi, attualmente occupati dall’Enel, all’allora Ferrovie dello Stato, trasformandoli in beni allodiali o comunque appartenenti al patrimonio disponibile dello Stato. Argomentò quindi sulla inapplicabilità delle pronunzie della Corte Costituzionale n. 391/1989 e n. 156/1995 e sulla conseguente idoneità dello stesso decreto ad eliminare ogni diritto gravante sui fondi espropriati trasferendoli sull’indennità di esproprio (compresi i diritti di uso civico), in conformità con i principi generali enunciati dall’ art. 52 l. n. 2359/1865 (Espropriazione per Pubblica Utilità) e da alcune leggi richiamate (art. 3 L. n.1834/1938 e art. 9 L. n. 230/1950).
Contro tale pronuncia il Comune di Anversa degli Abruzzi propose reclamo, accolto dalla Corte d’Appello di Roma Sezione Usi Civici con sentenza n. 4754/2018.
Per giungere a tale conclusione, la Corte territoriale, sulla scorta di alcuni precedenti di questa Corte, ha ritenuto che la controversia investe l’accertamento della qualitas soli, precisando che il decreto prefettizio di esproprio del 1932 non aveva comportato la cessazione del vincolo di demanialità civica, non essendo intervenuto nessun provvedimento autorizzativo alla alienazione o al mutamento di destinazione dei fondi: mancava quindi la sdemanializzazione delle aree.
L’ENEL Produzione spa ricorre davanti a questa Corte con due motivi di ricorso contrastati con controricorso dal Comune di Anversa degli Abruzzi.
La Regione Abruzzo è rimasta invece intimata.
Con ordinanza interlocutoria n. 24988 del 2023 il Collegio della seconda sezione civile, su richiesta conforme del Pubblico Ministero, ha rimesso il ricorso alla Prima Presidente per l’assegnazione alle Sezioni unite, vertendosi su questioni di giurisdizione.
In prossimità dell’adunanza camerale le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1 Col primo motivo la società ricorrente denunzia plurime violazioni di norme di diritto: violazione degli artt. 12 e 29 della legge n. 1766/1927 in relazione agli artt. 111 Cost. e 132 cpc; violazione dell’art. 5 della legge n. 2248/1865 allegato E; violazione del principio del riparto di giurisdizione e del principio del giusto processo (artt. 102, 103 e 111 Cost.). Difetto di giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici (art. 360 n. 1 cpc).
1.2 Col secondo motivo denunzia violazione degli artt. 12 e 29 della legge n. 1766/1927 in relazione dell’art. 12 delle preleggi; violazione dell’art. 52 della legge n. 2359/1865; della legge n. 431/1985, del DPR n. 327/2001 art. 4 e 21 septies della legge n. 241/1990 (come successivamente modificati); ancora, violazione dell’art. 5 della legge n. 2248/1865 allegato E. Violazione del principio del riparto di giurisdizione e del principio del giusto processo (artt. 102, 103 e 111 Cost.). Difetto di giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici (art. 360 n. 1 cpc).
Osserva in particolare la società ricorrente:
- la giurisdizione si determina sulla base della “causa petendi” sostanziale che, nella specie, consiste nella possibilità o nella impossibilità che le terre di uso civico – quelle di cd. Demanio civico e quelle private gravate da usi civici – siano espropriabili per pubblica utilità;
- quindi l’accertamento sulla giurisdizione, pur implicando l’apprezzamento di elementi di merito, non può implicare che la statuizione sulla giurisdizione possa confondersi con la decisione sul merito né che la decisione possa essere determinata secundum eventus litis;
- la Corte d’Appello ha deciso sulla scorta di principio di diritto oramai superato nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha successivamente chiarito che l’espropriazione per pubblica utilità, ex l. n. 2359/1865, art. 52, co. 2, si applica anche ai diritti d’uso civico (cita n. 9986/2007); invero, i terreni di uso civico sono suscettibili d’esecuzione forzata nel pubblico interesse, essendo soggetti ad un regime di alienabilità controllata (cita Corte Cost. n. 391/1989);
- la Corte d’Appello ha erroneamente dichiarato assorbita ogni altra questione e, in particolare, quella concernente l’impossibilità, per il Commissario, di dichiarare la nullità dell’espropriazione (peraltro, solo in epoca successiva la legge -art. 4, D. P.R. n. 327/2001- aveva previsto la non espropriabilità dei beni gravati da uso civico, salvo compatibilità col predetto uso);
- all’epoca l’art. 12, l. n. 1766/1927 escludeva alienabilità e usucapibilità in assenza di autorizzazione al mutamento di destinazione, ma non v’era accenno all’espropriazione per pubblica utilità; per contro la Corte cost. (sent. n. 391/1989) aveva affermato sussistere un regime di alienabilità controllata e quindi di suscettibilità all’espropriazione per pubblica utilità.
In sintesi, secondo la tesi della società ricorrente, la sentenza della Corte d’Appello è nulla per avere dichiarato la giurisdizione commissariale senza tener contro della successiva giurisprudenza; ed è altresì nulla per avere ritenuto che le terre di uso civico non sono espropriabili in assenza di un provvedimento di mutamento della destinazione, senza considerare il diritto vigente nel 1932 (quando i beni non avevano rilevanza ambientale), violando in tal modo i principi di imperatività ed effettività dell’atto amministrativo.
La sentenza avrebbe inoltre erroneamente dichiarato assorbiti gli elementi di fatto e di diritto tesi a dimostrare l’impossibilità per il Commissario di dichiarare la nullità dell’esproprio come atto amministrativo.
2 Le due censure – che ben si prestano ad esame unitario per il comune riferimento alla questione di giurisdizione – sono prive di fondamento.
Le tematiche poste dal ricorso sono due, tra loro strettamente collegate: una riguardante i limiti della giurisdizione del Commissario per il Riordino degli Usi Civici e l’altra riguardante l’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico di dominio della collettività.
2.1 Sulla prima questione, si rende opportuno partire da una ricognizione del panorama normativo: come già chiarito da questa Corte (v. tra le varie Sez. U, Sentenza n. 9280 del 20/05/2020; Sez. U – , Ordinanza 28802 del 04/10/2022), con la locuzione «usi civici», si indicano i diritti spettanti a una collettività insediata su un territorio e ai suoi componenti (cives), il cui contenuto consiste nel trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque. La materia degli usi civici è stata disciplinata dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 e dal R.D. 26 febbraio 1928, n. 332 (con il quale è stato approvato il regolamento per la esecuzione della detta legge), nonché dalla legge 10 luglio 1930, n. 1078, recante norme sulla definizione delle controversie in materia di usi civici. Più recentemente, la legge 20 novembre 2017 n. 168 è intervenuta sulla materia, sancendo il riconoscimento degli assetti collettivi fondiari – denominati “domini collettivi” – e dei diritti dei cittadini di uso e di gestione dei beni di collettivo godimento, dei quali ha affidato la gestione agli enti esponenziali delle collettività titolari (ossia alle amministrazioni separate dei beni frazionali e alle associazioni o università agrarie, già individuate dall’art. 11 della l. n. 1766 del 1927) e, in mancanza, ai Comuni sia pure col ricorso ad “amministrazione separata” (art. 2, comma 4). La legge n. 1766/1927, nell’istituire l’ufficio del Commissario per la liquidazione degli usi civici, con funzioni amministrative e giurisdizionali (art. 27), ha individuato – nell’art. 1 – due diverse situazioni giuridiche: da un lato, i diritti di uso e di promiscuo godimento spettanti agli abitanti di un comune o di una frazione su terre di proprietà privata (c.d. “iura in re aliena“), destinati ad essere liquidati ai sensi degli artt. 1-7 della stessa legge e degli artt. 11-15 del RD. n. 332 del 1928; dall’altro, i diritti di uso collettivo sulle terre possedute da comuni, frazioni, università ed altre associazioni agrarie (c.d. “iura in re propria” o proprietà collettive di diritto pubblico), destinati invece ad essere valorizzati e sottoposti alla normativa di tutela dell’ambiente e del paesaggio. Inizialmente, le funzioni attribuite al Commissario erano prevalentemente amministrative, svolte sotto la supervisione del Ministero dell’Economia Nazionale (poi del Ministero dell’Agricoltura e Foreste, art. 37 L. n. 1766/1927 cit.) e dirette al riordinamento degli usi civici; in tale quadro, l’attività giurisdizionale risultava incidentale, destinata a risolvere, in contraddittorio delle parti e con forza di giudicato, le controversie che si potessero profilare. Trasferite le funzioni amministrative (anche di liquidazione) alle Regioni (art. 1 d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11 e art. 66 d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616), il Commissario è rimasto quasi esclusivamente titolare di funzioni giurisdizionali e, quindi, giudice delle controversie circa l’esistenza, la natura e la estensione dei diritti di uso civico (art. 29 L. n. 1766/1927 cit.). È stato altresì chiarito che il Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici, in sede contenziosa, ha natura di organo di giurisdizione speciale, sicché le questioni che insorgano sul riparto di attribuzioni fra detto Commissario ed il giudice ordinario attengono alla giurisdizione (v. SSUU Sentenza n. 9280 del 2020 cit. che a sua volta richiama, ex plurimis, Cass., Sez. Un. n. 6373 del 28/10/1983; Cass., Sez. Un., n. 1174 del 19/04/1968; Sez. Un., n. 2425 del 10/10/1966).
L’ambito della giurisdizione devoluta al Commissario per la liquidazione degli usi civici si ricava dall’art. 29 della L. n. 1766 del 1927, il quale stabilisce al primo comma: «I commissari procederanno, su istanza degli interessati od anche di ufficio, all’accertamento, alla valutazione ed alla liquidazione dei diritti di cui all’art. 1, allo scioglimento delle promiscuità ed alla rivendica e ripartizione delle terre»; e al secondo comma soggiunge: «I commissari decideranno tutte le controversie circa la esistenza, la natura e la estensione dei diritti suddetti, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni loro affidate». Come è dato rilevare dalla lettura dell’art. 29, il secondo comma attribuisce alla giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici le controversie relative ai diritti di cui al primo comma, il quale – a sua volta – rimanda ai diritti menzionati dall’art. 1 della I. n. 1766 del 1927: si tratta degli «usi civici» e di «qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento delle terre». In sostanza, la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici è limitata alla materia che riguarda gli “usi civici” e i “diritti di uso collettivo delle terre”, esulando ogni altra controversia dalla sua giurisdizione.
Nella giurisprudenza di questa Corte, in linea col citato dettato normativo, si è dunque da tempo affermato che la giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici ha ad oggetto tutte le controversie relative all’accertamento, alla valutazione e alla liquidazione dei diritti di uso civico, allo scioglimento delle promiscuità e alla rivendicazione e ripartizione delle terre, e quindi, in sostanza, ogni controversia circa l’esistenza, la natura e l’estensione dei diritti di uso civico e degli altri diritti di promiscuo godimento delle terre spettanti agli abitanti di un Comune o di una frazione, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni affidate ai Commissari stessi (Cass., Sez. Un., n. 7894 del 20/05/2003; analogamente, Cass., Sez. Un., n. 720 del 15/10/1999; Cass., Sez. Un., n. 33012 del 20/12/2018; Cass., Sez. Un., n. 605 del 15/01/2015). E ancora, l’accertamento della qualità di un terreno che si assume di “uso civico”, ossia l’accertamento della c.d. “qualitas soli”, rientra nella giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici soltanto quando la relativa questione sia sollevata dal preteso titolare o dal preteso utente del diritto civico e debba essere risolta con efficacia di giudicato; invece, la controversia tra privati nella quale la demanialità civica di un bene sia stata eccepita al solo scopo di negare l’esistenza del diritto soggettivo di cui la controparte sostenga di essere titolare – eccezione questa che si risolve nella contestazione di un fatto costitutivo del diritto azionato dalla controparte – deve essere decisa dal giudice ordinario, con statuizione sul punto efficace solo incidenter tantum (Cass., Sez. Un., n. 836 del 18/01/2005; Cass., Sez. Un., n. 7429 del 27/03/2009; Cass., Sez. Un., n. 7894 del 20/05/2003; Cass., Sez. Un., n. 3031 del 01/03/2002). Va, dunque, affermato che la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici presuppone una controversia che abbia ad oggetto l’accertamento di usi civici o di diritti di uso collettivo delle terre ovvero l’accertamento dell’appartenenza di un terreno al “demanio civico” (secondo la definizione di cui all’art. 3 della I. 20/11/2017, n. 168). Deve quindi ribadirsi che le questioni circa l’esistenza, la natura e l’estensione dei diritti di uso civico, nonché quelle relative alla qualità demaniale del suolo, postulano la giurisdizione dei Commissari agli usi civici, prevista dall’art. 29 della legge 16 giugno 1927 n. 1766, solo se attengano a controversie aventi ad oggetto detto accertamento fra i soggetti titolari delle rispettive posizioni soggettive e non, invece, quando debbano essere risolte in via meramente incidentale, come nelle controversie tra privati relative al rilascio di beni (cfr. Sez. U, Sentenza n. 28654 del 03/12/2008 Rv. 605653 in tema di locazione a terzi del suolo sottoposto al regime di demanialità collettiva; v. altresì Sez. U, Ordinanza n. 20183 del 2019 che richiama a sua volta Sez. U, Ordinanza n. 26816 del 19/12/2009).
In definitiva, restano escluse dalla giurisdizione commissariale le domande che postulano un già intervenuto definitivo accertamento della qualitas soli (cfr. Sez. U, Ordinanza n. 20183 del 2019 cit.).
2.2 Sulla seconda questione (relativa all’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico di dominio della collettività), queste Sezioni Unite sono di recente intervenute ponendo fine ad incertezze giurisprudenziali ed hanno affermato, in relazione ad un caso di espropriazione di beni demaniali pronunciata nel 1960 sempre dal Prefetto dell’Aquila, il seguente principio: i diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti) per effetto di un decreto di espropriazione per pubblica utilità, poiché la loro natura giuridica assimilabile a quella demaniale lo impedisce, essendo, perciò, necessario, per l’attuazione di una siffatta forma di espropriazione, un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il citato decreto espropriativo che implichi l’estinzione di eventuali usi civici di questo tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull’indennità di espropriazione (cfr. Sez. U – , Sentenza n. 12570 del 10/05/2023).
E’ bene porre subito in evidenza che nella fattispecie (sovrapponibile a quella per cui è causa) decisa con la citata pronuncia delle sezioni unite del 2023 nessuno pose in discussione la giurisdizione commissariale: difatti in quel caso la Corte di appello di Roma – Sezione Specializzata per gli usi civici, con sentenza n. 6/2017, depositata il 4 aprile 2017, si pronunciò sul merito in ordine al reclamo dell’Enel Produzione spa contro la sentenza n. 15/2015 del Commissario per il Riordino degli usi civici nella Regione Abruzzo che, a sua volta, esaminando sempre il merito della vicenda, aveva accolto la domanda del Comune di Alfedena, con la dichiarazione della natura demaniale civica dei fondi in contestazione, la nullità ed inefficacia degli atti pubblici e privati, disposti sugli stessi, ed ordinata la reintegra nel possesso dei fondi in favore della collettività del Comune.
3 Venendo al caso in esame, e sulla scorta della esposta ricostruzione normativa e giurisprudenziale, non vi è dubbio che – contrariamente a quanto si assume in ricorso – il petitum sostanziale investe proprio l’accertamento della qualitas soli: l’indagine tesa a stabilire se sia o meno consentita l’espropriabilità per pubblica utilità dei terreni pubblici gravati da usi civici con la conseguenza della eventuale estinzione della loro natura (questione, come si è visto, ormai definitivamente chiarita da queste Sezioni Unite con la citata sentenza n. 12570 del 10/05/2023) investe proprio la verifica della qualitas soli. La risposta positiva al quesito comporta infatti il venir meno della natura demaniale e l’acquisto della natura giuridica di beni allodiali, mentre a conclusioni diametralmente opposte deve giungersi qualora la risposta al quesito debba essere negativa e rimanga ferma la natura demaniale.
Si rivela pertanto giuridicamente corretta la decisione della Corte d’Appello di Roma laddove, discostandosi dalla pronuncia commissariale, ha ravvisato – nella controversia sulla espropriabilità dei beni assoggettati ad usi civici – una lite sulla qualitas soli dichiarando conseguentemente la giurisdizione commissariale.
In conclusione, il ricorso va respinto, ma il fatto che l’intervento nomofilattico chiarificatore sul tema della all’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico sia intervenuto dopo la proposizione del ricorso per cassazione giustifica senz’altro, ad avviso del Collegio, la compensazione delle spese del giudizio di legittimità tra le parti.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; dichiara la giurisdizione del Commissario per il Riordino degli Usi Civici della Regione Abruzzo; compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 30.1.2024.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 22 agosto 2023, n. 24988, per SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938, in tema di usi civici
SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938, in tema di usi civici
In tema di ricorso per cassazione – SS.UU, 12 marzo 2024, n. 6477
Civile Sent. Sez. U Num. 6477 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: VINCENTI ENZO
Data pubblicazione: 12/03/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 5062/2020 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
-ricorrente-
contro
UNICAR S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 1, presso lo studio dell’avvocato PAOLO VITALI, che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso la sentenza n. 3852/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL LAZIO – SEZIONE STACCATA di LATINA, depositata il 25/06/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/01/2024 dal Consigliere ENZO VINCENTI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale ROBERTO MUCCI, che ha concluso per l’ammissibilità del ricorso, con restituzione alla Sezione Tributaria, e, in subordine, per l’accoglimento;
uditi l’avvocato dello Stato GIANNI DE BELLIS e l’avvocato PAOLO VITALI.
FATTI DI CAUSA
- – Con ricorso affidato a due motivi, l’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale (C.T.R.) del Lazio, sezione staccata di Latina, resa pubblica in data 25 giugno 2019, che, in riforma della decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone del 7 novembre 2017, accoglieva l’appello della Unicar s.r.l. e annullava, di conseguenza, l’avviso di accertamento emesso nei confronti di detta società con il quale, per l’anno di imposta 2013, era contestata la detrazione di I.V.A. per l’acquisto di n. 12 autovetture usate, giacché attinente ad operazioni soggettivamente inesistenti in ragione dell’interposizione fittizia della società “cartiera” Blue Eagle di Costa M. & C. s.a.s.
- – La T.R. del Lazio, con la sentenza impugnata in questa sede, accoglieva l’appello del contribuente reputando che il comportamento da esso tenuto non dimostrasse “la sua consapevolezza nella partecipazione ad un meccanismo di frode”, non essendo egli “nella possibilità di sapere o di dover sapere” e ciò in forza di una pluralità di elementi, ossia: l’acquisto di veicoli che, al momento della consegna, sono soggetti a registrazione; il mancato coinvolgimento (desumibile dalle “intercettazioni telefoniche”) del legale rappresentante della Unicar s.r.l. “nel meccanismo criminoso”; il numero esiguo di autoveicoli acquistati, “pari ad una irrisoria percentuale del totale”; l’incidenza sull’acquisto “ad un prezzo inferiore” delle “politiche aziendali, che mirano ad ottenere un maggior profitto”.
- – L’Agenzia delle Entrate, con il primo motivo di ricorso, ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli 2697, 2727 e 2729 c.c., nonché degli artt. 19 e 21 del d.P.R. n. 633/1972, per aver la C.T.R. utilizzato a sostegno della decisione argomentazioni “fuorvianti e ultronee”, nonché prove “inesistenti, inconsistenti, ininfluenti, non allegate dalle parti”, così da invertire lo stesso onere probatorio incombente su di esse, gravando sul contribuente la dimostrazione della propria buona fede, una volta provata dall’amministrazione (come nella specie) “la natura di cartiera della società a monte” dell’operazione in frode.
Con il secondo motivo è, quindi, censurata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 19 e 21, comma settimo, del d.P.R. n. 633/1972, per aver la C.T.R. infranto i principi dettati dalla giurisprudenza eurounitaria e nazionale sull’onere di “diligenza esigibile da un operatore accorto”, in assenza di dimostrazione, da parte della Unicar s.r.l., impresa con “esperienza pluriennale maturata nel settore del commercio degli autoveicoli”, di essersi comportata, nella vicenda, in conformità a detto parametro.
- – Ha resistito con controricorso l’intimata Unicar s.r.l., la quale, oltre ad argomentare sull’infondatezza dell’impugnazione, ne ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità per “inesistenza” del ricorso, redatto in originale informatico, in quanto privo di sottoscrizione digitale del difensore.
- – La trattazione del ricorso è stata rimessa alla pubblica udienza della Sezione Tributaria con ordinanza interlocutoria 13879 del 2022 adottata, ai sensi del terzo comma dell’art. 380-bis c.p.c. (ratione temporis vigente), dalla Sezione Sesta Tributaria, dinanzi alla quale la controricorrente aveva depositato memoria, insistendo nell’anzidetta eccezione preliminare.
- – All’esito dell’udienza pubblica, preceduta dal deposito delle conclusioni scritte del pubblico ministero (nel senso dell’accoglimento del ricorso) e delle memorie di entrambe le parti, la Sezione Tributaria, con ordinanza interlocutoria 16454 del 2023, reputando sussistente una questione di massima di particolare importanza in ordine al vizio ravvisabile nel ricorso per cassazione nativo digitale privo della firma digitale del difensore (nella specie, dell’avvocato dello Stato il cui nominativo è indicato in calce al ricorso stesso), ha trasmesso gli atti al Primo Presidente ai sensi dell’art. 374 c.p.c., il quale ha assegnato la causa a queste Sezioni Unite.
- – La Unicar r.l. ha depositato ulteriore memoria ex art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
- – Queste Sezioni Unite, su sollecitazione della Sezione Tributaria, sono chiamate a pronunciarsi sulla questione di diritto, di massima di particolare importanza, che attiene ad un requisito di forma del ricorso per cassazione redatto in originale informatico, ossia, se mancando la sottoscrizione con firma digitale del difensore (come nel caso in esame, quale circostanza incontestata dalla stessa difesa erariale dell’Agenzia delle Entrate), un tale vizio sia da ricondursi alla categoria dell’inesistenza, in applicazione del principio generale desumibile dall’art. 161, secondo comma, c.p.c., ovvero a quella della nullità suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, terzo comma, c.p.c.
- – La Sezione rimettente evidenzia che, nel caso, trova rilievo “un possibile deficit strutturale dell’atto processuale”, richiedendo l’art. 365 p.c. (in coerenza con la regola generale posta dall’art. 125 c.p.c.) che il ricorso per cassazione sia “sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto in apposito albo”, là dove la causa dell’inammissibilità – come ritenuto, segnatamente, da Cass. n. 18623/2016 – “non può essere trattata come una causa di nullità cui applicare il criterio del raggiungimento dello scopo”.
L’ordinanza interlocutoria, richiamando la decisione di questa Corte evocata dalla controricorrente (Cass. n. 3379/2019), espressione di un orientamento consolidato in relazione a ricorso redatto in modalità analogica (tra le altre: Cass. n. 4078/1986; Cass. n. 2691/1994; Cass. n. 6111/1999; Cass. n. 4116/2001; Cass., S.U., n. 11632/2003; Cass. n. 1275/2011), cui si oppone soltanto una pronuncia “assolutamente isolata” (Cass. n. 9490/2007), ricorda che il difetto di sottoscrizione degli atti da parte del difensore (o della parte abilitata a stare in giudizio personalmente) è riconducibile alla categoria dell’inesistenza, in applicazione del “principio generale circa la sorte della sentenza priva di sottoscrizione del giudice, ex art. 161, comma 2, c.p.c.”, essendo la sottoscrizione “elemento indispensabile per la formazione” dell’atto processuale.
Quanto, poi, al caso di specie, di ricorso nativo digitale privo di sottoscrizione digitale, la giurisprudenza di questa Corte in medias res – dal Collegio rimettente richiamata – si concentra in due (sole) pronunce: Cass. n. 14338/2017 e Cass., S.U., n. 22438/2018.
Secondo Cass. n. 14338/2017, che “si muove senz’altro nell’egida dell’orientamento tradizionale”, la mancanza della firma digitale comporta la nullità del ricorso, essendo la stessa equiparata dal d.lgs. n. 82/2005 alla sottoscrizione autografa, la quale, ai sensi dell’art. 125 c.p.c., costituisce “requisito dell’atto introduttivo (anche del processo di impugnazione) in formato analogico”.
Con Cass., S.U., n. 22438/2018 si è affermato (sebbene – come riconosce l’ordinanza n. 16454/2023 – quale “snodo logico- giuridico” dell’approdo nomofilattico ex art. 363 c.p.c. sulla questione, diversa, della improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c.) il principio secondo cui il ricorso predisposto in originale in forma di documento informatico e notificato in via telematica deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell’atto stesso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo.
La Sezione rimettente, pur dando atto della specifica portata nomofilattica di quel principio, anche ai sensi del terzo comma dell’art. 374 c.p.c., ritiene meritevole di approfondimento la questione di diritto alla luce di una serie di argomentate considerazioni.
Anzitutto, l’inserirsi del precedente del 2018 in contesto giurisprudenziale in cui il vizio attinente al requisito della sottoscrizione del ricorso, dettato ai fini dell’ammissibilità dello stesso atto, è ricondotto alla categoria dell’inesistenza e non della nullità.
Ed ancora, l’ordinanza interlocutoria evidenzia che proprio attraverso il richiamo della nullità le citate Sezioni Unite ipotizzano “il ricorso alla sanatoria del vizio, ove sia possibile attribuire la paternità dell’atto”, pur non soffermandosi – per non essere nel caso allora esaminato necessario – ad approfondire se detta paternità “debba pur sempre ricollegarsi ad una sottoscrizione comunque apposta sull’atto, anche se ad altri fini” oppure “una simile indagine possa anche condursi in forza di altri elementi, esterni all’atto processuale”.
La Sezione rimettente sostiene, quindi, che, sebbene “diverse disposizioni normative esprimono il c.d. principio di non discriminazione del documento informatico, rispetto a quello
analogico o tradizionale” (artt. 20 e 23, comma 2, del C.A.D.; art. 25, parr. 1 e 2, del Reg. UE n. 910/2014), il documento informatico, alla stregua di una sorta di “discriminazione al contrario”, “non può di per sé supplire al deficit strutturale da cui esso sia eventualmente affetto, rispetto ai requisiti di forma richiesti dalla norma, salvo che detti requisiti siano direttamente evincibili dal suo corredo informativo”.
E nel caso della mancanza della firma digitale – soggiunge l’ordinanza interlocutoria – è ben difficile che la paternità del ricorso possa desumersi aliunde dalle “proprietà” del documento stesso o “dall’utilizzo di una casella PEC inequivocabilmente riferibile all’avvocato che avrebbe apparentemente redatto il ricorso”. In quest’ultima ipotesi, non potrebbe “comunque escludersi un accesso alla medesima casella PEC del mittente da parte di soggetto diverso dal suo titolare”, là dove, poi, “è solo l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale a determinare la presunzione (relativa) di riconducibilità della stessa al suo titolare, ex art. 20, comma 1-ter, del C.A.D., non anche l’uso della casella PEC del mittente, per quanto ovviamente personale”.
La Sezione Tributaria, infine, assume, con specifico riferimento all’Avvocatura dello Stato, che, sebbene la relativa difesa abbia carattere impersonale, è “imprescindibile”, tuttavia, “che l’atto processuale debba essere comunque riferibile con certezza ad avvocato dello Stato perfettamente identificabile”. Difatti, il patrocinio assunto dall’Avvocatura erariale esclude soltanto la necessità del rilascio della procura speciale ex art. 365 c.p.c., ma non “l’assunzione di paternità circa il contenuto dell’atto, riconducibile evidentemente alla sottoscrizione”, a tal fine non potendosi neppure ricorrere alla firma per autentica di detta procura, per l’appunto non necessaria nel caso in cui la parte sia abilitata ad avvalersi del suo patrocinio. - – L’impugnazione proposta dall’Agenzia delle Entrate, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, contro la Unicar s.r.l. per la cassazione della sentenza emessa il 25 giugno 2019 dalla C.T.R. del Lazio, sezione staccata di Latina, è ammissibile.
3.1. – Viene in rilievo un ricorso redatto in forma di documento informatico, privo di firma digitale, e, come tale, notificato a mezzo p.e.c. (dall’indirizzo del mittente:_____________) il 27 gennaio 2020, ma depositato in copia analogica l’11 febbraio 2020 (unitamente alle copie cartacee dei messaggi di p.e.c. e della relata di notificazione) e munito di attestazione di conformità, ex art. 9 della legge n. 53 del 1994, con sottoscrizione autografa dell’Avvocato dello Stato Salvatore Faraci.
Tale, dunque, è la fattispecie processuale che – nell’ottica di necessaria compenetrazione tra l’esercizio dei compiti di nomofilachia e la vicenda portata alla cognizione del giudice – segna il perimetro entro il quale si colloca la decisione di ammissibilità.
3.2. – Nella specie occorre tenere conto, pertanto, del regime precedente a quello che si è venuto a determinare, dapprima, con la facoltatività, dal 31 marzo 2021, del deposito telematico a valore legale degli atti di parte nel giudizio di cassazione (e ciò per effetto del decreto direttoriale DGSIA del 27 gennaio 2021, pubblicato sulla G.U. 28 gennaio 2021, n. 22 ed emanato ai sensi dell’art. 221, comma 5, del d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020) e, quindi, a definire con l’obbligatorietà di detto deposito a partire dal 1° gennaio 2023 (in virtù dell’art. 196-quater disp. att. cod. proc. civ., introdotto dall’art. 4 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149).
Il contesto è, dunque, quello in cui, non potendosi procedere in cassazione al deposito telematico del ricorso nativo digitale come tale notificato, era affidato alla parte l’onere di attestare, ai sensi dell’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994 (e successive modificazioni), la conformità al predetto atto processuale originale della copia analogica depositata.
Ed è in siffatto contesto che la sentenza n. 22438 del 2018 di queste Sezioni Unite ha avuto modo di affermare – nello sviluppo dell’iter argomentativo avente ad oggetto, segnatamente, la questione di procedibilità ex art. 369, primo comma, c.p.c. di ricorso nativo digitale notificato a mezzo p.e.c. e depositato in copia analogica priva di asseverazione ai sensi del citato art. 9 della legge n. 53/1994 – che la mancanza di sottoscrizione digitale del ricorso nativo digitale notificato (ossia, del documento informatico originale) costituisce un “vizio che potrebbe determinare la nullità dell’atto, se non fosse possibile aliunde ascriverne la paternità certa, in ragione del principio del raggiungimento dello scopo”.
3.3. – A tal riguardo varrà rammentare che la giurisprudenza di questa Corte (tra cui quella stessa indicata dall’ordinanza interlocutoria n. 16454/2023) assegna all’elemento formale della sottoscrizione la funzione di nesso tra il testo ed il suo apparente autore, affinché possa dirsi certa la paternità dell’atto processuale.
A tal fine, dunque, la sottoscrizione si rivela elemento indispensabile per la formazione dell’atto stesso, il cui difetto ne comporta (come, per l’appunto, sovente affermato) l’inesistenza (in forza dell’estensione del principio della nullità insanabile stabilito dal secondo comma dell’art. 161 c.p.c.), qualora, però, non ne sia desumibile la paternità da altri elementi, come, in particolare, la sottoscrizione per autentica della firma della procura in calce o a margine dello stesso (tra le altre: Cass. n. 4078/1986; Cass. n. 6225/2005; Cass. n. 9490/2007; Cass. n. 1275/2011; Cass. n. 19434/2019; Cass. n. 32176/2022).
La funzione di rendere certa la paternità dell’atto processuale può, quindi, essere assolta tramite elementi, qualificanti, diversi dalla sottoscrizione dell’atto stesso, che consentano, tuttavia, di avere certezza su chi ne sia l’autore; uno scopo, dunque, che, in siffatti stretti termini, è conseguibile aliunde.
3.3.1. – Un orientamento, questo, che la citata Cass., S.U., n. 22438/2018, muovendosi nella ricordata realtà ‘ibrida’ del processo civile telematico di legittimità (in cui, come detto, il ricorso, nativo digitale e notificato a mezzo p.e.c., doveva necessariamente essere depositato in formato analogico corredato da attestazione di conformità), ha ribadito alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU) il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (così anche: Cass., S.U., n. 25513/2016; Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024).
Di qui, pertanto, anche la rinnovata vitalità assegnata al principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo, dalla legge prescritte non per la realizzazione di un valore in sé o per il perseguimento di un fine proprio ed autonomo, ma in quanto strumento più idoneo per la realizzazione di un certo risultato, il quale si pone come il traguardo che la norma disciplinante la forma dell’atto intende conseguire (tra le molte: Cass. n. 9772/2016; Cass., S.U., n. 14916/2016; Cass., S.U., n. 10937/2017; Cass. n. 8873/2020; Cass. n. 31085/2022; Cass. n. 14692/2023).
3.4. – L’atto su cui, pertanto, queste Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è la copia cartacea del ricorso per cassazione depositata dall’Agenzia delle Entrate e asseverata, unitamente alle copie cartacee dei messaggi di p.e.c., dall’Avvocato dello Stato Salvatore Faraci.
3.4.1. – Nella specie, non è in discussione la conformità della copia al contenuto del ricorso nativo digitale, perché nulla è stato eccepito sul punto dal controricorrente.
I rilievi della Unicar s.r.l., infatti, si concentrano soltanto sull’assenza di firma digitale sull’originale del documento informatico, contestandosi, altresì, che l’apposta asseverazione ex art. 9 della legge n. 53/1994 sulla copia in formato analogico possa assolvere allo scopo di riferire l’atto al suo autore e cioè all’Avvocato dello Stato Faraci, anche perché in essa è attestato “un fatto non vero: ovverosia il fatto che il ricorso fosse stato sottoscritto digitalmente” (così a p. 9 della memoria depositata per l’udienza del 16 gennaio 2024; ma la contestazione era già presente a p. 3 della memoria depositata per l’udienza del 29 settembre 2022).
3.4.2. – Invero, pur essendo pacifica la circostanza della mancanza di sottoscrizione del ricorso nativo digitale notificato via p.e.c., non è, anzitutto, in discussione (neppure da parte della società controricorrente) la riferibilità del ricorso stesso alla difesa erariale dell’Avvocatura generale dello Stato in quanto tale, essendo ciò comprovato, comunque, dalla relativa notificazione eseguita dall’indirizzo p.e.c. (____________________) censito nei pubblici registri e riferibile alla medesima Avvocatura, alla quale, in forza dell’art. 1, comma primo, del r.d. n. 1611 del 1933, spettano “(l)a rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo”.
E tanto è consentito ritenere proprio in forza della natura impersonale del relativo patrocinio dalla legge stabilita e che viene a configurare un “unicum” rispetto alla difesa in giudizio di tutti gli altri enti pubblici che si avvalgano di avvocati del libero foro o dei propri uffici legali, essendo in questi casi il mandato difensivo sempre conferito al singolo avvocato in rappresentanza dell’ente.
Di ciò se ne ha ora conferma esplicita in base alle modifiche recentemente apportate al d.m. 44/2011 dal d.m. n. 217/2023 (modifiche entrate in vigore il 14 gennaio 2024), per cui l’Avvocatura dello Stato è espressamente menzionata, anche nelle sue articolazioni distrettuali, all’art. 2, comma 1, lettera m), n. 4, tra i soggetti abilitati esterni pubblici. Pertanto, è l’Avvocatura dello Stato in quanto tale ad essere censita sul registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della giustizia (c.d. REGINDE: art. 7 del d.m. n. 44/2011), quale difensore abilitato a operare nell’ambito del p.c.t., non i singoli avvocati e procuratori dello Stato e tanto in ragione proprio della ricordata natura impersonale del relativo patrocinio.
Del resto, il carattere impersonale della difesa dell’Avvocatura dello Stato è profilo più volte rimarcato dalla giurisprudenza di questa Corte che, anche in riferimento alla rappresentanza e difesa in giudizio delle Agenzie fiscali, ha affermato che gli avvocati dello Stato sono pienamente fungibili nel compimento di atti processuali relativi ad un medesimo giudizio, per cui l’atto introduttivo di questo è valido anche se la sottoscrizione è apposta da avvocato diverso da quello che materialmente ha redatto l’atto, unica condizione richiesta essendo la spendita della qualità professionale abilitante alla difesa (tra le altre: Cass. n. 4950/2012; Cass. n. 13627/2018). E nella stessa prospettiva si è, altresì, precisato che, nel caso di ricorso proposto per conto di un’amministrazione dello Stato, se non si contesta che la sottoscrizione provenga da un legale dell’Avvocatura generale dello Stato, non rileva neanche se lo stesso si identifichi o meno con il nominativo indicato nell’epigrafe o in calce al ricorso (Cass., S.U., n. 59/1999; Cass. n. 21473/2007).
3.4.3. – Quanto, poi, alla necessità della sottoscrizione del ricorso nativo digitale depositato in modalità analogica da un determinato avvocato dello Stato, una siffatta esigenza è, nella specie, da ritenersi soddisfatta dall’attestazione di conformità sottoscritta dall’avvocato dello Stato Faraci, di cui non è affatto contestata tale qualità.
L’asseverazione datata 29 gennaio 2020, nonostante attesti, in contrasto con la realtà fenomenica, che l’originale informatico dell’atto sia “sottoscritto con firma digitale dall’Avvocato dello stato Avv. Salvatore Faraci”, risulta comunque chiaramente riferita al ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate contro la Unicar s.r.l. e agli allegati messaggi di p.e.c. relativi alla notificazione del ricorso medesimo in data 27 gennaio 2020. E la inequivoca riferibilità dell’attestazione anzidetta al ricorso per cui è causa è circostanza che, invero, non è messa in discussione neppure dalla parte controricorrente, le cui difese, come detto, insistono sul profilo giuridico dell’inesistenza di ricorso nativo digitale privo di sottoscrizione e sulla inidoneità dell’attestazione ex lege n. 53/1994 a supplire a tale carenza.
Contrariamente, dunque, a quanto ritenuto dalla Unicar s.r.l., detta asseverazione esprime la paternità certa dell’atto, proveniente dall’Avvocatura generale dello Stato, in capo allo stesso avvocato dello Stato Faraci, operando in termini che, nello specifico contesto dato, possono ben essere assimilati alla certificazione dell’autografia della sottoscrizione della procura alle liti, palesando anzi, in maniera anche più evidente di quest’ultima (che si riferisce indirettamente all’atto cui accede), il nesso tra l’atto e il suo autore.
3.5. – Pertanto, nella peculiarità della delineata situazione processuale ‘ibrida’ e in continuità con l’indirizzo, ribadito anche da Cass., S.U., n. 22438/2018 (alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale, cui si raccorda quello di strumentalità delle forme processuali), per cui è possibile desumere aliunde, da elementi qualificanti, la paternità certa dell’atto processuale, va ritenuto che la notificazione del ricorso nativo digitale dalla casella p.e.c. dell’Avvocatura generale dello Stato censita nel REGINDE e il deposito della copia di esso in modalità analogica con attestazione di conformità sottoscritta dall’avvocato dello Stato, rappresentano elementi univoci da cui desumere la paternità dell’atto, rimanendo così superato l’eccepito vizio in ordine alla mancata sottoscrizione digitale dell’originale informatico del ricorso. - – Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate va, dunque, dichiarato ammissibile e il relativo esame rimesso alla Sezione Tributaria.
P.Q.M.
dichiara ammissibile il ricorso e ne rimette l’esame alla Sezione Tributaria.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 09 giugno 2023, n. 16454, per SS.UU, 12 marzo 2024, n. 6477, in tema di ricorso per cassazione
SS.UU, 12 marzo 2024, n. 6477, in tema di ricorso per cassazione
In tema di compenso professionale – SS.UU, 19 settembre 2005, n. 18450
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vincenzo CARBONE – Presidente aggiunto –
NICASTRO – Presidente di sezione – Dott. Gaetano
Dott. Salvatore SENESE – Presidente di sezione –
Dott. Giovanni PAOLINI – Consigliere –
Dott. Alessandro CRISCUOLO – Rel. Consigliere –
Dott. Francesco SABATINI – Consigliere –
Dott. Fabrizio MIANI CANEVARI – Consigliere –
Dott. Michele LO PIANO – Consigliere –
Dott. Mario Rosario MORELLI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CECIARINI ALESSANDRO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CHELINI 5, presso lo studio dell’avvocato FABIO VERONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO CECIARINI, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI ISOLA DEL GIGLIO, in persona del Sindaco pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. B. VICO 31, presso lo studio dell’avvocato ENRICO SCOCCINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSANDRO ANTICHI, giusta delega in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1310/00 della Corte d’Appello di FIRENZE, depositata il 17/07/00;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/05/05 dal Consigliere Dott. Alessandro CRISCUOLO;
udito 1’Avvocato Massimo CECIARINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo GAMBARDELLA che ha concluso per il rigetto del primo motivo del ricorso, accoglimento per quanto di ragione degli altri motivi.
Ceciarini
Svolgimento del processo
Con convenzione stipulata il 27 marzo 1987 tra il Comune di Isola del Giglio e l’ing. Alessandro Ceciarini l’ente territoriale affidò al professionista la redazione del progetto dei lavori per la costruzione di una rete idrica relativa ai centri abitati di Giglio Castello, Giglio Porto e Giglio Campese. Nella convenzione fu pattuito che il pagamento del compenso al professionista restasse subordinato alla condizione che il Comune ottenesse dagli enti competenti il finanziamento dell’opera.
Espletato l’incarico l’ing. Ceciarini, non avendo ottenuto il compenso, promosse il procedimento arbitrale (previsto dalla convenzione d’incarico) al fine di ottenere la condanna del Comune al pagamento di lire 100.954.726, con i relativi interessi, a titolo di onorari e rimborso spese per l’attività professionale espletata.
Il Comune contestd la domanda, in quanto il pagamento del compenso era subordinato alla condizione, non avveratasi, del finanziamento dell’opera.
La parte privata replicò che la condizione doveva ritenersi inefficace, in quanto meramente potestativa, e comunque contraria al principio d’inderogabilità della tariffa professionale.
Addusse, inoltre, che la condizione, se valida, si sarebbe dovuta ritenere avverata essendo mancata per fatto imputabile al Comune, tenuto comunque al risarcimento del danno, e che l’opera almeno in parte era stata finanziata.
Il collegio arbitrale, espletata una consulenza tecnica ed acquisita agli atti la documentazione prodotta, con lodo del 9 ottobre 1998 condanna l’ente territoriale a pagare all’ing. Ceciarini la somma di lire 65.000.000=, con i relativi interessi, nonché i 2/3 delle spese di lite. Il collegio pervenne a tale statuizione ritenendo non configurabile la fattispecie di cui all’art. 1359 c. c. (dato l’interesse di entrambe le parti all’avveramento della condizione), considerando valida la clausola che prevedeva la condizione medesima ed osservando, tuttavia, che il Comune non si era attivato con la dovuta diligenza nella richiesta di finanziamento, onde risultava inadempiente ai sensi dell’art. 1358 c. c., con conseguente obbligo risarcitorio a suo carico, liquidato in misura pari al compenso spettante al professionista e ridotto del 20%.
Con citazione notificata il 15 febbraio 1999 il Comune di Isola del Giglio impugno il lodo davanti alla Corte di appello di Firenze, adducendone la nullità per violazione degli artt. 1358 e 1359 c. c., per contraddittorieta, per violazione del principio di diritto secondo cui il giudice deve pronunciare “juxta alligata et probata”, per carente esame della documentazione prodotta e per mancata ammissione delle prove richieste in ordine all’impossibilita di ottenere un mutuo comunitario o di ricorrere a soluzioni alternative.
Il Ceciarini si costituì per resistere all’impugnazione, proponendo a sua volta impugnazione incidentale diretta a censurare il lodo nella parte in cui avrebbe illegittimamente decurtato il compenso minimo del 20% e deducendo (l’errata interpretazione ed applicazione dell’art. 1359 c. c. nonché la nullità del lodo medesimo per carenza di motivazione sulle deduzioni proposte.
La Corte di appello fiorentina, con sentenza depositata il 17 luglio 2000, dichiarò la nullità del lodo e dichiarò che nulla era dovuto dal Comune al professionista in virtù del contratto stipulato tra le parti, compensando integralmente tutte le spese del giudizio, comprese quelle del procedimento arbitrale.
La Corte territoriale richiamò il principio (già affermato da questa Corte) secondo cui, qualora le parti abbiano subordinato gli effetti di un contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario acquirente ottenga da un istituto bancario un mutuo per poter pagare in tutto o in parte il prezzo stabilito — patto valido perché i negozi ai quali non è consentito apporre condizioni sono indicati tassativamente dalla legge — la relativa condizione ¢ qualificabile come “mista”, in quanto la concessione del mutuo dipende anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la relativa pratica. La mancata concessione del mutuo, peraltro, comporta le conseguenze previste in contratto, senza che rilevi (ai sensi dell’art. 1359 c. c.), un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente, sia perché tale disposizione è inapplicabile nel caso in cui la parte, tenuta condizionatamente ad una data prestazione, abbia anch’essa interesse all’avveramento della condizione, sia perché l’omissione di un’attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, e la sussistenza di un obbligo siffatto deve essere esclusa per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista.
Nel quadro di tale principio, ritenuto applicabile alla fattispecie, la sentenza impugnata escluse l’applicabilità al caso in esame sia dell’art. 1359 c. c., attinente all’avveramento della condizione per il comportamento della parte dalla cui condotta l’avveramento stesso anche dipende, sia dell’art. 1358 c. c., relativo alla responsabilità nascente in capo a detta parte per comportamento non conforme a buona fede. In ciò ravvisò causa di nullità del lodo, in accoglimento della doglianza proposta dall’impugnante principale.
La Corte di merito, poi, rilevò che il contratto qdeu o prevedeva la concessione di un mutuo per l’esecuzione dell’opera la cui progettazione era stata affidata al Ceciarini, in assenza del quale nessun compenso era previsto per quest’ultimo, e ne dedusse che ai fini di causa il Comune era tenuto alla richiesta del detto mutuo e ciò, com’era pacifico, era stato fatto, sicché l’ente territoriale aveva adempiuto agli obblighi derivanti dal contratto, non essendo obbligato in forza del contratto stesso ad ulteriori comportamenti.
Pertanto, ad avviso della Corte fiorentina, dichiarato nullo il lodo per errore di diritto, andava altresi dichiarato che nulla era dovuto al Ceciarini dal Comune medesimo, restando assorbita ogni altra domanda proposta dalle parti.
Avverso tale sentenza l’ing. Ceciarini ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi illustrati con due memorie.
Il Comune di Isola del Giglio ha resistito con controricorso.
La prima sezione civile di questa Corte, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza depositata il 5 giugno 2004 ha rilevato che, con il primo motivo del ricorso stesso, si poneva la questione della validita della clausola — apposta alla convenzione con la quale il Comune affida ad un privato l’attività professionale di progettazione di un’opera pubblica — che subordina il diritto al compenso all’ottenimento del finanziamento dell’opera progettata.
Ha osservato, quindi, che su tale questione sussiste un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, perché in alcune sentenze si è affermato che il principio d’inderogabilita delle tariffe professionali (operante anche con riguardo alle prestazioni rese da ingegneri ed architetti allo Stato e agli altri enti pubblici, nei limiti indicati dall’art. 4, comma 12 bis, del d. 1 n. 65 del 1989, introdotto dalla legge di conversione n. 155 del 1989) attiene al momento di liquidazione del compenso, ma non esclude che il professionista possa validamente sottoporre il suo diritto a riscuotere il compenso stesso a termine o a condizione, o anche a prestare la propria opera gratuitamente per i motivi più vari, che possono essere ispirati da mera liberalità ovvero da considerazioni di ordine sociale o di convenienza o, ancora, da prospettive di opportunita in relazione a personali ed indiretti vantaggi. Mentre nella sentenza n. 7538 del 2002 si è deciso che deve essere ritenuta nulla la clausola, contenuta in un capitolato, la quale condizioni il pagamento del compenso a finanziamenti futuri e incerti, ancorché l’ente pubblico abbia ricevuto 1’intera prestazione professionale, in quanto in contrasto con la causa normalmente onerosa della prestazione.
In presenza di tale contrasto 1’ordinanza ha ravvisato l’opportunita di rimettere gli atti al Primo Presidente per eventuale assegnazione del ricorso alle sezioni unite, considerato anche che era gia all’esame di queste la questione (ritenuta connessa) concernente la validità dell’atto negoziale di conferimento dell’incarico al professionista nell’ipotesi in cui la relativa delibera dell’ente territoriale sia priva della previsione di spesa, in violazione dell’art. 284 del r. d. 3 marzo 1934, n. 383 (relativamente a fattispecie contrattuali realizzate nel vigore di detta normativa).
Il ricorso, quindi, è stato assegnato alle sezioni unite di questa Corte ed è stato chiamato all’udienza di discussione.
Motivi della decisione
1. Il resistente ha addotto l’inammissibilità del ricorso per cassazione, ritenendolo tardivo in quanto non sarebbe possibile cumulare due sospensioni dei termini per il periodo feriale.
Tale eccezione (in senso lato, in quanto attinente a profilo rilevabile anche d’ufficio) non è fondata.
La sentenza impugnata fu depositata il 17 luglio 2000. Da tale data prese a decorrere il termine annuale di decadenza ex art. 327 c. p. c. ( in quanto essa non risulta notificata, com’è incontroverso), termine da calcolare ex nominatione dierum, cioè prescindendo dal numero dei giorni da cui è composto ogni singolo mese o anno, ai sensi dell’art. 155, comma 2°, del codice di rito civile (Cass., 11 agosto 2004, n. 15530; 3 giugno 2003, n. 8850; 7 luglio 2000, n. 9068). Il detto termine, dunque, veniva a scadere il 17 luglio 2001, ma esso doveva essere prolungato di 46 giorni (calcolati ex numeratione dierum, ai sensi del combinato disposto degli artt. 155, comma 1°, c. p. c. e 1, comma 1°, L. n. 742 del 1969: v. giurisprudenza ora cit) per la sospensione durante il periodo feriale. Pertanto, dopo i primi 14 giorni (17/31 luglio 2001), i residui 32 giomi non giunsero a compimento il 1°settembre 2001 (ricadente nel c. d. periodo feriale) ma presero a decorrere dopo la detta sospensione, cioè dal 16 settembre 2001 (incluso), giungendo a compimento il 17 ottobre 2001. Poiché il ricorso per cassazione risulta notificato il 10 ottobre 2001,
L’impugnazione si rivela tempestiva.
La tesi del resistente, secondo cui non sarebbe possibile cumulare due periodi di sospensione, non può essere condivisa. Essa non trova riscontro nel dettato normativo ed anzi contrasta con la ratio della legge n. 742 del 1969, che — salve le eccezioni previste — ha comunque inteso evitare il decorso dei termini processuali nell’arco di tempo considerato da tale legge. Il punto, del resto, è stato già trattato da questa Corte, la quale ha affermato il principio secondo cui il termine annuale di decadenza dall’impugnazione che, qualora sia iniziato a decorrere prima della sospensione dei termini durante il periodo feriale, deve essere prolungato di 46 giorni ( non dovendosi tenere conto del periodo compreso tra il 1° agosto e il 15 settembre di ciascun anno) è suscettibile di ulteriore analogo prolungamento quando l’ultimo giorno di detta proroga venga a cadere dopo l’inizio del nuovo periodo feriale dell’anno successivo (Cass., 8 gennaio 2001, n. 200; 20 marzo 1998, n. 2978). Ed a tale principio il collegio intende dare continuità, essendo esso conforme alla lettera ed alla ratio della citata legge n. 742 del 1969.
2. Con il primo mezzo di cassazione il ricorrente denunzia “omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia prospettato dalla parte o rilevabile d’ufficio.
Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c. p. c. Violazione degli artt. 36 Cost., 2233, 2° comma, c. c., dell’articolo unico della legge 5. 5. 1976 n. 340, degli artt. 1418 e 1419, 2° comma, c.c”.
Con il secondo motivo dell’impugnazione incidentale avverso il lodo I’ing. Ceciarini avrebbe riproposto — sotto il profilo della nullità del lodo per violazione di norme di diritto — la questione concernente la nullita della clausola che subordina la riscossione del compenso da parte del professionista al fatto, futuro e incerto, dell’avvenuto finanziamento dell’opera progettata.
Con il primo motivo avrebbe già impugnato il lodo, sotto il medesimo profilo di parziale nullita per contrasto con le norme imperative stabilite dall’art. unico della 1. 5 maggio 1976, n. 340, concernente la riduzione del 20% sui minimi tariffari.
Tali questioni avrebbero avuto indubbio carattere preliminare perché, se la condizione fosse stata dichiarata nulla e/o inefficace (sia per contrasto con le norme relative all’inderogabilita dei minimi tariffari, sia per contrasto con gli artt. 36 Cost. e 2233, 2° comma, c. ¢.), sarebbe stato inutile porsi il problema della operativita 0 meno degli artt. 1358 e 1359 c. c. (addotti invece dalla Corte di merito a motivo unico della propria decisione).
La Corte territoriale avrebbe omesso del tutto l’esame di tali censure, inserendole frettolosamente tra quelle “assorbite”, laddove, poiché la questione circa la validita della condizione apposta avrebbe costituito un prius rispetto all’incidenza (agli effetti degli artt. 1359 e 1358 c. c.) del mancato avveramento della condizione stessa, la Corte distrettuale avrebbe avuto l’obbligo di pronunciarsi e di motivare sul punto.
Peraltro, qualora si dovesse considerare il rigetto della questione di nullità o inefficacia della clausola contenente la condizione come motivato per implicito, la sentenza impugnata si esporrebbe comunque a censura per violazione di legge.
Infatti, se l’art. unico della legge n. 340 del 1976 impone l’inderogabilità dei minimi tariffari tra privati (mentre, ai sensi dell’art. 4, comma 12 bis, del d. 1. 2 marzo 1989 n. 65, aggiunto dalla legge di conversione n. 155 del 26 aprile 1989, per le prestazioni rese dai professionisti allo Stato e agli altri enti pubblici relativamente alla realizzazione di opere pubbliche o comunque d’interesse pubblico, il cui onere è in tutto o in parte a carico dello Stato e degli altri enti pubblici, la riduzione dei minimi di tariffa non può superare il 20%), sarebbe erroneo il giudizio espresso dal collegio arbitrale, tacitamente avallato dalla Corte di appello, circa la rilevanza meramente disciplinare della deroga accettata dal professionista e la validita tra le parti della clausola condizionante la riscossione del compenso alla concessione del finanziamento dell’opera.
In presenza di una norma imperativa, la nullita della clausola di deroga sarebbe automatica in forza del combinato disposto degli artt. 1418 e 1419 c. c., senza necessita di specifica comminatoria di questa sanzione.
Tale principio sarebbe confortato non soltanto dall’art. 36 Cost. ma anche dall’art. 2233, comma 2°, c. c. che, stabilendo in modo tassativo che in ogni caso spetta al professionista un compenso in misura adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione, escluderebbe l’ammissibilità di pattuizioni dirette addirittura a mettere a rischio la possibilità di ottenere qualsiasi compenso.
Sarebbe vero che al professionista è consentito prestare gratuitamente la propria opera per vari motivi sociali o di convenienza, ma sarebbe anche vero che, come affermato da questa Corte (Cass., n. 10393 del 1994), al di fuori di questa ipotesi i patti in deroga ai minimi della tariffa professionale sono nulli.
Errato e contraddittorio, quindi, sarebbe il giudizio del collegio arbitrale, condiviso per implicito dalla Corte di appello, che — dopo avere esattamente affermato l’inderogabilità della tariffa e la insussistenza (ormai non più revocabile in dubbio, concernendo accertamenti e valutazioni sul fatto non impugnabili e non impugnate) di motivi idonei a giustificare la volonta del Ceciarini di prestare gratuitamente la propria opera, avrebbe poi escluso il diritto del professionista a conseguire il compenso, certamente non ravvisabile nella irrisoria somma per spese di lire 2.000.000, peraltro neppure pagata dal Comune contrariamente a quanto da questo dedotto, sicché la sentenza impugnata sarebbe viziata per l’omissione di pronuncia nella parte in cui avrebbe escluso totalmente il diritto al compenso anche per la somma ora citata, in ogni caso dovuta.
2.1. L’esame delle censure contenute nel primo motivo del ricorso richiede le seguenti considerazioni di carattere preliminare;
a) l’ordinanza di rimessione della causa a queste S. U. ritiene connessa alla questione di cui si tratta quella concernente la validità dell’atto negoziale di conferimento dell’incarico al professionista, nell’ipotesi in cui la relativa delibera dell’ente territoriale sia priva della previsione di spesa, in violazione dell’art. 284 del r. d. 3 marzo 1934, n. 383 (relativamente a fattispecie contrattuali sorte nel vigore di detta normativa). Ad avviso di questa Corte, però, si tratta di questioni distinte, in quanto quella concernente l’interpretazione e l’applicazione del citato art. 284 (sulla quale questa Corte a s. u. si è pronunciata con sentenza 10 giugno 2005, n. 12195) è imperniata per l’appunto sulla validità della delibera e sui riflessi della sua eventuale nullità (per mancata previsione della spesa) sul correlato rapporto di prestazione professionale, mentre nel caso in esame non è stato posto alcun problema circa la validità dell’atto amministrativo, né un problema del genere potrebbe sorgere in questa sede, in quanto esso postulerebbe sul contenuto della delibera accertamenti di fatto non compatibili con i limiti del giudizio di legittimità. In questo processo, invece, è in discussione la validità di una clausola contrattuale interna al rapporto di prestazione d’opera professionale e recante una condizione diretta a subordinare il pagamento del compenso al professionista ad un evento futuro e incerto, qual è il finanziamento dell’opera pubblica dal medesimo professionista progettata. Si tratta, dunque, di fattispecie diverse, che sono soggette a discipline giuridiche differenti;
b) la sentenza impugnata — sia pure attraverso la relatio a due sentenze di questa Corte (concernenti ipotesi non coincidenti con quella oggetto della presente causa ma ad essa ritenute “sovrapponibili”: v. pag. 5-6 della statuizione qui impugnata) — ha considerato valida la clausola contenente la condizione, “poiché i negozi ai quali non è consentito apporre condizioni sono indicati tassativamente dalla legge”, così respingendo in modo implicito le altre argomentazioni svolte dall’attuale ricorrente. Pertanto l’omissione di pronuncia addotta dall’ing. Ceciarini non è configurabile. Neppure il dedotto vizio di motivazione può essere ravvisato, perché esso in realtà si risolve nella denunzia di un errori in iudicando relativo all’interpretazione ed all’applicazione di norme giuridiche (senza necessità di ulteriori indagini di fatto, in relazione alle quali sia configurabile un difetto motivazionale) e sotto questo profilo deve essere in questa sede valutato come violazione di legge (art. 360, primo comma, n. 3, c. p. c.), nel quadro delle censure mosse dal ricorrente col primo motivo del ricorso in relazione alle quali l’ordinanza di rimessione ha ravvisato il contrasto sottoposto a queste S. U.
2.2. Tale contrasto concerne la validità o meno della clausola, inserita in un contratto d’opera professionale avente ad oggetto la progettazione di un’opera pubblica, clausola che condizioni il diritto al compenso del professionista alla concessione del finanziamento necessario per la realizzazione dell’opera.
Secondo un orientamento, che può considerarsi in larga misura prevalente, la clausola suddetta in linea di principio deve considerarsi valida (cfr., tra le più recenti, Cass., 8 ottobre 2004, n. 20039; 22 settembre 2004, n. 19000; 23 maggio 2001, n. 7003; 22 gennaio 2001, n. 897; 9 gennaio 2001, n. 247; 21 luglio 2000, n. 9587; 26 gennaio 2000, n. 863; 20 luglio 1999, n. 7741; 30 dicembre 1993, n. 13008; 28 aprile 1992, n. 5061).
Tale orientamento si affida ad una pluralita di argomentazioni: cosi si è affermato che il principio stabilito dall’art. unico della legge 5 maggio 1976, n. 340 (che introdusse 1’inderogabilita dei minimi di tariffa delle prestazioni professionali degli ingegneri e degli architetti), applicabile ai sensi dell’art. 6 (comma primo) della legge n. 404 del 1977 esclusivamente ai rapporti tra privati, non è violato dalla convenzione che preveda a favore del professionista la liquidazione dei soli compensi per lavori topografici, con esclusione dei compensi a vacazione, perché la
ratio della norma restrittiva dell’autonomia contrattuale delle parti è che il professionista, per qualsiasi sua particolare ragione, non sia indotto a prestare la sua attività a condizioni lesive della dignità della professione (Cass., n. 5061 del 1992; n. 863 del 2000); che la gratuità delle prestazioni professionali e la rinuncia al compenso non trovano ostacoli nella nullità dei patti in deroga ai minimi di tariffa, allorché siano fondate su specifici presupposti causali e non risultino quindi attuate per violare le norme sui minimi di tariffa, onde al professionista è consentita la prestazione gratuita della sua attivita professionale per considerazioni di ordine sociale e di convenienza, anche con riguardo ad un suo personale ed indiretto vantaggio (Cass., n. 13008 del 1993); che in tema di prestazione d’opera intellettuale l’onerosità del relativo contratto, che ne costituisce elemento normale come risulta dall’art. 2233 c. c., non ne integra peraltro un elemento essenziale, né pud essere considerato un limite di ordine pubblico all’autonomia contrattuale delle parti che, pertanto, ben possono prevedere la gratuita dello stesso (fattispecie in cui ¢ stata ritenuta legittima la clausola contrattuale condizionante il diritto al compenso per la prestazione di un ingegnere, al quale un Comune aveva commissionato il progetto di un’opera pubblica, al conseguimento delle approvazioni richieste e dei finanziamenti pubblici: Cass., n. 7741 del 1999); che la clausola contrattuale diretta a sottoporre il diritto al compenso, da parte del professionista incaricato del progetto di un’opera pubblica, alla condizione dell’intervenuto finanziamento dell’opera progettata non limita la responsabilità del committente del progetto, perché non influisce sulle conseguenze del suo eventuale inadempimento, ma piuttosto delimita il contenuto del mandato conferito, facendo derivare i diritti del mandatario dal progetto finanziato e non dal progetto soltanto redatto (Cass., n. 9587 del 2000; n. 19000 del 2004); che, quando un contratto d’opera professionale concluso da un ingegnere con un Comune prevede l’alternativa tra il pagamento del compenso secondo tariffa ovvero la prestazione gratuita dell’attività professionale in caso di mancato finanziamento dell’opera, si è fuori dall’ipotesi della violazione dei minimi tariffari e si versa nella fattispecie della prestazione gratuita dell’attività professionale, restando valida tra le parti la rinunzia al compenso (Cass., n. 247 del 2001; n. 897 del 2001); che l’onerosità costituisce un elemento naturale ma non essenziale dei contratti di prestazione d’opera intellettuale, essendo consentito alle parti sia di escludere il diritto del professionista al compenso sia di subordinarlo al verificarsi di una condizione (Cass., n. 7003 del 2001).
Come si vede, al di 1a dei differenti profili argomentativi, la conclusione comune cui pervengono le pronunzie sopra richiamate e nel senso di ritenere valida la clausola che sottoponga il diritto al compenso del professionista, incaricato della progettazione di un’opera pubblica, alla condizione che tale opera ottenga i finanziamenti richiesta.
All’indirizzo maggioritario si contrappone un altro orientamento, alla stregua del quale l’art. 6 della legge n. 404 del 1977 — che, interpretando autenticamente 1’art. unico della legge n. 340 del 1976, ne ha limitato 1’applicazione ai rapporti intercorrenti tra privati — deve essere inteso nel senso che, nei rapporti tra ente pubblico e professionista privato cui il primo abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica, sono validi gli accordi che prescindono dai limiti minimi stabiliti dalle tabelle salvo comunque, ove sia certa la natura onerosa del rapporto, il diritto del professionista alla percezione di una somma a titolo di compenso (che, nel contrasto tra le parti,deve essere determinato dal giudice, prescindendo dalle tabelle degli onorari), in quanto soltanto tale interpretazione consente di non snaturare la causa
della prestazione, incidendo sul sinallagma contrattuale. Ne consegue che deve ritenersi nulla la clausola contenuta in un capitolato che subordini 1’obbligo del pagamento del compenso per la prestazione resa a futuri e incerti finanziamenti (Cass., 23 maggio 2002, n. 7538).
Allo stesso orientamento, sia pur con una prospettiva in parte differente, può essere ascritto il principio secondo cui al professionista è consentita la prestazione gratuita della sua attivita professionale per i motivi più vari, che possono consistere nell’affectio, nella benevolenza ovvero in considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio. Al di fuori di questa ipotesi sono nulli i patti in deroga ai minimi della tariffa professionale (Cass., 28 giugno 2000, n. 8787; 3 dicembre 1994, n. 10393).
2. 3. 1l contrasto deve essere risolto in senso conforme all’orientamento prevalente, alla stregua delle considerazioni che seguono.
Si deve premettere che, ai fini della decisione, il richiamo all’art. 36 della Costituzione non è pertinente. Infatti, come questa Corte ha ripetutamente affermato, la disposizione ora indicata riguarda soltanto l’area del rapporto di lavoro subordinato e, dunque, non si applica al rapporto di lavoro autonomo, nel cui ambito rientrano le prestazioni dei liberi professionisti espletate a seguito di apposito incarico (Cass., 1 settembre 2004, n. 17564; 26 maggio 2004, n. 10168; 23 marzo 2004, n. 5807; 25 ottobre 2003, n. 16059; 28 gennaio 2003, n. 1223; 26 febbraio 2002, n. 2861; 21 ottobre 2000, n. 13941).
Ciò posto, si osserva che le parti di un rapporto contrattuale ben possono prevedere, nell’esercizio dell’autonomia privata, che l’efficacia di un’obbligazione nascente dal contratto resti condizionata, in senso sospensivo o risolutivo, ad un evento futuro ed incerto (artt. 1322 — 1353 c. c.). Tale principio è applicabile in via generale anche alla convenzione con la quale un ente pubblico territoriale affidi ad un professionista l’incarico di provvedere alla redazione del progetto per la realizzazione di un’opera pubblica, in quanto tale atto non rientra nel novero dei negozi (c. d. actus legitimi o negozi puri) previsti dalla legge, cui non è consentito apporre condizioni o termini. Resta da stabilire se il detto principio debba trovare applicazione anche con riguardo alla specifica clausola contrattuale volta a condizionare il diritto al compenso, spettante al professionista, alla concessione del finanziamento necessario per la realizzazione dell’opera. Ed a tale quesito, ad avviso del collegio, va dato risposta affermativa.
Invero, nella disciplina delle professioni intellettuali il contratto costituisce la fonte principale per la determinazione del compenso, mentre la relativa tariffa rappresenta una fonte sussidiaria e suppletiva, alla quale è dato ricorrere, ai sensi dell’art. 2233 c. c., soltanto in assenza di pattuizioni al riguardo.
Pertanto le limitazioni al potere di autonomia delle parti e la prevalenza della liquidazione in base a tariffa possono derivare soltanto da leggi formali o da altri atti aventi forza di legge riguardanti gli ordinamenti professionali (v. Cass., 29 gennaio 2003, n. 1317; 23 maggio 2000, n. 6732; 9 ottobre 1998, n. 10064; 11 aprile 1996, n. 3401).
Il primato della fonte contrattuale impone di ritenere che il compenso spettante al professionista, ancorché elemento naturale del contratto di prestazione d’opera intellettuale, sia liberamente determinabile dalle parti e possa anche formare oggetto di rinuncia da parte del professionista, salva l’esistenza di specifiche norme proibitive che, limitando il potere di autonomia delle parti, rendano indisponibile il diritto al compenso per la prestazione professionale e vincolante la determinazione del compenso stesso in base a tariffe.
Si tratta allora di verificare se, nell’apposita normativa concernente le professioni di ingegnere ed architetto, sussistano norme siffatte.
Orbene, la disciplina, introdotta con I’articolo unico della legge 5 maggio 1976, n. 340, stabili I’inderogabilita dei minimi della tariffa professionale per gli ingegneri e gli architetti. L’art. 6, comma primo, della legge 1 luglio 1977, n. 404, dispose che il detto articolo unico doveva “intendersi applicabile esclusivamente ai rapporti intercorrenti tra privati”, disponendo poi nei commi successivi limiti ai compensi massimi per i casi d’incarichi di progettazione conferiti dallo Stato o da un altro ente pubblici a più professionisti per una stessa opera. Con l’art. del D. L. 2 marzo 1989, n. 65, convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 1989, n. 155, fu disposto che “per le prestazioni rese dai
professionisti allo Stato e agli altri enti pubblici relativamente alla realizzazione di opere pubbliche o comunque di interesse pubblico, il cui onere è in tutto o in parte a carico dello Stato e degli altri enti pubblici, la riduzione dei minimi di tariffa non può superare il 20%”.
Nel caso di specie, come risulta incontroverso, la convenzione con la quale all’ing. Ceciarini fu affidato l’incarico professionale de quo fu sottoscritta il 27 marzo 1987 (v. ricorso per cassazione, pag. 2), sicché gia per questo dato temporale il principio d’inderogabilita delle tariffe, a prescindere dalla sua interpretazione, non sarebbe invocabile, vertendosi in tema di negozio perfezionato prima del 1989, al quale quindi non sarebbe applicabile la normativa di cui alla sopravvenuta legge n. 155 del 1989. Ma, pur volendo trascurare il dato suddetto, si deve osservare, sul piano dell’interpretazione testuale, che nella normativa sopra citata manca una disposizione espressa diretta a sanzionare con la nullita eventuali clausole in deroga alle tariffe e, sul piano logico, che le norme sull’inderogabilita dei minimi tariffari sono contemplate non a tutela di un interesse generale della collettivita ma di un interesse di categoria, onde per una clausola che si discosti da tale principio non è configurabile — in difetto di un’espressa previsione normativa in tal senso — il ricorso alla sanzione della nullitd, dettata per tutelare la violazione d’interessi generali. Quel principio d’inderogabilita, invero, è diretto ad evitare che il professionista possa essere indotto a prestare la propria opera a condizioni lesive della dignita della professione (sicché la sua violazione, in determinate circostanze, può assumere rilievo sul piano disciplinare), ma non si traduce in una norma imperativa idonea a rendere invalida qualsiasi pattuizione in deroga, allorché questa sia stata valutata dalle parti nel quadro di una libera ponderazione dei rispettivi interessi.
Queste considerazioni risultano ancor più valide in fattispecie come quella in esame, in cui il diritto al compenso vantato dal professionista non forma oggetto di una rinunzia espressa già in sede di stipula del contratto col quale l’incarico professionale è affidato, ma con apposita clausola viene condizionato al finanziamento dell’opera, inserendosi quindi nel complessivo assetto d’interessi perseguito dalle parti col negozio posto in essere. In casi del genere, in realta, non può neppure affermarsi che le parti abbiano voluto un negozio a titolo gratuito. Il contratto d’opera professionale resta (normalmente) oneroso, ma in esso e introdotto per volonta dei contraenti un elemento ulteriore, cioè un evento che condiziona il pagamento del compenso al finanziamento dell’opera, in assenza del quale guest’ultima non puo essere eseguita.
Resta da dire (anche se la questione non risulta sollevata nella controversia in esame) che la detta clausola non è neppure configurabile come condizione meramente potestativa (in quanto tale nulla ai sensi dell’art. 1355 c. c.), perché la realizzazione dell’evento dedotto in condizione non è indifferente per nessuna delle due parti (onde non può dirsi dipendente dalla mera volontà di una di esse) e certamente risponde anche ad un interesse dell’ente pubblico. Né va trascurata la considerazione che, benché ai fini del finanziamento siano indispensabili atti d’iniziativa ad opera dell’ente pubblico richiedente, la sua concessione è un fatto che prescinde dalla volontà dell’ente, dipendendo anche da una serie di elementi esterni. La condizione de qua, dunque, va qualificata come condizione potestativa mista, la cui realizzazione è rimessa in parte alla volontà di uno dei contraenti ed in parte ad un apporto causale esterno (tra le più recenti: Cass., 28 luglio 2004, n. 14198; 22 aprile 2003, n. 6423; 21 luglio 2000, n. 9587; 20 luglio 1999, n. 7741).
Nei sensi ora esposti I’orientamento seguito dalla giurisprudenza maggioritaria deve trovare conferma.
Le differenti opzioni ermeneutiche seguite (con talune diversita di motivazione) dall’orientamento di minoranza non si rivelano convincenti.
Infatti, non persuade la tesi (seguita dalla sentenza n. 7538 del 2002) secondo cui, nei rapporti tra ente pubblico e professionista privato cui il primo abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica, sono validi gli accordi che prescindono dai limiti minimi stabiliti dalle tabelle, salvo comunque, ove sia certa la natura onerosa del rapporto, il diritto del professionista al pagamento di una somma a titolo di compenso, in quanto soltanto tale interpretazione consentirebbe di non snaturare la causa della prestazione, incidendo sul sinallagma contrattuale.
Infatti questa tesi, che pur riconosce la validità di accordi in deroga ai minimi stabiliti dalle tariffe, trascura di considerare che non può ravvisarsi violazione del rapporto sinallagmatico in una clausola liberamente pattuita che non incide sulla causa del contratto e tanto meno la nega, ma subordina l’efficacia di una obbligazione nascente da quel contratto ad un evento futuro e incerto, nell’esercizio di un’autonomia negoziale che, secondo la stesse sentenza, non trova ostacolo in imperative norme di legge.
E neppure appare persuasiva la tesi secondo la quale al professionista sarebbe consentita la prestazione gratuita della sua attività professionale per i motivi più vari (affectio, benevolentia, considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio), mentre al di fuori di queste ipotesi sarebbero nulli i patti in deroga ai minimi della tariffa professionale. Infatti, nel momento in cui si ammette la prestazione gratuita dell’attività professionale “per i motivi più vari” (e, quindi, si esclude il carattere cogente delle tariffe in guisa da rendere indisponibile il diritto al compenso), non si giustifica poi la previsione di nullità per altre ipotesi (a questo punto, necessariamente di carattere residuale, attesa l’ampiezza dei motivi ipotizzati come validi), se non ricorrendo ad una alterazione del carattere sinallagmatico del rapporto contrattuale, in coerenza con la tesi propugnata dalla sentenza n. 7538 del 23 maggio 2002 ma qui non condivisa per le ragioni sopra esposte.
Conclusivamente, a composizione del contrasto segnalato con l’ordinanza di rimessione, deve essere affermato il seguente principio di diritto:
“La clausola con cui, in una convenzione tra un ente pubblico territoriale e un ingegnere al quale il primo abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica, il pagamento del compenso per la prestazione resa e condizionata alla concessione di finanziamento per la realizzazione dell’opera, e valida in quanto non si pone in contrasto col principio d’inderogabilita dei minimi tariffari, previsto dalla legge 5 maggio 1976, n. 340, come interpretata autenticamente dall’art. 6, comma 1, della legge 1° luglio 1977, n. 404, normativa cui ha fatto seguito l’art. 12 bis del d. l. 2 marzo 1989, n. 65, convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 1989, n. 155.
Né tale clausola, espressione dell’autonomia negoziale delle parti, viene a snaturare la causa della prestazione, incidendo sul sinallagma contrattuale”.
Alla stregua di tale principio il primo motivo del ricorso deve essere respinto.
3. Va poi esaminato con priorita, per ragioni di ordine logico, il terzo motivo del detto ricorso.
Con esso — denunziando motivazione insufficiente e contraddittoria su punto decisivo della controversia prospettato dalla parte, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1358, 1359, 1375, 1175, c. c., violazione e falsa applicazione degli artt. 828, 829, 830 c. p. c. — il ricorrente censura la sentenza impugnata, sostenendo che essa avrebbe posto a base della pronuncia di annullamento del lodo (in fase rescindente) e di rigetto della domanda (in fase rescissoria) unicamente l’asserita inapplicabilita dell’art. 1359 c. c. alla condizione potestativa mista (che sarebbe stata affermata in due sentenze di questa Corte) e sull’estensione, operata dalla Corte di appello, della medesima ratio per escludere anche la responsabilita prevista dall’art. 1358 c.c
Tale convincimento sarebbe erroneo e contraddittorio, in quanto — secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte — l’applicabilità dell’art. 1359 c. c. resterebbe esclusa soltanto in caso di condizione potestativa semplice, mentre la norma andrebbe applicata in ipotesi di condizione potestativa mista.
Inoltre, anche le sentenze richiamate dalla Corte territoriale non autorizzerebbero ad estendere I’applicabilita dell’art. 1359 alla condizione potestativa mista.
Non sussistendo la nullita del lodo per errore di diritto, cioè per violazione dell’art. 1359 c. c., la Corte di appello non avrebbe avuto il potere di scendere all’esame del merito e di sindacare la decisione del collegio arbitrale.
Né il Comune potrebbe addurre che l’art. 1359 c. c. non sarebbe operante perché, come accertato dal detto collegio arbitrale, non sarebbe esistito un interesse dell’ente contrario ad ottenere il finanziamento. Invero al riguardo, col terzo motivo dell’impugnazione incidentale avverso il lodo (motivo totalmente ignorato, con conseguente omessa motivazione su punto decisivo)
L’ing. Ceciarini avrebbe osservato che I’interesse contrario all’avveramento poteva rivelarsi anche per fatti concludenti e sopravvenuti, nel caso in esame costituiti dalla volontà di assumere un mutuo di 904 milioni per la costruzione di una caserma o di privilegiare altre opere o fonti di finanziamento a totale carico dello Stato.
Tale interesse sopravvenuto sarebbe idoneo ad integrare l’interesse contrario all’avveramento previsto dall’art. 1359 c. c.
Agli effetti di tale norma né gli arbitri né la Corte distrettuale avrebbero esercitato il potere-dovere di identificare la parte che in concreto, violando gli obblighi di correttezza, con il suo comportamento colposo o doloso aveva contribuito a modificare l’iter attuativo del contratto.
Ma, pur volendo considerare legittima e motivata la ritenuta inapplicabilita, nella fattispecie, dell’art. 1359 c. c., resterebbe pur sempre illegittima la mancata applicazione dell’art. 1358 c. c. (che era poi la norma sulla quale il lodo arbitrale si era basato).
La Corte di merito non avrebbe ritenuto applicabile detta norma estendendo la ratio che l’aveva portata a considerare inoperante l’art. 1359 c. c., cioè ritenendo priva di conseguenze la violazione dell’obbligo di buona fede da parte del contraente a favore del quale è stabilita una condizione potestativa mista. In altri termini, come in base all’art. 1359 c. c. non sarebbe sanzionabile con la fictio iuris dell’avveramento del fatto la parte che non si attiva per l’attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista, la stessa parte non sarebbe sanzionabile per tale mancata attuazione con la responsabilità risarcitoria prevista dall’art. 1358 c. c.
Questa tesi sarebbe errata e contraria al disposto dell’art. 1358 c. c. e della normativa di correttezza dettata, in particolare, dagli artt. 1175 e 1375 c. c.
L’art. 1358 c. c. sancirebbe una particolare e specifica applicazione del generale principio di correttezza e buona fede in materia contrattuale, senza distinzione di tipo (esclusa la condizione meramente potestativa, che non conferisce all’altra parte alcuna aspettativa tutelabile o coercibile), la cui violazione darebbe luogo ad una responsabilità di tipo contrattuale. Invece l’art. 1359 c. c. presupporrebbe, da un lato, che uno dei contraenti abbia interesse contrario all’avveramento della clausola e, dall’altro, che la conseguenza del comportamento indebito non sia una responsabilità di natura risarcitoria bensì l’attuazione stessa del contratto, come se l’evento si fosse verificato. Non sarebbe dunque corretto, sul piano giuridico, sottoporre le due ipotesi alla identica disciplina, perché quella dettata dall’art. 1359 c. c. avrebbe carattere eccezionale, non suscettibile di applicazione analogica.
Inoltre gli arbitri avrebbero ravvisato a carico del Comune un vero e proprio obbligo, legale e contrattuale, di attivarsi per ottenere un finanziamento che non necessariamente avrebbe dovuto essere contratto con la Cassa DD. e PP., individuando la fonte di tale obbligo, oltre che nella convenzione, anche nella delibera in data 2 ottobre 1987, nella quale l’ente territoriale avrebbe esplicitato il proprio impegno a contrattare un mutuo con la detta Cassa oppure a ricorrere ad altre forme di finanziamento. Gli arbitri, poi, avrebbero dato conto degli elementi alla stregua dei quali l’ente non si sarebbe attivato allo scopo di ottenere il finanziamento per eseguire I’acquedotto progettato dal Ceciarini.
Il giudizio di responsabilita per violazione dell’obbligo di correttezza, di buona fede e di diligenza, espresso dal collegio arbitrale, non sarebbe stato in contrasto con i principi stabiliti dall’art. 1358 c. c. e non avrebbe potuto dar luogo a revisione alcuna nel merito da parte della Corte d’appello (tanto meno allo scopo di valutare la condotta diligente 0 meno del Comune nel richiedere il finanziamento), non sussistendo né errore di diritto né vizio del lodo.
Le suddette censure sono parzialmente fondate, sicché vanno accolte per quanto di ragione, ai sensi delle considerazioni che seguono.
Si deve premettere che, come emerge dall’esposizione dei fatti contenuta nel ricorso per cassazione (in particolare, v. pag. 3), ed anche nel controricorso (in particolare, v. pag. 3, punto 5), il collegio arbitrale ritenne “non configurabile la fattispecie di cui all’art. 1359 c. c. (stante l’interesse di entrambe le parti all’avveramento della condizione dell’avvenuto finanziamento dell’opera)”, cioè negò “che la condizione possa dirsi avverata ai sensi dell’art. 1359 c. c.” (controricorso, loc. cit.). Il lodo, quindi, escluse I’applicabilita dell’art. 1359 c.c., attinente all’avveramento della condizione per il comportamento della parte avente interesse contrario a tale avveramento, sicché il presunto errore di diritto individuato dalla Corte di appello con riguardo a tale norma in realta non sussiste.
L’attuale ricorrente, invece, ritiene la norma medesima applicabile alla fattispecie qdeu a, lamentando che la Corte territoriale abbia del tutto ignorato il terzo motivo dell’impugnazione incidentale avverso il lodo proposta dal medesimo Ceciarini e diretta a porre in evidenza gli elementi a suo avviso idonei a configurare un interesse (sopravvenuto) del Comune contrario all’avveramento della condizione.
La sentenza impugnata però non ha esaminato questo punto, ritenendolo assorbito sull’erroneo presupposto che gli arbitri avessero applicato l’art. 1359 c. c. e che anche ciò comportasse la nullità del lodo per errore di diritto. Ne deriva che, verificata l’erroneità di tale pronuncia, le censure mosse sul punto dall’attuale ricorrente, che postulano accertamenti di fatto (sul contenuto della clausola contenente la condizione nel contesto dell’intera convenzione, nonché sul comportamento delle parti) non compatibili col giudizio di legittimità, sono inammissibili in questa sede e restano affidate — per i profili di rito e di merito — al giudice del rinvio, se ed in quanto davanti al medesimo riproposte.
Restano da esaminare le censure imperniate sul disposto dell’art. 1358 c. c., che sono fondate nei sensi in prosieguo indicati.
La sentenza impugnata, con il solo riferimento alle massime estratte da due pronunzie di questa Corte (n. 10220 del 1996 e n. 11074 [ recte: 10074] del 1996), relative peraltro al solo art. 1359 c. c., ha escluso I”applicabilita alla fattispecie anche del detto art. 1358, pervenendo su tale base a dichiarare la nullita del lodo per asserito errore di diritto. Quest’ultima norma stabilisce, nello stato di pendenza della condizione, il dovere di ciascuna parte di comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte.
Come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, in tema di esecuzione del contratto la buona fede (in senso oggettivo) si atteggia come un impegno di cooperazione o un obbligo di solidarietà che impone a ciascun contraente di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali o dal dovere extracontrattuale del neminem laedere siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte senza
rappresentare un apprezzabile sacrificio (Cass., 20 aprile 1994, n. 3775). Si tratta di un principio generale che, ad avviso del collegio, deve trovare applicazione anche nel quadro dell’art. 1358 c. c., sia pure con le precisazioni che seguono.
La clausola negoziale in esame nella presente controversia, come già sopra si è notato, integra una condizione potestativa mista, tale essendo quella il cui avveramento dipende in parte dal caso o dalla volonta di terzi, in parte dalla volonta di uno dei contraenti (v. la giurisprudenza prima citata). E non si può dubitare che, nella specie, la concessione del finanziamento dipendesse in parte dall’iniziativa del Comune (contraente della convenzione d’incarico professionale) e in parte dalla volonta del soggetto o dei soggetti che dovevano erogare il detto finanziamento.
Nella giurisprudenza piu recente si ¢ manifestato un orientamento diretto ad affermare che il contratto sottoposto a condizione mista soggiace alla disciplina dell’art. 1358 c. c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione, con il limite che I’omissione di un’attivitd in tanto pud ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico (Cass., n. 14198 del 2004; n. 6423 del 2003).
Tuttavia la seconda delle sentenze citate aggiunge che un siffatto obbligo comunque non sarebbe configurabile per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo della condizione mista (richiamandosi alla precedente sentenza di questa Corte 5 gennaio 1983, n. 9; ma v. anche Cass. n. 10074 del 1996, richiamata nella pronuncia impugnata). La prima, invece, afferma la sussistenza del detto obbligo anche per il segmento non casuale della condizione mista in quanto gli obblighi di correttezza e di buona fede, che hanno la funzione di salvaguardare l’interesse della controparte alla prestazione dovuta e all’utilitd che essa assicura, impongono una serie di comportamenti che assumono la consistenza di “standards” integrativi dei principi generali e sono individuabili mediante un giudizio applicativo di norme elastiche (giudizio soggetto al controllo di legittimita al pari di ogni altro giudizio fondato su norme di legge).
Il collegio ritiene di dover condividere quest’ultimo orientamento, alla stregua delle considerazioni che seguono.
L’art. 1358 c. c. dispone che “colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte”. La norma s’inserisce nell’ambito applicativo della clausola generale della buona fede, operante nel diritto dei contratti sia in sede di trattative e di formazione del contratto medesimo (art. 1337 c. c.), sia in sede d’interpretazione (art. 1366 c. c. ), sia in sede di esecuzione (art. 1375 c. c.).
La fonte dell’obbligo giuridico qdeu o, dunque, si trova appunto nel citato art. 1358, che lo stabilisce al fine di “conservare integre le ragioni dell’altra parte” e dunque gli attribuisce un chiaro carattere doveroso. Né convince la tesi secondo cui tale obbligo andrebbe escluso per il profilo attuativo dell’elemento potestativo della condizione mista.
Invero, il principio di buona fede (intesa, questa, nel senso sopra chiarito come requisito della condotta) costituisce ad un tempo criterio di valutazione e limite anche del comportamento discrezionale del contraente dalla cui volontà dipende (in parte) l’avveramento della condizione. Tale comportamento non può essere considerato privo di ogni carattere doveroso, sia perché — se così fosse — finirebbe per risolversi in una forma di mero arbitrio, contrario al dettato dell’art. 1355 c. c., sia perché aderendo a tale indirizzo si verrebbe ad introdurre nel precetto dell’art. 1358 una restrizione che questo non prevede e che, anzi, condurrebbe ad un sostanziale svuotamento del contenuto della
norma, limitandolo all’elemento casuale della condizione mista, cioè ad un elemento sul quale la condotta della parte (la cui obbligazione è condizionata) ha ridotte possibilità d’incidenza, mentre la posizione giuridica dell’altra parte resterebbe in concreto priva di ogni tutela.
Invece è proprio l’elemento potestativo quello in relazione al quale il dovere di comportarsi secondo buona fede ha più ragion d’essere, perché è con riguardo a quell’elemento che la discrezionalità contrattualmente attribuita alla parte deve essere esercitata nel quadro del principio cardine di correttezza.
Si deve, perciò, affermare che il contratto sottoposto a condizione mista è soggetto alla disciplina dell’art. 1358 c. c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione. E’ vero che l’omissione di un’attività in tanto può costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, ma tale obbligo, in casi come quello in esame, discende direttamente dalla legge e, segnatamente, dall’art. 1358 c. c., che lo impone come requisito della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di un obbligo siffatto va riconosciuta anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista. Pertanto il giudice del merito deve procedere ad un penetrante esame della clausola recante la condizione e del comportamento delle parti, nel contesto del negozio in cui la clausola stessa è contenuta, al fine di verificare, alla stregua degli elementi probatori acquisiti, se corrispondano ad uno standard esigibile di buona fede le iniziative poste in essere al fine di ottenere il finanziamento.
Nel caso in esame in esame la sentenza impugnata non si è conformata ai suddetti principi, escludendo in radice l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 1358 c. c., peraltro con il mero richiamo a due massime estratte da altrettante sentenze di questa Corte, relative alla (non coincidente) ipotesi di cui all’art. 1359 c. c. Pertanto essa deve essere cassata, dovendosi far luogo a nuovo giudizio rescindente, restando quindi assorbitpere ché presuppongono la caducazione del lodo, le (insufficienti ed assertive) considerazioni attinenti alla fase rescissoria, e la causa va rinviata per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Firenze, che si uniformerà ai principi sopra enunciati e provvedera anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
Il secondo mezzo di cassazione, diretto a propugnare la tesi alla stregua delle quale la condizione, in realta, si sarebbe avverata nel quadro dello stesso regolamento contrattuale, in quanto il finanziamento sarebbe intervenuto, rimane a sua volta assorbito ed affidato al giudice del rinvio, se in quella sede riproposto.
P.Q.M.
La Corte suprema di cassazione, pronunziando a sezioni unite, rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie per quanto di ragione il terzo, dichiara assorbito il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte di appello di Firenze.
Cosi deciso in Roma, il 19 maggio 2005, nella camera di consiglio delle sezioni unite civili della Corte suprema di cassazione.
Il consigliere est.
Il Presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 05 giugno 2004, n. 10739, per SS.UU, 19 settembre 2005, n. 18450, in tema di compenso professionale
SS.UU, 19 settembre 2005, n. 18450, in tema di compenso professionale
In tema di sospensione feriale dei termini – SS.UU, 13 maggio 2024, n. 12946
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sig.ri Magistrati:
Oggetto
SEPARAZIONE DIVORZIO –
oscuramento
R.G.N. 28091/2021
Cron.
Rep.
Ud. 30/01/2024
PU
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 28091-2021 proposto da:
T. D., rappresentata e difesa dagli avvocati ROBERTO BOCCHINI e GIANLUCA BIANCAMANO;
-ricorrente –
contro
M. L. rappresentato e difeso dall’avvocato SABRINA VARRICCHIO;
-controricorrente –
avverso il DECRETO della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositato il 23/06/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2024 dal Consigliere FRANCESCO TERRUSI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Luisa De Renzis, che ha concluso perché il ricorso sia dichiarato ammissibile; in subordine, perché sia disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea;
udito l’Avvocato Roberto Bocchini.
Fatti di causa
M. L. ha chiesto, ai sensi dell’art. 9 legge div., di essere esonerato dall’obbligo di versare all’ex coniuge T. D. l’assegno di mantenimento delle figlie, S. e L. , stabilito nel giudizio di divorzio in 5.000,00 EUR.
Il tribunale di Napoli ha respinto il ricorso osservando che le giovani, per quanto maggiorenni e laureate, erano ancora in una condizione di permanenza temporanea fuori sede, con conseguente conservazione della legittimazione della madre a ricevere l’assegno.
La decisione è stata riformata dalla corte d’appello di Napoli perché la mancanza di convivenza delle figlie con la madre aveva costituito una condizione determinativa del venir meno della di lei legittimazione a chiedere e ottenere, iure proprio, l’assegno.
Specificamente la corte d’appello ha ritenuto che l’età delle figlie, i percorsi intrapresi in conformità degli studi e le esperienze lavorative e professionali successivamente svolte fossero tali da sostenere la conclusione della possibilità di accesso ad altre esperienze lavorative qualificanti, in linea con le prospettive di ognuna, del contesto familiare e dell’ambiente socioeconomico nel quale esse erano inserite; sicché la residenza di entrambe a Milano doveva essere considerata come oramai non più temporanea. Era quindi venuto meno il presupposto della convivenza delle figlie con la madre e di conseguenza non poteva ritenersi esistente neppure la legittimazione di quest’ultima a pretendere l’assegno in nome delle stesse, salva rimanendo la loro eventuale iniziativa diretta.
La T. D. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi.
Il M. L. ha resistito con controricorso.
Con ordinanza interlocutoria n. 27514 del 2023 la Prima sezione civile di questa Corte ha chiesto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite sulla pregiudiziale questione relativa alla tempestività del mezzo, perché il ricorso è stato notificato il 26-10-2021 a fronte di decreto a sua volta notificato, per ammissione della stessa parte, il 27-7-2021. Ne deriverebbe la necessità di stabilire se alle liti in materia di mantenimento per i figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti sia applicabile, o meno, la sospensione dei termini processuali prevista dagli artt. 3 della l. n. 742 del 1969 e 92, primo comma, dell’ord. giud.; soluzione condizionata dal significato da annettere alla locuzione “cause civili relative ad alimenti” prevista da tale seconda norma quanto agli affari civili da trattare in periodo feriale, perché sottratti alla sospensione dei termini.
A tal riguardo il collegio rimettente ha ravvisato l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza insorto per effetto di una recente ordinanza della stessa Prima sezione (la n. 18044 del 2023) che, mutando il quadro dei principi fin a ora espressi in modo all’apparenza consolidato, ha stabilito che nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori non è più applicabile la sospensione feriale dei termini processuali; sicché tali cause sarebbero ormai tutte assimilabili a quelle in materia di alimenti, per definizione urgenti e non soggette a pause processuali obbligatorie.
La Prima Presidente ha disposto in conformità.
Le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
I.- In esito alla citata recente decisione n. 18044-23, la Primasezione ha chiesto che fosse riservata alle Sezioni Unite una questione divenuta di particolare importanza per due ordini di ragioni: perché correlata a un tentativo di mutamento di giurisprudenza ritenuto necessario dal tenore della normativa europea asseritamente rilevante (il regolamento CE n. 4 del 2009 del Consiglio in data 18-12-2008); e perché coinvolgente, negli effetti potenziali, un numero indeterminato di controversie familiari.
II.- L’ordinanza n. 18044-23 ha fissato il seguente principio: “intema di obbligazioni alimentari come regolate dall’art. 1, comma 1, del Regolamento CE n. 4/2009 del Consiglio del 18 dicembre 2008 (relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari), a norma dell’art. 83, comma 3, del d. l. n. 18 del 2020, convertito nella l. n. 27 del 2020, che della prima costituisce una derivazione, nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori non è più applicabile la sospensione feriale dei termini processuali, di cui agli artt. 1 e 3 l. n. 742 del 1969; tali cause sono ormai tutte assimilabili a quelle in materia di alimenti, per definizione urgenti e non soggette a pause processuali obbligatorie; ove pertanto si controverta di siffatte obbligazioni, la sospensione dei termini non si applica parimenti ai casi in cui la causa comprenda, in connessione, anche altre questioni familiari o riguardanti i minori, pur se non espressamente contemplate dall’art. 92 del decreto regio n. 12/1941”.
III.- In effetti il principio si pone in discontinuità rispetto a unpanorama giurisprudenziale consolidato in senso opposto, incentrato sull’affermazione per cui al procedimento di revisione del contributo di mantenimento dei figli è applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale in quanto il diritto dei figli al mantenimento da parte dei genitori, anche dopo la separazione o il divorzio, previsto rispettivamente dagli artt. 155 cod. civ. e 6 della l. n. 898 del 1970, non ha natura alimentare (ex artt. 433 e seg. cod. civ.), neppure per assimilazione (Cass. Sez. 1 n. 8417-00, Cass. Sez. 1 n. 8567-91, Cass. Sez. 1 n. 2050-88; e v. pure Cass. Sez. 1 n. 1874-19).
Poiché l’assegno divorzile non si può equiparare all’assegno alimentare, essendo diverse la natura e le finalità proprie dei due tipi di assegno, in nessuna delle controversie concernenti l’assegno divorzile può trovare applicazione – si dice – l’esclusione dalla sospensione dei termini durante il periodo feriale prevista dall’art. 3 della legge n. 742 del 1969, in relazione all’art. 92, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, riguardo alle cause relative agli alimenti. Per dette controversie può escludersi la sospensione soltanto ove consegua, a norma del secondo comma dell’art. 92, il decreto di riconoscimento dell’urgenza della controversia, nel presupposto – previsto dallo stesso primo comma dell’art. 92 da intendersi richiamato dal citato art. 3 – che la ritardata trattazione possa provocare un grave pregiudizio alle parti (v. Cass. Sez. 1 n. 5862-99).
IV.– Occorre dire che nel solco del menzionato orientamento larilevanza della distinzione è stata ribadita anche di recente, in relazione alla normativa emergenziale di contrasto all’epidemia da Covid-19.
A questa normativa ha fatto riferimento anche l’ordinanza n. 18044-23, per giungere (tuttavia) a una conclusione opposta.
Secondo la tesi prevalente, alle cause relative ad alimenti o a obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, considerate rilevanti ai fini dell’eccezione alla sospensione generalizzata dei termini processuali per effetto dell’art. 83, terzo comma, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020, convertito con modificazioni in l. n. 27 del 2020, non possono essere equiparate le cause relative all’assegno divorzile, sempre per l’impossibilità di correlare l’assegno divorzile all’assegno alimentare, stante l’evidente diversità dei fini e della natura dei due assegni (Cass. Sez. 1 n. 5393-23, Cass. Sez. 1 n. 6639-23).
V.- L’ordinanza della Prima sezione n. 18044 del 2023 ha espressoil suo diverso convincimento sulla scorta dei seguenti passaggi argomentativi:
(i)l’art. 83, terzo comma, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020 ai finidell’emergenza pandemica ha distinto – è vero – le due fattispecie (quella delle cause relative agli alimenti, riferibile all’art. 433 e seg. cod. civ., e quella relativa all’obbligazione alimentare), ma le ha poi assoggettate alla medesima disciplina;
(ii)così facendo la norma ha recepito la più ampia accezionecontemplata dall’art. 1, primo comma, del regolamento (CE) n. 4/2009 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari;
(iii)la stessa relazione illustrativa del d.l. n. 18 del 2020 hacorrelato la locuzione “cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio odi affinità” al significato che a essa viene dato nella normativacomunitaria, e in particolare nell’art. 1 del citato regolamento (CE) n. 4/2009;
(iv)quindi, anche ai fini interpretativi delle norme sullasospensione dei termini processuali, la nozione di obbligazioni alimentari, siccome accolta nel diritto della UE, dovrebbe essere intesa nell’accezione “autonoma” declinata dal Considerando n. 11 del suddetto regolamento, con estensione a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, in senso comprensivo dei diversi istituti che coinvolgono le obbligazioni di mantenimento.
Ne deriverebbe la necessità di un mutamento radicale di assetti quanto agli indirizzi giurisprudenziali anteriori, perché “la norma sull’emergenza Covid-19, per il suo chiaro tenore letterale, sottrae entrambe le fattispecie alla sospensione dei termini processuali e stabilisce per le due tipologie di accertamento (concernenti l’alimentare puro e l’alimentare da mantenimento da valere nell’ambito familiare) una trattazione in sede giurisdizionale destinata ad operare anche durante la sospensione feriale e pur in un periodo segnato dalla necessità di contenimento del rischio pandemico”.
La normativa emergenziale costituirebbe – così – un’espressione della discrezionalità del legislatore eurounitario volta a bilanciare gli interessi da tutelare mediante un’innovativa ratio, diretta ad accomunare, seppure ai fini della disciplina della sospensione dei termini processuali, due istituti (l’obbligazione alimentare e l’obbligazione di mantenimento) da sempre oggetto di differente regolamentazione per antica tradizione dommatica.
VI.- L’orientamento sostenuto dalla Prima sezione con l’ordinanzan.18044-23 non può essere condiviso.
A composizione del contrasto va fissato, in coerenza con l’indirizzo tradizionale, il principio per cui ai giudizi o ai procedimenti di revisione delle condizioni di separazione o di divorzio, nei quali si discuta del contributo di mantenimento o dell’assegno divorzile nelle varie forme, resta applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, salvo che non ricorra il decreto di riconoscimento dell’urgenza della controversia (art. 92 ord. giud.) nel presupposto che la sua ritardata trattazione possa provocare grave pregiudizio alle parti.
VII.– È necessario prender le mosse dalla ratio della sospensione feriale, che è strettamente correlata alla tutela giurisdizionale dei diritti.
L’istituto della sospensione dei termini processuali in periodo feriale costituisce un presidio della tutela giurisdizionale dei diritti.
Quando l’azione giudiziaria sia l’unico rimedio funzionale a far valere un diritto che si assuma leso, la sospensione dei termini in periodo feriale, per il tramite della necessità di assicurare riposo agli avvocati, garantisce altresì che non sia menomato il diritto alla tutela giurisdizionale secondo quanto previsto in generale dall’art. 24 cost. (v. tra le varie C. cost. n. 380 del 1992, C. cost. n. 61 del 1990, C. cost. n. 49 del 1990).
In guisa di tale ratio, la l. n. 742 del 1969 ha dettato come regola generale, in relazione all’art. 92 ord. giud., quella della sospensione degli affari civili in periodo feriale, salvo l’elenco tassativo dei casi (eccezionali) nei quali invece una certa tipologia di cause, specificamente indicate, va considerata urgente per definizione, così da risultare sottratta alla medesima regola (v. Cass. Sez. 1 n. 8567-91, Cass. Sez. 1 n. 12964-02).
VIII.- Nell’elenco delle cause alle quali la sospensione non èapplicabile compaiono quelle “relative ad alimenti” (art. 92 ord. giud. come richiamato nell’art. 3 della l. n. 742 del 1969).
Codeste sono però distinte – ontologicamente – dalle cause di separazione o di divorzio nelle quali semplicemente si discuta dell’obbligazione alimentare o dell’assegno di mantenimento o divorzile.
Queste ultime attengono a obbligazioni avvinte dal fine di solidarietà familiare o post-familiare considerato rilevante nella crisi della famiglia. Le relative prestazioni possono certo rispondere alla necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, ma in un’accezione più ampia di (e indiscutibilmente differente da) quella sottesa alla prestazione alimentare strettamente intesa, non essendo necessario lo stato di indigenza o di bisogno al quale allude, invece, l’art. 438 cod. civ.
Simile constatazione distintiva è del tutto ovvia e non è punto messa in discussione dall’ordinanza n. 18044-23.
Essa d’altronde trova riscontro, per i giudizi divorzili o per quelli di cui all’art. 9 della legge div. che qui specificamente interessano, nella funzione polivalente riconosciuta all’assegno nelle sue varie declinazioni:
-natura assistenziale e anche perequativo-compensativa quantoall’ex-coniuge, diretta conseguenza del principio costituzionale di solidarietà, che conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (Cass. Sez. U n. 18287-18);
-concretizzazione, quanto al figlio, del diritto di ricevere daigenitori, sia se minore, sia se maggiorenne ma non economicamente indipendente, l’adempimento degli obblighi di mantenimento, istruzione, educazione e assistenza morale e materiale (artt. 147, artt. 155 e 337-bis e seg. cod. civ.).
Ciò vuol dire che, sempre in rapporto ai figli, al diritto ritenuto preminente fa da contraltare un obbligo che a sua volta si impone come dovere preminente: un dovere che sul genitore grava anche ove l’altro non possa o non voglia adempiere al proprio eguale dovere, nell’essenziale interesse dei figli stessi e onde far fronte comunque e per intero alle loro esigenze con tutte le sostanze patrimoniali e con la propria capacità di lavoro – salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui.
Con riguardo al contributo relativo alla prole, che nella presente causa interessa specificamente, questa constatazione prescinde in toto dal cd. stato di bisogno e – radicata nella giurisprudenza in modo pressoché costante – induce a precisare che l’ammontare del contributo dovuto dal genitore per il mantenimento dei figli, minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, implica semmai l’osservanza del principio di proporzionalità (art. 337-ter cod. civ.); il quale richiede la valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori nella considerazione non delle necessità di mera prestazione alimentare –art. 438 cod. civ. -, bensì delle esigenze attuali del figlio e del tenoredi vita da lui goduto (tra le più recenti Cass. Sez. 1 n. 4811-18; Cass. Sez. 1 n. 19299-20, Cass. Sez. 1 n. 32466-23).
IX.- Per incidens può osservarsi che il riscontro di una distinta eben più articolata funzione di tutte le menzionate prestazioni, rispetto a quella alimentare in senso stretto, è al fondo della recente sottolineatura fatta da queste Sezioni Unite a proposito dell’operare della regola della condictio indebiti.
Per l’assegno di mantenimento nella separazione o per l’assegno divorzile, la condictio è stata riconosciuta come espressione di regola generale ove risulti accertata – nella sentenza di primo o di secondo grado – l’insussistenza ab origine, in capo all’avente diritto, dei presupposti per il versamento del contributo (ancorché riconosciuto in sede presidenziale o dal giudice istruttore in sede di conferma o modifica).
E tuttavia questa stessa regola può essere derogata, si è detto, con conseguente applicazione del principio di irripetibilità, nelle due ipotesi (a) dell’esclusione della debenza del contributo in virtù di una diversa valutazione con effetto ex tunc delle sole condizioni economiche dell’obbligato già esistenti al tempo della pronuncia e (b) della rimodulazione al ribasso di una misura originaria idonea a soddisfare esclusivamente i bisogni essenziali del richiedente, sempre che la modifica avvenga nell’ambito di somme modeste, presumibilmente destinate al consumo da un coniuge, o ex coniuge, in condizioni di debolezza economica (Cass. Sez. U n. 32914-22).
Nel dire questo è stata dalla giurisprudenza valorizzata proprio l’esistenza delle differenze funzionali (e in parte anche strutturali) tra ciò che costituisce oggetto di alimenti (nel presupposto unico e specifico dello stato di bisogno dell’avente diritto e dell’impossibilità di provvedere altrimenti a tale stato) e ciò che invece, in termini compositi, integra la cifra del diritto al mantenimento, sia del coniuge, o dell’ex coniuge, che della prole, e sia nella separazione che nel divorzio.
X.– Ora, da tale excursus ben può dirsi dimostrata la solidamatrice di riferimento della tesi restrittiva a proposito del correlato ambito di applicazione dell’art. 3 della l. n. 742 del 1967 in relazione all’art. 92 ord. giud.
L’esigenza di certezza, che sempre si impone laddove si discuta di garanzie di difesa giurisdizionale, implica che quella matrice sia individuata nel testo di legge in rapporto alla constatata differenza tra le fattispecie, giacché il testo del richiamato art. 92, parlando di cause “relative ad alimenti”, sottende un rinvio alla prestazione alimentare strettamente intesa, quella di cui agli artt. 433 e seg. cod. civ., così che un simile rinvio possa infine ritenersi refrattario a qualunque fraintendimento.
XI.- L’ordinanza n. 18044-23, senza porre in dubbio l’effettivitàdella differenza tra le sottostanti fattispecie, ha ritenuto di individuare un diverso margine valutativo facendo leva su due argomenti: la normativa da Covid-19 e il regolamento (CE) n. 4 del 2009 al quale la prima si sarebbe ispirata.
Nessuno di essi è decisivo.
XII.- Non lo è innanzi tutto quello incentrato sulla normativaemergenziale da Covid-19.
È vero che codesta, ai fini dell’eccezione alla sospensione generalizzata dei termini processuali dopo la modifica dell’art. 83 del d.l. n.18 del 2020 fatta in sede di conversione, ha sostituito (a decorreredal 30-6-2020) l’originaria formulazione, contemplante le “cause relative alla tutela dei minori, ad alimenti”, con la frase “cause relative ai diritti delle persone minorenni, al diritto all’assegno di mantenimento, agli alimenti e all’assegno divorzile”.
Ma non è ravvisabile una concreta incidenza di un simile fatto sull’assetto di principi che concernono la l. n. 742 del 1967.
Nel d.l. n. 18 del 2020 e nella relativa legge di conversione è da rinvenire niente altro che una disciplina temporanea (per la cui ricostruzione può rinviarsi a Cass. Sez. 1 n. 5393-23).
La disciplina è stata indirizzata a stabilire quali fossero, in relazione all’andamento dei contagi e delle misure di distanziamento sociale nelle varie fasi del contrasto alla pandemia, le eccezioni alla regola di sospensione generalizzata dell’attività giudiziaria; regola riguardante i procedimenti e i termini processuali in vista della medesima unica esigenza di contenimento degli effetti della diffusione epidemica.
S’è trattato dunque di una normativa specifica e a termine, non avente altre finalità che la tutela della salute pubblica in un contesto eccezionale e provvisorio – e peraltro cessato prima delle date essenziali che in questa sede interessano (e che – per vero – interessavano anche la fattispecie risolta da Cass. Sez. 1 n. 18044-23) per stabilire la tempestività del ricorso. Una normativa nella quale, oltre tutto, sebbene nell’ampliamento delle fattispecie sottratte alla sospensione generalizzata ex lege lì rilevante, risulta esplicitata la piena consapevolezza del legislatore in ordine alla diversità di ambito tra le cause relative agli alimenti in senso stretto (da un lato) e quelle relative alle prestazioni di mantenimento o alimentari nell’ambito dei giudizi di separazione e divorzio (dall’altro).
La menzionata diversità è stata tenuta da conto al punto da indurre infatti – pur nella logica dell’emergenza – all’estensione dei diritti processuali previsti dall’originaria formulazione dell’art. 83; estensione alla categoria delle prestazioni da assolvere nei giudizi di separazione o di divorzio, attraverso una modifica del testo altrimenti inspiegabile.
L’elemento di specialità insito nella normativa richiamata testimonia che nessun effetto è da attribuire al divenire delle formulazioni dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 per ciò che riguarda l’esegesi degli artt. 3 della l. n. 742 del 1967 e 92 ord. giud. a proposito del diverso operare della regola da tali articoli desumibile.
XIII.- Quanto al regolamento (CE) n. 4 del 2009, si tratta inquesto caso della fissazione in ambito UE delle regole relative alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari.
Anche qui è indubbiamente vero che il regolamento ha adottato una propria nozione di obbligazione alimentare; ed è vero che codesta non è rapportabile a quella sottesa agli artt. 433 e seg. cod. civ.
Ma, per quanto il regolamento già nel Considerando n. 11 (richiamato dall’ordinanza n. 18044-23) abbia enunciato che la nozione di obbligazione alimentare “dovrebbe essere interpretata in maniera autonoma”, vi è che poi nell’art. 1.1 ha precisato che l’ambito di applicazione del testo è quello delle “obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità” solo in rapporto al fine.
Detto altrimenti: il complesso delle previsioni del regolamento, ivi compreso l’ambito delle definizioni, è da intendere circoscritto dal fine del regolamento stesso. E il fine è quello di “istituire specifiche norme procedurali comuni speciali per semplificare e accelerare la composizione delle cause transfrontaliere riguardanti in particolare i crediti alimentari”.
Questa cosa è stata fatta mediante soppressione delle misure intermedie necessarie per permettere il riconoscimento e l’esecuzione nello Stato richiesto di una decisione emessa in un altro Stato membro, e in particolare una decisione riguardante – giustappunto – un credito alimentare (v. i Considerando 4 e 9).
Sicché in tal modo il regolamento citato ha perseguito lo scopo di consentire a un creditore di alimenti – qualunque ne sia il contesto e la fonte di diritto interno – “di ottenere facilmente in uno Stato membro una decisione che sia automaticamente esecutiva in un altro Stato membro senza ulteriori formalità”, così preservando l’obiettivo mediante la creazione di uno strumento comunitario in materia di obbligazioni alimentari teso a raggruppare le disposizioni concernenti i conflitti di giurisdizione, i conflitti di leggi, il riconoscimento e l’esecutività, l’esecuzione, il patrocinio a spese dello Stato nonché la cooperazione tra le autorità centrali (v. il Considerando 10).
XIV.- Solo, quindi, in rapporto a questa specifica funzione sispiega la precisazione alla quale ha alluso l’ordinanza n. 18044 del 2023.
Erroneamente quella precisazione è stata valorizzata in modo assoluto.
L’ambito di applicazione del regolamento deve estendersi “a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità”. E però “al fine di garantire la parità di trattamento tra tutti i creditori di alimenti”, onde preservare gli interessi dei creditori di alimenti e favorire la corretta amministrazione della giustizia all’interno dell’Unione europea, tanto da venir simultaneamente auspicato un adattamento delle stesse norme eurounitarie sulla competenza (pro tempore, il regolamento (CE) n. 44/2001).
Sicché la circostanza che un convenuto abbia la residenza abituale in uno Stato terzo non deve escludere – come ancora si dice nel regolamento n. 4 del 2009 – l’applicazione delle norme comunitarie in materia di competenza, così da non rendere necessario un ulteriore rinvio alle norme in materia di competenza contemplate dal diritto nazionale.
Per questo, e non per altro, nel Considerando n. 11 si rinviene la specificazione che “ai fini del presente regolamento”, la nozione di «obbligazione alimentare» dovrebbe essere interpretata “in maniera autonoma”.
XV.- Ne deriva che le previsioni del citato regolamento (CE) n. 4del 2009 non incidono affatto sulle modalità con le quali le legislazioni dei singoli Stati (e tra queste in particolare la legislazione nazionale italiana) abbiano ritenuto – e ritengano – di disciplinare gli istituti di riferimento sul piano dei presupposti, degli effetti e delle modalità di tutela.
Il regolamento viene in considerazione solo ove si discuta del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni o della competenza in materia di obbligazioni alimentari.
L’ampliamento del concetto di obbligazione alimentare declinato dal regolamento non fuoriesce dai casi in cui sia in discussione il suo ambito specifico di applicazione. Ed è quindi ininfluente rispetto alla disciplina della sospensione dei termini feriali quanto ai giudizi di diritto interno. Ciò anche perché la stessa (sottesa) esigenza di una più celere definizione di tali giudizi è dagli istituti di diritto interno comunque assicurata, stante la possibilità offerta dall’art. 92 ord. giud. di dichiarare urgente – e come tale sottratta alla sospensione feriale – la singola causa quando la ritardata trattazione potrebbe provocare un grave pregiudizio alle parti.
XVI.- Nel caso concreto risulta che il decreto impugnato è statonotificato il 27-7-2021 e che il ricorso per cassazione a sua volta è stato notificato il 26-10-2021 a fronte della sospensione dei termini in periodo feriale.
Deve concludersi che il ricorso medesimo è ammissibile perché tempestivo.
XVII.- Fissato nel senso indicato al superiore punto VI il principiodi diritto volto a comporre il contrasto di giurisprudenza, e stabilito che il ricorso è ammissibile, gli atti possono essere restituiti alla sezione rimettente per l’esame delle censure consegnate ai singoli motivi.
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, dichiara ammissibile il ricorso e rimette gli atti alla Prima sezione civile per l’esame dei singoli motivi.
Dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, addì 30 gennaio 2024.
Il Presidente
Pasquale D’Ascola
Il Consigliere estensore
Francesco Terrusi
Allegati:
SS.UU, 13 maggio 2024, n. 12946, in tema di sospensione feriale dei termini
Rimessa alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite la validità del mutuo solutorio
Ordinanza interlocutoria, 10 luglio 2024, n. 18903
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