In tema di illecito disciplinare – SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19200
Civile Sent. Sez. U Num. 19200 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: DI PAOLANTONIO ANNALISA
Data pubblicazione: 06/07/2023
SENTENZA
sul ricorso 3295-2023 proposto da:
Meloni Rodolfo, rappresentato e difeso da sé medesimo;
– ricorrente –
contro
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione;
– intimati –
avverso la sentenza n. 250/2022 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 15/12/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/06/2023 dal Consigliere ANNALISA DI PAOLANTONIO;
lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO, il quale chiede che le Sezioni Unite della Corte di cassazione vogliano accogliere il quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri e cassare senza rinvio la sentenza impugnata per intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare.
FATTI DI CAUSA
1. Il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso proposto dall’avvocato Rodolfo Meloni avverso la decisione del 5 maggio/4 luglio 2017 del Consiglio Distrettuale di Disciplina di Cagliari che, ritenuta la responsabilità del ricorrente per i fatti contestati, aveva irrogato la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per la durata di mesi due.
2. Il Consiglio ha richiamato in premessa il contenuto del capo di incolpazione, con il quale era stata contestata la violazione del dovere di verità, imposto dall’art. 50 del Codice Disciplinare, per avere formato o fatto formare una scrittura falsa, recante la firma apocrifa di Pierluigi Dessalvi, della quale si era poi avvalso, producendola, in un processo civile pendente dinanzi al Tribunale di Cagliari.
Ha precisato che il procedimento era stato avviato, con delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari (COA) del 27 marzo 2007, a seguito della notizia, appresa dalla stampa, inerente alla pendenza di un procedimento penale a carico dello stesso Meloni, il quale, invitato dal Consiglio a fornire chiarimenti, con memoria del 27 aprile 2007 aveva negato ogni addebito e sollecitato la sospensione del procedimento disciplinare sino alla definizione di quello penale.
Il procedimento era stato, quindi, sospeso e, successivamente, a seguito dell’entrata in funzione dei Consigli Distrettuali di Disciplina (CDD), gli atti erano stati trasmessi al nuovo organo disciplinare, che, avuta conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per il delitto di falso in scrittura privata, aveva disposto la riapertura del procedimento, accertato la condotta ascritta all’incolpato e inflitto la sanzione sopra indicata.
3. Il Consiglio ha riassunto i plurimi motivi di ricorso proposti dal Meloni in relazione ad entrambe le fasi del procedimento e li ha ritenuti tutti infondati, evidenziando che:
a) non era spirato il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 51 del R.d.l. n. 1578/1939, applicabile alla fattispecie ratione temporis, perché il dies a quo deve essere individuato nella data del passaggio in giudicato della sentenza penale (18 dicembre 2013) e ciò anche nell’ipotesi in cui il procedimento sia stato avviato in epoca antecedente e sospeso;
b) occorreva, inoltre, tener conto della natura permanente dell’illecito, che era cessata solo con la decisione di primo grado risalente al luglio 2017;
c) la sospensione, sollecitata dallo stesso Meloni, era obbligatoria in presenza di un fatto contestato in sede penale sovrapponibile a quello ritenuto di rilievo disciplinare, e nessun rilievo poteva avere la circostanza che al momento dell’adozione dell’atto non fosse stato ancora disposto il rinvio a giudizio;
d) legittimamente il COA aveva esercitato il potere di promuovere d’ufficio l’azione disciplinare e non aveva leso il diritto di difesa, sebbene la prima contestazione non fosse del tutto specifica, perché: l’incolpato era stato sentito; su sollecitazione dello stesso il procedimento era stato sospeso; al momento della riattivazione era stato pienamente assolto l’onere di specificità della contestazione;
e) non era stato violato l’art. 17, comma 2, del Regolamento di disciplina, in quanto la richiesta di audizione era stata formulata quando già era spirato il termine previsto dalla norma regolamentare;
f) il procedimento era stato riavviato tempestivamente, poiché solo il 14 ottobre 2015 era stata acquisita la sentenza penale passata in giudicato;
g) i plurimi profili di illegittimità prospettati dal ricorrente andavano tutti disattesi o perché insussistenti, o perché si era a fronte di irregolarità, sprovviste di sanzione, che non avevano leso il diritto di difesa dell’incolpato;
h) il giudicato penale aveva accertato il fatto e la responsabilità del Meloni non poteva essere esclusa solo perché il difensore aveva successivamente rinunciato ad avvalersi della prova falsificata;
i) la sentenza penale non era stata travolta, pienamente e con efficacia retroattiva, dall’ordinanza del 20 aprile 2016 con la quale il Tribunale di Cagliari aveva revocato la condanna ex art. 673 cod. proc. pen., perché l’intervenuta depenalizzazione non poteva essere equiparata all’assoluzione dell’imputato con formula piena e lasciava impregiudicato l’accertamento sul fatto e sulla commissione dello stesso da parte dell’incolpato;
l) la sanzione inflitta era adeguata alla gravità ed alla natura della condotta illecita, da valutare anche alla luce della disciplina dettata dall’art. 50 CDF, che può integrare utile parametro di raffronto.
4. Per la cassazione della sentenza l’avvocato Rodolfo Meloni ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi, articolati in più punti, ai quali non ha opposto difese l’Ordine degli Avvocati di Cagliari, rimasto intimato.
5. L’Ufficio della Procura Generale ha depositato requisitoria scritta ed ha concluso per l’accoglimento del quarto motivo di ricorso, con assorbimento delle ulteriori censure.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., il ricorrente denuncia «violazione e falsa applicazione degli artt. 47 1° comma RD 37/1934 e 38 1° comma RDL 1578/33 anche in relazione agli artt. 24, 111 3°c., 97 Cost. e/o eccesso di potere» nonché nullità della sentenza per violazione degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., 111 Cost. anche in relazione all’art. 64 1° comma R.d. n. 37/1934.
Il ricorrente deduce che la deliberazione di avvio del procedimento del 27 marzo 2007 e la nota del 12 aprile 2007, comunicata dal COA, non contenevano alcuna specificazione della condotta di rilievo disciplinare, perché si limitavano ad un generico richiamo dei « fatti per i quali è stato recentemente rinviato a giudizio», rinvio a giudizio che, tra l’altro, all’epoca non era stato ancora disposto.
Addebita alla decisione impugnata di non avere colto il significato ed il contenuto del motivo di impugnazione e deduce che doveva essere accertata l’illegittimità dell’atto perché abnorme, viziato da eccesso di potere e, comunque, privo dei requisiti richiesti dalle norme indicate in rubrica.
Eccepisce la nullità della sentenza gravata sotto il profilo della mancanza della motivazione, nella specie inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione.
Evidenzia, infine, che l’accoglimento del motivo determina «come precipitato giuridico l’inesistenza di atti interruttivi della prescrizione e l’illegittimità della sospensione del procedimento».
2. La seconda critica, ricondotta al vizio di cui al n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ., eccepisce la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 295, 296, 305 cod. proc. civ., in relazione all’art. 44, comma 1, del R.d. n. 1578/1933, degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., in relazione all’art. 65 del R.d. n. 37/1934.
Il ricorrente, ribadito che la sospensione non poteva essere disposta rispetto ad un illecito disciplinare non identificato, addebita al C.N.F. di avere affermato la sovrapponibilità dei fatti a quelli oggetto di accertamento in sede penale, senza indagare il contenuto della notizia appresa dalla stampa locale, che si riferiva unicamente all’ipotizzato delitto di estorsione, dal quale poi l’imputato era stato assolto.
Sostiene che la sospensione, illegittima per le ragioni già dette, poteva al più operare con riferimento al delitto in parola e non a quello di falso, al quale, evidentemente, non poteva all’epoca essere riferita l’iniziativa disciplinare.
Deduce, in sintesi, che la sospensione, seppure sollecitata dallo stesso Meloni, in assenza delle condizioni richieste dall’art. 295 cod. proc. civ., doveva essere qualificata volontaria ex art. 296 cod. proc. civ., con la conseguenza che, decorsi quattro mesi, il procedimento doveva essere riattivato.
3. La terza critica, articolata in più punti e formulata ai sensi dei nn. 3, 4 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., denuncia «violazione degli artt. 295, 297, 305 c.p.c. in relazione agli artt. 65 1° comma L. 247/2012 e 1; nullità della sentenza dell’intero giudizio per violazione degli artt. 15 lett. c) e 17 lett. c) Reg. 2/14 in relazione all’art. 152 2 comma Cc e 10 co 4 Reg. 2/14 con riferimento all’art. 415 bis cpp e 111 3° comma Cost.; nullità della sentenza per violazione degli artt. 132 2° e 4° comma c.p.c. – 118 disp. att. c.p.c. in relazione all’art. 111 Cost.; violazione e falsa applicazione dell’art. 192 2°c c.p.p. e/o 2727-2729 c.c.; violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 48 1° comma RDL 1978/33 – 49 RD 27/1934 e 22 2° comma lett. c reg. 2/14 o in via alternativa omessa motivazione sulle deduzioni di prova e istruttorie; nullità della sentenza per violazione art. 112 cp.c. omessa pronuncia».
Deduce, in sintesi, il ricorrente che il procedimento disciplinare, sulla base della normativa applicabile ratione temporis, non poteva essere riattivato in assenza di una delibera del COA, non adottata nella fattispecie.
Aggiunge che dalla documentazione acquisita emergeva che il Consiglio dell’ordine aveva avuto notizia del passaggio in giudicato della sentenza penale ben prima della data indicata nella sentenza impugnata, perché era stato dato incarico all’avvocato Perra di seguire gli sviluppi del processo penale, processo al quale, tra l’altro, la stampa aveva dato ampio risalto. Rileva che assolutamente indispensabile era l’audizione del menzionato avvocato Perra ed aggiunge che, comunque, gli elementi già acquisiti avrebbero dovuto indurre il CNF a ritenere spirato il termine per la riassunzione, con conseguente estinzione del procedimento disciplinare. Sostiene che la prova dell’avvenuta conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza penale poteva essere desunta, in via presuntiva, da plurimi indizi, convergenti nel far ritenere che il COA fosse stato posto in condizione di riattivare il procedimento ben prima della produzione da parte dello stesso incolpato della sentenza definitiva.
Quanto, poi, agli atti compiuti successivamente alla trasmissione al CDD, ribadisce il ricorrente che la mancata audizione, richiesta con la memoria del 21 aprile 2016, comporta, al pari dell’omesso espletamento nel processo penale dell’interrogatorio richiesto ex art. 415 bis cod. proc. pen., la nullità dell’intero procedimento. Aggiunge che il termine previsto dall’art. 17 Reg. è ordinatorio, non perentorio, e, pertanto, l’attività sollecitata andava disposta anche se la memoria era stata tardivamente depositata, non assumendo alcun rilievo la circostanza che nel procedimento l’incolpato fosse stato posto in condizione di difendersi.
Rileva, poi, che l’atto di citazione richiamava unicamente l’incolpazione e non la richiesta del Consigliere istruttore e la delibera di rinvio a giudizio e, pertanto, poiché detti atti non erano mai stati prodotti, nonostante l’espressa richiesta, il CNF avrebbe dovuto ritenere che gli stessi non fossero stati adottati.
4. Il quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., addebita alla decisione impugnata la violazione e falsa applicazione dell’art. 51 del R.d.l. n. 1578/1933 in relazione agli artt. 295, 296, 297 cod. proc. civ., agli artt. 2935 e 2943 cod. civ., all’art. 111 Cost. e denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., dell’art. 111 Cost. sotto il profilo della «motivazione apparente e/o intrinsecamente e irrimediabilmente illogica e contraddittoria».
Il ricorrente censura il capo della sentenza che ha escluso la prescrizione dell’illecito disciplinare e rileva che ha errato il CNF nel valorizzare la natura permanente dello stesso, senza considerare che dagli atti emergeva l’avvenuta rinuncia ad avvalersi della produzione, rinuncia contenuta nella memoria ex art. 184 cod. proc. civ..
Assume, poi, che il principio secondo cui la prescrizione decorre, per i fatti oggetto di processo penale, dal passaggio in giudicato della sentenza non può operare qualora l’illecito risulti prescritto prima della formulazione dell’incolpazione.
Torna ad evidenziare, riprendendo argomenti già sviluppati nei primi due motivi di ricorso, che nella fattispecie, poiché la sospensione obbligatoria non poteva essere riferita al delitto di falso, il primo atto interruttivo riguardante detto illecito andava individuato nell’atto di incolpazione del 21 marzo 2016, intervenuto quando era maturata la prescrizione quinquennale, in ragione della cessazione della permanenza risalente al 29 gennaio 2007.
5. Con la quinta critica, ricondotta al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 653 e 673 cod. proc. pen., in relazione all’art. 2 cod. pen. ed all’art. 54 del Regolamento n. 2/2014. Rileva il ricorrente che ha errato il CNF nel ritenere applicabile l’art. 653 cod. proc. pen. anche alla sentenza di condanna, revocata a seguito della sopravvenuta depenalizzazione del reato.
Deduce che la revoca disposta ex art. 673 cod. proc. pen. fa venir meno ogni conseguenza negativa e pregiudizievole derivante dalla sentenza che, di conseguenza, non può più fare stato nei procedimenti disciplinari quanto all’accertamento dei fatti ed alla responsabilità dell’imputato.
6. Infine con la sesta censura è eccepita la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ravvisata nell’omessa pronuncia sul motivo di impugnazione con il quale era stato dedotto che, una volta esclusa l’efficacia vincolante del giudicato penale, in sede disciplinare andavano accertate la condotta e la responsabilità dell’incolpato.
Ribadisce che l’atto falso non era stato formato dal difensore, che aveva prontamente rinunciato ad avvalersi della produzione, sebbene nel processo civile non ne fosse stata contestata l’autenticità.
7. Nel rispetto dell’ordine logico e giuridico delle questioni deve essere esaminato con priorità il quarto motivo di ricorso, che censura entrambe le rationes decidendi sulla base delle quali il CNF ha escluso che fosse maturata l’eccepita prescrizione dell’illecito disciplinare.
Il motivo è infondato.
Occorre richiamare in premessa l’orientamento, ormai consolidato, di queste Sezioni Unite secondo cui con riferimento alla disciplina della prescrizione lo jus superveniens dettato dalla legge n. 247 del 2012 non trova applicazione, seppure più favorevole all’incolpato, e l’operatività del principio di retroattività della lex mitior resta limitato alla fattispecie incriminatrice e alla pena, sicché il momento di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione applicabile rimane quello della commissione del fatto e non quello della incolpazione ( cfr. fra le tante Cass. S.U. 14 settembre 2022 n. 26990; Cass. S.U. 30 novembre 2021 n. 37550; Cass. S.U. 16 luglio 2021 n. 20383; Cass. S.U. 28 febbraio 2020 n. 5596).
E’, quindi, applicabile alla fattispecie, nella quale viene in rilievo una condotta risalente all’anno 2004, l’art. 51 del R.d.l. n. 1578 del 1933, che fissa per la prescrizione dell’azione disciplinare il termine quinquennale. Queste Sezioni Unite, con orientamento anch’esso consolidato, hanno affermato che, ai fini della individuazione del dies a quo, rileva il combinato disposto con gli artt. 38 e 44 dello stesso R.d.l. ed occorre distinguere il caso, previsto dall’art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, da quello, disciplinato dall’art. 44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti reato, per i quali sia stata iniziata l’azione penale.
Nel primo caso, poiché l’azione disciplinare è collegata a ipotesi generiche e a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto. Nel secondo, invece, l’azione disciplinare: è collegata alla pronuncia penale, che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso; ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata una imputazione; ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto.
Se ne è tratta la conseguenza che la prescrizione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta (Cass. S.U. 13 maggio 2021 n. 12902; Cass. S.U. 4 gennaio 2020 n. 1609; Cass. S.U. 3 novembre 2017 n. 26148 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione), salva l’ipotesi in cui il termine quinquennale sia già interamente decorso al momento dell’esercizio dell’azione penale (Cass. S.U. 14 dicembre 2020 n. 28386; Cass. S.U. 7 novembre 2016 n. 22516).
Correttamente, pertanto, il CNF ha escluso che la prescrizione fosse maturata nella fattispecie, a prescindere dalla validità degli atti compiuti in epoca antecedente al passaggio in giudicato della sentenza penale, atteso che, pacificamente, l’evento esterno che segna il dies a quo della prescrizione, ossia la definitività dell’accertamento in ordine alla responsabilità penale, si era verificato nel dicembre del 2013 e, pertanto, il termine quinquennale non era decorso alla data della notifica dell’incolpazione, risalente al marzo 2016, né quel termine era spirato nelle more fra la commissione del fatto e l’esercizio dell’azione penale, giacché la condotta era stata realizzata nell’anno 2004 ed il rinvio a giudizio era stato disposto, come afferma lo stesso ricorrente, il 18 dicembre 2007.
Al riguardo va precisato che, una volta ancorato il dies a quo alla data del passaggio in giudicato della sentenza penale, non vale discorrere della validità di atti interruttivi o sospensivi posti in essere in epoca antecedente alla verificazione del fattore esterno, che rende doverosa l’azione disciplinare, giacché una questione di sospensione o di interruzione si può porre solo con riferimento ad un termine il cui decorso sia iniziato, evenienza, questa, che non ricorre, per quanto sopra detto, nella fattispecie ( cfr. Cass. S.U. 31 maggio 2016 n. 11367; Cass. S.U. 3 novembre 2017 n. 26148; Cass. S.U. 14 settembre 2022 n. 26990).
7.1. Il quarto motivo è, in conclusione, infondato nella parte in cui sostiene che l’orientamento richiamato dal CNF non sarebbe applicabile nei casi in cui l’illecito risulti prescritto prima della formulazione dell’incolpazione, sicché, una volta consolidata una delle due rationes decidendi della decisione impugnata, la formazione del giudicato interno rende inammissibile la questione, pure posta dal motivo, dell’idoneità a determinare la cessazione della permanenza del comportamento processuale tenuto dall’avvocato Meloni nel giudizio civile.
Costituisce, infatti, ius receptum il principio secondo cui, qualora la sentenza impugnata risulti sorretta da diverse rationes decidendi, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’inammissibilità o l’infondatezza del motivo di ricorso attinente ad una di esse rende irrilevante l’esame dei motivi riferiti alle altre, i quali non risulterebbero in nessun caso idonei a determinare la cassazione della sentenza impugnata, una volta consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura rigettata o dichiarata inammissibile ( cfr. fra le tante Cass. n. 13880/2020; Cass. n. 15399/2018; Cass. n. 11403/2018; Cass. n. 9752/2017).
8. Esclusa in radice, sulla base dell’orientamento richiamato nel punto che precede, la possibilità che la prescrizione potesse decorrere e maturare in epoca antecedente al dicembre 2013, anno di formazione del giudicato penale, vanno dichiarati inammissibili, per difetto di interesse all’impugnazione, il primo, il secondo e, parzialmente, il terzo motivo (con la sola eccezione della censura inerente alle violazioni che si sarebbero verificate dopo la ripresa del procedimento), perché, come riconosce lo stesso ricorrente, tutte le questioni poste in relazione alla legittimità dell’originaria contestazione e della sospensione del procedimento disciplinare nonché alla tempestività della riattivazione sono finalizzate a far escludere che fossero stati compiuti validi atti interruttivi o sospensivi.
Nel giudizio di cassazione opera il principio secondo cui l’interesse all’impugnazione, che deve essere valutato in relazione ad ogni singolo motivo, va apprezzato con riferimento all’utilità concreta che la parte può ricavare dall’eventuale accoglimento del gravame, ed inoltre non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica (che può venire in rilievo solo nei casi previsti dall’art 363 cod. proc. civ.), con la conseguenza che va escluso ogniqualvolta la dedotta violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, sia diretta all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico.
Il richiamato principio opera nella fattispecie, giacché in nessun caso eventuali vizi del procedimento verificatisi in epoca antecedente alla formazione del giudicato penale potrebbero indurre, quale conseguenza, l’invocato annullamento della sanzione disciplinare in ragione della maturazione della prescrizione, prescrizione che, lo si ripete, non poteva iniziare a decorrere prima del dicembre 2013.
9. E’ infondata la censura prospettata al punto 3 del terzo motivo.
Anche a voler prescindere dall’omesso rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ. ( il ricorrente non fornisce alcuna indicazione in merito alla localizzazione nel fascicolo degli atti sui quali la censura si fonda), va detto che la censura, nella parte in cui denuncia la nullità dell’atto di citazione, non considera la diversità fra la delibera di approvazione del capo di incolpazione di cui all’art. 16 del regolamento e la successiva deliberazione di rinvio a giudizio, disciplinata dall’art. 18 dello stesso regolamento, della quale non occorre fare menzione nella citazione, perché sia l’art. 59 della legge professionale, sia gli artt. 17 e 21 del regolamento prescrivono che all’incolpato sia data comunicazione, al momento dell’avvio dell’istruttoria ( e quindi non con la citazione) che segue alla fase preliminare, della deliberazione di approvazione del capo di incolpazione, non di quella di rinvio a giudizio né, tanto meno, della richiesta formulata dal consigliere istruttore.
9.1. Parimenti infondato è il motivo nella parte in cui pretende di far discendere la nullità dell’intero procedimento dall’omessa audizione dell’incolpato, non disposta sebbene sollecitata prima del rinvio a giudizio.
L’art. 59, lett. b) n. 2, della legge n. 247 del 2012 prevede che nella comunicazione diretta all’incolpato debba essere inserito « l’avviso che l’incolpato, nel termine di venti giorni dal ricevimento della stessa, ha diritto di accedere ai documenti contenuti nel fascicolo, prendendone visione ed estraendone copia integrale; ha facoltà di depositare memorie, documenti e di comparire avanti al consigliere istruttore, con l’assistenza del difensore eventualmente nominato, per essere sentito ed esporre le proprie difese. La data per l’interrogatorio è fissata subito dopo la scadenza del termine concesso per il compimento degli atti difensivi ed è indicata nella comunicazione». La successiva lettera c) stabilisce che «decorso il termine concesso per il compimento degli atti difensivi, il consigliere istruttore, qualora, per il contenuto delle difese, non ritenga di proporre l’archiviazione, chiede al consiglio distrettuale di disciplina di disporre la citazione a giudizio dell’incolpato» ed analoga disposizione è contenuta nell’art. 18 del regolamento.
Il legislatore, quindi, ha previsto una specifica scansione temporale del procedimento, sicché correttamente il CNF ha rilevato che, a prescindere da ogni altra considerazione, nessuna irregolarità poteva essere ravvisata nella fattispecie, perché la memoria contenente la richiesta di audizione era stata presentata quando già il termine concesso all’incolpato era scaduto.
Infondatamente il ricorrente richiama l’art. 415 bis cod. proc. pen., atteso che nel procedimento penale affinché l’omesso interrogatorio possa determinare nullità degli atti successivamente compiuti è necessario che la richiesta venga formulata dall’indagato nel termine concesso, il cui spirare determina l’irrimediabile consumazione della facoltà (Cass. 9 settembre 2015 n. 36430; Cass. 22 marzo 2016 n. 35342).
10. E’, invece, fondato, nei limiti di seguito precisati, il quinto motivo.
Il delitto di falsità in scrittura privata, nelle more fra la formazione del giudicato penale e la definizione del giudizio disciplinare, è stato depenalizzato dall’art. 4 del d.lgs. n. 7 del 2016 che, all’art. 12, ha previsto che «Se i procedimenti penali per i reati abrogati dal presente decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.».
Non è in discussione, e ne dà atto la decisione qui impugnata, che, in ragione dell’intervenuta abolitio criminis, la sentenza definitiva di condanna è stata revocata in sede esecutiva dal Tribunale di Cagliari.
E’ indubbio che la depenalizzazione, e la successiva revoca della sentenza di condanna, non abbiano fatto venir meno il carattere illecito della condotta né abbiano inciso retroattivamente sul regime della prescrizione dell’illecito disciplinare, che resta quello, di cui si è detto, applicabile ratione temporis.
Non è, invece, condivisibile la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che, in ragione dell’applicabilità dell’art. 653 cod. proc. pen., non era tenuto il giudice disciplinare a procedere ad un nuovo accertamento del fatto e della responsabilità dell’incolpato, già definitivamente acclarati in sede penale.
La disposizione citata, infatti, limita l’efficacia di giudicato alla sola sentenza penale di condanna, sicché, a seguito della revoca, che comporta l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, nel giudizio disciplinare non ancora definito non può più operare la regola di giudizio fissata dal secondo comma del richiamato art. 653 e torna ad espandersi il principio generale secondo cui il giudice disciplinare può e deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti (cfr. Cass. S.U. 13 maggio 2021 n. 12902), in relazione al quale la sentenza penale ed il materiale probatorio acquisito in quella sede possono essere utilizzati ai fini del giudizio.
La fondatezza del quinto motivo comporta l’assorbimento della sesta censura.
11. In via conclusiva merita accoglimento il solo quinto motivo, con conseguente assorbimento della sesta censura, e la pronuncia impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio al Consiglio Nazionale Forense che procederà ad un nuovo esame, attenendosi al principio di diritto enunciato nel punto che precede.
12. Le spese del giudizio di cassazione devono essere interamente compensate, in ragione della fondatezza solo parziale del ricorso.
13. Non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, con assorbimento della sesta censura. Rigetta il quarto motivo e dichiara inammissibili gli ulteriori motivi. Cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia al C.N.F. per un nuovo esame. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 6 giugno 2023
Allegati:
SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19200, in tema di illecito disciplinare
In tema di illecito disciplinare – SS.UU, 07 agosto 2023, n. 23990
Civile Sent. Sez. U Num. 23990 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: RUBINO LINA
Data pubblicazione: 07/08/2023
SENTENZA
sul ricorso 28767-2022 proposto da:
ARNONE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato DIEGO GALLUZZO;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI AGRIGENTO, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimati –
nonché
sul ricorso 28769-2022 proposto da:
ARNONE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato DIEGO GALLUZZO;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI AGRIGENTO;
– intimato –
avverso le sentenze nn. 187/2022 (per il ricorso r.g. 28767/2022) e n. 189/2022 (per il ricorso 28769/2022), entrambe del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE e depositate il 21/10/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/05/2023 dal Consigliere LINA RUBINO;
lette le conclusioni scritte dall’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO, il quale chiede che le Sezioni Unite della Corte vogliano rigettare i ricorsi.
FATTI DI CAUSA
1. Con delibera in data 12.2.2021 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati (d’ora innanzi, per brevità, COA) di Agrigento, su iniziativa del Procuratore generale di Palermo, operava la cancellazione dall’albo dell’ Avv. Giuseppe Arnone in quanto erano venuti meno i requisiti di iscrizione previsti dall’art. 17, comma 9, della legge n. 247 del 2012, per essere l’avvocato sottoposto al regime di semilibertà.
2. L’Avv. Arnone proponeva, in data 20.4.2021, ricorso al Consiglio Nazionale Forense (d’ora innanzi, per brevità, CNF) e lo sottoscriveva in proprio, conferendo anche mandato all’avv. Daniela Principato, non abilitata all’esercizio dinanzi alle giurisdizioni superiori. Nel merito, adduceva che non erano sussistenti le cause della operata cancellazione, attese le sostanziali differenze esistenti tra il regime di semilibertà, cui era sottoposto, e la sottoposizione all’esecuzione di pene detentive, ipotesi prevista dall’ordinamento professionale come causa di cancellazione dall’albo.
3. Il CNF, con sentenza n. 187 emessa in data 18.6.2022, dichiarava inammissibile il ricorso, per mancanza di ius postulandi, avendo l’avv. Arnone conferito mandato ad un avvocato non abilitato al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, senza che ciò potesse essere sanato dalla sottoscrizione in proprio del ricorso anche da parte dell’Arnone, in quanto lo stesso, al momento della sottoscrizione, era a sua volta privo di ius postulandi essendo stato sospeso.
La sentenza aggiungeva che in data 18 maggio l’impugnazione era stata rinunciata dall’Arnone, con conseguente stabilizzazione del provvedimento impugnato dalla data della pronuncia, in quanto l’impugnazione sospende l’esecutività della decisione e, finché essa non sia stata definita, gli effetti della cancellazione non sono destinati ad operare, a tutela del legittimo affidamento dei terzi che con l’avvocato si trovino a relazionarsi.
4. Alla medesima udienza del 18 giugno 2022, dinanzi al CNF, era chiamato e trattato, dopo il ricorso di cui sopra, un distinto ricorso avverso altro provvedimento disciplinare adottato nei confronti del dott. Arnone, del quale era stata disposta la radiazione perché ritenuto responsabile delle seguenti incolpazioni:
A) violazione degli artt. 52.1 e 53.1 in relazione all’art. 4.1 e 4.2 del Codice deontologico forense per aver violato il dovere di impostare i rapporti con i magistrati in servizio presso il Tribunale di Agrigento con dignità e rispetto e per aver violato il divieto di utilizzare espressioni offensive o sconvenienti nei confronti dei predetti magistrati ed in particolare per avere nelle memorie datate 4.2.2021 e depositate nel proc.n. 1865/14 MOd. 21 RG Tribunale di Agrigento definito il Procuratore dott. Luigi Patronaggio “delinquente in carica”, “criminale dal colletto bianco”, “il criminale Patronaggio” e per avere utilizzato le seguenti espressioni “in presenza di comprovate attività delinquenziali … sia dell ‘attuale Procuratore Capo di Agrigento Luigi Patronaggio”; “qui l’abuso costante ed abbagliante (delitto di abuso in atti d’ ufficio) è quello posto in essere da Luigi Patronaggio”; “oggi Patronaggio farebbe bene a costituirsi, a chiedere i domiciliari, ad incaricare il suo difensore a chiedere il patteggiamento”;”in carcere dovrebbe andare anche Luigi Patronaggio che sta consentendo la prescrizione ….per tutti i reati commessi dal medesimo . .., in primis la corruzione”, “ruolo delinquenziale di Luigi Patronaggio”; “Patronaggio garantisce la piena impunità alle persone da me denunziate; “reati commessi da Patronaggio per favorire Firetto” ·
B) violazione degli artt. 2.1, 4.2, 9.1, 9.2, 20, 21.1, 22 del Codice Deontologico Forense per aver assunto condotte tali da compromettere i doveri di probità, dignità e decoro cui deve essere ispirata la condotta dell’Avvocato nonché l’immagine della professione forense.
Fatti commessi in Agrigento il 4.02.2021».
Nel provvedimento impugnato dinanzi al CNF, il CDD aveva ritenuto manifesto il disvalore deontologico della condotta tenuta dall’Arnone, considerando come «la responsabilità disciplinare in relazione alla condotta dell’ Avv. Arnone appare di tutta evidenza, essendo stato travalicato – ampiamente – il limite entro cui avrebbe potuto manifestare il proprio pensiero e la linea difensiva», e aveva comminato la massima sanzione della radiazione, ritenendola adeguata tenuto conto della gravità dei fatti e della numerosissima quantità di precedenti disciplinari a carico del medesimo.
5. In relazione alla decisione del CDD di cui al precedente punto 4. l’avv. Arnone proponeva due ricorsi:
1) un primo ricorso, depositato in data 3.3.2022 e sottoscritto personalmente dall’Avv. Arnone e dall’Avv. Daniela Principato, non cassazionista, munita di procura;
2) un secondo ricorso, di contenuto identico, depositato in data 4.3.2022 e sottoscritto unicamente dall’Avv. Francesco Menallo, cassazionista e munito di procura.
6. IL CNF dichiarava il primo ricorso inammissibile, risultando sottoscritto personalmente dall’Avv. Arnone, sospeso dall’albo a far data dal 28 gennaio 2021 in ragione dell’esecuzione di una serie di precedenti sanzioni. Affermava che il difetto di jus postulandi dell’incolpato non risultava sanabile dal conferimento della difesa all’avv. Daniela Principato, munita di procura speciale, ma non abilitata all’esercizio innanzi alle giurisdizioni superiori, in quanto l’art. 182 c.p.c risulta applicabile innanzi al CNF soltanto dove sussista la possibilità «di regolarizzazione in favore del soggetto o del suo procuratore già costituiti in giudizio» (per prima e tra le tante Cass. S.U. 27 aprile 2017, n. 10414), circostanza non ricorrente nel caso di specie.
6.1. Esaminava invece, ritenendolo ammissibile, il secondo ricorso, proposto dall’avv. Arnone con il patrocinio dell’Avv. Francesco Menallo, identico al primo nei contenuti, rilevandone la tempestività e ricordando che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il principio di consumazione dell’impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di impugnazione immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, purchè esso sia tempestivo.
6.2. Il ricorso veniva quindi trattato e deciso, nonostante l’opposizione dello stesso Arnone che chiedeva si dichiarasse l’estinzione del procedimento per intervenuta sua cancellazione dall’Albo, con la sentenza n. 187 del 2022 adottata dal CNF nell’ambito della medesima udienza e qui separatamente impugnata.
6.3. Dopo averlo ritenuto ammissibile, il CNF, con la sentenza n. 189\2022, emessa in data 18.6.2022, rigettava nel merito il ricorso del dott. Arnone contro il provvedimento di radiazione, ritenendo che le espressioni utilizzate numerose volte dallo stesso, come già esattamente rilevato già dal CDD, superassero senza ombra di dubbio i limiti della critica, sia pur aspra, all’operato di un’autorità giudiziaria e apparissero senz’altro meritevoli della sanzione disciplinare, confermata nella misura massima della radiazione stante la quantità di procedimenti disciplinari a carico del medesimo.
7. In questa sede il dott. Giuseppe Arnone ha proposto due separati ricorsi, ciascuno articolato in tre motivi, l’uno per la cassazione della sentenza n. 187 del 2022 (con la quale si è dichiarato inammissibile il suo ricorso contro il provvedimento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Agrigento che ne aveva disposto la cancellazione dall’Albo degli Avvocati), che ha preso il n.28767\2022 di iscrizione al ruolo generale, e l’altro per la cassazione della sentenza n. 189 del 2022, con la quale si è confermata la sua radiazione (iscritto al n. 28769\2022 del ruolo generale).
Entrambe le sentenze sono state emesse dal Consiglio Nazionale Forense in data 18.6.2022 e notificate al ricorrente in data 27.10.2022.
8. La Procura generale ha depositato conclusioni scritte con le quali chiede il rigetto di entrambi i ricorsi.
9. L’intimato Consiglio dell’ordine territoriale non ha compiuto attività difensiva in questa sede.
10. Chiamate entrambe le cause all’udienza pubblica del 23 maggio 2023, si è disposta la riunione del secondo ricorso, r.g. 28769, proposto avverso la seconda sentenza (n.189\2022), a quello recante r.g. 28767\2022, proposto contro la prima sentenza (n.187\2022) ed iscritto a ruolo per primo, ai sensi dell’art. 274, secondo comma, cod. proc. civ., stante la connessione sia soggettiva che oggettiva tra le cause, relative a provvedimenti disciplinari irrogati nei confronti di uno stesso professionista, definiti in sede di impugnazione dal CNF nell’ambito della stessa udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso n. 28767\2022 avverso la sentenza n. 187\2022
1.Con il primo motivo del ricorso avverso la sentenza n. 187, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 591 c.p.p., sostenendo che la declaratoria di inammissibilità del proprio ricorso avverso il provvedimento di cancellazione avrebbe dovuto comportare la stabilità degli effetti della sua cancellazione dall’Albo a partire dal passaggio in giudicato del provvedimento del COA di Agrigento, 14 aprile 2021, o, in subordine, dalla data della propria rinuncia all’impugnazione, 18 maggio 2022, e non, in ogni caso, contrariamente a quanto affermato dal CNF, dalla data della sentenza.
2. Con il secondo motivo, si denuncia l’eccesso di potere in cui sarebbe incorso il CNF, in quanto a fronte della rinuncia all’impugnazione e alla stessa inesistenza dell’impugnazione, non avrebbe potuto ritenere il ricorrente validamente iscritto fino al 18 giugno 2022.
3. Con il terzo motivo denuncia “la violazione degli artt. della Costituzione italiana che garantiscono il diritto di difesa, a partire dall’art. 27, nonché l’art. 1 della legge n. 247 \12, che sancisce il rispetto dei principi costituzionali e comunitari, e quindi sempre il diritto di difesa”. Sostiene il ricorrente che, giacché era stato già cancellato in via definitiva dall’albo degli avvocati, non aveva alcun titolo neanche per comparire e difendersi all’udienza del 18.6.2022, ove, in assenza di alcuna difesa, si è disposta la sua radiazione dall’albo.
Il ricorso n. 28769\2022 avverso la sentenza n. 189 del 2022
Con il primo motivo, il ricorrente formula una censura di eccesso di potere, ritenendo che il CNF, allorchè ha pronunciato la sentenza n. 189 del 2022, fosse ormai privo del potere di disporre sanzioni nei suoi confronti, non risultando più il dott. Arnone iscritto ad alcun albo forense nel momento in cui veniva giudicato: la cancellazione dall’albo era divenuta definitiva il 14 aprile 2021, o alla data della rinuncia all’impugnazione, 18 maggio 2022, o, al più, in pari data a quella del giudizio sulla radiazione dinanzi al CNF, ma prima che fosse esaminato il ricorso relativo alla radiazione.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione della legge n. 247 del 2012, nella parte in cui si sottopone ai poteri del CNF la situazione di un soggetto già cancellato dall’albo professionale.
Con il terzo motivo denuncia “la violazione degli artt. della Costituzione italiana che garantiscono il diritto di difesa, a partire dall’art. 27, nonché l’art. 1 della legge n. 247 \12, che sancisce il rispetto dei principi costituzionali e comunitari, e quindi sempre il diritto di difesa”. Aggiunge che le predette norme sono state violate perché il dott. Arnone, già cancellato in via definitiva dall’albo degli Avvocati, non aveva alcun titolo neanche per comparire e difendersi all’udienza del 18.6.2022, ove in assenza di alcuna difesa, si è confermata la sua radiazione.
All’esito della pubblica udienza del 23 maggio 2023 si è disposta la riunione delle due cause, cui invero ben avrebbe dovuto provvedere il Giudice del merito disciplinare, in quanto non soltanto si tratta di decisioni disciplinari nei confronti di un medesimo professionista, ma esiste una stretta connessione oggettiva, enfatizzata, nella sua rilevanza, dalla complessiva linea difensiva adottata dal ricorrente: il dott. Arnone sostiene che, avendo rinunciato ad impugnare il provvedimento di cancellazione in data 15 maggio 2022, con rinuncia inserita nel procedimento definito con sentenza del CNF n. 187 del 2022, il ricorso con cui si impugnava la radiazione non avrebbe dovuto essere neppure fissato nè tanto meno esaminato nel merito dal CNF. Invece, malgrado tale rinuncia, il Consiglio Nazionale Forense riteneva di fissare nella medesima udienza del 18 giorno 2022 la discussione in ordine sia al ricorso avverso la cancellazione sia la discussione dell’altro ricorso, avverso il provvedimento di radiazione.
Il ricorrente evidenzia che, avendo rinunziato all’impugnazione avverso la cancellazione, non risultava più iscritto all’albo professionale nel momento in cui si è discussa la sua radiazione, e non aveva più alcun titolo neanche per poter presenziare all’udienza, non essendo più iscritto all’albo forense.
Per cui, sostiene il ricorrente che il procedimento avente ad oggetto la radiazione doveva essere dichiarato estinto, quanto meno perché la decisione relativa alla cancellazione, come comprova il numero progressivo 187 della relativa sentenza, era stata adottata prima della decisione in merito alla radiazione (che porta il numero progressivo 189), e nella prima decisione si riportavano le due circostanze sopra indicate, ovvero la rinuncia alla impugnazione e l’impugnazione sottoscritta da parte di difensore non abilitato.
Da questa premessa si dipartono le tre censure contenute e brevemente illustrate nei ricorsi.
Ciò premesso, i motivi di cui al ricorso n. 28769\2022, che devono logicamente essere esaminati per primi, sono infondati.
Il rapporto tra la cancellazione dall’albo, sia essa volontaria o officiosa e i procedimenti disciplinari a carico degli avvocati è regolato dalla attuale legge professionale nel senso che una volta avviati i prodromi di un procedimento disciplinare, esso debba andare avanti e non possa essere evitato a mezzo di una eventuale cancellazione dall’albo, che, comunque, nelle more non può essere disposta.
L’art. 57 della legge n.247 del 2012 (denominato “divieto di cancellazione”) dispone infatti che durante lo svolgimento del procedimento disciplinare, dal giorno dell’invio degli atti al consiglio di disciplina (quindi da un momento ancora antecedente rispetto all’apertura vera e propria del procedimento disciplinare) non può più essere deliberata la cancellazione dall’albo dell’incolpato; l’art. 17, 16° comma, prevede che non si può pronunciare la cancellazione quando sia in corso un procedimento disciplinare, salvo quanto previsto dall’art. 58.
L’attuale disciplina professionale si pone in sostanziale continuità con la precedente, in quanto già l’art.37, comma 8, del R.d.l. n. 1578 del 1933 poneva il divieto di pronunciare la cancellazione dall’albo degli avvocati, anche nel caso di richiesta di cancellazione volontaria, qualora fosse in corso, a carico dell’avvocato, un procedimento penale o disciplinare, sicché l’istanza dell’interessato non avrebbe avuto effetto sospensivo del giudizio relativo alla radiazione (v. Cass. Sez. U. 2015 n.15574); essa sposta però ad un momento antecedente rispetto al momento della apertura vera e propria del procedimento disciplinare il divieto di cancellazione.
La disposta cancellazione non spiegava quindi alcuna efficacia sospensiva o interruttiva del distinto procedimento disciplinare relativo alla radiazione, né tanto meno determinava la cessazione della materia del contendere in relazione a quest’ultimo.
Si aggiunga che, quanto alla dedotta stabilità o definitività ormai assunta dal provvedimento sulla cancellazione, esso era ancora soggetto ad impugnazione, tant’è che è stato impugnato dallo stesso ricorrente con il ricorso che ha preso il numero di ruolo n. 28767\2022.
Il rigetto del ricorso sulla radiazione e la conseguente definitività del provvedimento di radiazione del dott. Arnone dall’albo degli avvocati produce l’assorbimento dei motivi di ricorso relativi alla cancellazione dall’albo dello stesso dott. Arnone, dedotti con il ricorso n. 28767\2022.
Nulla sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.
I ricorsi riuniti sono stati proposti in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte, giudicando sui procedimenti riuniti, dispone il rigetto dei motivi di cui al ricorso n. 28769\2022 del ruolo generale, dichiara assorbiti i motivi di cui al n. 28767\2022 del ruolo generale.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 23
Allegati:
SS.UU, 07 agosto 2023, n. 23990, in tema di illecito disciplinare
In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20678
Civile Ord. Sez. U Num. 20678 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 17/07/2023
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25395/2022 R.G. proposto da:
A.T.I. COSTRUZIONI NICODEMO N. E FIGLI S.N.C. E CO.GE.NI. DI NICODEMO VITO & NICOLA S.N.C., COSTRUZIONI NICODEMO N. & FIGLI – S.N.C., “CO.GE.NI” DI NICODEMO VITO & NICOLA – S.N.C., rappresentati e difesi dall’avvocato FRASSO ROMOLO, che li rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
COMUNE DI SAN CIPRIANO PICENTINO, rappresentato e difeso dagli avvocati LENTINI LORENZO, FERRENTINO FELICIANA
-controricorrente-
per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio pendente davanti al Tribunale ordinario di Salerno, iscritto al RG N. 8924/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/05/2023 dal Consigliere Antonio Scarpa;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Mauro Vitiello, che ha chiesto di dichiarare la giurisdizione del giudice amministrativo;
letta la memoria ex artt. 380-ter e 380-bis.1. c.p.c. depositata dalle ricorrenti.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con citazione del 23 giugno 2020, le società Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., nonché l’A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., hanno convenuto il Comune di San Cipriano Picentino dinanzi al Tribunale di Salerno, domandando in via principale di dichiarare risolta per inadempimento del Comune di San Cipriano Picentino la convenzione n. 651/2002 del 30 ottobre 2002, stipulata a norma dell’art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, avente ad oggetto la realizzazione di 74 alloggi di edilizia residenziale pubblica in aree localizzate a norma dell’art. 51 della medesima legge citata, con impegno dell’A.T.I. di procedere per conto del Comune agli espropri per l‘acquisizione delle aree necessarie e la cessione del diritto di superficie al medesimo soggetto attuatore del programma.
Le attrici, nel domandare la risoluzione della indicata convenzione e di ogni altro rapporto contrattuale instaurato con il Comune, chiedevano altresì di disapplicare la delibera comunale n. 6 del 25 febbraio 2008, che aveva “travolto gli atti amministrativi inerenti la realizzazione del programmato intervento”. In citazione si spiegava che il Comune di San Cipriano Picentino si era determinato con tale delibera a revocare la convenzione del 2002 e la localizzazione dell’area destinata alla realizzazione del programma edilizio alla luce delle contestazioni della Regione Campania sulla possibile decadenza dal contributo di finanziamento correlata alla modifica della ragione sociale del soggetto attuatore, determinatasi con la costituzione dell’A.T.I. Costruzioni Nicodemo Nicola e figli S.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito & Nicola S.n.c. Società Consortile a r.l. e la corrispondente “voltura della convenzione” approvata il 5 maggio 2005. Era poi tuttavia intervenuta la “nota chiarificatrice della Regione Campania” del 22 maggio 2008, con la quale veniva specificato che permanesse il finanziamento regionale in capo alla A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & figli s.n.c. – CO.GE.NI. s.n.c., purché la stessa restasse titolare dell’area ad essa assegnata dal Comune di S. Cipriano Picentino. Le attrici chiedevano dunque, risolta la convenzione e disapplicata la delibera comunale n. 6 del 25 febbraio 2008, di accertare il loro diritto a conseguire la somma di € 1.096.041,05, oltre accessori, pari al prezzo d’acquisto dell’area inizialmente destinata all’attuazione del programma di edilizia residenziale pubblica, essendo venuta meno la causa del pagamento. Sempre in via principale, le attrici domandavano il risarcimento dei danni e di dichiarare la “invalidità della convenzione e dell’intero rapporto contrattuale”.
Facevano seguito domande in via subordinata volte alla restituzione dei terreni, al pagamento dell’indennizzo per la diminuzione del valore degli immobili dipendente dal mutamento di destinazione degli stessi, al trasferimento in proprietà degli stessi, all’accertamento del legittimo affidamento insorto in capo alle attrici; in via ulteriormente subordinata si agiva per la ripetizione dell’indebito oggettivo “e/o” l’arricchimento indebito conseguito dal Comune.
2. In sede di costituzione davanti all’adito Tribunale di Salerno, il Comune di San Cipriano Picentino ha evidenziato che con le delibere comunali nn. 5 e 6 del 2008 erano state revocate, rispettivamente, la variante al P.U.C. per la localizzazione del programma costruttivo oggetto di causa, ai sensi dell’art. 51 legge n. 865 del 1971, disposta nel 2001 per la realizzazione dei 74 alloggi di E.R.P., e poi la delibera n. 45/2001, dichiarando l’inefficacia della convenzione rep. 651/2002. Più di recente, con delibera di Giunta del 9 febbraio 2016 è poi stato approvato un nuovo Piano Strutturale e Programmatico del PUC, in forza del quale l’area controversa non riveste più natura edificabile. La difesa del Comune convenuto ha anche evidenziato che l’ATI concessionaria aveva impugnato davanti al T.A.R. di Salerno sia le delibere n. 5/2008 e n. 6/2008 di revoca della localizzazione e di inefficacia della convenzione del 2002, sia la delibera consiliare n. 2/2008 di adozione del PUC, giudizi andati perenti dopo il diniego della sospensiva, dal che discenderebbe la definitiva inefficacia ed invalidità della convenzione rep 651/2002. Anche l’approvazione del PUC recante la diversa destinazione urbanistica dell’area era stata impugnata con esito negativo davanti al T.A.R. Salerno. Il Comune di San Cipriano Picentino ha pertanto eccepito il difetto di giurisdizione dell’adito Tribunale, trattandosi di controversia riservata alla cognizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133 comma 1 lett. a) n. 2 c.p.a.
3. Con ordinanza del 16 gennaio 2022 il Tribunale di Salerno, ritenuta l’eccezione di difetto di giurisdizione “prima facie, non destituita di fondamento”, ha rinviato la causa per le conclusioni all’udienza del 9 novembre 2022.
4. Le società Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., nonché l’A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c. hanno proposto con atto notificato il 27 ottobre 2022 regolamento di giurisdizione, deducendo che la causa ha un contenuto meramente patrimoniale, non pone in discussione alcun esercizio di potere discrezionale della P.A., inerendo ad una fase addirittura successiva a quella dell’esecuzione della convenzione, e solleva piuttosto profili risarcitori e restitutori. In altri termini, secondo le ricorrenti, “la vicenda di cui trattasi involge profili prettamente civilistici inerenti la risoluzione della convenzione rep. n. 651/02 del 30.10.2002, stipulata col Comune di San Cipriano Picentino, sia per inadempimento della P.A., sia per sopravvenuta carenza della causa in concreto, che per sopravvenuto illegittimo arricchimento della P.A.”, rientranti, perciò, nella giurisdizione del giudice ordinario.
5. Il Comune di San Cipriano Picentino replica che, “trattandosi di concessione di beni pubblici, le controversie che hanno ad oggetto questioni di risoluzione, risarcimento danni ovvero restitutorie afferenti il rapporto convenzionale (come quelle in esame relative ad asserite violazione degli obblighi contrattuali) rientrano nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo anche in assenza di atti/provvedimenti della PA, indipendentemente dalla natura delle posizioni giuridiche dedotte ai sensi dell’art. 133 co 1 lett. b) D. Lgs. 104/2010”. Ad identica conclusione il controricorrente perviene osservando che “la convenzione di localizzazione e realizzazione di un intervento di ERP ai sensi dell’art. 28 L. 1150/1942 e dell’art. 35 L 865/1971, prima di tutto, rientra nel modulo delle convenzioni urbanistiche in quanto concernente l’uso del territorio e l’esercizio delle connesse funzioni pubblicistiche, con conseguente giurisdizione esclusiva del GA ai sensi dell’art. 133 co. 1 lett. f) cpa. La convenzione ex art. 35 L 865/1971, ancora, risponde al paradigma degli accordi amministrativi di cui all’artt. 11 L. 241/1990; le relative controversie comprese quelle sulla esecuzione/inadempimento degli obblighi contrattuali (come quella per cui è causa) sono riservate alla giurisdizione esclusiva del GA ai sensi dell’art. 133 co. 1 lett. b) cpa”.
6. Il ricorso per regolamento di giurisdizione è ammissibile, in quanto proposto prima che il giudice di primo grado abbia definito il giudizio dinanzi a sé, ancorché dagli stessi soggetti che hanno instaurato il giudizio di merito, sussistendo, in ragione dell’eccezione del convenuto, un interesse concreto ed immediato alla risoluzione della questione da parte delle Sezioni Unite, in via definitiva ed immodificabile (arg. da Cass. Sez. Unite n. 15122 del 2022).
7. La statuizione cui sono chiamate queste Sezioni Unite, al fine di individuare il giudice fornito di potere giurisdizionale in relazione alla concreta controversia, comporta l’esame diretto degli atti e delle risultanze processuali, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari per la soluzione della questione.
La decisione sulla giurisdizione è peraltro determinata dall’oggetto della domanda espressamente proposta in via principale (come di regola in ipotesi di proposizione di plurime domande legate da nesso di subordinazione: ex multis, Cass. Sez. Unite, n. 21165 del 2021).
8. La domanda proposta in via principale nella citazione del 23 giugno 2020 notificata al Comune di San Cipriano Picentino dalla Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c., dalla CO.GE.NI di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c. e dall’A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., è volta alla dichiarazione di risoluzione per inadempimento, o per carenza sopravvenuta della causa contrattuale, della convenzione n. 651/2002 del 30 ottobre 2002, stipulata a norma dell’art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, avente ad oggetto la realizzazione di 74 alloggi di edilizia residenziale pubblica in aree localizzate a norma dell’art. 51 della medesima legge citata.
L’esposizione dei fatti e degli elementi costituenti le ragioni di diritto contenuta nella citazione introduttiva individua l’inadempimento del Comune nell’aver “travolto l’intero rapporto contrattuale …
sull’erroneo presupposto della nota regionale prot. 0401075 del 04.05.2007, assolutamente superata da quella prot. n. 2008.0439688 del 22.05.2008” e così “negato la realizzazione dell’intervento edilizio … opponendo il rilievo di una presunta decadenza del finanziamento regionale – per cambio ragione sociale”. L’inadempimento addebitabile dalle attrici al Comune convenuto sarebbe consistito in plurime condotte, quali, in particolare: a) le delibere comunali n. 5 e n. 6 del 25 febbraio 2008, che avevano l’una revocato la variante del PRG adottata nel 2000 per la localizzazione del programma di edilizia residenziale pubblica ex art. 51, legge n. 865 del 1971, inerente alla realizzazione dei 74 alloggi in località Filetta, l’altra dichiarato la sopravvenuta inefficacia ed invalidità della concessione del diritto di superficie di cui all’atto 651/02 del 30 ottobre 2002, nonché del successivo atto aggiuntivo n. 727/05 del 5 maggio 2005; b) aver violato, con la sopravvenuta destinazione urbanistica a “zona E”, l’art. 3 della convenzione, che obbligava il Comune a non assoggettare le aree oggetto di intervento, da acquisire mediante espropriazione per pubblica utilità, a limitazioni ed a diritti a favore di terzi incompatibili con il diritto di superficie concesso”; c) aver violato l’art. 18 della convenzione, che non prevedeva fra le ipotesi di decadenza della cessione in diritto di superficie, la decadenza dal finanziamento regionale; d) non aver proceduto al rilascio del permesso di costruire.
Tali condotte del Comune di San Cipriano Picentino avrebbero altrimenti comunque provocato il venir meno della causa contrattuale.
9. La controversia in esame attiene, dunque, all’adempimento degli obblighi derivanti per l’ente concedente e per il soggetto richiedente da una convenzione stipulata ai sensi della normativa che regola le espropriazioni e la successiva assegnazione delle aree da destinare ad edilizia economica e popolare (già contenuta nell’art. 10 della legge n. 167 del 1962, poi sostituito dall’art. 35 della legge n. 865 del 1971), in base alla localizzazione dei programmi costruttivi stabilita dall’amministrazione comunale (art. 51 della legge n. 865 del 1971), e consistente nella concessione del diritto di superficie per la costruzione degli alloggi e dei relativi servizi.
Le attrici invocano l’estinzione della convenzione stipulata con l’amministrazione comunale, e quindi la ripetizione dei pagamenti eseguiti, sul presupposto del determinante accertamento della illegittimità delle manifestazioni di volontà con le quali il Comune di San Cipriano Picentino è intervenuto sull’oggetto delle aree concesse in diritto di superficie, avendo dapprima impedito, con le delibere n. 5 e n. 6 del 25 febbraio 2008, la iniziale localizzazione del programma di edilizia residenziale pubblica, il quale avrebbe consentito alla concessionaria la realizzazione dei 74 alloggi in località Filetta, e poi immutato la destinazione urbanistica delle medesime aree, così frustrando la realizzabilità del contratto 651/02 del 30 ottobre 2002.
10. E’ stato precisato dalla giurisprudenza di questa Corte (essenzialmente Sez. Unite, sentenza n. 7573 del 2009; si vedano però anche le sentenze n. 20419 del 2016 e n. 5423 del 2021) che la convenzione per la concessione del diritto di superficie ai sensi dell’art. 35 della legge n. 965 del 1971 non costituisce un atto autonomo rispetto alla deliberazione comunale con la quale l’ente manifesta la volontà di concedere l’area e detta le relative condizioni, ma viene, con essa, ad integrare una fattispecie complessa di concessione amministrativa, di tal che si costituisce, tra concedente e concessionario, un rapporto unitario. Tale convenzione, stipulata ai sensi della normativa sull’edilizia economica e popolare, ha quindi natura di contratto di diritto pubblico che, accessivo alle determinazioni autoritative della P.A., dà vita, dunque, a una concessione amministrativa complessa.
11. Sussiste, pertanto, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ex art. 113, lettera a) n. 2, c.p.c., in tema di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo, essendo messa in discussione, sia pure in forma di domanda di risoluzione dell’accordo per inadempimento della p.a. e di condanna della stessa al risarcimento dei danni, la legittimità di deliberazioni comunali incidenti sul contenuto della concessione e della convenzione che vi accede (si vedano anche Sez. Unite, ordinanza n. 11713 del 2023; sentenza n. 12186 del 2007; ordinanze n. 5923 del 2011; n. 732 del 2005).
In particolare, le delibere dell’amministrazione comunale di San Cipriano Picentino n. 5 e n. 6 del 25 febbraio 2008, cui le ricorrenti riconducono la causa della mancata esecuzione della convenzione 651/02 del 30 ottobre 2002, concernono la formazione dei piani di zona per gli interventi di edilizia residenziale pubblica e la procedura di localizzazione ex art. 51 della legge n. 865 del 1971, il potere di adottare varianti rispetto al piano adottato nel 2000 (cfr. Sez. Unite, sentenza n. 1314 del 1990), la potestà del Comune di sciogliere l’accordo sostitutivo del provvedimento in materia di edilizia residenziale per sopravvenuti motivi di pubblico interesse o esigenze urbanistiche, o di revocare la convenzione per violazione degli obblighi ivi stabiliti con detta convenzione, ovvero comunque atti di esercizio di poteri autoritativi da parte dell’ente destinati a realizzare la finalità pubblicistica cui è diretta l’assegnazione in superficie delle aree vincolate alla costruzione degli alloggi.
11. Va quindi dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, dinanzi al quale le parti devono essere rimesse anche per la liquidazione delle spese del giudizio di regolamento.
P.Q.M.
La Corte dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo, dinanzi al quale rimette le parti anche per la liquidazione delle spese del regolamento preventivo di giurisdizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20678, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di illecito disciplinare – SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20650
Civile Sent. Sez. U Num. 20650 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 17/07/2023
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 29360/2022 R.G. proposto da:
NENNA MAURIZIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE GORIZIA 14, presso lo studio dell’avvocato SINAGRA AUGUSTO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MINISCI LORENZO
-ricorrente-
contro
CONSIGLIO ORDINE AVVOCATI di ROMA
-intimato-
avverso la SENTENZA del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE n. 240/2022 depositata il 03/12/2022.
Viste le conclusioni motivate, ai sensi dell’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni nella legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile a norma dell’art. 8, comma 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito con modificazioni nella legge 24 febbraio 2023, n. 14), formulate dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale FRANCESCO SALZANO.
Udita la relazione svolta nell’udienza del 23/05/2023 dal Consigliere ANTONIO SCARPA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale FRANCESCO SALZANO, il quale ha chiesto di rigettare il ricorso;
udito l’Avvocato AUGUSTO SINAGRA.
FATTI DI CAUSA
1. L’avvocato Maurizio Nenna ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 240/2022 del Consiglio Nazionale Forense, pubblicata il 3 dicembre 2022.
L’intimato Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma non ha svolto attività difensive.
2. Il Consiglio Nazionale Forense ha respinto il ricorso presentato dall’avvocato Maurizio Nenna contro la decisione n. 102/2019, emessa in data 30 ottobre -19 dicembre 2019, dal Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense (CDD) del distretto della Corte d’appello di Roma, che gli ha inflitto la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione forense per mesi venti.
3. In data 7 marzo 2013 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati (COA) di Roma deliberò l’apertura del procedimento disciplinare nei confronti del ricorrente avvocato Maurizio Nenna con i seguenti capi di incolpazione:
“1) per avere, nel processo penale n. 35222/07 N.R., l’Avv. Maurizio Nenna, difensore di fiducia dell’imputato Ing. Pompei Eugenio, per il reato di bancarotta fraudolenta, rinunziato al mandato nel giugno 2008, in prossimità della data fissata per l’Udienza Preliminare, dopo aver incassato due acconti dal Sig. POMPEI (il primo in data 9 maggio 2008, seguito dall’altro in data 23 maggio 2008). In questo modo, l’Avv. NENNA, anziché formalizzare la propria rinunzia al mandato con congruo anticipo rispetto all’udienza, impediva all’imputato di organizzare ai meglio la propria difesa, attraverso la nomina di altro difensore, In violazione dell’art.47 del Codice Deontologico Forense (ora art. 32 NCDF). In Roma, nel giugno 2008 (prescrizione ripetutamente interrotta).
2) Per aver – con le condotte di tempo e di luogo descritte nei capi d’imputazione penale che seguono e parzialmente accertate con sentenza del Tribunale penale monocratico di Roma II sezione emessa il 28.5.2014 n.9747 con la quale, per i reati di cui ai capi d’imputazione “a”-“b”-“d”-“e”-, riportava condanna alla pena di anni uno e mesi sette di reclusione (assolto ex art. 530/2° CPP per i capi “c”-“f”) – leso le prerogative e le funzioni dell’Ordine Forense nonché la dignità e decoro professionale in violazione dell’art. 38 /1° c. RDL n.1578/1933 (ora art. 3/2°c. L.247/12) nonché ulteriormente violato gli artt. 3-5/1° inciso e I^ c.-6-7-35-41-44 previgente CDF (ora rispettivamente artt. 4/1-2°c-9-10-11/2°c. -30/1° e 2° c.-31 NCDF). Con l’aggravante della particolare gravità delle condotte ex art. 2/II° c. previgente CDF (ora art.22/2°c. NCDF).
“ a) per i reati di cui agli artt. 81, 646, 61 n.7 e n.11 c.p. perché in esecuzione di un medesimo disegno criminoso con i reati di cui ai capi che seguono, al fine di procurare a sé un ingiusto profitto, si appropriava della somma di euro 21.500,00 della quale aveva il possesso in qualità di legale della Meta Corsi S.r.l. e che gli era stata fatta pervenire mediante bonifico bancario da Eugenio Pompei, Amministratore della Meta Corsi al fine di versarla alla Banca MPS Gestioni Crediti Banca Spa, quale importo per la transazione con la Banca per la procedura esecutiva relativa al procedimento civile n. R.G. 22223/02.
In Roma in data prossima al 5.5.2006.
b) Per il reato di cui agli artt. 81, 486, 61 n.11 c.p., perché in esecuzione di un medesimo disegno di legge criminoso al fine di procurare a sé un vantaggio, più volte abusava di fogli firmati in bianco da Pompei Eugenio, amministratore della Meta Corsi S.r.l., firme rilasciate nell’ambito dell’attività professionale da lui svolta come legale di Pompei e della Meta Corsi ai fini di corrispondenza, in particolare:
– vi iscriveva una scrittura privata di riconoscimento di debito pari ad euro 123.616,00 al lordo dell’acconto di euro 21.500,00 versato, con imputazione della somma di euro 21.500,00 (di cui al capo A) versata da Pompei per accedere ad una transazione a pagamento di prestazioni professionali recante la data del 29 marzo 2007;
– vi iscriveva una scrittura privata di riconoscimento di debito, in cui sollevava l’Avv. NENNA da ogni responsabilità riconoscendo la correttezza del suo operato recante data del 5 giugno 2008;
– vi iscriveva una scrittura privata di riconoscimento di debito in cui sollevava l’Avv. NENNA da ogni responsabilità riconoscendo la correttezza del suo operato recante la data del 31 agosto 2008.
Tutti atti, in particolare quello con data riportata del 29 marzo 2007, erano successivamente utilizzati per ottenere l’emissione nei confronti del POMPEI Eugenio del decreto ingiuntivo n.12088/07 dei Tribunale di Roma.
In Roma, in data anteriore e prossima al 20 aprile 2007 in cui veniva richiesto il decreto ingiuntivo.
c) Per i reati p. e p. dagli artt. 81, 485, 61 n.11 c.p., perché in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, al fine di procurare a sé un vantaggio, formava un atto falso avente ad oggetto la rinuncia alla procedura esecutiva instaurata dalla MPS Gestione Crediti Banca S.p.A. nei confronti di Eugenio POMPEI e recante firma dell’Avv. Massimo Luconi, facendone uso mediante invio, a mezzo posta, ad Eugenio Pompei.
In Roma, 6 novembre 2006.
d) Per i reati p. e p. dagli artt. 81 e 380 c.p., perché in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, si rendeva infedele ai suoi doveri professionali, intervenendo personalmente (quale creditore) nella procedura esecutiva n.181/06 incardinata dinanzi al Tribunale di Roma, Sezione esecuzioni immobiliari nei confronti di Eugenio POMPEI, arrecando così danno a quest’ultimo in quanto da lui assistito innanzi alla medesima Autorità e nel medesimo procedimento.
In Roma 31.7.2007.
e) Per i reati di cui all’art 368 c.p. perché con più atti di querela inviati per raccomandata presso la Procura di Roma, di cui il primo datato 16 luglio 2008, poi 2 agosto 2008, 8 settembre 2008, 16 settembre, 21 febbraio 2009, 2 marzo 2009, accusava ingiustamente, pur sapendolo innocente, il suo ex cliente (e controparte nel procedimento esecutivo in cui si era insinuato) POMPEI Eugenio di calunnia in relazione alle denunce che Pompei aveva presentato nei suoi confronti, tanto da far iniziate un procedimento penale nei confronti di POMPEI.
In Roma, alle date suindicate.
f) Per i reati p. e p. dagli artt. 110, 81 e 381 c.p. perché in concorso tra loro, nella procedura esecutiva n.181/06 incardinata dinanzi al Tribunale di Roma sezione esecuzioni Immobiliari nei confronti di Eugenio POMPEI, facevano in modo che l’Avv. NENNA prestasse contemporaneamente per il tramite dell’Avv. Stefania Giacchero, sua collaboratrice di studio, il suo patrocinio a favore di parte contraria nel medesimo procedimento. In particolare, l’Avv. NENNA prestava attività di patrocinatore di POMPEI nel giudizio civile di cognizione (opposizione a decreto ingiuntivo della banca MPS), seguendolo anche nella fase transattiva volta alla definizione extraprocessuale della causa, fino alla revoca del mandato in data 12 giugno 2008, in sede di procedura esecutiva promossa dalla Banca MPS, mentre la sua collaboratrice di studio praticante legale, Dott. Stefania Giacchero patrocinava l’interveniente Giulio Palumbo, nella medesima procedura esecutiva, redigendo in data 21 giugno 2007 atto di intervento.
In Roma nella data indicata dell’atto di rinuncia”.
Condanna parzialmente riformata dalla Corte di Appello sez. III^ penale in data 18.10.2016 n. 8464 per intervenuta prescrizione per il capo “a” (con conferma delle statuizioni civili e quindi della responsabilità penale), intervenuta depenalizzazione per il capo “b” (confermata declaratoria di falsità delle scritture), assolto per il capo “d”, confermata assoluzione per i capi “c”-“f”, confermata condanna per il capo “e”, con rimodulazione della pena in anni uno e mesi quattro di reclusione oltre ad una provvisionale provvisoriamente esecutiva in favore della parte offesa pari ad € 20 mila. Sentenza divenuta irrevocabile in data 19.9.2017 a seguito di declaratoria di inammissibilità da parte della Corte di Cessazione Sez. VI^ penale n. 49725”.
4. La sentenza impugnata espone che il procedimento disciplinare fu originato da un esposto presentato al COA di Roma in data 13 ottobre 2011 da Eugenio Pompei, il quale riferì di aver sporto denuncia penale nei confronti dell’avvocato Nenna, suo ex difensore di fiducia, accusandolo di una pluralità di condotte illecite, poi oggetto del procedimento penale n. 35507/08, definito con le sentenze richiamate.
Il COA di Roma emise atto di citazione a giudizio il 12 febbraio 2014 per l’udienza del 5 giugno 2014. Il procedimento fu quindi trasmesso all’istituito Consiglio Distrettuale di Disciplina di Roma. Seguì la richiesta di citazione a giudizio, approvata nella seduta del 17 maggio 2019. Alle udienze dibattimentali vennero acquisite le sentenze penali di primo, secondo e terzo grado di giudizio e si procedette all’esame dei testimoni. All’esito dell’udienza del 30 ottobre 2019, il CDD di Roma, rigettata l’eccezione di prescrizione dell’azione disciplinare, ritenne:
– non sussistente l’incolpazione di cui al capo 1);
– non sussistente l’incolpazione di cui al capo 2) limitatamente alla contestazione della violazione dell’art. 31 NCDF, con conseguente non luogo a provvedimento disciplinare in relazione a tali capi di incolpazione;
– sussistenti, in relazione al capo 2) di incolpazione, le violazioni deontologiche di cui agli artt. 4, 9, 10, 11 e 30, commi 1 e 2, del NCDF.
Il CDD inflisse così all’avvocato Nenna la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per mesi venti, ritenendo sussistente la violazione dell’art. 30, commi 1 e 2, nonché la violazione degli artt. 4, 9, 10 e 11 del Codice Deontologico, con l’aggravante di cui all’art. 22, comma 2, lett. c), della legge n. 247 del 2012, per aver l’incolpato, con il suo comportamento, leso il prestigio e l’onore della classe forense, ponendo in essere condotte biasimevoli ed eticamente scorrette.
Le accuse, ad avviso del CDD, avrebbero trovato conferma negli esiti del giudizio penale, nel quale risultavano accertati o acquisiti: l’impossessamento, da parte dell’avvocato Nenna, di una somma di denaro affidatagli dal cliente per la definizione stragiudiziale di una procedura immobiliare; la prova documentale dei bonifici eseguiti dall’ingegnere Pompei nell’anno 2006 sul conto corrente del professionista e recanti la causale “pro quota precetto MPS-Metacorsi” e, dunque, per la conclusione transattiva con l’Istituto Bancario; la circostanza che tale transazione non avesse mai avuto luogo (avendo l’esponente scoperto anni dopo che il versamento non era stato eseguito), ad attestare l’illecita ritenzione delle somme da parte del professionista.
Per il CDD, la tesi sostenuta dall’avvocato Nenna, secondo cui il Pompei ebbe a corrispondere tali somme per pagare prestazioni professionali, non sarebbe stata verosimile, sia per la causale dei bonifici eseguiti dall’esponente, sia perché lo stesso aveva prodotto numerose ricevute di bonifici effettuati al proprio legale e muniti della casuale relativa al pagamento di fatture, quando a tal fine erano stati eseguiti.
Infine, il CDD affermò che l’intervenuta prescrizione in sede penale di alcuni dei reati contestati all’incolpato non aveva incidenza sul procedimento disciplinare e, anzi, il mancato proscioglimento nel merito per assenza di prova evidente di innocenza poteva rilevare come riconoscimento di responsabilità.
L’avvocato Nenna propose ricorso avanti al Consiglio nazionale forense in data 30 dicembre 2019, chiedendo la declaratoria di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione dell’esercizio del potere disciplinare, ovvero di proscioglimento in ordine alle incolpazioni disciplinari sulla base di una diversa valutazione dei fatti rispetto a quella operata in sede penale. Nel dettaglio, il ricorso dedusse: a) la superficialità della decisione in ordine ai fatti di causa, alle correlate questioni giuridiche, ed in particolare ai rapporti correnti tra l’incolpato e l’ingegnere Pompei: b) l’intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare in base al regime introdotto dall’art. 56 della l. n. 247 del 2012, essendo il 2 marzo 2009 la data ultima di consumazione dei contestati presunti illeciti e quindi decorso il termine massimo di sette anni e sei mesi dal fatto; o altrimenti la prescrizione comunque dell’azione disciplinare ai sensi dell’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, in forza dell’operatività sopravvenuta dell’art. 54 della l. n. 247 del 2012 sulla reciproca autonomia tra procedimento disciplinare e penale, che esclude la sospensione necessaria del primo giudizio; c) l’insussistenza degli illeciti disciplinari contestati, essendosi il CDD appiattito sulle risultanze del procedimento penale. In particolare, il Consiglio Distrettuale, quanto al fatto dell’appropriazione indebita, non avrebbe apprezzato il riscontro documentale sulla causale della consegna nel 2006, prima dunque dell’accordo con la MPS, della somma di € 21.500,00, la quale non costituiva l’importo per la transazione con la Banca a definizione della procedura di esecuzione immobiliare, quanto il compenso elargito dal cliente per la difesa nell’azione esecutiva intentata dalla stessa MPS, da detrarre dal maggior credito di € 123.616,00 riconosciuto dall’ingegnere Pompei. Quanto poi all’abuso di fogli in bianco, il Consiglio Distrettuale non avrebbe dato il giusto rilievo alla testimonianza della signora Elena Di Marcantonio, la quale aveva dichiarato che l’ultimo dei tre fogli firmati dal Pompei conteneva una dichiarazione già predisposta e scritta, che richiamava gli altri due fogli. L’intervenuta depenalizzazione avrebbe inoltre sottratto ogni valore di giudicato alla sentenza penale; d) la erroneità dei riferimenti giurisprudenziali contenuti nella decisione impugnata ai fini del regime normativo della prescrizione applicabile; e) l’eccessività della sanzione disciplinare irrogata dal CDD di Roma, alla luce dei criteri dettati dall’art. 21 del Nuovo Codice deontologico forense.
La sentenza n. 240/2022 del Consiglio Nazionale Forense, pubblicata il 3 dicembre 2022, ha dapprima escluso l’applicabilità del regime della prescrizione introdotto dall’art. 56 della l. n. 247 del 2012 alle condotte esauritesi prima della entrata in vigore della nuova disciplina; ha quindi affermato che la condotta consistente nell’illecito trattenimento di somme di competenza del cliente costituisce illecito permanente, mentre l’abuso di fogli in bianco (qui consistito in plurime condotte poste in essere tra il 2007 e il 2008) e la calunnia (qui consistita in plurime condotte poste in essere tra il 2008 e il 2009) costituiscono illeciti istantanei; ha poi evidenziato che la condotta di appropriazione indebita/trattenimento somme di pertinenza del cliente non risultava ancora cessata, stante la mancata restituzione delle somme da parte dell’incolpato, e ciò quantomeno fino al momento della data di emissione della decisione disciplinare (30 ottobre 2019), sicché solo da tale data il termine prescrizionale poteva dirsi decorrente; quanto agli illeciti istantanei di abuso di foglio in bianco e calunnia, consumati tra il 2007 e il 2009, ha invece sostenuto l’applicabilità del regime di cui all’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, decorrendo pertanto la prescrizione disciplinare soltanto dal momento della definizione irrevocabile del processo penale sugli stessi fatti (sentenza della Corte di cassazione del 19 settembre/20 ottobre 2017), prescrizione non verificatasi alla luce della citazione a giudizio del 17 maggio 2019 e del deposito della decisione del CDD del 19 dicembre 2019; ha negato l’operatività dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sul giusto processo in sede di processo disciplinare.
Quanto alla fondatezza delle accuse, la sentenza n. 240/2022 del Consiglio Nazionale Forense ha sottolineato che il fatto della appropriazione indebita della somma di € 21.500,00, consegnata dal cliente per la transazione con la banca MPS nell’ambito del procedimento esecutivo pendente, era stato accertato da sentenza penale passata in giudicato, concretando l’illecito di cui all’art. 30 del codice deontologico forense; il fatto in esame risultava anche dai riscontri documentali compiuti dal CDD (bonifici del Pompei effettuati nel 2006 e causale degli stessi incompatibili con le tesi difensive dell’avvocato Nenna), a nulla valendo in senso contrario il credito per prestazioni professionali vantato dal legale verso il cliente.
Altrettanto in ordine all’abuso del riempimento di documenti in bianco, la sentenza n. 240/2022 ha ricordato che il fatto è stato accertato in sede penale ed ha esaminato, confutandole, le difese inerenti al disconoscimento delle scritture ed alla querela di falso, al decreto ingiuntivo non opposto dal Pompei giacché notificato dall’avvocato Nenna al domicilio eletto (presso la sede della società PBC Service s.r.l. in Roma Via Luigi Ronzoni n. 23, coincidente con l’ufficio del commercialista, padre dell’avvocato Nenna), alla dichiarazione di riconoscimento di debito a firma del Pompei e risultata falsamente compilata, al pagamento da parte dell’avvocato Nenna della provvisionale di € 20.000,00 stabilita in sede penale in favore del Pompei, somma diversa da quella di cui all’appropriazione indebita, alla rilevanza della testimonianza resa dalla signora Di Marcantonio. Circa la depenalizzazione dell’illecito relativo all’abuso di fogli in bianco, la sentenza del Consiglio Nazionale Forense ha rivendicato che la sentenza penale di proscioglimento perché il fatto non costituisce reato non priva di rilievo deontologico il fatto. Così anche quanto alla sentenza penale pronunciata sul reato prescritto di appropriazione indebita, condotta la cui rilevanza disciplinare risultava valutata dal CDD tenendo conto dell’accertato illegittimo trattenimento della somma di € 21.500,00, avendo anche attenzione alla intervenuta condanna per calunnia relativamente a tale circostanza. Ed ancora, sono stati richiamati i principi sulla influenza del giudizio penale ai fini delle valutazioni di competenza del giudice disciplinare. La sentenza ha infine motivato circa la adeguatezza e proporzionalità della sanzione irrogata rispetto alle plurime violazioni deontologiche commesse.
La causa è stata decisa in camera di consiglio procedendo nelle forme di cui all’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile a norma dell’art. 8, comma 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito con modificazioni nella legge 24 febbraio 2023, n. 14), con richiesta di discussione orale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso dell’avvocato Maurizio Nenna avverso la sentenza n. 240/2022 del Consiglio Nazionale Forense si struttura in 57 pagine. A pagina 2 premette che “[l]’impugnata decisione del Consiglio Nazionale Forense merita integrale riforma perché viziata da violazione di legge ed eccesso di potere sotto plurimi aspetti. Introduttivamente ci si riporta integralmente a quanto esposto nel ricorso al Consiglio Nazionale Forense”. Seguono paragrafi numerati da 1 a 26, suddivisi in sottoparagrafi.
2. In punto di esposizione sommaria dei fatti di causa, di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., nella formulazione operante ratione temporis, il ricorso non contiene, invero, una compiuta premessa narrativa distinta ed autonoma, illustrativa delle vicende della lite. Sono tuttavia ritraibili nell’intero contesto dell’atto gli elementi sostanziali e processuali necessari a rendere intellegibili il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia dei giudici di merito, ovvero il thema decidendum del giudizio di legittimità.
3. Non sono state predisposte distinte rubriche introduttive, che indichino i singoli motivi per i quali si chiede la cassazione e le ragioni di censura sussunte in una delle tassative categorie logiche contemplate dall’art. 36, comma 6, della legge n. 247 del 2012, il quale ammette il ricorso avverso le decisioni del CNF alle sezioni unite della Corte di cassazione per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. Il ricorso per cassazione si sostanzia, piuttosto, in una diffusa critica della decisione impugnata, formulata sotto una molteplicità di profili tra loro combinati, lamentando l’ingiustizia della sentenza n. 240/2022 del Consiglio Nazionale Forense e sollecitando un complessivo riesame delle fattispecie sostanziali di merito.
4. In ogni modo, le censure possono così ricostruirsi.
4.1. E’ dapprima criticata la decisione sulla assunta inoperatività nel caso in esame della disciplina della prescrizione dell’azione disciplinare delineata dall’art. 56 della legge n. 247 del 2012, assumendosi che “l’idea della irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative applicata alla fattispecie è totalmente destituita di ogni fondamento, risolvendosi in realtà in una grave violazione di precetti costituzionali che da un canto garantiscono il cosiddetto giusto processo e d’altro canto limitano l’azione legislativa e la correlativa attività interpretativa e applicativa di norme internazionali convenzionali, ove contrastanti con gli obblighi internazionali assunti dallo Stato e come interpretati e applicati dalla correlativa giurisprudenza dell’organismo internazionale preposto (la Corte di Strasburgo), che ne determina la natura, i contenuti e gli effetti”.
4.2. Il ricorrente critica poi “la tesi secondo la quale, pur fuori dall’ambito disciplinare, lo ius superveniens, ancorché più favorevole all’incolpato, non sarebbe applicabile per le condotte antecedenti l’entrata in vigore della nuova disciplina legislativa: idea questa violativa di un consolidato e riconosciuto principio generale di diritto e di diritto penale in particolare”. Segue la “cronologia di tutti i fatti accaduti come ricavabile documentalmente dagli atti del fascicolo disciplinare”, con correzione di alcune date indicate nella sentenza impugnata. All’esito si ribadisce che “il regime dell’azione disciplinare è ora regolato dalla detta legge n. 247 del 2012 e a tale nuovo regime normativo deve farsi riferimento per quanto ora interessa”, con le conseguenti ricadute sul procedimento disciplinare de quo, essendo stato superato il termine massimo dei sette anni e mezzo. Vengono quindi ricordati i precedenti della Corte EDU sulla soggezione degli organi di disciplina degli ordini professionali al principio del “giusto processo” ex art. 6 della Convenzione; analoghe considerazioni sono poi svolte nelle pagine 30 e seguenti di ricorso. Altrimenti, per il ricorrente, pure facendo ancora applicazione dell’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, occorrerebbe considerare che, sempre in forza della sopravvenuta legge di riforma del 2012, la concomitante pendenza del procedimento penale non poteva comportare la sospensione del procedimento disciplinare, “con l’effetto che il termine prescrizionale previgente dei cinque anni decorre indipendentemente dalla concomitante pendenza di un procedimento penale”. Si pone in evidenza che “il giudicato si era formato solo per il supposto reato di calunnia, non per gli altri reati ascritti all’Avv. Maurizio Nenna (dichiarati prescritti o depenalizzati)”. Sulla prescrizione il ricorso torna nelle pagine 36 e seguenti, §§ 20-23, aperti dal titolo “Ancora sulla prescrizione”.
4.3. Nel paragrafo n. 8 (pagina 19 di ricorso) hanno inizio le critiche sulla indebita ritenzione della somma di € 21.500,00, unica condotta per cui potrebbe assumersi, ad ogni effetto, il protrarsi del comportamento violativo. Il ricorso lamenta che la sentenza del Consiglio Nazionale Forense si sarebbe sul punto “appiattita” sulle valutazioni del giudice penale, che però non costituiscono giudicato, essendo su questo fatto di reato intervenuta la prescrizione, priva di valore di accertamento delle condotte. Segue un elenco delle allegazioni difensive non adeguatamente considerate dal Consiglio Nazionale Forense sulle modalità, i tempi e la causale della dazione di tale somma dal Pompei all’avvocato Nenna; analoghe considerazioni vengono poi svolte nelle pagine 27 e seguenti di ricorso. Sono contrastate le argomentazioni della sentenza impugnata sulla decorrenza della prescrizione a fini disciplinari in ipotesi di mancata restituzione delle somme del cliente oggetto di indebita appropriazione da parte dell’avvocato (“l’esercizio del potere disciplinare non avrebbe mai fine e potrebbe essere ripetuto [anche dopo la intervenuta sanzione]; e ogni quanto tempo?!…“).
Nelle pagine 47 e seguenti, §§ 25-26, si torna “conclusivamente alla questione della pretesa appropriazione indebita della somma di 21.500 euro da parte dell’Avv. Maurizio Nenna, con la conseguenza della pretesa permanenza del supposto illecito disciplinare, impeditiva della declaratoria di intervenuta prescrizione del potere disciplinare”, e ciò al fine di ancor più precisare la vicenda civile/esecutiva intercorsa tra l’Avv. Maurizio Nenna e il Signor Eugenio Pompei”. Il ricorrente pone in risalto che è sua intenzione “segnalare come la decisione ora impugnata sia affetta da macroscopico eccesso di potere per erroneità o inesistenza dei suoi presupposti; come anche sia affetta insanabilmente da una diffusa e grave assenza di motivazione sol che si consideri il fatto che, come già detto, per la famosa somma di 21.500 euro l’Avv. Maurizio Nenna aveva rilasciato al Pompei la relativa fattura e la somma imputata a compensi professionali”.
4.4. C’è poi la questione della intervenuta depenalizzazione della fattispecie dell’uso abusivo di foglio firmato in bianco, il cui accertamento spetta pertanto non più al giudice penale, ma al giudice civile, “e nella vicenda che vede protagonista l’Avvocato Maurizio Nenna in sede esecutiva civile contro il Pompei, il giudice non ha mai dichiarato l’uso abusivo di foglio firmato in bianco dal Pompei da parte dell’Avv. Maurizio Nenna” (pagina 27 di ricorso). Detta questione è ripresa nelle pagine 33 e seguenti del ricorso (“[s]ul preteso uso abusivo di foglio firmato in bianco, ci si riporta a quanto prima osservato e ci si riporta alle memorie difensive presentate al Consiglio Distrettuale di Disciplina oltre che al Consiglio Nazionale Forense con il ricorso”); è contestata la conclusione raggiunta dal CNF sulla mancata opposizione al decreto ingiuntivo intimato al Pompei. Il paragrafo 16 del ricorso chiede a questa Corte di rivalutare le deposizioni della teste Elena Di Marcantonio in sede penale e in sede disciplinare: “a nulla rileva l’eccezione che la stessa dichiarando il vero senza alcun condizionamento, riferì che non vedeva il Pompei dal 2006, ben potendo essere – in assenza di qualsiasi contraddittorietà – che fosse stata proprio lei a sottoporre alla firma del Signor Eugenio Pompei e in sua presenza, in data 5 giugno 2008 il preteso foglio ‘firmato in bianco’ e che ‘in bianco’ non era. Che la teste non avesse visto la mano del Pompei vergare il foglio (magari trovandosi arretrata e alle di lui spalle) non significa negare la veridicità di quanto testimoniato; salvo a voler pensare che il Signor Eugenio Pompei non stava firmando nulla ma si stava producendo con un inchino in un gesto reverenziale nei confronti dell’Avvocato Maurizio Nenna…”. a pagina 34, § 17, si aggiunge: “…con la depenalizzazione, il giudice penale non aveva più alcuna competenza e potere di ‘accertare la falsità dei documenti’ ”.
4.5. A pagina 42 e seguenti, § 24, si introduce il profilo dal titolo “La valutazione dei fatti e la determinazione della sanzione”. Ribadendo le lacune valutative imputate alla sentenza impugnata già oggetto delle pagine che precedono, il ricorso osserva che “nel caso presente il Consiglio Nazionale Forense non ha tenuto presenti tali principi e criteri conducenti alla determinazione in concreto della sanzione eventualmente da irrogare, concludendo con la conferma della irrogazione di una sanzione obiettivamente spropositata e sproporzionata che non ha tenuto conto alcuno di quelle circostanze, oggettive e soggettive, e né del generale ‘contesto’ di svolgimento dei fatti (costituenti poi oggetto di incolpazione) di cui all’art. 21 del Codice deontologico”.
4.6. Il ricorso si chiude con una istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, adducendo ragioni di salute e familiari.
5. Il Collegio può dare risposta alle critiche sin qui riassunte nei limiti in cui appaia quanto meno soddisfatta l’esigenza di una chiara esposizione delle relative ragioni e le censure consentano di individuare il vizio dedotto e la norma o il principio di diritto che si assume violato, in maniera da sussumere le stesse in una delle categorie logiche contemplate dall’art. 36, comma 6, della legge n. 247 del 2012.
5.1. In ordine al regime della prescrizione, la sentenza impugnata ha deciso la questione di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per mutare tale orientamento.
5.1.1. In tema di illecito disciplinare degli avvocati, il regime più favorevole di prescrizione introdotto dall’art. 56 della legge n. 247 del 2012, il quale prevede un termine massimo di prescrizione dell’azione disciplinare di sette anni e sei mesi, non trova applicazione con riguardo agli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore; per le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense non rileva, dunque, lo “jus superveniens” attinente alla disciplina della prescrizione, seppure più favorevole all’incolpato. Il momento di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione applicabile, nel caso di illecito punibile solo in sede disciplinare, rimane così quello della commissione del fatto o della cessazione della sua permanenza, e non quello della incolpazione (Cass. Sez. Unite, sentenze n. 9543 e n. 8558 del 2023; n. 37550, n. 35461 e n. 20383 del 2021; n. 23746 del 2020; n. 9558 del 2018; n. 14905 del 2015).
5.1.2. La questione può porsi in relazione all’art. 7 (e non all’art. 6, più volte invocato dal ricorrente) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, interpretato alla luce della sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo del 17 settembre 2009 (ric. n. 10249/03, Scoppola contro Italia), secondo cui «l’art. 7 della Convenzione, che stabilisce il principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale, incorpora anche il corollario del diritto dell’accusato al trattamento più lieve».
5.1.3. La giurisprudenza della Corte EDU ha sovente affermato che il principio di retroattività della lex mitior riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, e non anche le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perché si produca l’effetto estintivo del reato, considerando le disposizioni in materia di prescrizione come norme processuali, che pongono una semplice condizione preliminare affinché la causa sia esaminata (ad esempio, Previti c. Italia, dec., n. 1845/08, 12 febbraio 2013, § 80; Borcea c. Romania dec., n. 55959/14, 22 settembre 2015, § 64).
5.1.4. La Corte costituzionale, tuttavia, considera che la prescrizione, nel nostro ordinamento giuridico, costituisce un istituto di natura sostanziale «che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena», sicché «rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. con formula di particolare ampiezza» (sentenze n. 278 del 2020, n. 115 del 2018, n. 265 del 2017, n. 324 del 2008, n. 393 del 2006 e ordinanza n. 24 del 2017). Il rispetto del principio di legalità implica la non retroattività della norma di legge che, fissando la durata del tempo di prescrizione dei reati, ne allunghi il decorso ampliando in peius la perseguibilità del fatto commesso. Simmetricamente la norma che invece riduca la durata del tempo di prescrizione costituisce disposizione penale più favorevole ai sensi dell’art. 2 cod. pen., applicabile in melius anche ai fatti già commessi in precedenza (quindi retroattivamente) nei limiti di operatività della lex mitior. Il principio di retroattività della norma penale più favorevole rinviene il proprio fondamento non già nell’art. 25 Cost., ma nel principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), essendo quindi «suscettibile di limitazioni e deroghe» che, tuttavia, «devono giustificarsi in relazione alla necessità di preservare interessi contrapposti di analogo rilievo» e possono trovare fondamento e limite anche nel condizionamento ad attività processuali (sentenze n. 278 del 2020 e n. 238 del 2020). Il rispetto del principio di legalità coinvolge anche la disciplina della decorrenza, della sospensione e dell’interruzione della prescrizione stessa, perché essa, nelle sue varie articolazioni, concorre a determinare la durata del tempo il cui decorso estingue il reato per prescrizione (sentenza n. 278 del 2020).
5.1.5. La sentenza della Corte EDU [GC], Gestur Jónsson e Ragnar Halldór Hall c. Islanda, ric. nn. 68273/14 e 68271/14, 22 dicembre 2020, ha comunque ribadito, proprio in tema di sanzioni disciplinari irrogate ad avvocati (sia pure applicate da autorità giurisdizionali per violazioni di obblighi di lealtà e probità nel comportamento processuale), che gli illeciti ed i procedimenti disciplinari non rientrano nell’ambito sostanzialmente «penale» né ai sensi dell’articolo 6, né ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, il che condurrebbe ad escludere in radice l’applicabilità delle evocate tutele penalistiche (nella specie, per quanto rileva nel giudizio in esame, quella della retroattività della lex mitior in tema di prescrizione dell’azione disciplinare), non potendo il giudice nazionale discostarsi da tale interpretazione. Nonostante l’incidenza di alcune sanzioni disciplinari, aventi anche contenuto inibitorio, come la sospensione o la cancellazione dall’albo e la radiazione, la giurisprudenza della Corte EDU evidenzia le divergenze rispetto alle figure di reato, divergenze rinvenibili nella limitata estensione soggettiva ed oggettiva dell’ambito applicativo, giacché tali sanzioni sono rivolte ai soli membri di una categoria professionale, nella specie in possesso dello status di avvocato, e consistono nella violazione di regole di condotta finalizzate a preservare il decoro e la dignità della professione forense (Corte EDU, Erdoğan c. Turchia, ric. n. 32985/12, 5 dicembre 2017; Biagioli c. San Marino, ric. n. 64735/14, 13 settembre 2016; Müller-Hartburg c. Austria, ric. n. 47195/06, 19 febbraio 2013; Goriany c. Austria, ric. n. 31356/04, 10 maggio 2010).
A tale conclusione si perviene pur nella consapevolezza della complessità delle forme di esercizio del potere sanzionatorio disciplinare, nonché delle considerazioni svolte nella sentenza n. 197 del 2018 della Corte costituzionale, circa l’inerenza delle sanzioni disciplinari “in senso lato al diritto sanzionatorio-punitivo”, sebbene conservando “una propria specificità, anche dal punto di vista del loro statuto costituzionale”, la quale comporta l’inapplicabilità, o una più flessibile applicabilità, delle garanzie che circondano la pena in senso stretto.
Si è, infatti, in presenza, nel caso in esame, di sanzioni irrogate da organi di disciplina dell’ordine forense per violazioni di obblighi deontologici dettati a tutela dell’onore e del prestigio della professione, in rapporto alle quali, nella verifica dei cosiddetti “criteri Engel”, l’interpretazione qualificata della Corte EDU (da ultimo riaffermata nella citata sentenza pagina 27 di ricorso e Ragnar Halldór Hall contro Islanda) solitamente evidenzia, appunto, sotto il profilo sostanziale, la loro ristretta riferibilità soggettiva e la finalizzazione a preservare gli interessi particolari della categoria (oltre che in via indiretta interessi generali e di rilevanza pubblica), e, sotto il profilo dell’afflittività delle misure inibitorie, la connessione del loro oggetto con il diritto soggettivo di matrice civilistica ad esercitare la professione. Inoltre, la verifica è qui compiuta per un caso in cui è questione della pretesa retroattività della lex mitior in punto di prescrizione dell’azione disciplinare, disciplina che la giurisprudenza convenzionale colloca nell’alveo delle norme processuali.
5.1.6. Come ritenuto nella sentenza del Consiglio Nazionale Forense, alle condotte istantanee commesse ed esauritesi prima dell’entrata in vigore dall’art. 56 della legge n. 247 del 2012 (l’abuso di fogli firmati in bianco, condotte poste in essere tra il 2007 e il 2008, e la calunnia, condotte poste in essere tra il 2008 e il 2009), costituenti illeciti disciplinari per fatti di reato, trovava perciò applicazione il regime della prescrizione quinquennale dettato dall’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, con il conseguente effetto interruttivo permanente del termine fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il processo penale (Cass. Sez. Unite, sentenza n. 11367 del 2016). Si verteva, infatti, nel caso previsto dall’art. 44 del r.d.l. n. 1578 del 1933, in cui il procedimento disciplinare ha avuto luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali era stata iniziata l’azione penale, sicché l’azione disciplinare rimaneva collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non fosse di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, aveva come oggetto lo stesso fatto per il quale era stata formulata una imputazione, aveva natura obbligatoria e non poteva essere iniziata prima che se ne fosse verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorreva soltanto dal momento in cui il diritto di punire poteva essere esercitato, ovvero da un fatto esterno alla condotta (Cass. Sez. Unite, sentenze n. 1609 del 2020; n. 10071 del 2011).
Non rileva, ai fini della decorrenza e del calcolo della prescrizione in fattispecie soggetta agli artt. 44 e 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, neppure il sopravvenuto art. 54 della legge n. 247 del 2012, il quale reca la nuova disciplina del rapporto tra procedimento disciplinare e processo penale per i medesimi fatti, stabilendo l’autonomia del loro svolgimento e delle relative valutazioni, salva l’ipotesi che agli effetti della decisione del primo sia indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penale, stabilendo in tale evenienza la durata massima biennale della sospensione del giudizio e del termine di prescrizione.
5.1.7. Anche la decisione che la sentenza impugnata ha adottato sul punto della decorrenza della prescrizione per la condotta permanente di indebita ritenzione delle somme del cliente è in linea con la giurisprudenza di queste Sezioni Unite. L’illecito disciplinare commesso dall’avvocato che trattiene, a compensazione di propri asseriti crediti professionali non certi né liquidi, una somma di denaro consegnatagli dal suo cliente per adempiere ad una transazione stipulata con un terzo, ha natura permanente e la sua consumazione si protrae, in mancanza di restituzione, fino alla decisione disciplinare di primo grado, dalla quale inizia a decorrere il termine prescrizionale massimo di cui all’art. 56, comma 3, della l. n. 247 del 2012 (Cass. Sez. Unite, sentenza n. 23239 del 2022; si veda anche sentenza n. 8946 del 2023).
La condotta viene sussunta nell’illecito disciplinare di cui all’art. 30 NCDF, ovvero all’art. 41 codice previgente, secondo cui l’avvocato deve gestire con diligenza il denaro ricevuto dalla parte assistita, o nell’interesse della stessa, nell’adempimento dell’incarico professionale, e non deve trattenere oltre il tempo strettamente necessario le somme ricevute per conto della parte assistita, senza il consenso di quest’ultima. Avendo riguardo agli obblighi civilistici derivanti dal mandato, nonché a quelli deontologici di lealtà, correttezza e probità, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante il professionista che disponga di una somma di denaro ricevuta dall’assistito destinandola a sé, a nulla rilevando l’eventuale pretesa creditoria dell’avvocato ai fini della sua remunerazione. Si tratta di illecito, a ben vedere, eventualmente permanente, perdurandone la commissione finché non viene rimossa la situazione antigiuridica in atto, consistente nella indebita ritenzione del denaro in violazione del mandato conferito dal cliente, e potendosi pertanto intendere cessata tale condotta, anche per la decorrenza della prescrizione, al momento della pronuncia disciplinare di primo grado.
6. Va esente da censure di legittimità rilevanti agli effetti dell’art. 36, comma 6, della legge n. 247 del 2012 altresì la motivazione addotta dalla sentenza impugnata sulla fondatezza delle accuse.
Come visto, il Consiglio Nazionale Forense ha valutato il fatto della appropriazione indebita della somma di € 21.500,00, consegnata dal cliente per la transazione con la banca MPS nell’ambito del procedimento esecutivo pendente, alla luce di quanto emergente dalla sentenza penale passata in giudicato (benché dichiarativa della prescrizione del reato di appropriazione indebita, e tuttavia recante condanna per la connessa condotta di calunnia), fatto sussunto nell’illecito di cui all’art. 30 del codice deontologico forense (art. 41 codice previgente). Tale fatto è stato corroborato dai riscontri documentali compiuti dal CDD (ovvero dai bonifici effettuati dal Pompei nel 2006 e dalla causale degli stessi, apprezzati come incompatibili con la tesi difensive dell’avvocato Nenna), privando di valenza scriminante il credito per prestazioni professionali vantato dal legale verso il cliente.
Quanto al passaggio in cui la sentenza impugnata ha affermato, circa la rilevanza disciplinare della condotta di appropriazione indebita perpetrata dell’avvocato Nenna, che occorreva avere “attenzione alla intervenuta condanna per calunnia relativamente a tale circostanza”, esso non svilisce l’autonomia dei distinti comportamenti di rilevanza disciplinare e delle diverse incolpazioni simultaneamente contestate, avendo riguardo, piuttosto, alla emergente connessione teleologica tra le vicende.
Ciò vale pure per la condotta di abusivo riempimento di documenti in bianco. La decisione impugnata ha evidenziato che anche tale fatto emergeva dalla sentenza penale, benché di assoluzione perché il fatto non costituiva più reato a seguito di depenalizzazione, non privando la stessa di rilievo deontologico la condotta, ed ha confutato le difese inerenti al disconoscimento delle scritture ed alla querela di falso, al decreto ingiuntivo non opposto dal Pompei (giacché notificato dall’avvocato Nenna al domicilio eletto presso la sede della società PBC Service s.r.l.), alla dichiarazione di riconoscimento di debito a firma del Pompei risultata falsamente compilata, al pagamento da parte dell’avvocato Nenna della provvisionale di € 20.000,00 stabilita in sede penale in favore del Pompei ed alla rilevanza della testimonianza resa dalla signora Di Marcantonio.
La sentenza del Consiglio Nazionale Forense si è così posta in linea con l’art. 54, comma 1, della legge n. 247 del 2012, operando in sede disciplinare congrue valutazioni autonome a fini deontologici in ordine alla sussistenza delle condotte materiali esaminate nel processo penale avente per oggetto i medesimi fatti, e ivi definite con declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di appropriazione indebita e di proscioglimento dal delitto di falsità in foglio firmato in bianco perché non costituente più reato (arg. da Cass. Sez. Unite, sentenza n. 12902 del 2021).
In particolare, l’intervenuta abrogazione del delitto di cui all’art. 486 c.p., per effetto del d. lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, e la contestuale previsione di sanzione pecuniaria civile per l’ipotesi di abuso di foglio firmato in bianco, alle condizioni dettate da tale disciplina, sopravvenienze normative che abbiano determinato, come nella specie, il proscioglimento dell’imputato nel giudizio penale perché il fatto non è previsto come reato, non negano al giudice disciplinare la possibilità di attribuire rilievo deontologico al medesimo fatto storico assurto ad elemento costitutivo della condotta, previa autonoma rivalutazione della vicenda.
L’invocazione di un rinnovato esame dei fatti storici oggetto delle allegazioni difensive del ricorrente e tutti, peraltro, considerati nella sentenza del Consiglio Nazionale Forense, come le richieste di procedere ad un accesso diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, allo scopo di pervenire ad un opposta delibazione inferenziale delle risultanze probatorie ed ad una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti dai quali è originata la condanna disciplinare, eccedono i limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione, come risultanti dall’interpretazione costante dell’art. 360, comma 1, n. 5, e dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. Le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono impugnabili per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, ovvero per difetto del “minimo costituzionale” di motivazione, con la conseguenza che l’accertamento del fatto e l’apprezzamento della sua rilevanza ai fini della concreta individuazione della condotte costituenti illecito disciplinare e della valutazione dell’adeguatezza della sanzione irrogata non possono essere oggetto del controllo di legittimità, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza (si vedano, tra le tante, Cass. Sez. Unite, sentenze n. 34206, n. 28468, n. 26991, n. 22729, n. 11675, n. 7501 e n. 7073 del 2022 del 2022; n. 42090, n. 37550, n. 35462, n. 27889, n. 21965, n. 21964, n. 21963 e n. 21962 del 2021 n. 34476 del 2019; n. 20344 del 2018; n. 24647 del 2016). Né le censure allegano l’omesso esame di fatti storici, oggetto di discussione tra le parti e aventi carattere decisivo in relazione all’esito del giudizio, sollecitando, piuttosto, un diverso esame, più favorevole al ricorrente, di fatti tutti comunque presi in considerazione dal Consiglio Nazionale Forense.
Così anche la rilettura della cronologia delle vicende che opera il ricorrente, collegando l’e-mail del 10 maggio 2006 inviata dal Pompei, il riferimento ivi contenuto al “bonifico promesso”, la fattura emessa dall’avvocato Nenna il 5 luglio 2006 e la missiva del 18 luglio 2006, (oltre a rivelare carenza di specifica illustrazione del contenuto rilevante dei documenti richiamati e dell’indicazione del “come” e del “quando” tali documenti siano stati oggetto di allegazione nelle pregresse fasi del processo) si sostanzia nel prospettare una spiegazione dei fatti di causa e delle risultanze istruttorie alla stregua di una logica alternativa, che, sia pure supportata dalla possibilità o dalla probabilità di corrispondenza alla realtà fattuale, non delinea il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
7. Quanto appena detto impedisce di accogliere pure le censure sulla “determinazione in concreto della sanzione eventualmente da irrogare”, la quale sarebbe “obiettivamente spropositata e sproporzionata” alla luce dell’art. 21 del Codice deontologico.
La norma disciplinare allegata afferma, piuttosto, che “[s]petta agli Organi disciplinari la potestà di applicare, nel rispetto delle procedure previste dalle norme, anche regolamentari, le sanzioni adeguate e proporzionate alla violazione deontologica commessa”, valutando “il comportamento complessivo dell’incolpato” ed irrogando un’unica sanzione anche quando siano contestati più addebiti nell’ambito del medesimo procedimento. La sanzione deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, all’eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell’incolpato, precedente e successivo al fatto, avuto riguardo alle circostanze, soggettive e oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione. Nella determinazione della sanzione si deve altresì tenere conto del pregiudizio eventualmente subito dalla parte assistita e dal cliente, della compromissione dell’immagine della professione forense, della vita professionale, dei precedenti disciplinari.
Il Consiglio Nazionale Forense, nel giustificare la sanzione della sospensione di venti mesi dall’esercizio della professione, ha rimarcato che la stessa fosse correlata alla “violazione degli artt. 4, 9, 10, 11 e 30, commi 1 e 2, del vigente CDF, i cui precetti erano contenuti negli artt. 3, 5, 6, 7, 35 e 41 del previgente CDF”. Ai fini della determinazione nell’ambito delle rispettive cornici edittali, sono state considerate “le plurime condotte deontologicamente rilevanti poste in essere unitamente alla condanna per calunnia ed il generale comportamento tenuto dall’incolpato”.
La determinazione dell’entità della sanzione disciplinare adeguata e proporzionata costituisce tipico apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità giacché altresì sorretta da motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici (Cass. Sez. Unite, sentenza n. 1609 del 2020).
8. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato, ciò assorbendo anche la richiesta di sospensione dell’esecuzione ex art. 36, comma 7, della legge n. 247 del 2012.
Non occorre provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, in quanto l’intimato Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma non ha svolto attività difensive.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20650, in tema di illecito disciplinare
In tema di contributo unificato – SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20621
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta da:
Oggetto:
TRIBUTI ALTRI
Ud.23/05/2023 PU
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle Entrate ha depositato ai sensi dell’art. 134 disp. att. c.p.c. l’8 novembre 2021 controricorso notificato il 18 ottobre 2021 per resistere al ricorso notificatole il 6 settembre 2021 da Rossana Recinella, avente ad oggetto l’impugnazione di una sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo del 2 febbraio 2021.
Il ricorso notificato da Rossana Recinella non risulta depositato in cancelleria a norma dell’art. 369 c.p.c., nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149 del 2022, qui applicabile ratione temporis.
Con ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022, pronunciata all’esito dell’adunanza del 18 ottobre 2022, fissata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. (formulazione applicabile ratione temporis), la Sesta Sezione civile Tributaria ha rimesso al Primo Presidente per eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite. L’ordinanza interlocutoria ha, invero, ravvisato la particolare rilevanza della questione inerente alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), comma introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), nell’ipotesi, quale quella di causa, in cui la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, notificato ma non depositato, consegua alla iscrizione a ruolo del processo di cassazione operata dal controricorrente.
È stata acquisita la relazione predisposta dall’Ufficio del Massimario.
La causa è stata decisa in camera di consiglio procedendo nelle forme di cui all’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile a norma dell’art. 8, comma 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito con modificazioni nella legge 24 febbraio 2023, n. 14).
Il Pubblico Ministero, in persona della Sostituta Procuratore Generale Luisa De Renzis, ha formulato conclusioni motivate, chiedendo di enunciare il seguente principio di diritto:
““nei casi in cui il ricorso è stato dichiarato improcedibile, ex art. 369 c.p.c., per non essere avvenuta l’iscrizione a ruolo del ricorso ad opera del ricorrente ma la controparte si sia costituita con controricorso, determinando così la concreta incardinazione del giudizio dinanzi alla S.C., trova applicazione il disposto di cui all’art. 13, comma 1- quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, Testo unico delle spese di giustizia, nel testo introdotto dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, ai sensi del quale, quando l’impugnazione, anche incidentale, è dichiarata improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis”.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. L’Agenzia delle Entrate ha depositato l’8 novembre 2021 controricorso notificato il 18 ottobre 2021 per resistere al ricorso notificatole il 6 settembre 2021 da Rossana Recinella, avente ad oggetto l’impugnazione di una sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo del 2 febbraio 2021.
Il ricorso notificato da Rossana Recinella non risulta depositato in cancelleria a norma dell’art. 369 c.p.c., nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149 del 2022, qui applicabile ratione temporis.
2. Secondo consolidato orientamento di questa Corte, la parte alla quale sia stato notificato un ricorso per cassazione – e che abbia a sua volta notificato al ricorrente il controricorso – ha il potere, ove il ricorrente abbia omesso di depositare il ricorso e gli altri atti indicati nell’art. 369 c.p.c., di richiedere l’iscrizione a ruolo del processo al fine di far dichiarare l’improcedibilità del ricorso medesimo, essendo tale potere ricompreso in quello più ampio di contraddire riconosciuto dall’art. 370 c.p.c. (esercitabile ora, alla stregua della riformulazione di tale norma operata dal d.lgs. n. 149 del 2022, con l’immediato deposito del medesimo controricorso). Ciò trova giustificazione nell’interesse del controricorrente al recupero delle spese e di evitare, mediante la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, che il ricorrente possa riproporre, ai sensi dell’art. 387 c.p.c., il ricorso medesimo ove non sia ancora decorso il termine per l’impugnazione (Cass. Sez. 6-L, n. 27571 del 2020; Sez. 1, n. 3193 del 2016; Sez. 6-L, n. 29297 del 2011; Sez. 3, n. 21969 del 2008; Sez. 2, n. 6824 del 1988).
3. La sentenza n. 4500 del 1988 di queste Sezioni Unite, peraltro, chiarì che, qualora il ricorso per cassazione non sia depositato, la ammissibilità del controricorso dell’intimato, presentato al fine di sentire dichiarare l’improcedibilità del ricorso per effetto dell’omissione del deposito, postula che detto intimato alleghi copia del ricorso a lui notificata, atteso che, in difetto, non può riconoscersi la sua legittimazione a richiedere in memoria una pronuncia su impugnazione di cui non risulta l’effettiva proposizione (conforme, più di recente, Cass. Sez. 3, n. 10810 del 2011).
4. Consegue l’improcedibilità del ricorso notificato da Rossana Recinella.
5. Con l’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022, la Sesta Sezione civile Tributaria ha ravvisato la particolare rilevanza della questione inerente alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nell’ipotesi, quale quella di causa, in cui la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, notificato ma non depositato, consegua alla iscrizione a ruolo del processo di cassazione operata dal controricorrente.
5.1. La Sesta Sezione civile Tributaria evidenzia che la questione di diritto è stata decisa in senso difforme nella giurisprudenza di questa Corte e perciò registra due orientamenti:
a) un primo orientamento, che l’ordinanza interlocutoria definisce maggioritario e riconduce a numerosi precedenti menzionati (tra cui uno reso da queste Sezioni Unite: ordinanza n. 30702 del 2022), provvede de plano ad attestare la sussistenza del presupposto processuale dell’obbligo di versamento del c.d. doppio contributo anche in caso di improcedibilità del riscorso dichiarata a seguito di iscrizione a ruolo operata dal controricorrente;
b) un secondo orientamento, che avrebbe come capofila l’ordinanza n. 8728 del 2022 resa dalla Sesta sezione Tributaria e comunque registra varie pronunce successive conformi, nega, al contrario, che il giudice dell’impugnazione debba rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale previsto dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, qualora la pronuncia adottata sia di improcedibilità del ricorso principale per omesso deposito di quest’ultimo, in quanto la mancata iscrizione a ruolo del ricorso preclude la debenza del contributo iniziale.
5.2. Questo secondo orientamento – segnala l’ordinanza interlocutoria – fa leva su alcuni principi enunciati nella sentenza n. 4315 del 2020 resa da queste Sezioni Unite, in forza dei quali il giudice dell’impugnazione deve, si, rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato quando la pronuncia adottata è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma, ed anche quando esso non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venire meno, ma, essendo tale attestazione comunque condizionata all’effettiva debenza del contributo unificato iniziale, può esimersi dal renderla quando il debito tributario in oggetto sia escluso dalla legge in modo assoluto e definitivo.
5.3. L’ordinanza n. 8728 del 2022, e l’orientamento che ad essa ha dato credito, ricomprendono tra i casi di originaria non debenza, che esonera dall’attestazione dei presupposti per il ‹‹raddoppio››, quello, appunto, della dichiarazione di improcedibilità del ricorso perché non depositato in cancelleria, in quanto la mancata iscrizione a ruolo preclude, o comunque radicalmente e definitivamente esclude, l’obbligo di pagare il contributo unificato iniziale.
5.4. L’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022 osserva, allora, che non è dirimente nella soluzione del problema l’argomento fondato sull’aggettivo “ulteriore” che accompagna l’importo dovuto nelle ipotesi contemplate nel comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, in quanto l’attestazione della debenza potrebbe valere a legittimare l’amministrazione finanziaria ad esigere sia quanto originariamente dovuto al momento dell’iscrizione a ruolo non praticata, sia quanto previsto dalla citata norma.
Il Collegio rimettente nega altresì che la questione sollevata possa risolversi unicamente seguendo i principi enunciati nella sentenza n. 4315 del 2020, i quali, del resto, sono richiamati da entrambi gli orientamenti che si contrappongono.
Così, l’ordinanza interlocutoria soppesa le diverse conseguenze deduttive che, ai fini di dar risposta alla rilevata questione, possono comportare la tesi della natura sanzionatoria della disposizione dettata nel comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, la cautela di sottoporre la stessa ad una stretta interpretazione, gli effetti sull’esercizio del diritto di accesso alla Corte di cassazione, il principio di ragionevolezza e quello del divieto di abuso del processo, il principio di solidarietà, i rapporti fra il diritto alla tutela giurisdizionale e le esigenze di tutela dell’‹‹interesse fiscale››.
6. Com’è noto, il “contributo unificato per le spese degli atti giudiziari” venne introdotto dall’art. 9, legge 23 dicembre 1999, n. 488 (“legge finanziaria 2000”). La disposizione sostituiva per i procedimenti civili, penali ed amministrativi il previgente sistema in tema di imposte di bollo, tassa di iscrizione a ruolo, diritti di cancelleria, nonché diritti di chiamata di causa dell’ufficiale giudiziario. La parte che si costituiva per prima in giudizio era onerata, “a pena di irricevibilità dell’atto”, all’anticipazione del pagamento del contributo, salvo il diritto alla ripetizione nei confronti della parte soccombente. Il valore dei procedimenti, occorrente per il calcolo del contributo sulla base di apposita tabella, doveva determinarsi da dichiarazione resa nelle conclusioni dell’atto introduttivo. La norma venne, nel complesso, abrogata dall’art. 299 del d.lgs. 30 maggio 2002, n. 113, e dall’art. 299 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
6.1. Gli artt. 9-18 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, hanno di seguito dettato la disciplina ancora vigente del contributo unificato di iscrizione a ruolo.
6.2. In particolare, l’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (“legge di stabilità 2013”) ha poi inserito (con la decorrenza di cui al comma 18 del medesimo articolo) il comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002:
“[q]uando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.
6.2.1. Una recente modifica è stata introdotta dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con l’inserimento del comma 1-quater.1 dell’art. 13, secondo cui le disposizioni di cui al comma 1-quater non si applicano quando il ricorso per cassazione viene dichiarato estinto ai sensi dell’articolo 380-bis, secondo comma, ultimo periodo, del codice di procedura civile.
6.2.2. La relazione tecnica che accompagnava la legge 24 dicembre 2012, n. 228, presentava l’art. 1, comma 17, come disposizione idonea a comportare maggiori entrate per il bilancio dello Stato. Sull’ultimo riscontro statistico disponibile, che stimava nella misura del 68 per cento del totale dei procedimenti iscritti (pari a circa 80.000) le impugnazioni, anche incidentali, respinte integralmente o dichiarate inammissibili o improcedibili, la relazione prevedeva che il pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato avrebbe determinato un maggior gettito pari a circa 27 milioni di euro, tale da produrre a decorrere dal 2013 un effetto finanziario di importo equivalente sui saldi di fabbisogno ed indebitamento netto.
7. L’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022 della Sesta Sezione civile Tributaria evoca i riflessi costituzionali della questione posta all’attenzione di queste Sezioni Unite.
7.1. Invero, la Corte costituzionale ha avuto più volte occasione di pronunciarsi sulla natura del contributo unificato di iscrizione a ruolo, come anche sul «raddoppio» contemplato dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
7.1.1. La sentenza n. 73 del 2005, a proposito del contributo unificato di cui all’articolo 9 della legge 21 dicembre 1999, n. 448, affermò la natura di “entrata tributaria erariale” dello stesso.
La sentenza n. 143 del 2012 e la sentenza n. 42 del 2013 ribadirono la natura di «entrata tributaria erariale» del contributo unificato.
La sentenza n. 78 del 2016, dopo aver rilevato la eterogeneità dei criteri di determinazione del «contributo unificato» dettati dal d.P.R. n. 115 del 2002, ricordò come il principio della capacità contributiva, quale limite alla potestà di imposizione di cui all’art. 53 Cost., non è invocabile e non può operare con riguardo alle spese di giustizia.
La sentenza n. 120 del 2016 evidenziò come l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 correla l’aggravio del contributo unificato a tutti i casi di esito negativo dell’impugnazione. La norma, pertanto, risponderebbe alla ratio di “scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose”. Secondo la sentenza n. 120 del 2016, altrimenti, “il raddoppio del contributo unificato è previsto a parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle limitate risorse a sua disposizione”.
7.2. Ancor più frequenti sono le pronunce della Corte costituzionale in tema di «diritto tributario processuale», il quale racchiude le norme che guardano al processo (ed in particolare al processo civile) come fenomeno finanziario, nonché come fine cui serve il tributo.
La decisioni meno recenti evidenziavano la compatibilità fra il principio costituzionale, che garantisce a tutti di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, e le norme che impongono oneri fiscali a carico di chi tale tutela intenda richiedere, purché si tratti di oneri razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio, diretti, cioè, ad assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione ed a prevenire eccessi riprovevoli nell’esercizio del diritto di azione (si vedano le sentenze nn. 45, 56, 83, 113 del 1963; nn. 30, 47, 69, 91, 100 del 1964; n. 80 del 1966).
In altre pur risalenti occasioni la Corte costituzionale ha sottolineato l’estraneità dei tributi giudiziari (ovvero, dei contributi imposti e riscossi non soltanto in occasione della prestazione del servizio giudiziario, ma anche e soprattutto al fine di conseguire atti o attività propri di quel servizio) all’ambito di applicazione dell’art. 53 della Costituzione (ad esempio, la sentenza n. 23 del 1968).
La sentenza n. 62 del 1977 mantenne ferma la distinzione tra i tributi “lato sensu” giudiziari, gravanti su soggetti che fruiscono divisibilmente (cioè in modo misurabile per ogni singolo atto) del servizio giudiziario in rapporto o all’esercizio del proprio ministero davanti ad organi giurisdizionali o all’emanazione di provvedimenti giurisdizionali (in quanto tali esclusi dall’assoggettamento al principio della capacità contributiva), e le prestazioni contributive che sono, al contrario, caratterizzate dal conseguimento di finalità generali distinte da quelle particolari relative al compimento di singoli atti, e perciò restano incluse nella garanzia dell’art. 53 Cost.
In anni più recenti (ad esempio, le sentenze n. 333 del 2001 e n. 522 del 2002) la Corte costituzionale ha ribadito la distinzione fra oneri imposti allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione ed alle sue esigenze ed oneri tendenti, invece, al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali, ravvisando l’illegittimità di quegli impedimenti alla tutela giurisdizionale dei diritti costituiti dall’adempimento di obblighi fiscali privi di qualsiasi connessione con il processo stesso.
Da ultimo, la sentenza n. 140 del 2022 ha affermato che la Costituzione non vieta di imporre prestazioni fiscali in stretta e razionale correlazione con il processo, ma, se, in linea di principio, possono esistere casi in cui il dovere tributario può tradursi in oneri concernenti l’esercizio dello stesso diritto alla tutela giurisdizionale, in concreto ciò può avvenire solo nel rispetto del principio di proporzionalità e in particolare della stretta necessità, risultando costituzionalmente legittimo, quindi, solo quando l’adempimento di tale dovere non possa essere adeguatamente tutelato in altro modo. Di tal che, il diritto alla tutela giurisdizionale non può comunque essere sacrificato in nome di esigenze di tutela dell’interesse fiscale.
7.3. La giurisprudenza costituzionale è stata, inoltre, più volte investita anche di questioni afferenti alla disciplina della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali nei giudizi civili (ad esempio, nelle sentenze n. 152 del 2016, n. 139 del 2019 e n. 87 del 2021).
Meritano richiamo, in questa sede, le parole della sentenza n. 77 del 2018, secondo cui «il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento». Opera, dunque, un «principio di responsabilità», per il quale chi è risultato essere nel torto si deve far carico, di norma, anche delle spese di lite. Le riforme degli ultimi anni, avvertiva la sentenza n. 77 del 2018, muovono dalla consapevolezza che, «a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera».
8. L’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022 prospetta altresì la tesi interpretativa della natura sanzionatoria della disposizione dettata nel comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002 come base per dare soluzione alla questione posta all’attenzione di queste Sezioni Unite.
8.1. La dottrina sembra schierata in modo compatto nel qualificare come “tributo” il contributo unificato dapprima introdotto dall’art. 9, legge 23 dicembre 1999, n. 488, quindi regolato negli artt. 9-18 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, trattandosi di prestazione patrimoniale doverosa, erogata in mancanza di un rapporto sinallagmatico, connessa ad un presupposto economicamente rilevante e destinata a sovvenire pubbliche spese. Benché correlato alla fruizione del servizio giudiziario, il contributo unificato si rivela privo di sinallagmaticità, giacché commisurato forfetariamente sulla base del valore economico della causa e non del costo della prestazione resa.
8.2. In particolare, il contributo unificato costituirebbe una “tassa”, in quanto ha come presupposto impositivo l’espletamento del servizio pubblico della giustizia richiesto dal soggetto che promuove la lite (non rivelandosi, di norma, indice di capacità contributiva, ai fini della sua erogazione, la mera partecipazione al giudizio). Il «contributo unificato» ha così dato luogo ad un metodo di imposizione sui «servizi giurisdizionali» che ha sostituito i previgenti sistemi analitici di tassazione giudiziaria per lo più «d’atto» con un prelievo tributario una tantum, normalmente commisurato al valore della lite, rendendo il processo, nei suoi singoli gradi, un unico evento presupposto.
8.3. Identica natura tributaria si riconosce generalmente all’«ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione», anche incidentale, che sia respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002. Ciò evitando di utilizzare l’argomento generale che le sanzioni mantengono la stessa natura dei tributi cui conseguono, visto che il “raddoppio” del contributo unificato non è correlato all’inadempimento dell’obbligo tributario primario, quanto perché al legislatore si riconosce ampia discrezionalità nel perseguire svariate finalità con l’imposizione fiscale, ed una di esse ben può essere quella di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose, apprestando un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario.
8.4. Questo effetto dissuasivo e deflattivo del processo, cui ambisce la disciplina del contributo unificato, ed in particolare del suo raddoppio per le impugnazioni respinte, non smentisce il fine finanziario della normativa.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Quinta sezione, 6 ottobre 2015, n. 61 (Causa C-61/14), ha affermato, del resto, che un tributo giudiziario contribuisce al buon funzionamento del sistema giustizia, in quanto “costituisce una fonte di finanziamento dell’attività giurisdizionale degli Stati membri e dissuade l’introduzione di domande che siano manifestamente infondate o siano intese unicamente a ritardare il procedimento”.
L’omogeneità di natura tra la prestazione base ed il suo duplicato imposto dal comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002 sembra trasparire anche dal significato proprio delle parole adoperate dal legislatore: quando l’impugnazione venga respinta integralmente, o sia dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’abbia proposta è tenuta a versare un importo che la legge definisce “ulteriore”, che dunque si aggiunge a quello precedente dovuto per la medesima impugnazione, ma comunque come il primo viene prescritto “a titolo di contributo unificato”.
È conforme ad un principio di giustizia distributiva allocare il costo del processo in capo a colui che ne abbia cagionato lo svolgimento. Tale considerazione non deve tuttavia ingenerare una confusione fra doverosità del contributo unificato, o, in particolare, del suo raddoppio, e soccombenza, criterio che regola il diverso profilo delle spese processuali. Non necessariamente i tributi giudiziari ricadono sulla parte soccombente. Così, il contributo unificato dev’essere versato da chi per primo fa accesso al giudice, per ciascuna fase del processo; il relativo importo, anticipato dall’attore, dall’appellante o dal ricorrente, può poi essere recuperato ove la sentenza che chiude il processo condanni la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte. Al contrario, l’«ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione», anche incidentale, che sia respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, non è mai compreso nel contenuto della condanna del soccombente al rimborso delle spese sostenute dal vincitore, in quanto esso è dovuto dal soccombente sin da quando insorge la relativa obbligazione ex lege.
8.5. La ricostruzione appena accennata porta a smentire il riconoscimento di una qualche natura sanzionatoria del raddoppio del contributo unificato. Il proprium di un tributo giudiziario è concorrere alla spesa pubblica, non perseguire una finalità punitiva. Il presidio sanzionatorio avverso condotte di abuso del diritto di impugnazione è, piuttosto, fornito dalla responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.
D’altro canto, al raddoppio del contributo unificato posto a carico dell’impugnante non è applicabile la disciplina definitoria e di riscossione delle sanzioni pecuniarie processuali prevista dagli artt. 1, 3, comma 1 lett. u) e 202 del d.P.R. n. 115 del 2002.
Non contraddice questa affermazione neppure la constatazione che il contributo unificato raddoppiato, pur mantenendo natura di misura esclusivamente tributaria, assolva ad una funzione secondaria della fiscalità, non punitiva in senso proprio, quanto disincentivante rispetto ad una superflua richiesta di prestazioni giudiziarie.
È, dunque, proprio e soltanto l’esito integralmente negativo del giudizio di impugnazione che giustifica il maggior costo del servizio imposto al richiedente, il quale ha vanamente sollecitato il riesame di una decisione meritevole di passare in giudicato ed ha fatto svolgere un ulteriore grado di giudizio rivelatosi del tutto superfluo. Il comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002 mantiene, così, coerenza, con la rubrica “Importi” di tale articolo, ravvisando nel raddoppio proprio un criterio di determinazione dell’importo. La misura del contributo dovuta in forza dell’art. 13, comma 1-bis, per i giudizi di impugnazione e per i processi dinanzi alla Corte di cassazione costituisce un anticipo della somma reale da corrispondersi, la quale è pari al doppio dell’importo iniziale e deve essere versata alla fine. L’accoglimento del gravame giustifica il trattamento tributario agevolato in favore di chi abbia avuto bisogno dell’ulteriore prestazione del servizio giustizia allo scopo di sovvertire la decisione ingiusta maturata nel grado precedente. Viceversa, se l’impugnazione viene respinta, o dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte deve a saldo l’intero carico fiscale del servizio.
9. La natura di obbligazione tributaria del versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, fa ormai parte anche dell’acquis giurisprudenziale e si trova affermata a chiare lettere nella sentenza n. 4315 del 2020 resa da queste Sezioni Unite: ciò sia perché l’obbligo “ulteriore” al c.d. “doppio contributo” presuppone normativamente l’obbligo di versare il “primo” contributo unificato e, quindi, partecipa della natura di esso; sia perché il versamento “ulteriore” assolve la funzione di ristorare l’amministrazione della Giustizia dall’aver essa dovuto impegnare le limitate risorse dell’apparato giudiziario nella decisione di una impugnazione non meritevole di accoglimento (ciò, si scriveva in quella sentenza“, non disgiuntamente dal perseguimento di “una funzione preventivo-deterrente – e, quindi, vagamente sanzionatoria – nei confronti della parte che, avendo già ottenuto la decisione della causa dal giudice di primo grado, non se ne accontenti, ma adisca infondatamente il giudice superiore”).
Occorre qui richiamare per sintesi, e cioè per quanto rilevi nel caso in esame, alcuni dei passaggi esplicitati nella sentenza n. 4315 del 2020.
Non spetta al giudice civile, al fine di rendere l’attestazione di cui al comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, accertare la debenza del contributo unificato iniziale, che poi costituisce altresì il fatto costitutivo di diritto sostanziale tributario dell’obbligo di versare il suo duplicato.
Spetta, piuttosto, al giudice civile dell’impugnazione verificare la sussistenza del fatto costitutivo di diritto processuale attinente alla conformità della decisione resa al modello legale della pronuncia di integrale rigetto, di inammissibilità o di improcedibilità del gravame.
Poiché l’obbligo di versare il raddoppio è normativamente dipendente dalla sussistenza dell’obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato iniziale, il giudice civile dell’impugnazione nell’attestazione di sussistenza dei presupposti processuali condiziona il primo all’esistenza dell’altro: egli deve rendere l’attestazione che il comma 1-quater gli affida anche nel caso in cui il primo importo non sia stato versato per una causa diversa da quella legata alla assoluta e definitiva esenzione da esso stabilita dalla legge.
10. Possono allora trarsi le seguenti conclusioni.
10.1. La questione rimessa a queste Sezioni Unite dalla ordinanza interlocutoria della Sesta Sezione civile Tributaria si intende riferita alla sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nell’ipotesi in cui la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, notificato ma non depositato, consegua alla iscrizione a ruolo del processo di cassazione operata dal controricorrente. Come già chiarito nella sentenza n. 4315 del 2020, non spetta infatti al giudice civile dell’impugnazione (ed è, del resto, estranea altresì al tema del giudizio in esame) la pronuncia sulla debenza del contributo unificato iniziale, né quindi quella sul presupposto sostanziale dell’obbligo del ‹‹raddoppio››, essendo ciò materia rientrante nella giurisdizione del giudice tributario e nell’ambito del diverso processo in cui l’Amministrazione finanziaria richieda il pagamento del tributo nei confronti del soggetto ad esso obbligato.
10.2. La pronuncia con cui la Corte di cassazione dichiara l’improcedibilità del ricorso, per effetto del mancato deposito dello stesso a norma dell’art. 369 c.p.c., a seguito della iscrizione a ruolo a tal fine richiesta dalla parte cui il ricorso sia stato notificato, deve rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, essendo il provvedimento adottato inquadrabile nei tipi previsti dalla norma.
Anche in tal caso, invero, non può dirsi escluso dalla legge l’obbligo di versare il contributo unificato iniziale, né rileva, peraltro, che esso non sia stato in concreto versato dal ricorrente, avendo comunque provveduto al pagamento (o, eventualmente, prenotato a debito il relativo importo, nei casi di cui all’art. 11 del d.P.R. n. 115 del 2002)
il controricorrente “diligente”.
L’art. 14, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 individua la parte che per prima si costituisce in giudizio come tenuta al pagamento contestuale del contributo unificato, senza che possa così distinguersi, nel giudizio di cassazione, tra le posizioni del ricorrente o del controricorrente (salvo il criterio del pagamento dell’autonomo contributo cui siano poi tenute le altre parti ai sensi del comma 3 della stessa norma). L’importo versato a titolo di contributo unificato dal controricorrente, che abbia richiesto l’iscrizione a ruolo del processo al fine di far dichiarare l’improcedibilità del ricorso non depositato, può essere recuperato in sede di regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione secondo soccombenza.
Il pagamento del contributo unificato rientra, invero, nell’onere di anticipazione delle spese delineato dall’art. 8 del d.P.R. n. 115 del 2002, e trova poi sistemazione finale in base agli artt. 91, 92 o 310, comma 4, c.p.c. Viceversa, l’«ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione» che sia respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, grava ex lege sulla parte soccombente, anche quando questa non si sia costituita, oppure quando sia disposta dal giudice la compensazione delle spese processuali.
Ricorre, del resto, anche in ipotesi di dichiarazione di improcedibilità del ricorso notificato e non depositato, la funzione, propria dell’obbligo tributario del versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, di ristorare l’amministrazione della Giustizia dall’aver essa dovuto impegnare le limitate risorse dell’apparato giudiziario nella decisione di una impugnazione non meritevole di accoglimento. L’improcedibilità del ricorso per cassazione notificato e non depositato postula comunque lo svolgimento di un grado del giudizio rivelatosi del tutto superfluo e giustifica il maggior costo fiscale del servizio.
10.3. Va quindi enunciato il seguente principio di diritto:
“la pronuncia con cui la Corte di cassazione dichiara l’improcedibilità del ricorso, per effetto del mancato deposito dello stesso a norma dell’art. 369 c.p.c., a seguito della iscrizione a ruolo a tal fine richiesta dalla parte cui il ricorso sia stato notificato, deve rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, essendo il provvedimento adottato inquadrabile nei tipi previsti dalla norma”.
11. In definitiva, il ricorso notificato da Rossana Recinella deve essere dichiarato improcedibile, con condanna della ricorrente a rimborsare alla controricorrente Agenzia delle Entrate le spese del giudizio di cassazione nell’importo liquidato in dispositivo.
Non vi è ragione di procedere alla compensazione delle spese, in quanto il contrasto rimesso alla decisione di queste Sezioni Unite non concerneva una questione dirimente oggetto del giudizio di cassazione.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte dichiara improcedibile il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi € 3.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 23 maggio 2023.
Il Consigliere estensore
ANTONIO SCARPA
Il Presidente
PASQUALE D’ASCOLA
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 11 novembre 2022, n. 33271, per SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20621, in tema di contributo unificato
SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20621, in tema di contributo unificato
In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20473
Civile Ord. Sez. U Num. 20473 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO
Data pubblicazione: 17/07/2023
ORDINANZA
sul ricorso 24540-2022 proposto da:
COMUNE DI MOZZATE, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati ADRIANO PILIA e MARCO LUIGI DI TOLLE;
– ricorrente –
contro
PAPA COSTRUZIONI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EMANUELE FILIBERTO 233, presso lo studio dell’avvocato RITA TIBERI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCA INGROSSO;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 4206/2021 del TRIBUNALE di COMO.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/05/2023 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale CORRADO MISTRI, il quale chiede che la Corte di cassazione dichiari la giurisdizione del Giudice amministrativo.
Fatti di causa
Dopo la sottoscrizione, nel marzo 2003, del piano di zona per l’edilizia economica e popolare (p.e.e.p.) tra il Comune di Mozzate e la Regione Lombardia, il comune pubblicò un bando per l’assegnazione di 25 lotti di terreno a prezzi concordati.
Uno dei lotti, denominato “Brera”, venne assegnato alla Papa Costruzioni s.r.l. con delibera del 9 giugno 2007.
In data 5-3-2008 venne stipulato tra le parti l’atto di vendita dell’area sita in località “Brera”, lotto 6, al prezzo di 552.910,17, di cui 315.158,79 EUR quale corrispettivo del terreno e il resto per oneri di urbanizzazione.
All’atto di compravendita venne allegata la “convenzione area PEEP di via Brera”.
A fronte di pagamenti da eseguire in dodici rate costanti, come da prospetto allegato al contratto, la società dopo le prime quattro rate rimase inadempiente.
Il comune ha chiesto e ottenuto un decreto ingiuntivo per il pagamento del residuo.
La società ha proposto opposizione dinanzi al Tribunale di Como, chiedendo accertarsi la nullità del decreto per difetto di legittimazione attiva del comune, per l’insussistenza dei presupposti di legge e per l’altrui inadempimento agli obblighi contrattuali sottoscritti.
Nel corso del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo il tribunale ha rilevato d’ufficio che in base all’articolo 133, lett. a), n. 2, del d.lgs. n. 104 del 2010 (cod. proc. amm.) la giurisdizione sarebbe spettata al giudice amministrativo.
Il comune di Mozzate ha proposto un ricorso per regolamento preventivo, sostenendo che invece la giurisdizione debba essere del giudice ordinario, perché col ricorso per decreto ingiuntivo era stato semplicemente azionato il residuo credito vantato nei riguardi della società in forza del contratto di vendita dell’immobile.
Tale pretesa – si dice – aveva trovato la sua base negoziale nella convenzione, allegata al contratto, stipulata ai sensi dell’art. 35 della l. n. 865/71 per la concessione e regolamentazione del diritto di proprietà dell’area di edilizia economica e popolare; e nella sede di opposizione non erano state poste in discussione né la quantificazione del corrispettivo, né l’individuazione del soggetto debitore, né erano state avanzate contestazioni relative al rapporto di concessione.
Per cui in definitiva in ordine al richiesto corrispettivo non sarebbe giunta in esame alcuna attività dell’ente riconducibile al potere discrezionale.
La società ha replicato con apposita memoria.
Le parti hanno depositato ulteriori memorie.
Ragioni della decisione
I. – Non è in discussione il principio per cui la decisione sulla giurisdizione, secondo l’art. 386 cod. proc. civ., è determinata dall’oggetto della domanda.
Rileva in tal senso il petitum sostanziale, che si identifica sia in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, sia e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio e individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione (ex aliis Cass. Sez. U n. 20350-18, Cass. Sez. U n. 12378-08; più di recente Cass. Sez. U n. 13702-22, Cass. Sez. U n. 7735-23).
II. – Dalla lettura degli atti – che la Corte in questi casi è chiamata a fare autonomamente – emerge in modo lineare che la pretesa avanzata in via monitoria dal comune ha trovato causa nel rapporto sorto tra le parti per effetto dell’atto del 5-3-2008 con allegata la “convenzione area PEEP di via Brera”.
Il ricorrente assume che il petitum sostanziale attiene al perimetro della fattispecie negoziale, vale a dire all’adempimento delle obbligazioni derivate dall’atto di vendita. Non risulterebbero presenti, di contro, a suo dire, i tratti del potere autoritativo (discrezionale) della pubblica amministrazione, essendo state veicolate in monitorio semplici pretese di carattere patrimoniale.
III. – Sennonché ogni valutazione a tal riguardo è preclusa dall’ordinanza n. 27768 del 2020 di queste Sezioni Unite resa in fattispecie esattamente speculare tra le stesse parti.
Quell’ordinanza ha qualificato il rapporto scaturente dal contratto del 5-3-2008 come direttamente afferente alla convenzione urbanistica rientrante nel paradigma degli “accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo” (art. , lett. a), n. 2), d.lgs. n. 104 del 2010, cd. cod. proc. amm.).
Si tratta di un aspetto essenziale, perché all’ordinanza richiamata consegue un giudicato preclusivo inter partes sul profilo qualificatorio, anche in considerazione dell’efficacia panprocessuale della statuizione.
Non è dunque più rilevante l’obiezione del comune secondo la quale l’azione coinvolgerebbe, nella specie, unicamente le obbligazioni discendenti dal contratto del 5-3-2008.
IV. – A questo riguardo la Corte reputa opportuno svolgere le seguenti considerazioni esplicative.
La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è configurata dal legislatore nell’ipotesi di cui all’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, quanto alle “controversie in materia di (..) 2) formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo e degli accordi fra pubbliche amministrazioni”.
Con l’espressione “controversie in materia di” la norma allude alle pretese che attengono a (o trovano causa in) accordi integrativi o sostitutivi.
La funzione specificativa o, come anche si dice in grammatica, espansiva della materia – “di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo” – attua il definitivo riconoscimento della cd. amministrazione “per accordi”, che ben vero aveva ricevuto una disciplina di carattere generale già con la legge n. 241/1990 (art. 11) e con la successiva legge n. 15 del 2005.
Occorre difatti puntualizzare che già prima della legge n. 241/1990 era di prassi il ricorso allo strumento dei contratti di diritto pubblico per il perseguimento dei fini sottesi all’azione amministrativa. La caratteristica fondamentale di tale strumento è sempre stata integrata dalla mancanza della parità tra i contraenti, viceversa tipica dei contratti di diritto privato.
Ciò è tanto vero che buona parte della dottrina ha ritenuto (e tuttora ritiene) che codeste tipologie di accordi appartengano al novero dei provvedimenti unilaterali della pubblica amministrazione, ancorché con effetti bilaterali vincolanti sia per il privato che per la pubblica amministrazione stessa.
La particolarità dal punto di vista pratico sarebbe in ciò: che la volontà dell’amministrazione resta in ogni caso, secondo questa tesi, prioritaria in ragione della possibilità di porre nel nulla l’efficacia del contratto in ogni momento, mediante una difforme rivalutazione dell’interesse pubblico.
La tesi opposta – altrettanto rappresentata nel panorama dottrinale – è sempre stata invece caratterizzata nel senso che i contratti di diritto pubblico sono, una volta stipulati, veri e propri negozi, dal momento che non c’è un divieto per le pubbliche amministrazioni di ricorrere agli strumenti negoziali per esercitare il potere pubblicistico.
E quindi, una volta stipulati, ogni aspetto consequenziale deve rimanere attratto dalla disciplina di diritto comune.
V. – L’opposizione tra le due tesi si è perpetuata anche dopo la l. n. 241 del 1990.
La legge n. 241/1990, valorizzando normativamente per la prima volta lo strumento convenzionale per l’imposizione di obblighi agli amministrati mediante acquisizione del loro consenso, ha previsto per l’appunto, da un lato, gli accordi sostitutivi, che hanno la caratteristica di sostituirsi ai provvedimenti amministrativi – e che fino alla legislazione del 2005 potevano concludersi solo nei casi previsti dalla legge – e dall’altro gli accordi integrativi, che hanno come caratteristica quella di definire il contenuto discrezionale di un provvedimento; i quali possono essere stipulati a condizione che ne derivi per entrambe le parti un’utilità maggiore di quella che le stesse avrebbero conseguito dalla mera adozione del provvedimento stesso.
Per siffatte categorie di accordi la tesi prevalente è ancora oggi nel senso della connotazione quali atti di natura pubblicistica, espressione di un potere determinato dal fatto che (i) la volontà della pubblica amministrazione non è posta sullo stesso piano di quella del privato, (ii) i principi in materia di contratti e di obbligazioni si applicano in via residuale in quanto compatibili con la disciplina speciale di tali accordi, (iii) l’adozione è regolata dalle norme sul procedimento amministrativo, (iv) gli accordi sono sottoposti agli stessi controlli del procedimento amministrativo, (v) il potere di recesso è sempre assicurato alla pubblica amministrazione, sebbene con (ovvia) necessità di riconoscimento di un indennizzo all’altro contraente.
VI. – Non è il caso di riprodurre gli argomenti – certamente di non poco rilievo – spesi della concezione opposta per assegnare ai contratti, una volta stipulati, natura privatistica quanto a disciplina e rimedi.
Non è il caso perché la tesi della natura pubblicistica degli accordi in questione (siano essi sostitutivi o integrativi) è parsa in certa qual misura confortata (anche se forse solo in parte) dalla l. n. 15 del 2005 – che ha eliminato dal testo dell’art. 11 della l. n. 241 del 1990 dell’inciso “nei casi previsti dalla legge” e che ha introdotto (al comma 4-bis) la necessità della determinazione preliminare a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa.
Soprattutto tale tesi ha trovato un’eco pressoché definitiva nella sentenza n. 179 del 2016 della Corte costituzionale.
Questa sentenza, affrontando il tema dell’ambito di applicazione della giurisdizione esclusiva in materia di accordi per ciò che attiene alle controversie instaurate (come quella qui in esame) dalla stessa pubblica amministrazione, ha affermato che l’applicabilità della giurisdizione esclusiva anche a tali controversie non è in contrasto con gli art. 103 e 113 cost. sostanzialmente per due ragioni:
– perché l’art. 103 cost., laddove prevede la giurisdizione esclusiva “in particolari materie indicate dalla legge”, ne identifica (peraltro secondo costante giurisprudenza) i criteri di legittimazione in funzione delle materie prescelte nelle quali vi sia esercizio, ancorché in via indiretta o mediata, di un potere pubblico (v. C. cost. n. 204 del 2004 e C. cost. n. 191 del 2006);
– perché il coinvolgimento di situazioni giuridiche di diritto soggettivo e di interesse legittimo, in stretta connessione, è normalmente evidenziata, a proposito delle convenzioni urbanistiche, dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice, atteso il collegamento funzionale delle convenzioni urbanistiche al procedimento di rilascio dei titoli abilitativi edilizi, dei quali esse condizionano l’adozione e integrano il contenuto (v. già Cass. Sez. U n. n. 584-14 e C. st. n. 7057-09).
Donde la conclusione che, “in quanto inserite nell’ambito del procedimento amministrativo, le convenzioni e gli atti d’obbligo stipulati tra pubblica amministrazione e privati costituiscono pur sempre espressione di un potere discrezionale della stessa pubblica amministrazione”, al punto da non avere quindi una “specifica autonomia” (così C. cost. n. 179-16 cit.).
Può quindi considerarsi pacifico il fondamento di tali ipotesi di giurisdizione esclusiva, il quale resta individuato nell’esercizio, ancorché in via indiretta o mediata, del potere pubblico.
VII. – La richiamata ordinanza n. 27768 del 2020 di questa Corte si pone, seppure implicitamente, nel solco di quanto esposto.
In consonanza con altri precedenti (v. per es. Cass. Sez. U n. 13701-18) quell’ordinanza ha in generale rilevato che, anche dopo le modifiche apportate dalla l. n. 15 del 2005 all’art. 11 l. n. 241 del 1990, spetta al giudice amministrativo la cognizione delle controversie relative “agli accordi integrativi del contenuto di provvedimenti amministrativi in materia concessoria”, poiché, come precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 179 del 2016, tali accordi costituiscono pur sempre espressione del potere discrezionale della P.A., anche se esercitato in via indiretta o mediata, e devono essere assoggettati al sindacato del giudice a cui appartiene la cognizione sull’esercizio di tale potere.
Giova dire che la linea di tendenza tesa a identificare nella convenzione un atto di esercizio della potestà pubblica non è stata contraddetta neppure quando si è osservato che è possibile devolvere in arbitrato la pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo – provvedimento identificabile, appunto, nell’omessa sottoscrizione di un nuovo schema di convenzione urbanistica -, ove la condotta della pubblica amministrazione si assuma difforme dai canoni di correttezza e buona fede (v. Cass. Sez. U n. 12428-21).
VIII. – La portata del principio affermato dall’ordinanza n. 27768-20 si estende alla controversia in esame.
Non può affermarsi che la presente causa coinvolga elementi essenziali distintivi tali da indurre, come dice il comune ricorrente, a una soluzione diversa.
Dalla motivazione dell’ordinanza n. 27768 del 2020 si evince che anche allora la stessa convenzione qui rilevante aveva rappresentato, per il tramite del contratto, il titolo dell’azione monitoria (quella volta della società Papa Costruzioni).
Si comprende, cioè, che la pretesa nei confronti del comune di Mozzate aveva trovato base sempre nel rapporto sorto tra le parti con “la convenzione area PEEP di via Brera del 5 marzo 2008″; mentre con atto pubblico successivo (del 22 maggio 2009) era stata sottoscritta – tra il comune di Mozzate, la Mozzate Patrimonio e la Papa Costruzioni s.r.l. – un’altra convenzione “relativa agli interventi di edilizia abitativa convenzionata di cui al comparto Brera”, con cui la società Mozzate Patrimonio si era sostituita al comune quale soggetto proprietario e gestore degli alloggi da edificare e si era impegnata ad acquistare gli stessi e ad accollarsi il mutuo acceso dall’impresa.
L’avere l’ordinanza richiamata stabilito che “l’oggetto del giudizio si risolve(va) dunque nell’interpretazione di tali due convenzioni e nel conseguente accertamento dei diritti e degli obblighi che dalle stesse sorgono” rifluisce anche nell’odierna fattispecie, perché l’ordinanza ha premesso che l’atto del 5-3-2008 era da qualificare esso stesso come rappresentativo della convenzione urbanistica, così da rientrare nel paradigma degli “accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo” di cui all’art. 133, lett. a), n. 2), del cod. proc. amm.
Si era trattato cioè di uno strumento negoziale attraverso il quale il comune, nell’esercizio della propria potestà di governo del territorio, aveva concretamente attribuito la destinazione a edilizia residenziale pubblica al terreno di cui la società Papa era contestualmente divenuta proprietaria.
IX. – Tale unitaria qualificazione non è più suscettibile di esser messa in discussione come effetto del giudicato esterno.
La conseguenza è che la controversia, sebbene involgente il medesimo rapporto per iniziativa, questa volta, della parte pubblica (v. sempre C. cost. n. 179-16), resta da annoverare nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.
Sussiste infatti la giurisdizione esclusiva di quel giudice quanto agli accordi integrativi del contenuto di provvedimenti amministrativi di natura concessoria, i quali, costituendo anche essi espressione – dopo le modifiche apportate dalla L. n. 15 del 2005, art. 7 alla L. n. 241 del 1990, art. 11, – di un potere discrezionale della P.A., sono assoggettati al sindacato del giudice a cui appartiene la cognizione sull’esercizio di tale potere (v. anche Cass. Sez. U n. 13701-18 e da ultimo Cass. Sez. U n. 11713-23).
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo dinanzi al quale rimette le parti anche per le spese del regolamento.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili,
Allegati:
SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20473, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di appello – SS.UU, 12 maggio 2017, n. 11799
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CANZIO Giovanni – Primo Presidente –
Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sezione –
Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente di Sezione –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sezione –
Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –
Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 2753/2011 proposto da:
R.A., in proprio e quale erede di T.R.L., B.M. in proprio e quale erede di B.L., B.P.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SALARIA 259, presso lo studio dell’avvocato — (Studio Bonelli erede Pappalardo), rappresentati e difesi dall’avvocato —, giuste procure in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
SOCIETA’ SEMPLICE D. & G.Z., in persona dei suoi soci omonimi, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BOCCA DI LEONE 78, presso lo studio dell’avvocato —, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati — e —, giusta delega a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 749/2010 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 15/07/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/12/2016 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;
udito l’Avvocato —;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Nel gennaio del 1995 T.R.L., R.A.M., B.L. ed B.P.E., questi ultimi due quali eredi di B.G., convenivano in giudizio dinnanzi al Tribunale di Parma la “D. e G.Z. società semplice”, chiedendo:
a) in via principale, l’accertamento della nullità della compravendita di una porzione di terreno facente parte di un podere denominato “(OMISSIS)”, conclusa il 16 marzo 1989 per atto notarile, fra la T.R., in proprio e quale rappresentante della figlia R.A.M., e B.G., quali venditrici, e la società convenuta, all’epoca Azienda Agricola G.Z. & C. s.a.s., oltre al risarcimento dei danni;
b) in via subordinata l’annullamento dello stesso contratto per dolo ovvero per errore;
c) in via ulteriormente subordinata, previa “revoca” della quietanza contenuta nell’atto di compravendita, la condanna della società al pagamento del prezzo pari a 69 milioni di lire, oltre interessi legali dalla data del rogito, ed il maggior danno.
1.1. La convenuta si costituiva e chiedeva il rigetto della domande, evidenziando, altresì, la contemporanea pendenza di un procedimento penale, nel quale Z.G., nella veste di loro procuratore, risultava imputato per il reato di truffa contrattuale, in relazione alla vendita delle altre parti residue del detto podere, nonchè sostenendo l’estinzione del processo, in quanto l’azione civile era stata esercitata dalle attrici in sede penale, al fine di ottenere la restituzione e il risarcimento del danno.
Nel corso del lungo svolgimento processuale di primo grado, nel quale veniva disattesa l’istanza di estinzione, interveniva la condanna dello Z. in sede penale.
2. Il Tribunale di Parma, con sentenza del febbraio 2002, accoglieva soltanto la domanda delle attrici avente ad oggetto la condanna della società al pagamento della somma di 69 milioni di Lire, mentre rigettava le altre domande.
3. Le parti attrici proponevano appello in via principale contro Z.D. e Z.G., in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili della società semplice Azienda Agricola D. e G.Z., lamentando l’erroneità del rigetto delle altre domande, mentre gli appellati, in sede di costituzione, proponevano appello incidentale chiedendo la riforma della sentenza appellata nella parte in cui aveva accolto la domanda di pagamento del corrispettivo della compravendita.
4. La Corte di Appello di Bologna, con sentenza del 5 luglio 2010, ha rigettato l’appello principale ed accolto quello incidentale, caducando la condanna degli appellati al pagamento della somma corrispondente al prezzo pattuito.
5. Avverso tale sentenza, Z.D. e Z.G. e R.A.M., in proprio e quale erede di T.R.L., B.M., quale unico erede di B.L., deceduto nel corso del giudizio, ed B.P.E., hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a dieci motivi, contro la società semplice Azienda Agricola D. e G.Z., in persona dei soci illimitatamente responsabili.
6. Al ricorso ha resistito con controricorso l’intimata.
7. La trattazione del ricorso veniva fissata per l’udienza del 4 febbraio 2016 davanti alla Seconda Sezione Civile della Corte e i ricorrenti depositavano memoria ex art. 378 c.p.c..
All’esito della camera di consiglio, la Seconda Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 4058 del 2016, rimetteva gli atti al Primo Presidente, per la risoluzione di un contrasto di giurisprudenza, la cui soluzione reputava rilevante per la decisione del quinto motivo di ricorso.
8. Il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e seguiva la fissazione dell’odierna udienza, in vista delle quali le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. In via preliminare, deve disattendersi l’eccezione dei resistenti, di inammissibilità del ricorso, in quanto sarebbe stato proposto contro Z.D. e Z.G. in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili dell’Azienda Agricola D. e G.Z., mentre in primo grado era stata convenuta la D. e G.Z. società semplice, in persona del suo legale rappresentante pro tempore.
L’assunto – ove si dovesse intendere nel senso che i due soci sarebbero stati evocati in giudizio in proprio, mentre non erano parti come tali ma come soci – è basato su un dato inesistente, giacchè il ricorso per cassazione è stato espressamente proposto contro la società semplice Azienda Agricola D. e G.Z., in persona dei soci illimitatamente responsabili, Z.D. e Z.G..
1.1. Peraltro, ancorchè l’intestazione della sentenza rechi l’indicazione come parte appellata di “Z.D. e Z.G., in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili della società semplice Azienda Agricola D. e G.Z.”, dall’esame della sentenza non emerge alcunchè che evidenzi che la legittimazione a stare in giudizio di dette persone fosse stata spesa anche in proprio ed il dispositivo della sentenza, in punto di regolamento delle spese giudiziali, reca la condanna a favore dell’appellata, cioè della società semplice.
2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, senza indicare nell’intestazione alcuna norma di diritto violata, la “violazione di legge sostanziale (art. 360, n. 3) in tema di giudicato esterno”.
2.1. La violazione del giudicato esterno riguarderebbe la sentenza, pronunciata dalla stessa Corte di Appello felsinea in sede penale in data 18 gennaio 2010 e divenuta successivamente irrevocabile, con la quale Z.G. venne definitivamente condannato per il reato di truffa in danno dei ricorrenti.
A fronte dell’eccezione di cosa giudicata, la sentenza impugnata ha ritenuto che il precedente di questa Corte, invocato da parte delle appellanti (cioè Cass. civ. 15 febbraio 2001 n. 2200), non potesse trovare applicazione nella fattispecie, in quanto la vendita del 16 marzo 1989, della quale si era chiesto l’accertamento della nullità ovvero l’annullamento, non rientrava tra gli atti traslativi, che erano stati sottoposti direttamente all’attenzione del giudice penale, onde verificare la sussistenza degli estremi del delitto contestato allo Z..
Secondo il giudice di appello, infatti, sebbene nella sentenza penale fosse presente un riferimento all’atto del 16 marzo 1989, esso era finalizzato esclusivamente a giustificare le incongruenze, dimenticanze ed errori del racconto delle parti lese, mentre non vi era stato un immediato accertamento circa l’incidenza causale della condotta delittuosa dell’imputato sulla volontà delle venditrici.
2.2. Il motivo è inammissibile e comunque privo di fondamento.
E’ inammissibile, perchè non censura espressamente la ratio decidendi, enunciata a pagina 10 dalla sentenza impugnata con l’espressione “a prescindere dalla difficoltà di ritenere opponibili gli eventuali fatti penalmente accertati nei confronti di un soggetto terzo rispetto a quel giudizio, qual è l’attuale appellata”.
Il motivo di ricorso non si fa carico di questa affermazione e, poichè essa vale di per sè a sorreggere la negazione dell’efficacia del preteso giudicato esterno, ne consegue che il suo consolidarsi per mancanza di impugnazione fa passare in cosa giudicata la relativa ratio decidendi e tanto preclude la possibilità di esaminare l’altra sottoposta a critica.
2.3. Peraltro, il motivo, nella stessa sua astratta prospettazione in iure, è infondato.
Il giudicato penale sarebbe riferibile alla società, in quanto formatosi nei confronti dello Z., che ne è socio e la rappresenta nel presente giudizio civile.
L’assunto è privo di fondamento.
La mancanza della personalità giuridica, nella società semplice, come, del resto, nelle società personali in genere, non esclude che la società abbia una sua soggettività, strumentale, volta a consentire alla pluralità di soci una unitarietà delle forme d’azione (in termini: Cass. n. 8399 del 2003 e Cass. n. 7886 del 2006).
Ora, se un socio della società semplice agisce nella qualità di amministratore della società e commette un reato a vantaggio della società e viene attinto da un processo penale, all’esito del quale viene affermata la sua responsabilità, la connotazione di essa come personale e, dunque, come responsabilità della persona fisica, non consente di riferire il giudicato penale alla società personale e, dunque, alla società semplice, per la ragione che la presenza nel giudizio penale come imputato del socio che pure ha agito in sua rappresentanza come amministratore è riferibile esclusivamente alla sua persona e non alla società.
La presenza nel giudizio penale della società suppone, invece, che essa vi venga chiamata come responsabile civile a norma dell’art. 83 c.p.p..
3. Il secondo motivo è così intestato: “Sulla nullità. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più fatti controversi e decisivi (art. 360 c.p.c., n. 5)”.
In esso nemmeno vengono identificati i termini dell’azione di nullità, che risulta difficile individuare nella stessa struttura complessiva del ricorso.
L’illustrazione del motivo, peraltro, non evidenzia alcuna critica in iure con riferimento alla categoria della nullità e deve, pertanto, apprezzarsi solo come critica svolta alla stregua del paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
3.1. Senonchè, si deve rilevare, in proposito, che lo stesso esordio dell’illustrazione del motivo rivela che i ricorrenti si sono posti del tutto al di fuori della logica che esigeva il paradigma dell’art. 360, n. 5.
Si dice, infatti, nell’exordium, che “allorchè si accosta alla vicenda, l’intera motivazione può presentarsi come logica solo letteralmente chiudendo gli occhi sui fatti accertati in sede penale (e, complessivamente, in altri 7 giudizi tutti persi dall’Ing. Z.). In realtà, la motivazione impugnata è gravemente illogica, è superficiale perchè basata su una mera presunzione (peraltro non grave, nè univoca e pure smentita per tabulas e tradisce una errata valutazione di questioni fondamentali ai fini della decisione della causa”.
Ebbene, già questo incipit esclude che, nella successiva illustrazione, le ricorrenti abbiano potuto argomentare il dedotto motivo di cui all’art. 360, n. 5, nel testo applicabile al presente giudizio di cassazione, che avrebbe richiesto l’indicazione sia dei “fatti controversi” oggetto del vizio denunciato (ex multis, Cass. n. 17761 del 2016, da ultimo), sia della motivazione articolata dalla sentenza impugnata riguardo ad essi, sia delle ragioni di decisività evocate nel paradigma del n. 5.
E la lettura dell’illustrazione lo conferma e non consente di attribuirgli la struttura di idoneo motivo a sensi dell’art. 360, n. 5, secondo il testo già richiamato.
Queste le ragioni:
a) nell’intera esposizione del motivo non viene mai evocato, innanzitutto, il concetto di fatto controverso, ma si svolgono critiche a quella che si definisce presunzione applicata dalla corte territoriale, indicandola nell’avere ritenuto, con motivazione che si dice “inconsistente”, che le ricorrenti non potevano non sapere che la famosa vendita non riguardava un cespite diverso da quello già oggetto di una precedente vendita;
b) il motivo, dunque, appare rivolto a criticare l’approdo di un ragionamento presuntivo svolto dalla corte territoriale, ma la critica non viene svolta con argomenti in iure circa l’erronea applicazione dei caratteri individuatori della presunzione semplice alla stregua dell’art. 2729 c.c., comma 1, (che è possibile denunciare come vizio di violazione di tale norma di diritto: Cass. n. 17457 del 2007);
c) il motivo fa riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, ma si limita ad individuarla in modo atomistico, sicchè il lettore, essendo investito della lettura di parti non raccordate, non si trova di fronte ad una individuazione effettiva della motivazione della corte territoriale, ma di affermazioni che, in quanto estrapolate, non possono essere considerate rivelatrici del convincimento della corte di merito;
d) la critica svolta al ragionamento presuntivo che avrebbe svolto la corte territoriale, pur collocata nell’art. 360 c.p.c., n. 5, prospetta, peraltro, esclusivamente una ricostruzione della posizione dei ricorrenti nella conclusione della vendita del marzo 1989 in termini di mera possibilità alternativa a quella (che sarebbe stata) ritenuta dalla corte territoriale;
e) in tal modo, ci si pone al di fuori del paradigma del n. 5, applicabile al ricorso, con riferimento alla critica del ragionamento presuntivo, svolta non in iure, ma con riferimento ad una errata ricostruzione della quaestio facti, funzionale all’applicazione della regola presuntiva: una simile critica esigeva, infatti, il rispetto del principio di diritto secondo cui “In tema di ricorso per cassazione, il riferimento contenuto nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, applicabile ratione temporis) – al “fatto controverso e decisivo per il giudizio” implicava che la motivazione della quaestio facti fosse affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che fosse tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione” (Cass. n. 17037 del 2015).
4. Il terzo motivo è intestato in questi termini: “Sulla valutazione delle prove riguardo la nullità e l’annullamento. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più fatti controversi e decisivi (art. 360 c.p.c., n. 5) e violazione delle regole in tema di presunzioni (art. 360 c.p.c., n. 3)”.
Anche questo motivo, pur dichiarando di voler assumere come oggetto di critica la valutazione delle prove riguardo all’azione di nullità ed a quella di annullamento, si astiene dall’individuarne i termini e per entrambe costringerebbe il lettore a ricercarli inammissibilmente aliunde.
Fermo quanto già detto a proposito del precedente motivo per la prima, per la seconda si apprende alla pagina 34 dell’esposizione del fatto che l’azione di annullamento era stata esercitata in via subordinata a quella di nullità in primo luogo ai sensi dell’art. 1439 c.c., comma 2, cioè per c.d. dolo del terzo e, a pagina 35, in via ulteriormente subordinata per errore ai sensi dell’art. 1428 c.c. e ss..
Con riferimento al primo profilo, peraltro, la spiegazione ed individuazione dell’atteggiarsi dello Z. in posizione di terzo resta oscura, dato che non solo si richiama un orientamento giurisprudenziale secondo cui “il contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti ai danni dell’altro è annullabile per dolo”, così contraddicendo la posizione di terzo dello Z., ma, di seguito, si dice, con contraddizione ancora maggiore, che “Z. era un contraente, in quanto – sebbene avesse simulato il contrario – era intervenuto nel negozio non solo in qualità di procuratore delle venditrici, ma anche quale socio-amministratore-legale rappresentante della società acquirente”.
Affermazioni queste che rendono, inoltre, assolutamente contraddittorio che, quando si riferisce dell’azione di annullamento per errore, si definisca lo Z. come “consigliere infedele”.
Inoltre, sempre nella pagina 35, rimane del tutto oscura la modalità di verificazione del preteso errore, giacchè i suoi termini non vengono esattamente e specificamente individuati attraverso la descrizione delle circostanze percepite delle ricorrenti ed allegate a fondamento della domanda, che avrebbero integrato una falsa rappresentazione della realtà determinativa della conclusione della vendita.
In tal modo, al lettore è prospettato assertoriamente che l’errore sarebbe stato nel convincimento di non vendere alcunchè, che non fosse stato già oggetto delle vendite precedenti.
4.1. Si deve, poi, aggiungere che in tutta l’illustrazione non viene mai evocata in modo specifico la motivazione della sentenza impugnata se non con un accenno del tutto indiretto e generico a pagina 45.
Nella descritta situazione, la serie di rilievi sul modo in cui sarebbero state valutate risultanze probatorie o si sarebbe omesso di valutarne altre si dovrebbe apprezzare senza che si sappia quale era stato il tenore dei fatti costitutivi allegati a fondamento delle domande di declaratoria della nullità e dell’annullabilità e senza l’indicazione della motivazione che sarebbe incorsa nell’erronea ed omessa valutazione.
Tanto evidenzia, già su un piano generale, la mancanza dei dati necessari per vagliare la prospettazione delle ricorrenti.
In ogni caso, i rilievi sulla erroneità od omissione della valutazione delle risultanze probatorie sono svolti senza una precisa individuazione dei fatti controversi e senza il rispetto del principio di diritto richiamato a proposito del motivo precedente, cioè adombrando una mera possibilità di valutazione alternativa.
4.2. Si aggiunga che nell’illustrazione non si coglie mai alcun distinguo dell’argomentare rispetto alle due tipologie di azione, che permetta di correlarlo alla rispettiva motivazione della sentenza.
4.3. Infine, si deve rilevare che, a proposito dell’azione di annullamento, la sentenza impugnata articola la motivazione – a partire dalla seconda proposizione della pagina 12 e fino a metà della pagina 13 – con due distinte ed autonome rationes decidendi.
Con la prima, la Corte felsinea ha affermato, in senso opposto a quanto ritenuto dal primo giudice, la fondatezza della questione di prescrizione dell’azione di annullamento.
Con la seconda, la Corte ha enunciato che “in ogni caso, meriterebbero di essere condivise le ragioni esposte dal giudice di primo grado, da intendersi qui richiamate (sub B e sub C del capo della sentenza “Le domande attrici”) che avrebbero, comunque, comportato il rigetto della domanda di annullamento”.
In tale situazione, le ricorrenti, nel motivo di ricorso in esame si sarebbero dovute fare carico di criticare dette ragioni, evocando necessariamente e criticando la motivazione resa in quei capi dal Tribunale e fatta propria dalla Corte territoriale, mentre la critica viene svolta con assoluto disinteresse di quella motivazione, con conseguente ulteriore ragione di inammissibilità (Cass. sez. un. n. 16598 del 2016, che ha ribadito il principio di cui a Cass. n. 359 del 2005).
5. Il quarto motivo è così intestato: “Sulla domanda di nullità e annullamento. Violazione di legge sostanziale (art. 360 c.p.c., n. 3) in tema di non necessità della denuncia querela per l’ipotesi di difetto del consenso e di dolo contrattuale ovvero per errore ostativo”.
L’illustrazione esordisce assumendo che “la Corte d’Appello ha mostrato di non conoscere” la giurisprudenza di legittimità, che evidenzia che la querela di falso contro un atto rogato da notaio non è esperibile, se si assume che le dichiarazioni rese non sono diverse da quelle documentate, ma divergono dalla reale volontà comune o di una delle parti, perchè in tali casi le azioni esperibili sono rispettivamente di simulazione o di vizio del consenso.
Si sostiene che la corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto “non proponibile (o, comunque, non plausibile e, quindi, presuntivamente infondata) l’azione di annullamento per il fatto che non sia stato impugnato il contenuto dell’atto 16.3.1989, quando, invece, era chiarissimo che le Signore non hanno mai negato di essere intervenute innanzi al notaio, bensì hanno escluso di aver voluto vendere (scientemente) qualche cosa e, tanto meno, di voler vendere a soli 69 milioni di lire un cespite che valeva 15-20 volte tanto…”.
Sia queste deduzioni, sia quella svolte nel prosieguo, non recano alcuna individuazione anche indiretta della motivazione della sentenza impugnata, sicchè l’illustrazione non evidenzia una critica alla sentenza impugnata e, dunque, non ha la struttura di un motivo di impugnazione, secondo il principio già in precedenza richiamato.
6. Appare a questo punto opportuno, per la sua connessione con il terzo motivo, l’esame dell’ottavo motivo di ricorso, che deduce: “Sulla domanda di annullamento. Il merito. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più punti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”.
Esso presenta la seguente articolazione.
In primo luogo si lamenta che la Corte territoriale non avrebbe motivato “per quale ragione non fosse accoglibile l’istanza di acquisizione dei verbali delle udienze penali nei quali i testimoni C., Notaio G. e Avvocato S.A. avevano reso deposizioni decisive”.
La deduzione è inammissibile, perchè non si indica se, come e dove era stata formulata tale istanza, e non si spiegano le ragioni di decisività di quella acquisizione.
Nella parte successiva, a partire dalla seconda proposizione, si riporta innanzitutto, paludandolo, con omissione dell’incipit, da motivazione resa dalla Corte territoriale, un’affermazione che essa ha fatto a pagina 12 (quinta proposizione), ma in essa è stata solo fornita l’interpretazione della motivazione del primo giudice a proposito della questione del decorso della prescrizione.
Di seguito, pur dando atto che la corte territoriale ha reso sull’azione di annullamento una motivazione per relationem, dichiarando di condividere i punti “B” e “C” della motivazione del primo giudice, si passa, senza riferire anche in questo caso quali fossero stati i contenuti di detta motivazione, a svolgere considerazioni su una serie di circostanze fattuali, anche evocative di passi della sentenza penale, che vizierebbero la motivazione della corte d’appello e si indicano, in fine, talune “affermazioni” che presenterebbero evidenti contraddizioni.
Il motivo è inammissibile.
La sentenza impugnata ha dichiarato di condividere le motivazioni espresse dal primo giudice quanto al rigetto della domanda di annullamento.
Ora, tali motivazioni non sono in alcun modo evocate, come sarebbe stato necessario e, pertanto, non si sa che cosa la sentenza impugnata ha condiviso e non si sa neppure se quelle che si dicono “affermazioni” siano state indicate come tali, volendo alludere al fatto che erano state fatte dal primo giudice nei punti “B” e “C”.
Il motivo, in conseguenza, non individua la motivazione sottoposta a critica ed è perciò privo della struttura di motivo di impugnazione.
7. Con il quinto motivo, che è quello che ha occasionato la rimessione alle Sezioni Unite della questione di particolare importanza, si deduce testualmente: “Sulla domanda di annullamento. Violazione di legge processuale e sostanziale (art. 360 c.p.c., n. 3) in tema di giudicato interno, di rilevazione d’ufficio della prescrizione e di termine di decorrenza della prescrizione”.
Nella prima parte del motivo si invoca la rilevanza del giudicato penale per quanto concerne l’individuazione del termine di prescrizione, evidenziandosi che dalle motivazioni delle sentenze penali intervenute nei confronti dello Z. emergeva che le venditrici solo nel 1993 avevano avuto piena contezza della condotta criminale del loro ex tecnico di fiducia, cosicchè la sentenza impugnata erroneamente avrebbe ritenuto che la prescrizione dell’azione di annullamento per dolo doveva decorrere dalla data stessa di stipulazione dell’atto di compravendita, anzichè da quella conoscenza.
Nella seconda parte del motivo – che è quella cui specificamente si correla la rimessione alle Sezioni Unite – si deduce, altresì, che il Tribunale, nell’esaminare e rigettare l’eccezione di prescrizione, sollevata dalla convenuta, aveva osservato che le attrici solo nel 1993 erano venute a conoscenza dei fatti dolosi posti in essere dall’ingegner Z. nei loro confronti e che, ancorchè l’ignoranza circa l’esistenza di un diritto non influisca sul decorso della prescrizione, tale regola viene tuttavia meno allorquando l’ignoranza sia frutto del comportamento doloso della controparte.
Si sostiene, pertanto, che l’eccezione in oggetto era stata espressamente disattesa dal giudice di primo grado e che inopinatamente la Corte di Appello ha riesaminato tale questione, accogliendola in violazione di un giudicato interno venutosi a formare, in ragione della mancata proposizione di un appello incidentale da parte dell’appellata, che era stato invece proposto soltanto riguardo all’accoglimento della domanda di condanna al pagamento del corrispettivo della compravendita.
Per quanto concerneva lo specifico problema della prescrizione, l’appellata si era, invece, limitata – a pagina 17 della comparsa di risposta, al punto 3.3 – ad affermare solo che “non può non eccepirsi la prescrizione nella quale le controparti sono incorse”.
Sostengono i ricorrenti che tali espressioni non consentivano di ritenere formalmente proposto appello incidentale in ordine al rigetto dell’eccezione di prescrizione, cosicchè su tale punto si era formato un giudicato.
In ogni caso, le espressioni letterali utilizzate dall’appellata, come sopra riportate, quando pure si fossero potute intendere come propositive di un appello incidentale, non sarebbero state in grado di soddisfare il requisito della specificità dei motivi di appello, richiesto dall’art. 342 c.p.c., con la conseguenza che sarebbe stato precluso alla Corte felsinea di poter ritornare sulla questione, relativa alla prescrizione dell’azione proposta.
7.1. L’esame di questo motivo dovrebbe, a questo punto, dirsi assorbito: entrambe le censure, infatti, riguardano solo una delle due rationes decidendi, con cui la sentenza impugnata ha ritenuto infondata l’azione di annullamento, id est quella con cui l’ha reputata estinta per prescrizione. Poichè, per effetto dell’esito dello scrutinio dei due motivi precedenti al quinto, nonchè dell’ottavo motivo, la valutazione di infondatezza di detta azione sotto altri profili, quelli con cui la sentenza ha dichiarato di condividere le ragioni di infondatezza enunciate sub B e C dalla sentenza di primo grado, risulta consolidata e, dunque, la sentenza impugnata ormai risulta sul punto confermata, diventa inutile scrutinare se sia stata corretta l’altra ratio decidendi relativa alla prescrizione.
E ciò, perchè la cosa giudicata sulla infondatezza della domanda di annullamento a prescindere dalla fondatezza della sua prescrizione impedisce di scrutinare la ratio fondata su di essa (così Cass. n. 14740 del 2005; o viene a mancare l’interesse al suo esame: Cass., Sez. Un., n. 16602 del 2005).
8. Ritengono, tuttavia, le Sezioni Unite, nonostante l’inammissibilità del quinto motivo per la ragione ora detta, di esaminare comunque, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, la questione di particolare importanza sollevata dalla Seconda Sezione, giacchè la rimessione da essa disposta ha evidenziato che sulla stessa perdurano contrasti in seno alle sezioni semplici.
8.1. La Seconda Sezione:
a) ha rilevato che il Tribunale di Parma aveva disatteso l’eccezione di prescrizione riguardo alla domanda di annullamento del contratto per dolo, sollevata dalla società convenuta, che, però, rispetto a detta domanda era risultata vittoriosa per altre ragioni;
b) ha, quindi, osservato che, proposto l’appello principale delle qui ricorrenti avverso la decisione del Tribunale, la controricorrente aveva svolto nella comparsa di costituzione un appello incidentale sull’accoglimento della domanda relativa alle somme, di cui alla quietanza contestuale alla vendita, mentre si era limitata soltanto a riproporre l’eccezione di prescrizione;
c) ha rilevato ancora che, in ragione dell’accoglimento di tale eccezione da parte della Corte territoriale, la seconda censura svolta nel quinto motivo esigeva di stabilire se, a fronte non già del semplice assorbimento o della mancata disamina, ma dell’espresso rigetto dell’eccezione di prescrizione della parte, la qui resistente, per il resto totalmente vittoriosa ed interessata ad una sua nuova disamina da parte del giudice di appello, dovesse a tal fine proporre appello incidentale ovvero potesse limitarsi alla mera riproposizione della questione ex art. 346 c.p.c., com’era in concreto avvenuto.
8.2. In proposito, la Seconda Sezione ha ravvisato l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza della Corte, reputando che esso, “già esistente negli anni passati”, risulterebbe “essere stato altresì acuito dal noto intervento delle Sezioni Unite di cui all’ordinanza del 16 ottobre 2008 n. 25246, con la quale si è affermato che la parte risultata vittoriosa nel merito nel giudizio di primo grado, al fine di evitare la preclusione della questione di giurisdizione risolta in senso ad essa sfavorevole, è tenuta a proporre appello incidentale, non essendo sufficiente ad impedire la formazione del giudicato sul punto la mera riproposizione della questione, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., in sede di costituzione in appello, stante l’inapplicabilità del principio di rilevabilità d’ufficio nel caso di espressa decisione sulla giurisdizione e la non applicabilità dell’art. 346 c.p.c. (riferibile, invece, a domande o eccezioni autonome sulle quali non vi sia stata decisione o non autonome e interne al capo di domande deciso) a domande o eccezioni autonome espressamente e motivatamente respinte, rispetto alle quali troverebbe applicazione la previsione dell’art. 329, secondo comma, cod. proc. civ., per cui in assenza di puntuale impugnazione opera su di esse la presunzione di acquiescenza.
Il punto di perdurante frizione interpretativa è rappresentato dal divergente apprezzamento del concetto di “eccezioni autonome”, da cui far discendere che il loro espresso rigetto imporrebbe la proposizione dell’appello incidentale a cura della parte che sia comunque risultata totalmente vittoriosa nel merito, essendo oggetto di non univoca interpretazione nella successiva giurisprudenza di questa Corte”.
Per coerenziare tale assunto, la Seconda sezione ha proceduto alla rassegna di una serie di precedenti delle sezioni semplici e, dopo aver rilevato che la giurisprudenza della Corte, “pur partendo dal comune dato giurisprudenziale costituito dal citato intervento delle Sezioni Unite, perviene tuttavia a conclusioni applicative assolutamente divergenti”, ha reputato che “tale contrasto non sia obiettivamente suscettibile di essere composto individuando una complementarità logica tra le opposte posizioni” ed ha anche soggiunto che “la risoluzione della questione risulta avere rilevanti riflessi applicativi anche per quanto attiene al giudizio di legittimità (attesa la pacifica inapplicabilità in questa sede della previsione di cui all’art. 346 c.p.c., ove si opti per la tesi della superfluità dell’impugnazione incidentale, la parte totalmente vittoriosa nel merito all’esito del giudizio di appello, non sarebbe tenuta a proporre ricorso incidentale condizionato per far valere l’erroneo rigetto dell’eccezione, conservando la possibilità di riproporla eventualmente in sede di rinvio)”; dal che ha tratto anche il rilievo che si sarebbe in presenza di una questione di massima di particolare importanza.
9. Tanto premesso, rilevano le Sezioni Unite che, effettivamente, nella giurisprudenza delle sezioni semplici perdurava al momento della rimessione una situazione di contrasto sui confini, in punto di modalità della devoluzione al giudice di appello, fra l’istituto della c.d. mera riproponibilità di cui all’art. 346 c.p.c., e quello dell’appello incidentale, regolato dall’art. 343 c.p.c..
Peraltro, successivamente all’ordinanza di rimessione è sopravvenuta, in data 19 aprile 2016, Cass., Sez. un., n. 7700 del 2016, la quale, pur occupandosi del problema della necessità o meno della proposizione dell’appello incidentale, anzichè della sufficienza della mera riproposizione, quanto alla domanda (nella specie di garanzia) rimasta assorbita in primo grado per il rigetto della domanda principale, si è anche soffermata sull’identica questione con riferimento alle eccezioni, svolgendo considerazioni anche a favore della sua soluzione.
Nel senso che, allorquando, riguardo ad una eccezione c.d. di merito svolta dal convenuto o comunque da colui che, difendendosi rispetto all’azione altrui assuma quella posizione sostanziale, il giudice di primo grado si sia pronunciato affermandone l’infondatezza, e, tuttavia, l’azione sia stata rigettata nel merito per altra ragione, il convenuto formale o sostanziale, di fronte all’appello della controparte che si dolga di tale rigetto e, dunque, rimetta in discussione la tutela conseguita per effetto di esso, deve necessariamente, per ottenere che il giudice d’appello riesamini la decisione del giudice di primo grado di rigetto dell’eccezione, proporre appello incidentale e non può limitarsi, invece, alla c.d. mera riproposizione cui allude l’art. 346 c.p.c..
Il Collegio, dunque, potrebbe limitarsi a rinviare alle considerazioni colà svolte (particolarmente, nel paragrafo 5.6. e nei relativi sottoparagrafi).
Senonchè, appare necessaria qualche ulteriore considerazione:
a) sia perchè, nonostante l’arresto oramai risalente di cui a Cass. sez. un. n. 25246 del 2008, nella giurisprudenza delle sezioni semplici, si erano manifestati i contrasti lumeggiati dall’ordinanza di rimessione, i quali risultano verosimilmente indotti dall’uso, da parte di quella decisione, del concetto di eccezione c.d. autonoma, che in quell’occasione originava dalla circostanza che oggetto di scrutinio era un caso in cui veniva in rilievo un’eccezione di rito, quella di giurisdizione;
b) sia perchè, proprio alla luce di Cass. sez. un. n. 7700 del 2016, in un’ottica di completezza della nomofilachia, ulteriori precisazioni risultano necessarie, per un verso sul concetto di decisione implicita dell’eccezione di merito e per altro verso per marcare la differenza di approccio che merita l’analoga questione rispetto alle c.d. eccezioni di rito.
9.1. Giova prendere le mosse dal concetto di eccezione c.d. di merito.
L’eccezione di merito si identifica in quel fatto che, in relazione alla struttura della fattispecie costitutiva del diritto fatto valere dalla parte attrice con la domanda, assume la natura di fatto impeditivo, modificativo o estintivo dell’efficacia dei fatti costitutivi (evocata in qualche modo dall’art. 2697 c.c.), per essere così individuato e qualificato dalla stessa fattispecie normativa astratta relativa al diritto azionato.
Tale fatto, per la sua inerenza sul piano normativo alla fattispecie dedotta in giudizio, assume il rilievo di c.d. fatto principale non diversamente dai fatti costitutivi della domanda.
La sua entrata nel processo suppone innanzitutto che esso vi sia stato introdotto come fatto storico, il che può avvenire in primo luogo tramite l’attività di allegazione dei fatti svolta delle parti e, quindi, tanto e soprattutto (per evidenti ragioni di interesse) tramite quella della parte convenuta, ma anche, inconsapevolmente, tramite quella dell’attore.
Detta attività può avvenire direttamente ed espressamente, cioè tramite la narrazione del fatto storico integrante l’eccezione, oppure indirettamente, in quanto il fatto emerga dai documenti prodotti, che lo rappresentino.
L’introduzione del fatto storico integratore dell’eccezione può poi avvenire anche per effetto delle emergenze dell’istruzione probatoria (in termini, Cass. Sez. Un., (ord.) n. 10531 del 2013).
La rilevanza del fatto integratore dell’eccezione di merito nel processo suppone, accanto alla sua introduzione, un’attività di c.d. rilevazione della sua efficacia giuridica sulla fattispecie dedotta in giudizio con la domanda e, com’è noto, l’ordinamento talvolta riserva tale attività soltanto alla parte, di modo che si è in presenza di un’eccezione c.d. in senso stretto (o, come taluno dice, in senso proprio), mentre, se la riserva non vi sia, il potere di rilevazione è affidato sia alla parte sia al giudice e si è in presenza di una eccezione c.d. in senso lato.
Supposta l’allegazione e rilevazione di un’eccezione di merito (in senso stretto o in seno lato) nel giudizio di primo grado da parte del convenuto, rispetto al tenore della decisione di primo grado, essa:
a) può risultare considerata dalla sentenza impugnata, la quale su di essa ha adottato una statuizione, cioè una motivazione che può essere articolata o con affermazioni espresse o con affermazioni enunciate in modo indiretto, le quali, però, rivelino in modo chiaro la sua valutazione di fondatezza o infondatezza;
b) può risultare, invece, non considerata affatto.
9.2. Nel primo caso, se la decisione è stata di riconoscimento del diritto e, quindi, di accoglimento della domanda, essa, valutando il fatto integratore dell’eccezione, deve averlo riconosciuto infondato ed è evidente che l’interesse a riottenerne l’esame da parte del giudice d’appello farà capo al convenuto con l’appello principale, il quale, dovrà riguardare il ragionamento svolto dal primo giudice per disattendere l’eccezione, se l’appellante intende riottenerne l’esame.
Mentre, se tale interesse egli non abbia, si asterrà dallo svolgimento come motivo di appello di una critica della decisione di primo grado quanto al rigetto dell’eccezione, sicchè il secondo comma dell’art. 329 cod. proc. civ. determinerà l’acquiescenza sulla relativa parte di sentenza e la formazione della cosa giudicata interna sull’infondatezza dell’eccezione, tanto se si tratti di eccezione in senso stretto, quanto se si tratti di eccezione in senso lato, con preclusione in questo secondo caso del potere del giudice di cui all’art. 345 c.p.c., comma 2.
9.2.1. Può darsi, al contrario, che la domanda sia stata rigettata.
Questo rigetto può essere dipeso dall’essere stata ritenuta fondata l’eccezione (che era appunto idonea a definire il giudizio) ed allora è palese che, essendo l’attore interessato a ridiscutere la decisione finale, in quanto determinata da tale fondatezza, la devoluzione della cognizione dell’eccezione al giudice d’appello resterà affidata all’appello principale del medesimo, con la critica della decisione di primo grado quanto alla decisiva valutazione di fondatezza dell’eccezione.
9.2.2. Il rigetto può, però, essere avvenuto per altre ragioni, che possono essere state, o la stessa inidoneità in iure dei fatti costitutivi a giustificare il diritto fatto valere con la domanda giudiziale, o la loro mancata dimostrazione a livello probatorio come fatti storici, o anche una valutazione di fondatezza di un’altra eccezione di merito.
In questi casi è palese che l’interesse ad impugnare con l’appello la decisione sarà dell’attore, perchè egli ha visto rigettata la domanda ed è in posizione di c.d. soccombenza pratica rispetto all’esito finale della lite, mentre l’interesse ad ottenere che in appello si ridiscuta dell’eccezione di merito ritenuta infondata, sarà del convenuto, che ha solo una soccombenza c.d. virtuale sull’eccezione, cioè una soccombenza che non ha inciso sull’esito finale della decisione che gli è favorevole e che non può venire in rilievo in sede di impugnazione se non ove l’appello sia svolto dall’attore.
In questa ipotesi si pone l’alternativa sulla individuazione del modo in cui egli può ottenere che l’eccezione sia riesaminata dal giudice d’appello, rispettivamente con un appello incidentale oppure con la riproposizione ai sensi dell’art. 346 c.p.c.; mentre, ove si tratti di eccezione in senso lato, in mancanza di verificazione di quella fra le due alternative ritenuta applicabile, ha luogo il fenomeno di cui all’art. 329, comma 2, citato e la preclusione, per formazione di giudicato interno, del potere del giudice di appello di rilevare detta eccezione.
La valutazione di infondatezza dell’eccezione risulta enunciata in modo logicamente superfluo, se la si considera rispetto alle prime due evenienze indicate: infatti, il giudice di primo grado che abbia ritenuto l’inidoneità in iure dei fatti costitutivi allegati a fondamento della domanda o non li ritenga dimostrati in fatto, una volta ritenuta questa ragione di infondatezza, non avrebbe avuto bisogno di scrutinare anche l’eccezione e di dirla infondata.
Nella terza evenienza, avuto riguardo alla struttura della fattispecie astratta, l’eccezione disattesa potrebbe collocarsi logicamente come antecedente, ma anche successiva, rispetto a quella invece reputata dirimente ed in tale secondo caso parimenti il giudice non avrebbe avuto bisogno di scrutinarla.
9.3. Nel secondo caso sopra ipotizzato, quello in cui la decisione di primo grado non abbia considerato in alcun modo (cioè nè espressamente nè con motivazione indiretta) il fatto integratore dell’eccezione, parimenti si deve distinguere, in relazione all’esito della decisione sulla domanda.
9.3.1. Se la domanda è stata accolta, l’interesse ad impugnare la decisione sarà del convenuto ed egli, proponendo l’appello in via principale, potrà:
a1) criticare la motivazione svolta dal primo giudice, senza dolersi del mancato esame dell’eccezione: in questo caso sull’eccezione non si formerà alcun giudicato, ma l’eccezione diventerà irrilevante nel giudizio di appello, se in senso stretto, mentre, se si tratta di eccezione in senso lato, resterà possibile solo la sua rilevazione per effetto del potere del giudice d’appello art. 345 c.p.c., ex comma 2, dovendo l’attività di rilevazione ad istanza di parte necessariamente avvenire con l’appello principale (perchè si trattava di critica da svolgere alla sentenza di primo grado per l’omessa pronuncia);
a2) dedurre anche, come ragione di dissenso rispetto all’accoglimento della domanda, in aggiunta alla critica della ragione posta a suo fondamento, l’omesso esame dell’eccezione, denunciando la violazione dell’art. 112 c.p.c., da parte del giudice di primo grado (che è stata incidente sull’esito finale), ma necessariamente con un motivo d’appello, con il quale lamenterà che la domanda avrebbe dovuto rigettarsi, oltre che per quanto esposto a critica della ragione esaminata dalla sentenza, anche e comunque se fosse stata esaminata l’eccezione;
a3) dedurre, invece, solo l’omesso esame dell’eccezione (ex art. 112 c.p.c.) ed astenersi dalla critica della motivazione enunciata dalla sentenza, ma ciò solo qualora, nella struttura della fattispecie astratta, l’eccezione non esaminata risulti, ove fondata, logicamente preclusiva della rilevanza della ragione di fondatezza ritenuta dal primo giudice, nel senso che, se risultasse fondata l’eccezione, la domanda dovrebbe essere rigettata nonostante la fondatezza del diverso ragionamento seguito dal primo giudice nel rigettarla: in questo caso l’eccezione ha una rilevanza che la autonomizza rispetto alla motivazione di accoglimento del primo giudice, la critica della quale non risulta perciò necessaria.
In tutte e tre le ipotesi, la devoluzione al giudice d’appello dell’eccezione di merito dev’essere necessariamente veicolata dall’appello principale, perchè è al convenuto, quale soccombente in senso pratico, che spetta l’iniziativa della devoluzione della controversia al giudice d’appello.
Tutte le ragioni di dissenso rispetto alla decisione del primo giudice debbono essere veicolate con l’appello e ciò anche rispetto a quanto quel giudice non ha deciso affatto. Il referente normativo dell’art. 342 c.p.c., lo conferma.
9.3.2. Se la domanda è stata, invece, respinta senza alcuna considerazione dell’eccezione di merito che il convenuto aveva svolto, bensì per altre ragioni, l’interesse all’impugnazione della decisione sarà dell’attore, che è soccombente in senso pratico; mentre quello a ottenere che la discussione in appello abbia luogo anche sull’eccezione non considerata sarà del convenuto e qui si pone ed ha senso l’alternativa fra l’appello incidentale e la riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c..
9.3.3. Mette conto di considerare che, quando l’eccezione non risulti affatto considerata dalla decisione, si deve, tuttavia, anche valutare l’incidenza di due possibili evenienze.
9.3.3.1. La prima è che il tenore finale della decisione possa essere di contenuto tale che, avuto riguardo alla ragione enunciata ed ancorchè la motivazione non riveli nemmeno in modo indiretto una valutazione sull’eccezione, tuttavia, esclusivamente sotto un profilo astratto, inerente all’ordine logico con cui, con riferimento alla fattispecie dedotta in giudizio, l’eccezione si poneva, possa apparire che quella ragione implichi che l’eccezione sia infondata.
Così, se la domanda, in presenza di un’eccezione di prescrizione del convenuto, viene rigettata dal giudice di primo grado, perchè egli ritiene che i fatti costitutivi non sono stati provati, non è predicabile nemmeno in astratto che il tenore della decisione implichi una valutazione (sebbene astratta) di infondatezza dell’eccezione di prescrizione, e ciò perchè un diritto di cui non è stata dimostrata l’insorgenza non si può prescrivere o non prescrivere.
Viceversa, sempre in caso di rigetto della domanda per mancata prova dei fatti costitutivi, ma in presenza di un’eccezione di nullità del rapporto dedotto o di un’eccezione di annullabilità o di invalidità o di inefficacia o relativa ad altro fatto in astratto incidente sui fatti costitutivi, come per esempio una transazione o una novazione, in astratto è ipotizzabile tanto che il giudice di primo grado, scrutinando i fatti costitutivi del rapporto e reputandoli non provati, abbia potuto supporre implicitamente che quelle eccezioni non erano fondate, quanto che non abbia fatto invece alcuna supposizione in tal senso, ma si sia limitato ad enunciare la motivazione basata sulla manata prova semplicemente perchè essa era di immediata percezione (c.d. ragione più liquida) e comunque giustificava la reiezione della domanda.
In questa seconda ipotesi, deve ritenersi che, mancando una decisione sull’eccezione, sia per affermazioni espresse, sia per affermazioni indirette, chiaramente individuatrici, dal solo esito della decisione finale non possa evincersi che l’eccezione sia stata decisa nel senso della infondatezza.
E’ partendo da tale acquisizione, che si deve procedere, in questi casi, a scegliere la soluzione corretta nell’alternativa fra appello incidentale e mera riproposizione ex art. 346 c.p.c..
9.3.3.2. La seconda evenienza da considerare è che il convenuto, nell’articolare il suo atteggiamento difensivo, abbia espressamente indicato al giudice un ordine di preferenza dell’esame delle sue difese e, quindi, anche rispetto alle sue eccezioni di merito, se ne ha proposte più di una.
Questa graduazione dell’ordine di richiesta di esame delle difese potrebbe essere giustificata dal criterio dell’interesse, eventualmente apprezzato anche con riferimento alle possibili ricadute della decisione su altre controversie fra le parti o su controversie fra il convenuto e terzi.
Si tratta di una graduazione che non sembra vietata, perchè l’ordinamento nell’art. 276 c.p.c., comma 2, stabilisce un ordine di esame e decisione delle questioni, distinguendo soltanto fra le questioni e, dunque, le eccezioni, pregiudiziali di rito e, genericamente, il “merito”, mentre non stabilisce un ordine all’interno dell’esame di quest’ultimo (e, quindi, della pluralità di eccezioni, in ipotesi proposte).
Tanto evidenzia che il giudice, mentre deve necessariamente seguire un criterio di decisione che gli impone di decidere prima le questioni di rito, in quanto esse pregiudicano astrattamente la possibilità di decidere nel merito, viceversa è libero di decidere sul merito, individuando la questione posta a base della decisione.
Tuttavia, se la parte eccipiente richieda l’esame gradato di eccezioni inerenti al merito, si deve ritenere che il potere del giudice ne risenta, sicchè egli dovrebbe osservare nell’esame tale gradazione, se risponda ad un interesse.
Se questo è vero, può ritenersi che, qualora la domanda venga rigettata sulla base dell’esame di un’eccezione formulata dal convenuto, senza rispettare la graduazione fra le varie eccezioni che egli, in ipotesi, aveva indicato, la decisione, se pure non ha ad oggetto le eccezioni di cui il giudice non si è occupato, tuttavia, risulta avere certamente disatteso la richiesta di graduazione.
9.4. Può passarsi ora all’esame dei confini fra appello incidentale e c.d. mera riproposizione.
La loro individuazione, come già le Sezioni Unite hanno rilevato nella sentenza n. 7700 del 2016, sottolineando al riguardo l’assoluta irrilevanza della struttura marcatamente di revisio prioris istantiae, riacquisita oramai dal giudizio di appello ordinario, rispetto a quella di c.d. novum iudicium, introdotta a suo tempo dalla c.d. riforma del 1950, va fatta:
a) in primo luogo, tenendo conto che la riproposizione si deve collocare dove non risulta necessario l’appello incidentale;
b) in secondo luogo, considerando che l’appello incidentale di cui all’art. 343 c.p.c., è riconducibile, sotto il profilo funzionale e contenutistico, alla figura dell’impugnazione incidentale in genere, che è disciplinata in generale dall’art. 333 c.p.c., come species del genus “impugnazione”, ma è inoltre soggetto alla disciplina dell’art. 342 cod. proc. quale species dell’appello.
Ne segue che, “poichè al concetto di impugnazione in generale, cui l’appello incidentale deve ascriversi, è coessenziale la necessaria implicazione di mezzo con cui si rivolgono critiche (sulla base di motivi limitati oppure senza limitazione di motivi, a seconda della natura dello specifico mezzo di impugnazione) all’oggetto dell’impugnazione e, quindi, alla decisione, ne deriva che anche l’appello incidentale necessariamente doveva, come deve risolversi, in una critica alla decisione impugnata” (cit. sentenza).
Ciò consente agevolmente di ritenere e ribadire la soluzione data dalla sentenza del 2008 a favore della necessità dell’appello incidentale le quante volte, in presenza di un rigetto della domanda e, quindi, di esito favorevole al convenuto, che, dunque, si trovi in posizione di c.d. soccombenza soltanto teorica, una sua eccezione di merito sia stata oggetto di valutazione da parte della sentenza di primo grado con una motivazione espressa, che abbia enunciato il suo rigetto, oppure sia stata oggetto di una motivazione che, pur non enunciando espressamente il rigetto, lo evidenzi indirettamente, cioè riveli, in modo chiaro ed inequivoco, che il giudice parimenti abbia inteso rigettare l’eccezione.
9.4.1. Poichè l’eccezione è stata oggetto di decisione e tale valutazione fa parte del tessuto motivazionale della sentenza di primo grado, di modo che non rileva più la circostanza che l’eccezione era stata introdotta nell’oggetto del giudizio fra i fatti che avrebbero dovuto essere decisi, ma risulta che essa abbia acquisito rilevanza in quanto ormai oggetto in concreto della decisione, la circostanza che quest’ultima esprime una posizione di soccombenza, di “torto”, sebbene virtuale, a carico del convenuto, costringe, attesa la presenza nel nostro ordinamento dell’istituto dell’appello incidentale accanto a quello della c.d. riproposizione, a collocare la modalità di investitura del giudice d’appello nel primo e non nella seconda.
La ragione è che la valutazione del primo giudice sull’eccezione è consacrata in una parte della motivazione della sua sentenza, onde, rispetto ad essa, la posizione del convenuto non può che essere omologa a quella dell’attore appellante principale, che, di fronte ad una parte della motivazione che gli dà torto, se la vuole ridiscutere, deve farla oggetto dell’appello.
Tanto – ha osservato Cass., Sez. Un., n. 7700 – “ora è anche formalmente evidenziato dall’art. 342 nel testo vigente, là dove parla di “parti del provvedimento”, così evocando il contenuto della decisione come oggetto della critica espressa con l’appello principale, e là dove, nel comma 2, n. 2, evidenzia il carattere della decisività, con l’espressione “rilevanza a fini della decisione impugnata”“, pur non essendo “dubbio che il vecchio art. 342 c.p.c., quanto parlava dei “motivi specifici dell’impugnazione”, lo comprendesse già”.
9.4.2. A sostegno di tale conclusione cospirano, del resto, gli argomenti, che – sebbene in un contesto in cui veniva in rilievo una eccezione pregiudiziale di rito – aveva già enunciato Cass., Sez. Un., (ord.) n. 25246 del 2008.
Il primo di essi si desume dal regime delle modalità della pronuncia del giudice sulle eccezioni di merito.
La circostanza che, come emerge dall’art. 187 c.p.c., comma 2, nel giudizio di primo grado la decisione su un’eccezione di merito, in quanto essa è idonea in astratto a definire il giudizio sulla domanda riguardo alla quale è stata proposta ed è riconducibile alle questioni di merito aventi carattere preliminare, può essere fatta oggetto di una decisione parziale, che si esprime nella sentenza non definitiva (parziale), di cui al n. 4 del secondo comma dell’art. 279 cod. proc. civ., evidenzia che la decisione sull’eccezione, quando la pronuncia non ne rileva la fondatezza e, pertanto, definisce il giudizio ma la reputa infondata nel merito o per ragioni di rito, si connota, sebbene soltanto espressione di una “parte” del dovere decisionale del giudice, in una sentenza.
La correlazione – a differenza che nel regime originario del codice alla pronuncia della sentenza parziale di rigetto dell’eccezione alternativamente o della riserva di appello o dell’appello immediato, e in entrambi i casi la previsione della necessità di un’impugnazione, evidenzia che tale decisione dev’essere oggetto di reazione sempre con il mezzo dell’appello; e ciò, allorquando la successiva decisione di merito definitiva veda vincitrice la parte, che aveva visto disatteso la eccezione con la sentenza parziale, con il mezzo dell’appello incidentale ai sensi dell’art. 343 c.p.c., ancorchè il testo dell’art. 340 c.p.c., comma 2, non risulti prevedere tale ipotesi per un difetto di coordinamento redazionale (si veda già in tal senso di Cass. n. 779 del 1987 e, da ultimo, Cass. n. 15784 del 2013).
Da questo regime emerge che, se il giudice di primo grado non faccia luogo alla sentenza parziale sull’eccezione di merito e si pronunci su quest’ultima con la sentenza definitiva, dando ragione al convenuto nonostante il rigetto (espresso o indiretto) dell’eccezione, il regime di devoluzione al giudice d’appello, non potendo mutare la forza della decisione sull’eccezione, secondo che su di essa quel giudice si pronunci con la sentenza parziale o con la definitiva, esige l’impugnazione con l’appello incidentale, essendovi sull’eccezione solo una soccombenza virtuale e non pratica e non potendo il convenuto prendere l’iniziativa di devolvere la controversia al giudice d’appello.
9.4.3. In base alle considerazioni svolte si deve allora ribadire (con la sentenza n. 7700 del 2016) “che al concetto della riproposizione deve ritenersi estraneo ogni profilo di deduzione di una critica alla decisione impugnata (…) e, quindi, di ciò che è connaturato al concetto di impugnazione” e che con la riproposizione il legislatore ha inteso alludere, invece, alla prospettazione al giudice di appello di domande ed eccezioni che possano essere appunto soltanto “riproposte”, cioè proposte come lo erano state al primo giudice.
Il fatto che, come dice la norma, esse lo possano essere, perchè risultano da quel giudice “non accolte”, significa che tale mancato accoglimento non è dipeso da una motivazione della sentenza di primo grado che le ha considerate espressamente o indirettamente, ma da mero disinteresse del giudice; sicchè la decisione finale, nella sua struttura motivazionale, non possa in alcun modo reputarsi averle ritenute infondate e, dunque, rigettate.
E’ per questo che l’attività di devoluzione al giudice d’appello della cognizione dell’eccezione non deve espletarsi con il profilo di critica inerente alla figura dell’appello incidentale, ma è sufficiente che si realizzi con la c.d. riproposizione, sebbene essa debba avvenire in modo espresso, cioè con una specifica attività di richiesta al giudice d’appello di esaminare l’eccezione.
In questo caso è vero che si potrebbe pensare che l’omissione della decisione abbia integrato comunque un’omessa pronuncia e che, dunque, abbia determinato la decisione sotto tale profilo, cioè nel senso in cui una decisione, che omette di pronunciare su qualcosa su cui era stato chiesto di pronunciare, pur sempre è frutto anche di tale omissione.
Senonchè, solo se nel regime dell’appello non esistesse l’art. 346 c.p.c., cioè l’istituto della riproposizione, ma solo quello dell’appello incidentale, il cui profilo ricostruito nel senso sopra indicato risente dell’esistenza di tale istituto, certamente, di fronte ad un’omessa pronuncia su un’eccezione di merito, cioè all’astensione sia espressa sia indiretta dalla decisione, sarebbe giocoforza concludere che la denuncia di essa, da parte del convenuto soccombente virtuale, non avrebbe altro veicolo che quello di un appello incidentale.
L’esistenza dell’art. 346 c.p.c., non consente, invece, tale conclusione.
Ciò è tanto vero che, con riferimento ad un’impugnazione come il ricorso in cassazione, nel cui regime non esiste una norma omologa dell’art. 346 c.p.c., è notorio che, invece, il mezzo per devolvere alla Corte la cognizione di eccezioni e questioni non esaminate sia il ricorso incidentale da parte del resistente, che versi in posizione di vincitore in senso pratico e veda dalla controparte rimessa in discussione la sentenza che gli ha dato ragione.
9.4.4. Restano a questo punto da svolgere alcune precisazioni in relazione all’evenienza in cui il convenuto avesse graduato, naturalmente in modo espresso, l’ordine di proposizione di più eccezioni di merito oppure avesse chiesto in via preliminare e sempre espressamente di pronunciarsi sull’eccezione di merito proposta, prima delle altre sue mere difese di merito.
In tal caso, se il giudice non abbia in alcun modo esaminato nè espressamente nè indirettamente l’eccezione e abbia pronunciato sentenza favorevole al convenuto, emerge comunque che in tal modo ha disatteso la richiesta di graduazione o di anteposizione e, dunque, la motivazione, se non rivela quell’esame, rivela certamente che il giudice ha disatteso quella richiesta.
In questa ipotesi, se il convenuto intende mantenere la richiesta di graduazione, è necessario che egli proponga appello incidentale, mentre se si limita a riproporre l’eccezione la conseguenza è che detta richiesta è abbandonata ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2.
9.4.5. E’ opportuna un’ulteriore precisazione, che si correla alla distinzione fra le eccezioni di merito affidate al potere di rilevazione soltanto della parte e quelle in cui tale potere spetta anche al giudice.
In questo secondo caso, se vi è stata una decisione espressa o indiretta sull’eccezione nel senso della infondatezza, la mancata proposizione dell’appello incidentale da parte del convenuto vittorioso ha come conseguenza la formazione della cosa giudicata interna sulla infondatezza.
Ne consegue che resta precluso, per effetto di tale formazione, il potere del giudice di rilevare l’eccezione ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2 (si veda già Cass. n. 1560 del 1987).
9.4.6. Mette conto di rilevare ancora, per ragioni di completezza e considerato che l’arresto del 2008 era stato enunciato in situazione nella quale la Corte doveva occuparsi di un’eccezione di rito, che la ricostruzione proposta del rapporto fra appello incidentale e riproposizione a proposito dell’eccezione di merito non può valere negli stessi termini per le eccezioni di rito.
S’è già veduto che l’art. 276, stabilisce un ordine delle questioni in base al quale il giudice deve esaminare prima le eccezioni di rito e poi il merito.
Con riferimento alle eccezioni di rito, qualora esse siano state disattese espressamente o indirettamente dal primo giudice, che, dunque, su di esse abbia pronunciato, non è dubbio che la parte soccombente su di esse, ma vittoriosa quanto all’esito finale della lite e, dunque, in posizione di soccombenza teorica, se vuole ottenere che esse siano riesaminate dal giudice, investito dell’appello principale sul merito della controparte, deve farlo proponendo appello incidentale e non ai sensi dell’art. 346 c.p.c..
Può accadere che il giudice, nel pronunciare nel merito, rigettando la domanda, ometta di decidere su un’eccezione di rito proposta dal convenuto, nel senso che se ne disinteressi completamente. In tal caso il giudice non solo ha violato l’art. 276 c.p.c., ma il suo disinteresse, a differenza di quello su un’eccezione di merito, non si presta affatto solo ad una valutazione astratta di infondatezza dell’eccezione ma senza alcuna possibilità di considerarla come effettiva, potendo, come s’è detto, il giudice solo avere scelto la soluzione più liquida.
In questo caso, poichè l’eccezione di rito doveva esaminarsi prima del merito e ne condizionava l’esame, il silenzio del giudice si risolve però – ancorchè la sua opinione sull’eccezione di rito non sia stata manifestata e possa in ipotesi essere espressione di scelta della soluzione più liquida – in un error in procedendo, cioè nell’inosservanza della regola per cui il merito si sarebbe potuto esaminare solo per il caso di infondatezza dell’eccezione di rito.
La violazione di tale regola, in quanto ha inciso sulla decisione, esige allora una reazione con l’appello incidentale e non la riproposizione dell’eccezione di rito, perchè è necessario che essa venga espressa con un’attività di critica del modus procedendi del giudice di primo grado, che necessariamente avrebbe dovuto esaminare l’eccezione di rito (circa il modo in cui il giudice d’appello andrà investito si ricorda che non si tratterà della denuncia del vizio di omessa pronuncia, bensì della denuncia dell’esistenza del vizio della sentenza per l’eccezione di rito di cui trattasi: in termini Cass. n. 1791 del 2009 e n. 5482 del 1997; adde: Cass. n. 10073 del 2003, n. 14670 del 2001; n. 3927 del 2002; n. 603 del 2003).
Il discorso che si è svolto per le eccezioni di merito, tuttavia, potrà essere riproposto, allorquando il convenuto avesse proposto più gradate eccezioni di rito ed il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda in rito, accogliendo la prima, oppure ne abbia accolto una di grado successivo senza pronunciarsi espressamente o indirettamente su di essa. Ma non è questa la sede per indugiare ad esemplificare.
9.4.7. Conclusivamente, deve enunciarsi nell’interesse della legge, il seguente principio di diritto: “Qualora un’eccezione di merito sia stata ritenuta infondata nella motivazione della sentenza del giudice di primo grado o attraverso un’enunciazione in modo espresso, o attraverso un’enunciazione indiretta, ma che sottenda in modo chiaro ed inequivoco la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione da parte sua dell’appello incidentale, che è regolato dall’art. 342 c.p.c., non essendo sufficiente la mera riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c.. Qualora l’eccezione sia a regime di rilevazione affidato anche al giudice, la mancanza dell’appello incidentale preclude, per il giudicato interno formatasi ex art. 329 c.p.c., comma 2, anche il potere del giudice d’appello di rilevazione d’ufficio, di cui all’art. 345 c.p.c., comma 2. Viceversa, l’art. 346 c.p.c., con l’espressione eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, nell’ammettere la mera riproposizione dell’eccezione di merito da parte del convenuto rimasto vittorioso con riguardo all’esito finale della lite, intende riferirsi all’ipotesi in cui l’eccezione non sia stata dal primo giudice ritenuta infondata nella motivazione nè attraverso un’enunciazione in modo espresso, nè attraverso un’enunciazione indiretta, ma chiara ed inequivoca. Quando la mera riproposizione (che dev’essere espressa) è possibile, la sua mancanza rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di rilevazione riguardo ad essa è riservato alla parte, mentre, se il potere di rilevazione compete anche al giudice, non impedisce ferma la preclusione del potere del convenuto – che il giudice d’appello eserciti detto potere a norma dell’art. 345 c.p.c., comma 2”.
10. Riprendendo l’esame dei residui motivi, si deve rilevare che il sesto ed il settimo motivo di ricorso – denuncianti rispettivamente, sempre in merito alla domanda di annullamento, la violazione di legge ovvero l’omessa, insufficiente motivazione in ordine al valore interruttivo del corso della prescrizione di una missiva del 5 ottobre 1993 e l’errore di diritto commesso dai giudici di appello nel ritenere applicabile all’azione di annullamento e alla derivante azione risarcitoria il termine di prescrizione quinquennale anzichè quello maggiore previsto per il reato di truffa aggravata – restano assorbiti, stante il già segnalato consolidarsi dell’infondatezza dell’azione di annullamento per la ratio decidendi diversa dalla prescrizione.
11. Con il nono motivo si denunzia l’omessa pronunzia da parte della Corte distrettuale su una non meglio identificata domanda risarcitoria parimenti proposta dalle originarie parti attrici, svolta nella citazione e riprodotta in appello.
11.1. Il motivo è inammissibile, sia perchè omette di individuare i termini, cioè i fatti costitutivi, sulla base dei quali era stata proposta la non meglio identificata azione risarcitoria, sia per l’assoluta genericità della sua illustrazione.
12. Con il decimo motivo si denunzia, infine, l’iniquità della pronuncia impugnata, nella parte in cui ha condannato le ricorrenti a restituire l’importo di cui alla quietanza contestuale all’atto di vendita, in accoglimento dell’appello incidentale della controparte.
Il motivo, nella prima parte della sua illustrazione, dichiara che la decisione della Corte territoriale sul punto sarebbe stata “frutto degli errori sopra dedotti”: sotto tale profilo non può che risentire della sorte dei precedenti motivi in cui si sono denunciati inutilmente tali errori.
Nella seconda parte espone una postulazione, meramente assertiva e, peraltro, in termini di mera possibilità, di una diversa ricostruzione in fatto, senza, però, evocare e considerare espressamente la motivazione della sentenza impugnata, risultando privo di decisività e inidoneo allo scopo.
13. Il ricorso è, conclusivamente, rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, avuto riguardo all’operatività nella controversia del regime di cui all’art. 92 c.p.c., comma 2, anteriore alla riforma intervenuta nel 2006, possono compensarsi, atteso che il quinto motivo, pur inammissibile all’esito dello scrutinio di quelli precedenti e dell’ottavo, si evidenziava astrattamente fondato nella sua seconda censura, alla stregua del principio di diritto che è stato qui riaffermato nell’interesse della legge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 6 dicembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2017.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 01 marzo 2016, n. 4058, per SS.UU, 12 moggio 2017, n. 11799, in tema di appello
SS.UU, 12 maggio 2017, n. 11799, in tema di appello
In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19103
Civile Sent. Sez. U Num. 19103 Anno 2023
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: IOFRIDA GIULIA
Data pubblicazione: 06/07/2023
SENTENZA
sul ricorso 25533-2020 proposto da:
FUCCILO MARISA, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA PAGANICA, 13, presso lo studio dell’avvocato FABIO FRANCARIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALFONSO CELOTTO;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI POTENZA, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SISTINA 121, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNA CORRIAS LUCENTE, rappresentato e difeso dall’avvocato ORAZIO ABBAMONTE;
– controricorrente –
nonchè contro
TRAFICANTE DONATO, DI CIOMMO GERARDO, LOPES RAFFAELE, elettivamente domiciliati in Roma, Via Giovanni Pierluigi da Palestrina n. 19, presso lo studio dell’avvocato Olga Guglielmucci, rappresentati e difesi dall’avvocato Donato Traficante;
-controricorrenti –
avverso la sentenza n. 3040/2020 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 13/05/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/06/2023 dal Consigliere GIULIA IOFRIDA;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale STEFANO VISONA’ che, riportandosi alle conclusioni scritte, ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Fabio Francario e Donato Traficante.
FATTI DI CAUSA
Il Consiglio di Stato, con sentenza n.3040/2020, pubblicata il 13/5/2020, ha respinto il gravame proposto dall’avv. Marisa Fuccilo avverso sentenza del TAR Basilicata n.331/2019, con la quale, nel giudizio promosso dall’avvocato medesimo, nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza e dei componenti avvocati del COA territoriale che le aveva irrogato, nel procedimento disciplinare aperto nei suoi riguardi, in data 3/7/2014 , la sanzione della radiazione, per sentirne ottenere la condanna al risarcimento del danno, ha respinto il ricorso per difetto dell’essenziale presupposto dell’accertamento dell’illegittimità del provvedimento di radiazione.
In particolare, risulta dalla sentenza impugnata e dagli atti, che il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Melfi (COA) comminava all’ avv. Marisa Fuccilo la sanzione disciplinare della radiazione, confermata a seguito di ricorso dell’interessata al Consiglio Nazionale Forense, per avere trattenuto indebitamente la somma di € 98.496,39, destinata alla sua cliente sig.ra Carmela Pace, versandole la minor somma di € 103.957,00, a fronte della somma di € 197.953,39 percepita dalla compagnia di assicurazione in forza di una sentenza del Tribunale di Bari, all’esito di una causa per risarcimento danni promossa dal padre, nelle more deceduto.
Il ricorso per cassazione proposto dall’interessata in quattro motivi, avverso sentenza del Consiglio Nazionale Forense del 2016 (che aveva confermato la sanzione disciplinare), veniva accolto, con sentenza di questa Corte a Sezioni Unte n. 16694 del 6/7/2017, in relazione al quarto motivo di ricorso, implicante vizio motivazionale ex art.360 n. 5 c.p.c., sulla congruità della motivazione circa la scelta della sanzione della radiazione applicata dal COA territoriale (in quanto la Fuccilo: «a) ha trattenuto presso di se ingenti somme di pertinenza della cliente, omettendo di restituirle alla cliente che ne faceva richiesta; b) si è impegnata di fronte al Consiglio dell’ordine in sede disciplinare alla restituzione (quantomeno parziale) di quanto percepito, senza poi adempiere, invocando una malattia (della durata di 10 giorni) ed iniziando invece in pari tempo una causa di accertamento sull’effettiva debenza della somma avanti il tribunale di Bari; c) ha investito le somme in un buono di risparmio a se intestato, sottoponendole un vincolo di indisponibilità sino al 25/4/2016, allorché l’esponente, resasi conto che non vi sarebbe stata spontanea restituzione, ha minacciato un’azione cautelare a propria tutela; d) ha moltiplicato le iniziative giudiziarie al fine di paralizzare le richieste dell’esponente»; così attuando «un sistematico disegno volto ad eludere il proprio obbligo di restituzione, in piena violazione, anzi tradendo il rapporto fiduciario con la cliente»). Queste Sezioni Unite hanno rilevato che il CNF aveva omesso di valutare, ai fini della considerazione della gravità della condotta, la sussistenza o meno dell’appropriazione indebita aggravata, anche in considerazione della circostanza che la professionista non è stata sottoposta a procedimento penale per i fatti contestati in sede disciplinare, non essendosi valutato, nella scelta della sanzione, il pignoramento della somma in contestazione presso terzi, reso possibile dal mancato occultamento della somma da parte dell’avv. Fuccilo, la quale aveva dichiarato dove si trovava il denaro. La sentenza impugnata venne quindi cassata con rinvio, rilevandosi che i suddetti fatti storici avrebbero dovuto essere esaminati dal CNF ai fini della scelta della sanzione disciplinare da comminare.
La Fuccilo veniva reiscritta nell’albo degli avvocati di Potenza, con decorrenza dal 14/7/2017.
All’esito della pronuncia della Corte di cassazione, nessuna delle parti ha riassunto il giudizio in sede di rinvio con sua conseguente estinzione ai sensi dell’articolo 393 c.p.c.
Spirato il termine per la riassunzione, la Fuccilo ha introdotto, con ricorso del 1° marzo 2018, davanti al TAR per la Basilicata, un giudizio, nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza – succeduto ex lege all’Ordine degli Avvocati di Melfi – notificando il ricorso anche agli avvocati Traficante, Lopes e Di Ciommo, individuati come controinteressati in quanto già componenti dell’Ordine degli Avvocati di Melfi -, per il risarcimento dei danni patiti a causa dell’ingiusto provvedimento di radiazione, danni quantificati in € 412.500.00.
Il Tribunale ha respinto «nel merito» il ricorso, prescindendo dall’esame delle eccezioni preliminari di inammissibilità (anche per tardività) dell’azione risarcitoria «del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amminstrativa», sollevate dai controricorrenti, rilevando che: a) ai sensi dell’art.30 c.p.a., la domanda di condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa presuppone l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento che si assume lesivo, vale a dire il provvedimento di radiazione, e, nella specie, in disparte ogni valutazione circa la sussistenza degli altri requisiti prescritti dall’art.2043 c.cc., difetta tale essenziale presupposto; b) la mancata riassunzione del giudizio all’esito della sentenza n. 16694/2017 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha determinato l’estinzione del processo relativo all’impugnazione del provvedimento di radiazione, con caducazione della sola decisione, di natura giurisdizionale, del CNF n. 327/2016, di rigetto del ricorso avverso il provvedimento disciplinare, che invece, essendo una mera determinazione amministrativa, non risulta essere stato travolto; c) di nessun rilievo l’avvenuta reiscrizione della ricorrente nell’albo professionale, avvenuta in ragione della pronuncia cassatoria e della «pendenza del giudizio di rinvio dinanzi al CNF», prima della maturazione della fattispecie di estinzione processuale, cosicché da essa non può trarsi alcun riconoscimento della illegittimità dell’avversata radiazione; d) non è consentito al giudice amministrativo adito, neppure incidenter tantum ai soli fini risarcitori, conoscere dell’illegittimità del provvedimento disciplinare, «considerata l’assoluta carenza di giurisdizione del giudice amministrativo nella materia disciplinare degli avvocati (cfr., artt.50, comma 3, e 54 n. 2 Regio D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art.61 l. 31 dicembre 2012, n. 247)»
Il Consiglio di Stato, nel confermare il rigetto del ricorso della Fuccilo, ha osservato, in particolare, che: a) in primo luogo, andava condivisa la valutazione del TAR secondo cui il provvedimento di radiazione non poteva dirsi «travolto dall’estinzione del relativo processo impugnatorio instaurato davanti al CNF» (pag. 5 della sentenza impugnata), con sua conseguente perdurante efficacia; il Consiglio di Stato, nel fare proprio tale giudizio, ha rilevato che la ricorrente si era limitata ad affermare che «la sentenza del CNF “assorbe e sostituisce nel merito la precedente pronuncia amministrativa”» e ha sottolineato come la sentenza delle Sezioni Unite si fosse limitata a cassare con rinvio la sentenza del CNF che aveva rigettato l’impugnazione del provvedimento di radiazione, il che «implicava un nuovo giudizio (subordinato a impulso di parte) su una determinazione ancora vitale ed efficace»; b) in secondo luogo, a fronte della deduzione, da parte dell’appellante circa il fatto, asseritamente omesso dal TAR, che le Sezioni Unite nel 2017 avessero «escluso la possibilità di comminare la sanzione massima della radiazione», nella specie, non era intervenuta (richiamato il disposto del comma 5 dell’art.30 c.p.a., secondo cui «5. Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza») alcuna pronuncia di «annullamento del provvedimento di radiazione», non essendo stato il giudizio riassunto dinanzi al CNF; c) il giudice amministrativo, non avendo giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati, non potrebbe – «come correttamente evidenziato in prime cure con statuizione non oggetto di specifica contestazione»- conoscere della legittimità del menzionato provvedimento di radiazione, nemmeno in via incidentale; d) nessuna valenza univoca di riconoscimento dell’illegittimità della radiazione poteva attribuirsi alla temporanea reiscrizione dell’interessata all’Albo professionale (peraltro, dopo l’estinzione del giudizio, il Consiglio dell’ordine ha revocato, nel 2020, la reiscrizione previamente disposta).
Avverso la suddetta pronuncia, Marisa Fuccilo propone ricorso per cassazione, notificato il 12/10/2020, affidato a unico motivo, nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza (che resiste con controricorso, notificato il 21/11/2020) e degli avvocati Donato Traficante, Gerardo Di Ciommo e Raffaele Lopes (che resistono con controricorso notificato il 19/11/2020).
Il P.G., in vista dell’adunanza camerale del 12/7/2022, ha depositato conclusioni scritte, chiedendo, in accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata; il P.G. ha osservato che non meriterebbero accoglimento le eccezioni sollevate dai controricorrenti Traficante, Di Ciommo e Lopes, di decadenza per non essere stata l’azione promossa entro centoventi gg dalla conoscenza del provvedimento amministrativo, ex art.30 c.p.a., in quanto la sentenza impugnata ha respinto la domanda risarcitoria in base all’affermazione «in astratto della carenza di giurisdizione», e dal CNF, di inammissibilità della domanda, ha osservato che la sentenza del Consiglio di Stato, sindacabile ai sensi dell’art.111, comma 8, Cost., in quanto, nella specie, vi sarebbe stato un diniego di giurisdizione, sull’assunto della pregiudizialità dell’annullamento del provvedimento amministrativo ai fini dell’esperimento della tutela risarcitoria, pregiudizialità invece esclusa da questa Corte a Sezioni Unite con la sentenza n. 13659/2006, stante l’autonomia della domanda risarcitoria rispetto all’annullamento dell’atto, principio codificato dall’art.30 c.p.a., d.lgs. 104/2010.
La ricorrente ha depositato due memorie, nel novembre 2021 e nel luglio 2022.
Con ordinanza interlocutoria n. 3599/2023, resa all’esito dell’adunanza del 12/7/2022 , questa Corte, alla luce del complesso delle questioni involte dal ricorso, ha ritenuto opportuna la rimessione della causa alla pubblica udienza, poi fissata per il 20/6/2023. La ricorrente ha depositato istanza di discussione orale.
Il P.G. ha depositato in data 29/5/23 nuova memoria, concludendo per il rigetto del ricorso.
La ricorrente ed i controricorrenti Traficante, Lopes e Di Ciommo hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1.La ricorrente lamenta, con unico articolato motivo, la violazione, ex at.360 n. 1 .p.c., degli artt.111comma 8 , Cost. e 110 c.p.a., per rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo adito.
Con un primo profilo di doglianza, la ricorrente argomenta che il Consiglio di Stato avrebbe errato nel non rilevare che le Sezioni Unite avevano ritenuto illegittimo il provvedimento di radiazione, in tal modo violando l’articolo 393 c.p.c., laddove dispone che «la sentenza della Corte di cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che si è instaurato con la riproposizione della domanda».
Sotto ulteriore profilo, la Fuccilo sostiene che, nella specie, ricorrerebbe una ipotesi di «arretramento dalla giurisdizione», per avere il Consiglio di Stato sostanzialmente negato, in via assoluta, la tutela giurisdizionale alla ricorrente, rifiutando di esercitare la giurisdizione sulla domanda risarcitoria, in difetto di previo annullamento dell’atto amministrativo, e il correlato potere di disapplicazione, e così riproposto «la teorizzazione della necessaria pregiudizialità dell’annullamento rispetto all’azione risarcitoria, della quale viene quindi nuovamente negata l’autonomia» (pag. 9, § 2, del ricorso). La ricorrente invoca il principio, affermato da queste Sezioni Unite con le ordinanze nn. 13659 e 13660 del 2006, e ripreso da Sez.Un. n. 30254/2008, secondo cui «Il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione, e la sua decisione, a norma dell’art. 362, primo comma, cod. proc. civ., si presta a cassazione da parte delle Sezioni Unite quale giudice del riparto della giurisdizione, se l’esame del merito della domanda autonoma di risarcimento del danno è rifiutato per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l’annullamento dell’atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti».
La ricorrente, nella memoria da ultimo depositata, si sofferma (in replica alle conclusioni da ultimo formulate dal PG) sulla sussistenza di un interesse legittimo leso, quale posizione giuridica soggettiva che può essere fatta valere dal professionista di fronte ai Consigli Distrettuali, enti pubblici non economici le cui decisioni hanno natura amministrativa, rispetto al corretto esercizio dei relativi poteri, e della giurisdizione del giudice amministrativo, essendosi lamentato, con la proposta azione risarcitoria, l’illegittimo esercizio del potere disciplinare (per avere, in particolare, omesso di considerare fatti di primaria rilevanza, quali stigmatizzati da questa Corte nella sentenza n. 16694/2017, nonché dato per presupposto, erroneamente, un fatto inesistente, quale quello dell’appropriazione indebita cui soltanto poteva ricollegarsi la grave sanzione disciplinare irrogata); in sostanza, essendosi lamentata la sproprorzione della grave sanzione inflitta al professionista, si è fatta questione non della liceità della condotta di quest’ultimo ma di cattivo esercizio del potere, rientrante nella discrezionalità amministrativa, disciplinare, con giurisdizione conseguente del giudice amministrativo. La ricorrente rileva, peraltro, che sulla questione della giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria si è formato il giudicato interno (non avendo il TAR Potenza negato la propria giurisdizione e non essendo stata la sentenza di primo grado impugnata in punto di giurisdizione. Quindi la ricorrente censura la statuizione del Consiglio di Stato per essere stata negata la tutela per mancata previa dichiarazione di illegittimità del provvedimento disciplinare da parte del Giudice speciale (CNF), malgrado il superamento del principio della c.d. pregiudiziale amministrativa.
Assume la Fuccilo, facendo espresso richiamo alle sentenze n. 49/2011 e n. 160/2019 della Corte Costituzionale (citata nella ordinanza interlocutoria n. 3599/2023), che, malgrado non vi sia un’analoga previsione che, come accade per la giustizia sportiva, radichi la controversia nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, deve comunque essere «garantita una protezione giurisdizionale da parte del Giudice comune, che seppure non demolitoria sia quantomeno risarcitoria» e «qualunque sia il giudice individuato …quale avente giurisdizione sulla domanda risarcitoria conseguente all’adozione di un provvedimento disciplinare adottato nei confronti di un avvocato, questi potrà e dovrà eventualmente conoscere in via incidentale della legittimità dell’atto disciplinare, seppure ai soli fini risarcitori», equivalendo la tesi contraria a privare surrettiziamente il soggetto leso anche della residua tutela risarcitoria.
In via subordinata si chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale delle norme che radicano la giurisdizione speciale del CNF, per violazione del fondamentale diritto di difesa e del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt.24,103,11 e 113 Cost.).
1.2.I controricorrenti Traficante, Lopes e Di Ciommo, anche in memoria, premesso di essere stati evocati in giudizio dinanzi al giudice amministrativo, soltanto in qualità di controinteressati, non essendo stata svolta nei loro riguardi alcuna domanda risarcitoria, ribadiscono che la questione della giurisdizione sulla domanda risarcitoria è ormai coperta dal giudicato interno, con conseguente inammissibilità di un controllo sul punto da parte delle Sezioni Unite, trattandosi di sindacato sui limiti interni della giurisdizione, pur dichiarando di aderire a quanto esposto, da ultimo, dal P.G., ai soli fini di chiarimento in funzione nomofilattica, circa la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla domanda risarcitoria avanzata dall’avvocato in relazione al danno derivante da provvedimento disciplinare emesso nei suoi confronti. Gli stessi ribadiscono che non vi è stato un erroneo rifiuto della giurisdizione da parte del giudice amministrativo e che la sentenza, comunque, sarebbe inutiliter data, a causa delle preclusioni maturate, oggetto di specifiche eccezioni.
1.3. Il PG, nella memoria del maggio 2023 ed all’udienza pubblica, ha concluso per il rigetto del ricorso, rilevando che: a) il Consiglio di Stato, senza declinare la propria giurisdizione secondo le regole di riparto, ha ritenuto la propria carenza assoluta di giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati; b) in mancanza di previsione normativa derogatoria, il giudice munito della giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno derivante da procedimento disciplinare emesso nei confronti di un avvocato è il giudice ordinario (che ha il potere di sindacare e disapplicare l’atto amministrativo presupposto in ragione dell’art.5 l.20 marzo 1865 all.E, senza limiti determinati dall’inoppugnabilità) e con riferimento a provvedimenti disciplinari degli avvocati ovvero in materia di risarcimento danni derivanti dal provvedimento disciplinare che si assume illegittimo non è riconosciuto alcun potere giurisdizionale esclusivo in capo al giudice amministrativo; c) il giudice amministrativo privo di potere demolitorio, spettante al CO e al CNF, è, di conseguenza, privo del potere di cognizione incidentale di cui all’art.8 c.p.a.; d) non sussiste il vizio denunciato, ex art.111, comma 8, Cost., in ragione dell’effettiva carenza di giurisdizione del giudice amministrativo nella materia disciplinare degli avvocati e non è sindacabile l’errore in cui è incorso il Consiglio di Stato, per avere ritenuto implicitamente la propria giurisdizione e dichiarato la carenza assoluta di giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati.
2. E’ utile un breve richiamo al contenuto della sentenza n. 16694/2017 e dell’ordinanza interlocutoria n. 3599/2023 di questa Corte.
Risulta dalla sentenza n. 16694/2017, che ha cassato la sentenza del CNF, dando luogo potenzialmente ad un giudizio di rinvio dinanzi a quest’ultimo, giudizio poi non sollecitato da alcuna delle parti, che questa Corte riteneva fondata la denuncia di un vizio motivazionale contenuta nel ricorso per cassazione avverso la sentenza del CNF, in punto di omessa valutazione di fatti decisivi nella valutazione della gravità della condotta contestata all’avvocatessa e della congruità della sanzione irrogata.
Come rilevato da questa Corte nell’ordinanza interlocutoria n. 3599/2023, anzitutto, il giudice amministrativo non ha declinato la giurisdizione di tale giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria dedotta in giudizio, avendo, al contrario, rigettando tale domanda anche nei confronti degli avvocati Traficante, Lopes e Di Ciommo, implicitamente ritenuto la propria giurisdizione non solo sulla domanda risarcitoria rivolta nei confronti del Consiglio dell’Ordine ma anche su quella rivolta nei confronti delle menzionate persone fisiche; sul punto, peraltro, è calato il giudicato interno, non essendo stata la sentenza del TAR appellata in punto di giurisdizione (tra le tante, da ultimo, Cass. SSUU 21972/2021); il giudice amministrativo, pur ritenendosi munito di giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno da provvedimento disciplinare asseritamente illegittimo, si legge nell’ordinanza interlocutoria resa nel presente giudizio di legittimità, ha respinto tale domanda sull’assunto di non poter accertare «in via incidentale la sussistenza dei presupposti per procedere all’annullamento della sanzione, a prescindere dal giudizio del CNF, atteso che … nella materia disciplinare degli avvocati v’è assoluta carenza di giurisdizione del giudice amministrativo» (pag. 7 della sentenza impugnata).
Alla base del rigetto della domanda della Fuccilo da parte del Consiglio di Stato, in sostanza, non vi sarebbe l’assunto che la condanna al risarcimento del danno derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa postulerebbe, in termini generali, la previa caducazione del provvedimento asseritamente lesivo, bensì il rilievo che, nello specifico caso in cui l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa si sia sostanziato nell’emanazione di un provvedimento disciplinare a carico di un avvocato, la condanna risarcitoria, non preceduta dall’annullamento del provvedimento illegittimo, sarebbe preclusa dal rilievo che la giurisdizione sulla legittimità di tale provvedimento compete al CNF e non al giudice amministrativo.
Questa Corte, nell’ordinanza interlocutoria del 2023, ha quindi rammentato che la giurisdizione sui provvedimenti disciplinari relativi agli avvocati (che sono provvedimenti amministrativi e non pronunce giurisdizionali, cfr. SSUU n. 20843/3007, SSUU n. 11564/2011) appartiene per legge al CNF, giudice speciale istituito con l’art. 21 del D.Lgs. luogotenenziale 23 novembre 1944, n. 382, tuttora operante, giusta la previsione della VI disposizione transitoria della Costituzione (cfr., tra le tante, Cass. SSUU n. 9097/2005 e, da ultimo, Cass. SSUU n. 9545/2021) e che le sentenze del CNF sono impugnabili soltanto per cassazione, davanti alle Sezioni Unite Civili, occorrendo, nella specie, approfondire «la questione se, ed in quali limiti, il principio che la tutela risarcitoria per i danni causati da provvedimenti illegittimi può essere offerta indipendentemente dal previo annullamento del provvedimento asseritamente lesivo operi anche nelle materie, quali la disciplina degli avvocati, in cui l’impugnativa del provvedimento amministrativo sia sottratta alla giurisdizione del giudice amministrativo, per essere demandata dalla legge ad altro giudice (nella specie, il giudice speciale CNF)».
Si possono ipotizzare, secondo l’estensore della ordinanza interlocutoria, diverse ipotesi ricostruttive: a) il giudice amministrativo, avendo giurisdizione sulla tutela risarcitoria ma non su quella demolitoria, non può accordare la tutela risarcitoria se non previo annullamento del provvedimento disciplinare asseritamente lesivo; b) ovvero ritenere che, come sostenuto dalla difesa dell’odierna ricorrente, la carenza di giurisdizione del giudice amministrativo sulla tutela demolitoria non impedisca a tale giudice di conoscere della legittimità del provvedimento disciplinare asseritamente lesivo ai soli fini della pronuncia sulla domanda risarcitoria, sia se si riconosca, come sostenuto dal Consiglio di Stato nella sentenza impugnata, natura incidentale alla cognizione sulla legittimità del provvedimento disciplinare da parte del giudice della domanda risarcitoria (con possibile richiamo all’art.8 c.p.a.), sia se si riconosca a tale cognizione natura principale, potendo essere evocati i principi – di portata evidentemente generale – espressi dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 49 del 2011 e 160 del 2019, in tema di rapporti tra giudice statale e giudice sportivo, secondo cui «il giudice amministrativo può comunque conoscere delle questioni disciplinari che riguardano diritti soggettivi o interessi legittimi, poiché l’esplicita riserva a favore della giustizia sportiva, se esclude il giudizio di annullamento, non intacca tuttavia la facoltà di chi ritenga di essere stato leso nelle sue posizioni soggettive, ivi comprese quelle di interesse legittimo, di agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno. A tali fini non opera infatti la riserva a favore della giustizia sportiva, davanti alla quale del resto la pretesa risarcitoria non potrebbe essere fatta valere» (così C. Cost. n. 160/2019, § 3.2.2., che ha enunciato tale principio in un contesto normativo che – con l’articolo 3 del decreto-legge 19 agosto 2003 n. 220, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280 – attribuisce al giudice amministrativo ogni controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo, eccezion fatta per le controversie, attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario, sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti).
A tale ultimo riguardo, si può rilevare che, sul tema, sono intervenute anche le Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno in più occasioni affermato che «In tema di sanzioni disciplinari sportive, vi è difetto assoluto di giurisdizione sulle controversie riguardanti i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni, riservate, a tutela dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, agli organi di giustizia sportiva che le società, le associazioni, gli affiliati e i tesserati hanno l’onere di adire ai sensi del d.l. n. 220 del 2003 , conv. in legge n. 280 del 2003 , anche ove si invochi la tutela in forma specifica della rimozione della sanzione disciplinare, ferma restando la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ex art. 133, comma 1, lett. z), c.p.a., in ordine alla tutela risarcitoria per equivalente, non operando in tal caso alcuna riserva a favore della giustizia sportiva e potendo il giudice amministrativo conoscere in via incidentale e indiretta delle sanzioni disciplinari, ove lesive di situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento statale» (Cass., Sez. Un., n. 33536/2018; sul punto anche, Cass. , Sez. Un. , n. 32358/2018; Cass. Sez.Un. n. 12149/2021).
Va rilevato, però, che, nella materia della giustizia sportiva, vi è giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art.133, lett.z), per «le controversie aventi ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservate agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ed escluse quelle inerenti i rapporti patrimoniali tra societa’, associazioni e atleti».
Quindi, nella suddetta materia, ai sensi dell’art.2 l.280/2003 lett.a) e b), le questioni tecniche e disciplinari rimangono nell’ordinamento sportivo e sono soggette alla giurisdizione dei giudici sportivi, mentre il giudice statale amministrativo, in forza della giurisdizione esclusiva riconosciuta, conosce delle controversie che, seppure nascenti da sanzioni disciplinari, incidono sul godimento dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi, quali la domanda di risarcimento del danno per equivalente, ma non ha il potere di statuire sull’annullamento del provvedimento sanzionatorio disciplinare (corte Cost. nn. 49/2011 e 160/2019), potendo soltanto procedere ad un accertamento incidentale dell’illegittimità del provvedimento stesso a fini risarcitori.
Nell’ambito delle sanzioni disciplinari agli avvocati, di cui in questo giudizio si controverte, vi è, invece, un giudice speciale statuale, diverso da quello amministrativo, deputato ad accertare l’illegittimità della sanzione.
Altra questione meritevole di approfondimento da parte di queste Sezioni Unite, in funzione nomofilattica, prospettata nell’ordinanza interlocutoria n. 3599/2023 – pur nel dubbio, palesato, se nel presente giudizio il tema della giurisdizione sulla domanda risarcitoria sia, come si prospetta nell’ordinanza, coperto dal giudicato interno – concerne i criteri di individuazione del giudice munito di giurisdizione sulla domanda di risarcimento dei danni causati da un provvedimento disciplinare, asseritamente illegittimo, adottato nei confronti di un avvocato, in quanto, escluso che la giurisdizione sulla tutela risarcitoria competa al CNF, al quale la legge attribuisce la giurisdizione solo sulla tutela demolitoria, «andrebbe approfondita la questione se la situazione soggettiva lesa da un provvedimento disciplinare illegittimo abbia natura di interesse legittimo o di diritto soggettivo», in quanto, in questo secondo caso, in assenza di una disposizione attributiva di giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo, la giurisdizione potrebbe ritenersi spettante al giudice ordinario (per l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di risarcimento dei danni da provvedimento disciplinare in relazione al quale la tutela demolitoria sia rimessa dalla legge ad altro plesso giurisdizionale, Cass. SSUU n. 1415 del 2004: «La domanda proposta da un lavoratore autoferrotramviere intesa ad ottenere dall’azienda datrice di lavoro il risarcimento dei danni derivanti da una sanzione disciplinare, sul presupposto della illegittimità del relativo provvedimento di irrogazione, è sottratta alla giurisdizione del giudice amministrativo prevista dall’art. 58 r.d. n. 148 del 1931, all. A), ed appartiene alla cognizione del giudice ordinario, posto che in tale ipotesi l’accertamento di illegittimità dell’atto amministrativo è strumentalmente collegato alla tutela di un diritto soggettivo, mentre appartiene al merito della controversia ogni questione concernente la disapplicabilità del medesimo atto in via incidentale»).
3. Deve rilevarsi che, nel presente giudizio, si è formato un giudicato implicito sulla giurisdizione, nell’azione risarcitoria proposta, del giudice amministrativo, secondo le regole di riparto.
Ai sensi dell’art.9 c.p.a. («Il difetto di giurisdizione e’ rilevato in primo grado anche d’ufficio. Nei giudizi di impugnazione é rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione»), la mancata espressa impugnazione di una sentenza, contenente una statuizione, ancorché implicita, sulla giurisdizione, preclude al giudice del gravame di rilevare il difetto di giurisdizione, essendosi sul punto formato il giudicato interno.
Orbene, la decisione sul merito non può che presupporre la verifica positiva della sussistenza della giurisdizione, oggetto di una statuizione implicita.
Nella specie, il giudice amministrativo non ha negato di avere giurisdizione, nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità (non vertendosi in ipotesi di giurisdizione esclusiva) sulla domanda risarcitoria, per lesione di interesse legittimo derivante dal provvedimento disciplinare adottato a carico dell’avvocato ricorrente, avendo respinto la domanda perché ritenuta infondata nel merito, affermando che – dovendo ritenersi l’azione risarcitoria proposta in via autonoma e non in via complementare e contestuale alla tutela impugnatoria dell’atto amministrativo, in difetto di una pronuncia «di annullamento del provvedimento» di radiazione del COA Potenza, essendosi estinto, per effetto della mancata riassunzione del giudizio di rinvio, ex art.393 c.pc., il processo impugnatorio avverso la sola decisione del CNF – il giudice amministrativo non avrebbe potuto, neppure in via incidentale, vagliare l’illegittimità della sanzione disciplinare irrogata, presupposto questo indefettibile della domanda di risarcimento del danno ingiusto, in quanto la giurisdizione è riservata al Consiglio Nazionale Forese quale giudice speciale .
Deve qui rilevarsi che, allorché il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente la propria giurisdizione e le parti abbiano prestato acquiescenza, non contestando la relativa sentenza sotto tale profilo, non è consentito al giudice della successiva fase impugnatoria rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione, in quanto tale questione è ormai coperta dal giudicato implicito, interno (cfr. Cass. Sez.UN. n. 21972/2021; Cass.Sez.Un. n.10359/2021; id.nn.25208 e 5587 del 2020). Rimane, altresì, precluso all’attore, rimasto soccombente nel merito, contestare la giurisdizione di quel giudice che egli stesso ha adito (v.Sez.Un. n.25367 del 2020; id.n. 21260 del 2016);
Sulla decadenza per mancato rispetto del termine di cui all’art.30 c.p.a. e tardività dell’azione risarcitoria, pur eccepita dai controricorrenti, il giudice amministrativo non si è pronunciato.
4. Va ricostruito, quindi, il quadro normativo e giurisprudenziale, sull’azione risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo.
4.1. La giurisdizione generale di legittimità.
La giurisdizione affermata, nel presente giudizio, dal giudice amministrativo, con giudicato implicito, è, non vertendosi, pacificamente, in ipotesi di giurisdizione esclusiva, quella generale di legittimità, di cui all’art.7, comma 4, c.p.a. («Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma»), nell’ambito della quale vengono in rilievo, di regola, le posizioni di interesse legittimo a fronte di fattispecie in cui la pubblica amministrazione agisce in via autoritativa, nell’esercizio di un potere pubblico.
Nei casi di giurisdizione di legittimità, la decisione sugli interessi legittimi può comportare (art.8 c.p.a.) la necessità di una pronuncia, in via incidentale, senza efficacia di giudicato, rispetto a diritti soggettivi, salvo le materie escluse di cui a 2° comma della stessa disposizione (questioni di stato, capacità delle persone ed incidenti di falso).
Nella specie, non si è invocata la tutela demolitoria (volta all’annullamento dell’atto illegittimo viziato per violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere), ma si è esercitata un’azione di condanna (al risarcimento dei danni), in via autonoma.
4.2. L’azione risarcitoria nel processo amministrativo.
La questione della pregiudizialità della domanda di annullamento dell’atto illegittimo rispetto all’azione di risarcimento del danno, già risolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in favore della autonomia delle azioni e della proponibilità della domanda di risarcimento dinanzi al giudice amministrativo anche in difetto di previa domanda di annullamento dell’atto lesivo (Cass. Sez.Un. ord. nn. 13659, 13660 e 13911 del 13.6.2006), è ora disciplinata dal codice del processo amministrativo, all’art. 30.
Tale disposizione regolamenta ormai, in maniera unitaria, l’azione di condanna esperibile nel processo amministrativo (a) a tutela di interessi legittimi e (b) di diritti soggettivi (nei casi di giurisdizione esclusiva).
L’art.30 c.p.a., al comma 1°, stabilisce che «L’azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma». L’art.7, al quarto comma, del pari, prevede che «Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma».
Quindi, l’azione di condanna correlata a diritti soggettivi (c.d. privatistica), nell’ambito della giurisdizione esclusiva, può essere proposta esclusivamente (comma 6, art.30) dinanzi al giudice amministrativo, anche in via autonoma (comma 1, art.30), entro il termine prescrizionale ordinario di dieci anni. Al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva, l’azione di condanna a tutela di diritti soggettivi va invece proposta dinanzi al giudice ordinario.
L’azione di condanna (c.d. pubblicistica) a tutela degli interessi legittimi può essere proposta esclusivamente dinanzi al giudice amministrativo (comma 6, art.30); ove correlata all’emanazione di un provvedimento amministrativo illegittimo può essere proposta o unitamente all’azione di annullamento in via complementare per reintegrare in modo completo l’interesse leso ovvero (questa la novità normativa) in modo autonomo (c.d. azione risarcitoria pura), senza la previa proposizione di un’azione di annullamento.
Il legislatore ha dunque ammesso, in via di principio, l’autonomia della domanda risarcitoria rispetto a quella di annullamento del provvedimento lesivo: al giudice amministrativo può essere richiesto il risarcimento dei danni per lesione a interessi legittimi anche se l’atto amministrativo non sia stato impugnato (comma 3 dell’art.30) e, in tal caso, il giudice amministrativo può conoscere della sua illegittimità, ove essa assuma rilievo ai fini della pronuncia sulla pretesa risarcitoria.
Tuttavia, l’autonomia della domanda risarcitoria, nel caso di lesione di interessi legittimi, è stata temperata dall’introduzione di uno specifico termine di decadenza: a) l’azione (art.30, comma 3, c.p.a.) in via autonoma va proposta entro un termine di 120 giorni dal momento in cui si è verificato «il fatto» ovvero «dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo»; b) se il provvedimento lesivo sia stato invece impugnato, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio (anche dopo la scadenza del termine di 120 giorni), con lo strumento dei motivi aggiunti, o successivamente alla sentenza di annullamento, fino a 120 giorni dal suo passaggio in giudicato (comma 5° art.30 ).
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 94 del 4/5/2017 ha ritenuto infondata la relativa questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla previsione nell’azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi di un termine breve di decadenza, non presente nella disciplina civilistica sul risarcimento dei danni, rilevando che «la previsione del termine di decadenza per l’esercizio dell’azione risarcitoria non può ritenersi il frutto di una scelta viziata da manifesta irragionevolezza, ma costituisce l’espressione di un coerente bilanciamento dell’interesse del danneggiato di vedersi riconosciuta la possibilità di agire anche a prescindere dalla domanda di annullamento (con eliminazione della regola della pregiudizialità), con l’obiettivo, di rilevante interesse pubblico, di pervenire in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria, secondo una logica di stabilità degli effetti giuridici ben conosciuta in rilevanti settori del diritto privato ove le aspirazioni risarcitorie si colleghino al non corretto esercizio del potere, specie nell’ambito di organizzazioni complesse e di esigenze di stabilità degli assetti economici (art. 2377, sesto comma, del codice civile)».
Inoltre, in caso di proposizione in via autonoma, di domanda risarcitoria da lesione di interessi legittimi, entro il termine decadenziale indicato, ai sensi del terzo comma dell’art.30 «nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti». Quindi, in sede di determinazione dell’ammontare del risarcimento, il giudice amministrativo deve escludere quei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’azione di annullamento dell’atto illegittimo ovvero attivando strumenti di tutela cautelare o istanza di autotutela (con richiamo implicito all’art.1227 comma 2 c.c., Cons.St., adunanza Plenaria, n. 3/2011; Cons.St-., VI Sez., 15/6/2015 n. 2906), rilevando l’omessa tempestiva proposizione del ricorso per l’annullamento del provvedimento lesivo non come fatto preclusivo della domanda risarcitoria a solo come condotta che, nell’ambito di una valutazione complessiva del comportamento delle parti in causa, può autorizzare il Giudice ad escludere il risarcimento o a ridurne l’importo, ove si accerti che la tempestiva proposizione del ricorso per l’annullamento dell’atto lesivo avrebbe evitato o limitato i danni.
Al secondo comma del successivo art.34 c.p.a. si dispone che, salvo quanto previsto «dall’art.30, comma 3, il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento di cui all’articolo 29».
L’art. 34, comma 3, attiene poi all’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato a fini risarcitori, quale (primo e fondamentale) elemento costitutivo della responsabilità della p.a. per atto illegittimo, vale a dire – essendo tale responsabilità ricondotta all’illecito aquiliano ex art. 2043 cod. civ.- all’accertamento dell’ingiustizia del danno, ferma restando la necessità di accertare la sussistenza degli altri elementi della fattispecie nell’instaurando giudizio risarcitorio, cosicché, venuto meno l’interesse alla caducazione dell’atto, l’azione di annullamento si converte per legge in azione di accertamento di detta illegittimità (cfr. Cons. Stato, VI, 20 novembre 2017, n. 5324).
In presenza di una domanda risarcitoria, l’art. 34, comma 3, c.p.a. impone, quindi, l’accertamento dell’illegittimità degli atti impugnati, sempre che sussista la condizione di tale azione di accertamento, cioè l’«interesse a fini risarcitori», da vagliarsi, secondo la regola generale dell’art. 100 cod. proc. civ., tenuto conto delle sopravvenienze di fatto e di diritto.
4.3. L’accertamento incidentale a fini risarcitori.
Deve poi rilevarsi che, ai sensi dell’art.8 c.p.a., Cognizione incidentale e questioni pregiudiziali, il giudice amministrativo «nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva conosce, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale 2. Restano riservate all’autorita’ giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacita’ delle persone, salvo che si tratti della capacita’ di stare in giudizio, e la risoluzione dell’incidente di falso.».
La disposizione, che disciplina la cognizione incidentale del giudice amministrativo solo con riguardo alle materia in cui ha giurisdizione non esclusiva, deve essere messa in relazione all’art.7, comma 5, la norma generale che si riferisce invece alle materie di giurisdizione esclusiva («5. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi»).
In sostanza, il giudice amministrativo deve essenzialmente considerarsi titolare del potere di conoscere sia le questioni pregiudiziali sia le questioni principali allo stesso devolute, come rientranti nella sua giurisdizione, pur se le determinazioni relative alle questioni pregiudiziali concernenti diritti non possano assumere efficacia di giudicato, che deve essere limitato alla questione principale. La previsione normativa afferisce più propriamente a quelle ipotesi in cui il giudice amministrativo non sia in grado di conoscere incidenter tantum una questione pregiudiziale, perché riservata ad altro giudice e/o già sottoposta al suo esame, con conseguente necessità per lo stesso di sospensione del processo dinanzi ad esso stesso pendente, ex art.79 c.p.a., processo che sarà proseguito all’esito della definizione giudiziale della pregiudiziale da parte del giudice competente.
Il comma 2 dell’art. 8 (passato indenne al vaglio di costituzionalità, cfr. Corte Cost 11.11.2011 n. 304, ove si è rilevato che il «riservare al giudice civile la risoluzione delle controversie sullo stato e la capacità delle persone, salvo la capacità di stare in giudizio, nonché la risoluzione dell’incidente di falso, in tema di atti muniti di fede privilegiata, risponde, come è noto, alla esigenza di assicurare in talune peculiari materie – rispetto alle quali maggiore è la necessità di una certezza erga omnes e sulle quali possa dunque formarsi anche un giudicato – una sede e un modello processuale unitari: così da evitare, ad un tempo, il rischio di contrastanti pronunce – che minerebbero la fiducia verso determinati atti ovvero in ordine a condizioni e qualità personali di essenziale risalto agli effetti dei rapporti intersoggettivi – e il ricorso a modelli variegati di accertamento, dipendenti dalle specificità dei procedimenti all’interno dei quali simili questioni “pregiudicanti” possono intervenire») elenca le questioni, tra quelle pregiudiziali, che viceversa, devono considerarsi oggetto di esclusiva competenza del giudice ordinario, ossia le questioni «concernenti lo stato e la capacità delle persone», riservando al giudice amministrativo, quale eccezione alla deroga, la valutazione della «capacità di stare in giudizio», e la «risoluzione dell’incidente di falso».
In ordine alle questioni pregiudiziali concernenti gli status e la capacità giuridica o di agire dei privati individui, con la necessità per il giudice amministrativo di sospendere il processo e disporre la conseguente devoluzione della questione al giudice ordinario, si è rilevato, in dottrina, che l’interpretazione debba essere necessariamente rigorosa, evitando di ampliarne l’ambito di applicazione.
Si ha, invero, un’eccezione al principio secondo cui al giudice amministrativo è ammessa la pronuncia incidenter tantum anche su questioni relative a diritti, qualora la loro soluzione si atteggi come pregiudiziale necessaria per la decisione che gli è richiesta (Cons.St., Sez.V, 13.9.1999 n.1052).
In particolare, in merito alla identificazione degli status, in essi sono certamente da ricomprendere quelli di carattere familiare (Cass. n. 21628/2006) e riguardanti la cittadinanza (Cons. Stato, Sez.IV, 22.12.1942), mentre si sono ritenute non sussumibili tra le pregiudiziali di che trattasi altre posizioni di natura politico-sociale, quali ad esempio il diritto di nazionalità o di elettorato attivo e passivo, che non sono considerate questioni di natura eccezionale tali da imporre la sospensione del processo, ai sensi degli artt. 79, comma l, e 79, comma 3, c.p.a. cosicché il giudice amministrativo ha ritenuto che le questioni pregiudiziali sottratte alla sua cogniione sia pure incidentale sono da considerarsi «limitate allo status di famiglia e di cittadinanza» (Cons. Stato, Sez.V, 15.6.2000 n. 3338; Cons.St., Sez.V, 13 settembre 1999, n.1052).
Nella pronuncia Sez.Un. 16959/2018, questa Corte ha cassato una sentenza del Consiglio di Stato (in punto di non trascrivibilità nei registri dello stato civile di matrimoni omosessuali celebrati all’estero) per violazione dell’art.8, comma 2, c.p.a., configurandosi eccesso di potere giurisdizionale e non un mero error in procedendo nell’ipotesi in cui il giudice amministrativo svolga la propria cognizione in via incidentale su una questione che ad esso è sottratta, attenendo allo stato delle persone, espressamente riservata alla giurisdizione ordinaria.
5. Occorre, inoltre, porre l’accento sulla peculiarità del procedimento disciplinare avvocati, nella sua articolazione tra fase amministrativa e fase impugnatoria giurisdizionale dinanzi a CNF.
Le funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli degli ordini territoriali, e il relativo procedimento, hanno natura amministrativa e non giurisdizionale, come affermato, tra le altre, da Cass. Sez. Un. n. 6295/2003, Cass. Sez. Un. n. 9097/2005; Cass. Sez. Un n. 20843/2007, Cass. Sez. Un. n. 23593/2020, Cass. Sez. Un. n. 8777/2021. In particolare, è stato sottolineato (Cass. Sez. Un. n. 10688/2002) che i Consigli locali svolgono i relativi compiti nei confronti dei professionisti che formano l’ordine forense, quindi all’interno del gruppo che essi costituiscono e per la tutela della classe professionale, cosicché la funzione disciplinare che a tali organi compete è, dunque, manifestazione di un potere amministrativo attribuito dalla legge per l’attuazione del rapporto che si instaura con l’appartenenza all’ordine, il quale stabilisce comportamenti conformi ai fini che intende perseguire. Queste Sezioni Unite hanno affermato (Cass. Sez.Un. 16993/2017; conf. Cass. Sez.Un. 19030/2021) che anche l’organo distrettuale di disciplina ha una funzione sicuramente amministrativa, ma di natura «giustiziale», anche se non giurisdizionale, caratterizzata da elementi di terzietà valorizzati sia dal peculiare sistema elettorale, sia dalle specifiche garanzie d’incompatibilità, astensione e ricusazione (art. 3 reg. elett.; art. 6-9 reg. disc.). E’ stato evidenziato come, con la Riforma forense, si sia accentuata «la separazione tra il COA, quale organo di vigilanza deontologica e di esecuzione delle sanzioni, e il CDD, quale organo titolare del potere disciplinare» (sent. n. 16993 cit.).
Invece, il Consiglio nazionale forense, allorché pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale, istituito con d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 382 (art.21) e legittimamente tuttora operante, giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione; la disciplina della funzione giurisdizionale del C.N.F., quale giudice terzo, è coperta dall’art. 108, comma 2, e dall’art. 111, comma 2, Cost. (cfr.: Cass., Sez.Un. n. 16993/2017, in motiv.; Cass. Sez. Un. n. 8777/2021).
Come ribadito da questa Corte «a norma degli artt. 24, 31, 35, 37, 50 e 54 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sono devolute alla giurisdizione del Consiglio nazionale forense tutte le controversie relative alla iscrizione, al rifiuto di iscrizione, nonché alla cancellazione dall’albo professionale degli avvocati, così come quelle relative all’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei medesimi» (Cass. Sez.Un.25831/2007) e «A norma dell’art. 36 della l. n. 247 del 2012 – il quale riproduce, nella sostanza, una disposizione già precedentemente in vigore perché contenuta nel r.d.l. n. 1578 del 1933 – spetta al Consiglio Nazionale Forense la competenza a conoscere dei ricorsi avverso i provvedimenti di iscrizione, di diniego di iscrizione e di cancellazione dall’albo professionale degli avvocati, emessi dai Consigli dell’Ordine degli avvocati, così integrandosi una ipotesi di giurisdizione speciale» (Cass. Sez.Un. 34429/2019; conf. Cass. Sez.Un. 16548/2020).
In ordine al controllo rimesso alle Sezioni Unite di questa Corte sulle decisioni del CNF, si è rilevato (Cass. Sez.Un. 15873/2013; conf. Cass.13168/2021) che «Il codice deontologico forense non ha carattere normativo, essendo costituito da un insieme di regole che gli organi di governo degli avvocati si sono date per attuare i valori caratterizzanti la propria professione e garantire la libertà, la sicurezza e la inviolabilità della difesa, con la conseguenza che la violazione di detto codice rileva in sede giurisdizionale solo quando si colleghi all’incompetenza, all’eccesso di potere o alla violazione di legge, cioè ad una delle ragioni per le quali l’art. 56, terzo comma, del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, consente il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, per censurare unicamente un uso del potere disciplinare da parte degli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce»
La materia del risarcimento del danno non rientra nella giurisdizione del CNF, essendo la competenza di detto organo limitata alla cognizione delle impugnazioni delle deliberazioni dei Consigli territoriali e alla valutazione della loro eventuale illegittimità.
6. Altro tema controverso, nel presente giudizio, è la sorte della sanzione disciplinare per effetto della mancata riassunzione del giudizio di rinvio e della conseguente estinzione del giudizio impugnatorio.
6.1. Risulta, dalla sentenza di queste Sezioni Unite n. 16694/2017, che questa Corte accoglieva un vizio motivazionale del ricorso per cassazione avverso la sentenza del CNF, in punto di omessa valutazione di fatti decisivi nella valutazione della gravità della condotta contestata all’avvocatessa e della congruità della sanzione irrogata.
Il giudizio di rinvio dinanzi al CNF, nella specie, non è stato però riassunto.
6.2. L’art.393 c.p.c. stabilisce che, in ipotesi di cassazione con rinvio, sia la mancata sia la tardiva riassunzione rispetto al termine di cui all’art.392 c.p.c. (entro tre mesi dalla pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione) determinano l’estinzione «dell’intero processo», con conseguente caducazione delle sentenze emesse nel corso dello stesso, permanendo solo l’effetto vincolante del principio di dritto, che non viene meno nell’eventuale nuovo processo instaurato con la riproposizione della domanda.
Questa Corte a Sezioni Unite, con la sentenza n. 17938/2008, ha chiarito che la riassunzione del giudizio disciplinare davanti al Consiglio nazionale forense, a seguito di sentenza di cassazione con rinvio deve essere compiuta secondo il disposto dell’art. 392 cod. proc. civ., su impulso della parte processuale, con la conseguenza che l’eventuale riassunzione disposta d’ufficio dal medesimo Consiglio è inammissibile e non impedisce l’estinzione del processo ai sensi dell’art. 393 cod. proc. civ., in quanto il modello di riferimento procedurale è quello civilistico/dispositivo, in assenza, nell’ambito della legge speciale forense, di una specifica disposizione regolante le modalità di proposizione del giudizio di riassunzione e non essendo consentito riconoscere o attribuire al giudice terzo, in via interpretativa, spazi per iniziative di ufficio, della cui legittimità dovrebbe dubitarsi anche in presenza di una espressa norma di legge.
Sugli effetti dell’estinzione del processo sull’atto (amministrativo) costituente l’oggetto dell’impugnazione, questa Corte ha ribadito in varie occasioni, in ambito di contenzioso tributario (strutturato secondo il modello della natura impugnatoria dell’atto impositivo, di natura amministrativa e non processuale), che «l’estinzione del giudizio comporta la definitività dell’avviso di accertamento impugnato, giacchè quest’ultimo non è un atto processuale, ma l’oggetto dell’impugnazione» (Cass. 5044/2008; Cass. 16689/2013; Cass. 556/2016; Cass. 32276/2018; Cass. 25014/2021; Cass. 7444/2022).
6.3. Orbene, la sanzione della radiazione, comminata dal COA Potenza, del 2014, veniva impugnata in sede giurisdizionale dinanzi al Consiglio Nazionale Forense.
Il processo impugnatorio si è estinto, ex art.393 c.p.c., per effetto della mancata riassunzione del giudizio di rinvio, a seguito di cassazione con rinvio, per difetto di motivazione, della decisione del CNF del 2016 (che aveva ritenuto congrua la sanzione irrogata all’avv.Fuccilo), con sentenza di questa Corte a Sez.Unite n. 16694 del 6/7/2017.
L’estinzione, come affermato dal giudice amministrativo, non ha, nella specie, travolto l’atto amministrativo di irrogazione della sanzione, che era l’oggetto del processo impugnatorio estinto.
Nella materia tributaria, si afferma che l’estinzione del giudizio impugnatorio tributario, all’esito della cassazione con rinvio della sentenza di merito e dell’omessa riassunzione del giudizio, comporta la definitività dell’avviso di accertamento che ne costituisce l’oggetto (Cass.3040/2008 e 8765/2008; Cass. 21143/2015; Cass. 569/2016; Cass. 5223/2019).
Tuttavia, nella specie, la questione della definitività della sanzione discipinare, che costituiva l’oggetto dell’impugnazione dinanzi al CNF, non risulta del tutto decisiva, in quanto non potrebbe per ciò solo ritenersi non esercitabile l’azione risarcitoria proposta in via autonoma, avendo la ricorrente prospettato che la propria domanda non è rivolta a travolgere l’atto amministrativo giustiziale ma a conseguire solo l’asserito danno ingiusto conseguente.
L’unico interesse azionato è qui quello risarcitorio, anche se, in effetti, sull’aspetto della intervenuta caducazione della sanzione disciplinare (all’esito della pronuncia di queste Sezioni Unite del 2017) la difesa della ricorrente si è ripetutamente soffermata, nei gradi di merito, come emerge dagli atti.
7. Tanto chiarito, occorre esaminare il preliminare aspetto della ammissibilità del presente ricorso per cassazione.
7.1. Con atto del 1°/3/2018, l’avv.Fuccilo (a distanza di anni dal provvedimento disciplinare di radiazione, adottato dal COA di Melfi, cui poi è subentrato il COA di Potenza, nel luglio 2014, e dopo oltre sette mesi dalla sentenza n. 16694/2017 di questa Corte di Cassazione di cassazione con rinvio di pregressa decisione del CNF del 13/10/2016) ha promosso, dinanzi al giudice amministrativo, un’azione risarcitoria per sentire condannare il COA Potenza al risarcimento del danno patrimoniale e morale patito a seguito dell’ingiusta radiazione subita.
L’atto è stato notificato ai componenti del COA quali controinteressati.
La domanda è stata, in primo e secondo grado, respinta, nel merito, per difetto del presupposto dell’illecita condotta dell’amministrazione resistente, essendosi rilevato che, non essendo stata annullata la sanzione disciplinare ma solo dichiarato estinto il processo avente ad oggetto l’impugnazione di detto atto, il giudice amministrativo non poteva conoscere neppure incidenter tantum dell’illegittimità dedotta della suddetta sanzione.
Il giudice amministrativo non si è pronunciato sulla preliminare eccezione di decadenza, sollevata dal resistente e dai controinteressati, ritenendola assorbita in ragione dell’infondatezza della domanda risarcitoria nel merito, per difetto del presupposto dell’illegittimità del provvedimento lesivo.
7.2. In punto di ammissibilità del ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione ed alla disciplina del relativo riparto, ai sensi dell’art.111, comma ottavo, Cost. (contestata dai controricorrenti anche dinanzi al giudice amministrativo), va ribadito che il ricorso per cassazione contro le sentenze del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art.111, ult.comma, Cost., è ammesso per soli motivi inerenti alla giurisdizione.
La ricorrente, nei due profili dell’unico motivo, denuncia il vizio di rifiuto o diniego di giurisdizione per avere il Consiglio di Stato sia invocato un «aprioristico diniego di tutela nel caso non vi sia stato il previo annullamento dell’atto» amministrativo sia rifiutato di esercitare il correlato potere di disapplicazione dell’atto asseritamente illegittimo, per «carenza di giurisdizione del giudice amministrativo nella materia disciplinare degli avvocati».
7.3. Secondo l’interpretazione costituzionalmente corretta tra i motivi inerenti alla giurisdizione denunciabili in Cassazione vi sono solamente alcuni casi specifici.
Questa Corte a Sezioni Unite ha affermato (Cass., Sez. Un., 13 maggio 2020, n. 8848; Cass., Sez. Un., 19 aprile 2021, n. 10245; Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2021, n. 30112) che l’eccesso di potere denunciabile con ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione o eccesso di potere giurisdizionale (c.d. sconfinamento o invasione), o di rifiuto di giurisdizione (c.d. arretramento), che si verificano, rispettivamente, quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto «in assoluto» di cognizione giurisdizionale, o di difetto relativo di giurisdizione o diniego di giurisdizione, riscontrabili, rispettivamente, quando detto giudice abbia violato i limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale (c.d. invasione), ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici, giudice ordinario o altro giudice speciale (c.d. autolimitazione).
Il difetto relativo di giurisdizione è funzionale al rispetto degli ambiti di giurisdizione tra i vari plessi giudiziari.
Poiché la nozione di eccesso di potere giurisdizionale non ammette letture estensive, neanche limitatamente ai casi di sentenze abnormi, anomale ovvero caratterizzate da uno stravolgimento radicale delle norme di riferimento, il relativo vizio non è configurabile in relazione a denunciate violazioni di legge sostanziale o processuale riguardanti il modo di esercizio della giurisdizione speciale (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2021, n. 2605).
Si è quindi precisato (Cass. Sez.Un. 13976/2017), in ordine alla distinzione tra casi in cui vi è rifiuto della giurisdizione e quelli in cui si riscontra un semplice cattivo esercizio della giurisdizione per errores in iudicando o in procedendo, non sindacabile dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, che «il cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che provveda perché investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione e, tuttavia, nell’esercitarla, applichi regole di giudizio che lo portino a negare tutela alla situazione giuridica azionata, si risolve soltanto nell’ipotetica commissione di un errore all’interno ad essa e, se tale errore porta a negare tutela alla situazione fatta valere, ciò si risolve in una valutazione di infondatezza della richiesta di tutela, ancorché la statuizione, in quanto proveniente dal giudice di ultimo grado della giurisdizione adìta, comporti che la situazione rimanga priva di tutela giurisdizionale».
Ne deriva che integra il vizio di «rifiuto» dell’esercizio della giurisdizione l’affermazione – contro la regula iuris che attribuisce a quel giudice il potere di dicere ius sulla domanda – che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio è, in astratto, priva di tutela, allorché essa sia corredata dal rilievo della estraneità di tale situazione non solo alla propria giurisdizione ma anche a quella di ogni altro giudice; mentre, ove tale affermazione sia accompagnata dal riconoscimento dell’esistenza dell’altrui giurisdizione, ricorre un’ipotesi di diniego della propria giurisdizione, l’uno e l’altro vizio, peraltro, risultando i soli sindacabili dalla Corte di cassazione ex art. 111, ultimo comma, Cost., diversamente dall’erronea negazione, in concreto, della tutela alla situazione soggettiva azionata (Cass., Sez. Un., 6 giugno 2017, n. 13976).
E’ stato poi ribadito (Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2018, n. 32773; Cass., Sez. Un., 9 aprile 2020, n. 7762) che la negazione «in concreto» di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non implica eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, ottavo comma, Cost., atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione.
Ancora, sempre in tema di sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato per motivi inerenti alla giurisdizione, si è precisato (Cass. Sez.Un. n. 24468/2013) che «è configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo solo nel caso di radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia e non già nel caso di mero dissenso del ricorrente nell’interpretazione della legge» (nella specie, il ricorrente, revocato dalla provvisoria aggiudicazione del servizio di riscossione tributi per sua inaffidabilità desumibile da un precedente rapporto, aveva lamentato che il Consiglio di Stato non si fosse limitato alla mera verifica della sufficienza della motivazione di tale revoca, ma ne aveva operato una vera e propria integrazione, così travalicando i confini della giurisdizione operando apprezzamenti discrezionali riservati alla pubblica amministrazione).
E, in linea, si è affermato che «in tema di sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato, la violazione dei limiti della cognizione incidentale stabiliti dall’art. 8 c.p.a. non configura un eccesso di potere giurisdizionale, ma solo un “error in procedendo”, commesso dal giudice amministrativo all’interno della sua giurisdizione» (Cass. sez.Un. n. 7292/2016).
Da ultimo (Cass. Sez.Un. n. 31023/2019), è stato dichiarato inammissibile un ricorso, con il quale si denunciava, anche in relazione agli artt. 30 e 34 c.p.a., l’erroneo rifiuto del Consiglio di stato di esercitare la giurisdizione in riferimento alla domanda di risarcimento del danno da illegittimità del provvedimento amministrativo per effetto della dichiarata inammissibilità dell’appello (una società, esclusa da una gara, aveva impugnato il provvedimento amministrativo di aggiudicazione provvisoria in favore di una concorrente, chiedendo anche i danni, ma, respinte le domande in primo grado, l’appello era dichiarato inammissibile, essendo intervenuta, nelle more del giudizio, l’aggiudicazione definitiva, con conseguente improcedibilità del ricorso contro il provvedimento di esclusione dalla gara o di aggiudicazione provvisoria, non potendo, secondo il Consiglio di stato, quanto alla connessa domanda risarcitoria, trovare applicazione l’art. 34, comma 3, c.p.a. invocato dall’appellante, poiché tale norma era operante solo se sussistevano le «condizioni per poter esaminare nel merito la domanda»). Si è quindi ritenuto che «le censure mosse alla sentenza impugnata, in quanto investenti la portata applicativa degli artt. 30 e 34 c.p.a., siccome ritenuta dal giudice di appello unitamente all’operare di un certo presupposto processuale reputato connesso all’esercizio dell’azione risarcitoria per esercizio illegittimo della funzione pubblica…, si risolvono nella denuncia di errori inerenti ai limiti interni alla giurisdizione, non sindacabili da questa Corte regolatrice».
Affinché si abbia rifiuto o diniego di giurisdizione, occorre, in definitiva, che una domanda sia stata proposta e che il giudice adito, nel declinare la giurisdizione, ritenga che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio sia «in astratto» priva di tutela ovvero riconosca che, sulla stessa, del tutto erroneamente, la competenza giurisdizionale spetti ad un giudice appartenente ad un diverso plesso, cosicché si è ritenuto non prospettabile tale vizio «quando il ricorrente si lamenti di giudizi che avrebbero dovuto essere promossi innanzi al giudice ordinario ma non lo sono stati, o che avrebbero potuto anche essere incardinati di fronte allo stesso giudice speciale, ma in epoca precedente rispetto alla introduzione di quello definito con la sentenza impugnata» (Cass. Sez. Un. 37552/2021).
7.4.Orbene, il proposto ricorso risulta inammissibile, non risolvendosi la decisione impugnata del Consiglio di Stato in un diniego relativo di giurisdizione, per arretramento o meglio autolimitazione, non essendosi affermato, da parte del giudice adito, che la situazione soggettiva fatta valere, con la pretesa risarcitoria proposta in via autonoma dinanzi al giudice amministrativo (non a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento dell’atto, ai sensi del 5° comma dell’art.30 c.p.a.), è, in assoluto, priva di tutela, ma soltanto che, in concreto, nella, del tutto peculiare, vicenda in esame, a fronte della definitività della sanzione disciplinare, ormai cristallizzatasi, la sua legittimità non poteva essere più esaminata, neppure in via incidentale, ai fini risarcitori, dal giudice amministrativo adito, carente di giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati, riservata al giudice speciale dell’ordine professionale, ossia al Consiglio Nazionale Forense, e ciò alla luce di una certa interpretazione dell’art.30, 2° e 3° comma, e 34, comma terzo, c.p.a..
E siccome il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale è circoscritto al controllo dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo, ovvero all’esistenza dei vizi che attengono all’esercizio della funzione giurisdizionale e non al modo del suo esercizio, cui attengono, invece, gli errori «in iudicando» o «in procedendo», il suddetto sindacato non è esperibile per censurare un’omessa pronuncia di merito, ovvero una declaratoria di inammissibilità di una determinata domanda, ove esse discendano non dal diniego di competenza giurisdizionale, ma dall’applicazione di norme processuali ritenute ostative all’esame della domanda medesima (Cass. Sez.Un. n. 10287/2003).
Vero che l’art.30 c.p.a. ha sancito l’abolizione della pregiudiziale amministrativa, prevedendo la possibilità di promuovere autonomamente l’azione di condanna derivante da un provvedimento amministrativo illegittimo, a prescindere quindi dal previo annullamento di quest’ultimo.
Ma, nella specie, non si affermato, nella sentenza impugnata del Consiglio di Stato, che la presente azione risarcitoria non potesse essere proposta, a prescindere dal previo annullamento dell’atto amministrativo e quindi in difetto di operatività del comma 5 dell’art.30 c.p.a., non essendo intervenuta alcuna sentenza di «annullamento» della sanzione disciplinare, ma che la pretesa risarcitoria difettava della dimostrazione di uno dei requisiti dell’illecito, ex art.2043 c.c., l’illegittimità dell’atto amministrativo, la cui valutazione è rimessa al giudice speciale, il Consiglio nazionale Forense, essendo tale sanzione disciplinare ormai divenuta definitiva.
In relazione propriamente a tale peculiare fattispecie, occorsa in concreto, il giudice amministrativo, il quale non ha declinato la propria giurisdizione sulla situazione soggettiva dedotta con l’azione risarcitoria, qualificata dalla ricorrente come relativa a tutela di interesse legittimo, affermava di non potere conoscere, in via incidentale e indiretta, delle sanzioni disciplinari, ove lesive di situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento statale.
Ed anche l’asserita non corretta, implicita, valutazione da parte del Consiglio di Stato dell’ambito della propria cognizione incidentale di cui all’art. 8 c.p.a. (per essere l’oggetto della cognizione incidentale conosciuto dal giudice amministrativo sempre e soltanto in funzione della esplicazione della giurisdizione sul bene della vita dedotto in giudizio in via principale, oggetto della giurisdizione esercitata) concernerebbe sempre e soltanto una norma del procedimento regolatore del processo amministrativo e non la negazione di una sua giurisdizione.
Non si verte, dunque, in ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale per violazione dei limiti esterni della giurisdizione, con riferimento alle regole del processo amministrativo, in quanto non vi è stato un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego, relativo (per essere la cognizione riservata a giudice speciale), di giustizia, ma soltanto essendo stato dedotto un «dissenso del ricorrente nell’interpretazione della legge» (Cass. sez.Un. 24468/2013), e non è stata negata, in astratto, la giurisdizione in ordine alla domanda risarcitoria sulla base dell’erroneo presupposto che essa appartenesse ad altri giudici e che occorresse comunque e sempre il previo esperimento dell’azione di annullamento dell’atto amministrativo giustiziale, essendosi, invece, respinta la domanda per difetto del presupposto dell’illegittimità della sanzione, in quanto divenuta, in concreto, definitiva e non sindacabile dal giudice adito, sulla base di una certa interpretazione delle norme processuali, che rientrano nel modo di esercizio della giurisdizione speciale amministrativa.
E il sindacato di questa Corte si deve fermare, non vertendosi in controllo dell’osservanza dei limiti esterni della giurisdizione .
9. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso.
Ricorrono giusti motivi, attesa la novità e complessità delle questioni di diritto e tutte le peculiarità della vicenda, anche processuali, per compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, si deve dar atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, dichiara inammissibile il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 20 giugno 2023.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 06 febbraio 2023, n. 3599, per SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19103, in tema di riparto di giurisdizione
SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19103, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di eccesso di potere giurisdizionale – SS.UU, 04 luglio 2023, n. 18880
Civile Ord. Sez. U Num. 18880 Anno 2023
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: IOFRIDA GIULIA
Data pubblicazione: 04/07/2023
ORDINANZA
sul ricorso 8640-2022 proposto da:
SOCIETÀ MARLIN S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 269, presso lo studio dell’avvocato ROMANO VACCARELLA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARCELLO BRESCIA MORRA e LODOVICO VISONE;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI CENTOLA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 92, presso lo studio dell’avvocato LEOPOLDO FIORENTINO, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIA ANNUNZIATA;
– controricorrente –
contro
CAPUANO CLAUDIO, CAPUANO GIULIANO, CIMMINO MARIA, COZZOLINO FRANCESCO, DE MARE ANGELA, DI MATOLA LUISA, IAMONE EMILIA, SIBILLO FABIO, DI COSTANZO NICOLA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 149/2022 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 10/01/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2023 dal Consigliere GIULIA IOFRIDA;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale FULVIO TRONCONE, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 149/2022, pubblicata il 10/1/2022, – nei giudizi riuniti promossi dalla Marlin srl nei confronti del Comune di Centola e di alcuni soggetti privati, al fine di sentire annullare la determinazione n. 18079/2017 del Comune resistente, recante diniego di proroga del termine di ultimazione dei lavori richiesto, nel 2015, dalla Marlin, in relazione al titolo edilizio n. 1005 del 28/10/2010, rilasciato dal suddetto Comune per la ristrutturazione ed il recupero di un villaggio turistico preesistente nella costa cilentana, in località Palinuro, frazione del Comune di Centola, declaratoria di decadenza del permesso di costruire e sospensione dell’ulteriore corso dei lavori, nonché l’ordinanza di demolizione n. 1/2018 in data 9/3/2018, con la quale erano stati contestati alla società una serie di abusi edilizi, in primis il «mutamento della destinazione d’uso di tutte le unità abitative , da strutture turistiche ricettive a rotazione d’uso extra alberghiere assentite a civile abitazione», e la nota prot.n. 6184 del 2/8/2018 del S.U.A.P. Cilento di ordine di sospensione delle attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi con riferimento agli interventi di variante in corso d’opera di cui alla SCIA 4640/2018, – ha confermato la decisione di primo grado, che aveva, per quanto in questa sede interessa, respinto tutti i motivi a sostegno dei tre ricorsi riuniti.
In particolare, i giudici d’appello hanno : a) respinto i motivi di gravame concernenti l’illegittimità del diniego di proroga del termine di ultimazione dei lavori, ribadendo la correttezza della decisione del Comune in ordine alla tardività della presentazione dell’istanza di proroga, ex art.15, commi 2 e 3, DPR 380/2001, allorché il titolo edilizio risultava ormai decaduto per intervenuta scadenza del relativo termine di efficacia, dovendosi escludere che i vari fattori invocati dalla Marlin possano avere avuto un’automatica efficacia sospensiva del termine, con conseguente irrilevanza del riferimento, presente nel provvedimento amministrativo impugnato, ai «giorni di pioggia»; b) respinto anche i motivi concernenti le contestazioni edilizie (incluso il mutamento di destinazione d’uso) e l’ordine di demolizione conseguente, rilevando che l’area di interesse ricade in zona «G5 Zona di insediamento extralberghiero» e, in parte, in zona «G 3 Zona di insediamento extra-alberghiero esistente», rispetto alle quali il Comune di Centola ha previsto esclusivamente interventi di riqualificazione con trasformazione di «preesistenze di modesta specializzazione tipo camping in villaggi turistici, così come definiti dalla legge regionale n. 13/93», e che il decreto dirigenziale della Giunta Regionale Campania n. 10/2013, recante la rimozione del vincolo di destinazione per la struttura turistico-alberghiera de qua, che consentiva il mutamento di destinazione d’uso in residenziale, è stato dichiarato inutiliter data con delibera del consiglio comunale n. 43/2013 (oggetto di impugnazione con altro ricorso respinto dal TAR con decisione non impugnata), cosicché l’unica destinazione dell’area è quella originaria per villaggi turistici e «anche a voler aderire alla tesi della destinazione a casa vacanze, nel caso di specie» si finirebbe per esorbitare dalla univoca destinazione d’uso.
Avverso la suddetta pronuncia, la Società Marlin srl propone ricorso per cassazione, notificato tra il 21/3/2022 e il 29/3/2022, affidato a due motivi, nei confronti di Comune di Centola, Claudio Capuano, Giuliano Capuano, Maria Cimmino, Francesco Cozzolino, Angela De Mare , Luisa Di Matola, Emilia Iamone, Fabio Sibilio e Nicola Di Costanzo (che non svolgono difese).
Il P.G. ha depositato conclusioni scritte, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La ricorrente Marlin lamenta: a) con il primo motivo, la violazione degli artt.111, comma 8°, Cost., 37 c.p.c. e 34, comma 2, c.p.a., per avere il Consiglio di Stato esorbitato dai suoi poteri giurisdizionali ed esercitato quelli dell’Amministrazione attiva; b) con il secondo motivo, la violazione dell’art.118, comma 8°, Cost., in relazione all’art.37 c.p.c. ed al principio di soggezione del giudice alla legge di cui all’art.101, comma 2°, Cost.
Si denuncia che il Consiglio di Stato avrebbe «travalicato i limiti della propria giurisdizione», avendo sostanzialmente effettuato la valutazione di competenza del Comune, ponendo in essere «la tipica funzione di amministrazione attiva».
Invero, a fronte di doglianze volte ad evidenziare (cfr. pag. 5-6 del ricorso) che il T.A.R. Campania aveva sostituito integralmente la motivazione addotta dall’amministrazione in punto di proroga e che era andato oltre i limiti del riscontro della legittimità del provvedimento impugnato, essendosi sostituito all’amministrazione anche sul diverso tema – totalmente estraneo al provvedimento impugnato – di ciò che la legge regionale Campania n. 17/01 consente di realizzare in zona G3 e GS del Comune di Centola, il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile la prima censura, per tardività della deduzione (in quanto veicolata non con il ricorso, ma con successiva memoria) che il termine di validità del PAV era stato prorogato di tre anni, con la legge 9 agosto 2013, n. 98, di conversione del D.L. 21 giugno 2013, n. 69, (art. 30, comma 3bis), e ha ritenuto infondata la censura concernente il mutamento di destinazione sul presupposto che la destinazione prescelta sia stata esclusivamente quella dei «villaggi turistici», con la conseguenza che, anche volendo aderire alla tesi della destinazione a «case vacanze», nel caso di specie si finisce per esorbitare dalla univoca destinazione d’uso.
Secondo la ricorrente, si sarebbe dunque superato il confine tra amministrazione attiva e giurisdizione di legittimità, superamento che si risolve in radicale difetto di giurisdizione per indebita invasione del campo riservato all’Amministrazione attiva, nella parte in cui, il T.A.R., prima, il Consiglio di Stato, poi, preso atto dell’inconsistenza della ragione addotta dal Comune a fondamento dell’ordine di demolizione, hanno ritenuto di poter sostituire a quella ragione una (totalmente) diversa giustificazione, e cioè che in quella «zona» erano consentite non tutte le opere definite «strutture turistiche extralberghiere» dalla legge, ma solo i «villaggi turistici». In seconda battuta, si afferma che il Consiglio di Stato si sarebbe sostituito all’amministrazione laddove ha espresso «la necessità che ogni sospensione -anche se disposta con provvedimento generale, come l’ordinanza sindacale che vieti ogni lavoro edile nei mesi di luglio ed agosto- sia formalizzata in un apposito provvedimento “ricognitivo“».
Con la memoria, la ricorrente ha depositato successiva sentenza del Consiglio di Stato n. 8270/2022 del 26/9/2022, con la quale il giudice amministrativo ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione proposto dalla società Marlin (fondato sull’asserito errore di fatto posto in essere dal Consiglio di Stato in punto di proroga ex lege, biennale e non triennale, del termine di ultimazione dei lavori) avverso la sentenza n. 149/2022, qui impugnata per motivi di giurisdizione.
2. Il ricorso è inammissibile.
L’art. 111, ult. comma, Cost., dispone che il sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è ammesso «per i soli motivi inerenti alla giurisdizione», ripetendo sostanzialmente la formula del primo comma, n. 1, dell’art. 360 e del primo comma dell’art. 362 cod. proc. civ., cui si sono aggiunti, più di recente, l’art. 110 cod. proc. amm. e l’art. 207 cod. giust. cont. e l’aggettivo «soli» sta chiaramente ad indicare il carattere limitativo della previsione costituzionale: limitativo, cioè, rispetto all’ambito del sindacato esercitabile dalla Corte di cassazione sulle sentenze dei giudici speciali in genere, consentito invece per qualsiasi «violazione di legge» dal penultimo comma del medesimo art. 111 Cost.
Nella giurisprudenza di queste Sezioni unite è costante l’affermazione che il sindacato da esse esercitato sulle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti ha per oggetto l’osservanza dei soli «limiti esterni» della giurisdizione (a fronte di pronuncia su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale), non già dei suoi limiti interni, che ricomprendono, in genere, gli errori «in iudicando» o «in procedendo», ossia le violazioni delle norme sostanziali o processuali, e che pertanto non costituiscono vizio attinente alla giurisdizione (tra i numerosissimi precedenti Cass. Sez. Un. 12/06/1999, n. 325; 04/11/2002, n. 15438; 19/02/2004, n. 3349), ancorché si siano concretati in violazioni dei principi del giusto processo consacrati nel novellato art. 111 Cost.
In particolare, alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale n. 6/2018 (ove si è affrontato il tema in modo approfondito, superando radicalmente le precedenti oscillazioni giurisprudenziali e disattendendo la tesi, emersa in alcune pronunce di questa Corte, che propugnava un certo ampliamento del concetto di «motivi inerenti alla giurisdizione», attraverso una interpretazione che estendeva il perimetro del controllo della Cassazione in ulteriori ambiti, variamente definiti dalle singole pronunce), volta ad identificare gli ambiti dei poteri attribuiti alle diverse giurisdizioni dalla Costituzione, nonché i presupposti e i limiti del ricorso ex art. 111, comma 8, Cost., «il sindacato della Corte di cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione concerne le ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione per «invasione» o «sconfinamento» nella sfera riservata ad altro potere dello Stato ovvero per «arretramento» rispetto ad una materia che può formare oggetto di cognizione giurisdizionale, nonché le ipotesi di difetto relativo di giurisdizione, le quali ricorrono quando la Corte dei Conti o il Consiglio di Stato affermino la propria giurisdizione su materia attribuita ad altro giudice o la neghino sull’erroneo presupposto di quell’attribuzione. L’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore è configurabile solo allorché il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete, e non invece quando si sia limitato al compito interpretativo che gli è proprio, anche se tale attività ermeneutica abbia dato luogo ad un provvedimento “abnorme o anomalo” ovvero abbia comportato uno “stravolgimento” delle “norme di riferimento”, atteso che in questi casi può profilarsi, eventualmente, un “error in iudicando”, ma non una violazione dei limiti esterni della giurisdizione» (Cass. Sez. Un. n. 8311/2019).
Il controllo del limite esterno della giurisdizione – che l’art. 111, comma 8, Cost., affida alla Corte di cassazione – non include quindi il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori «in iudicando» o «in procedendo», senza che rilevi la gravità o intensità del presunto errore di interpretazione, il quale rimane confinato entro i limiti interni della giurisdizione amministrativa, considerato che l’interpretazione delle norme costituisce il «proprium» distintivo dell’attività giurisdizionale (Cass. Sez. Un. n. 27770/2020; Cass. Sez. Un. n. 29653/2020; Cass. Sez. Un. n. 19244/2021).
Questa Corte ha, di recente (Cass. Sez. Unite, Ord., 30 novembre 2021, n. 37552), chiarito ulteriormente: « [è] naturale che qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme in cui il giudice possa incorrere nell’esercizio della funzione giurisdizionale, ove incida sull’esito della decisione, può essere letta in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira, perché la tutela si realizza compiutamente se il giudice interpreta ed applica in modo corretto le norme destinate a regolare il caso sottoposto al suo esame. Non per questo, però, ogni errore di giudizio o di attività processuale imputabile al giudice è qualificabile come eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte di cassazione, quale risulta delineato dall’art. 111 Cost., comma 8, e dall’art. 362 c.p.c., e art. 207 del codice di giustizia contabile. Ne risulterebbe altrimenti del tutto obliterata la distinzione tra limiti interni ed esterni della giurisdizione e il sindacato di questa Corte sulle sentenze del giudice speciale verrebbe di fatto ad avere una latitudine non dissimile da quella che ha sui provvedimenti del giudice ordinario: ciò che la norma costituzionale e le disposizioni processuali dianzi richiamate non sembrano invece consentire (Cass., Sez. Un., 14 settembre 2020, n. 19085). Si è ribadito (Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2018, n. 32773; Cass., Sez. Un., 9 aprile 2020, n. 7762) che la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non concreta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111 Cost., comma 8, atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione».
Si deve poi ricordare che «l’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 3, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito, è configurabile solo quando l’indagine svolta non sia rimasta nei limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, ma sia stata strumentale ad una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, esprima una volontà dell’organo giudicante che si sostituisce a quella dell’amministrazione. Il che vuoi dire che il giudice, procedendo ad un sindacato di merito, emette una pronunzia autoesecutiva, intendendosi come tale quella che abbia il contenuto sostanziale e l’esecutorietà stessa del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa» (così, in motivazione, si veda Cass., Sez. Un., n. 774 del 2014; Cass., Sez. Un., n. 7157 del 2017); Cass. Sez. Un. n. 21300/2017).
Si è poi ritenuto (Cass. Sez.Un. 5951/2022) che «Non è configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile con il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, se il giudice amministrativo non abbia violato i cosiddetti limiti esterni della propria giurisdizione, e, nello specifico, laddove, senza sostituirsi all’autorità amministrativa mediante l’integrazione ex post della motivazione dell’atto impugnato, si sia limitato a svolgere l’attività interpretativa e valutativa connaturata all’esercizio della giurisdizione (rispetto alla quale non sono sindacabili avanti alle Sezioni Unite eventuali errores in iudicando o in procedendo)».
Nella specie, Viene denunciato l’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera riservata al merito della P.A., ma esso «è configurabile quando l’indagine svolta dal giudice amministrativo ecceda i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del merito, istituzionalmente riservato alla pubblica amministrazione, compia una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, evidenzi l’intento dell’organo giudicante di sostituire la propria volontà a quella dell’amministrazione mediante una pronuncia che, in quanto espressiva di un sindacato di merito ed avente il contenuto sostanziale e l’esecutorietà propria del provvedimento sostituito, non lasci spazio ad ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa» (per tutte, tra le tante, Sez. Un. n. 12155 del 2021, nonché Sez.Un. n. 2605 del 2021 e Sez. Un. 9369/2023).
Invero, la prospettazione, ribadita in memoria, che, nel sindacare la legittimità dei provvedimenti amministrativi, il Consiglio di Stato abbia proceduto ad una integrazione della motivazione del provvedimento impugnato si risolve nella denuncia non già di una violazione dei limiti esterni della giurisdizione da parte di quel giudice per invasione della sfera della pubblica amministrazione, bensì nella denuncia di un error in iudicando e, dunque, di un errore commesso da quello stesso giudice all’interno della sua giurisdizione.
Nella specie, il lamentato sconfinamento non ricorre, in quanto la domanda di annullamento degli atti amministrativi non è stata respinta sulla base di ragioni diverse da quelle dedotte nella motivazione dei diversi provvedimenti impugnati.
Si è semmai di fronte, come anche rilevato dal P.G., da un lato, al contempo alla denuncia di un vizio di minuspetizione (nella parte in cui il giudice amministrativo ha sostenuto che l’appaltante avrebbe introdotto inammissibilmente una nuova censura con memoria del 20 settembre 2021, basata sulla proroga legislativa del PAUJI”) e di ultrapetizione o di extrapetizione (per aver lo stesso escluso l’illegittimità del provvedimento impugnato sulla base di rationes decidendi che non trovano fondamento nell’impianto motivazionale dell’atto amministrativo) ossia a un error in procedendo, riconducibile alla violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e, per altro verso, a un error in judicando, quale violazione della normativa sostanziale (quale può essere l’affermata necessità che ogni sospensione sia formalizzata in un apposito provvedimento «ricognitivo»), senza che però il tutto renda configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale, stante l’assenza nel caso di specie del radicale stravolgimento delle norme di rito che implichi un evidente diniego di giustizia, né essendo ipotizzabile una diretta e concreta valutazione «dell’opportunità e convenienza dell’atto» tale da dar luogo a un provvedimento abnorme o anomalo ovvero da determinare uno stravolgimento delle norme di riferimento, con conseguente violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale (v. Cass. Sez. Un. nn. 36899 del 2021 e 36593 del 2021).
Si tratta dunque di attività che costituisce il proprium della funzione giurisdizionale, non di un’attività riservata alla P.A. (S.U. n. 12155 del 2021), rientrante nell’ambito della giurisdizione di legittimità ed inerente alla funzione interpretativa da questa svolta, così come è interna a questa l’accertamento della situazione di fatto e la sua riconducibilità alla previsione normativa, per cui eventuali errori commessi nello svolgerla non ridondano in un vizio qui rilevante, a prescindere dalla (eventuale) gravità degli stessi (Sez. Un. n. 31023 del 2019; n. 31103 del 2018), restando esclusa, in radice, la possibilità di procedere ad un controllo della correttezza del giudizio di sussunzione e dell’interpretazione offerta dal giudice amministrativo, che non si sostanzi in un atto abnorme.
3. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, si deve dar atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 6.000,00, a titolo di compensi, oltre € 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfettario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso, a Roma, nella camera di consiglio del 20 giugno 2023
Allegati:
SS.UU, 04 luglio 2023, n. 18880, in tema di eccesso di potere giurisdizionale
In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 04 luglio 2023, n. 18847
Cass. civ. Sez. Unite, Ord., (ud. 20/06/2023) 04-07-2023, n. 18847
COMPETENZA E GIURISDIZIONE CIVILE
Regolamento di giurisdizione
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Primo Presidente f.f. –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –
Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27376-2022 proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOVANNI BATTISTA MARTINI 13, presso lo studio dell’avvocato ANDREA DI PORTO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati SIMONE CONTI e FRANCESCO NEBOLI;
– ricorrente –
e B.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FRATTINA 75, presso lo studio dell’avvocato MICHELA CORIGLIANO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VIVIAN JULIA DONATH;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 51724/2021 del TRIBUNALE di ROMA. Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2023 dal Consigliere ORONZO DE MASI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale MAURO VITIELLO, il quale chiede che la Corte di Cassazione, in camera di consiglio, accolga il ricorso ed affermi la giurisdizione del Giudice italiano.
Svolgimento del processo
CHE:
A.A., dottore commercialista e revisore legale, propone ricorso per regolamento di giurisdizione in relazione alla causa pendente avanti al Tribunale di Roma (RGN. 51724/2021), promossa con atto di citazione notificato il 27/8/2021, al suo indirizzo estero di Londra, ad B.B., la quale resiste con controricorso.
Il A.A. ha agito in giudizio “per ottenere il pagamento delle prestazioni professionali fornite (…) in esecuzione di un apposito mandato” a favore della predetta cliente e consistite “nella consulenza patrimoniale, fiscale e societaria”.
Riferisce che “il conferimento dell’incarico professionale (…) è avvenuto a Roma”, nel 2014, e che la B.B. è una imprenditrice, la quale opera “attraverso la società Immobiliare Arena Blu Srl (…) di cui detiene l’intera partecipazione (…) la società B.B. M.D. (..) di cui detiene sempre l’intera partecipazione sociale” e, dunque, con affari e interessi “concentrati in Italia, e, in particolare, a Roma (..) sia nel campo immobiliare sia in quello farmaceutico”, per cui “le prestazioni richieste al Dott. A.A. erano sostanzialmente finalizzate a supportare l’attività imprenditoriale svolta dalla Dott.ssa B.B.”.
Evidenzia che “proprio in virtù del luogo di residenza, del luogo di svolgimento dell’attività imprenditoriale, nonchè della sede delle società della Dott.ssa B.B. (la stessa) ha dunque rivolto la propria attività professionale verso l’Italia e, nello specifico, verso Roma”.
La B.B., sin dal suo primo atto difensivo, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano, sostenendo che “aveva infatti (ed ha tuttora) non soltanto il domicilio sul suolo britannico (ma anche la residenza) precisamente “a (Omissis) (sin dal novembre 2019), come risulta dal relativo certificato AIRE”.
Convenuta in giudizio ha, peraltro, negato la legittimazione processuale del A.A., assumendo di non aver intrattenuto un rapporto contrattuale diretto con il professionista, il quale come legale rappresentante della BBS Finance Srl aveva stipulato un contratto di prestazione di servizi con la Consulting & Legal Services Scarl per rendere, attraverso la società, una serie di attività in suo favore.
Ha, poi, dedotto di non aver “rivestito la qualifica di “professionista”” e negato che il A.A. avesse svolto prestazioni “finalizzate a supportare l’attività imprenditoriale di B.B.”, essendo semmai lei stessa a rivestire “esclusivamente quella di “consumatore””, donde la conseguente applicazione della
tutela privilegiata di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005 e l’attrazione della controversia innanzi al giudice del luogo di residenza o domicilio del consumatore medesimo.
La controricorrente riferisce che l’unico contratto venuto in essere è quello da lei “sottoscritto in data 3 novembre 2014” con la Consulting & Legal Services Scarl , riferibile alla “proposta di gestione (Omissis) “per attività servente e di organizzazione fiscale previdenziale per le competenze delle attività professionali” per la durata di un anno”.
Ribadisce di essere rimasta estranea al contratto che, in pari data, “la Consulting & Legal Services Scarl ha sottoscritto con la BBS Srl , di cui Dottor A.A. era in allora il legale rappresentante, un Contratto di prestazione di servizi affinchè prestasse “anche con l’ausilio dei propri collaboratori – per conto del Cliente (-) le attività come di seguito elencate nei confronti della Dottoressa B.B., nata a (Omissis), codice fiscale (Omissis) (…)”.
Alla società Consulting & Legal Services, sempre secondo la controricorrente, spettava di svolgere “attività servente e di organizzazione per la prestazione di consulenza professionale che il commercialista si era impegnato a svolgere non in proprio ma attraverso la propria società e con la propria struttura”.
Motivi della decisione
CHE:
Con il primo motivo del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, il A.A. “assume la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 3, comma 1, nonchè alla luce della disciplina del Codice del Consumo, deducendo che la B.B. “ha sì trasferito la propria residenza a Londra, ma ha mantenuto il proprio domicilio a Roma”, atteso che, ai sensi dell’art. 43 c.c., per domicilio deve intendersi il luogo in cui la persona “ha stabilito la sede principale dei suoi affari” e deduce che l’attività imprenditoriale della stessa viene svolta in Italia, precisamente a Roma, “attraverso due società delle quali detiene l’intero capitale sociale”. Deduce, altresì, che ove anche si volesse attribuire alla B.B. la qualifica di “consumatore”, ai sensi dell’art. 66 bis del Codice del Consumo, “la competenza territoriale inderogabile sarebbe comunque “del giudice del luogo di domicilio del consumatore””.
Con il secondo motivo deduce, in via subordinata, la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano, ai sensi dalla L. n. 218 del 1995, art. 3, comma 2, secondo i criteri di cui al Reg. UE n. 1215 del 2012 (c.d. “Bruxelles I bis”), in quanto anche se la B.B. avesse effettivamente trasferito a Londra non solo la residenza ma anche il domicilio, troverebbero applicazione i “criteri speciali” di collegamento previsti dal richiamato Regolamento UE, trovandosi la parte convenuta “nel territorio di uno Stato non vincolato dal medesimo Regolamento (come è il Regno Unito a seguito della Brexit”. Deduce, altresì, che discutendosi di un contratto di prestazione di servizi, il criterio che viene in rilievo è quello previsto dall’art. 7 del Regolamento “Bruxelles I bis”, il quale radica la giurisdizione nel Paese “in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto esser prestati in base al contratto””.
Con il terzo motivo deduce “l’inapplicabilità, in ogni caso, della disciplina del foro esclusivo del consumatore, in quanto la B.B. “non può essere considerata “consumatore” bensì “professionista””, essendo il dedotto contratto “per la gestione patrimoniale, fiscale e societaria” funzionalmente collegato con la gestione di partecipazioni societarie (in Immobiliare Arena Blu Srl e in B.B. M.D. Srl ) e, dunque, destinato a soddisfare non esigenze della vita quotidiana della persona fisica, bensì l’attività imprenditoriale alla B.B. riconducibile.
CONSIDERATO CHE:
Il ricorso è ammissibile.
Avuto riguardo all’udienza di trattazione della causa innanzi al giudice monocratico, ex art. 281 sexies c.p.c., va rilevato che la preclusione all’esperibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, ai sensi dell’art. 41 c.p.c., per effetto di una decisione nel merito in primo grado, si verifica dal momento in cui la causa viene trattenuta per la sentenza, momento che, segnando il radicamento dei poteri decisori del giudice, osta a che il regolamento medesimo possa assolvere lo scopo di una sollecita definizione della questione di giurisdizione investendone in via preventiva la Suprema Corte (Cass. Sez. Un., n. 8076/2012; n. 25256/2009).
Nella specie, il ricorso ex art. 41 c.p.c., risulta notificato in data 18/11/2022, mentre l’udienza per la discussione ex art. 281 sexies c.p.c., era fissata per il giorno 29/11/2022.
I motivi del regolamento preventivo di giurisdizione sono connessi e possono essere esaminati in modo congiunto.
Deve essere dichiarata la giurisdizione del giudice italiano da questa Corte, conformemente a quanto osservato dal P.G. nelle rassegnate conclusioni.
Il giudizio del quale si discute è iniziato il 27/8/2021, innanzi al Tribunale Civile di Roma.
Secondo l’esposizione dei fatti contenuta nell’atto di citazione, la vicenda da cui trae origine la controversia riguarda il preteso affidamento, da parte della B.B. al A.A., dell’attività di “consulenza per la gestione patrimoniale e societaria”, come da formale “mandato” conferito al professionista, attività da rendere nell’ambito di un rapporto di prestazione d’opera intellettuale, sensi dell’art. 2230 e segg. c.c., asseritamente iniziato nel novembre 2014 e conclusosi due anni e mezzo dopo, allorquando, a causa dell’inadempienza contrattuale della cliente ed a seguito dell’intervenuto recesso del professionista, è stata giudizialmente domandata la condanna della B.B. al pagamento dei corrispettivi medio tempore maturati.
La questione di giurisdizione deve essere risolta in base alla L. 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).
Dispone l’art. 3 della legge citata che: “1. La giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell’art. 77 c.p.c. e negli altri casi in cui è prevista dalla legge. 2. La giurisdizione sussiste inoltre in base ai criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27 settembre 1968, resi esecutivi con la L. 21 giugno 1971, n. 804, e successive modificazioni in vigore per l’Italia, anche allorchè il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, quando si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione. Rispetto alle altre materie la giurisdizione sussiste anche in base ai criteri stabiliti per la competenza per territorio”.
Il criterio di giurisdizione previsto dal comma 1 della norma, abbandonato il previgente criterio della cittadinanza italiana del convenuto, attribuisce rilievo al fatto di trovarsi in Italia il domicilio o la residenza o, implicitamente, la sede per le persone giuridiche, o la presenza di un rappresentante autorizzato a stare in giudizio.
Si è in tal modo privilegiato, ai fini della giurisdizione, il radicamento effettivo in Italia della persona del convenuto, sia esso cittadino o straniero, avuto riguardo ai rapporti giuridici che a lui o a lei fanno capo.
Ddell’art. 3, il comma 2 della legge citata contempla alcuni criteri speciali e, in forza del rimando della norma nazionale alla Convenzione di Bruxelles del 1968 e successive modificazioni, in vigore per l’Italia, riguardante le controversie in materia civile e commerciale, cui è seguito il Regolamento Bruxelles I (n. 44 del 2001), sostitutivo della predetta convenzione, e Bruxelles I-bis (n. 1215 del 2012), stabilisce che la giurisdizione italiana sussiste, oltre che nei casi di cui al comma 1, collegati, appunto, al domicilio o alla residenza in Italia del convenuto, o all’esistenza di un suo rappresentante ex art. 77 c.p.c., anche allorchè il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, ove si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione.
Si è in tal modo data rilevanza, nelle materie considerate alle sezioni 2, 3 e 4 del Titolo II della Convenzione (competenze speciali in materia di obbligazioni contrattuali ed extracontrattuali), alle stesse circostanze fattuali, “anche allorchè il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente”, e cioè sia nel caso in cui si applichi, sia nel caso in cui non si applichi la Convenzione di Bruxelles quale fonte internazionale vincolante.
I criteri sopra menzionati sono stati fatti propri dal diritto interno italiano per le materie in cui si applica la Convenzione e valgono nei confronti di tutti i soggetti convenuti, come se fossero stati da esso direttamente previsti, donde anche il potere esclusivo del giudice nazionale di interpretare il diritto interno e di individuare nell’ordinamento processuale la disciplina del caso concreto.
Al presente giudizio, iniziato dopo il 31/12/2020, non è applicabile il Regolamento UE n. 1215 del 2012, ai sensi dell’art. 67 del Brexit Withdrawal Agreement, perchè il Regno Unito non è Paese membro dell’Unione Europea ed alla suddetta data si è concluso il periodo di transizione previsto dall’art. 126 dell’Accordo sul recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall’Unione Europea e dalla Comunità Europea dell’energia atomica accordo (cosiddetto Brexit Withdrawal Agreement).
Infatti, l’art. 67, comma 1, dell’accordo citato, dispone: “Nel Regno Unito, nonchè negli Stati membri in situazioni che coinvolgano il Regno Unito, ai procedimenti avviati prima della fine del periodo di transizione e ai procedimenti o alle cause connesse ai sensi degli artt. 29, 30 e 31 del regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio (73), dell’art. 19 del regolamento (CE) n. 2201/2003 o degli artt. 12 e 13 del regolamento (CE) n. 4/2009 del Consiglio (74), si applicano gli atti o le disposizioni seguenti: a) le disposizioni del regolamento (UE) n. 1215/2012 riguardanti la competenza giurisdizionale….”.
Le Sezioni Unite di questa Corte (n. 31963/2021) hanno avuto modo di precisare, in tema di giurisdizione del giudice italiano, che nei procedimenti avviati prima della fine del periodo di transizione – conclusosi il 31/12/2020 – previsto dall’art. 126 del Brexit Withdrawal Agreement (approvato il 17/10/2019 ed entrato in vigore l’1/2/2020) trova applicazione il Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, ai sensi dell’art. 67 del citato accordo, ancorchè il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord non sia più un Paese membro dell’Unione Europea.
Ebbene, dal venir meno della fonte comunitaria nei rapporti con il Regno Unito e dalla non applicabilità diretta della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, non avendo il Regno Unito aderito a tale convenzione internazionale, consegue che la questione della competenza giurisdizionale debba essere necessariamente risolta sulla base delle norme di diritto processuale civile internazionale del Paese in cui si intende avviare la causa (art. 4 della Convenzione di Bruxelles e art. 6 del Regolamento UE n. 1215 del 2012).
Operano, quindi, i criteri di collegamento all’uopo stabiliti dal diritto interno ed, innanzitutto, quelli di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 3, comma 1, che per il radicamento della giurisdizione attribuisce rilievo, tra l’altro, alternativamente, al domicilio e alla residenza del convenuto in Italia.
Parte ricorrente assume, al riguardo, che la B.B., cittadina italiana, a prescindere dalle risultanze dell’iscrizione nell’anagrafe dei residenti all’estero (AIRE), pur risiedendo anagraficamente in Gran Bretagna, ha di fatto mantenuto in Italia il suo domicilio, inteso come sede principale di affari ed interessi economici e, segnatamente, a Roma, dove hanno sede le due società, interamente possedute, la Immobiliare Arena Blu Srl e la B.B. M.D. Srl , attraverso le quali gestisce immobili di proprietà, svolge attività di acquisto, vendita, permuta e locazione degli stessi, nonchè produce e commercializza prodotti farmaceutici, parafarmaceutici e medicinali e gestisce marchi e brevetti di specialità medicinali.
Com’è noto, l’identificazione del giudice cui spetta la giurisdizione in ordine ad una controversia caratterizzata da elementi di estraneità all’ordinamento italiano integra questione di carattere processuale, in relazione alla quale la Suprema Corte, chiamata ad operare come giudice anche del fatto, può procedere non solo alla verifica della corretta individuazione ed interpretazione della disciplina applicabile, ma anche alla ricostruzione della vicenda sottoposta al suo esame, nei limiti in cui ciò risulti necessario per l’applicazione della predetta disciplina (Cass. Sez. Un., n. 156/2020; n. 1717/2020; n. 5830/2022).
Per affermare in base allo stato di fatto che sussiste la giurisdizione italiana e non quella del giudice straniero, detto stato di fatto deve emergere dalle risultanze delle prove raccolte, in base alle regole probatorie del processo, e non si può giudicare in base ad una mera ipotesi non accertata (Cass., Sez. Un, n. 103/1954; Cass. n. 2004/1974).
La giurisdizione, inoltre, si determina sulla base della domanda, individuata con riferimento al petitum sostanziale, identificato non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto della causa petendi, vale a dire della effettiva consistenza della situazione soggettiva giuridicamente tutelata dedotta in giudizio, identificata con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico di cui essi sono rappresentazione.
Occorre, dunque, guardare al petitum sostanziale, in funzione della causa petendi, rappresentata dalla “intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio”, che il giudice deve accertare “con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione” (da ultimo, Cass. Sez. Un., n. 6001/2021).
Tanto premesso, corre l’obbligo di evidenziare che le deduzioni dell’odierno ricorrente volte a superare il dato oggettivo ricavabile dalle risultanze probatorie documentali, costituito dal certificato di residenza per gli italiani residenti all’estero rilasciato dal Comune di Roma e prodotto dalla B.B., non appaiono corroborate da evenienze conclamanti un luogo di domicilio diverso da quello coincidente con la residenza anagrafica (art. 43 c.c.).
Le circostanze allegate (plurime proprietà immobiliari in Italia, detenzione dell’intero capitale delle società di diritto italiano Immobiliare Arena Blu e B.B. M.D. anche se amministrate da altri, titolarità in capo alla B.B. di marchi e domande di brevetto, con versamento in Italia delle relative imposte) non appaiono dotate di specifica attitudine dimostrativa e risulta incerto l’esito della valutazione di detti elementi anche in termini di prova per presunzioni.
Ne discende, sul piano della prova, la decisività del documento che, pur avendo valore presuntivo certamente non assoluto, indica in Londra il luogo di residenza (anche fiscale) della convenuta, sin dal 6/11/2019, luogo nel quale, peraltro, si è perfezionata la notifica (“presso il Consolato Italiano”) dell’atto introduttivo del giudizio.
In difetto di prova contraria, come di regola avviene per le presunzioni, non v’è, quindi, ragione per escludere la coincidenza del domicilio con il luogo di residenza della parte convenuta.
Vanno, allora, scrutinati i criteri di cui alla L. n. 218 del 1992, art. 3, comma 2 che “estendono” la giurisdizione italiana, nelle materie civili e commerciali considerate alle sezioni 2, 3 e 4 del Titolo II della Convenzione di Bruxelles, nell’ipotesi – che qui ricorre – del convenuto non domiciliato nel territorio di uno degli Stati aderenti (Cass. Sez. Un. 18299/2021 e n. 7065/2023).
Sotto tale profilo, è ininfluente la mancata appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea, considerato che le norme convenzionali sono destinate a rilevare, nel caso di specie, come diritto interno.
Orbene, la Convenzione, Sezione 2 (Competenze speciali), art. 5, prevede, tra l’altro, che “Il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente: 1) in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita; in materia di contratto individuale di lavoro, il luogo è quello in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività; qualora il lavoratore non svolga abitualmente la propria attività in un solo paese, il datore di lavoro può essere citato dinanzi al giudice del luogo in cui è situato o era situato lo stabilimento presso il quale è stato assunto;”.
L’odierno ricorrente, “dottore commercialista e revisore contabile”, ha convenuto in giudizio, innanzi al Tribunale Ordinario di Roma, la B.B., cittadina italiana residente all’estero, per sentire: “I) accertare e dichiarare il diritto del Dott. A.A. a percepire e dalla Dott.ssa B.B. il compenso maturato per lo svolgimento dell’attività professionale di cui all’incarico conferito il 3 novembre 2014, per le ragioni di cui (…). II) per l’effetto, condannare la Dott.ssa B.B. a pagare al Dott. A.A. la somma di Euro 6.227.799,00 o quella maggiore o minore che sarà ritenuta di giustizia, oltre interessi ex D.Lgs. n. 231 del 2001 e oltre accessori di legge. Con vittoria delle spese di lite, oltre accessori di legge” (v. conclusioni rassegnate nell’atto di citazione).
Ed allora, la giurisdizione sulla domanda proposta dal professionista, con studio in “Brescia e Milano”, e con “uffici di “rappresentanza” in Roma e Bruxelles”, spetta, in base all’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1998, richiamata dalla L. n. 218 del 1995, art. 3 al giudice del luogo dove la prestazione è stata eseguita, perchè l’attività intellettuale richiesta per l’esecuzione del contratto di prestazione d’opera, secondo quanto allegato e dedotto dall’attore, venne posta in essere “in prima persona dal Dott. A.A.”, ovvero in un ambito territoriale determinato coincidente con quello ricavabile dalla diversa narrazione della B.B., la quale riferisce l’attività mirante alla cura dei propri interessi patrimoniali in Italia, alla Consulting & Legal Services Scarl e, mediatamente, alla BBS Finance Srl , rientrando il A.A. tra i “collaboratori” ausilianti quest’ultima, autorizzati ad operare nell’interesse della cliente, società entrambe con sede a Roma e pacificamente operanti in Italia, sulla base di incarico conferito anch’esso (a Roma) in Italia.
Del resto, il rapporto contrattuale dedotto in giudizio, secondo la narrativa attorea, aveva tratto origine da due incontri avvenuti a Roma, il secondo dei quali conclusosi, appunto, con la formalizzazione, da parte della B.B., dello “incarico di gestire, sia dal punto di vista fiscale che da quello societario, il proprio patrimonio”, in Italia, e si era estrinsecato in molteplici attività “di natura professionale altamente qualificata”, entrando in crisi a seguito “del contenzioso dalla stessa (B.B.) instaurato nei confronti della sorella Paola per la successione ereditaria del padre”, concludendosi, infine, con la comunicazione di recesso del professionista (v. atto di citazione).
Il criterio appropriato per individuare il giudice avente la giurisdizione sulla domanda, di norma, è da ritenere quello della sede che il professionista ha al momento in cui riceve l’incarico, che è il luogo in cui egli elabora le prestazioni che si rendono di volta in volta necessarie nell’interesse del cliente e, nel caso di specie, il A.A. agisce per il corrispettivo di attività professionale svolta in Italia e da retribuirsi in Italia.
Per radicare la giurisdizione nel Regno Unito, quale Stato nel cui territorio si trova il domicilio del consumatore evocato in giudizio, la B.B. ha pure fatto riferimento, quanto al domicilio a Londra, alla normativa posta a tutela il consumatore, destinata a prevalere su ogni altra, in virtù delle esigenze di protezione, anche di natura processuale, della parte debole del rapporto contrattuale.
L’art. 13 della più volte richiamata Convenzione, Sezione 4 (Competenza in materia di contratti conclusi da consumatori), prevede che: “In materia di contratti conclusi da una persona per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività professionale, in appresso denominata “consumatore”, la competenza è regolata dalla presente sezione, salve le disposizioni dell’art. 4 e dell’art. 5, punto 5.
1) qualora si tratti di una vendita a rate di beni mobili materiali;
2) qualora si tratti di un prestito con rimborso rateizzato o di un’altra operazione di credito, connessi con il finanziamento di una vendita di tali beni;
3) qualora si tratti di un altro contratto che abbia per oggetto una fornitura di servizio o di beni mobili materiali se: a) la conclusione del contratto è stata preceduta da una proposta specifica o da una pubblicità nello Stato in cui il consumatore ha il proprio domicilio e se b) il consumatore ha compiuto in tale Stato gli atti necessari per la conclusione del contratto.
Qualora la controparte del consumatore non abbia il proprio domicilio nel territorio di uno Stato contraente, ma possieda una succursale, un’agenzia o qualsiasi altra filiale in uno Stato contraente, essa è considerata, per le contestazioni relative al loro esercizio, come avente domicilio nel territorio di tale Stato”.
L’art. 14 prevede, poi, che: “L’azione del consumatore contro l’altra parte del contratto può essere proposta sia davanti ai giudici dello Stato contraente nel cui territorio tale parte ha il proprio domicilio, sia davanti ai giudici dello Stato contraente nel cui territorio è domiciliato il consumatore.
L’azione dell’altra parte del contratto contro il consumatore può essere proposta solo davanti ai giudici dello Stato nel cui territorio il consumatore ha il proprio domicilio.
Queste disposizioni non pregiudicano il diritto di proporre una domanda riconvenzionale davanti al giudice della domanda principale in conformità della presente sezione.”.
Anche i regolamenti Bruxelles I-bis e Roma I, seppure con formule parzialmente diverse tra loro, prendono in considerazione il consumatore quale persona fisica che concluda contratti internazionali per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività commerciale o professionale con un’altra persona che agisca nell’esercizio della sua attività commerciale o professionale, riprendendo una definizione già contenuta nelle Convenzioni antecedenti i regolamenti, che è stata fatta oggetto nel tempo di un’opera di cesellamento da parte della Corte di Giustizia la quale ne ha definito i termini restringendone progressivamente l’ambito soggettivo di applicazione, al fine di evitare che una protezione troppo estesa della parte debole gravasse poi sugli scambi commerciali intracomunitari.
Il ricorrente deduce che la contraente B.B. ha assunto, nel rapporto de quo, non la veste di “consumatore”, richiesta per applicazione della tutela consumeristica, ma quella di “professionista”. L’attività svolta dal A.A., sempre secondo il ricorrente, non sarebbe del tutto estranea all’attività imprenditoriale della cliente, riguardando la “gestione dell’operatività delle suindicate società (…) assistendo (il A.A.) la Dott.ssa B.B. sia negli investimenti immobiliari da effettuare a Roma per il tramite della società Immobiliare Arena Blu Srl , sia nella gestione dei prodotti, brevetti e knowhow della società B.B. M.D. Srl “.
Va detto che non è affatto agevole verificare, sulla scorta delle risultanze versate in atti, l’effettiva estensione dell’attività oggetto dell’incarico professionale dedotto in giudizio e, del resto, la questione è oggetto di acceso contrasto tra le parti in causa.
Nè appare corretto scindere, nella ricostruzione ed interpretazione del dedotto vincolo contrattuale, i contenuti dell’incarico “di consulenza per la gestione patrimoniale fiscale e societaria”, di cui alla scrittura recante la data del 3 novembre 2014 e la sottoscrizione della B.B., da quelli, invece, del contratto, anch’esso sottoscritto in data 3 novembre 2014, con la Consulting & Legal Services Scarl , riferibile alla “proposta di gestione (Omissis) “per attività servente e di organizzazione fiscale previdenziale per le competenze delle attività professionali” per la durata di un anno”, nonchè da quelli, ancora, del contratto stipulato, in pari data, dalla Consulting & Legal Services Scarl con la BBS Srl , di cui Dottor A.A. era all’epoca legale rappresentante, comunque strumentale alle attività d’interesse della B.B..
In forza di un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, “ai fini dell’assunzione della veste di consumatore l’elemento significativo non è il “non possesso”, da parte della “persona fisica” che ha contratto con un “operatore commerciale”, della qualifica di “imprenditore commerciale” bensì lo scopo (obiettivato o obiettivabile) avuto di mira dall’agente nel momento in cui ha concluso il contratto, con la conseguenza che la stessa persona fisica svolgente attività imprenditoriale o professionale deve considerarsi “consumatore” quando conclude un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività (cfr. Cass., 5/5/2015, n. 8904; Cass., 4/11/2013, n. 24731; Cass., 18/9/2006, n. 20175. Cfr. altresì, con riferimento alla fideiussione, Cass., 15/10/2019, n. 25914)” (Cass. n. 6578/2021).
Non è superfluo ricordare che anche nel diritto unionale la nozione di “consumatore”, ai sensi dell’art. 2, lett. b), della direttiva 93/13, ha un carattere oggettivo (v. sentenza Costea, C0110/14, EU:C:2015:538, punto 21) e deve, quindi, essere valutata alla luce di un criterio funzionale volto ad analizzare se il rapporto contrattuale in esame rientri nell’ambito delle attività estranee all’esercizio di una professione, spettando al giudice nazionale, investito di una controversia relativa a un contratto idoneo a rientrare nell’ambito di applicazione di tale direttiva, verificare, tenendo conto di tutte le circostanze della fattispecie e di tutti gli elementi di prova, se il contraente in questione possa essere qualificato come “consumatore” ai sensi della suddetta direttiva (v., in Ric. 2018 n. 31844 sez. M1 ud. 03-12-2019 -4- tal senso, sentenza Costea, C110/14, EU:C:2015:538, punti 22 e 23).
Ciò detto, ad avviso di queste Sezioni Unite, è sufficiente rilevare che sulla scorta delle stesse allegazioni delle parti, le quali collocano, come innanzi ricordato, lo sviluppo dell’intera vicenda negoziale esclusivamente nel territorio nazionale, non ricorrerebbero le ulteriori condizioni di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 13, n. 3, lett. a) e b) ovvero, che la conclusione del contratto sia stata preceduta da una proposta specifica o da una pubblicità nello Stato in cui il consumatore ha il proprio domicilio (il Regno Unito) e che il consumatore abbia compiuto in tale Stato gli atti necessari per la conclusione del contratto.
Va, conseguentemente, dichiarata la giurisdizione del giudice italiano e la causa rimessa davanti al Tribunale Civile di Roma, che provvederà pure alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Dichiara la giurisdizione del giudice italiano e rimette le parti innanzi al Tribunale Civile di Roma che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili, il 20 giugno 2023.
Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2023
Allegati:
SS.UU, 04 luglio 2023, n. 18847, in tema di riparto di giurisdizione