In tema di usi civici – SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938
Civile Ord. Sez. U Num. 13938 Anno 2024
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: ORILIA LORENZO
Data pubblicazione: 20/05/2024
Oggetto
USI CIVICI
R.G.31329/2018
Cron.
Rep.
Ad. 30/01/2024
CC
ORDINANZA
sul ricorso 31329-2018 proposto da:
ENEL PRODUZIONE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RUGGERO FAURO 43, presso lo studio dell’avvocato UGO PETRONIO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI ANVERSA DEGLI ABRUZZI, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI DI MASSA;
– controricorrente –
nonchè
REGIONE ABRUZZO;
– intimata –
avverso la sentenza n. 4754/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 10/07/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/01/2024 dal Presidente di Sezione LORENZO ORILIA.
FATTI DI CAUSA
Il Prefetto dell’Aquila, con decreto del 7.7.1932, espropriò alcuni terreni gravati da usi civici nel territorio del Comune di Anversa degli Abruzzi. Con l’espropriazione, fu autorizzata l’occupazione permanente dei suoli in favore delle Ferrovie dello Stato, ente a cui è succeduta, per effetto di trasferimenti immobiliari, l’Enel Produzione spa. Successivamente, il Comune di Anversa degli Abruzzi effettuò una verifica demaniale del territorio segnalando alla Regione Abruzzo la richiesta di reintegra in via amministrativa delle terre civiche avanzata dall’Enel.
A seguito dell’opposizione formalizzata dall’ENEL venne quindi disposta la convocazione delle parti davanti al Commissario per il Riordino degli Usi Civici nella Regione Abruzzo e in quella sede venne nominato un consulente tecnico di ufficio, il quale concluse la sua relazione ravvisando la natura demaniale delle particelle n. 72, 733, 145, 348, 722, 724, 725 del foglio 9 e n. 813, 814, 815, 816, 817, foglio 14.
Con sentenza n. 18/2016 il Commissario dichiarò il proprio difetto di giurisdizione osservando che il decreto di espropr d e l 1932 aveva legittimamente trasferito i fondi, attualmente occupati dall’Enel, all’allora Ferrovie dello Stato, trasformandoli in beni allodiali o comunque appartenenti al patrimonio disponibile dello Stato. Argomentò quindi sulla inapplicabilità delle pronunzie della Corte Costituzionale n. 391/1989 e n. 156/1995 e sulla conseguente idoneità dello stesso decreto ad eliminare ogni diritto gravante sui fondi espropriati trasferendoli sull’indennità di esproprio (compresi i diritti di uso civico), in conformità con i principi generali enunciati dall’ art. 52 l. n. 2359/1865 (Espropriazione per Pubblica Utilità) e da alcune leggi richiamate (art. 3 L. n.1834/1938 e art. 9 L. n. 230/1950).
Contro tale pronuncia il Comune di Anversa degli Abruzzi propose reclamo, accolto dalla Corte d’Appello di Roma Sezione Usi Civici con sentenza n. 4754/2018.
Per giungere a tale conclusione, la Corte territoriale, sulla scorta di alcuni precedenti di questa Corte, ha ritenuto che la controversia investe l’accertamento della qualitas soli, precisando che il decreto prefettizio di esproprio del 1932 non aveva comportato la cessazione del vincolo di demanialità civica, non essendo intervenuto nessun provvedimento autorizzativo alla alienazione o al mutamento di destinazione dei fondi: mancava quindi la sdemanializzazione delle aree.
L’ENEL Produzione spa ricorre davanti a questa Corte con due motivi di ricorso contrastati con controricorso dal Comune di Anversa degli Abruzzi.
La Regione Abruzzo è rimasta invece intimata.
Con ordinanza interlocutoria n. 24988 del 2023 il Collegio della seconda sezione civile, su richiesta conforme del Pubblico Ministero, ha rimesso il ricorso alla Prima Presidente per l’assegnazione alle Sezioni unite, vertendosi su questioni di giurisdizione.
In prossimità dell’adunanza camerale le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1 Col primo motivo la società ricorrente denunzia plurime violazioni di norme di diritto: violazione degli artt. 12 e 29 della legge n. 1766/1927 in relazione agli artt. 111 Cost. e 132 cpc; violazione dell’art. 5 della legge n. 2248/1865 allegato E; violazione del principio del riparto di giurisdizione e del principio del giusto processo (artt. 102, 103 e 111 Cost.). Difetto di giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici (art. 360 n. 1 cpc).
1.2 Col secondo motivo denunzia violazione degli artt. 12 e 29 della legge n. 1766/1927 in relazione dell’art. 12 delle preleggi; violazione dell’art. 52 della legge n. 2359/1865; della legge n. 431/1985, del DPR n. 327/2001 art. 4 e 21 septies della legge n. 241/1990 (come successivamente modificati); ancora, violazione dell’art. 5 della legge n. 2248/1865 allegato E. Violazione del principio del riparto di giurisdizione e del principio del giusto processo (artt. 102, 103 e 111 Cost.). Difetto di giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici (art. 360 n. 1 cpc).
Osserva in particolare la società ricorrente:
- la giurisdizione si determina sulla base della “causa petendi” sostanziale che, nella specie, consiste nella possibilità o nella impossibilità che le terre di uso civico – quelle di cd. Demanio civico e quelle private gravate da usi civici – siano espropriabili per pubblica utilità;
- quindi l’accertamento sulla giurisdizione, pur implicando l’apprezzamento di elementi di merito, non può implicare che la statuizione sulla giurisdizione possa confondersi con la decisione sul merito né che la decisione possa essere determinata secundum eventus litis;
- la Corte d’Appello ha deciso sulla scorta di principio di diritto oramai superato nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha successivamente chiarito che l’espropriazione per pubblica utilità, ex l. n. 2359/1865, art. 52, co. 2, si applica anche ai diritti d’uso civico (cita n. 9986/2007); invero, i terreni di uso civico sono suscettibili d’esecuzione forzata nel pubblico interesse, essendo soggetti ad un regime di alienabilità controllata (cita Corte Cost. n. 391/1989);
- la Corte d’Appello ha erroneamente dichiarato assorbita ogni altra questione e, in particolare, quella concernente l’impossibilità, per il Commissario, di dichiarare la nullità dell’espropriazione (peraltro, solo in epoca successiva la legge -art. 4, D. P.R. n. 327/2001- aveva previsto la non espropriabilità dei beni gravati da uso civico, salvo compatibilità col predetto uso);
- all’epoca l’art. 12, l. n. 1766/1927 escludeva alienabilità e usucapibilità in assenza di autorizzazione al mutamento di destinazione, ma non v’era accenno all’espropriazione per pubblica utilità; per contro la Corte cost. (sent. n. 391/1989) aveva affermato sussistere un regime di alienabilità controllata e quindi di suscettibilità all’espropriazione per pubblica utilità.
In sintesi, secondo la tesi della società ricorrente, la sentenza della Corte d’Appello è nulla per avere dichiarato la giurisdizione commissariale senza tener contro della successiva giurisprudenza; ed è altresì nulla per avere ritenuto che le terre di uso civico non sono espropriabili in assenza di un provvedimento di mutamento della destinazione, senza considerare il diritto vigente nel 1932 (quando i beni non avevano rilevanza ambientale), violando in tal modo i principi di imperatività ed effettività dell’atto amministrativo.
La sentenza avrebbe inoltre erroneamente dichiarato assorbiti gli elementi di fatto e di diritto tesi a dimostrare l’impossibilità per il Commissario di dichiarare la nullità dell’esproprio come atto amministrativo.
2 Le due censure – che ben si prestano ad esame unitario per il comune riferimento alla questione di giurisdizione – sono prive di fondamento.
Le tematiche poste dal ricorso sono due, tra loro strettamente collegate: una riguardante i limiti della giurisdizione del Commissario per il Riordino degli Usi Civici e l’altra riguardante l’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico di dominio della collettività.
2.1 Sulla prima questione, si rende opportuno partire da una ricognizione del panorama normativo: come già chiarito da questa Corte (v. tra le varie Sez. U, Sentenza n. 9280 del 20/05/2020; Sez. U – , Ordinanza 28802 del 04/10/2022), con la locuzione «usi civici», si indicano i diritti spettanti a una collettività insediata su un territorio e ai suoi componenti (cives), il cui contenuto consiste nel trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque. La materia degli usi civici è stata disciplinata dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 e dal R.D. 26 febbraio 1928, n. 332 (con il quale è stato approvato il regolamento per la esecuzione della detta legge), nonché dalla legge 10 luglio 1930, n. 1078, recante norme sulla definizione delle controversie in materia di usi civici. Più recentemente, la legge 20 novembre 2017 n. 168 è intervenuta sulla materia, sancendo il riconoscimento degli assetti collettivi fondiari – denominati “domini collettivi” – e dei diritti dei cittadini di uso e di gestione dei beni di collettivo godimento, dei quali ha affidato la gestione agli enti esponenziali delle collettività titolari (ossia alle amministrazioni separate dei beni frazionali e alle associazioni o università agrarie, già individuate dall’art. 11 della l. n. 1766 del 1927) e, in mancanza, ai Comuni sia pure col ricorso ad “amministrazione separata” (art. 2, comma 4). La legge n. 1766/1927, nell’istituire l’ufficio del Commissario per la liquidazione degli usi civici, con funzioni amministrative e giurisdizionali (art. 27), ha individuato – nell’art. 1 – due diverse situazioni giuridiche: da un lato, i diritti di uso e di promiscuo godimento spettanti agli abitanti di un comune o di una frazione su terre di proprietà privata (c.d. “iura in re aliena“), destinati ad essere liquidati ai sensi degli artt. 1-7 della stessa legge e degli artt. 11-15 del RD. n. 332 del 1928; dall’altro, i diritti di uso collettivo sulle terre possedute da comuni, frazioni, università ed altre associazioni agrarie (c.d. “iura in re propria” o proprietà collettive di diritto pubblico), destinati invece ad essere valorizzati e sottoposti alla normativa di tutela dell’ambiente e del paesaggio. Inizialmente, le funzioni attribuite al Commissario erano prevalentemente amministrative, svolte sotto la supervisione del Ministero dell’Economia Nazionale (poi del Ministero dell’Agricoltura e Foreste, art. 37 L. n. 1766/1927 cit.) e dirette al riordinamento degli usi civici; in tale quadro, l’attività giurisdizionale risultava incidentale, destinata a risolvere, in contraddittorio delle parti e con forza di giudicato, le controversie che si potessero profilare. Trasferite le funzioni amministrative (anche di liquidazione) alle Regioni (art. 1 d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11 e art. 66 d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616), il Commissario è rimasto quasi esclusivamente titolare di funzioni giurisdizionali e, quindi, giudice delle controversie circa l’esistenza, la natura e la estensione dei diritti di uso civico (art. 29 L. n. 1766/1927 cit.). È stato altresì chiarito che il Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici, in sede contenziosa, ha natura di organo di giurisdizione speciale, sicché le questioni che insorgano sul riparto di attribuzioni fra detto Commissario ed il giudice ordinario attengono alla giurisdizione (v. SSUU Sentenza n. 9280 del 2020 cit. che a sua volta richiama, ex plurimis, Cass., Sez. Un. n. 6373 del 28/10/1983; Cass., Sez. Un., n. 1174 del 19/04/1968; Sez. Un., n. 2425 del 10/10/1966).
L’ambito della giurisdizione devoluta al Commissario per la liquidazione degli usi civici si ricava dall’art. 29 della L. n. 1766 del 1927, il quale stabilisce al primo comma: «I commissari procederanno, su istanza degli interessati od anche di ufficio, all’accertamento, alla valutazione ed alla liquidazione dei diritti di cui all’art. 1, allo scioglimento delle promiscuità ed alla rivendica e ripartizione delle terre»; e al secondo comma soggiunge: «I commissari decideranno tutte le controversie circa la esistenza, la natura e la estensione dei diritti suddetti, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni loro affidate». Come è dato rilevare dalla lettura dell’art. 29, il secondo comma attribuisce alla giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici le controversie relative ai diritti di cui al primo comma, il quale – a sua volta – rimanda ai diritti menzionati dall’art. 1 della I. n. 1766 del 1927: si tratta degli «usi civici» e di «qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento delle terre». In sostanza, la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici è limitata alla materia che riguarda gli “usi civici” e i “diritti di uso collettivo delle terre”, esulando ogni altra controversia dalla sua giurisdizione.
Nella giurisprudenza di questa Corte, in linea col citato dettato normativo, si è dunque da tempo affermato che la giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici ha ad oggetto tutte le controversie relative all’accertamento, alla valutazione e alla liquidazione dei diritti di uso civico, allo scioglimento delle promiscuità e alla rivendicazione e ripartizione delle terre, e quindi, in sostanza, ogni controversia circa l’esistenza, la natura e l’estensione dei diritti di uso civico e degli altri diritti di promiscuo godimento delle terre spettanti agli abitanti di un Comune o di una frazione, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni affidate ai Commissari stessi (Cass., Sez. Un., n. 7894 del 20/05/2003; analogamente, Cass., Sez. Un., n. 720 del 15/10/1999; Cass., Sez. Un., n. 33012 del 20/12/2018; Cass., Sez. Un., n. 605 del 15/01/2015). E ancora, l’accertamento della qualità di un terreno che si assume di “uso civico”, ossia l’accertamento della c.d. “qualitas soli”, rientra nella giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici soltanto quando la relativa questione sia sollevata dal preteso titolare o dal preteso utente del diritto civico e debba essere risolta con efficacia di giudicato; invece, la controversia tra privati nella quale la demanialità civica di un bene sia stata eccepita al solo scopo di negare l’esistenza del diritto soggettivo di cui la controparte sostenga di essere titolare – eccezione questa che si risolve nella contestazione di un fatto costitutivo del diritto azionato dalla controparte – deve essere decisa dal giudice ordinario, con statuizione sul punto efficace solo incidenter tantum (Cass., Sez. Un., n. 836 del 18/01/2005; Cass., Sez. Un., n. 7429 del 27/03/2009; Cass., Sez. Un., n. 7894 del 20/05/2003; Cass., Sez. Un., n. 3031 del 01/03/2002). Va, dunque, affermato che la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici presuppone una controversia che abbia ad oggetto l’accertamento di usi civici o di diritti di uso collettivo delle terre ovvero l’accertamento dell’appartenenza di un terreno al “demanio civico” (secondo la definizione di cui all’art. 3 della I. 20/11/2017, n. 168). Deve quindi ribadirsi che le questioni circa l’esistenza, la natura e l’estensione dei diritti di uso civico, nonché quelle relative alla qualità demaniale del suolo, postulano la giurisdizione dei Commissari agli usi civici, prevista dall’art. 29 della legge 16 giugno 1927 n. 1766, solo se attengano a controversie aventi ad oggetto detto accertamento fra i soggetti titolari delle rispettive posizioni soggettive e non, invece, quando debbano essere risolte in via meramente incidentale, come nelle controversie tra privati relative al rilascio di beni (cfr. Sez. U, Sentenza n. 28654 del 03/12/2008 Rv. 605653 in tema di locazione a terzi del suolo sottoposto al regime di demanialità collettiva; v. altresì Sez. U, Ordinanza n. 20183 del 2019 che richiama a sua volta Sez. U, Ordinanza n. 26816 del 19/12/2009).
In definitiva, restano escluse dalla giurisdizione commissariale le domande che postulano un già intervenuto definitivo accertamento della qualitas soli (cfr. Sez. U, Ordinanza n. 20183 del 2019 cit.).
2.2 Sulla seconda questione (relativa all’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico di dominio della collettività), queste Sezioni Unite sono di recente intervenute ponendo fine ad incertezze giurisprudenziali ed hanno affermato, in relazione ad un caso di espropriazione di beni demaniali pronunciata nel 1960 sempre dal Prefetto dell’Aquila, il seguente principio: i diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti) per effetto di un decreto di espropriazione per pubblica utilità, poiché la loro natura giuridica assimilabile a quella demaniale lo impedisce, essendo, perciò, necessario, per l’attuazione di una siffatta forma di espropriazione, un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il citato decreto espropriativo che implichi l’estinzione di eventuali usi civici di questo tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull’indennità di espropriazione (cfr. Sez. U – , Sentenza n. 12570 del 10/05/2023).
E’ bene porre subito in evidenza che nella fattispecie (sovrapponibile a quella per cui è causa) decisa con la citata pronuncia delle sezioni unite del 2023 nessuno pose in discussione la giurisdizione commissariale: difatti in quel caso la Corte di appello di Roma – Sezione Specializzata per gli usi civici, con sentenza n. 6/2017, depositata il 4 aprile 2017, si pronunciò sul merito in ordine al reclamo dell’Enel Produzione spa contro la sentenza n. 15/2015 del Commissario per il Riordino degli usi civici nella Regione Abruzzo che, a sua volta, esaminando sempre il merito della vicenda, aveva accolto la domanda del Comune di Alfedena, con la dichiarazione della natura demaniale civica dei fondi in contestazione, la nullità ed inefficacia degli atti pubblici e privati, disposti sugli stessi, ed ordinata la reintegra nel possesso dei fondi in favore della collettività del Comune.
3 Venendo al caso in esame, e sulla scorta della esposta ricostruzione normativa e giurisprudenziale, non vi è dubbio che – contrariamente a quanto si assume in ricorso – il petitum sostanziale investe proprio l’accertamento della qualitas soli: l’indagine tesa a stabilire se sia o meno consentita l’espropriabilità per pubblica utilità dei terreni pubblici gravati da usi civici con la conseguenza della eventuale estinzione della loro natura (questione, come si è visto, ormai definitivamente chiarita da queste Sezioni Unite con la citata sentenza n. 12570 del 10/05/2023) investe proprio la verifica della qualitas soli. La risposta positiva al quesito comporta infatti il venir meno della natura demaniale e l’acquisto della natura giuridica di beni allodiali, mentre a conclusioni diametralmente opposte deve giungersi qualora la risposta al quesito debba essere negativa e rimanga ferma la natura demaniale.
Si rivela pertanto giuridicamente corretta la decisione della Corte d’Appello di Roma laddove, discostandosi dalla pronuncia commissariale, ha ravvisato – nella controversia sulla espropriabilità dei beni assoggettati ad usi civici – una lite sulla qualitas soli dichiarando conseguentemente la giurisdizione commissariale.
In conclusione, il ricorso va respinto, ma il fatto che l’intervento nomofilattico chiarificatore sul tema della all’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico sia intervenuto dopo la proposizione del ricorso per cassazione giustifica senz’altro, ad avviso del Collegio, la compensazione delle spese del giudizio di legittimità tra le parti.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; dichiara la giurisdizione del Commissario per il Riordino degli Usi Civici della Regione Abruzzo; compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 30.1.2024.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 22 agosto 2023, n. 24988, per SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938, in tema di usi civici
SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938, in tema di usi civici
In tema di rappresentanza – SS.UU, 21 ottobre 2009, n. 22234
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
Contemplatio
domini
R . G . N . 12051/2004
R . G . N . 14926/2004
R . G . N . 15178/2004
Cron. 22234
Rep. 7113
Ud. 06/10/2009
PU
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VINCENZO CARBONE – Primo Presidente –
Dott. ENRICO PAPA – Presidente di Sezione –
Dott. ALFREDO MENSITIERI – Consigliere –
Dott. ANTONIO SEGRETO – Rel. Consigliere –
Dott. SALVATORE SALVAGO – Consigliere –
Dott. FABRIZIO FORTE – Consigliere –
Dott. ETTORE BUCCIANTE – Consigliere –
Dott. MAURA LA TERZA – Consigliere –
Dott. ANGELO SPIRITO – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 12051-2004 proposto da:
APUZZO LUIGI (PZZLGU41S21H501L), APUZZO MARIO ORIOLO, APUZZO ANNA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALCIDE DE GASPERI 21, presso lo studio dell’avvocato INSOM ENRICO, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati IRTI NATALINO, PAMPHILI ENRICO, per delega a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
CITYBANK N.A., BASLER VERSICHERUNGS GESELLSHAFT – SOCIETA’ BASILESE DI ASSICURAZIONI, FALLIMENTO DAF INVESTIMENTI S.R.L.;
– intimati –
sul ricorso 14926-2004 proposto da:
CITIBANK N.A. (00731790150), in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, FORO TRAIANO 1/A, presso lo studio dell’avvocato COSMELLI GIORGIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GILIBERTI ENRICO, per procura a margine del controricorso e ricorso incidentale condizionato;
– controricorrente e ricorrente incidentale condizionato –
contro
APUZZO LUIGI (PZZLGU41S21H501L), APUZZO MARIO ORIOLO, APUZZO ANNA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALCIDE DE GASPERI 21, presso lo studio dell’avvocato INSOM ENRICO, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati IRTI NATALINO, PAMPHILI ENRICO, per delega a margine del ricorso principale;
– controricorrenti al ricorso incidentale condizionato –
nonchè contro
BASLER VERSICHERUNGS GESELLSHAFT, FALLIMENTO DAF INVESTIMENTI S.R.L.;
– intimati –
sul ricorso 15178-2004 proposto da:
BASLER VERSICHERUNGS-GESELLSHAFT, in persona dei legali rappresentanti pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VENTIQUATTRO MAGGIO 43, presso lo studio dell’avvocato GIARDINA ANDREA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CAVALLONE BRUNO, per procura legale del 17/06/2004, in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale condizionato –
contro
APUZZO LUIGI (PZZLGU41S21H501L), APUZZO MARIO ORIOLO, APUZZO ANNA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALCIDE DE GASPERI 21, presso lo studio dell’avvocato INSOM ENRICO, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati IRTI NATALINO, PAMPHILI ENRICO, per delega a margine del ricorso principale;
– controricorrenti al ricorso incidentale condizionato –
nonchè contro
CITIBANK N.A., FALLIMENTO DAF INVESTIMENTI S.R.L.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 605/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 05/02/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/10/2009 dal consigliere Dott. ANTONIO SEGRETO;
uditi gli avvocati Enrico INSOM, Enrico PAMPHILI, Natalino IRTI, Andrea GIARDINA, Bruno CAVALLONE, Giovanni VERUSIO per delega dell’avvocato Giorgio Cosmelli;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. DOMENICO IANNELLI che ha concluso per l’accoglimento p.q.r., dei primi tre motivi del ricorso principale; assorbiti gli altri motivi; assorbito il ricorso incidentale condizionato dalla Citybanck; inammissibile il ricorso incidentale consizionato della Basler.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con separati atti la società Citibank con sede in New York ha convenuto presso l’autorità giudiziaria elvetica e presso il tribunale di Roma, rispettivamente, la società Basler Versicherungs Gesellschaft (o Baloise S.p.A.), la societä Basilese di Assicurazioni e Frezzotti Flores, Apuzzo Luigi, Apuzzo Mario Oriolo ed Apuzzo Anna, deducendo che, al fine di consentire alla società svizzera il controllo della Tirrena Assicurazioni, di cui deteneva una partecipazione importante, si era concordato il 27 giugno 1988 tra Flores Frezzotti e gli Apuzzo e la società Basilese, interamente posseduta da Basler, la opzione per l’acquisto di una parte delle azioni dai primi possedute, da esercitarsi per il prezzo di L. 49,3 miliardi nel marzo 1991, una volta scaduto il patto di sindacato che aveva limitato la libera circolazione dei titoli, e, per le residue azioni, il diritto dei medesimi di venderle alla Basilese o ad altra società da essa indicata, ad un prezzo inferiore a quello di opzione. Si era, inoltre, stabilito che gli Apuzzo sottoscrivessero l’aumento di capitale deliberato dalla Tirrena, attraverso un finanziamento che, esercitata la opzione, sarebbe stato rimborsato dall’acquirente in conto del prezzo di acquisto, mentre i titoli sarebbero stati dati in pegno al finanziatore con un mandato irrevocabile, perché li trasferisse all’acquirente, trattenendo l’importo e le spese del finanziamento e versando la differenza ai venditori.
Per finanziare l’operazione era stata individuata la Citibank, che in data 5 novembre 1988 aveva stipulato con gli Apuzzo i contratti di mutuo garantiti dal pegno, ricevendo il mandato irrevocabile predetto; il finanziamento era stato erogato per L. 14 miliardi circa e utilizzato per la sottoscrizione dell’aumento di capitale della Tirrena.
La Basler, con lettera indirizzata a Citibank e da questa firmata per accettazione il 16 dicembre 1988, si era impegnata ad esercitare la opzione pattuita con gli Apuzzo e a versare a Citibank il prezzo.
Alla prima scadenza del giugno 1990 il finanziamento era stato rimborsato con il denaro anticipato agli Apuzzo da Basler e rinnovato alle medesime condizioni, ma non era stato rimborsato alla successiva scadenza del giugno 1991.
In Svizzera il giudizio – nel quale gli Apuzzo erano intervenuti a sostegno delle ragioni della Citibank – si era concluso con la condanna della Basler a rimborsare a Citibank l’importo e le apese del finansiamento, che Basler aveva versato.
Nel procedimento in Italia la Citibank aveva ottenuto nei confronti degli Apuzzo un sequestro di L. 20 miliardi e li aveva citati per la convalida e il merito. In tale giudizio gli Apuzzo avevano chiamato in causa la Basilese e la Basler, che – secondo gli Apuzzo – erano gli esclusivi obbligati, in quanto il contratto di opzione era atato simulato oggettivamente e soggettivamente, perché intercorso con Basler, effettiva obbligata a rilevare i pacchetti azionari formalmente opzionati da Basilese, trasformata in Daf Investimenti s.r.l. e poi fallita. Il Tribunale di Roma , con sentenza n. 18386 del 2001 accoglieva la domanda degli Apuzzo, dichiarava l’obbligazione di Basler e del fallimento ad acquisire le azioni Tirrena pagando il relativo prezzo di trasferimento alla mandataria Citibank, cosi come convenuto, revocava il sequestro e condannava Citibank e Basler al risarcimento dei danni liquidati a carico dei predetti rispettivamente in L. 2 e 4 miliardi, in favore degli Apuzzo- Frezzotti.
Tale sentenza, appellata dal fallimento e dalle due aocietà e, in via incidentale, dagli Apuzzo per conseguire un maggiore risarcimento, è stata riformata, con decisione depositata il 5 febbraio 2004, dalla Corte d’appello di Roma, la quale ha preliminarmente disatteao la questione di giurisdizione del giudice italiano, riproposta dalla società Basler, in relazione alla clausola compromissoria per arbitrato estero. La corte di merito ha quindi dichiarato competente il Tribunale fallimentare di Monza sulle domande proposte nei confronti del fallimento, cessata la materia del contendere in ordine alla domanda di Citibank nei confronti di Frezzotti Florea (deceduta nelle more del processo e di cui unici eredi sono Luigi, Mario Oriolo e Anna Apuzzo), Apuzzo Luigi, Apuzzo Mario Oriolo e Apuzzo Anna e respinto tutte le domande proposte dagli Apuzzo nei confronti di Citibank e Basler, condannandoli a rimborsare quanto ricevuto con la pronuncia di primo grado nonché alle speae del doppio grado di giudizio.
In particolare la Corte ha respinto la tesi della simulazione del contratto di finanziamento del 7 novembre 1988, al quale gli Apuzzo si erano dichiarati estranei, per essere stata reale mutuataria Basler, che si era obbligata sin dall’inizio ad acquistare il pacchetto di azioni, utili al controllo della Tirrena, e che que1l’obb1igo aveva nel novembre confermato con lettera che era stata poi per accettazione sottoscritta il 16 dicembre 1988 da Citibank.
La sentenza impugnata ha respinto altreai le teai subordinate – sostenute dagli Apuzzo – secondo cui il contratto con la Basler era stato sottoscritto da Citibank in forza di procura speciale e irrevocabile a trasferire le azioni costituite in pegno rilasciata dagli Apuzzo il 7 novembre 1988, ovvero costituiva contratto in favore di terzo. In particolare la corte di merito ha osservato, in relazione alla prima tesi, che la dichiarazione di Basler di esercitare il riscatto ed indirizzata a Citibank era anteriore al rilascio della procura dei venditori alla banca e non era stata sottoscritta da quest’ultima quale loro procuratrice, la quale peraltro non aveva assunto alcuna obbligazione a trasferire le azioni; sicché la procura risultava essere un’autorizzazione e non un incarico che avesse vincolato il mandatario a vendere.
In relazione alla seconda tesi, prospettata in riferimento alla dichiarazione sottoscritta il 16 dicembre 1988 dalla banca, la corte di appello ha affermato che la stessa mal si concilia con la sottoscrizione dei contratti di finanziamento da parte degli Apuzzo, ritenendo il comportamento di Basler e Citibank coerente con gli interessi dichiarati dell’atto, a prescindere dalla sua destinazione a costituire diritti azionabili dai venditori, in alcun modo menzionati.
La Corte di appello ha conclusivamente escluso che Basler si fosse mai obbligata verso gli Apuzzo; che il contratto di opzione fosse oggettivamente simulato o lo fossero soggettivamente i contratti di finanziamento stipulati dagli Apuzzo con la banca per provvedere alla sottoscrizione dell’aumento di capitale Tirrena, affermando che tanto risultava confermato nelle pattuizioni intercorse tra Basler e gli Apuzzo nel settembre 1990, concernenti l’acquisto da parte di questi ultimi della partecipazione originariamente controllata dalla Basler nella Tirrena, contratto con il quale i precedenti risulterebbero incompatibili sul piano della opportunità e della convenienza economica.
Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso con sette motivi Apuzzo Luigi, Mario Oriolo e Anna. Resistono con separati controricorsi Citibank e Basler, le quali hanno anche proposto ricorsi incidentali condizionati con un solo motivo.
I ricorrenti principali resistono con controricorso ai ricorsi incidentali.
Tutte le parti hanno preaentato memorie.
La prima sezione di questa corte ha rimesso gli atti al primo presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, essendo stata proposta con il ricorso incidentale della Basler una questione di giurisdizione.
Le parti hanno presentato ulteriori memorie.
Motivi della decisione
1.1 Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.
Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti principali lamentano la Violazione e falsa applicazione degli articoli 1362, 1363 e 1388 cod. civ., nonché dei principi generali in materia di rappresentanza. Omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia (articolo 360, primo comma, numeri 3 e 5, cod. proc. civ.). Assumono i ricorrenti che effettiva titolare del diritto di opzione, oggetto del contratto intercorso tra il 24 e il 27 giugno 1988, era stata Basler – circostanza pacifica e comunque accertata dalla sentenza impugnata – controllante di Basilese, che aveva sottoscritto il contratto; che il 5 novembre 1988 Basler aveva inviato a Citibank una lettera di conferma dei precedenti accordi, di cui era atato ribadito il tenore; che in tale lettera si era inoltre stabilito che la famiglia Apuzzo avrebbe autorizzato incondizionatamente e irrevocabilmente la filiale di Roma a trasferire le azioni ad essa Basler e a trattenere la somma corrispondente ai crediti della banca verso gli Apuzzo; che il 7 novembre 1988 gli Apuzzo avevano conferito a Citibank “mandati e procure “incondizionati e irrevocabili” a “trasferire” a Baloise” [id est: Blaser] o alla società da essa designata le azioni Tirrena, oggetto del diritto di opzione; che il 16 dicembre successivo, dopo cioè tali mandati, Citibank aveva sottoscritto per accettazione tale lettera.
Premesso che Basler si era impegnata verso Citibank ad esercitare la opzione sulle azioni Tirrena, i ricorrenti hanno contestato la rilevanza attribuita dalla corte di appello alla anteriorità della dichiarazione di Basler rispetto alla procura, per negare fondatezza alla loro tesi, perché proprio tale anteriorità spiegherebbe l’esigenza di subordinare la accettazione della banca al rilascio di procure incondizionate e irrevocabili al trasferimento delle azioni, prima delle quali Citibank non era legittimata ad interloquire; motivo che aveva indotto Basler ad assumere l’obbligo di esercitare la opzione, subordinatamente alla investitura procuratoria della banca da parte degli Apuzzo; tant’è che la accettazione di quest’ultima era seguita al conferimento dei poteri rappresentativi.
In relazione poi al rilievo contenuto nella sentenza impugnata, secondo cui “la dichiarazione accettata il 16 dicembre 1988 non risulta né indirizzata a Citibank né da questa sottoscritta quale procuratrice degli Apuzzo”, i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata non ha considerato che la rappresentanza può essere dedotta, oltre che da un’espressa dichiarazione del soggetto agente, anche da ogni altro elemento da cui risulti che l’attività dell’agente si svolga in attuazione di un potere rappresentativo a lui conferito e che nella fattispecie la motivazione della sentenza al riguardo è insufficiente e sostengono che, in base al concreto svolgimento dei rapporti tra Citibank e Blaser, “non può negarsi” che Blaser fosse a conoscenza della procura conferita dagli Apuzzo a Citibank”.
1.2 Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 1388 c.c. nonché dei principi generali in materia di rappresentanza. Omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, primo comma, numeri 3 e 5, cod. proc. civ.). I ricorrenti, con riferimento alle affermazioni contenute nella sentenza impugnata secondo cui Citibank non aveva assunto alcuna obbligazione di trasferire le azioni e la procura dei venditori era contemplata come autorizzazione e non come incarico che vincolava il mandatario a vendere, hanno rilevato che l’obbligo di trasferire le azioni discendeva dal contratto di opzione stipulato il 27 giugno 1988 e che, pertanto, la banca aveva agito come procuratrice degli Apuzzo, i quali si erano già obbligati a cedere le azioni a Basler, ed essa banca, quindi, aveva stipulato un contratto in cui ad obbligarsi ad esercitare il diritto di opzione era soltanto Basler.
2. I suddetti due motivi di ricorso, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.
Essi sono fondati.
Va preliminarmente rigettata l’eccezione di inammasibilità degli stessi sollevata dalle resistenti, secondo cui la tesi del negozio rappresentativo sarebbe stata introdotta per la prima volta dagli attuali ricorrenti solo nella comparsa conclusionale in appello e che tale novità era già stata in quella sede rilevata dalla resistente Citibank.
Ritengono queste S.U. che nella fattispecie non si versa in ipotesi di novità della causa petendi, introdotta solo in appello, con conseguente inammissibilità della domanda, fondata sul mandato conferito alla banca.
Infatti nella comparsa di costituzione in primo grado degli Apuzzo si legge (p. 12) che “all’esito delle trattative con Citibank vennero sottoscritti:……….:.. c)un mandato irrevocabile della famiglia Apuzzo al sig. Riccardo De Lorenzo,direttore della Ciitibank n.a. di Roma, perchè trasferisce alla Balosie tutte le azioni, quelle vecchie e quelle di nuova emissione, dietro pagamento del prezzo pattuito aumentato del valore nominale delle nuove azioni, oltre agli oneri finanziari maturati sul finanziamento erogato;tale mandato prevedeva che Citibank trattenesse il prezzo delle nuove azioni e gli oneri finanziari e trasferisse il prezzo delle azioni alla famiglia Apuzzo: tale era l’unica forma di rimborso prevista”.
Alla Citibank, quale banca mandataria degli Apuzzo per il trasferimento delle azioni si fa espresso riferimento anche nelle note in primo grado del 31.1.199 (p. 5/6), nonché nella comparsa conclusionale di primo grado.
3. La Corte di appello ha escluso la fondatezza della domanda secondo cui il contratto con la Basler (effettiva titolare del diritto di opzione) sarebbe intervenuto con la mandataria degli Apuzzo, e cioè la Citibank, in forza di procura speciale ed irrevocabile a trasferire le azioni costituite in garanzia, da essi rilasciata il 11.1988.
Il rigetto della domanda si fonda su due considerazioni.
La prima ê che la dichiarazione della Basler aha Citibank di voler acquistare le azioni fu anteriore al rilascio della procura Apuzzo – Citibank. La seconda è che la dichiarazione, accettata il 16 dicembre 1988, non risulta da Citibank sottoscritta quale procuratrice degli Apuzzo, né la Citibank si assumeva alcuna obbligazione di trasferire le azioni. Inoltre la procura dei venditori Apuzzo contemplava un’autorizzazione a vendere e non un incarico a vendere, vincolante per il mandatario.
4. Le censure a tale motivazione sono fondate.
In punto di fatto va osservato che la sentenza impugnata ha accertato, ed il punto non è più in discussione, che il diritto di opzione all’acquisto delle azioni della Compagnia Tirrena Assicurazioni, per quanto apparentemente in capo alla s.p.a. la Basilese (detta anche Baloise), in realtà, per effetto di simulazione relativa soggettiva, si apparteneva alla controllante Basler; che detto accordo prevedeva il conferimento di un mandato irrevocabile in favore di una banca, che avrebbe finanziato gli alienanti per un’operazione di aumento di capitale, per trasferire alle opzionanti le azioni da cedere in pegno, trattenendo essa banca la somma di cui sarebbe stata creditrice; che con lettera senza data (secondo gli Apuzzo del 5.11.1988) la Basler dichiari alla Citibank di voler esercitare l’opzione con gli Apuzzo, che avrebbero autorizzato la banca alla vendita; che la Citibank accettò tale richiesta con lettera del 16.12.1988.
Nel contempo la sentenza impugnata dà atto che i giudici svizzeri, nel giudizio instaurato da Citibank contro la Basler, ed in cui erano intervenuti gli Apuzzo per sostenere la posizione di Citibank, avevano statuito che la Basler nel novembre del 1988 si era impegnata nei confronti di Citibank ad esercitare l’opzione sulle azioni Tirrena degli Apuzzo e condannava la Basler al pagamento di quanto dovuta ad essa banca.
5.1 Va, anzitutto, osservato, quanto alla contemplatio domini, che l’esternazione del potere rappresentativo può avvenire anche senza l’espressa dichiarazione di spendita del nome del rappresentato, purchè vi sia un comportamento del mandatario che, per univocità e concludenza, sia idoneo a portare a conoscenza dell’altro contraente la circostanza che egli agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti dell’attività sono destinati a prodursi direttamente. L’accertamento circa la sussistenza o meno della spendita del nome del rappresentato è compito devoluto al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove corretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e da errori di diritto (Cass. 6.2005, n. 13978; Cass. 14/11/1996, n. 9980; Cass. 3.12.2001, n. 15235; Cass. 29.8.1997, n. 8249).
5.2 Ne consegue che erra in diritto la sentenza impugnata che ritiene inesistente il potere rappresentativo per il solo fatto che la Citibank non abbia sottoscritto l’accettazione della lettera del 12.1988 nella qualità di mandataria degli Apuzzo.
Il giudice di merito avrebbe dovuto valutare se effettivamente gli Apuzzo avessero conferito poteri rappresentativi per la vendita delle azioni alla Citibank; se questa avesse quanto meno implicitamente speso tale potere rappresentativo compiendo atti e tenendo un comportamento, che per univocità e concludenza, presupponeva tale potere e portava a conoscenza dell’altra parte (appunto la Balser) che tale potere rappresentativo vi fosse.
Nella fattispecie il giudice di merito ai è limitato a rilevare che nella lettera della Basler alla Citibank e da questa accettata il 16.12.1988 manca una coutemp2atio domini in favore degli Apuzzo. Sennonchè la corte di merito non ha considerato se il comportamento del mandatario e l’intero contesto in cui il tutto avveniva erano idonei a portare a conoscenza della Basler che la Citibank agiva nella qualità di mandataria degli Apuzzo.
In particolare la sentenza impugnata non ha considerato l’atto del novembre 1988, indirizzato dalla Basler a Citibank e da questa accettato il 16.12.1998, valutandolo complesaivamente ed in tutte le sue clausole (tra cui quella al punto 3 a),che prevedeva che Citibank avrebbe ottenuto dagli Apuzzo procura incondizionata ed irrevocabile a vendere a Basler le azioni); non ha valutato se dal complesso delle clausole emergeva che, in tanto la Citibank poteva accettare ed entrare nel regolamento contrattuale propostole, in quanto avease avuto poteri rappresentativi dagli Apuzzo; non ha valutato se il regolamento negoziale (con i presupposti indicati), proposto a Citibank, era così strutturato che l’accettazione dello stesso comportava necessariamente la contemplatio domini dei rappresentati Apuzzo, venditori delle loro azioni, segnatamente nei confronti del soggetto (la Basler) che tali clausole aveva predisposto e aottoposto a Citibank per l’accettazione.
5.3 Va, poi, osservato che non ha il carattere decisivo che la corte di merito le assegna il fatto che la lettera del novembre 1988 sia stata indirizzata alla Citibank, ma non quale procuratrice degli Apuzzo. CiÒ si spiega aulla base dello stesso tenore dell’atto che appunto fa presente che la procura irrevocabile a vendere non è stata ancora concessa, ma che lo sarà.
5.4 Non puó essere condivisa l’osservazione della sentenza impugnata secondo cui nella fattispecie la procura dei venditori era contemplata (nell’atto accettato da Citibank) come autorizzazione e non come incarico vincolante il mandatario a vendere .
Va, anzitutto, rilevato che nella fattispecie ciò che viene in esame non è il rapporto contrattuale che legava gli Apuzzo alla Citibank (ipotizzato dai primi come mandato), ma solo se la Citibank fosse dotata di poteri rappresentativi degli Apuzzo nei confronti della Basler, e ciò a prescindere se vi fosse poi un obbligo o meno di Citibank di esercitare tale potere rappresentativo (poiché quest’ultima queatione costituisce oggetto dei rapporti interni tra banca ed Apuzzo).
Una volta ritenuta l’esistenza della procura dei venditori Apuzzo rilasciata a Citibank, tale procura rileva nei confronti dei terzi (nella specie Basler) solo e sempre come autorizzazione e non come obbligo a contrarre (come invece all’interno del rapporto di mandato). Il conferimento del potere di rappresentanza, sia nella forma esplicita della procura (art. 1392) sia come facoltizzazione implicita in altro negozio, consiste sempre in una dichiarazione unilaterale ricettizia, o indirizzata alla controparte, o, comunque, destinata ad esserle resa nota (art. 1393), con cui si autorizza un atto altrui di disposizione, assumendo in anticipo su di sé le conseguenze che ne deriveranno. La portata giuridica di siffatta autorizzazione è che con essa l’autorizzante si appropria e si immette preventivamente nella propria sfera l’assetto, che sarà dato ai propri interessi dal rappresentante nei confronti della controparte.
6. Con il terzo motivo i ricorrenti principali lamentano la Violazione e falsa applicazione degli artt. 1321 al 1372 cod. civ., nonché dei principi generali in materia di contratti. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, primo comma, numeri 3 e 5, cod. proc. civ.).
I ricorrenti assumono l’erroneità della sentenza impugnata, laddove ha tratto conferma alle proprie conclusioni dalle pattuizioni intercorse nel settembre 1990 tra Basler e Apuzzo, per l’acquisto da parte di queati ultimi della partecipazione originariamente controllata da Basler su Tirrena, pattuizioni che, secondo la corte di merito, rendevano evidente che i contraenti ritenessero superata la validità delle intese raggiunte nel 1988. E infatti proprio la riconosciuta non corrispondenza, né oggettiva né soggettiva, tra il contratto successivo e gli accordi oggetto della presente causa escluderebbero – ad avviso dei ricorrenti – che fossero state superate le intese raggiunte in precedenza.
7.1 Il motivo è inammissibile.
Va osservato che il giudice di appello non ha statuito, contrariamente a quanto sembrano ritenere i ricorrenti, sul punto se le pattuizioni intercorse fra Basler ed Apuzzo nel settembre 1990, concernenti l’acquisto da parte degli Apuzzo della partecipazione azionaria originaria della Basler nella Tirrena, avessero giuridicamente sciolto gli accordi oggetto di questa causa, tenuto conto della non corrispondenza soggettiva ed oggettiva degli accordi, ma ne ha valutata l’incompatibilità “sul piano della opportunità e della convenienza economica”, per cui ”i contraenti ritenevano allora superata la validità delle intese raggiunte nel 1988”.
Sennonchè il giudice di appello ha cura di premettere che queste sue osservazioni (peraltro fondate su rilievi di opportunità e convenienza economica) mirano solo a confermare la giustezza della decisione già da lui presa sulle pattuizioni oggetto del giudizio presente.
Trattasi, quindi, di argomentazione ad abundantiam resa dal giudice di merito e non di autonoma ratio decidendi.
7.2 Deve, pertanto, ribadirsi il principio – assolutamente pacifico nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censuri una argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam e, pertanto, non coatituente una ratio decidendi della medesima.
Un’affermazione, infatti, contenuta nella motivazione della sentenza di appello, che non abbia spiegato alcuna influenza sul dispositivo della stessa, essendo improduttiva di effetti giuridici, non può essere oggetto di ricorso per cassazione, per difetto di interesse (Cass. 14.11.2006, n. 24209, specie in motivazione, nonchè, cfr., altresi, Cass. S.U. 20.2.2007, n. 3840; Cass. 05/06/2007, n.1306; Cass. 23/11/2005, n.24591).
8. L’accoglimento dei primi due motivi comporta l’assorbimento dei restanti motivi.
8.1 Solo a seguito de11’accoglimento dei primi due motivi del ricorso principale può passarsi ad esaminare i ricorsi incidentali condizionati di Citibank N.A. e di Basler Versicherungs Gesellshaft, e ciò nonostante che quest’ultimo censuri la sentenza impugnata ai sensi dell’art. 360 n. 1 c.p.c., per difetto di giurisdizione del giudice italiano, per effetto di clausola compromissoria per arbitrato estero, ai sensi dell’art. 2 della Convenzione di New York del 10 giugno 1958.
Infatti, come hanno definitivamente affermato queste S.U (6.3.2009, n. 5456) a compimento di un lungo percorso di rivisitazione della giurisdizione nell’attuale ordinamento, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che inventa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d’ufficio, non siano state oggetto di decisione eaplicita o implicita (ove quest’ultima sia possibile) da parte del giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte di cassazione, solo in presenza dell’attualità dell’interesse, sussistente unicamente nell’ipotesi della fondatezza del ricorso principale.
Questo principio va qui ribadito, anche se va specificato che, essendosi eccepita l’esistenza di compromesso in favore di arbitrato estero, in astratto non si pone una questione di giurisdizione ma una preliminare di merito, attinente alla proponibilità della domanda (giurisprudenza costante, pur nel dissenso della prevalente dottrina: Cass. S.U. 05/01/2007, n. 35; Cae G . S . U . rt . 4 1 2/ 07 ) .
Sennonchè nella fattispecie non può passarsi all’esame dell’unico motivo del ricorso incidentale della Basler, per inammiasibilità del ricorso stesso, per mancata esposizione dei fatti di causa, a norma del combinato disposto degli 371, c. 3, e 366, c. 1° n. 3, c.p.c..
Infatti il controricorso, avendo la sola funzione di resistere all’impugnazione altrui non richiede a pena di inammissibilità l’esposizione sommaria dei fatti di causa, ben potendo richiamarsi ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero nel ricorso principale (Case. 21.2.1996,n. 1341; Cass. 9.9.1997,n. 8746)
Ove tuttavia detto controricorso contenga anche un ricorso incidentale, per l’ammissibilità di quest’ultimo, data la sua autonomia rispetto al ricorso principale, deve sussistere l’esposizione sommaria dei fatti di causa ed è pertanto inammissibile il ricorso incidentale (e non il controricorso) tutte le volte in cui si limiti ad un mero rinvio all’esposizione del fatto contenuta nel ricorso principale, potendo il requisito di cui all’art. 366 c. 1, n. 3 c.p.c, ritenersi sussistente, solo quando dal contesto de1l’atto di impugnazione si rinvengono gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalle parti, senza neceasità di ricorso ad altre fonti (Cass. S.U. 13.2.1998,n. 1513). Ai fini de11’inammissibi1ità alla mancata eapoaizione dei fatti di causa va equiparata l’insufficienza della stessa (Cass. 20/06/2008, n.16809; Cass. 03/02/2004, n.1959; Cass. 23/05/2003, n.8154; Cass. 23.7.1994, n. 2796).
Nella fattispecie neppure dal contenuto del controricorso emergono tutti questi elementi suddetti relativi allo svolgimento dei fatti di causa.
10.Quanto al ricorso incidentale della Citibank, lo stesso va dichiarato assorbito.
Infatti tale motivo di ricorso è stato dalla ricorrente incidentale condizionato all’accoglimento del quinto motivo del ricorso principale, con cui i ricorrenti principali lamentano, in via subordinata al mancato accoglimento dei due primi motivi di ricorso, la violazione di alcune norme regolatrici del mandato. Poiché tale motivo del ricorso principale è stato dichiarato assorbito, essendo stati accolti i primi due motivi, a cui era subordinato, va dichiarato assorbito anche il ricorso incidentale della Citibank, condizionato all’accoglimento del predetto quinto motivo del ricorso principale.
11. In definitiva vanno accolti i primi due motivi del ricorso principale, va dichiarato inammissibile il terzo ed assorbiti i restanti, nonché il motivo del ricorso incidentale della Citibank. Va dichiarato inammissibile il ricorso incidentale della Basler. Va cassata, in relazione ai motivi accolti, la sentenza impugnata, con rinvio anche per le apese del giudizio di cassazione ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che si uniformerà al seguente principio di diritto: “In tema di rappresentanza, l’esternazione del potere rappresentativo può avvenire anche senza l’espressa dichiarazione di spendita del nome del rappresentato, purchè vi sia un comportamento del rappresentante ovvero un contesto in cui queati opera che, per univocità e concludenza, sia idoneo a portare a conoscenza dell’altro contraente la circostanza che egli agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti dell’attività sono destinati a prodursi direttamente. L’accertamento circa la sussistenza o meno della spendita del nome del rappresentato è compito devoluto al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e da errori di diritto”.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi . Accoglie i primi due motivi del ricorso principale, dichiara inammissibile il terzo ed assorbiti i restanti, nonché il motivo del ricorso incidentale della Citibank N.A.. Dichiara inammissibile il ricorso incidentale della Basler Versicherungs Gesellshaft. Cassa, in relazione ai motivi accolti, la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
Cosi deciso in Roma, lì 6 ottobre 2009.
Il cons. est. Il Presidente
Allegati:
SS.UU, 21 ottobre 2009, n. 22234, in tema di rappresentanza
In tema di servitù di parcheggio – SS.UU, 13 febbraio 2024, n. 3925
Civile Sent. Sez. U Num. 3925 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: ORILIA LORENZO
Data pubblicazione: 13/02/2024
SENTENZA
sul ricorso n. 26011-2018 proposto da:
FAVARO VITTORIO, rappresentato e difeso dagli avvocati ANDREA FEDERICO del Foro di Napoli e GIOVANNI FABRIS del Foro di Venezia;
– ricorrente –
contro
ARREDO 3 srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti FRANCESCA BUSETTO del Foro di Venezia e GABRIELE PAFUNDI del Foro di Roma;
– controricorrente –
nonchè
PAONE ROBERTO, rappresentato e difeso dagli avv.ti STEFANO GIOVE del Foro di Roma e MARCO FERRARO del Foro di Roma;
– controricorrente –
nonchè
ZUGNO EMANUELA E SPAGNOLO UGO
– intimati –
avverso la sentenza n. 1606/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata in data 11.6.2018.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21 novembre 2023 dal Consigliere LORENZO ORILIA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. ALESSANDRO PEPE, che, riportandosi alle conclusioni scritte precedentemente rassegnate, ha chiesto l’accoglimento del primo e terzo motivo di ricorso con assorbimento degli altri;
uditi i difensori delle parti.
FATTI DI CAUSA
1 La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza n. 1606/2018 resa pubblica in data 6.2018, ha rigettato il gravame proposto da Vittorio Favaro contro la pronuncia del locale Tribunale (n. 1348/2016) che, a sua volta, aveva respinto la domanda “di nullità della servitù di parcheggio temporaneo, transito e manovra di automezzi in genere”, costituita con atto per notaio Roberto Paone del 15.2.2011 (Rep. n. 84465) dai venditori Emanuela Zugno e Ugo Spagnolo a carico dei loro mappali 10 e 1803 del fol. 18 del Comune di Scorzè ed in favore dei mappali 436, 843 e 1803 alienati alla Arredo 3 srl col medesimo atto.
La conferma del rigetto della domanda di nullità del contratto costitutivo di servitù (che il Favaro aveva proposto contro la Arredo 3, dopo avere acquistato il fondo servente dai predetti Zugno-Spagnolo con successivo atto per notaio Rampazzo del 18.7.2011 Rep. n. 1568) è stata motivata dalla Corte territoriale attraverso i seguenti passaggi:
– l’appellante Favaro aveva acquistato il suo immobile dai Zugno- Spagnolo ben sapendo dell’esistenza della servitù di parcheggio, debitamente riportata nell’atto di trasferimento;
– la servitù non può qualificarsi irregolare perché dalla chiara lettera dell’atto costitutivo si ricava la predialità;
– l’eccezione di nullità della servitù deve ritenersi infondata in quanto resta comunque una utilità residua per il fondo servente;
– l’attore Favaro non ha dato adeguata prova della carenza di utilità della servitù, utilità che invece è data proprio dalla possibilità di fornire piazzali adeguati alla azienda Arredo 3; essa, quindi, consiste nel più comodo sfruttamento del fondo dominante a vocazione industriale, e può concretizzarsi anche in maggiore amenità e comodità;
– non rileva la destinazione agricola del fondo servente;
– non è esatto affermare che sul fondo servente non è possibile esercitare nessuna attività, potendosi sfruttare il sottosuolo e potendosi comunque compiere le attività non incompatibili con il parcheggio;
– non difetta neppure il requisito della “localizzazione” della servitù, essendo individuate le particelle catastali interessate dalla servitù (tutta la superficie dei mappali 10 e 1803 del 18);
– sussistono anche gli altri requisiti tipici della servitù (specificità, determinatezza e inseparabilità rispetto ai fondi dominante e servente).
2 Avverso tale sentenza, il Favaro ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi, contrastati con separati controricorsi dalla Arredo 3 srl e dal notaio Paone (che davanti al Tribunale era stato chiamato in garanzia dalla convenuta Arredo 3).
I venditori Zugno-Spagnolo (anch’essi chiamati in garanzia dalla società convenuta nel giudizio di merito) sono rimasti intimati in questa sede.
Con istanza del 23.3.2023 proposta ai sensi dell’art. 374 comma 2 cpc, il difensore del ricorrente ha chiesto al Primo Presidente di disporre l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di risolvere il contrasto di giurisprudenza in merito alla possibilità di costituire e riconoscere servitù prediali di parcheggio: ha rilevato che mentre alcune pronunce avrebbero negato la configurabilità di una servitù di parcheggio/posteggio per assenza del requisito della realità (proprio del diritto di servitù), altre pronunce avrebbero invece ammesso al possibilità di costituire una simile servitù prediale.
Il Primo Presidente, con provvedimento depositato il 30.3.2023, ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
L’Ufficio della Procura Generale ha depositato conclusioni scritte con cui ha richiesto che vengano accolti il primo e terzo motivo di ricorso, con assorbimento dei restanti.
In prossimità dell’udienza pubblica del 21 novembre 2023 le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1 La definizione del denunciato contrasto non può prescindere dalla ricognizione dell’evoluzione giurisprudenziale e della posizione dottrinaria sulla specifica
Un orientamento di questa Corte consolidatosi dal 2004 ha ritenuto che il parcheggio di autovetture su di un’area può costituire legittima manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del suolo, ma non anche estrinsecazione di un potere di fatto riconducibile al contenuto di un diritto di servitù, diritto caratterizzato dalla cosiddetta “realitas“, intesa come inerenza al fondo dominante dell’utilità così come al fondo servente del peso, mentre la mera “commoditas” di parcheggiare l’auto per specifiche persone che accedano al fondo (anche numericamente limitate) non può in alcun modo integrare gli estremi della utilità inerente al fondo stesso, risolvendosi, viceversa, in un vantaggio affatto personale dei proprietari (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 8137 del 28/04/2004 Rv. 572413).
Il principio è ripreso anche da Sez. 2, Sentenza n. 20409 del 2009 con l’ulteriore specificazione che in tema di possesso, l’utilizzazione, da parte dei condomini di uno stabile, di un’area condominiale ai fini di parcheggio, non è tutelabile con l’azione di reintegrazione del possesso di servitù, nei confronti di colui che – come nel caso di specie – l’abbia recintata nella asserita qualità di proprietario. Per l’esperimento dell’azione di reintegrazione occorre infatti un possesso qualsiasi anche se illegittimo ed abusivo, purché avente i caratteri esteriori di un diritto reale, laddove il parcheggio dell’auto non rientra nello schema di alcun diritto di servitù, difettando la caratteristica tipica di detto diritto, ovverosia la “realità” (inerenza al fondo dominante dell’utilità così come al fondo servente del peso), in quanto la comodità di parcheggiare l’auto per specifiche persone che accedono al fondo non può valutarsi come una utilità inerente al fondo stesso, trattandosi di un vantaggio del tutto personale dei proprietari” (Cass. n. 1551 del 2009).
Sotto altro profilo, si è affermato che “il nostro sistema giuridico non prevede la facoltà, per i privati, di costituire servitù meramente personali (cosiddette “servitù irregolari”), intese come limitazioni del diritto di proprietà gravanti su di un fondo a vantaggio non del fondo finitimo, bensì del singolo proprietario di quest’ultimo, sì che siffatta convenzione negoziale, del tutto inidonea alla costituzione del diritto reale limitato di servitù, va inquadrata nell’ambito del diritto d’uso, ovvero nello schema del contratto di locazione o dei contratti affini, quali l’affitto o il comodato. In entrambi i casi, il diritto trasferito, attesane la natura personale ed il carattere obbligatorio, non può ritenersi ipso facto trasmissibile, in assenza di una ulteriore, apposita convenzione stipulata dall’avente diritto con il nuovo proprietario del bene “asservito”. (Nella specie, il giudice di merito aveva qualificato come costitutiva di una duplice servitù, di passaggio e di parcheggio, una convenzione tra privati con la quale il venditore di un appartamento aveva altresì concesso all’acquirente, in sede di stipula dell’atto pubblico di alienazione, il diritto d’uso di uno scantinato al fine di parcheggiarvi un’autovettura – nonché il diritto di passaggio sull’area che ne consentita l’accesso -, diritto non riconosciuto, in seguito, dagli eredi dello stesso venditore. (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 20409 del 2009 cit.).
In linea con tale impostazione si pone Sez. 2, Sentenza n. 15334 del 2012. Nello stesso senso, v. Sez. 2, Sentenza n. 5769 del 07/03/2013 Rv. 625685 che, affrontando anche le conseguenze in tema di usucapione, sottolinea l’impossibilità di acquisto per usucapione della servitù di parcheggio sia per l’eventuale assenza delle opere richieste dall’art. 1061 cod. civ., sia per la natura meramente personale dell’utilità.
Con la sentenza n. 23708 del 06/11/2014 la Corte, ribadendo la tesi del difetto di “realitas” (intesa come inerenza dell’utilità al fondo dominante e come peso al fondo servente) e richiamando altresì il concetto di “commoditas” di parcheggiare come un vantaggio per determinate persone, ha ricavato un ulteriore principio, quello della nullità del contratto costitutivo di servitù di parcheggio per impossibilità dell’oggetto, come tale, deducibile per la prima volta anche in sede di legittimità ai sensi dell’art. 1421 cod. civ.
2 La posizione della dottrina è invece prevalentemente favorevole alla costituzione della servitù di Si è osservato, innanzitutto, che la questione in discussione presenta, da un punto di vista materiale o fenomenico, affinità tra due attività umane, come, rispettivamente, il transitare o il parcheggiare un’autovettura all’interno di un fondo di proprietà altrui. Come per il passaggio, così per il parcheggio, i proprietari di fondi confinanti, in base al principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 cc, possono dar luogo sia ad un rapporto di natura reale (attraverso l’imposizione di un peso sul fondo servente per l’utilità del fondo dominante e quindi in una relazione di asservimento del primo al secondo, che si configura come qualitas fundi), sia alla pattuizione di un obbligo e di un corrispettivo diritto di parcheggiare previsto a vantaggio e per la comodità della persona o delle persone specificamente indicate nell’atto costitutivo, senza alcuna funzione di utilità fondiaria).
In dottrina, si è altresì osservato che nell’ipotesi di costituzione di servitù di parcheggio, la facoltà di parcheggiare l’auto sul fondo servente è certamente idonea ad arrecare una utilità al singolo, ma allo stesso tempo arreca un vantaggio per il fondo dominante rendendolo maggiormente utilizzabile. A tal fine occorre che il diritto costituito presenti:
– il requisito dell’immediatezza (nel senso che il titolare del fondo dominante debba potersi avvalere dell’utilitas derivante dalla servitù senza la collaborazione di altri soggetti);
– il requisito dell’inerenza al fondo servente (quale peso di detto fondo e al fondo dominante (nel senso che deve dare utilità);
– il requisito della vicinanza (per essere veramente utile l’area parcheggio non deve essere lontana dal fondo dominante).
La servitù deve inoltre soddisfare un’utilità specifica e quindi deve costituire un vantaggio diretto per il fondo dominante, uno strumento per migliorare l’utilizzazione di quest’ultimo. L’esempio classico è quello del fondo a destinazione abitativa che vede accrescere la sua utilità dal diritto di parcheggiare sul fondo vicino.
Si evidenzia inoltre, da parte di alcuni autori, l’elemento sistematico tratto dalla evoluzione della legislazione sui vincoli di parcheggio.
L’orientamento dottrinale esalta in definitiva il principio della autonomia negoziale, riconoscendo alle parti la possibilità, qualora sussistano tutti i requisiti sopra evidenziati, di costituire servitù di parcheggio in luogo di meri rapporti obbligatori.
3 A partire dal 2017, la giurisprudenza di legittimità registra invece un’inversione di tendenza perché, discostandosi dal filone che seguiva la tesi restrittiva, ammette, a certe condizioni, la possibilità di costituzione della servitù di
Con la sentenza 6 luglio 2017, n. 16698 si è affermato, infatti, che lo schema previsto dall’art. 1027 c.c. non preclude in assoluto la costituzione di servitù avente ad oggetto il parcheggio di un’autovettura su fondo altrui, a condizione però che, in base all’esame del titolo e ad una verifica in concreto della situazione di fatto, tale facoltà risulti essere stata attribuita come vantaggio in favore di altro fondo per la sua migliore utilizzazione.
Questo Collegio ritiene utile riportare il percorso motivazionale seguito dalla citata pronuncia, che si snoda attraverso le seguenti proposizioni.
La cosiddetta utilitas per il fondo dominante (cui deve corrispondere il peso per il fondo servente) può avere in effetti contenuto assai vario, come dimostra la previsione del legislatore, che indica la maggiore comodità o amenità del fondo dominante, o l’inerenza alla destinazione industriale del fondo (art. 1028 cod. civ.).
Si deve pertanto ritenere che la tipicità delle servitù volontarie sia di carattere strutturale, non contenutistico, ed è sul piano della conformazione che si deve verificare la possibilità di costituire la servitù di parcheggio.
Oltre al requisito dell’appartenenza dei fondi servente e dominante a soggetti diversi, il diritto di servitù esige che l’asservimento sia volto a procurare una utilità che deve essere inerente al fondo cosiddetto dominante, così come il peso deve essere inerente al fondo cosiddetto servente.
La servitù prediale – che nel nostro ordinamento può costituirsi anche con l’apposizione di un termine finale (servitù temporanea) – si distingue dall’obbligazione meramente personale, essendo requisito essenziale della servitù l’imposizione di un peso su di un fondo (servente) per l’utilità ovvero per la maggiore comodità o amenità di un altro (dominante) in una relazione di asservimento del primo al secondo che si configura come una qualitas inseparabile di entrambi, mentre si versa nell’ipotesi del semplice obbligo personale quando il diritto attribuito sia stato previsto esclusivamente per un vantaggio della persona o delle persone indicate nel relativo atto costitutivo e senza alcuna funzione di utilità fondiaria (Cass. 29/08/1991, n. 9232).
La realitas, che distingue il ius in re aliena dal diritto personale di godimento, implica dunque l’esistenza di un legame strumentale ed oggettivo, diretto ed immediato, tra il peso imposto al fondo servente ed il godimento del fondo dominante, nella sua concreta destinazione e conformazione, al fine di incrementarne l’utilizzazione, sì che l’incremento di utilizzazione deve poter essere conseguito da chiunque sia proprietario del fondo dominante e non essere legato ad una attività personale del soggetto. In questa prospettiva, il carattere della realità non può essere escluso per il parcheggio dell’auto sul fondo altrui quando tale facoltà sia costruita come vantaggio a favore del fondo, per la sua migliore utilizzazione: è il caso del fondo a destinazione abitativa, il cui utilizzo è innegabilmente incrementato dalla possibilità, per chi sia proprietario, di parcheggiare l’auto nelle vicinanze dell’abitazione.
Quanto detto non è peraltro ancora sufficiente a individuare la servitù di parcheggio distinguendola dal diritto personale di godimento, poiché occorre guardare anche al fondo servente, il cui utilizzo non può mai risultare del tutto inibito.
Posto, infatti, che la servitù consiste nella conformazione del diritto di proprietà in modo divergente dallo statuto legale, essa non è compatibile con lo svuotamento delle facoltà del proprietario del fondo servente, al quale deve residuare la possibilità di utilizzare il fondo, pur con le restrizioni e limitazioni che discendono dal vantaggio concesso al fondo dominante.
Detto in altre parole, l’asservimento del fondo servente deve essere tale da non esaurire ogni risorsa ovvero ogni utilità che il fondo servente può dare e il proprietario deve poter continuare a fare ogni e qualsiasi uso del fondo che non confligga con l’utílitas concessa. Diversamente si è fuori dallo schema tipico della servitù.
La questione si pone quindi non già in termini di configurabilità in astratto della servitù di parcheggio, ma di previsione, in concreto, di un vantaggio a favore di un fondo cui corrisponda una limitazione a carico di un altro fondo, come rimodulazione dello statuto proprietario, a carattere tendenzialmente perpetuo. È evidente, allora, che la verifica se ci si trovi in presenza di servitù di parcheggio o di diritto personale impone l’esame del titolo e della situazione in concreto sottoposta al giudizio, al fine di stabilire se sussistano i requisiti del ius in re aliena, e specificamente: l’altruità della cosa, l’assolutezza, l’immediatezza (non necessità dell’altrui collaborazione, ai sensi dell’art. 1064 cod. civ.), l’inerenza al fondo servente (diritto opponibile a tutti coloro che vantino diritti sul fondo servente potenzialmente in conflitto con la servitù), l’inerenza al fondo dominante (l’utilizzo del parcheggio deve essere, nel contempo, godimento della proprietà del fondo dominante, secondo la sua destinazione), la specificità dell’utilità riservata, la localizzazione intesa quale individuazione del luogo di esercizio della servitù.
Nel solco di tale pronuncia del 2017 si pone la sentenza Sez. 2, n. 7561 del 18/03/2019 che ha ribadito il rilievo della assenza, nell’art. 1027 cc, di una tipizzazione in modo tassativo delle utilità suscettibili di concretizzare il contenuto delle servitù volontarie, limitandosi la norma a stabilire le condizioni che valgono a distinguere queste ultime dai rapporti di natura strettamente personale. Concorda dunque sulla conclusione secondo cui costituisce mera questio facti lo stabilire, in base all’esame del titolo, se le parti abbiano inteso costituire una servitù o un diritto meramente obbligatorio, non sussistendo alcun ostacolo di carattere concettuale ad ammettere che il diritto parcheggio sia strutturato secondo lo schema dell’art. 1027 c.c.
Il principio trovasi richiamato in Sez. 2, Sentenza n. 12798 del 2019, in Sez. 2, Ordinanza n. 24121 del 2020, in Sez. 2, Sentenza n. 193 del 2020, in Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 1486 del 2023; stesso principio viene richiamato in Sez. 2, ordinanza n. 7620 del 2023 in tema di tutela possessoria ove si afferma che lo spoglio può avere ad oggetto anche il possesso corrispondente ad una signoria di fatto sul bene corrispondente ad una servitù di parcheggio e, dunque, può realizzarsi con modalità tali da precludere al possessore la possibilità di transito attraverso un passaggio a ciò destinato indipendentemente dalla sussistenza o meno della titolarità del corrispondente diritto reale.
Come si vede, la giurisprudenza successiva al 2017, si è ormai stabilizzata, in linea con la posizione dottrinaria, sulla tesi favorevole e, a ben vedere, l’ordinanza Sez. 2 n. 40824 del 20/12/2021 – citata da taluni come pronuncia in disaccordo – non si pone in dissonanza con tale impostazione, contrariamente a quanto potrebbe ritenersi. Infatti, il passaggio dell’ordinanza (peraltro inserito nell’esame del sesto e settimo motivo di ricorso sul mancato riconoscimento, in subordine, di una servitù coattiva di passaggio) si riferisce ad una vicenda diversa e si è limitato a riportare l’orientamento frequentemente assunto dalla giurisprudenza di legittimità senza però prendere netta posizione sul tema che, come si è visto, non formava l’oggetto diretto del ricorso.
4 Così delineato lo stato dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sul tema della servitù di parcheggio, queste sezioni unite ritengono di aderire alla tesi favorevole alla configurabilità, a determinate condizioni, di una convenzione istitutiva di una siffatta servitù, unica questione posta dal caso di specie, in linea con l’orientamento inaugurato dalla sentenza 16698/2017, per le ragioni che di seguito si andranno ad esporre.
4.1 Innanzitutto, si concorda con l’impostazione che vede un’indubbia affinità tra il transitare o il parcheggiare un’autovettura all’interno di un fondo di proprietà altrui, perché in entrambi i casi i proprietari di fondi confinanti, in base al principio dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 cc, possono dar luogo sia ad un rapporto di natura reale (attraverso l’imposizione di un peso sul fondo servente per l’utilità del fondo dominante e quindi in una relazione di asservimento del primo al secondo, che si configura come qualitas fundi), sia alla pattuizione di un obbligo e di un corrispettivo diritto previsto a vantaggio e per la comodità della persona o delle persone specificamente indicate nell’atto costitutivo, senza alcuna funzione di utilità fondiaria).
4.2 Vi è poi, come ben evidenziato dalla dottrina, un argomento di ordine sistematico di indubbia rilevanza, rappresentato dalla legislazione sui vincoli di parcheggio: a partire dalla n. 765 del 1967, il legislatore ha mostrato di favorire la destinazione di spazi privati a parcheggio, al fine di decongestionare gli spazi pubblici. In termini generali, quando il legislatore, con l’art. 18 della legge. n. 765 del 1967, ha introdotto l’art. 41 sexies della legge urbanistica prevedendo che nelle nuove costruzioni debbano essere riservati spazi a parcheggio in misura non inferiore ad un metro quadro per ogni dieci metri di costruzione, ha condizionato l’edificabilità del fondo alla disponibilità del parcheggio. Sicché, sul piano sistematico, diventa difficile negare che l’utilità del parcheggio è strettamente inerente (anche) al fondo.
Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato che in tali casi si configura un diritto reale d’uso in favore dei condomini (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 1214 del 27/01/2012 Rv. 621122; Sez. 2, Sentenza n. 21003 del 01/08/2008 Rv. 605247; principio, più di recente, richiamato anche in Sez. 2 – , Sentenza n. 2265 del 28/01/2019 Rv. 652351).
Ed allora, una volta ammessa pacificamente l’esistenza di un diritto reale di uso sulle aree da destinare a parcheggio, coerentemente non si può negare l’ammissibilità della costituzione di una servitù di parcheggio per difetto dell’inerenza al fondo, perché ciò comporterebbe una contraddizione in termini: il parcheggio non sarebbe utile al fondo nonostante ne condizioni addirittura l’edificabilità.
4.3 L’orientamento restrittivo, come pure evidenziato da parte della dottrina, ha sempre affrontato la tematica dando per assodato che nella servitù di parcheggio l’utilità inerisca alle persone e non ai fondi, senza però affrontare specificamente il tema dell’estensione dei concetti di utilità e inerenza e senza particolari analisi del rapporto tra utilità per le persone e utilità per i fondi che non sono alternative, ma ben possono
4.4 Un argomento ulteriore a favore del possibile inquadramento del rapporto tra parcheggio e bene immobile all’interno della categoria delle servitù prediali lo si trae anche dalla sentenza n. 167/1999 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 1052, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede che il passaggio coattivo di cui al primo comma possa essere concesso dall’autorità giudiziaria quando questa riconosca che la domanda risponde alle esigenze di accessibilità – di cui alla legislazione relativa ai portatori di handicap – degli edifici destinati ad uso abitativo.
Dalla lettura di questa pronuncia emerge un passaggio, seppure relativo alla legislazione in tema di eliminazione delle barriere architettoniche, che costituisce, ad avviso del Collegio, un ulteriore contributo all’espansione della nozione di utilità. Si legge infatti che il legislatore ha “configurato la possibilità di agevole accesso agli immobili, anche da parte di persone con ridotta capacità motoria, come requisito oggettivo quanto essenziale degli edifici privati di nuova costruzione, a prescindere dalla loro concreta appartenenza a soggetti portatori di handicap. Mentre dottrina e giurisprudenza hanno, per altro verso, chiarito come la predialità non sia certo incompatibile con una nozione di utilitas che abbia riguardo – specie per gli edifici di civile abitazione – alle condizioni di vita dell’uomo in un determinato contesto storico e sociale, purché detta utilitas sia inerente al bene così da potersi trasmettere ad ogni successivo proprietario del fondo dominante” (cfr. C.Cost. n. 167/199 cit. in motivazione sub. 8).
4.5 La tesi favorevole alla costituzione della servitù, oltre ad essere in linea con il sistema, esalta in definitiva il fondamentale principio dell’autonomia negoziale (art. 1322 cc) che, si badi bene, non sfocia in una libertà illimitata, dovendosi sempre confrontare con il limite della meritevolezza di tutela degli elementi dell’accordo.
Del resto, come già rilevato anche da queste Sezioni Unite (cfr. Sentenza n. 8434 del 2020 in una vicenda condominiale sulla concessione di un lastrico solare in godimento ad un terzo per l’installazione di impianti tecnologici), non vi è ragione per negare alle parti la possibilità di scegliere, nell’esercizio dell’autonomia privata riconosciuta dall’articolo 1322 c.c., se perseguire risultati socio-economici analoghi, anche se non identici, mediante contratti ad effetti reali o mediante contratti ad effetti obbligatori; come si verifica, ad esempio, in relazione all’attribuzione del diritto di raccogliere i frutti dal fondo altrui (che può essere conseguita attraverso un contratto costitutivo del diritto di usufrutto o attraverso un contratto attributivo di un diritto personale di godimento, lato sensu riconducibile al modello del contratto di affitto) o in relazione all’attribuzione del diritto di attraversare il fondo altrui (che può essere conseguita attraverso un contratto costitutivo di una servitù di passaggio o attraverso un contratto attributivo di un diritto personale di passaggio, cfr. Cass. 2651/2010, Cass. 3091/2014).
Il principio di tipicità legale necessaria dei diritti reali si traduce nella regola secondo cui i privati non possono creare figure di diritti reali al di fuori di quelle prevista dalla legge e – secondo il recente orientamento espresso dalle sezioni unite con la sentenza n. 28972 del 17/12/2020 con la quale è stato affermato che proprio per effetto della operatività del principio appena richiamato è da ritenere preclusa la pattuizione avente ad oggetto l’attribuzione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” di una porzione condominiale – tale caratterizzazione è supportata anche dagli argomenti secondo i quali: l’art.1322 cc colloca nel comparto contrattuale il principio dell’autonomia; l’ordinamento mostra di guardare sotto ogni aspetto con sfavore a limitazioni particolarmente incisive del diritto di proprietà; l’art. 2643 c.c. contiene un’elencazione tassativa dei diritti reali soggetti a trascrizione.
Tornando al tema specifico della servitù di parcheggio e riprendendo il passaggio motivazionale di Cass. sentenza 6 luglio 2017, n. 16698 cit., la tesi favorevole alla costituzione della servitù di parcheggio valorizza il concetto di tipicità strutturale, ma non contenutistico della servitù.
Sulla base di tali considerazioni, dunque, l’autonomia contrattuale è libera di prevedere una utilitas – destinata a vantaggio non già di una o più persone, ma di un fondo – che si traduca nel diritto di parcheggio di autovetture secondo lo schema appunto della servitù prediale e quindi nell’osservanza di tutti i requisiti del ius in re aliena, quali l’altruità della cosa, l’assolutezza, l’immediatezza (non necessità dell’altrui collaborazione, ai sensi dell’art. 1064 cod. civ.), l’inerenza al fondo servente (diritto opponibile a tutti coloro che vantino diritti sul fondo servente potenzialmente in conflitto con la servitù), l’inerenza al fondo dominante (l’utilizzo del parcheggio deve essere, nel contempo, godimento della proprietà del fondo dominante, secondo la sua destinazione), la specificità dell’utilità riservata, la localizzazione intesa quale individuazione del luogo di esercizio della servitù affinché non si incorra nella indeterminatezza dell’oggetto e nello svuotamento di fatto del diritto di proprietà.
Sotto quest’ultimo profilo, come già affermato da questa Corte (v. Sez. U. n. 28972 /2020 cit.), la servitù può sì essere modellata in funzione delle più svariate utilizzazioni, pur riguardate dall’angolo visuale dell’obbiettivo rapporto di servizio tra i fondi e non dell’utilità del proprietario del fondo dominante, ma non può mai tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, il che determinerebbe lo svuotamento della proprietà di esso, ancora una volta, nel suo nucleo fondamentale; insomma, la costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, ma tale restrizione, se pur commisurata al contenuto ed al tipo della servitù, non può, tuttavia, risolversi nella totale elisione delle facoltà di godimento del fondo servente.
Ciò posto, non vi è dubbio che lo stabilire se un contratto debba qualificarsi come contratto ad effetti reali o come contratto ad effetti obbligatori attiene all’ermeneusi negoziale, la cui soluzione compete al giudice di merito (cfr. tra le tante, SSUU Sentenza n. 8434 del 2020 cit.).
5 Nel dirimere il contrasto di giurisprudenza, va quindi riaffermato il seguente principio di diritto:
“In tema di servitù, lo schema previsto dall’art. 1027 c.c. non preclude la costituzione, mediante convenzione, di servitù avente ad oggetto il parcheggio di un veicolo sul fondo altrui purché, in base all’esame del titolo e ad una verifica in concreto della situazione di fatto, tale facoltà risulti essere stata attribuita come vantaggio in favore di altro fondo per la sua migliore utilizzazione e sempre che sussistano i requisiti del diritto reale e in particolare la localizzazione”;
7 Alla luce del suddetto principio di diritto devono essere ora esaminati i motivi del ricorso per cassazione proposti dal Favaro.
7.1 Con il primo motivo si denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1027 e 1028 cc, per avere la Corte d’Appello ritenuto che la servitù di parcheggio, astrattamente qualificata come prediale, sia valida pur non fornendo “alcuna utilità concreta al fondo dominante, quanto invece una utilità personale, rectius aziendale, che è di per sé estranea al fondo dominante”. Evidenzia l’assenza, nel caso in esame, del carattere della realitas (intesa come inerenza al fondo dominante della utilità e al fondo servente del peso), così come ritenuto dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, che definisce il parcheggio come manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del suolo e non anche come estrinsecazione di un potere di fatto riconducibile al contenuto del diritto di servitù.
Evidenzia il mutamento di giurisprudenza registratosi con la sentenza della seconda sezione civile n. 16698/2017, trascrivendone il percorso motivazionale e sottoponendola a valutazione critica perché ritiene che in tale arresto “manchi in toto la dimostrazione sul piano teorico generale in ordine all’elemento che la facoltà di parcheggiare su un fondo altrui integri una servitù prediale in quanto volta, non ad una mera commoditas personale e soggettiva per il titolare del presunto fondo dominate, ma a fornire una utilitas soggettiva e concreta inerente allo stesso fondo dominante”.
Osserva il ricorrente che – anche a voler seguire tale orientamento – la fattispecie si colloca fuori dello schema della servitù perché manca qualsiasi legame oggettivo, diretto e immediato tra il peso imposto al fondo servente e il godimento del fondo dominante, nella sua concreta destinazione e conformazione. A suo dire, la servitù di cui si discute finisce per svuotare di ogni utilità il fondo servente, essendo prevista la sosta in ogni parte del fondo e in ogni momento, con impossibilità di utilizzo per il proprietario; inoltre, la mancanza di localizzazione determina l’indeterminatezza della servitù.
Sostiene il ricorrente– anche a voler seguire il filone giurisprudenziale che ammette la configurabilità della servitù di parcheggio – che la Corte di Appello ha omesso ogni indagine sul titolo al fine di verificare l’esistenza in concreto degli elementi decisivi richiesti dalla giurisprudenza.
7.2 Con il secondo motivo il Favaro denunzia, in via subordinata, l’ulteriore violazione degli artt. 1027 e 1028 cc, avendo la Corte di Venezia ritenuto che la servitù di parcheggio costituisca una servitù “industriale” senza avere accertato un collegamento tra fondo e industria, in modo che il fondo “abbia per sua destinazione specifica quella di servire ad una determinata industria”. Il ricorrente critica la Corte d’Appello laddove afferma che l’utilitas di natura prediale viene desunta dal “bisogno di piazzali per sosta temporanea e manovra di automezzi nonché per il passaggio dei medesimi” dimenticando che l’utilitas del fondo dominante deve consistere in un vantaggio reale diretto sul fondo dominante senza che possano essere utilizzati elementi soggettivi ed intrinseci relativi alla attività personale del proprietario del fondo Rileva che la semplice intenzione delle parti di dare vita ad un vantaggio per il proprietario del presunto fondo dominante non è sufficiente ad attribuire a tale vantaggio la natura di servitù. Richiama quindi il concetto di servitù industriale elaborato dalla giurisprudenza differenziando tale figura dalla cd. servitù aziendale e precisando che l’utilitas va considerata e riconosciuta nel concreto in rapporto col fondo più che con le esigenze dell’impresa ivi installata.
7.3 Con il terzo motivo si denunzia, sempre in via subordinata, la violazione degli 1027, 1028, 1063, 1065 e 1067 cc, per avere la Corte d’Appello ritenuto che la dedotta servitù di parcheggio estesa per l’intero fondo servente consenta un utilizzo dello stesso da parte del suo proprietario quando, al contrario, “il riferimento alla costituzione di una servitù di parcheggio, transito e manovra gravante per l’intera superficie del dedotto fondo servente, non può che far richiamo ad una compressione totale delle facoltà dominicali in concreto esercitabili dal proprietario del fondo servente”.
Richiama in proposito le argomentazioni alla base della giurisprudenza che nega la configurabilità della servitù di parcheggio (assorbimento totale del godimento del presunto fondo servente) e critica le affermazioni della Corte veneta sulla possibilità di sfruttamento del sottosuolo, evidenziandone le molteplici criticità perché in definitiva il proprietario del fondo dominante finirebbe per diventare anche proprietario del fondo servente, potendo parcheggiare in qualunque punto di esso ogni tipo di veicolo senza limiti di dimensioni. Un tale svuotamento di fatto del diritto di proprietà confligge – secondo il ricorrente – anche con il limite inderogabile dell’ordine pubblico da osservare nell’autonomia contrattuale.
7.4 Con il quarto motivo il Favaro denunzia, sempre in via subordinata, la violazione degli 111 Cost. e 2697 cc dolendosi del mancato rispetto dei principi che disciplinano il riparto dell’onere della prova, avendo la Corte d’Appello attribuito al ricorrente (attore in primo grado) un onere che invece l’ordinamento attribuisce alle parti convenute. Spettava, infatti, alla parte che si dichiara titolare della servitù di dimostrare l’esistenza dell’utilità (fatto costitutivo) benché risulti convenuta in giudizio dalla parte che agisce per far accertare la nullità della servitù. Osserva al riguardo il ricorrente che né la società Arredo 3 né il notaio hanno mai provato l’utilità reale della servitù di parcheggio, transito e manovra (rapportata al fondo e non all’azienda), utilità da lui sempre contestata.
7.5 Con il quinto ed ultimo motivo si denunzia, infine, in via ulteriormente subordinata, la violazione o falsa applicazione di norme di diritto contenute nelle N.T.A. “Zone Agricole” del Comune di Scorzè, che vietano “qualsivoglia destinazione a parcheggio di aree che non siano destinate al servizio di attività agricola”, per essersi la Corte d’Appello limitata a rilevare che “la destinazione agricola del fondo servente non rivesta alcuna importanza”.
8. Il primo e il terzo motivo di ricorso – che si prestano ad esame unitario per la stretta connessione al tema della verifica dei requisiti della servitù di parcheggio – sono fondati.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi: la prima -consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti – è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c.; la seconda attiene alla qualificazione che procede secondo il modello della sussunzione, cioè del confronto tra la fattispecie contrattuale concreta ed il tipo astrattamente definito sul piano normativo. Tale seconda fase implica l’applicazione di norme giuridiche e non è, quindi, sottratta al controllo di legittimità per violazione di legge (Cass. n. Cass. 7561/19 cit; Cass. 13399/2005; Cass. 21064/2004).
Insomma, come sottolineato anche dal Procuratore Generale nelle sue ultime conclusioni, se il giudice procede alla interpretazione del titolo ed afferma, sulla scorta di tale interpretazione, che con esso si è costituita una servitù di parcheggio di natura reale, si è indubbiamente in presenza di una quaestio facti, di una valutazione di merito incensurabile in sede di legittimità. Viceversa, se manca questa valutazione del titolo, non si è in presenza di una valutazione di merito incensurabile, bensì di un accertamento viziato per l’omissione di un passaggio logico-giuridico decisivo, ovvero l’esame del titolo negoziale: ricorre, cioè, un difetto di sussunzione della fattispecie nella norma dell’art. 1027 cc, giacché tale sussunzione presuppone l’esame del titolo.
Posta dunque, come si è visto, la configurabilità a determinate condizioni della servitù di parcheggio, nel caso di specie la Corte d’Appello, per poter giustificare la risposta positiva al quesito, avrebbe dovuto analizzare specificamente il contenuto della pattuizione secondo la volontà delle parti contraenti. Avrebbe dovuto verificare in concreto la sussistenza dei requisiti dello ius in re aliena: l’altruità della cosa, l’assolutezza del diritto, l’immediatezza, l’inerenza al fondo servente (diritto opponibile a tutti coloro che vantino diritti sul fondo servente potenzialmente in conflitto con la servitù), l’inerenza al fondo dominante (l’utilizzo del parcheggio deve essere uno dei modi attraverso cui si estrinseca il vantaggio del fondo dominante), la specificità dell’utilità riservata (la servitù di parcheggio non potrà riguardare genericamente l’area assegnata, ma dovrà concretizzarsi nella sua specificità in quanto il proprietario del fondo dominante avrà diritto ad utilizzare l’area assegnata sul fondo servente al solo scopo di parcheggiare la propria autovettura), la localizzazione intesa quale individuazione esatta del luogo di esercizio della servitù.
Invece, è mancata l’analisi della sussistenza in concreto di tutti i requisiti della servitù perché è mancato, a monte, l’esame completo della specifica clausola contenuta nel titolo negoziale (l’atto per notaio Paone del 15.2.2011): ad essa e al suo specifico contenuto non si fa nessun riferimento nella sentenza, che desume sbrigativamente la natura prediale della servitù “dalla chiara lettera dell’atto costitutivo” (v. pag. 7 sentenza), senza però mai scendere nel dettaglio della pattuizione, limitandosi a soffermarsi sulla destinazione industriale del fondo dominante e sulla necessità di procurare piazzali adeguati all’azienda di Arredo 3, con salvezza della possibilità di sfruttamento del sottosuolo da parte del proprietario del fondo servente (pagg. 8 e 9).
Alla omessa verifica della realitas nel senso sopra inteso, si aggiunge il mancato approfondimento (v. pag. 10) della localizzazione nel senso sopra inteso, non essendo concepibile una servitù di parcheggio che si estenda, a mera discrezione del titolare del fondo dominante, in qualsiasi momento e indistintamente su qualsiasi punto del fondo servente (“su tutta la superficie dei mappali 10 e 1803, foglio 18”), che finirebbe in tal modo per essere svuotato di ogni possibilità di sfruttamento, finanche mediante accesso al sottosuolo (aspetto, questo, rimarcato sia nel primo che nel terzo motivo di ricorso).
Non essendosi la Corte territoriale attenuta ai principi di diritto sopra enunciati, si rende necessario un nuovo esame.
9. In conclusione, devono essere accolti il primo e terzo motivo di ricorso, con conseguente assorbimento dei restanti e la sentenza impugnata va dunque
Al giudice del rinvio – che si individua nella Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione – è demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e terzo motivo di ricorso; dichiara assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione.
Roma, 21.11.2023
Il Consigliere estensore Il Presidente
Lorenzo Orilia Pasquale D’Ascola
Allegati:
SS.UU, 13 febbraio 2024, n. 3925, in tema di servitù di parcheggio
In tema di accessione e comunione – SS.UU, 16 febbraio 2018, n. 3873
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
COMUNIONE E
CONDOMINIO
Ud. 07/11/2017
PU
R.G.N. 2276/2013
Rep.
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
RENATO RORDORF – Primo Presidente f.f. –
CARLO PICCININNI – Presidente di Sezione –
GIOVANNI AMOROSO – Presidente di Sezione –
GIUSEPPE BRONZINI – Consigliere –
PIETRO CAMPANILE – Consigliere –
DOMENICO CHINDEMI – Consigliere –
LUIGI GIOVANNI LOMBARDO – Rel. Consigliere –
ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA – Consigliere –
ANTONIETTA SCRIMA – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 2276-2013 proposto da:
PIZZOLOTTO FABIO, elettivamente domiciliato in Roma, Viale Mazzini 11, presso lo studio dell’avvocato Paolo Stella Richter, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Zeno Forlati;
– ricorrente –
contro
CA’ D’ORO 3 S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Tevere 44, presso lo studio dell’avvocato Francesco Di Giovanni, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Adolfo Di Majo e Guido Piccione;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1781/2012 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 09/08/2012.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/11/2017 dal Consigliere Luigi Giovanni Lombardo;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Federico Sorrentino, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso, p.q.r.;
Uditi gli avvocati Zeno Forlati, Paolo Stella Richter, Guido Piccione, Adolfo Di Majo e Francesco Di Giovanni.
FATTI DI CAUSA
1. – Pizzolotto Fabio convenne, dinanzi al Tribunale di Belluno (Sezione distaccata di Pieve di Cadore), la società Cà D’Oro 3 s.r.l.
Premettendo di essere comproprietario pro indiviso, con la società convenuta, di un terreno sito in Cortina d’Ampezzo, adiacente al fabbricato condominiale delle parti, chiese lo scioglimento della comunione delle unità immobiliari edificate dalla società Cà D’Oro sul suolo comune (costituite da un corpo edilizio interrato composto da due piani sovrapposti e da altra costruzione a livello seminterrato adibita ad autorimessa e cantina), con conseguente attribuzione delle quote di spettanza di ciascuno e con determinazione degli eventuali conguagli.
La società convenuta, costituendosi e resistendo alle domande attoree, chiese dichiararsi non luogo a provvedere sulla divisione
dei locali seminterrati comuni destinati ad autorimessa, cantina ed accessori, stante l’intervenuto accordo fra le parti in ordine all’attribuzione dei beni; chiese, invece, l’attribuzione in proprietà esclusiva del corpo edilizio interrato, sul presupposto che lo stesso fosse di sua proprietà esclusiva; in subordine, nell’ipotesi di accoglimento anche parziale della domanda attorea, chiese la condanna del Pizzolotto a corrispondere ad essa convenuta un indennizzo per l’indebito arricchimento.
L’adito Tribunale, con sentenza dell’8 aprile 2011, dichiarò che la società Cà D’Oro 3 s.r.l. era esclusiva proprietaria del corpo di fabbrica interrato edificato nel terreno comune; dichiarò che il Pizzolotto e la Cà D’Oro erano proprietari esclusivi dei locali al piano seminterrato meglio descritti nella relazione del C.T.U., salva la comunione sull’area di manovra.
2. – Sul gravame proposto dal Pizzolotto, la Corte di Appello di Venezia ha confermato la pronuncia di primo grado.
Nel rilevare la carenza dei presupposti per poter ritenere “cosa comune” il corpo di fabbrica interrato edificato dalla società
convenuta (che costituisce l’immobile cui attiene la questione di diritto sottoposta a questa Corte), i giudici di appello hanno osservato che tale corpo di fabbrica: (a) risulta essenzialmente incorporato alla proprietà esclusiva della convenuta società Cà D’Oro (che vi accede per mezzo di una scala interna dall’unità abitativa di sua proprietà, situata al piano terra dell’edificio condominiale) ed è stato realizzato su progetto e con lavori eseguiti dallo stesso attore Pizzolotto (socio e legale rappresentante dell’omonima impresa edile), ma pagati esclusivamente dalla Cà D’Oro sul presupposto che esso sarebbe stato di proprietà esclusiva di quest’ultima e non di proprietà comune; (b) non è incorporato nè è funzionalmente legato alla proprietà del P.; (c) è privo di caratteristiche (quali un muro maestro o un tetto) tali da indurre a ritenerlo essenziale all’esistenza dei beni comuni; (d) infine, è stato progettato e realizzato in funzione esclusiva delle preesistenti unità immobiliari di proprietà della società Cà D’Oro.
Rilevando che, nella specie, vi sarebbe stato un valido accordo assunto ed osservato dalle parti, provato documentalmente, la Corte di Appello di Venezia, nell’escludere la comproprietà di quanto realizzato nel sottosuolo, ha richiamato il principio di diritto secondo cui alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari sul suolo comune non si applica la disciplina sull’accessione contenuta nell’art. 934 cod. civ., ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la nuova costruzione diviene di proprietà comune ai condomini non costruttori solo se essa sia stata realizzata in conformità a detta disciplina, ossia nel rispetto delle norme che disciplinano l’uso della cosa comune; altrimenti essa, quando sia stata abusivamente realizzata, non diviene comune neppure per accessione.
3. – Per la cassazione della sentenza di appello ha proposto ricorso P.F. sulla base di dodici motivi.
Ha resistito con controricorso la società Cà D’Oro.
4. – All’esito dell’udienza pubblica del 21 marzo 2017, la Seconda sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 9316 dell’11 aprile 2017, ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando un contrasto diacronico nella giurisprudenza di legittimità sulla questione di diritto, sottostante al secondo motivo di ricorso, vertente sulla proprietà della costruzione realizzata da uno dei comproprietari sul suolo comune.
In particolare, l’ordinanza interlocutoria ha sottolineato come, sulla questione, esistano due contrapposti orientamenti nella giurisprudenza della Corte:
– un primo orientamento, più tralatizio, secondo cui, per il principio dell’accessione (art. 934 cod. civ.), la costruzione su suolo comune è anch’essa comune, mano a mano che si innalza, salvo contrario accordo scritto ad substantiam (art. 1350 cod. civ.); pertanto, per l’attribuzione in proprietà esclusiva, ai contitolari dell’area comune, dei singoli piani che compongono la costruzione, sono inidonei sia il corrispondente possesso esclusivo del piano, sia il relativo accordo verbale, sia il proporzionale diverso contributo alle spese (Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 1, 12/05/1973, n. 1297; Cass., Sez. 2, 11/07/1978, n. 3479; Cass., Sez. 2, 10/11/1980, n. 6034);
– un secondo e più recente orientamento – fatto proprio dai giudici di merito – secondo cui, invece, la disciplina sull’accessione, contenuta nell’art. 934 cod. civ., si riferisce solo alle costruzioni su terreno altrui, mentre alle costruzioni eseguite da uno dei comproprietari su terreno comune non si applica tale disciplina, ma quella in materia di comunione, con la conseguenza che la comproprietà della nuova opera sorge a favore dei condomini non costruttori solo se essa sia realizzata in conformità a detta disciplina, ossia con il rispetto delle norme che dettano i limiti che ciascun comproprietario deve osservare nell’uso della cosa comune, mentre le opere abusivamente realizzate non possono considerarsi beni condominiali per accessione, ma vanno considerate appartenenti al comproprietario costruttore e rientranti nella sua esclusiva sfera giuridica (Cass., Sez. 2, 22/03/2001, n. 4120; Cass., Sez. 2, 27/03/2007, n. 7523).
La Seconda Sezione ha evidenziato la necessità di rimeditare il più recente orientamento, per la perplessità che desta la conclusione secondo cui l’edificazione sull’area comune da parte di uno solo dei comunisti, in violazione degli artt. 1102 e segg. cod. civ., determini l’assegnazione della proprietà esclusiva dell’opera e del suolo in favore del comproprietario costruttore, effetto giuridico – questo difficilmente inquadrabile in uno dei modi di acquisto stabiliti dall’art. 922 cod. civ.; e prospetta l’esigenza di tracciare una linea interpretativa in grado di coniugare la disciplina dell’accessione e quella della comunione, facendo convivere l’espansione oggettiva della comproprietà in caso di inaedificatio ad opera di uno dei comunisti (salvo che non sia stato costituito, nei modi e nelle forme di legge, altro diritto reale a favore del comproprietario costruttore) con la facoltà del comproprietario non costruttore di pretendere la demolizione della costruzione ove quest’ultima sia stata realizzata dall’altro comunista in violazione dei limiti posti dall’art. 1102 cod. civ. al godimento della cosa comune.
5. – Il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ., comma 2, che sulla questione la Corte pronunci a Sezioni Unite.
6. – Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Col primo motivo di ricorso, si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 4), la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte di Appello erroneamente escluso che la sentenza di primo grado, nel dichiarare che la società convenuta aveva acquistato a titolo originario la proprietà esclusiva del corpo di fabbrica interrato, fosse incorsa in nullità per extrapetizione. Secondo il ricorrente, la società Cà D’Oro non avrebbe proposto alcuna domanda di accertamento dell’acquisto a titolo originario del corpo di fabbrica per cui è causa, avendo invece posto a fondamento della sua domanda di assegnazione del fabbricato in proprietà esclusiva la circostanza dell’assunzione per intero delle spese di costruzione con l’asserito consenso del . Tale fatto, secondo il ricorrente, non potrebbe qualificarsi come “costitutivo” di un acquisto a titolo originario, ma (a tutto concedere) di un acquisto a titolo derivativo.
Unitamente a tale mezzo va esaminato, per la sua stretta connessione, il quinto motivo di ricorso, col quale si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 4) la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale ritenuto che la domanda riconvenzionale della società Cà D’Oro, relativa all’accertamento della proprietà esclusiva del fabbricato, fosse autodeterminata e per avere altresì ritenuto che la Cà D’Oro avesse fatto valere un titolo di acquisto della proprietà a titolo originario, piuttosto che un titolo di acquisto a titolo derivativo.
Le censure non sono fondate.
Va premesso, che, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, alla quale il Collegio ritiene di dare continuità, il diritto di proprietà e gli altri diritti reali di godimento sono individuati solo in base al loro contenuto (ossia con riferimento al bene che ne costituisce l’oggetto), cosicchè la causa petendi della domanda con la quale è chiesto l’accertamento di tali diritti si identifica con il diritto stesso (c.d. “diritti autodeterminati”) e non, come nel caso dei diritti di credito, con il titolo che ne costituisce la fonte (contratto, successione, usucapione etc.); titolo la cui deduzione, nel caso di diritti “autodeterminati”, è necessaria ai fini della prova del diritto, ma non ha alcuna funzione di specificazione della domanda (Cass., Sez. 2, 16/05/2007, n. 11293; Cass., Sez. 2, 08/01/2015, n. 40). Pertanto, non ricorre alcuna violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ove il giudice accolga la domanda, accertando la sussistenza di un diritto c.d. “autodeterminato”, sulla scorta di un titolo diverso da quello invocato dalla parte (Cass., Sez. 2, 21/11/2006, n. 24702; Cass., Sez. 2, 24/11/2010, n. 23851; Cass., Sez. 2, 20/11/2007, n. 24141).
Alla stregua del richiamato principio di diritto, va esclusa la configurabilità del dedotto vizio di extrapetizione, non rilevando il titolo posto dalla società convenuta a fondamento della pretesa declaratoria della proprietà esclusiva.
Va peraltro osservato che – nella specie – la società convenuta non ha posto a fondamento del proprio asserito diritto di proprietà esclusiva scritture traslative della proprietà del suolo o costitutive di un diritto di superficie sul suolo comune o di una proprietà superficiaria dell’immobile (sul punto, cfr. Cass., Sez. 2, 09/10/2017, n. 23547), ma ha dedotto – come fatti costitutivi del suo preteso diritto – mere situazioni fattuali, quali l’avvenuta assunzione dei costi di costruzione da parte della società Cà D’Oro con il consenso del Pizzolotto, nonchè la progettazione e costruzione delle opere <<come aventi destinazione originaria, esclusiva, pertinenziale alle unità immobiliari di proprietà esclusiva Cà D’Oro>>.
In questo quadro, a prescindere dalla ricordata irrilevanza del titolo in un giudizio avente ad oggetto l’accertamento di un diritto c.d. “autodeterminato”, risulta esente da vizi logici e giuridici la sentenza impugnata laddove essa ha escluso che la società convenuta avesse chiesto l’accertamento dell’avvenuto acquisto della proprietà esclusiva della costruzione per cui è causa “a titolo derivativo”.
2. – Col secondo motivo, si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3) la violazione e la falsa applicazione degli artt. 934, 840, 1102 e 1121 cod. civ., per avere la Corte di Appello ritenuto che l’assunzione dei costi delle opere da parte della società Cà D’Oro avesse determinato in suo favore l’acquisto della proprietà dell’area ove insiste la costruzione, sottraendola all’altro comproprietario. Tale conclusione, a dire del ricorrente, darebbe luogo ad una sorta di espropriazione senza indennizzo nei confronti del comproprietario non costruttore e sarebbe, perciò, in patente contrasto con l’art. 42 Cost..
Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe potuto escludere, nella specie, l’applicabilità del principio dell’accessione, tanto più che i comproprietari del suolo non avevano concluso alcuna pattuizione che legittimasse l’appropriazione dell’area comune da parte della Cà D’Oro, pattuizione che, trattandosi di beni immobili, avrebbe dovuto comunque rivestire la forma scritta ad substantiam. Dovrebbe dunque essere riconosciuto che le unità immobiliari realizzate nel sottosuolo sono di proprietà comune dei comproprietari del suolo in rapporto alle rispettive quote, salva la ripartizione tra di essi delle spese sostenute per la costruzione; in subordine, dovrebbe essere sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 934 cod. civ., come interpretato dalla giurisprudenza, per violazione dell’art. 42 Cost..
Unitamente a tale motivo, va esaminato, in ragione della stretta connessione, il quarto mezzo di ricorso, col quale si deduce (ex art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5) la violazione dell’art. 1350 cod. civ., nonchè il difetto di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte territoriale dato rilievo ad asseriti accordi intervenuti tra le parti circa la proprietà delle unità immobiliari da costruire, omettendo di considerare che tali pretesi accordi – ove mai sussistenti sarebbero comunque nulli per mancanza della necessaria forma scritta, richiesta dalla legge ad substantiam in materia di costituzione, modificazione o trasferimento di diritti reali immobiliari. Si deduce ancora che i giudici di merito avrebbero omesso, nella motivazione della sentenza, di individuare l’atto scritto col quale le parti avrebbero legittimato il trasferimento della proprietà del suolo comune in favore della Cà D’Oro 3 ovvero – eventualmente – costituito su di esso un diritto di superficie.
2.1. – Preliminarmente, va esaminata l’eccezione formulata dalla controricorrente società, con la quale si è dedotto che il Pizzolotto avrebbe chiesto solo in appello l’accertamento dell’avvenuto acquisto per accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., della proprietà della costruzione per cui è causa.
L’eccezione va rigettata, dovendo ritenersi che la richiesta di accertamento dell’avvenuto acquisto per accessione, da parte del Pizzolotto, della proprietà della costruzione de qua era implicita nella proposta domanda di scioglimento della comunione, costituendo il presupposto logico-giuridico di essa.
2.2. – Ciò posto, prima di passare allo scrutinio dei motivi in esame, il Collegio ritiene di doversi brevemente soffermare sui caratteri essenziali dell’istituto dell’accessione.
Com’è noto, l’accessione costituisce espressione del carattere “assoluto” del diritto di proprietà (che l’art. 832 cod. civ. definisce il <<diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo>>), della pretesa del suo titolare – valevole erga omnes – di non essere disturbato nel suo godimento da qualsiasi terzo; dal che l’idea che il dominium su una determinata res non consente un concorrente dominio altrui su una cosa che sia divenuta parte della stessa res, sì da perdere la propria autonomia.
L’istituto dell’accessione, quale modo di acquisto della proprietà “a titolo originario”, affonda le sue radici nel diritto romano, che però non pervenne all’elaborazione di un concetto unitario di esso in grado di ricomprenderne le varie fattispecie (inaedificatio, satio, implantatio, adluvio, avulsio, etc.); si deve, invece, all’opera dei giuristi medievali (soprattutto dei glossatori) l’elaborazione dell’accessione come figura giuridica unitaria (nella quale furono inquadrate le varie fattispecie di tradizione romanistica), che – come tale – fu recepita nel codice napoleonico, per essere poi trasfusa nel primo codice civile dell’Italia unita.
Non è un caso se il codice civile del 1865, ancora ispirato al mito illuministico della completezza ed esaustività della legge, forniva una definizione unitaria dell’accessione. L’art. 443 di tale codice disponeva, infatti, che <<La proprietà di una cosa, sia mobile che immobile, attribuisce diritto su quanto essa produce, o vi si unisce naturalmente o coll’arte: questo diritto si chiama diritto d’accessione>>.
Il codificatore del 1942, a fronte delle critiche della dottrina, non ha inteso dare una definizione legislativa dell’accessione; esso, piuttosto, ha dettato una disciplina più agile dell’istituto, espungendo dalle norme sull’accessione la materia dei frutti (disciplinata nel titolo I, dedicato ai “beni”, del libro della proprietà) e adottando dell’accessione una nozione più ristretta (come si evince dalla intitolazione della sezione II del capo III del titolo II dello stesso libro) – limitata alle piantagioni, costruzioni o altre opere fatte sopra il suolo (c.d. “accessione di mobile ad immobile” o “accessione verticale”) – che lascia fuori, quali figure autonome, tanto quelle tradizionalmente ricondotte alla “accessione di mobile a mobile” (unione e commistione, specificazione) quanto quelle ricondotte alla “accessione di immobile ad immobile” o “accessione orizzontale” (le varie figure dei c.d. incrementi fluviali).
Nonostante la frammentazione delle varie fattispecie tradizionalmente ricondotte all’accessione, la dottrina rinviene il carattere ad esse comune nel fatto che l’acquisto della proprietà è legato al solo fatto materiale ed obiettivo dell’incorporazione (c.d. “attrazione reale”), da intendersi come “unione stabile” di una cosa con un’altra, non rilevando se essa sia avvenuta per evento naturale o per opera dell’uomo. La proprietà si acquista ipso iure al momento dell’incorporazione; quest’ultima è un fatto
giuridico in senso stretto, ossia un fatto che determina l’effetto giuridico dell’acquisto della proprietà a prescindere dalla volontà dell’uomo.
In questo senso, l’accessione costituisce un “meccanismo oggettivo” di acquisto della proprietà: la volontà dell’uomo – ove pure vi sia – non assume rilievo giuridico nè influisce positivamente sull’acquisto della proprietà (cfr. Cass., sez. 2, 06/06/2006, 13215; Cass., Sez. 2, 15/05/2013, n. 11742; Cass., Sez. 1, 12/06/1987, n. 5135).
Fattore unificante delle varie figure di accessione è la regola per cui il proprietario della “cosa principale” diviene proprietario della “cosa accessoria” quando quest’ultima si congiunge stabilmente alla prima (“accessorium cedit principali“). Il diritto di proprietà sulla cosa principale esercita, perciò, una vis attractiva sulla proprietà della cosa accessoria. E mentre con riguardo all’accessione di mobile a mobile spetta al giudice accertare in concreto – tenendo conto dei criteri della funzione e del valore – quale sia la cosa principale e quale quella accessoria, nel caso dell’accessione c.d. verticale è la stessa legge (art. 934 e segg. cod. civ.) ad individuare la “cosa principale” nel bene immobile (il suolo), sancendo la sua preminenza sulle cose mobili che vi sono incorporate, in ragione dell’importanza economico-sociale che ad esso si riconosce (anche se tale regola non manca delle sue eccezioni: come nel caso della c.d. “accessione invertita” di cui all’art. 938 cod. civ., cui può farsi ricorso ove vi sia stata occupazione parziale di un fondo altrui). Sicchè, quando riguarda un bene immobile, l’accessione si coniuga col principio per cui la proprietà immobiliare (c.d. “proprietà fondiaria”) si estende in linea verticale teoricamente all’infinito, sia nel sottosuolo che nello spazio sovrastante al suolo, fin dove l’uno e l’altro siano suscettibili di utilizzazione economica, ossia fin dove il proprietario del suolo abbia interesse ad escludere le attività di terzi (art. 840 cod. civ., comma 2).
L’art. 934 cod. civ., che apre le disposizioni codicistiche dedicate all’accessione, detta la “regola generale” di tale modo di acquisto della proprietà – trasposizione dell’antico principio romanistico “quidquid inaedificatur solo cedit” (o “superficies solo cedit“) secondo cui <<Qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo, salvo quanto disposto dagli artt. 935, 936, 937 e 938 e salvo che risulti diversamente dal titolo e dalla legge>>; e gli articoli che seguono tale disposizione – disciplinando specificamente il caso delle opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui (art. 935 cod. civ.), quello delle opere fatte dal terzo con materiali propri (art. 936 cod. civ.) e quello delle opere fatte dal terzo con materiali altrui (art. 937 cod. civ.) – confermano la preminenza assegnata dal legislatore al bene immobile sul bene mobile (sia pure con i temperamenti di volta in volta previsti).
La regola dell’accessione, nella misura in cui consente la ricompattazione e la semplificazione delle situazioni di appartenenza punta a salvaguardare l’interesse generale al più razionale sfruttamento economico del suolo, ma costituisce soprattutto – anche grazie al sistema della pubblicità immobiliare – presidio della certezza dei rapporti giuridici e della sicurezza della circolazione della proprietà. Essa finisce per limitare lo stesso potere del proprietario del suolo di disporre del suo diritto, non potendo egli alienare il suolo e la costruzione l’uno separatamente dall’altro, salvo a costituire con atto redatto nelle forme di legge (art. 1350 cod. civ.) e soggetto all’onere della trascrizione (art. 2643 e segg. cod. civ.) – un diritto reale di superficie (sub specie di proprietà superficiaria) (artt. 952 e segg. cod. civ.).
2.3. – Orbene, premesso quanto sopra in ordine ai caratteri essenziali dell’accessione, occorre ritornare ora allo scrutinio del secondo e del quarto motivo di ricorso, con i quali – come si è veduto – viene sottoposta la questione circa la possibilità che l’accessione operi quando la proprietà del suolo sia comune a più soggetti (c.d. comunione o comproprietà) ed uno solo (o alcuni soltanto) di essi abbia edificato sul suolo comune; questione, questa, relativamente alla quale – come ha evidenziato l’ordinanza di rimessione – si fronteggiano due opposti indirizzi giurisprudenziali.
Secondo un primo indirizzo, più risalente, il principio dell’accessione (art. 934 cod. civ.) opererebbe anche nel caso di comunione, per cui la costruzione su suolo comune, pur se eseguita da uno solo dei comunisti, diverrebbe anch’essa comune, mano a mano che viene edificata, salvo contrario accordo scritto. La nuova costruzione diverrebbe, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., automaticamente di proprietà di tutti i contitolari del suolo comune, secondo le quote spettanti su detto suolo a ciascuno di essi, salvo il diritto del costruttore al rimborso pro quota delle spese sostenute (Cass., Sez. 2, 11/07/1978, n. 3479; Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543).
Secondo l’opposto e più recente orientamento, oggi prevalente, la fattispecie dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ. si riferirebbe solo alle costruzioni od opere eseguite su terreno altrui, presupporrebbe cioè che il costruttore sia un “terzo” rispetto ai proprietari del suolo; e poichè il comproprietario costruttore non può essere considerato “terzo” rispetto agli altri comunisti, la fattispecie della costruzione eseguita da uno dei comproprietari su suolo comune non potrebbe essere regolata dall’art. 934 cod. civ., ma sarebbe invece regolata dalla disciplina in materia di comunione, che configurerebbe una deroga al principio dell’accessione. In particolare, secondo tale giurisprudenza, la nuova costruzione sarebbe di proprietà comune a tutti i comunisti se eseguita in conformità alle regole del condominio, cioè con il rispetto delle norme sui limiti del comproprietario all’uso delle cose comuni (art. 1102 cod. civ.); apparterrebbe, invece, solo al comproprietario costruttore se eseguita in violazione della disciplina condominiale (costruzione “illegittima”) (Cass., Sez. 2, 27/03/2007, n. 7523; Cass., Sez. 2, 18/04/1996, n. 3675; Cass., Sez. 2, 22/03/2001, n. 4120; Cass., Sez. 2, 24/01/2011, n. 1556).
2.4. – La Corte ritiene che il più recente orientamento giurisprudenziale non possa essere condiviso per le seguenti ragioni.
2.4.1. – Innanzitutto, il Collegio non reputa fondato l’assunto posto a fondamento dell’indirizzo giurisprudenziale in esame secondo cui presupposto indefettibile dell’accessione sarebbe la qualità di “terzo” del costruttore rispetto al proprietario del suolo; dal che discenderebbe – secondo tale opinione – che, nel caso in cui il suolo appartenga in comunione a più soggetti, non potendo il comproprietario costruttore essere considerato “terzo” rispetto agli altri comunisti, l’accessione non potrebbe operare.
Va premesso che, secondo l’insegnamento consolidato di questa Corte regolatrice, in materia di accessione, è “terzo” colui che non sia legato al proprietario del suolo da un rapporto giuridico, di natura reale o personale, che lo legittimi a costruire sul fondo medesimo. Ove invece sussista un diritto reale o personale che assegni al terzo la facoltà di edificare su suolo altrui viene meno la ragione di applicare la disciplina dell’accessione intesa come ipotesi di soluzione del conflitto tra contrapposti interessi, perchè il conflitto risulta assoggettato ad una disciplina specifica (ad es.: gli artt. 1592 e 1593 cod. civ. in tema di miglioramenti e addizioni nel rapporto di locazione; gli artt. 983, 985 e 986 in tema di usufrutto; etc.) (cfr. Cass., Sez. 2, 05/02/1983, n. 970; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699). Si è ritenuto perciò che, ove sussista una comunione del suolo ed uno solo dei comproprietari del suolo costruisca su di esso, non è applicabile l’art. 936 cod. civ. (dettato per le <<Opere fatte da un terzo>>), non potendo il comproprietario costruttore essere qualificato “terzo” rispetto agli altri comproprietari del suolo (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 2, 14/01/2009, n. 743; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699; Cass., Sez. 2, 27/08/1986, n. 5242).
Ciò premesso, va tuttavia osservato che un esame obiettivo del complesso della disciplina codicistica consente di ritenere, in accordo con autorevole dottrina, che l’operare dell’istituto dell’accessione non è affatto precluso dalla circostanza che, in presenza di una comunione del suolo, la costruzione sia realizzata da uno (o da alcuni) soltanto dei comproprietari.
Diversi argomenti conducono a tale conclusione.
In primo luogo, sul piano dell’interpretazione letterale della legge, va rilevato che l’art. 934 cod. civ. – che detta la “regola generale” in materia di accessione – non contiene alcun riferimento soggettivo al costruttore. La norma enuncia il principio per cui <<Qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo>> e prescinde del tutto da chi sia la persona del costruttore.
Si tratta di una nozione ampia di accessione che fa parte della tradizione giuridica dell’istituto nel nostro ordinamento e che si collega idealmente alla onnicomprensiva definizione di accessione contenuta nell’art. 443 cod. civ. 1865, che includeva persino l’acquisto dei frutti prodotti dal fondo (cfr. art. 444 cod. civ. abrogato); una nozione che non esclude l’accessione neppure nel caso di costruzioni realizzate dallo stesso proprietario del suolo.
Conferma di quanto detto si ricava dall’interpretazione sistematica del complesso delle norme relative all’accessione e, in particolare, dal fatto che le fattispecie di accessione relative al caso in cui il costruttore sia un “terzo” rispetto ai proprietari del suolo sono specificamente contemplate e regolate negli artt. 936 e 937 cod. civ. (disposizioni che disciplinano l’accessione rispettivamente nel caso in cui le opere siano state realizzate “da un terzo con materiali propri” ovvero “da un terzo con materiali altrui”).
Essendo le ipotesi in cui le opere siano state eseguite da un soggetto “terzo” rispetto al proprietario del suolo regolate dai richiamati artt. 936 e 937 cod. civ., va escluso che l’art. 934 cod. civ. possa riferirsi alle medesime opere eseguite dal terzo.
Altra conferma del fatto che l’applicabilità dell’art. 934 cod. civ. non è subordinata alla qualità di terzo del costruttore si desume, peraltro, dall’art. 935 cod. civ., che disciplina l’accessione nel caso in cui l’opera sia stata edificata dal proprietario del suolo “con materiali altrui”; fattispecie – questa – nella quale l’accessione opera nonostante vi sia coincidenza tra costruttore e dominus soli.
Infine, ulteriore conferma del fatto che l’accessione non presuppone affatto l’alterità soggettiva tra proprietario del suolo e costruttore si ricava anche dalla giurisprudenza elaborata da questa Corte in tema di “comunione legale tra i coniugi”, laddove si è affermato che la costruzione realizzata durante il matrimonio da entrambi i coniugi sul suolo di proprietà esclusiva di uno solo di essi, appartiene a quest’ultimo in forza del principio di accessione e, pertanto, non entra a far parte della comunione legale (Cass., Sez. U, 27/01/1996, n. 651; Cass., Sez. 1, 30/09/2010, n. 20508).
Si tratta di un principio che riconosce l’operare dell’accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., in favore del coniuge proprietario esclusivo del suolo, nonostante che egli stesso sia l’autore della costruzione (sia pure unitamente all’altro coniuge), nonostante cioè che il costruttore non sia “terzo” rispetto al proprietario del suolo. Anche da tale principio giurisprudenziale si ricava, perciò, conferma della conclusione secondo cui l’accessione non presuppone che il costruttore dell’opera sia “terzo” rispetto alla proprietà del suolo.
E allora, a meno di voler ridurre l’art. 934 cod. civ. ad una disposizione meramente enunciativa di una definizione giuridica
(simile all’art. 443 cod. civ. abrogato) priva di immediata efficacia precettiva (ciò che, tuttavia, non sarebbe conforme nè alla lettera della legge nè all’intenzione del codificatore), deve concludersi che l’art. 934 cod. civ. detta la “regola generale” dell’accessione, che costituisce norma immediatamente applicabile e destinata a regolare tutte quelle fattispecie in cui l’incorporazione di piantagioni o materiali al suolo non trovi specifica disciplina in diverse disposizioni di legge.
Tra tali fattispecie rientra certamente il caso in cui il suolo appartenga in comunione a più soggetti ed uno (o alcuni) soltanto di essi abbia realizzato una costruzione sul suolo comune.
Non è inutile osservare in proposito che, nel caso di costruzione del singolo comunista sul suolo comune, l’accessione non perde la propria ragion d’essere giuridica: basti considerare che, proprio grazie all’accessione, l’alienazione del suolo comporta l’automatica alienazione di quanto su di esso incorporato, senza necessità di un separato atto di alienazione dei materiali ad esso stabilmente uniti e senza che – in mancanza di un tale atto – l’acquirente corra il rischio di vedersi disturbato nel godimento del fondo da alcuno dei suoi danti causa.
Può ritenersi, dunque, che tanto l’interpretazione letterale quanto l’interpretazione sistematica delle norme codicistiche relative all’accessione depongono nel senso che la “regola generale” dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ. prescinde dal riferimento soggettivo all’autore della costruzione e che non vi sono ragioni per escludere che essa – legata com’è al mero fatto dell’incorporazione dei materiali al suolo – operi anche nel caso di costruzione realizzata dal singolo comproprietario sul suolo comune.
2.4.2. – Il Collegio non condivide neanche l’altro assunto, posto a fondamento della giurisprudenza criticata, secondo cui, allorquando il suolo su cui sono eseguite le opere appartiene a più soggetti, l’art. 934 cod. civ. sarebbe derogato dalla disciplina della comunione.
E’ vero che la regola generale dell’accessione posta dall’art. 934 cod. civ. vale – secondo quanto previsto dall’ultimo inciso della disposizione (<<salvo che risulti diversamente (…) dalla legge>>) – a condizione che non sia derogata da una norma di legge a carattere speciale (“lex specialis derogat legi generali“). Non è vero, tuttavia, che la disciplina giuridica della comunione integri una deroga all’istituto dell’accessione.
Non esiste, tra accessione e comunione, alcun rapporto tra genus ad speciem.
Invero, la disciplina giuridica della comunione (art. 1100 e segg. cod. civ.) punta a regolare i rapporti tra comproprietari nell’uso e nel godimento della cosa comune (art. 1102 cod. civ.), a fissare i limiti entro cui è consentito il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione del bene comune o sono permesse le innovazioni e la disposizione della cosa comune, con la garanzia delle ragioni delle minoranze (artt. 1108 e 1120 cod. civ.). Nessuna delle norme che regolano la comunione è, tuttavia, atta ad incidere sui modi di acquisto della proprietà o a mutare l’assetto della proprietà comune, sì da poter configurare una disciplina speciale, e quindi una deroga, rispetto al principio di accessione.
Peraltro, l’art. 1102 cod. civ. – che costituisce la norma fondamentale in materia di comunione (applicabile anche alla materia del condominio degli edifici in virtù del richiamo contenuto nell’art. 1139 cod. civ.) – consente a ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune <<purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto>>.
La medesima ratio è posta a fondamento degli artt. 1108 e 1120 cod. civ., che consentono le innovazioni deliberate dalle maggioranze ivi previste, ma sempre a condizione che si tratti di innovazioni che non pregiudichino l’uso e il godimento della cosa comune da parte di alcuno dei partecipanti.
Orbene, queste norme escludono in radice che il singolo comproprietario, senza il consenso degli altri comunisti, possa cambiare destinazione al suolo comune ed edificare su di esso con l’intento di appropriarsi del medesimo ed escludere gli altri comproprietari dal suo godimento.
L’esistenza di un pari diritto di ogni comunista sulla cosa comune, infatti, è incompatibile con l’assunto che uno solo di essi possa divenire proprietario esclusivo dell’opera e del suolo comune su cui essa insiste.
D’altra parte, il comproprietario che costruisce senza il consenso degli altri partecipanti alla comunione realizza una alterazione della destinazione della cosa comune ed impedisce agli altri comunisti di fare uso di essa secondo il loro diritto; egli infrange la disciplina della comunione e commette un “atto illecito”, come “illegittima” è la costruzione realizzata sul suolo comune (Cass., Sez. 2, 24/01/2011, n. 1556; Cass., Sez. 2, 21/05/2001, n. 6921).
Dunque, essendo la disciplina della comunione destinata a regolare i rapporti tra comproprietari nell’uso e nel godimento della cosa comune e non contenendo tale disciplina alcuna norma in grado di determinare l’attrazione della nuova opera nella sfera patrimoniale esclusiva del comunista costruttore, va ripudiata l’idea che la disciplina della comunione costituisca deroga a quella relativa ai modi di acquisto della proprietà, sì da escludere l’operare dell’accessione.
2.4.3. – Il Collegio non condivide neppure la conclusione secondo cui la costruzione edificata da uno solo dei comproprietari sul suolo comune diverrebbe di proprietà comune di tutti i comunisti solo se eseguita in conformità alle regole che disciplinano la comunione, cioè con il rispetto dei limiti posti al comproprietario nell’uso della cosa comune (art. 1102 cod. civ.), mentre apparterrebbe in proprietà esclusiva al solo comproprietario costruttore se eseguita in violazione della detta disciplina (costruzione “illegittima”).
Innanzitutto, se venisse esclusa l’applicabilità del principio di accessione in materia di comunione, non sarebbe dato comprendere sulla base di quale diverso principio la costruzione edificata da uno solo dei comproprietari possa divenire comune agli altri comunisti ove sia eseguita in conformità alle regole che disciplinano la comunione; ma risulterebbe anche, a maggior ragione, incomprensibile come il comproprietario costruttore che, violando la disciplina della comunione, abbia edificato sul suolo comune possa divenire proprietario esclusivo della costruzione, così sottraendo agli altri comunisti la proprietà del suolo su cui insiste la costruzione (a tale conclusione sembra addivenire la giurisprudenza criticata nella misura in cui non prospetta una proprietà del suolo occupato dalla costruzione diversa dalla proprietà della costruzione stessa).
Il vero è che, nella sostanza, la giurisprudenza criticata, una volta esclusa l’applicabilità del principio di accessione in materia di comunione e ritenuta applicabile solo la disciplina di cui agli artt. 1100 e segg. cod. civ., è venuta a creare di fatto, per via pretoria, una nuova figura di “acquisto a titolo originario” della proprietà, che non ha base legale.
Sul punto, va però osservato che sia la Costituzione (art. 42, secondo comma, a tenore del quale spetta alla legge determinare i modi di acquisto della proprietà) che il codice civile (art. 922, che, nell’elencare i vari modi di acquisto della proprietà, conclude con la formula <<e negli altri modi stabiliti dalla legge>>) configurano una vera e propria “riserva di legge” in ordine ai modi di
acquisto della proprietà, in forza della quale la proprietà può acquistarsi solo nei modi “legali”, solo nei modi che il legislatore ha inteso prevedere (non solo – ovviamente – in seno al codice civile, ma anche in altri campi del diritto: si pensi ai vari casi di appropriazione coattiva previsti dal diritto pubblico o dal diritto processuale in materia esecutiva), non potendosi ammettere modi di acquisto della proprietà (o di altri diritti reali) diversi da quelli che il legislatore abbia previsto e disciplinato.
E allora, ritenere, per via pretoria, che la violazione delle norme sulla comunione consenta al singolo comproprietario che costruisca sul suolo comune di acquistare la proprietà della costruzione e del suolo, in danno degli altri comunisti, costituirebbe una patente violazione della “riserva di legge” relativa ai modi di acquisto della proprietà.
Per di più, va ricordato che la tutela della proprietà privata trova fondamento, oltre che nell’art. 42 Cost., nello stesso codice del 1942. L’art. 834 cod. civ., comma 1, quasi anticipando la previsione della futura Carta costituzionale, stabilisce <<Nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e contro il pagamento di giusta indennità>>; e l’art. 1102 cod. civ., comma 2, espressamente preclude al singolo compartecipe di estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri compartecipi, salvo che “muti il titolo del suo possesso” (addivenendo all’acquisto per usucapione ove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 1158 cod. civ.).
Perciò, ammettere che i comproprietari non costruttori possano perdere la proprietà della cosa comune per il semplice fatto della iniziativa di altro comproprietario, dando luogo ad una sorta di espropriazione della proprietà privata in assenza di un interesse generale e senza indennizzo, contrasta con i principi generali che reggono la materia e con la stessa Carta fondamentale (art. 42 Cost.).
Si tratta, peraltro, di una soluzione contraria ad ogni logica e al comune senso di giustizia, perchè finisce col premiare, piuttosto che sanzionare, il comproprietario che commette un abuso in danno degli altri comproprietari.
2.5. – In definitiva, alla luce di quanto sopra detto, il Collegio ritiene che la disciplina della comunione non configuri affatto una deroga legale al principio di accessione di cui all’art. 934 cod. civ. e che quest’ultimo operi anche quando il suolo appartiene in comunione a più soggetti ed uno solo (o alcuni soltanto) di essi abbia provveduto a realizzare una costruzione o altra opera.
Come si è detto, l’accessione costituisce un mero fatto giuridico, che opera per il solo fatto dell’incorporazione. L’acquisto della proprietà per accessione prescinde dalla volontà di alcuno e non è escluso dalla buona fede del costruttore; cosicchè, nel caso di comunione del suolo e di costruzione eseguita su di esso da uno o da alcuni soltanto dei comunisti, tutti i comproprietari del suolo (costruttori e non costruttori) acquistano la proprietà della costruzione, in rapporto alle rispettive quote, per il semplice fatto di essere comproprietari del suolo.
È ben vero che l’art. 934 cod. civ. fa salve le deroghe alla regola dell’accessione previste dalla “legge” o dal “titolo”.
Tuttavia, nessuna delle deroghe all’operare dell’accessione previste dalla legge – quella relativa alle opere destinate all’esercizio della servitù eseguite dal proprietario del fondo dominante sul fondo servente (art. 1069 cod. civ.); o quelle relative alle addizioni eseguite dall’enfiteuta (art. 975 cod. civ., comma 3), dall’usufruttuario (art. 986 cod. civ., comma 2), dal possessore (art. 1150 cod. civ., comma 5) e dal locatore (art. 1593 cod. civ.), laddove lo ius tollendi opera quasi sempre in deroga all’accessione, se non ne venga nocumento alla cosa – riguardano il caso della comunione del suolo.
Quanto al titolo negoziale idoneo ad escludere l’operare dell’accessione, esso – com’è noto – non può essere costituito da un negozio unilaterale, essendo invece necessario un apposito contratto stipulato tra il proprietario del suolo e il costruttore dell’opera, che attribuisca a quest’ultimo il diritto di proprietà sulle opere realizzate (Cass., Sez. 3, 07/07/1980, n. 4337; Cass., Sez. 2, 21/02/2005, n. 3440).
Costituiscono titoli idonei a impedire l’operare dell’accessione, quelli costitutivi di diritti reali, fra i quali si colloca, oltre alla costituzione diretta di un diritto di superficie (art. 952 e segg. cod. civ.), la c.d. concessione ad aedificandum, con la quale il proprietario del suolo rinuncia a fare propria la costruzione che sorgerà su di esso. Trattandosi di contratti relativi a diritti reali immobiliari, essi, ai sensi dell’art. 1350 cod. civ., devono rivestire la forma scritta ad substantiam (Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543; Cass., Sez. 2, 11/11/1997, n. 11120; Cass., Sez. 2, 19/04/1994, n. 3714; Cass., Sez. 2, 27/10/1984, n. 5511); come anche per iscritto deve risultare la rinuncia del proprietario al diritto di accessione, che si traduce sostanzialmente nella costituzione di un diritto di superficie (Cass., Sez. 1, 15/12/1966, n. 2946).
Perciò, in mancanza di valido contrario titolo, qualunque costruzione edificata sul suolo comune – non solo da terzi (caso che ricadrebbe nelle fattispecie di cui agli artt. 936 e 937 cod. civ.), ma anche da uno o da alcuni soltanto dei comproprietari – diviene ipso iure, per il solo fatto dell’incorporazione e a prescindere dalla volontà manifestata dalle parti al di fuori delle forme prescritte dall’art. 1350 cod. civ., di proprietà comune di tutti comproprietari del suolo in proporzione alle rispettive quote dominicali.
2.6. – Una volta stabilito che – in virtù dell’operare dell’accessione – la costruzione su suolo comune appartiene a tutti i comproprietari del medesimo in proporzione alle rispettive quote di proprietà (salva l’esistenza di contrario titolo, nei termini sopra richiamati), rimane da stabilire quale sia il “regime giuridico” che deve disciplinare i rapporti tra il comproprietario costruttore e gli altri comproprietari (divenuti ope legis comproprietari della costruzione).
L’art. 934 cod. civ. nulla dispone circa la disciplina che deve regolare i rapporti tra costruttore e proprietario del suolo; e la giurisprudenza di questa Corte – come si è detto – è costante nell’escludere che la materia possa essere regolata dall’art. 936 cod. civ., essendo questa una disposizione relativa alle <<Opere fatte da un terzo>> e non potendo il comproprietario essere qualificato “terzo” rispetto agli altri comproprietari del suolo (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 2, 14/01/2009, n. 743; Cass., Sez. 2, 14/12/1994, n. 10699).
Il Collegio ritiene che la disciplina giuridica che deve regolare i rapporti tra comproprietario costruttore e comproprietario non costruttore vada ricavata dalle norme che regolano la comunione: innanzitutto, dalle norme che regolano l’uso della cosa comune e le innovazioni.
Invero, la costruzione su suolo comune – in quanto innovazione deve essere deliberata secondo quanto previsto dall’art. 1108 cod. civ. (per la comunione ordinaria) e dagli artt. 1120 e 1121 cod. civ. (per il condominio degli edifici), sempre col limite di non pregiudicare il godimento della cosa comune da parte di alcuno dei partecipanti.
Perciò, quando la costruzione è stata edificata senza la preventiva autorizzazione della maggioranza dei condomini ovvero quando essa pregiudichi comunque il godimento della cosa comune da parte di tutti i comproprietari, il comproprietario che ha patito pregiudizio dalla costruzione può esercitare – nei confronti del comproprietario costruttore – le ordinarie azioni possessorie (cfr., in tema di azione di manutenzione, Cass., Sez. 2, 17/10/2006, n. 22227) e l’azione di rivendicazione (Cass., Sez. 2, 28/08/1990, n. 8884).
Il comproprietario leso può anche esercitare lo ius tollendi e pretendere la demolizione dell’opera lesiva del suo diritto, ricorrendo alla tutela in forma specifica ex art. 2933 cod. civ. (cfr. Cass., Sez. 2, 13/11/1997, n. 11227). La demolizione dell’opera può essere anche decisa – al di fuori del caso di lesione del diritto del singolo comunista – dalla maggioranza dei comproprietari ai sensi dell’art. 1108 cod. civ..
Il Collegio ritiene, tuttavia, che l’esercizio dello ius tollendi debba essere coniugato con il principio di “tolleranza”, col principio di “affidamento” e con quello di “buona fede” (in ordine a tali principi, ex plurimis, v. Cass., Sez. U, 27/04/2017, n. 10413; Cass., Sez. U, 15/11/2007, n. 23726).
Si tratta, peraltro, di principi sottesi al disposto dell’art. 936 cod. civ., comma 4, laddove esso stabilisce che <<il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le piantagioni, costruzioni ed opere, quando sono state fatte a sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte dal terzo in buona fede>>.
È vero che tale disposizione (relativa al caso del “terzo costruttore”) non è applicabile al diverso caso delle opere edificate dal comproprietario sul suolo comune; ciò non vuol dire però che in tale ipotesi non debba tenersi conto egualmente dei principi di tolleranza e di affidamento, nonchè del principio di buona fede.
Trattasi di principi generali immanenti all’ordinamento giuridico, in quanto tali sottesi all’intera disciplina del codice civile, che devono sempre essere tenuti in conto dal giudice.
È necessario, allora, tener distinti il caso in cui il comproprietario costruttore abbia agito contro l’esplicito divieto del comproprietario o all’insaputa di questi dal diverso caso in cui egli abbia agito, se non col consenso, quanto meno a scienza e senza opposizioni dell’altro comproprietario.
Nel primo caso, ove vi sia stata violazione delle norme in tema di condominio, va riconosciuto lo ius tollendi al comproprietario non costruttore, il quale può senz’altro agire per ottenere il ripristino dello status quo ante.
Nel secondo caso, invece, essendovi stato il consenso esplicito o anche meramente implicito del comproprietario non costruttore, va escluso – a tutela della buona fede e dell’affidamento del costruttore – che il primo possa pretendere la demolizione dell’opera.
Per la medesima ragione anche la mera tolleranza, ossia la mancata reazione da parte del comproprietario non costruttore all’abuso intrapreso dal comunista costruttore, protratta per un congruo periodo di tempo dal giorno in cui ha avuto notizia dei lavori, preclude l’esercizio dello ius tollendi, facendo sorgere l’affidamento del costruttore sul sopravvenuto consenso implicito del compartecipe alla comunione.
Il consenso alla costruzione dell’opera, manifestato da un comunista all’altro, può essere dato con qualunque forma (anche verbalmente), non attenendo esso alla sfera dei diritti reali e non facendo venir meno l’operatività dell’accessione e, quindi, l’acquisto della proprietà della costruzione da parte di tutti i comunisti in rapporto alle rispettive quote dominicali; il suo rilievo giuridico non attiene all’acquisto della proprietà della costruzione, ma ai reciproci diritti e obblighi dei comproprietari, e ai loro rispettivi poteri, relativamente ad un’opera divenuta comunque comune.
Trattandosi di un consenso che non incide sulla proprietà della costruzione, esso può essere dimostrato con ogni mezzo di prova.
Va aggiunto che, ove lo ius tollendi non venga (o non possa essere) esercitato, sorge, in favore del comproprietario costruttore, un diritto di credito nei confronti degli altri comunisti, divenuti per accessione comproprietari dell’opera; nasce cioè tra le parti un rapporto obbligatorio in forza del quale i comproprietari non costruttori sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sopportate per l’edificazione dell’opera, secondo le norme che regolano la comunione e gli altri istituti di volta in volta applicabili (mandato, negotiorum gestio, arricchimento senza causa, etc.).
2.7. – Premesso quanto sopra, tornando all’esame della fattispecie concreta sottoposta al giudizio di questa Suprema Corte, va rilevato come le rationes decidendi della sentenza impugnata contrastino con i principi di diritto sopra esposti.
I giudici di merito hanno ritenuto che l’istituto dell’accessione di cui all’art. 934 non potesse operare nel caso di costruzione edificata da uno solo dei comproprietari su suolo comune ed hanno ritenuto che la costruttrice società Cà D’Oro fosse divenuta ab origine unica proprietaria della costruzione in virtù di accordi non bene individuati, nè in ordine al loro contenuto nè in ordine alla loro forma.
Così facendo, la Corte territoriale ha mostrato di non tener conto del principio di diritto ripetutamente affermato da questa Corte regolatrice secondo cui i contratti traslativi della proprietà di beni immobili o costitutivi, modificativi o traslativi di diritti reali immobiliari su cosa altrui devono, ai sensi dell’art. 1350 cod. civ., rivestire la forma scritta ad substantiam (Cass., Sez. 1, 23/02/1999, n. 1543; Cass., Sez. 2, 19/04/1994, n. 3714; Cass., Sez. 2, 27/10/1984, n. 5511; Cass., Sez. 2, 16/03/1984, n. 1811); sicchè è nulla la promessa verbale del proprietario del suolo di trasferire ad altro la proprietà del manufatto su di esso edificato (cfr. Cass., Sez. 2, 26/11/1988, n. 6380); come, d’altra parte, la concessione ad aedificandum convenuta verbalmente, e quindi senza un atto scritto, non acquista efficacia reale, ma dà vita ad un rapporto meramente obbligatorio, ossia ad un diritto personale nei confronti del concedente (Cass., Sez. 1, 17/12/1968, n. 4006; Cass., Sez. 2, 10/07/1985, n. 4111).
La Corte territoriale avrebbe dovuto, invece, verificare se fosse stato stipulato tra le parti un contratto redatto in forma scritta avente ad oggetto il trasferimento della proprietà del suolo su cui insiste la costruzione realizzata dalla società convenuta ovvero la costituzione di un diritto di superficie o di altro diritto reale in grado di separare la proprietà del suolo dalla proprietà della costruzione ovvero – ancora se il Pizzolotto avesse posto in essere (sempre con la dovuta forma scritta richiesta dall’art. 1350 cod. civ., n. 5) una rinunzia abdicativa alla propria quota di comproprietà (con conseguente accrescimento del diritto di proprietà della Cà D’Oro) ai sensi dell’art. 1104 cod. civ., comma 1, (sul punto, cfr. Cass., Sez. 2, 25/02/2015, n. 3819; Cass., Sez. 2, 06/07/1968, n. 2316); e non avrebbe potuto dare improprio rilievo, ai fini del riconoscimento della proprietà della costruzione, al consenso manifestato “verbalmente” dal Pizzolotto o al fatto che quest’ultimo si fosse reso esecutore materiale della costruzione su incarico della società Cà D’Oro o alla circostanza che soltanto tale società avesse sopportato i costi di costruzione (circostanze – queste – rilevanti ai fini della verifica della spettanza al Pizzolotto dello ius tollendi, ma non in grado di incidere sull’acquisto della proprietà della costruzione).
Non rimane, pertanto, che cassare la sentenza impugnata in relazione al secondo e al quarto motivo di ricorso, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia, che, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 2, si uniformerà ai seguenti principi di diritto:
– <<La costruzione eseguita dal comproprietario sul suolo comune diviene per accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., di proprietà comune agli altri comproprietari del suolo, salvo contrario accordo, traslativo della proprietà del suolo o costitutivo di un diritto reale su di esso, che deve rivestire la forma scritta ad substantiam>>;
– <<Il consenso alla costruzione manifestato dal comproprietario non costruttore, pur non essendo idoneo a costituire un diritto di superficie o altro diritto reale, vale a precludergli l’esercizio dello ius tollendi>>;
– <<Ove lo ius tollendi non venga o non possa essere esercitato, i comproprietari del suolo sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sopportate per l’edificazione dell’opera>>.
3. – Gli altri motivi rimangono assorbiti.
4. – Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, accoglie il secondo e il quarto motivo di ricorso, rigetta il primo e il quinto, dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 7 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2018
II Consigliere estensore
Il Primo Presidente
Allegati:
SS.UU, 16 febbraio 2018, n. 3873, in tema di accessione e comunione
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