In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20473
Civile Ord. Sez. U Num. 20473 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO
Data pubblicazione: 17/07/2023
ORDINANZA
sul ricorso 24540-2022 proposto da:
COMUNE DI MOZZATE, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati ADRIANO PILIA e MARCO LUIGI DI TOLLE;
– ricorrente –
contro
PAPA COSTRUZIONI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EMANUELE FILIBERTO 233, presso lo studio dell’avvocato RITA TIBERI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCA INGROSSO;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 4206/2021 del TRIBUNALE di COMO.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/05/2023 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale CORRADO MISTRI, il quale chiede che la Corte di cassazione dichiari la giurisdizione del Giudice amministrativo.
Fatti di causa
Dopo la sottoscrizione, nel marzo 2003, del piano di zona per l’edilizia economica e popolare (p.e.e.p.) tra il Comune di Mozzate e la Regione Lombardia, il comune pubblicò un bando per l’assegnazione di 25 lotti di terreno a prezzi concordati.
Uno dei lotti, denominato “Brera”, venne assegnato alla Papa Costruzioni s.r.l. con delibera del 9 giugno 2007.
In data 5-3-2008 venne stipulato tra le parti l’atto di vendita dell’area sita in località “Brera”, lotto 6, al prezzo di 552.910,17, di cui 315.158,79 EUR quale corrispettivo del terreno e il resto per oneri di urbanizzazione.
All’atto di compravendita venne allegata la “convenzione area PEEP di via Brera”.
A fronte di pagamenti da eseguire in dodici rate costanti, come da prospetto allegato al contratto, la società dopo le prime quattro rate rimase inadempiente.
Il comune ha chiesto e ottenuto un decreto ingiuntivo per il pagamento del residuo.
La società ha proposto opposizione dinanzi al Tribunale di Como, chiedendo accertarsi la nullità del decreto per difetto di legittimazione attiva del comune, per l’insussistenza dei presupposti di legge e per l’altrui inadempimento agli obblighi contrattuali sottoscritti.
Nel corso del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo il tribunale ha rilevato d’ufficio che in base all’articolo 133, lett. a), n. 2, del d.lgs. n. 104 del 2010 (cod. proc. amm.) la giurisdizione sarebbe spettata al giudice amministrativo.
Il comune di Mozzate ha proposto un ricorso per regolamento preventivo, sostenendo che invece la giurisdizione debba essere del giudice ordinario, perché col ricorso per decreto ingiuntivo era stato semplicemente azionato il residuo credito vantato nei riguardi della società in forza del contratto di vendita dell’immobile.
Tale pretesa – si dice – aveva trovato la sua base negoziale nella convenzione, allegata al contratto, stipulata ai sensi dell’art. 35 della l. n. 865/71 per la concessione e regolamentazione del diritto di proprietà dell’area di edilizia economica e popolare; e nella sede di opposizione non erano state poste in discussione né la quantificazione del corrispettivo, né l’individuazione del soggetto debitore, né erano state avanzate contestazioni relative al rapporto di concessione.
Per cui in definitiva in ordine al richiesto corrispettivo non sarebbe giunta in esame alcuna attività dell’ente riconducibile al potere discrezionale.
La società ha replicato con apposita memoria.
Le parti hanno depositato ulteriori memorie.
Ragioni della decisione
I. – Non è in discussione il principio per cui la decisione sulla giurisdizione, secondo l’art. 386 cod. proc. civ., è determinata dall’oggetto della domanda.
Rileva in tal senso il petitum sostanziale, che si identifica sia in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, sia e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio e individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione (ex aliis Cass. Sez. U n. 20350-18, Cass. Sez. U n. 12378-08; più di recente Cass. Sez. U n. 13702-22, Cass. Sez. U n. 7735-23).
II. – Dalla lettura degli atti – che la Corte in questi casi è chiamata a fare autonomamente – emerge in modo lineare che la pretesa avanzata in via monitoria dal comune ha trovato causa nel rapporto sorto tra le parti per effetto dell’atto del 5-3-2008 con allegata la “convenzione area PEEP di via Brera”.
Il ricorrente assume che il petitum sostanziale attiene al perimetro della fattispecie negoziale, vale a dire all’adempimento delle obbligazioni derivate dall’atto di vendita. Non risulterebbero presenti, di contro, a suo dire, i tratti del potere autoritativo (discrezionale) della pubblica amministrazione, essendo state veicolate in monitorio semplici pretese di carattere patrimoniale.
III. – Sennonché ogni valutazione a tal riguardo è preclusa dall’ordinanza n. 27768 del 2020 di queste Sezioni Unite resa in fattispecie esattamente speculare tra le stesse parti.
Quell’ordinanza ha qualificato il rapporto scaturente dal contratto del 5-3-2008 come direttamente afferente alla convenzione urbanistica rientrante nel paradigma degli “accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo” (art. , lett. a), n. 2), d.lgs. n. 104 del 2010, cd. cod. proc. amm.).
Si tratta di un aspetto essenziale, perché all’ordinanza richiamata consegue un giudicato preclusivo inter partes sul profilo qualificatorio, anche in considerazione dell’efficacia panprocessuale della statuizione.
Non è dunque più rilevante l’obiezione del comune secondo la quale l’azione coinvolgerebbe, nella specie, unicamente le obbligazioni discendenti dal contratto del 5-3-2008.
IV. – A questo riguardo la Corte reputa opportuno svolgere le seguenti considerazioni esplicative.
La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è configurata dal legislatore nell’ipotesi di cui all’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, quanto alle “controversie in materia di (..) 2) formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo e degli accordi fra pubbliche amministrazioni”.
Con l’espressione “controversie in materia di” la norma allude alle pretese che attengono a (o trovano causa in) accordi integrativi o sostitutivi.
La funzione specificativa o, come anche si dice in grammatica, espansiva della materia – “di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo” – attua il definitivo riconoscimento della cd. amministrazione “per accordi”, che ben vero aveva ricevuto una disciplina di carattere generale già con la legge n. 241/1990 (art. 11) e con la successiva legge n. 15 del 2005.
Occorre difatti puntualizzare che già prima della legge n. 241/1990 era di prassi il ricorso allo strumento dei contratti di diritto pubblico per il perseguimento dei fini sottesi all’azione amministrativa. La caratteristica fondamentale di tale strumento è sempre stata integrata dalla mancanza della parità tra i contraenti, viceversa tipica dei contratti di diritto privato.
Ciò è tanto vero che buona parte della dottrina ha ritenuto (e tuttora ritiene) che codeste tipologie di accordi appartengano al novero dei provvedimenti unilaterali della pubblica amministrazione, ancorché con effetti bilaterali vincolanti sia per il privato che per la pubblica amministrazione stessa.
La particolarità dal punto di vista pratico sarebbe in ciò: che la volontà dell’amministrazione resta in ogni caso, secondo questa tesi, prioritaria in ragione della possibilità di porre nel nulla l’efficacia del contratto in ogni momento, mediante una difforme rivalutazione dell’interesse pubblico.
La tesi opposta – altrettanto rappresentata nel panorama dottrinale – è sempre stata invece caratterizzata nel senso che i contratti di diritto pubblico sono, una volta stipulati, veri e propri negozi, dal momento che non c’è un divieto per le pubbliche amministrazioni di ricorrere agli strumenti negoziali per esercitare il potere pubblicistico.
E quindi, una volta stipulati, ogni aspetto consequenziale deve rimanere attratto dalla disciplina di diritto comune.
V. – L’opposizione tra le due tesi si è perpetuata anche dopo la l. n. 241 del 1990.
La legge n. 241/1990, valorizzando normativamente per la prima volta lo strumento convenzionale per l’imposizione di obblighi agli amministrati mediante acquisizione del loro consenso, ha previsto per l’appunto, da un lato, gli accordi sostitutivi, che hanno la caratteristica di sostituirsi ai provvedimenti amministrativi – e che fino alla legislazione del 2005 potevano concludersi solo nei casi previsti dalla legge – e dall’altro gli accordi integrativi, che hanno come caratteristica quella di definire il contenuto discrezionale di un provvedimento; i quali possono essere stipulati a condizione che ne derivi per entrambe le parti un’utilità maggiore di quella che le stesse avrebbero conseguito dalla mera adozione del provvedimento stesso.
Per siffatte categorie di accordi la tesi prevalente è ancora oggi nel senso della connotazione quali atti di natura pubblicistica, espressione di un potere determinato dal fatto che (i) la volontà della pubblica amministrazione non è posta sullo stesso piano di quella del privato, (ii) i principi in materia di contratti e di obbligazioni si applicano in via residuale in quanto compatibili con la disciplina speciale di tali accordi, (iii) l’adozione è regolata dalle norme sul procedimento amministrativo, (iv) gli accordi sono sottoposti agli stessi controlli del procedimento amministrativo, (v) il potere di recesso è sempre assicurato alla pubblica amministrazione, sebbene con (ovvia) necessità di riconoscimento di un indennizzo all’altro contraente.
VI. – Non è il caso di riprodurre gli argomenti – certamente di non poco rilievo – spesi della concezione opposta per assegnare ai contratti, una volta stipulati, natura privatistica quanto a disciplina e rimedi.
Non è il caso perché la tesi della natura pubblicistica degli accordi in questione (siano essi sostitutivi o integrativi) è parsa in certa qual misura confortata (anche se forse solo in parte) dalla l. n. 15 del 2005 – che ha eliminato dal testo dell’art. 11 della l. n. 241 del 1990 dell’inciso “nei casi previsti dalla legge” e che ha introdotto (al comma 4-bis) la necessità della determinazione preliminare a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa.
Soprattutto tale tesi ha trovato un’eco pressoché definitiva nella sentenza n. 179 del 2016 della Corte costituzionale.
Questa sentenza, affrontando il tema dell’ambito di applicazione della giurisdizione esclusiva in materia di accordi per ciò che attiene alle controversie instaurate (come quella qui in esame) dalla stessa pubblica amministrazione, ha affermato che l’applicabilità della giurisdizione esclusiva anche a tali controversie non è in contrasto con gli art. 103 e 113 cost. sostanzialmente per due ragioni:
– perché l’art. 103 cost., laddove prevede la giurisdizione esclusiva “in particolari materie indicate dalla legge”, ne identifica (peraltro secondo costante giurisprudenza) i criteri di legittimazione in funzione delle materie prescelte nelle quali vi sia esercizio, ancorché in via indiretta o mediata, di un potere pubblico (v. C. cost. n. 204 del 2004 e C. cost. n. 191 del 2006);
– perché il coinvolgimento di situazioni giuridiche di diritto soggettivo e di interesse legittimo, in stretta connessione, è normalmente evidenziata, a proposito delle convenzioni urbanistiche, dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice, atteso il collegamento funzionale delle convenzioni urbanistiche al procedimento di rilascio dei titoli abilitativi edilizi, dei quali esse condizionano l’adozione e integrano il contenuto (v. già Cass. Sez. U n. n. 584-14 e C. st. n. 7057-09).
Donde la conclusione che, “in quanto inserite nell’ambito del procedimento amministrativo, le convenzioni e gli atti d’obbligo stipulati tra pubblica amministrazione e privati costituiscono pur sempre espressione di un potere discrezionale della stessa pubblica amministrazione”, al punto da non avere quindi una “specifica autonomia” (così C. cost. n. 179-16 cit.).
Può quindi considerarsi pacifico il fondamento di tali ipotesi di giurisdizione esclusiva, il quale resta individuato nell’esercizio, ancorché in via indiretta o mediata, del potere pubblico.
VII. – La richiamata ordinanza n. 27768 del 2020 di questa Corte si pone, seppure implicitamente, nel solco di quanto esposto.
In consonanza con altri precedenti (v. per es. Cass. Sez. U n. 13701-18) quell’ordinanza ha in generale rilevato che, anche dopo le modifiche apportate dalla l. n. 15 del 2005 all’art. 11 l. n. 241 del 1990, spetta al giudice amministrativo la cognizione delle controversie relative “agli accordi integrativi del contenuto di provvedimenti amministrativi in materia concessoria”, poiché, come precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 179 del 2016, tali accordi costituiscono pur sempre espressione del potere discrezionale della P.A., anche se esercitato in via indiretta o mediata, e devono essere assoggettati al sindacato del giudice a cui appartiene la cognizione sull’esercizio di tale potere.
Giova dire che la linea di tendenza tesa a identificare nella convenzione un atto di esercizio della potestà pubblica non è stata contraddetta neppure quando si è osservato che è possibile devolvere in arbitrato la pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo – provvedimento identificabile, appunto, nell’omessa sottoscrizione di un nuovo schema di convenzione urbanistica -, ove la condotta della pubblica amministrazione si assuma difforme dai canoni di correttezza e buona fede (v. Cass. Sez. U n. 12428-21).
VIII. – La portata del principio affermato dall’ordinanza n. 27768-20 si estende alla controversia in esame.
Non può affermarsi che la presente causa coinvolga elementi essenziali distintivi tali da indurre, come dice il comune ricorrente, a una soluzione diversa.
Dalla motivazione dell’ordinanza n. 27768 del 2020 si evince che anche allora la stessa convenzione qui rilevante aveva rappresentato, per il tramite del contratto, il titolo dell’azione monitoria (quella volta della società Papa Costruzioni).
Si comprende, cioè, che la pretesa nei confronti del comune di Mozzate aveva trovato base sempre nel rapporto sorto tra le parti con “la convenzione area PEEP di via Brera del 5 marzo 2008″; mentre con atto pubblico successivo (del 22 maggio 2009) era stata sottoscritta – tra il comune di Mozzate, la Mozzate Patrimonio e la Papa Costruzioni s.r.l. – un’altra convenzione “relativa agli interventi di edilizia abitativa convenzionata di cui al comparto Brera”, con cui la società Mozzate Patrimonio si era sostituita al comune quale soggetto proprietario e gestore degli alloggi da edificare e si era impegnata ad acquistare gli stessi e ad accollarsi il mutuo acceso dall’impresa.
L’avere l’ordinanza richiamata stabilito che “l’oggetto del giudizio si risolve(va) dunque nell’interpretazione di tali due convenzioni e nel conseguente accertamento dei diritti e degli obblighi che dalle stesse sorgono” rifluisce anche nell’odierna fattispecie, perché l’ordinanza ha premesso che l’atto del 5-3-2008 era da qualificare esso stesso come rappresentativo della convenzione urbanistica, così da rientrare nel paradigma degli “accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo” di cui all’art. 133, lett. a), n. 2), del cod. proc. amm.
Si era trattato cioè di uno strumento negoziale attraverso il quale il comune, nell’esercizio della propria potestà di governo del territorio, aveva concretamente attribuito la destinazione a edilizia residenziale pubblica al terreno di cui la società Papa era contestualmente divenuta proprietaria.
IX. – Tale unitaria qualificazione non è più suscettibile di esser messa in discussione come effetto del giudicato esterno.
La conseguenza è che la controversia, sebbene involgente il medesimo rapporto per iniziativa, questa volta, della parte pubblica (v. sempre C. cost. n. 179-16), resta da annoverare nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.
Sussiste infatti la giurisdizione esclusiva di quel giudice quanto agli accordi integrativi del contenuto di provvedimenti amministrativi di natura concessoria, i quali, costituendo anche essi espressione – dopo le modifiche apportate dalla L. n. 15 del 2005, art. 7 alla L. n. 241 del 1990, art. 11, – di un potere discrezionale della P.A., sono assoggettati al sindacato del giudice a cui appartiene la cognizione sull’esercizio di tale potere (v. anche Cass. Sez. U n. 13701-18 e da ultimo Cass. Sez. U n. 11713-23).
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo dinanzi al quale rimette le parti anche per le spese del regolamento.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili,
Allegati:
SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20473, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 19 giugno 2023, n. 17532
Civile Ord. Sez. U Num. 17532 Anno 2023
Presidente: CIRILLO ETTORE
Relatore: FEDERICI FRANCESCO
Data pubblicazione: 19/06/2023
Regolamento preventivo
di giurisdizione
ORDINANZA
Sul ricorso n. 21662-2022, proposto da:
SIMONI Alberto, c.f. SMNLRT87M01C912Z, DAVIDE LUCIANI, c.f. LCNDVD64A12C912T, IMMOBILIARE FUTURA S.r.l., c.f. 01429760398, MATTIA INVESTIMENTI IMMOBILIARI S.r.l., c.f. 01864530389, entrambe in persona del legale rappresentante p.t., tutti rappresentati e assistiti dagli avv. Federico Gualandi e Francesca Minotti, digitalmente domiciliati all’indirizzo PEC avv.federicogua-landi@ordineavvocatibopec.it –
Ricorrenti
CONTRO
COMUNE DI COMACCHIO, c.f. 00342190386, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Cristiana Carpani, digitalmente domiciliato all’indirizzo PEC cristianacarpani@ordineavvocatibopec.it –
Resistente
per regolamento preventivo di giurisdizione nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Ferrara, iscritto al NRG 2740 del 2021.
udita la relazione della causa svolta dal Consigliere dott. Francesco Federici nella camera di consiglio del 18 aprile 2023;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale dott. Fulvio Troncone, il quale ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo.
RILEVATO CHE
La controversia trova genesi nell’acquisto, operato dai ricorrenti in data 22 novembre 2007, di un lotto di terreno edificabile, sito nel Comune di Comacchio. La cessione dell’area si era perfezionata sul presupposto che la società venditrice, “DEGLI INN” s.r.l., in data 17 novembre 2007 aveva ottenuto il permesso di costruire n. 103/2007 per la realizzazione di un edificio residenziale, composto da quattro unità abitative. Il permesso era stato volturato il 23 gennaio 2008. Successivamente il Sindaco del Comune di Comacchio aveva tuttavia chiesto approfondimenti sulla legittimità del rilascio del permesso, compresi pareri della Provincia di Ferrara e della Regione Emilia-Romagna. All’esito della verifica il Comune di Comacchio aveva disposto la sospensione dei lavori e quindi l’annullamento del permesso di costruire.
Seguì un lungo contenzioso dinanzi al TAR Emilia-Romagna e poi al Consiglio di Stato, nel quale gli odierni ricorrenti risultarono soccombenti. I giudici amministrativi rilevarono che il PRG del Comune di Comacchio era in contrasto con il Piano territoriale di Coordinamento Provinciale nella parte in cui consentiva interventi di nuova edificazione in aree nelle quali il PTCP della Provincia di Ferrara li escludeva, con conseguente legittimità di tutti i provvedimenti comunali -oggetto di impugnazione- finalizzati ad impedire la realizzazione del fabbricato.
Esaurito il contenzioso dinanzi alla giurisdizione amministrativa, i ricorrenti hanno riferito di aver “appreso” che il Comune aveva proceduto all’acquisizione coattiva dell’area, senza averne titolo di legittimazione. Hanno sostenuto che tale trasferimento coattivo era avvenuto «in forza di una norma, l’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, che pacificamente non può trovare applicazione nel caso di specie in quanto riferita espressamente solo alle ipotesi di immobili abusivi perché ab origine costruiti in assenza di titolo abilitativo e non anche a quella di immobili divenuti suscettibili di demolizione a causa del sopravvenuto annullamento del titolo edilizio (ma che invece, al momento della loro realizzazione, esisteva ed era perfettamente valido ed efficace). Per questi ultimi, l’acquisizione gratuita al patrimonio del Comune non è prevista e, conseguentemente, anche a prescindere dalla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, l’Ente non può considerarsi legittimo proprietario dell’area di cui sono invece senz’altro titolari, per la quota di ¼ ciascuno, gli odierni ricorrenti. Di qui, l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c. proposta innanzi al Tribunale di Ferrara».
Al Tribunale è stato pertanto richiesto «in via incidentale: – disapplicare eventuali provvedimenti amministrativi illegittimi e lesivi del diritto di proprietà degli odierni Attori con particolare riferimento ad un eventuale atto con cui si sia inteso accertare l’inottemperanza all’ordine di demolizione ai sensi e per gli effetti dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001; in via principale: – accertare e dichiarare l’esclusiva proprietà degli odierni Attori sull’area sita in Comune di Comacchio e catastalmente censita al N.C.E.U. del predetto Comune al foglio 50, part. 738 nonché l’inesistenza di qualsivoglia diritto reale del Comune convenuto; – condannare il Comune di Comacchio alla restituzione del possesso del bene, ordinando a quest’ultimo di desistere da ogni ulteriore pretesa sui beni per cui vi è causa. Vinte le spese di lite”».
Poiché nel giudizio introdotto dinanzi al Tribunale di Ferrara il convenuto Comune di Comacchio ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, i ricorrenti hanno proposto regolamento preventivo di giurisdizione, ai sensi dell’art. 41 cod. proc. civ., chiedendo il riconoscimento della giurisdizione del giudice ordinario.
Il Comune di Comacchio ha resistito con controricorso, a tal fine insistendo sul riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo.
L’Ufficio della Procura Generale, che ha presentato conclusioni scritte, ha chiesto di dichiarare il difetto di giurisdizione del Tribunale di Ferrara, disponendo la prosecuzione del giudizio innanzi al giudice amministrativo competente per territorio.
In prossimità della adunanza camerale il Comune ha ritualmente e tempestivamente depositato memoria illustrativa.
Considerato che
I ricorrenti assumono che l’oggetto del giudizio promosso dinanzi al Tribunale di Ferrara sia riconducibile alla giurisdizione del giudice ordinario.
Ritengono che la domanda introdotta sia finalizzata alla tutela del proprio diritto di proprietà sull’area, che il Comune di Comacchio ha coattivamente acquisito dopo l’annullamento del permesso di costruire, già regolarmente rilasciato, sul presupposto della non conformità del PRG al Piano Territoriale di coordinamento provinciale, e dunque della illegittimità dell’atto autorizzatorio.
Assumono che, non versandosi nell’ipotesi di manufatto realizzato in assenza del permesso di costruire o in sua totale o parziale difformità, bensì nella diversa fattispecie della costruzione erigenda nel rispetto di un provvedimento autorizzatorio, solo successivamente annullato, non era applicabile l’art. 31, bensì l’art. 38 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il quale, nel disciplinare gli interventi edilizi eseguiti in base ad un permesso rilasciato e poi annullato, prevede che «[…] qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. […] 2. L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36».
Sostengono che tale norma non prevede l’acquisizione dell’area, pur quando manchino i presupposti per la definizione in sanatoria. Pertanto la pubblica amministrazione avrebbe operato il trasferimento dominicale in carenza di potere e rispetto a tale condotta materiale i ricorrenti, titolari di un diritto e non di un interesse legittimo, hanno inteso adire il giudice ordinario di Ferrara con l’azione di rivendicazione ex art. 948 cod. civ.
Rispetto alle obiezioni del Comune convenuto affermano che è irrilevante che l’acquisizione dell’area sia stata preceduta dall’ordinanza di demolizione e dagli atti di accertamento della relativa ottemperanza, e ciò sia per il criterio del petitum sostanziale, con riguardo alla natura di accertamento petitorio introdotto dinanzi al Tribunale di Ferrara, sia per l’irrilevanza di qualunque potestà pubblica vantata dal Comune di Comacchio, poiché è proprio questa ad essere stata contestata dai ricorrenti dinanzi al giudice ordinario.
L’ente territoriale confuta le ragioni avverse, evidenziando i motivi su cui si fonda il provvedimento di annullamento del permesso di costruire, ossia: «a) contrasto con l’art. 13 del PTPR; b) contrasto con gli artt. 13 e 20 del PTCP vigente; c) contrasto con l’art. 8 del Piano di Stazione Centro Storico di Comacchio (Piano del Parco); d) contrasto con quanto espresso dal Settore Pianificazione della Provincia di Ferrara in data 29.2.2008; e) contrasto con quanto espresso dalla Direzione Generale Programmazione Territoriale della Regione Emilia Romagna in data 3.3.2008; […] g) contrasto con l’avvenuto accertamento dell’area come “soggetta a mareggiate“; h) contrasto con l’avvenuto accertamento che l’intervento ricade, parzialmente, in area demaniale; g) contrasto con il vincolo archeologico».
Rappresentando quindi la vicenda nei suoi sviluppi procedimentali, riferisce che «In data 9 giugno 2008 è stata emessa l’Ordinanza n. 283 […] con la quale il Dirigente ha ordinato la demolizione delle opere realizzate sulla base del permesso di costruire annullato ed il ripristino dei luoghi entro 90 giorni dalla notificazione del provvedimento medesimo, pena l’acquisizione di diritto al patrimonio del Comune del bene immobile illegittimamente realizzato, nonché dell’area di sedime. Con l’ulteriore avvertenza che l’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione avrebbe costituito titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari. Risale al 13 ottobre 2008 il primo sopralluogo eseguito dal Corpo di Polizia Municipale di Comacchio, all’esito del quale è stata accertata l’inottemperanza alla Ordinanza n. 283/2008 […]. Risale al 6 novembre 2009 il secondo sopralluogo, sempre effettuato dal Corpo di Polizia Municipale di Comacchio, all’esito del quale si è accertato che all’Ordinanza di demolizione n. 283/2008 non era stata data esecuzione […]. Tutti i predetti provvedimenti sono stati oggetto di impugnativa avanti il TAR per l’Emilia Romagna, il quale ultimo con sentenza n. 2649/2009 […] ha respinto il ricorso confermando la legittimità dei provvedimenti adottati dal Comune di Comacchio. Il TAR ha, altresì, respinto l’istanza risarcitoria formulata con il ricorso introduttivo. Detta pronuncia è stata, poi, confermata in grado di appello dalla Sez. IV del Consiglio di Stato con la sentenza n. 7491/2010 […] e ciò anche sulla base di motivazioni ulteriori rispetto a quelle addotte dal primo Giudice. In particolare, la Sez. IV del Consiglio di Stato ha nuovamente: 1) respinto la doglianza con la quale si assumeva che il PRG del Comune di Comacchio, essendo stato approvato dopo la vigenza del PTCP, sarebbe stato da ritenere a quest’ultimo conforme; 2) respinto la pretesa risarcitoria. […]. Definito il contenzioso […], il Comune di Comacchio ha, quindi, provveduto in data 28 febbraio 2019 alla redazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, del Verbale di constatazione e verifica dal quale emerge che gli attori “…non ottemperavano all’ordinanza di demolizione n. 283/2008 del 09/6/2008 debitamente notificata agli stessi in data 10 giugno 2008…” […] Detto provvedimento non è stato oggetto di impugnazione. Conseguentemente, il competente Dirigente comunale ha emesso, sempre ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 13 della Legge Regionale n. 23/2004, l’atto prot. n. 14889 del 6 marzo 2019 […] recante l’accertamento della inottemperanza all’ordinanza di demolizione; accertamento che ai sensi delle cit. disposizioni “…costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione gratuita nei registri immobiliari del bene, dell’area identificata nel Comune di Comacchio al Fg. 50 mapp. 378…la cui superficie rientra nei limiti definiti all’art. 31 comma 3 del DPR 380/2001 e s.m.i.”. Anche detto provvedimento è stato notificato agli attuali attori ed è divenuto definitivo, in quanto non oggetto di impugnazione. Da ciò l’inoltro il 25 gennaio 2021 di tutti gli atti alla Agenzia delle Entrate di Ferrara […], la quale ultima in data 3 febbraio 2021 ha provveduto alla trascrizione nei registri immobiliari, conseguente all’accertamento della mancata ottemperanza alla ordinanza di demolizione ex art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 […]».
Riassunta la vicenda nei termini ora riportati, la controricorrente contesta la giurisdizione del giudice ordinario perché non vi è stata alcuna acquisizione coattiva dell’area. Al contrario, sulla base di una sequenza procedimentale accertata come pienamente legittima, e rispetto ai cui atti conclusivi i ricorrenti hanno prestato piena acquiescenza (verbale di constatazione di inottemperanza all’ordinanza di demolizione del 28 febbraio 2019; atto d’accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione del 6 marzo 2019, entrambi ritualmente notificati alle parti -con successivo inoltro degli atti all’Agenzia delle entrate per la trascrizione nei registri immobiliari-), si è semplicemente verificato un “trasferimento ex lege” dell’area, secondo previsione normativa.
Queste le rispettive posizioni, va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo.
Premesso che i fatti e le vicende processuali sono incontestati, con consolidato indirizzo interpretativo questa Corte ha affermato che la giurisdizione si determina sulla base della domanda, e, quanto al riparto tra giudice ordinario e amministrativo, non ha rilevanza la prospettazione della parte, ma il cd. petitum sostanziale, da identificarsi non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione chiesta al giudice, quanto sulla base della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati a fondamento della pretesa fatta valere con l’atto introduttivo della lite ed al rapporto giuridico di cui sono espressione (già Sez. U, 8 maggio 2007, n. 10374; 25 giugno 2010, n. 15323; tra le più recenti, ex multis, Sez. U, 27 luglio 2022, n. 23436; 21 settembre 2021, n. 25480; 8 luglio 2020, n. 14231; 15 settembre 2017, n. 21522).
Quanto al riparto della giurisdizione, in ipotesi di acquisizione di area occupata da un manufatto realizzato in difformità o in carenza, anche sopravvenuta, del provvedimento autorizzatorio, è stata ad esempio affermata la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella controversia promossa dal proprietario dell’area che, per non essere l’autore della condotta abusiva -addebitabile invece al coniuge- aveva chiesto la restituzione del terreno, previo accertamento del suo diritto di proprietà e la declaratoria di nullità dell’ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale, emessa ai sensi dell’art. 15 legge n. 10 del 1977. Ciò perché l’oggetto immediato e diretto della controversia è stato identificato nell’ordinanza di acquisizione, della cui legittimità si discuteva (Sez. U, 12 gennaio 2007, n. 417; 26 gennaio 2011, n. 1776).
In tema di applicazione di sanzioni pecuniarie, nell’ipotesi di accertata impossibilità di dare esecuzione all’attività ripristinatoria dello stato dei luoghi, e dunque quale sanzione sostitutiva dell’ordine di demolizione, si è peraltro affermato che la controversia avente ad oggetto la sanzione pecuniaria irrogata ai sensi dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, anche se relativa solo al quantum, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, poiché, seppur afferente al diritto soggettivo a non subire una prestazione patrimoniale non prevista dalla legge, è legata da un nesso di stretta pregiudizialità-dipendenza con il rapporto amministrativo concernente l’uso del territorio, che presuppone l’esercizio del potere amministrativo di demolizione dell’opera edilizia realizzata in assenza o totale difformità dal permesso (Sez. U, 14 febbraio 2023, n. 4607; cfr. anche Sez. U, 11 maggio 2021, n. 12429).
Si tratta di precedenti non sovrapponibili al caso di specie, ma nei quali, ai fini della individuazione del plesso giurisdizionale, nel cui alveo è stata riportata la lite, si è valorizzata la riconducibilità mediata del rapporto dedotto in giudizio all’esercizio del potere amministrativo avente ad oggetto l’uso del territorio.
Il medesimo principio trova conferma laddove si è riconosciuta la giurisdizione ordinaria per una domanda con cui il beneficiario di un permesso di costruire, successivamente annullato in autotutela in quanto illegittimo, aveva invocato la risoluzione del contratto di compravendita del terreno, nonché la condanna della P.A. al risarcimento dei danni conseguenti alla lesione dell’incolpevole affidamento sulla legittimità del predetto atto ampliativo. In questo caso, si è affermato, la causa petendi della domanda risiedeva non già nella lesione di un interesse legittimo pretensivo (giacché non era in discussione la legittimità del disposto annullamento) ma nella lesione del diritto soggettivo all’integrità del patrimonio; pertanto ai fini del petitum sostanziale il provvedimento amministrativo non rilevava in sé, quale elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria, della cui illegittimità il giudice è chiamato a conoscere principaliter, ma come fatto, rilevabile incidenter tantum, che aveva dato causa all’evento dannoso subìto dal patrimonio del privato (Sez. U, 8 luglio 2020, n. 14231).
Tornando dunque al caso ora all’esame della Corte, secondo la prospettazione dei ricorrenti la circostanza che l’illegittimità della costruzione sia dovuta non già ad una assenza originaria del permesso di costruire, o ad una difformità dell’opera dall’atto autorizzatorio, ma ad un successivo venir meno dell’atto amministrativo, essendo riconducibile nella fattispecie regolata dall’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001, che non contempla espressamente l’acquisizione ex lege al patrimonio comunale dell’area su cui insiste il manufatto abusivo, tradurrebbe l’attività acquisitiva posta in essere dall’ente territoriale in una mera condotta materiale, avverso la quale il privato avrebbe diritto di ricorrere alla tutela apprestata dall’azione petitoria, ex art. 948 cod. civ., dinanzi al G.O.
Pur prescindendo da ogni riferimento agli effetti del mancato adempimento all’ordine di demolizione e ripristino, previsto anche dall’art. 38 cit., e pur senza voler richiamare i limiti operativi della predetta norma (ad es. cfr. Consiglio di Stato, 7 settembre 2020, n. 17), la prospettazione difensiva dei ricorrenti si infrange dinanzi alla inevitabile collocazione dell’atto acquisitivo dell’area di sedime del manufatto, ormai illegittimo, nella complessiva sequenza procedimentale amministrativa sviluppatasi ed ora conclusa.
Al rilascio del permesso di costruire e all’inizio dell’attività edificatoria è infatti seguito l’annullamento del provvedimento autorizzatorio e l’emissione dell’ordinanza di demolizione, generatore di un contenzioso definito dinanzi alla giurisdizione amministrativa con il rigetto delle ragioni, anche quelle risarcitorie, dei ricorrenti. A conclusione del contenzioso sono seguiti il verbale di constatazione di inottemperanza all’ordinanza di demolizione, del 28 febbraio 2019, e l’atto d’accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione, del 6 marzo 2019, mai impugnati, con successivo inoltro degli atti all’Agenzia delle entrate per la trascrizione nei registri immobiliari.
Proprio con attenzione ai fatti dedotti a fondamento della pretesa fatta valere dai ricorrenti, emerge dunque che, a prescindere dalla invocazione della tutela petitoria, il petitum sostanziale è indirizzato a contestare gli effetti della sequenza degli atti amministrativi posti in essere dal Comune di Comacchio, a seguito dell’annullamento del permesso a costruire e della ingiunzione di demolizione del manufatto illegittimo.
In tale contesto i diritti, dei quali i ricorrenti lamentano la lesione, vanno rapportati e ricondotti nell’alveo della sequenza procedimentale amministrativa, tenendo peraltro conto degli atti conclusivi del procedimento acquisitivo al patrimonio comunale delle aree oggetto di lite (che non risultano neppure impugnati).
Si tratta di una fattispecie che, a prescindere dalla tutela formalmente invocata dai ricorrenti, sottopone al vaglio della giurisdizione un rapporto giuridico mediatamente riconducibile all’esercizio del potere amministrativo, avente ad oggetto l’uso del territorio, secondo la regola del petitum sostanziale.
Deve pertanto dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte a Sezioni Unite dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo.
Condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese sostenute dal Comune controricorrente, che si liquidano nella misura di € 6.000,00 per competenze ed € 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle sezioni unite del 18 aprile
Allegati:
SS.UU, 19 giugno 2023, n. 17532, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di eccesso di potere giurisdizionale – SS.UU, 06 giugno 2023, n. 15934
Civile Ord. Sez. U Num. 15934 Anno 2023
Presidente: RAIMONDI GUIDO
Relatore: MARULLI MARCO
Data pubblicazione: 06/06/2023
ORDINANZA
sul ricorso 6413-2022 proposto da:
PENELOPE SPV, e per essa, quale procuratrice di INTRUM ITALY S.P.A. (già TERSIA S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, Via Cicerone n. 44 presso lo studio dell’avvocato Mariano Protto, rappresentata e difesa dell’avvocato MARCO SICA;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI PESCIA, in persona del Commissario prefettizio pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOVANNI DA PALESTRINA 63, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO TURCO, rappresentato e difeso dall’avvocato GAETANO VICICONTE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5997/2021 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 23/08/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/05/2023 dal Consigliere MARCO MARULLI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA, il quale chiede alla Corte di dichiarare inammissibile il ricorso.
FATTI DI CAUSA
1.1. Con sentenza n. 1158/2018 pubblicata il 30.8.2018 il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana aveva dichiarato inammissibile il ricorso promosso dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia – cui, nelle more dell’odierno giudizio, sarebbe subentrata, in qualità di cessionaria del relativo credito, l’attuale ricorrente Penelope Spv – per l’annullamento degli atti a mezzo dei quali il Comune di Pescia, in relazione agli abusi edilizi di cui erano stati oggetto, aveva proceduto ad ordinare la demolizione, prima, e l’acquisizione, poi, degli immobili già di proprietà della Toscana Re gravati da ipoteca a favore della banca a garanzia dell’adempimento degli obblighi restitutori contratti dalla prima a fronte del mutuo concessole dalla seconda, immobili che la banca, malgrado l’inadempimento della mutuataria, non aveva potuto sottoporre ad espropriazione poiché il provvedimento di acquisizione adottato dal Comune aveva determinato l’automatica caducazione del vincolo ipotecario e la conseguente insoddisfazione delle riflesse ragioni di credito da esso garantite.
1.2. Nel motivare le ragioni del proprio pronunciamento, il giudice di prima istanza aveva giudicato il ricorso della banca carente in punto di legittimazione attiva e di interesse ad agire. Da un lato, infatti, la ricorrente, tenuto conto della sua estraneità rispetto alla vicenda che aveva impegnato il Comune e Toscana Re, non poteva reputarsi titolare di una posizione differenziata in grado di porla in relazione diretta con l’atto oggetto di impugnativa, sicché la sua condizione non era diversa da quella di chi, più generalmente, si renda portatore di un’aspirazione alla mera ed astratta legittimità dell’azione amministrativa, il che, sotto il profilo processuale, se fosse stata verificata la sussistenza dell’iscrizione ipotecaria, ne avrebbe al più giustificato l’intervento ad adiuvandum, semmai gli atti sospettati di illegittimità fossero stati impugnati dalla Toscana Re, circostanza, tuttavia non verificatasi nella specie, tanto che detti atti erano divenuti definitivi e non più modificabili; dall’altro, non si sarebbe potuto riconoscere in capo all’istante neanche l’interesse ad agire, non essendo l’attività acquisitiva, in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, attività discrezionale, ma attività vincolata per legge ed essendo per contro la caducazione dell’ipoteca diretto effetto di ciò, con la conseguenza che i beni in questione non avrebbero potuto perciò costituire oggetto di sequela e di soddisfazione in via coattiva delle ragioni della creditrice.
1.3. Pur non condividendo questa impostazione – è ben vero che il terzo ipotecario resta fuori dal circuito relazionale e dal contraddittorio tra pubblica amministrazione e proprietario del bene, ma non può negarsi la natura pregiudizievole della situazione di fatto a cui il terzo ipotecario sarebbe, nel caso di specie, andato incontro – il Consiglio di Stato, adito dalla soccombente in sede di gravame, ha tuttavia ritenuto di non poterne accoglierne le ragioni, rigettando nel merito il proposto atto di appello.
1.4. A fondamento di ciò il decidente pone la considerazione, reiteratamente enunciata da questa Corte, secondo cui l’ordinanza di acquisizione degli immobili abusivi o abusivamente trasformati, alla cui adozione il Comune procede in caso di inosservanza dell’ordine di demolizione, determina in capo al procedente l’acquisto a titolo originario del bene che ne è oggetto, assolvendo in tale veste alla duplice funzione di sanzionare i comportamenti illeciti di cui il destinatario si è reso responsabile e di prevenire la perseveranza nel tempo dei loro effetti dannosi. In questo contesto, l’acquisto del bene a titolo originario comporta la caducazione di tutti i diritti preesistenti, ivi compresi i diritti di garanzia, sicché la procedura esecutiva instaurata dal creditore ipotecario nei confronti del manufatto abusivo, già gravato da iscrizione a proprio favore, è improduttiva di qualsivoglia effetto stante l’originarietà dell’acquisto operato dall’ente pubblico. Se questo rende, quindi, indifferenti le ragioni di gravame che si fanno valere con riferimento alla preesistenza dell’iscrizione ipotecaria ovvero al carattere vincolato dell’ordine di acquisizione o ancora alla mancata motivazione dell’ordine di demolizione rispetto alle ragioni del terzo ipotecario, ciò nondimeno il terzo ipotecario, pure leso come detto nella propria aspettativa creditoria e come tale legittimato ad agire in giudizio per vedere riconosciute le proprie ragioni, non resta per questo privo di tutela, potendo infatti sempre provare l’illegittimità del provvedimento caducatorio che ne pregiudica il diritto, dato che la recessività dell’iscrizione ipotecaria rispetto all’acquisizione ex lege del bene abusivo postula in ogni caso l’accertata sussistenza della relativa condotta illecita. Su questo fronte, osserva conclusivamente il decidente, la tesi impugnante si rivela tuttavia priva di fondamento: le contestazioni in ordine all’illegittimo modus procedendi del Comune sono infatti generiche ed inidonee a sconfessare gli addebiti puntualmente contestati, mentre l’allegato difetto di notificazione dei provvedimenti impugnati non è circostanza che può essere fatta valere dall’impugnante, giacché i provvedimenti di che trattasi sono stati notificati ai soggetti previsti dalla legge, tra i quali non è ricompreso il terzo ipotecario.
1.5. Impugnando detta pronuncia avanti a questa Corte la ricorrente ne lamenta l’eccesso o il difetto di giurisdizione; e di ciò chiede giustizia sulla base di cinque motivi di ricorso, seguiti da memoria e resistiti con controricorso e memoria dal Comune di Pescia, mentre non ha svolto attività processuale Toscana Re.
Requisitorie scritte del Procuratore Generale che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
2.1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta che la decisione impugnata sarebbe affetta da eccesso di potere giurisdizionale, segnatamente sotto il profilo del rifiuto di giurisdizione, posto che il Consiglio di Stato, pur riconoscendo la legittimazione della banca, aveva tuttavia omesso di pronunciarsi su quanto da essa denunciato, ritenendo erroneamente che essa potesse tutelare le proprie ragioni solo dimostrando, nell’incardinato giudizio amministrativo, l’illegittimità degli atti impugnati per insussistenza degli abusi sanzionati. Più in dettaglio, sostiene l’impugnante, censurando il capo della decisione che a questo fine aveva fatto leva sull’estraneità del terzo ipotecario al circuito relazionale e al contraddittorio tra pubblica amministrazione e proprietario del bene, il principio in parola, ove rettamente inteso, avrebbe dovuto condurre a conclusioni diametralmente diverse da quelle enunciate, in quanto, proprio perché estraneo all’abuso edilizio, il creditore ipotecario doveva essere messo in condizione di tutelare i propri diritti prima che l’amministrazione adottasse l’atto oggetto di lagnanza, a nulla rilevando, in contrario, l’astratta tutelabilità degli stessi dinanzi al giudice amministrativo, dato che in quella sede il creditore non avrebbe potuto valersi di quegli strumenti, azionabili invece stragiudizialmente, come ad esempio l’istanza in sanatoria, idonei a preservarne il diritto e a scongiurare il pregiudizio diversamente subito.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta che la decisione impugnata sarebbe affetta da difetto di giurisdizione per eccesso di potere giurisdizionale, segnatamente, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera amministrativa, posto che il Consiglio di Stato, nel rigettare, sul presupposto della ritenuta recessività dell’ipoteca rispetto al provvedimento di acquisizione, il terzo ed il quarto motivo del ricorso avanti a sé – intesi a contestare l’illegittimità del provvedimento di acquisizione per la preesistenza dell’iscrizione ipotecaria ovvero il carattere vincolato dell’ordine di acquisizione o, ancora, la mancata motivazione dell’ordine di demolizione rispetto alle ragioni del terzo ipotecario – si sarebbe sostituito, nel rapporto con il terzo ipotecario, alla pubblica amministrazione, negando che il primo potesse attivarsi per tutelare le proprie ragioni prima che il bene fosse acquisito al patrimonio pubblico. Più in dettaglio, sostiene l’impugnante, censurando ancora il capo della decisione che a questo fine aveva fatto leva sull’estraneità del terzo ipotecario al circuito relazionale e al contraddittorio tra pubblica amministrazione e proprietario del bene, valutare l’apporto del privato nel procedimento che porta all’acquisizione del bene è compito che pertiene in prima battuta alla legge, che disciplina i diritti di partecipazione in campo amministrativo ed il diritto alla conservazione delle garanzie patrimoniali in campo civile, e quindi all’amministrazione, non potendo ritenersi a priori che l’apporto della banca in questo contesto sarebbe stato in ogni caso irrilevante, in ciò per vero evidenziandosi un’ulteriore ragione di censura sotto il profilo del sindacato di poteri non esercitati.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta che la decisione impugnata sarebbe affetta da un difetto di giurisdizione per eccesso di potere giurisdizionale, sotto il profilo della violazione del doppio grado di giurisdizione, posto che il Consiglio di Stato, pur rilevando l’errore in cui era caduto il primo giudice dichiarando inammissibile il ricorso della banca, in luogo di rimettergli gli atti per la rinnovazione del giudizio, aveva statuito nel merito rigettando le doglianze dell’appellante. Più in dettaglio, sostiene l’impugnante, illustrando le ragioni per le quali, sotto il profilo della tutela dei diritti della difesa, della riconoscibilità in parte qua di un rifiuto di giurisdizione e della possibile violazione degli obblighi motivazionali, il vizio denunciato infirma alla radice la decisione gravata, la rilevanza di esso non sarebbe esclusa dall’effetto devolutivo proprio del giudizio di appello, poiché, avendo il decidente ricusato dei esaminare le censure sollevate in primo grado, si renderebbe in ciò riconoscibile appunto il denunciato rifiuto di giurisdizione.
2.4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta che la decisione impugnata sarebbe affetta da difetto di giurisdizione per eccesso di potere giurisdizionale, nonché da un rifiuto di giurisdizione, segnatamente sotto il profilo della violazione dell’art. 13 CEDU, posto che il Consiglio di Stato, statuendo nei riferiti termini, aveva negato il diritto della banca a vedere efficacemente tutelate le proprie ragioni. Più in dettaglio, sostiene l’impugnante, la denunciata violazione si renderebbe ravvisabile nell’aver essa negato alla banca, sul presupposto del principio di recessività dell’ipoteca rispetto all’acquisizione del bene al patrimonio pubblico, di poter far valere le proprie ragioni in sede amministrativa, nonché nell’aver accollato alla stessa, ritenendo che essa potesse vedere riconosciute le proprie ragioni solo dimostrando il giudizio l’insussistenza dell’abuso sanzionato, una prova diabolica, essendo essa del tutto estranea alla sua consumazione.
2.5. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta che la decisione impugnata sarebbe affetta da difetto di giurisdizione per eccesso di potere giurisdizionale, segnatamente sotto il profilo della violazione del primo protocollo aggiuntivo della CEDU, della violazione degli artt. 6 e 13 CEDU, della violazione degli art. 3, 24 e 113 Cost. e della violazione del principio di proporzionalità, posto che il Consiglio di Stato, pur investito delle corrispondenti questioni, aveva omesso di pronunciarsi in ordine ai vizi dedotti con riferimento alla citate norme sovranazionali. Più in dettaglio, sostiene l’impugnante, censurando il capo della decisione che, richiamando l’art. 31 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, aveva convenuto sull’automatica caducazione della garanzia ipotecaria a fronte dell’intervenuta acquisizione alla sfera pubblica del bene abusivo, la norma richiamata non prevede che il Comune possa unilateralmente estinguere l’ipoteca gravante sul bene da esso acquisito o possa pregiudicarne altrimenti il diritto del creditore, sicché un’interpretazione costituzionalmente orientata di essa, conforme inoltre ai soprarichiamati principi sovranazionali ed in linea con il principio di proporzionalità tra illecito e sanzione, avrebbe dovuto condurre alla ben diversa conclusione di ritenere illegittimi i provvedimenti impugnati, tanto più considerando il pregiudizio in tal modo sofferto dal diritto di difesa di essa impugnante che, se i beni fossero stati trasferiti a terzi, avrebbe potuto comunque rivalersi su di essi.
3. Tutti i sopradetti motivi si prestano ad una comune declaratoria di inammissibilità in quanto volti a denunciare violazioni di legge o, al più, errores in iudicando, che, afferendo ai limiti interni della giurisdizione affidata al giudice speciale, fuoriescono dal perimetro entro cui si esercita il controllo di giurisdizione previsto dagli artt. 111, comma 8, Cost. e 362 cod. proc. civ.
4. È bene a questo riguardo fissare inizialmente le coordinate di principio entro cui si situa l’odierno contenzioso, anche per evitare di alimentare facili suggestioni indotte dalla convinzione – su cui pure si sofferma il controricorrente – che il controllo di giurisdizione che l’ordinamento processuale affida alle SS.UU. di questa Corte sulle sentenze dei giudici speciali, in vista di un concetto “dinamico” di giurisdizione o, se si vuole, di una concezione della tutela giurisdizionale nel senso più ampio accordato dal diritto unionale, possa estendersi ben oltre i limiti indicati con chiarezza dal legislatore costituente.
Non è allora inopportuno ricordare che la Corte Costituzionale, nel rigettare con sentenza 6/2018 la questione di legittimità costituzionale a tale riguardo sollevata dalle SS.UU. di questa Corte con ordinanza 6891/2016, ha, tra l’altro, affermato che il controllo di giurisdizione previsto dall’art. 111, comma 8, Cost. «attinge il suo significato e il suo valore dalla contrapposizione con il precedente comma settimo, che prevede il generale ricorso in cassazione per violazione di legge contro le sentenze degli altri giudici, contrapposizione evidenziata dalla specificazione che il ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è ammesso per i “soli” motivi inerenti alla giurisdizione». Deve di conseguenza «ritenersi inammissibile ogni interpretazione di tali motivi che, sconfinando dal loro ambito tradizionale, comporti una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso». «L'”eccesso di potere giudiziario”, denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici».
Costituisce, in ragione di ciò, perciò ius receptum il principio, stabilizzatosi nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite a seguito del riportato dictum di costituzionalità (in motivazione, ex multis, Cass., Sez. U, 9/11/2022, n. 33075; Cass., Sez. U, 7-12-2021, n. 38978; Cass., Sez. U, 14/01/2020, n. 413) e, rafforzatosi in maniera significativa (Cass., Sez. U, 15/11/2022, n. 33641; Cass., Sez. U, 9/11/2022, n. 33100; Cass., Sez. U, 10/10/2022, n. 29502) dopo Corte Giust., 21.12.2021, C-497/20, Randstad Italia – che, com’è noto, negando che sia contraria all’ordinamento unionale una disposizione di diritto interno che renda insindacabile la decisione del giudice speciale di ultima istanza anche quando si assuma che essa contrasti con il diritto dell’Unione, ha, allo stato, posto un punto fermo nella discussione in materia – secondo cui il controllo esercitabile dalla Corte di Cassazione sulle decisione dei giudici speciale ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost. è circoscritto alle sole questioni inerenti alla giurisdizione, cioè al controllo dell’osservanza delle norme di diritto che disciplinano i limiti esterni della giurisdizione stessa, ovvero all’esistenza di vizi che attengono all’essenza stessa della funzione giurisdizionale, senza estendersi al modo del suo esercizio, con la conseguenza che con il ricorso per cassazione avverso le decisioni del giudice amministrativo o del giudice contabile non possono essere dedotti altri eventuali errori, in iudicando o in procedendo (così in motivazione Cass., Sez. U, 5/07/2021, n. 18976; Cass., Sez. U, 15/09/2020, n. 19168; Cass., Sez. U, 10/05/2019, n. 12586). In particolare, si è precisato – diversamente assumendo il controllo di giurisdizione una latitudine non dissimile da quella che ha sui provvedimenti del giudice ordinario (Cass., Sez. U, 14/11/2018, n. 29285) – che il controllo del limite esterno della giurisdizione non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori “in iudicando” o “in procedendo“, senza che rilevi la gravità o intensità del presunto errore di interpretazione, il quale rimane confinato entro i limiti interni della giurisdizione amministrativa, considerato che l’interpretazione delle norme costituisce il “proprium” distintivo dell’attività giurisdizionale (Cass., Sez. U, 9/11/2022, n. 33074; Cass., Sez. U, 16/12/2021, n. 40479; Cass., Sez. U, 4/12/2020, n. 27770).
5. Questi pochi rilievi smentiscono alla radice i contrari convincimenti esplicati dalla ricorrente nell’impugnare la decisione in disamina.
6.1. Nessun seguito può invero trovare la doglianza che prende corpo nel primo motivo di ricorso.
Va qui, infatti, previamente ricordato che secondo quel si insegna abitualmente il rifiuto di giurisdizione, in guisa del quale la decisione adottata dal giudice speciale si rende sindacabile sensi dell’art. 362 cod. proc. civ., risulta riconoscibile soltanto se il giudice adito nel declinare la giurisdizione ritenga che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio sia in astratto priva di tutela, ovvero riconosca la giurisdizione del giudice ordinario o di altro giudice speciale (Cass., Sez. U, 30/11/2021, n. 37552).
Orbene il principio, applicato al caso che ne occupa, è con pari effetto preclusivo, illuminante: da un lato è evidente che la doglianza non si accorda con il tenore della decisione, dal momento che il Consiglio di Stato non ha affatto denegato la propria giurisdizione sulla domanda ricorrente, ma, pur riformando l’errata pronuncia del giudice di primo grado che ne aveva decretato l’inammissibilità per il difetto di legittimazione e di interesse all’azione dell’istante e riconoscendone perciò l’astratta tutelabilità avanti a sé, si è pronunciato su di essa pur se per rigettarla nel merito; dall’altro, appuntandosi, come si è visto la doglianza segnatamente sul punto in cui la sentenza ha affermato l’estraneità al circuito relazionale e al contraddittorio tra amministrazione pubblica e proprietario dei beni abusivi del terzo ipotecario, al quale sarebbe perciò precluso di poter interloquire nel relativo procedimento e di poter far valere in quella sede con più efficacia le ragioni del proprio credito, è altrettanto evidente che essa si risolve al più nella denuncia di un vizio del procedimento amministrativo per violazione, ove in concreto ravvisabile, del diritto di partecipazione del terzo interessato.
Nell’uno e nell’altro caso la doglianza si colloca apertamente al di fuori del vizio denunciabile in questa sede.
6.2. Anche il secondo motivo di ricorso si espone a rilievi parimenti preclusivi.
Posto, infatti, che l’eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera riservata al potere discrezionale della P.A., si rende configurabile se la pronuncia adottata dal decidente che non si limiti ad annullare il provvedimento impugnato, rimettendo all’Amministrazione ogni valutazione in ordine al prosieguo della procedura, ma si spinga fino a prefigurare il possibile esito di tale valutazione, individuando un’unica corretta modalità di esercizio della discrezionalità amministrativa (Cass., Sez. U, 18/02/2022, n. 5365), ne discende, ancora una volta, considerando il caso che ne occupa ala luce del prefissato principio, che la doglianza non colga nel segno.
Il Consiglio di Stato ha invero respinto le doglianze argomentate con il terzo ed il quarto motivo del ricorso avanti a sé, a cui si correla la doglianza odierna, all’esito di un sindacato interpretativo che, muovendo dall’iniziale premessa – reiteratamente enunciata dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’acquisizione dell’immobile abusivo, che segue ai sensi dell’art. 31 d.P.R. 380/2001 all’inottemperanza dell’ordine di demolizione, configura un acquisto a titolo originario in capo all’amministrazione procedente e caduca automaticamente tutti i diritti preesistenti, ivi compresi quelli di garanzia – è giunto alla naturale conclusione che le doglianze declinate con riferimento alla preesistenza dell’iscrizione ipotecaria e alla vincolatività ex lege dell’ordine di acquisizione non potessero trovare alcun accoglimento in ragione appunto della natura originaria dell’acquisto operato dalla P.A. e della conseguente recessività rispetto ad esso di ogni vincolo preesistente.
E’ allora evidente, guardando alla doglianza odierna, il duplice vulnus che ne infirma il proponimento: l’impugnata sentenza non prefigura, infatti, alcun esito di un ipotetico ravvedimento amministrativo, escludendo in partenza, che per il rigetto del terzo e del quarto motivo del ricorso avanti a sé, la vicenda debba formare oggetto di rinnovata delibazione in quella sede; ma neppure si mostra qui diversamente sindacabile, rendendosi al riguardo, al più, ipotizzabile un errore di interpretazione in cui sarebbe caduto il giudice speciale, che non è però declinabile quale motivo di impugnazione per eccesso di giurisdizione, l’attività interpretativa del giudice speciale rientrando, infatti, nei limiti interni della giurisdizione affidata al medesimo.
6.3. Rifluiscono infine nel solco di una denuncia che è intesa a censurare l’impugnata decisione sotto il profilo della violazione dei soli limiti interni della giurisdizione che fa capo al giudice speciale e si rendono, perciò, insuscettibili di valutazione sotto il profilo azionato le doglianze declinate con il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso.
Si è già per l’innanzi ricordato che il controllo esercitabile dalla Corte di Cassazione sulle decisioni dei giudici speciale ai sensi degli artt. 111, comma 8, Cost. e 362 cod. proc. civ. è circoscritto alle sole questioni inerenti alla giurisdizione, cioè al controllo dell’osservanza delle norme di diritto che disciplinano i limiti esterni della giurisdizione stessa ovvero all’esistenza di vizi che attengono all’essenza stessa della funzione giurisdizionale, senza estendersi al modo del suo esercizio, con la conseguenza che con il ricorso per cassazione avverso le decisioni del giudice amministrativo o del giudice contabile non possono essere dedotti altri eventuali errori, in iudicando o in procedendo (così in motivazione Cass., Sez. U, 5/07/2021, n. 18976; Cass. Sez. U, 15/09/2020, n. 19168; Cass., Sez. U, 10/05/2019, n. 12586).
Con il terzo motivo di ricorso, dolendosi che nel riformare la decisione di primo grado in punto di legittimazione ed interesse ad agire dell’impugnante, la sentenza gravata avrebbe violato il principio del doppio grado di giurisdizione non rimettendo la controversia al primo giudice, la ricorrente intende appunto veder sindacato in questa sede proprio un error in procedendo che, ove sussistente, si è consumato nei limiti interni della giurisdizione affidata a quel giudice e che come tale esula dall’eccesso di giurisdizione denunciabile avanti a queste Sezioni Unite.
Muovendo viceversa con il quarto ed il quinto motivo di ricorso alla volta di un error in iudicando in cui la sentenza impugnata sarebbe caduta nel non aver correttamente delibato, in relazione alla specie in disamina, le implicazioni interpretative sottese alle richiamate norme sovranazionali, la ricorrente addebita ancora una volta alla sentenza impugnata un errore che attiene all’interpretazione e all’applicazione delle norme di diritto, chiedendo inammissibilmente di sindacare un’attività che costituisce il proprium della giurisdizione esercitata al giudice speciale e che, rientrando nei limiti interni della giurisdizione affidata al plesso giurisdizionale di riferimento, non è suscettibile del vaglio qui richiesto.
7. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da susseguente dispositivo.
Ove dovuto sussistono i presupposti per il raddoppio a carico della ricorrente del contributo unificato ai sensi del dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in favore di parte resistente in euro 7200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Cosi deciso in Roma nella camera di consiglio della Sezioni Unite civili il giorno 9.5.2023.
Il Presidente
Dott. Guido Raimondi
Allegati:
SS.UU, 06 giugno 2023, n. 15934, in tema di eccesso di potere giurisdizionale
In tema di usi civici – SS.UU, 10 maggio 2023, n. 12571
Civile Sent. Sez. U Num. 12571 Anno 2023
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: CARRATO ALDO
Data pubblicazione: 10/05/2023
SENTENZA
sul ricorso 27601-2017 proposto da:
ENEL PRODUZIONE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RUGGERO FAURO 43, presso lo studio dell’avvocato UGO PETRONIO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI VILLALAGO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ALESSIO OLIVIERI 45/B, presso lo studio dell’avvocato CLARA PALESSE, rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO CIANCARELLI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1688/2017 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 20/09/2017.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 4 aprile 2023 dal Consigliere ALDO CARRATO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale ALESSANDRO PEPE, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Ugo Petronio e Francesco Cantelmi, per delega dell’avvocato Domenico Ciancarelli.
RITENUTO IN FATTO
1. Con decreto del Prefetto dell’Aquila del 14 agosto 1927 erano stati espropriati per pubblica utilità terreni appartenenti al Comune di Villalago (AQ) in favore di Ferrovie dello Stato, per l’esecuzione di impianti idroelettrici. Sui medesimi terreni il 22 dicembre 2000 veniva effettuata una Verifica Demaniale, che ne accertava la persistente natura civica; erano successivamente acquistati da Enel Produzione s.p.a., insieme al diritto di utilizzo di altri, anch’essi ritenuti di uso civico. Peraltro, dopo la stipulazione del contratto con il citato Comune, Enel Produzione veniva a conoscenza che tutti i predetti terreni – già oggetto di espropriazione per pubblica utilità – appartenevano in realtà alla stessa società, sorta dalla scissione di Enel, che era a sua volta avente causa di Ferrovie dello Stato.
Tanto premesso, Enel Distribuzione s.p.a. citava in giudizio il Comune di Villalago per ottenere l’annullamento o la declaratoria di nullità del contratto 24 gennaio 2008 per errore essenziale, con la restituzione delle somme corrisposte a controparte.
2. Con sentenza n. 147/2014 il Tribunale di Sulmona rigettava la domanda di Enel Produzione s.p.a. e, in accoglimento della domanda riconvenzionale del Comune, condannava la società attrice al pagamento di € 102.931,18, a titolo di canoni maturati e maturandi.
3. Decidendo sul gravame della società soccombente, la Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza n. 1688/2017 (pubblicata il 20 settembre 2017), ha confermato la pronuncia di primo grado.
Ha osservato la Corte territoriale che il decreto del 14 agosto 1927, invocato dall’appellante, avrebbe, in realtà, costituito soltanto un diritto reale di godimento sui beni controversi, la cui proprietà sarebbe stata confermata in capo al Comune di Villalago, pur vincolata agli usi civici, dalla Verifica demaniale del 2000. La natura demaniale avrebbe escluso qualunque ipotesi di alienabilità, in assenza di preventiva sclassificazione, da cui solo poteva discendere la perdita della destinazione in proprietà collettiva.
4. Per la cassazione della predetta sentenza ha proposto ricorso Enel Produzione s.p.a., affidato a otto motivi.
Ha tempestivamente proposto controricorso il Comune di Villalago.
I difensori di entrambe le parti hanno, rispettivamente, depositato anche memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi di ricorso.
1.1) Con la prima censura, la ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 101, 112 e 324 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c. Afferma che, in primo grado, il thema decidendum si incentrava sulla possibilità che i terreni di uso civico potessero essere espropriati per pubblica utilità, pur in assenza di un provvedimento di mutamento di destinazione, né il Comune avrebbe contestato che il decreto prefettizio avesse natura espropriativa, tanto che la domanda attorea era stata respinta sul presupposto dell’illegittimità del decreto di espropriazione. In appello le posizioni erano rimaste immutate, ma la Corte aveva inopinatamente negato la natura di decreto di espropriazione al provvedimento prefettizio, incorrendo così nei vizi di ultrapetizione e violazione del principio del contraddittorio.
1.2) Con il secondo mezzo d’impugnazione, articolato in una pluralità di censure, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 preleggi, degli artt. 1362-1371 c.c. e della l. 25 giugno 1865 n. 2359, ex art. 360 n. 3 c.p.c., oltre che la violazione del principio di tipicità degli atti amministrativi. Lamenta che l’interpretazione del provvedimento prefettizio non sarebbe stata fatta in base alle norme allora vigenti e che l’atto sarebbe stato emesso in esito al procedimento di espropriazione per pubblica utilità, perfezionato in tutte le sue fasi. La situazione di fatto avrebbe dimostrato inequivocabilmente che l’intenzione della P.A. era quella di espropriare i terreni e che il provvedimento avrebbe avuto natura ed effetti espropriativi.
1.3) Mediante il terzo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 832 ss., 957 ss., 978-1026 c.c., ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., omessa valutazione di una circostanza decisiva ai fini del giudizio, ex art. 360 n. 5 c.p.c., nonché violazione dell’art. 112 c.p.c. Afferma che il riferimento ad un diritto reale di godimento generico sarebbe stato illegittimo, stante la tipicità degli stessi ed avrebbe altresì impedito di comprendere quale o quali diritti fossero rimasti in capo al Comune di Villalago.
1.4) La quarta doglianza si appunta sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 12 prel. c.c. in relazione all’art. 12 l. 1766/1927, degli artt. 15 e 29 R.D. n. 332/28, 52 l. n. 2359/1865, 4 D.P.R. n. 327/01, oltre che sulla violazione dell’art. 111 Cost., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. La sentenza impugnata avrebbe erroneamente assimilato i beni di uso civico ai beni demaniali, tanto più che né la legge sugli usi civici né la legge in materia di espropriazione per pubblica utilità avrebbero escluso dall’espropriazione le terre di uso pubblico, anche senza necessità di un preventivo provvedimento di mutamento della destinazione.
1.5) La quinta censura si focalizza sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 34 e 324 c.p.c., dell’art. 12 l. 1766/1927, degli artt. 15, 29 e 41 R.D. n. 332/28, 52 l. n. 2359/1865, 3 l. n. 25/88, oltre che sulla violazione degli artt. 156 e 183 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. In buona sostanza, secondo la ricorrente, la Corte abruzzese avrebbe erroneamente affermato il passaggio in giudicato dell’accertamento incidentale circa la Verifica demaniale del 22 dicembre 2000, da effettuare al fine della disapplicazione di un atto amministrativo.
1.6) Con la sesta doglianza, Enel Produzione assume la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 l. 1766/1927, degli artt. 15, 29 e 41 R.D. n. 332/28, 52 l. n. 2359/1865, oltre che degli artt. 145 c.c. e 156 c.p.c., 112 c.p.c., 3 l. n. 25/88, 156 e 183 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. La Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto la notifica della Verifica 22 dicembre 2000 regolare o comunque sanata dal raggiungimento dello scopo, benché la comunicazione fosse stata inviata a Enel Green Power presso un ufficio di Ascoli Piceno e benché i beni oggetto della verifica fossero di proprietà di un soggetto giuridico diverso, Enel Produzione.
1.7) La settima censura si incentra sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 12 preleggi, degli artt. 1350, 1418, 832 e ss, 1418 e ss. nonché 1425 ss. c.c. e dell’art. 112 c.p.c., ex art. 360 n. 3 c.p.c. La ricorrente sottolinea che, pur ritenendo che l’atto di espropriazione abbia in realtà trasferito solo un diritto reale di godimento, sarebbe comunque stata necessaria la forma scritta per la rinuncia a tale diritto.
1.8) Con l’ottavo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e del D.M. n. 55/2014, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., per aver la sentenza impugnata liquidato le spese di lite anche per la fase istruttoria/trattazione che non vi era stata.
2. L’ordinanza interlocutoria n. 36355/2022
Con questa ordinanza interlocutoria, il designato collegio ha rilevato che il punto dirimente del giudizio è costituito dall’esame del quarto motivo di ricorso, implicante la verifica della necessità (o meno) del previo decreto di sdemanializzazione rispetto alla espropriazione per pubblica utilità, operata all’epoca attraverso un provvedimento prefettizio. Invero, dalla risposta circa l’obbligatorietà o meno della previa sdemanializzazione dipende l’accertamento circa la legittimità dell’esproprio in favore delle Ferrovie dello Stato e dunque, in ultima analisi, la sussistenza della proprietà dei fondi in capo all’avente causa Enel Produzione s.p.a. nel momento in cui quest’ultima concludeva il contratto di acquisto del 24 gennaio 2008 con il Comune di Villalago.
Al riguardo si è osservato che la questione, la quale nell’impostazione della sentenza impugnata costituisce un’autonoma ratio decidendi, non è stata finora affrontata funditus da pronunce di legittimità, segnalandosi che su analoga fattispecie, sempre la II Sezione – con ordinanza n. 34460 depositata il 23 novembre 2022 – ha disposto la rimessione degli atti al Primo Presidente per l’adozione dei provvedimenti del caso, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c.
La citata questione, ritenuta di massima di particolare importanza, è stata rimessa dal Primo Presidente alle Sezioni unite, come già verificatosi in dipendenza dalla su citata ordinanza interlocutoria n. 34460/2022.
3. L’oggetto della questione di massima di particolare importanza.
La questione di massima di particolare importanza di cui trattasi si può compendiare nei seguenti interrogativi:
“è ammissibile l’espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da usi civici di dominio della collettività, prescindendo da una loro preventiva espressa sdemanializzazione? O si può ritenere sussistente una incommerciabilità (rectius: una indisponibilità) relativa di tali beni, che viene a cessare allorquando sopravvenga e si faccia valere un diverso interesse statale (o pubblico che sia), del tipo di quelli che si accertano e realizzano con il procedimento espropriativo per pubblica utilità ovvero con altri atti formali?”
4. Lo stato della legislazione attuale nella materia degli usi civici.
Nel 1924 venne costituita una Commissione ministeriale alla quale venne affidato il compito di redigere il testo del disegno di legge sul riordinamento degli usi civici, poi divenuto il regio decreto legge n. 751 del 24 maggio 1924.
Il predetto decreto disciplinò gli usi civici con particolare riferimento a quelli insistenti su terre private e a quelli del demanio civico, derivanti dal demanio universale appartenuto alle universitatis ed attribuito ai Comuni.
Il decreto costituì la normativa di riferimento per gli usi civici insistenti sull’intero territorio nazionale attribuendo un ruolo particolarmente rilevante al Comune, quale ente esponenziale della collettività, e distinse tra terre adatte al pascolo e terre idonee all’agricoltura, disciplinando al contempo le associazioni e le università agrarie. Si stabilì, inoltre, che il riconoscimento degli usi civici, non esercitati, dovesse essere richiesto entro due anni. Si giunse, quindi, alla emanazione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, che venne considerata, da una parte della dottrina, come un’opera “ben fatta… vigorosa nelle formulazioni normative e allo stesso tempo sufficientemente elastica, così da permettere all’interpretazione giurisprudenziale e amministrativa notevole capacità di sviluppo”; da altri autori venne considerata falsamente unificante, per altri ancora come un punto di equilibrio tra esigenze diverse, ritenendosi ambigua la dizione usi civici, sotto la quale vi erano unificati diversi e vari istituti, valutandosi contestualmente positivo il confronto con la dottrina giuridica relativa alla legislazione eversiva napoletana. La citata legge base n. 1766 del 1927 si compone di 43 articoli, suddivisi in quattro capi.
Il primo disciplina l’accertamento, la valutazione e l’affrancazione degli usi civici; il secondo riguarda la destinazione delle terre gravate da usi civici e di quelle provenienti da affrancazione; il terzo la giurisdizione e la procedura; il quarto le disposizioni generali e transitorie. L’espressione usi civici è contemplata nell’art. 1, il quale chiarisce l’ambito di applicazione della legge relativo anche all’accertamento ed alla liquidazione degli usi civici e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento delle terre spettanti agli abitanti di un Comune o di una frazione di Comune. L’art. 4 distingue gli usi civici in essenziali, riconosciuti come tali per i bisogni della vita, e utili se comprendono in modo prevalente carattere e scopo di industria. Dall’esame congiunto degli artt. 1 e 3 emerge che nell’ambito delle situazioni dominicali collettive individuate dal legislatore esistono quattro classi di situazioni giuridiche diversamente strutturate. La prima comprende i diritti reali collettivi di godimento su fondo altrui; la seconda include le proprietà collettive e, più in particolare, le proprietà collettive aperte (definite, da parte di alcuni orientamenti dottrinali, dominii collettivi, demani civici, demani universali, demani comunali, terre d’uso civico); la terza classe comprende proprietà collettive chiuse formate dai discendenti di particolari comunità; la quarta classe, infine, include le condizioni di promiscuità ossia situazioni di promiscuo godimento dello stesso fondo da parte della collettività.
Gli artt. 5, 6 e 7 regolano la misura del compenso per la liquidazione dei diritti. L’art. 9 riguarda le terre di uso civico appartenenti ai Comuni, alle frazioni ed alle associazioni e disciplina la possibilità, a domanda degli eventuali occupatori, di legittimazione, a determinate condizioni, e, in assenza, la restituzione al Comune. Tale disposizione consente di affermare che i fondi di cui innanzi sono soggetti a un regime di indisponibilità, che trova deroga nelle sole (limitate) ipotesi previste dalla legge n. 1766/1927 (legittimazioni: art. 9; autorizzazioni all’alienazione e al mutamento di destinazione: art. 12; quotizzazioni: art. 13, e da altrettante limitate previsioni di leggi speciali). Assumono in questa sede particolare rilievo gli artt. 11 e 12, contenuti nel capo II che regola la destinazione delle terre gravate da usi civici e di quelle provenienti dall’affrancazione. L’art. 11 prevede che “i terreni assegnati ai Comuni o alle frazioni in esecuzione di leggi precedenti relative alla liquidazione dei diritti di cui all’art. 1, e quelli che perverranno ad essi in applicazione della presente legge, nonché gli altri posseduti da Comuni o frazioni di Comuni, università, ed altre associazioni agrarie comunque denominate, sui quali si esercitano usi civici, saranno distinti in due categorie: a) terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente; b) terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria”. L’art. 12 prevede che “per i terreni di cui alla lettera a) si osserveranno le norme stabilite nel capo 2° del titolo 4° del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3267. I Comuni e le associazioni non potranno, senza l’autorizzazione del Ministero dell’economia nazionale, alienarli o mutarne la destinazione. I diritti delle popolazioni su detti terreni saranno conservati ed esercitati in conformità del piano economico e degli articoli 130 e 135 del citato decreto, e non potranno eccedere i limiti stabiliti dall’ art. 521 del Codice civile”. Le ulteriori norme della citata legge, che non vengono qui in rilievo, sono relative alla giurisdizione ed alla procedura. Accanto alla legge di cui innanzi viene in considerazione il r.d. 26 febbraio 1928, n. 332, recante il regolamento per l’esecuzione della citata legge 16 giugno 1927, n. 1766 sul riordinamento degli usi civici del Regno e costituito da 85 articoli suddivisi in quattro titoli. In particolare, rilevano in questa sede gli artt. 39 e 41. Il primo disciplina il procedimento per ottenere l’autorizzazione all’alienazione, mentre il secondo le modalità di mutamento di destinazione del fondo gravato da uso civico. Va, inoltre, evidenziato come, nel corso degli anni, gli usi civici abbiano assunto una valenza ambientale e paesaggistica sempre di maggior rilievo. Dapprima fu approvata la legge n. 1497 del 1939, la quale già prevedeva vincoli paesaggistici ma di natura eminentemente amministrativa (poiché collegati al provvedimento amministrativo ed alle sue vicende); è sopravvenuta, poi, la legge 8 agosto 1985, n. 431 (cd. legge Galasso), il cui art. 1, lett. h, modificando l’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977, ha sottoposto a vincolo paesaggistico, tra gli altri beni, le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici. Rileva, altresì, l’art. 1-bis della stessa legge n. 431 del 1985, la quale ha prescritto che le Regioni redigano piani territoriali paesaggistici o piani urbanistico-territoriali con medesime finalità di salvaguardia dei valori paesistici ed ambientali. Il successivo d.P.R. 7 gennaio 1992 ha individuato i criteri di integrazione e di coordinamento delle attività conoscitive dello Stato, delle autorità di bacino e delle Regioni, e annovera tra i dati conoscitivi gli usi civici ai fini della redazione dei piani di bacino previsti dalla legge 18 maggio 1989, n. 183. Gli usi civici sono, inoltre, disciplinati dalla legge quadro sulle aree protette n. 394 del 6 dicembre 1991, nell’ambito del regolamento del parco e del piano parco (artt. 11 e 12). Deve essere rimarcato, per il rilievo dello stesso in un’ottica storico-evolutiva della disciplina degli usi civici, il disposto dell’art. 74 della legge 28 dicembre 2015, n. 221 recante “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali“ (che ha modificato l’art. 4 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327), il quale – come già sottolineato nell’ordinanza interlocutoria – prevede che: “Ai fini della gestione e dello sviluppo sostenibile del territorio e delle opere pubbliche o di pubblica utilità nonché della corretta gestione e tutela degli usi civici, all’articolo 4 (L) del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1-bis. I beni gravati da uso civico non possono essere espropriati o asserviti coattivamente se non viene pronunciato il mutamento di destinazione d’uso, fatte salve le ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia compatibile con l’esercizio dell’uso civico». Viene, infine, in considerazione la legge 20 novembre 2017 n. 168, la quale ha riconosciuto i domini collettivi come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie (su cui si ritornerà in seguito).
5. La distinta tipologia, la natura e il regime giuridico degli usi civici
Come già posto in risalto, la legge n. 1766 del 1927 nasce con la finalità di disciplinare in modo esaustivo e unitario tutti gli usi civici, indipendentemente dalle peculiarità storico-geografiche, e conseguentemente normative, che li avevano contraddistinti nel passato. Purtuttavia, all’interno di detti usi due categorie e due regimi normativi sono stati comunque individuati, in considerazione della diversità originaria della proprietà del terreno. La citata legge base del 1927 non reca, in effetti, una definizione espressa degli usi civici, ma li qualifica indistintamente come riconducibili a due diversi diritti di godimento delle terre che ne costituiscono oggetto: l’uso civico propriamente detto e il c.d. demanio civico. La natura giuridica dei primi è ricondotta, dai prevalenti orientamenti scientifici, sia sulla base del riferimento letterale normativo che della inerente “ratio”, a quella di diritti reali “sui generis” gravanti su terre altrui e dal tratto proprio, siccome caratterizzati dall’inerenza al bene, dal diritto di seguito, dall’assolutezza e dalla dimensione “erga omnes” delle tutele; la connotazione peculiare consiste nel realizzare un uso di matrice non codicistica che spetta alla persona “uti civis”, ossia quale membro di un ampio gruppo di soggetti e non come singolo individuo. La natura giuridica dei secondi è condizionata dal caratterizzarsi come beni di c.d. proprietà collettiva, la cui disciplina – così come condensata, principalmente, negli artt. 9, 11, 12, 13, 21 e 29 della stessa legge fondamentale n. 1766 del 1927 (la cui regolamentazione è stata conservata e rafforzata dagli interventi normativi sopravvenuti) – è, nella sua essenza, equiparabile a quella dei beni demaniali, per quanto si desume dal loro regime di inalienabilità, inusucapibilità, immodificabilità e di conservazione del vincolo di destinazione, il quale può subire una deroga solo mediante un’apposita “sdemanializzazione”. Quindi, i diritti civici “in re aliena” consentono l’esercizio del diritto di trarre alcune utilità (pascolo, legnatico, fungatico, caccia, pesca, acquatico, cava dei sassi, semina) da un fondo altrui; invece, il c.d. demanio civico (qualificato anche dominio collettivo o demanio universale o comunale) consiste nel godimento di terre proprie della collettività (“in re propria”). Gli usi che gravano sui terreni dei privati sono destinati alla liquidazione ossia alla soppressione mediante apporzionamento dei terreni stessi ed assegnazione di una porzione al Comune, quale ente esponente della collettività titolare dell’uso civico.
Solo a questi – secondo la giurisprudenza di legittimità – è destinato l’onere di denuncia di cui all’art. 3 della legge n. 1766 del 1927, nonché lo speciale procedimento di liquidazione e solo su tali fondi va sostenuto che, in caso di espropriazione per causa di pubblica utilità, i diritti di uso civico si trasferiscono sull’indennità di espropriazione (come chiarito con la fondamentale sentenza delle SU n. 1671 del 1973, su cui si ritornerà, in modo più approfondito, in seguito). Agli usi civici in re propria si riferiscono le disposizioni concernenti l’accertamento delle arbitrarie occupazioni da parte dei privati al fine alternativo della legittimazione a favore dell’occupatore o della reintegra per la destinazione dei terreni al soddisfacimento di pubbliche finalità nei modi previsti dalla legge. Il regime di inalienabilità ed indisponibilità analogo a quello dei beni demaniali comporta, peraltro, che l’inalienabilità permanga, fino all’eventuale provvedimento del Ministero dell’Agricoltura e foreste (ora della Regione) che ne autorizza “l’alienazione” (o la sottrazione, peraltro non definitiva, alla loro attuale destinazione), provvedimento nel quale (e nel quale soltanto) può ravvisarsi un atto di sdemanializzazione (art. 12 della legge n. 1766/1927 e artt. 39 e 41 del regolamento approvato con r.d. n. 332/1928).
Il quadro normativo degli usi civici collettivi è stato innovato, integrato e specificato con ulteriori successivi interventi normativi, che hanno corroborato – come già messo in evidenza – la loro già stringente e peculiare disciplina giuridica.
In questa direzione – soprattutto nell’ottica di valorizzarne la tutela ambientale e paesaggistica – è intervenuta la legge 8 agosto 1985, n. 431 (c.d. legge “Galasso”) che, come già evidenziato, ha assoggettato al vincolo paesaggistico “le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”. Anche la legge quadro sulle “aree protette” – la n. 394 del 6 dicembre 1991 – ha, come già rimarcato, previsto la generale conservazione e valorizzazione dei beni gravati da uso civico eventualmente presenti nel territorio sul quale si estende il parco.
Un importante rilievo, inoltre, va conferito al d. lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali) e, in ultimo, della Legge n. 168/2017 (Norme in materia di domini collettivi).
Difatti, mentre l’articolo 142 del Codice dei beni culturali prevede che “sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo Titolo:…h) le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”, l’articolo 3, comma primo, della Legge n. 168/2017 recita: “l’ordinamento giuridico garantisce l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio. Tale vincolo è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici”. Il terzo comma dello stesso art. 3 di quest’ultima legge, poi, sancisce che: “Il regime giuridico dei beni di cui al comma 1 resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale”, laddove – si noti – l’uso del verbo “resta” va ritenuto manifestazione consapevole di quanto già previsto dalla legge del 1927 e l’aggiunta specificativa della “perpetua destinazione agro-silvo-pastorale” è sintomatica di una connotazione di “intangibilità di tali beni” nella loro funzione e nella finalità che perseguono, da cui – ad avviso dei predominanti orientamenti dottrinali – scaturirebbe la loro inassoggettabilità alla procedura “incondizionata” di espropriazione per pubblica utilità, da intendersi, perciò, attuabile solo previa “sdemanializzazione” o “sclassificazione” da parte della competente autorità.
In altri termini, all’indisponibilità dei diritti di uso civico fa riscontro il regime di intangibilità, che quei diritti caratterizza, preservandoli, in via generale, da ogni negativa interferenza, suscettibile di provenire dall’esterno (regime, questo, che deve ritenersi avvalorato anche dalla previsione generale di cui all’art. 4, comma 1, del d.P.R. n. 327/2001, recante il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, secondo cui “I beni appartenenti al demanio pubblico non possono essere espropriati fino a quando non ne viene pronunciata la sdemanializzazione”).
E’ particolarmente rilevante osservare come – a seguito delle ultime pronunce della Corte costituzionale (le sentenze n. 71/2020 e n. 236/2022), dichiarative dell’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni normative regionali invasive della competenza statale (come prevista dall’art. 117, comma 2, lett. s), Cost.), in quanto determinanti una non consentita compressione della proprietà collettiva – sia stata ancor più esaltata la nuova dimensione, in un’ottica costituzionale, che hanno assunto gli usi civici “in re propria”, a seguito dell’ultimo intervento legislativo di cui alla citata legge n. 168/2017 (alla quale, con l’art. 63-bis del recente d.l. 31 maggio 2021, n. 77, conv. dalla legge 29 luglio 2021, n. 108, sono stati aggiunti, nell’art. 3, i nuovi commi 8 bis, ter e quater), per effetto della quale la salvaguardia del regime dei beni di uso civico collettivo deve operare in assoluta sinergia con la tutela paesistico-ambientale, con la conseguenza che i domini collettivi, da qualificarsi come “ordinamento giuridico primario delle comunità originarie e riferiti ad una collettività di membri, che traggono normalmente utilità dal fondo”, vanno riconosciuti come un istituto costituente attuazione anche degli artt. 2, 9, 42, comma 2, e 43 Cost.
6. La risoluzione della questione di massima di particolare importanza alla luce del pregresso stato giurisprudenziale e dell’evoluzione normativa nella materia degli usi civici.
E’ arrivato il momento di pervenire alla conclusione risolutiva della questione di massima di particolare importanza prospettata con il ricorso sull’ammissibilità o meno dell’espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da usi civici di dominio della collettività, ovvero prescindendo da una loro preventiva (siccome da considerarsi non necessaria) sdemanializzazione oppure irrealizzabile senza un precedente provvedimento espresso di sdemanializzazione.
Queste Sezioni unite propendono – così come la prevalente dottrina e la precedente giurisprudenza di questa Corte, quasi del tutto univoca – per la tesi negativa: se l’espropriazione deve escludersi per tutti i beni appartenenti al patrimonio indisponibile “poiché questi non possono essere sottratti alla loro destinazione” se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 828 c.c.), per cui occorre un’espressa norma di legge per consentirne l’espropriazione per pubblica utilità, lo stesso principio deve essere estendibile – a maggior ragione – al demanio pubblico (dello Stato e degli enti territoriali), che ha già una destinazione di interesse pubblico, la quale può essere modificata solo con il venir meno della demanialità, o con la destinazione ad altro uso, disposta dall’autorità competente.
Questa impostazione è applicabile anche ai beni di uso civico collettivo una volta che – propria od impropria che sia la loro qualificazione di beni demaniali (ai quali, tuttavia, sono certamente assimilabili) – essa implica un regime di loro indisponibilità.
La stessa Corte costituzionale – con due sentenze più risalenti ma più chiare ed univoche di quelle più recenti – ha sostenuto che tutta la materia degli usi civici dei beni di proprietà collettiva rientra nell’ambito del diritto pubblico (sentenza n. 67 del 1957) e che la natura di tali beni (equiparabile a quella dei beni demaniali) non consente di sottoporli ad espropriazione per pubblica utilità potendo questa effettuarsi solo per la proprietà privata terriera (sentenza n. 78 del 1961).
Anche il Consiglio di Stato, nei vari pareri espressi, ha messo in evidenza che, più che un’astratta inespropriabilità, deve affermarsi che i citati beni di uso civico, come per i beni indisponibili in genere, la destinazione ad altre finalità di pubblico interesse può avvenire solo in virtù di un atto di sclassificazione, che deve contenere “la comparazione dei vari interessi”; tale atto può avere come motivo di pubblico interesse l’esecuzione di un’opera pubblica, ma nel suo oggetto deve sempre contenere un provvedimento diretto alla sclassificazione dei beni.
Ma soprattutto questa Corte – nella stessa composizione a Sezioni unite (ancorché pronunciandosi in tema di giurisdizione) – già nel 1973, con la dirimente sentenza n. 1671 (in precedenza più volte richiamata), aveva, affrontando la controversa questione in modo frontale, condiviso la su esposta soluzione affermando, in modo inequivoco, il seguente complessivo principio di diritto: “Qualora i beni appartenenti a privati, sui quali si esercita l’uso civico, vengano espropriati per pubblica utilità prima della liquidazione prevista dalla legislazione in materia (legge 16 giugno 1927, n 1766 e r.d. 26 febbraio 1928, n 332) le ragioni derivanti dai diritti di uso civico si trasferiscono sulla indennità di espropriazione. Se, invece, l’uso civico si esercita su beni appartenenti alla collettività (terre possedute dai comuni, frazioni di comune, comunanze, partecipanze, università ed altre associazioni agrarie), il regime di inalienabilità e di indisponibilità cui i beni stessi sono assoggettati – e che permane, per quelli concessi in enfiteusi, fino all’eventuale affrancazione, e per quelli conservati ad uso civico fino al decreto del ministro dell’ agricoltura che ne autorizza l’alienazione – comporta che i beni anzidetti non sono espropriabili per pubblica utilità se non previa ‘sdemanializzazione’. Poiché l’atto di sdemanializzazione può ravvisarsi soltanto nel provvedimento previsto dalla legge, il Commissario per gli Usi civici conserva la propria giurisdizione – in tema di verifica delle occupazioni arbitrarie secondo le norme della citata legislazione – anche se il terreno oggetto d’indagine, ai fini della sua appartenenza o meno alla collettività degli utenti, risulti espropriato per pubblica utilità, in quanto né la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, né il provvedimento di espropriazione possono avere efficacia equipollente all’atto di sdemanializzazione del bene”.
Nell’ampia motivazione svolta (poggiante su un’adeguata impostazione logico-sistematica del quadro normativo e giurisprudenziale in materia), che poi costituì la premessa necessaria per adottare la soluzione attinente alla questione di giurisdizione di cui le Sezioni unite erano state investite, si osservò, in primo luogo, che non può ritenersi equivalente ad un provvedimento di sdemanializzazione di beni civici (di dominio collettivo) la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera in vista della quale viene, poi, dato seguito all’espropriazione dei terreni gravati da siffatti usi civici. Si aggiunse, poi, che, a voler prescindere dalla considerazione che il provvedimento di ”sdemanializzazione” – ravvisabile nell’autorizzazione (ad alienare i terreni o sottrarli alla destinazione civica in atto) da parte (allora) del Ministro per l’Agricoltura e Foreste di cui all’art. 12 della legge n. 1766 del 1927 – non ammette equipollenti, sta di fatto che un equipollente non potrebbe rinvenirsi in un provvedimento emesso da una diversa autorità nell’esercizio di un potere diverso da quello attribuito in materia di usi civici (e non attribuito per la composizione di interessi pubblici eventualmente in contrasto): in un provvedimento, in definitiva, munito di una sua funzione tipica quale provvedimento costituente presupposto dell’espropriazione per causa di pubblica utilità. E lo stesso è da dire per la detta espropriazione, la quale lungi dall’incidere sulla qualità dei beni cui si riferisce nel senso di operarne (se siano civici) la sdemanializzazione, presuppone proprio quest’ultima attività quale condizione per l’insorgenza dello stesso potere espropriativo.
Pertanto, concludono le Sezioni unite nella sentenza n. 1671 del 1973 in esame, la tesi del ricorrente (in quel caso), secondo cui l’asserita demanialità civica dei terreni sarebbe venuta meno in conseguenza dell’espropriazione per pubblica utilità, poggia evidentemente sull’erroneo presupposto che l’espropriazione determini ex se o quanto meno ipso iure l’obiettiva sclassificazione del bene civico (una sdemanializzazione, cioè, per equipollente o di diritto), con la conseguente conversione in diritto all’indennità, al pari di qualsiasi proprietà privata, dell’uso civico delle popolazioni su terre proprie.
Tale soluzione – ad avviso di queste Sezioni unite – è da confermare e la sua condivisibilità risulta avvalorata da tutte le pregresse considerazioni, anche in relazione ai menzionati sopravvenuti interventi normativi.
Del resto, l’unica vera pronuncia contraria successiva – la sentenza n. 9986 del 2007 della II Sezione civile – è sostanzialmente apodittica, ponendo riferimento, a fronte di un motivo, rigettato, ampiamente approfondito e sviluppato (basato sull’univoco quadro giurisprudenziale precedente), ad un’asserita interpretazione sistematica – avallata dalla sentenza n. 391/1989 della Corte costituzionale – conducente alla conclusione che “diversamente dalla disciplina dei beni demaniali in senso stretto e tecnico, al regime di inalienabilità dei beni di uso civico non inerisce la condizione di beni non suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità”, con la loro conseguente assoggettabilità a quest’ultima procedura. Conclusione, invero, adottata senza confrontarsi con la pregressa giurisprudenza di legittimità, ivi inclusa la citata sentenza delle Sezioni unite n. 1671/1973, ed obliterando anche la pressoché univoca giurisprudenza costituzionale, pur essa contraria alla tesi dell’espropriabilità per pubblica utilità dei beni collettivi gravati da usi civici (oltre alla pronuncia della Corte costituzionale n. 156/1995, si ricordano le ulteriori, precedenti, decisioni recanti i nn. 78/1961, 18/1965, 99/1969 e 93/1970), come desumibile – per quanto prima posto in risalto – anche da quella successiva e più recente.
Ciò che, peraltro, è avvenuto anche con la giurisprudenza di questa Corte.
Così, ad esempio, la sentenza della II Sezione n. 17595 del 2020, nell’escludere la sussistenza di un rapporto di specialità tra il r.d. 1755 del 1933 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici) e la legge n. 1766 del 1927, afferma che “la comparazione tra i contrapposti interessi oggetto di tutela, al fine di stabilire la prevalenza degli uni rispetto agli altri, è compito del legislatore e nel r. d. n. 1775 del 1933 non vi è alcuna norma che possa essere interpretata nel senso indicato dalla ricorrente. Laddove, invece, il legislatore ha voluto affermare l’estinzione dei diritti di uso civico lo ha fatto espressamente: basti pensare, a solo titolo esemplificativo e con riferimento all’espropriazione per pubblica utilità, all’art. 12, comma 2, della legge 31 gennaio 1994, n. 97, il quale ha previsto che “nei comuni montani i decreti di espropriazione per opere pubbliche o di pubblica utilità, per i quali i soggetti espropriati abbiano ottenuto, ove necessario, l’autorizzazione di cui all’articolo 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, e quella del Ministero dell’ambiente, determinano la cessazione degli usi civici eventualmente gravanti sui beni oggetto di espropriazione”.
Rileva, inoltre, anche la precedente sentenza della III Sezione n. 19792 del 2011, la quale ha affermato che “un bene gravato da uso civico non può essere oggetto di espropriazione forzata, per il particolare regime della sua titolarità e della sua circolazione, che lo assimila ad un bene appartenente al demanio, nemmeno potendo per esso configurarsi una cosiddetta sdemanializzazione di fatto. L’incommerciabilità derivante da tale regime comporta, che, al di fuori dei procedimenti di liquidazione dell’uso civico e prima del loro formale completamento, la preminenza di quel pubblico interesse, che ha impresso al bene immobile il vincolo dell’uso civico stesso, ne vieti qualunque circolazione, compresa quella derivante dal processo esecutivo, quest’ultimo essendo posto a tutela dell’interesse del singolo creditore, e dovendo perciò recedere dinanzi al carattere superindividuale e lato sensu pubblicistico dell’interesse legittimante l’imposizione dell’uso civico; siffatto divieto comporta, pertanto, la non assoggettabilità del bene gravato da uso civico ad alcuno degli atti del processo esecutivo, a partire dal pignoramento”. Occorre evidenziare che il predetto principio, che è stato affermato in relazione al processo esecutivo non in rilievo in questa sede, muove da principi e rilevanti considerazioni generali in tema di beni gravati da usi civici, comunque importanti ed asseverativi del peculiare regime giuridico al quale sono sottoposti gli usi civici collettivi. La sentenza, infatti, dopo aver ricostruito storicamente l’origine degli usi civici, analizza gli interventi normativi che si sono avvicendati nel tempo incidendo sulla loro originaria funzione. Si afferma, quindi, che la persistente vitalità dell’istituto – nonostante fin dal 1927 se ne fosse prevista appunto la “liquidazione” – poggia ora su di una sua tendenziale mutazione funzionale, essendo, cioè, riconosciuta all’uso civico una nuova caratterizzazione della sua natura di bene collettivo, in quanto utile – anche se non soprattutto – alla conservazione del bene ambiente e, oltretutto, per ciò stesso non soltanto a favore dei singoli appartenenti alla collettività dei fruitori del bene nel singolo contesto territoriale collegato alle possibilità di concreto utilizzo dell’immobile, ma evidentemente alla generalità dei consociati. Sicché, si osserva ulteriormente nella sentenza in discorso, “tale mutamento di funzione non rileva, in questa sede, dinanzi alla chiarezza della legislazione nazionale e regionale tuttora in vigore, la quale continua a disciplinare l’istituto coi suoi caratteri originari, salvo a prevedere forme sempre più agili di superamento del rigoroso regime di gestione e di circolazione”. Muovendo da quanto innanzi, la stessa sentenza evidenzia come la giurisprudenza di legittimità riconduca i beni gravati da uso civico a quelli demaniali, alla luce delle caratteristiche che li accomunano, prima fra tutte l’inalienabilità.
7. Conclusioni.
Poiché i beni gravati da uso civico di dominio collettivo sono assimilabili a quelli demaniali (costituendone – secondo alcuni indirizzi – una particolare categoria), l’approdo ermeneutico, in relazione al loro regime giuridico sul punto, non può essere che lo stesso, nel senso che l’esperimento della procedura espropriativa per pubblica utilità, affinché possa essere ritenuta legittima, deve essere proceduta dalla preventiva “sdemanializzazione” di siffatti tipi di beni.
Pertanto la “sdemanializzazione degli usi civici collettivi” non può verificarsi – “mediatamente” – direttamente con l’esecuzione di una procedura di espropriazione per pubblica utilità e ciò anche in virtù della ragione di fondo che, a fronte della garanzia della quale godono gli interessi primari della persona (anche nella forma della soggettività collettiva, propriamente tutelata dalla disciplina degli usi civici “in re propria”), nessuno spazio può considerarsi aperto a valutazioni discrezionali di autorità amministrative o, comunque, esercenti attività di corrispondente natura, potendo e dovendo esse operare nella più stretta osservanza delle norme e dei criteri prefissati dalla legge; il che induce a configurare i relativi provvedimenti come atti vincolati, ovvero adottabili con mera efficacia esecutiva, in virtù della funzione peculiarmente assolta.
La “sdemanializzazione” deve, quindi, realizzarsi tramite le procedure e sulla base dei criteri individuati dalla legge per ciascuna categoria di beni pubblici e non attraverso una mera comparazione di interessi pubblici connessi all’utilizzazione del bene attuata dall’autorità espropriante secondo le regole del diritto amministrativo comune.
Una diversa interpretazione si porrebbe in contrasto con la disciplina e la finalità stessa degli usi civici.
In definitiva, con riferimento alla questione di massima di particolare importanza sottoposta al vaglio di queste Sezioni unite, va affermato il principio in virtù del quale i diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti) per effetto di un decreto di espropriazione per pubblica utilità, poiché la loro natura giuridica assimilabile a quella demaniale lo impedisce, essendo, perciò, necessario, per l’attuazione di una siffatta forma di espropriazione, un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il citato decreto espropriativo che implichi l’estinzione di eventuali usi civici di questo tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull’indennità di espropriazione.
Ne consegue che, con riferimento alla controversia in questione, deve ritenersi conforme a diritto l’impugnata sentenza della Corte di appello dell’Aquila, con cui è stato affermato il principio in base al quale la natura demaniale dei terreni assoggettati ad uso civico “in re propria” esclude in nuce qualsivoglia ipotesi di alienabilità in assenza di preventiva sclassificazione – nei limiti e modi previsti dalla legge e da considerarsi eccezionale rispetto al regime ordinario che qualifica detti beni come indisponibili – da cui solo può discendere la perdita della loro destinazione in proprietà collettiva di una comunità di abitanti. Correttamente, quindi, la citata Corte territoriale ha rigettato il motivo di appello, con il quale era stata contestata la legittimità della D.D. del 14.7.2006 n. DH7/559/usi civici di sclassificazione, fondata sulla Verifica di demanialità.
Di conseguenza, deve essere respinto il quarto motivo del ricorso (relativo alla confutazione della statuizione, appena richiamata, adottata con l’impugnata sentenza di appello), che involge specificamente la questione di massima di particolare importanza risolta con la presente sentenza.
L’esame degli altri motivi del ricorso viene rimessa alla Seconda Sezione civile, che provvederà a regolare anche le spese di questa parte del giudizio trattata e definita da queste Sezioni unite.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, rigetta il quarto motivo del ricorso.
Rimette l’esame degli altri motivi del ricorso alla Seconda Sezione civile, a cui demanda anche la regolazione delle spese del giudizio svoltosi dinanzi alle Sezioni unite.
Così deciso nella camera di consiglio delle Sezioni unite in data 4
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 13 dicembre 2022, n. 36355, per SS.UU, 10 maggio 2023, n. 12571, in tema di usi civici
SS.UU, 10 maggio 2023, n. 12571, in tema di usi civici
In tema di espropriazione per pubblica utilità – SS.UU, 01 marzo 2023, n. 6099
SS.UU, 01 marzo 2023, n. 6099, in tema di espropriazione per pubblica utilità
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ORDINANZA
sul ricorso 11541/2022 proposto da:
COMUNE DI PRAIA A MARE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, —, presso lo studio dell’avvocato —, rappresentato e difeso dagli avvocati —, ed —;
– ricorrente –
contro
—, rappresentata e difesa dall’avvocato —;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 1809/2017 del Tribunale di Paola.
Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 24/01/2023 dal Consigliere Dott. —;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott. —, il quale chiede la Corte di Cassazione, in Camera di consiglio, in accoglimento del ricorso per regolamento di giurisdizione, affermi la giurisdizione del giudice amministrativo.
Svolgimento del processo
1. – Con atto di citazione dinanzi al Tribunale di Paola, notificato in data 23 novembre 2017, — ha evocato in giudizio il Comune di Praia a Mare.
Ha dedotto di essere proprietaria di un fondo ubicato nel territorio del detto Comune e che negli anni 2000 e 2001 erano stati deliberati i progetti relativi ad alcuni lavori: l’approvazione aveva avuto dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza ai sensi della L. n. 1 del 1978, art. 1, con conseguente previsione dell’espropriazione delle aree occorrenti per la realizzazione dell’intervento: tra gli immobili interessati alla procedura ablatoria anzidetta rientrava, poi, il fondo dell’attrice.
Il 10 luglio 2001 il Comune aveva provveduto a redigere lo stato di consistenza e provveduto all’immissione nel possesso del fondo.
Con decreto del 5 agosto 2002 era stata formulata offerta dell’indennità provvisoria di espropriazione, che l’attrice non aveva accettato.
Il decreto di esproprio sarebbe dovuto intervenire entro il 7 giugno 2006: il provvedimento non era
stato però emanato, onde da quella data l’occupazione del fondo era divenuta illegittima.
— ha quindi domandato:
a) accertare l’illegittimità per mancata emanazione del prescritto decreto d’esproprio ovvero di provvedimento di acquisizione sanante D.P.R. n. 327 del 2001, ex art. 42 bis, della procedura ablativa e dell’occupazione del fondo di proprietà dell’attrice;
b) accertare e dichiarare che il terreno era ancora illegittimamente occupato e detenuto dal Comune di Praia a Mare;
c) condannare quest’ultimo al rilascio del fondo;
d) condannare lo stesso Comune all’integrale risarcimento dei danni patiti in conseguenza della coattiva privazione dei propri fondi e allo stravolgimento dello stato dei luoghi posto in atto;
e) condannare, in particolare, il convenuto “al pagamento di tutte le somme spettanti alla parte attrice sia sotto il profilo dell’indennizzo relativo alla fase di occupazione legittima per il quinquennio decorrente dal 10 luglio 2001 (data di immissione in possesso in attuazione del decreto di occupazione di urgenza prot. n. 4803 del 7.6.2001) e sino a tutto il 9 luglio 2006 (data di cessazione del periodo di occupazione legittima): sia sotto il profilo dell’indennizzo dovuto per l’intero periodo di occupazione illegittima conseguente alla mancata adozione del decreto di espropriazione alla scadenza del quinquennio decorrente dalla data del decreto di occupazione di urgenza ovvero all’omesso ricorso alla procedura di acquisizione sanante D.P.R. n. 327 del 2001, ex art. 42 bis, e, dunque, per il mancato godimento commisurato all’ammontare degli interessi moratori calcolati anno per anno sul valore venale degli immobili, con rivalutazione a decorrere dal 10 luglio 2006 (giorno in cui l’occupazione è divenuta illegittima), sino al momento dell’effettiva restituzione del fondo; sia avendo riguardo al ristoro dei danni corrispondenti alle spese complessivamente occorrenti per il ripristino dello stato dei luoghi in conseguenza dello stravolgimento del fondo e la demolizione di tutto quanto ivi insistente ab origine”.
2. – Il Comune di Praia a Mare si è costituito e ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice
ordinario.
3. – Lo stesso Comune ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione e ha depositato memoria.
Resiste con controricorso —.
Il Pubblico Ministero ha concluso instando per la declaratoria di giurisdizione del giudice amministrativo.
Motivi della decisione
1. – Deduce, in sintesi, il Comune di Praia a Mare che la controversia introdotta avanti al Tribunale di Paola è devoluta al giudice amministrativo, posto che la pretesa azionata si raccorda a occupazioni attuate in presenza del concreto esercizio, da parte dell’Amministrazione, del potere ablatorio.
2. – L’esame delle domande dirette all’accertamento del mancato legittimo perfezionarsi del procedimento di esproprio, alla pronuncia sulla retrocessione del fondo e alla condanna al risarcimento dei danni lamentati dall’attrice per effetto del protrarsi dell’occupazione al di là del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, oltre che in conseguenza delle trasformazioni poste in atto sul bene di sua proprietà, è devoluto alla cognizione del giudice amministrativo.
A norma dell’art. 133, lett. g), c.p.a. spettano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa”.
La giurisdizione del giudice amministrativo sussiste, allora, quando il comportamento della P.A., cui si ascrive la lesione, sia la conseguenza diretta di un assetto di interessi conformato da un originario provvedimento ablativo, legittimo o illegittimo, ma comunque espressione di un potere amministrativo (in concreto) esistente cui la condotta successiva si ricollega in senso causale (cfr., SS.UU, 05 giugno 2018, n. 14434; in tal senso cfr. pure: SS.UU, 16 aprile 2018, n. 9334; SS.UU, 11 luglio 2017, n. 17110).
In particolare, sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie nelle quali si faccia questione, a fini risarcitori, di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti a una
dichiarazione di pubblica utilità, ancorché il procedimento nel cui ambito tali attività sono state espletate non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo o sia caratterizzato da atti illegittimi (cfr., SS.UU, 29 gennaio 2018, n. 2145).
Vanno parimenti portate avanti al giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto la mancata retrocessione di un bene, acquisito mediante decreto di esproprio, nonostante la sopravvenuta decadenza della dichiarazione di pubblica utilità, atteso che tale domanda è ricollegabile, in parte, direttamente ad un provvedimento amministrativo, venendo in rilievo il concreto esercizio di un potere ablatorio culminato nel decreto di espropriazione, e, per il resto, ad un comportamento della P.A. ad esso collegato, consistito nell’omessa retrocessione del bene malgrado il verificarsi della suddetta decadenza (cfr., SS.UU, 18 gennaio 2017, n. 1092; in tema pure, SS.UU, 19 novembre 2021, n. 32688).
Ben si comprende come le richiamate domande proposte dall’odierna controricorrente, che si correlano al provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità divenuto inefficace, rientrino nella giurisdizione del giudice amministrativo.
3. – Quanto alla domanda avente ad oggetto l’indennizzo, essa, in base al dettato del citato art. 133, lett. g), rientra nella giurisdizione del giudice ordinario.
Quel che rileva, in proposito, è la manifestata volontà dell’attrice di conseguire non già il ristoro del pregiudizio patrimoniale sofferto in conseguenza di un torto civile, ma l’indennità prevista per la privazione temporanea della disponibilità del fondo: privazione che non si assume essere illecita, non deducendosi che il provvedimento di occupazione fosse contra ius.
Non vi è del resto motivo di escludere la detta giurisdizione in ragione della sopravvenuta perdita di vigore della dichiarazione di pubblica utilità.
Questa Corte ha avuto infatti modo di rilevare che, operando l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità ex nunc, non si verifica alcun travolgimento ex post delle attività legittimamente compiute dalla P.A. sulla base del decreto di occupazione e in pendenza del termine di efficacia della dichiarazione stessa: con la conseguenza che al privato è dovuta l’indennità di occupazione legittima a far data dall’immissione in possesso nel bene fino alla perdita di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, che determina in ogni caso la sopravvenuta carenza di potere ablatorio della P.A. (Cass., 19 giugno 2019, n. 16509).
Del resto, le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità di occupazione legittima dovute in conseguenza di atti ablativi appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, a nulla rilevando che la relativa domanda sia stata proposta dall’attore unitamente a quella, devoluta invece alla giurisdizione del giudice amministrativo, di risarcimento del danno da perdita del bene, stante la vigenza, nell’ordinamento processuale, del principio generale di inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione (cfr., SS.UU, 20 giugno 2022, n. 19877; Cass., 22 marzo 2017, n. 7303).
4. – Va quindi dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo con riguardo alle domande di accertamento dell’illegittimità della procedura ablativa, di risarcimento del danno e di rilascio del fondo, mentre spetta al giudice ordinario la giurisdizione quanto alla domanda di indennizzo per il periodo di occupazione legittima.
5. – In ragione dell’accoglimento solo parziale del regolamento preventivo di giurisdizione, le spese di giudizio possono compensarsi per l’intero.
P.Q.M.
La Corte dichiara:
– la giurisdizione del giudice amministrativo con riguardo alle domande di accertamento dell’illegittimità della procedura ablativa con protratta occupazione del fondo, di risarcimento del danno e di rilascio del fondo stesso;
– la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento alla domanda di indennizzo; compensa integralmente le spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 24 gennaio 2023. Depositato in Cancelleria il 01 marzo 2023.
Allegati:
SS.UU, 01 marzo 2023, n. 6099, in tema di espropriazione per pubblica utilità
In tema di usucapione di bene espropriato – SS.UU, 12 gennaio 2023, n. 651
Civile Sent. Sez. U Num. 651 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: LAMORGESE ANTONIO PIETRO
Data pubblicazione: 12/01/2023
CARLO DE CHIARA – Presidente di Sezione –
LUCIO NAPOLITANO – Consigliere –
MAURO DI MARZIO – Consigliere –
ALBERTO GIUSTI – Consigliere –
ALDO CARRATO – Consigliere –
MARCO MARULLI – Consigliere –
FRANCESCO MARIA CIRILLO – Consigliere –
ANTONIO PIETRO LAMORGESE – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 12182-2017 proposto da:
SFB S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO 56, presso lo studio dell’avvocato FERNANDO BONELLI, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
CITTA’ METROPOLITANA DI ROMA CAPITALE, succeduta ex lege alla Provincia di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 119-A, presso l’Avvocatura della Città metropolitana di Roma capitale, rappresentata e difesa dall’avvocato ALBANESE GIOVANNA;
ROMA CAPITALE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso gli Uffici dell’Avvocatura di Roma Capitale, rappresentata e difesa dall’avvocato GUGLIELMO FRIGENTI;
– controricorrenti –
IMPRESA LAURENZI & C. S.N.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DURAZZO 9, presso lo studio dell’avvocato VINCENZA PAESE che la rappresenta e difende;
– ricorrente successivo –
contro
CITTA’ METROPOLITANA DI ROMA CAPITALE, succeduta ex lege alla Provincia di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 119-A, presso l’Avvocatura della Città metropolitana di Roma capitale, rappresentata e difesa dall’avvocato ALBANESE GIOVANNA;
ROMA CAPITALE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso gli Uffici dell’Avvocatura di Roma Capitale, rappresentata e difesa dall’avvocato GUGLIELMO FRIGENTI;
– controricorrenti al successivo –
avverso la sentenza n. 6980/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/11/2016.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/12/2022 dal Consigliere ANTONIO PIETRO LAMORGESE;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale ALBERTO CARDINO, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso di SFB s.p.a. e del primo motivo di ricorso di Impresa Laurenzi & C. s.n.c., con l’enunciazione del principio di diritto;
uditi gli avvocati Fernando Bonelli e Guglielmo Frigenti.
FATTI DI CAUSA
1.- Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 5066/2011, decideva sulle cause riunite promosse, rispettivamente, dal Comune di Roma e dalla Cassia 12.800 s.r.l. (successivamente divenuta SFB s.r.l. e, da ultimo, SFB s.p.a.), aventi ad oggetto le contrapposte domande di rilascio di un’area di proprietà comunale, asseritamente detenuta senza titolo dalla società SFB, e di risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede per la ritardata consegna (domande avanzate dal citato Comune) e di declaratoria di usucapione ventennale o, in subordine, di retrocessione dell’area (domande avanzate dall’impresa).
Con riferimento alle domande della SFB, riguardanti una (porzione di) area acquisita in proprietà del Comune di Roma per la realizzazione del parco pubblico di Primavalle, in forza del decreto di esproprio n. 778 emesso nel 1975 e trascritto nei confronti dell’allora proprietaria società Alba (Anonima Laziale Bonifica Agraria) s.r.l., l’avente causa Cassia 12.800 aveva dedotto che il Comune non ne avesse acquisito il possesso (affermava che solo nel 2000 incaricati del Comune fecero un sopralluogo preliminare alla realizzazione del parco), non avendo concretamente posto in essere le attività realizzative dell’opera pubblica e, quindi, esercitato alcun potere di fatto sul terreno in oggetto, mentre l’originaria dante causa (società Alba) aveva continuato ad esercitare il possesso per un tempo che si doveva aggiungere a quello successivamente esercitato dalla Cassia 12.800 (dal 1990) e, pertanto, era maturato il periodo utile per l’usucapione; in subordine, aveva dedotto che sussistessero le condizioni per la retrocessione.
2.- Per quanto ancora interessa, il Tribunale rigettava le domande di SFB e la condannava al rilascio, in favore di Roma Capitale (già Comune di Roma), del terreno distinto al NCT al foglio 365, particelle 2270 di mq 468, 2265 di mq 1385 e 2267 di mq 2506: escludeva la possibilità, ai fini della usucapione, di cumulare l’eventuale possesso della Cassia 12.800 a quello dedotto in capo alla sua dante causa, anche perché quest’ultima era consapevole dell’intervenuta espropriazione del fondo e non aveva posto in essere atti di interversione del possesso idonei a configurare il costituto possessorio.
3.- All’esito del giudizio di appello introdotto dalla soccombente SFB, costituite Roma Capitale e l’Amministrazione Provinciale di Roma, la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 18 novembre 2016, ha dichiarato ammissibile l’intervento dell’impresa Laurenzi & c. s.n.c. (che aveva dedotto di avere un interesse autonomo all’accoglimento del gravame, avendo sottoscritto nel 2002 un contratto preliminare di compravendita con la Cassia 12.800 in relazione alle controverse particelle, che aveva detenuto in qualità di comodataria per oltre quaranta anni), ha rigettato il gravame e condannato l’appellante al rimborso delle spese.
La Corte romana, premesso che la contestazione verteva su una porzione esigua di una più vasta area espropriata nel 1975 e che non vi erano elementi di prova a sostegno della totale mancata realizzazione dell’opera pubblica cui l’esproprio era finalizzato (l’area era in parte sovrapponibile ad altra area espropriata dalla Provincia sulla quale erano state realizzate una scuola, una strada e un’area verde), ha osservato che comunque (anche) la suddetta porzione era stata acquisita al patrimonio indisponibile di Roma Capitale e che, pertanto, non sussistevano le condizioni per il suo acquisto a titolo di usucapione da parte della società privata occupante né per la retrocessione. Con riguardo all’usucapione, la Corte ha confermato il percorso logico-giuridico seguito dal primo giudice circa l’insussistenza dei relativi presupposti: il decreto di esproprio è atto idoneo a far acquisire all’ente pubblico la proprietà piena e il possesso (sia pure solo animo) del bene e ad escludere qualsiasi situazione, di diritto e di fatto, con essi incompatibile e, permanendo il precedente proprietario o un terzo nella occupazione del bene, il loro non è un possesso utile ad usucapionem ma una mera detenzione, avendo la dante causa (società Alba) avuto conoscenza del decreto di esproprio (seppure non con la notifica del decreto di esproprio ma indirettamente tramite un altro atto del procedimento) che comportava la perdita dell’animus possidendi, salva la non dimostrata interversione nel possesso.
4.- Avverso la sentenza di appello hanno proposto due distinti ed autonomi ricorsi (affidati a tre motivi) la SFB s.p.a. e l’Impresa Laurenzi & c. s.n.c., resistiti, con altrettanti controricorsi, da Roma Capitale e dalla Città metropolitana di Roma Capitale (già Amministrazione Provinciale). La SFB s.p.a. e Roma Capitale hanno depositato memorie difensive.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- La società SFB, con il primo motivo di ricorso, ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141, 3 1146, 1158 e 1164 c.c., omesso esame di un fatto decisivo costituente oggetto di discussione tra le parti, nonché insufficiente ed erronea motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale aveva affermato che era onere della Cassia 12.800 (oggi SFB) provare l’interversione nel possesso, malgrado l’espropriazione non avesse mutato in detenzione il possesso dell’originario proprietario dell’immobile. Infatti, la mancata realizzazione dell’opera pubblica, di una recinzione e del frazionamento da parte del Comune di Roma, la perdurante inattività e inerzia dello stesso per oltre venticinque anni, l’assenza di prove giustificative di un’eventuale tolleranza dell’ente pubblico, la mancata notifica del decreto di espropriazione, il compimento di attività corrispondenti all’esercizio della proprietà da parte delle società Alba e, poi, Cassia 12.800, costituivano elementi trascurati che dimostravano l’animus che muoveva le due società, non riconducibile ad una mera detenzione bensì ad un vero e proprio possesso del bene (mediante la manifestazione di volerlo considerare proprio), quindi utile ai fini dell’usucapione.
Con il secondo motivo la SFB ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., anche in relazione agli artt. 111 Cost. e 132 c.p.c., omesso esame di un fatto decisivo che era stato oggetto di discussione tra le parti, nonché insufficiente o errata motivazione, per avere l’impugnata sentenza ritenuto irrilevante la mancata notificazione del decreto di espropriazione sull’apodittico presupposto che la società Alba ne fosse venuta posteriormente a conoscenza mediante la comunicazione di documenti successivi.
Con il terzo motivo ‒ formulato in via subordinata ‒ la società ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 60 e 63 della legge n. 2359 del 25 giugno 1865 e 46 ss. del t.u. espropri (dPR 8 giugno 2001, 327) sulla domanda di retrocessione, contestualmente deducendo l’omesso esame di fatto decisivo, avendo i giudici di merito ritenuto erroneamente che l’opera (parco pubblico) prevista dal decreto di esproprio del Comune di Roma fosse stata realizzata, a tal fine erroneamente valutando la procedura espropriativa compiuta da un altro ente pubblico (Provincia di Roma) per la realizzazione di un’opera diversa (una scuola).
La ricorrente incidentale Impresa Laurenzi ha formulato tre motivi sostanzialmente speculari a quelli della ricorrente principale SFB, i quali prospettano le medesime violazioni di legge, ruotanti (i primi due) sulla questione dell’usucapibilità della parte di fondo controverso attinto dal decreto di esproprio, al quale non era seguita ‒ per la parte interessata ‒ alcuna attività di immissione in possesso o altra condotta integrante la inequivoca manifestazione di una concreta volontà di esecuzione del provvedimento ablativo, e (il terzo) sulla questione della retrocessione.
2.- Il Procuratore Generale ha presentato requisitoria scritta favorevole all’accoglimento del primo motivo di entrambi i ricorsi con l’enunciazione del seguente principio: «il decreto di esproprio di cui all’art. 48, comma 2, l. 15.6.1865, n. 2359, non comporta l’automatica trasformazione del potere di fatto esercitato dal proprietario espropriato da possesso a detenzione, nemmeno ove portato a conoscenza, legale od effettiva, di questi. Ove al decreto di esproprio non consegua l’immissione in possesso da parte dell’espropriante, il possesso esercitato sul bene da parte dell’ex-proprietario espropriato è idoneo a permettere la maturazione dell’acquisto per usucapione a suo favore».
3.- La Seconda sezione, con ordinanza interlocutoria n. 19758 del 2022, ha sollecitato la rimessione della causa alle Sezioni Unite, ai fini della soluzione del contrasto, registrato all’interno della giurisprudenza della Corte, sulla questione posta nel primo motivo, comune ad entrambe le società ricorrenti, riguardante gli effetti del decreto di espropriazione notificato al proprietario espropriato (il quale ne sia venuto, comunque, a conoscenza) e, in particolare, se viene a verificarsi – nei termini in cui la questione è formulata – la condizione del cd. costituto possessorio in favore dell’ente espropriante e, quindi, l’automatica perdita dell’animus possidendi in capo al precedente proprietario che continui ad occupare il bene espropriato, con conseguente interruzione del pregresso possesso (utile ad usucapionem) da quest’ultimo esercitato o se, invece, il possesso continui a permanere in capo all’occupante con la possibilità di riacquistare il diritto di proprietà sul bene – ancorché oggetto di espropriazione, ma senza che sia intervenuta la immissione in possesso o una condotta realizzativa delle opere previste nel decreto di esproprio ‒ a titolo di usucapione al successivo maturare dei venti anni continuativi.
Entrambe le opzioni interpretative, come rilevato nell’ordinanza interlocutoria, sono seguite da due opposti orientamenti riferibili trasversalmente a due distinte Sezioni di questa Corte (prima e seconda).
Nell’impugnata sentenza la Corte d’appello di Roma ‒ che ha confermato la decisione di primo grado – ha privilegiato la tesi secondo cui alla notifica del decreto di esproprio al (o della conoscenza dello stesso da parte del) proprietario consegue, in modo automatico, la perdita dell’animus possidendi in capo all’espropriato occupante, risultando necessario, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso da parte di quest’ultimo, un atto di interversio possessionis.
4.- Come rilevato nell’ordinanza interlocutoria, nella giurisprudenza di legittimità si confrontano due orientamenti sulla questione della usucapibilità di un immobile validamente espropriato, sulla base di una valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità, quando il proprietario persista nel godimento del bene per un tempo utile a usucapirlo, ai sensi dell’art. 1158 c.c.
4.1.- Secondo un primo orientamento, «in tema di possesso ad usucapionem, tanto il trasferimento volontario quanto quello coattivo di un bene non integrano necessariamente, di per sé, gli estremi del constitutum possessorium, poiché ‒ con particolare riguardo ai trasferimenti coattivi conseguenti ad espropriazione per pubblica utilità ‒ il diritto di proprietà è trasferito contro la volontà dell’espropriato/possessore, e nessun accordo interviene fra questi e l’espropriante, né in relazione alla proprietà, né in relazione al possesso. Ne consegue che il provvedimento ablativo non determina, di per sé, un mutamento dell’animus rem sibi habendi in animus detinendi in capo al proprietario espropriato, il quale, pertanto, può del tutto legittimamente invocare, nel concorso delle condizioni di legge, il compimento in suo favore dell’usucapione (a ciò non ostando, tra l’altro, il disposto degli artt. 52 e 63 della legge n. 2359 del 1865) tutte le volte in cui alla dichiarazione di pubblica utilità non siano seguiti né l’immissione in possesso, né l’attuazione del previsto intervento urbanistico da parte dell’espropriante, del tutto irrilevante appalesandosi, ai fini de quibus, l’acquisita consapevolezza dell’esistenza dell’altrui diritto dominicale» (in tal senso Cass. sez. I n. 5293 del 2000; sez. II n. 5996 del 2014, n. 25594 del 2013, n. 13558 del 1999 e, implicitamente, n. 3836 del 1983).
4.2.- Secondo un altro orientamento, «il decreto di espropriazione è idoneo a far acquisire la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di diritto o di fatto con essa incompatibile e, qualora il precedente proprietario o un soggetto diverso continuino ad esercitare sulla cosa un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, la notifica [o conoscenza] del decreto ne comporta la perdita dell’animus possidendi, conseguendone che, ai fini della configurabilità di un nuovo possesso ad usucapionem, è necessario un atto di interversio possessionis» (Cass. sez. I n. 6742 del 2014, n. 13669 del 2007, n. 12023 del 2004; sez. II n. 23850 del 2018 e n. 6966 del 1988). E’ opportuno ricordare che la mancata o irregolare notifica del decreto di esproprio al proprietario effettivo, pur impedendo il decorso del termine di decadenza per l’opposizione alla stima e abilitando il proprietario a invocare la tutela risarcitoria per la ritardata riscossione dell’indennità espropriativa, non danno luogo a carenza del potere espropriativo (ex plurimis, Cass. sez. I n. 2539 del 2015, n. 11901 del 2014, n. 8580 del 1998).
5.- Il Collegio condivide questo secondo orientamento sia nelle controversie soggette al regime previgente al t.u. degli espropri (dPR 8 giugno 2001, n. 327) – nelle quali il decreto di esproprio (che nel caso in esame risale al 1975) sia emesso in forza di una dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza antecedente alla data del 30 giugno 2003 di entrata in vigore dello stesso testo unico (art. 57), sia – per ragioni parzialmente diverse, come si vedrà più avanti (sub 15 ss.) – nelle controversie soggette alle disposizioni del medesimo testo unico.
6.- Le ragioni che – nell’assetto normativo previgente ma applicabile nella fattispecie ratione temporis – giustificano l’opzione contraria alla usucapibilità a favore del proprietario espropriato che rimanga nella disponibilità del bene, emergeranno, di seguito, dalle fondate repliche che è possibile formulare agli argomenti a sostegno della tesi opposta.
7.- Secondo i sostenitori della tesi favorevole all’usucapibilità, il bene espropriato ma non occupato e non ancora utilizzato per la realizzazione dell’opera non rientra nel patrimonio indisponibile dell’amministrazione procedente e, quindi, non v’è ostacolo all’usucapibilità (ex art. 828, comma 2, c.c.), a tal fine occorrendo, trattandosi di beni non riservati (ex art. 826, comma 2, c.c.), un doppio requisito non ravvisabile nella specie: la manifestazione di volontà dell’ente pubblico tramite un atto amministrativo che destini un determinato bene ad un pubblico servizio e l’effettiva ed attuale destinazione del bene a tale finalità, ai sensi dell’art. 826, comma 3, c.c. (cfr. Cass. n. 26990 del 2020, SU n. 391 del 1999). Né la mera programmazione dell’opera in cui consiste la dichiarazione di pubblica utilità né il provvedimento espropriativo sarebbero sufficienti a conferire al bene quella destinazione necessaria per attrarlo al patrimonio indisponibile.
7.1.- Tuttavia, se è vero che la mera pianificazione urbanistica (se consistente in generiche previsioni prive di specifiche localizzazioni) non sembra di per sé idonea a configurare una specifica destinazione del bene a finalità di interesse pubblico (cfr. Cass. SU n. 14865 del 2006, sez. II n. 8753 del 1997), si deve comprendere se la medesima conclusione possa valere anche rispetto ad opere validamente dichiarate di pubblica utilità, in vista delle quali è stato emesso un valido ed efficace decreto di esproprio, e cioè se in tali casi sia ragionevole e conforme al modello legale identificare il momento in cui il bene acquista la prerogativa dell’indisponibilità solo nel momento in cui l’opera sia stata realizzata e la funzione pubblica assicurata. Il quesito merita risposta negativa.
Questa Corte ha precisato che «è chiaro che qualora alla programmazione dell’opera o della struttura necessaria al servizio pubblico debbano seguire, in via preventiva, complesse procedure di acquisizione di aree, e successivamente consistenti opere di manipolazione o trasformazione dei fondi, l’ottica del conseguimento della indisponibilità solo al compimento dei lavori o all’avvio del funzionamento del servizio che di dette strutture si avvale, può manifestare un distacco temporale consistente, all’interno del quale, in teoria, il bene, che dunque farebbe parte del patrimonio disponibile, potrebbe essere oggetto di pretese creditoria private, o di situazioni di fatto (possessorie) di qualche rilevanza […]» (Cass. sez. I n. 12023 del 2004) che potrebbero concretamente interferire o essere incompatibili con l’attuazione degli interventi realizzativi per i quali è essenziale la piena disponibilità del bene da parte dell’ente espropriante.
Come rilevato nel richiamato precedente del 2004, «è il sovrapporsi del requisito soggettivo dell’acquisizione in proprietà al requisito oggettivo della destinazione urbanistica che non può non conferire concretezza alla destinazione [pubblicistica del bene]» e ciò è coerente con le numerose disposizioni legislative che riconoscono al bene validamente espropriato per uno scopo di pubblica utilità l’appartenenza al patrimonio indisponibile prima e indipendentemente dalla realizzazione dell’opera: si vedano gli artt. 42-bis, comma 1, del t.u. del 2001, costituente un «procedimento espropriativo semplificato» (cfr. Corte cost. n. 71 del 2015); 21, comma 2, e 35, comma 3, della legge 22 ottobre 1971, n. 865, modificativa della legge 18 aprile 1962 n. 167, in tema di edilizia residenziale pubblica, applicabile anche agli edifici scolastici e alle aree verdi (cfr. Cass. sez. II n. 17308 del 2020 per le aree incluse nei p.e.e.p. e, sez. I n. 9508 del 1997, nei p.i.p.) e le numerose leggi regionali che prevedono l’acquisizione degli immobili espropriati al patrimonio indisponibile del Comune (cfr. L.R. Lazio 22 dicembre 1999 n. 38, art. 46).
L’appartenenza del bene al patrimonio indisponibile non è prevista, in tali casi, da atti amministrativi ricognitivi sindacabili dal giudice ma da atti legislativi che ne riconoscono la destinazione a scopi pubblicistici, non rilevando che il bene non sia stato ancora materialmente realizzato. E’ allora pertinente il principio secondo cui «quando il legislatore sancisce, con una norma espressa, sia di una legge statale che di una legge regionale, che determinati beni di proprietà di un ente pubblico siano considerati patrimonio indisponibile del medesimo, tale carattere – salvo che non si metta in dubbio la costituzionalità della legge ‒ non può essere disconosciuto» (cfr. Cass. sez. I n. 5053 del 1977).
«Per quel che ora interessa – prosegue ancora la sentenza n. 12023 del 2004 – posto che per effetto dell’acquisizione coatta in proprietà del suolo il mero intendimento programmatorio si trasforma, riguardo alla singola area espropriata, nell’avvio della concreta attività necessaria alla realizzazione dell’opera pubblica, il problema non è tanto di concepire l’inizio dell’indisponibilità, che coincide con l’acquisizione in proprietà del bene al fine dell’utilizzo pubblicistico programmato, quanto di identificare un termine finale del periodo di “protezione” della destinazione pubblicistica alla cui scadenza avviene la cessazione del regime di indisponibilità […] Detto termine è ora positivamente fissato () in dieci anni dall’esecuzione del decreto di esproprio (o nel termine anteriore da cui risulti l’impossibilità dell’esecuzione). Va da sé che ove l’opera pubblica non necessiti di materiali trasformazioni, il carattere dell’indisponibilità sarà assunto al momento dell’espropriazione, posto che è la stessa dichiarazione di pubblica utilità a dover contenere un esplicito provvedimento [vincolato] di destinazione all’uso pubblico (art. 13, comma 8). Nel precedente regime è possibile assimilarlo all’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità […] di modo che l’area ridiventa disponibile nel momento stesso in cui sarebbero ravvisabili i presupposti per l’esercizio del diritto di retrocessione (art. 60 e ss. ) ».
Può quindi dirsi che nell’acquisizione dell’area mediante procedura ablatoria l’ordinamento presenta istituti dalla cui applicazione è possibile rinvenire il giusto equilibrio tra l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera senza interferenze da parte dei terzi e l’interesse privato riconoscibile in aspettative qualificate con riguardo allo specifico bene, individuate dalla legge nel riconoscimento all’espropriato – a fronte della totale inerzia dell’ente espropriante protratta nel tempo – del diritto potestativo alla retrocessione che, quando (e dopo che) sia decaduta la dichiarazione di pubblica utilità, gli consente di riacquistare sia la proprietà sia il possesso pieno del bene tramite pronuncia costitutiva del giudice e previo pagamento del relativo prezzo (cfr. Cass. sez. I nn. 771 del 1998, 10298 del 1992, 2406 del 1979), diritto da esercitare nel rispetto del termine di prescrizione. E’ significativo che, nel caso della retrocessione parziale, si affermi che l’espropriato sia titolare di un mero interesse legittimo alla valutazione (discrezionale) dell’amministrazione di inservibilità dei beni (cfr. Cass. sez. I n. 18580 del 2020, SU n. 10824 del 2014 e n. 9072 del 2003), sebbene – invero – l’art. 63 della legge n. 2359 del 1865 (non diversamente nella sostanza dall’art. 47 del t.u. del 2001) riconosca all’espropriato il «diritto ad ottenerne la retrocessione» quando il bene «non ricevette o in tutto o in parte la preveduta destinazione» (coerente con tale impostazione è la inconfigurabilità della declassificazione tacita dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile, la cui destinazione all’uso pubblico derivi da una determinazione legislativa, per effetto del comportamento concludente del proprietario, cfr. Cass. sez. II n. 2962 del 2012).
8.- L’orientamento che riconosce il possesso in capo all’espropriato occupante fa leva sul principio secondo cui «per escludere la sussistenza del possesso utile all’usucapione non è sufficiente il riconoscimento o la consapevolezza del possessore circa l’altrui proprietà del bene, occorrendo, invece, che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per i fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare, atteso che l’animus possidendi non consiste nella convinzione di essere titolare del diritto reale, bensì nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facoltà» (ex plurimis, Cass. sez. II n. 13153 del 2021).
8.1.- Si può tuttavia osservare che l’art. 52 della legge del 1865 dispone che non solo «le azioni di rivendicazione, di usufrutto, di ipoteca, diritto dominio…» ma anche «tutte le altre azioni esperibili sui fondi soggetti ad espropriazione, non possono interrompere il corso di essa, né impedirne gli effetti». Si tratta di un effetto legale (non del distinto atto prefettizio di occupazione, ex art. 48, ma) del decreto di esproprio avente efficacia immediatamente traslativa (art. 50), che determina «l’estinzione automatica di tutti gli altri diritti, reali o personali, gravanti sul bene espropriato, salvo quelli compatibili con i fini cui l’espropriazione è preordinata» (art. 25, comma 1, t.u. del 2001). Non v’è ragione di ritenere che tra i diritti estinti non vi sia anche lo jus possessionis tipico delle situazioni possessorie, se si considera che «pronunciata l’espropriazione, tutti i diritti anzidetti si possono far valere non più sul fondo espropriato, ma sull’indennità che lo rappresenta» (artt. 52, comma 2, legge del 1865 e 14 legge n. 865 del 1971; in senso analogo è l’art. 25, comma 3, t.u. del 2001, in base al quale «dopo la trascrizione del decreto di esproprio, tutti i diritti relativi al bene espropriato possono essere fatti valere unicamente sull’indennità»).
Una indiretta conferma dell’impostazione qui condivisa proviene dal confronto con la diversa situazione determinata dalla mera occupazione d’urgenza del bene da parte dell’amministrazione, prima o in mancanza del provvedimento espropriativo: l’occupazione d’urgenza non priva il proprietario del possesso giuridico (seppur «solo animo»), in quanto il bene continua ad appartenere a lui – tanto che per tale motivo gli si riconosce un’indennità per l’occupazione – mentre nell’ente occupante, che riconosce la proprietà altrui, manca l’animus rem sibi habendi, essendo un detentore qualificato (cfr. Cass. sez. I n. 21433 del 2007) cui sono riconosciuti i poteri inerenti al titolo pubblicistico (si spiega perché l’amministrazione occupante che mantiene il suo comportamento nei limiti previsti dal provvedimento autorizzativo non compia un atto lesivo del possesso e nei suoi confronti non siano esperibili le azioni di manutenzione o di reintegrazione da parte del proprietario, cfr. Cass. sez. II n. 1323 del 1992).
Ciò tuttavia può dirsi «finché non interviene il decreto di esproprio» (cfr. Cass. n. 21433 del 2007 e n. 1323 del 1992 poc’anzi citate) che segna il momento in cui non è più possibile riconoscere in capo all’amministrazione, divenuta proprietaria del bene, l’elemento intenzionale (tipico della detenzione) della cd. laudatio possessoris nei confronti altrui, elemento che deve riconoscersi, invece, in capo all’occupante-detentore nei confronti dell’amministrazione proprietaria che abbia la disponibilità e il possesso giuridico anche solo animo del bene, potendo in ogni tempo ripristinare il corpus senza far ricorso ad azioni violente o clandestine (ex plurimis, Cass. sez. II n. 9396 del 2005, n. 1253 del 2000).
Non è possibile qualificare in termini di possesso la relazione fattuale dell’espropriato (occupante) con il bene, non essendogli concesso di proporre le azioni possessorie a tutela della pienezza del godimento del bene stesso o per contrastare le legittime (e doverose) attività appropriative poste in essere dall’amministrazione in conseguenza dell’espropriazione. Le azioni possessorie costituiscono modi di tutela del diritto di continuare a godere del bene nello stato di fatto in cui era precedentemente posseduto e sono proponibili nei confronti della pubblica amministrazione, «a meno che sul diritto non abbia inciso un provvedimento avente attitudine a sottrarre al privato la proprietà o disponibilità della cosa o a mutarne il modo di godimento» (Cass. SU n. 11351 del 1998), nel qual caso l’azione è proponibile solo se sia ravvisabile carenza di potere amministrativo, situazione non configurabile in presenza di un provvedimento espropriativo legittimo.
Per altro verso, l’ente espropriante può agire con i mezzi ordinari a tutela della proprietà e del possesso (ad esempio, con l’azione di rilascio) nei confronti dell’espropriato o dei terzi occupanti (cfr. Cass. SU nn. 27456 del 2016, 17954 del 2007, 15290 del 2006, 6129 del 1986) e, in alternativa, in via di autotutela amministrativa ex art. 823, comma 2, c.c. mediante atti non impugnabili davanti al giudice ordinario (cfr. Cass. SU nn. 7344 del 1983, 3226 del 1979). Qualora al decreto di esproprio non segua l’immissione in possesso, nel sistema normativo antecedente al t.u. del 2001, l’ente espropriante resta possessore solo animo, avendo la disponibilità giuridica del bene e potendo in ogni momento ripristinare il contatto materiale con esso e pretenderne il rilascio per tutta la durata di efficacia legale del titolo (decreto di esproprio) e della presupposta dichiarazione di p.u., senza possibilità per il detentore di opporvisi, salva l’azione di retrocessione (cfr. Cass. sez. I n. 1117 del 1977).
9.- Si sostiene a favore della tesi della usucapibilità del bene espropriato che l’efficacia traslativa del consenso abbia ad oggetto la proprietà e non il possesso, in mancanza di specifica pattuizione in senso diverso, sicché alla vendita (così come al decreto di esproprio)
non si accompagni anche il trasferimento del possesso che costituisce, invece, oggetto di una specifica obbligazione (ex art. 1476 c.c.) che, se non adempiuta, fa sì che l’alienante (e l’espropriato) rimangano nel possesso della cosa, pur avendo trasferito la proprietà.
9.1.- Si può, tuttavia, osservare che l’espropriazione per pubblica utilità non è assimilabile a una vicenda negoziale, trattandosi di un atto autoritativo con cui l’amministrazione acquista la proprietà a titolo originario (alla data del decreto di esproprio secondo la legge del 1865, art. 50, comma 1, o alle condizioni previste nel t.u. del 2001, art. 23), con gli effetti già visti (sub 8.1) che comportano l’estinzione automatica di tutti diritti gravanti sul bene espropriato, da far valere unicamente sull’indennità (pretium succedit in locum rei), e «privano» il proprietario anche del possesso giuridico dei suoi beni (ex art. 834, comma 1, c.c.).
10.- Si sostiene ancora che nei trasferimenti coattivi, come l’espropriazione forzata, «il provvedimento di aggiudicazione non determina automaticamente, per il solo fatto che esso venga pronunciato ed a prescindere dalla sua esecuzione, il mutamento dell’animus rem sibi habendi del proprietario espropriato, trasformandolo in animus detinendi alieno nomine [in nome dell’espropriante]» (cfr. Cass. sez. III nn. 1716 del 1966, 4079 del 1968), con la conseguenza che l’aggiudicazione trasferisce la proprietà e non il possesso.
10.1.- Si tratta, tuttavia, di vicende coattive non comparabili tra loro: l’espropriazione per pubblica utilità dà luogo – come si è detto – ad un acquisto a titolo originario con gli effetti che si sono illustrati, mentre l’espropriazione forzata dà luogo ad un acquisto a titolo derivativo (cfr. Cass. sez. II nn. 25926 del 2022, 20608 del 2017), rispetto al quale l’art. 2919 c.c. fa comunque salvo solo il «possesso di buona fede».
11.- Si sostiene che il trasferimento della proprietà conseguente al decreto di esproprio, cui non segua l’immissione in possesso, non fa costituire l’ente espropriante come possessore solo animo (constitutum possessorium) né l’espropriato come detentore nomine alieno, poiché la proprietà si trasferisce in capo all’ente contro la volontà dell’espropriato e senza accordo sul trasferimento della proprietà e del possesso, con la conseguenza che l’espropriato rimane possessore con l’animus rem sibi habendi. Il trasferimento del diritto di proprietà non implicherebbe anche il trasferimento del possesso in mancanza della materiale consegna del bene o immissione in possesso.
11.1.- Il fenomeno del constitutum possessorium ‒ che nei negozi traslativi della proprietà o di altri diritti reali si tende ad escludere come effetto automatico (salvo, comunque, un diverso accertamento in concreto) al fine di evitare che l’acquirente del bene sia costituito come possessore giuridico quando la detenzione resti in capo all’alienante (ex plurimis, Cass. sez. II n. 6893 del 2014) ‒ è richiamato per giustificare una analoga conclusione nella vicenda espropriativa, al fine di escludere che l’ente espropriante possa acquistare il possesso «solo animo», nel caso in cui l’espropriato resti nel godimento del bene. E tuttavia, il parallelismo tra vicende traslative disomogenee (l’una autoritativa, l’altra negoziale) non è condivisibile e, di conseguenza, non lo è la conclusione: nell’espropriazione per pubblica utilità la volontà del proprietario per definizione non conta e, quindi, non è chiaro – visto che la proprietà si trasferisce contro la (o nonostante una diversa) volontà dell’espropriato – come costui possa (e perché debba) conservare l’animus possidendi. Il proprietario espropriato può restare nel godimento del bene finché persiste l’assenso implicito (o tolleranza) dell’ente espropriante che in ogni momento è in condizione di ripristinare la relazione fattuale con il bene posseduto solo animo, senza vedersi opporre una inesistente pretesa di astensione da parte dell’occupante, la cui detenzione per diventare utile ai fini dell’usucapione deve trasformarsi in possesso (interversione).
A tal fine non è sufficiente un semplice atto di volizione interna, occorrendo una manifestazione esteriore – rivolta specificamente contro il possessore (art. 1141, comma 2, c.c.), in maniera che questi possa rendersene conto – dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell’animus rem sibi habendi, non rilevando l’inottemperanza alle eventuali pattuizioni implicite in forza delle quali la detenzione era stata costituita, né meri atti di esercizio del possesso (quali la stipula di contratti di locazione, la percezione dei relativi canoni, lo svolgimento di opere di manutenzione e la gestione delle utenze), traducendosi gli stessi in un’ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene (cfr. Cass. sez. I n. 26327 del 2016, sez. II n. 2392 del 2009), né rilevando l’impugnazione del decreto di esproprio in sede giurisdizionale, cui va attribuito il solo intento di disconoscere il titolo di acquisizione del diritto reale (cfr. Cass. sez. I n. 13669 del 2007). Il contenuto dell’interversione, idonea a trasformare la detenzione in possesso, deve poter significare la negazione dell’altrui possesso e l’affermazione del proprio (negazione ed affermazione in modi e forme variabili in rapporto con i modi e le forme variabili di comportamento del possessore), bastando all’uopo un comportamento oppositivo non soggetto a particolari formalità, secondo l’insindacabile valutazione del giudice del merito. In mancanza di atti di prova di uno specifico atto di interversione nel possesso dopo l’emissione del decreto di espropriazione per pubblica utilità, l’eventuale protrarsi del godimento del bene da parte dell’espropriato può integrare una detenzione precaria non utile ai fini dell’usucapione.
12.- Ad analoga conclusione si deve pervenire nel caso in cui il trasferimento dell’immobile avvenga mediante cessione volontaria, che è negozio di diritto pubblico, sostitutivo del decreto di esproprio ma dotato della medesima funzione – confermata dal richiamo alle norme sulla retrocessione nel t.u. del 2001 (art. 45, comma 4) – di segnare l’acquisto, a titolo originario, in favore della P.A., del bene compreso nel piano d’esecuzione dell’opera pubblica, e di produrre i medesimi effetti, con la necessità di far valere tutti i diritti relativi all’immobile (espropriato o ceduto) esclusivamente sull’indennità (cfr. Cass. sez. II n. 24529 del 2022, p. 4 della motiv., e sez. I n. 1730 del 1999) e, di conseguenza, di escludere la usucapibilità del bene (cfr. Cass. sez. I n. 11407 del 2012, sez. II n. 17172 del 2008).
13.- Si deve quindi enunciare il seguente principio: nelle controversie soggette al regime normativo antecedente all’entrata in vigore del t.u. n. 327 del 2001, nelle quali la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta prima del 30 giugno 2003, nel caso in cui al decreto di esproprio validamente emesso (come è incontestato nella specie) ‒ che è idoneo a far acquisire al beneficiario dell’espropriazione la proprietà piena del bene e ad escludere qualsiasi situazione di fatto e di diritto con essa incompatibile ‒ non sia seguita l’immissione in possesso, la notifica o la conoscenza effettiva del decreto comportano la perdita dell’animus possidendi in capo al precedente proprietario, il cui potere di fatto sul bene – se egli continui ad occuparlo – si configura come una mera detenzione, con la conseguenza che la configurabilità di un nuovo periodo possessorio, invocabile a suo favore «ad usucapionem», necessita di un atto di interversio possessionis da esercitare in partecipata contrapposizione al nuovo proprietario, dal quale sia consentito desumere che egli abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio. Resta fermo il diritto dell’espropriato di chiedere la retrocessione totale o parziale del bene.
14.- Al suddetto principio consegue l’infondatezza dei primi due motivi di entrambi i ricorsi, volti a dimostrare il perdurante possesso utile per l’usucapione da parte delle società (dante e avente causa), risolvendosi in una generica critica di incensurabili apprezzamenti di fatto compiuti dai giudici di merito, a proposito della conoscenza del decreto di esproprio da parte della società espropriata e alla non configurabilità di atti di interversione nel possesso nelle condotte materiali indicate dall’appellante (locazione o concessione in comodato del terreno a terzi affinché lo coltivassero o utilizzassero come deposito).
15.- Un principio solo parzialmente diverso deve essere enunciato nelle controversie soggette al t.u. n. 327 del 2001, nelle quali il decreto di esproprio sia emesso sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità intervenuta dopo il 30 giugno 2003, alla luce degli artt. 23 e 24 del medesimo testo unico.
In particolare, a norma dell’art. 23, il decreto di esproprio (sempre che tempestivamente emesso ai sensi degli artt. 13, comma 6, e 23, comma 1, lett. a) «dispone il passaggio del diritto di proprietà, o del diritto oggetto dell’espropriazione, sotto la condizione sospensiva che il medesimo decreto sia successivamente notificato ed eseguito» (comma 1, lett. f); il decreto «è notificato al proprietario […]» (comma 1, lett. g); «è eseguito mediante l’immissione in possesso del beneficiario dell’esproprio, con la redazione del verbale di cui all’articolo 24» (comma 1, lett. h); «è trascritto senza indugio presso l’ufficio dei registri immobiliari» (comma 2); «la notifica del decreto di esproprio può avere luogo contestualmente alla sua esecuzione» (comma 3).
L’art. 24 dispone che «l’esecuzione del decreto di esproprio ha luogo per iniziativa dell’autorità espropriante o del suo beneficiario, con il verbale di immissione in possesso, entro il termine perentorio di due anni » (comma 1); che «si intende effettuata l’immissione in possesso anche quando, malgrado la redazione del relativo verbale, il bene continua ad essere utilizzato, per qualsiasi ragione, da chi in precedenza ne aveva la disponibilità» (comma 4); che «l’autorità espropriante, in calce al decreto di esproprio, indica la data in cui è avvenuta l’immissione in possesso e trasmette copia del relativo verbale all’ufficio per i registri immobiliari, per la relativa annotazione» (comma 5).
L’esecuzione del decreto di esproprio con la immissione in possesso del beneficiario dell’esproprio entro il termine perentorio di due anni, mediante la formale redazione di un verbale, assurge a condizione sospensiva di efficacia del decreto stesso. Ne consegue, in mancanza, che il decreto di esproprio diventa inefficace; che non si realizza l’effetto estintivo della proprietà e degli altri diritti gravanti sul bene (di cui all’art. 25); che la proprietà del bene è automaticamente ripristinata in capo al precedente proprietario, senza necessità (e possibilità giuridica) per quest’ultimo di acquistare per usucapione un bene che è già di sua proprietà.
Nel caso in cui l’esecuzione del decreto con l’immissione in possesso non abbia luogo, l’art. 24, comma 7, dispone che «decorso il termine [perentorio di due anni] previsto nel comma 1, entro i successivi tre anni può essere emanato un ulteriore atto che comporta la dichiarazione di pubblica utilità», ma in tal caso dovrà essere emesso un altro decreto di esproprio, eseguibile entro l’ulteriore termine di due anni di cui all’art. 24, comma 1.
Qualora invece il decreto di esproprio sia eseguito con la tempestiva immissione in possesso del beneficiario dell’esproprio – per la quale è necessaria e sufficiente la redazione del relativo verbale – si realizzano tutti gli effetti estintivi tipici dell’espropriazione, sebbene «il bene [continui] ad essere utilizzato, per qualsiasi ragione, da chi in precedenza ne aveva la disponibilità» (art. 24, comma 4): in tal caso, la pretesa del proprietario espropriato o di chi continui ad utilizzare il bene di invocare un nuovo periodo di possesso utile ad usucapionem contrasta, oltre che con il principio sopra enunciato (sub 13), con il dato normativo vigente che implicitamente (ma chiaramente) esclude la possibilità di qualificare come possesso, dopo che sia stato redatto il verbale di immissione in possesso da parte della P.A., la mera utilizzazione di fatto del bene da parte del precedente proprietario.
15.1.- Si deve quindi enunciare il principio secondo cui nelle controversie soggette ratione temporis al t.u. n. 327 del 2001, l’esecuzione del decreto di esproprio con l’immissione in possesso del beneficiario dell’espropriazione (mediante redazione di apposito verbale) nel termine perentorio di due anni (art. 24, comma 1) costituisce condizione sospensiva di efficacia del decreto di esproprio (art. 24, comma 1, lett. f, h), con la conseguenza che il decreto di esproprio, se non è tempestivamente eseguito, diventa inefficace e la proprietà del bene si riespande immediatamente in capo al proprietario, perdendo rilevanza la questione dell’usucapione, salvo il potere dell’autorità espropriante di emanare una nuova dichiarazione di pubblica utilità entro i successivi tre anni (art. 24, comma 7), nel qual caso dovrà essere emesso un nuovo decreto di esproprio, eseguibile entro l’ulteriore termine di due anni di cui all’art. 24, comma 1; nel caso in cui il decreto di esproprio sia tempestivamente eseguito con la tempestiva redazione del verbale di immissione in possesso ma il precedente proprietario o un terzo continuino ad occupare o utilizzare il bene, si realizza una situazione di mero fatto non configurabile come possesso utile ai fini dell’usucapione.
15.2.- Analoga conclusione vale nel caso in cui il procedimento espropriativo si concluda con la cessione volontaria del bene, la quale «produce gli effetti del decreto di esproprio» (cfr. art. 45, comma 3, t.u. del 2001) tra i quali, come rilevato dalla prevalente dottrina, vi è anche l’effetto ‒ previsto dall’art. 23, comma 1, lett. f), del t.u. («Contenuto ed effetti del decreto di esproprio») ‒ di sottoporre il passaggio del diritto di proprietà alla «condizione sospensiva» della esecuzione dell’atto di trasferimento mediante l’immissione in possesso nel termine perentorio e con le modalità previste dall’art. 24.
16.- Il terzo motivo comune a entrambi i ricorsi, riguardante la pretesa di retrocessione del bene, è inammissibile.
La sentenza impugnata ha affermato che «è smentita documentalmente l’affermazione dell’appellante secondo cui sulla totalità dell’area espropriata non siano state realizzate opere pubbliche di sorta», «non risultando indicati gli elementi di prova a sostegno della totale mancata realizzazione dell’opera pubblica alla cui realizzazione l’iniziale esproprio del ‘75 era finalizzato». Questa ratio decidendi, con la quale la Corte di merito ha verificato l’avvenuta esecuzione (in tutto o in parte) delle opere cui il suddetto esproprio era finalizzato, integra un accertamento di fatto sostanzialmente non censurato e, comunque, non conformemente al canone di specificità proprio del ricorso per cassazione.
Deve tenersi conto della variabilità dei casi in cui si manifesta la mancata utilizzazione dei fondi espropriati, rispetto all’opera programmata con l’atto in cui è riconoscibile la dichiarazione di pubblica utilità, ed infatti, se l’opera ha avuto attuazione solo parziale, lo svincolo dell’area dalla destinazione impressale non può prescindere dalle determinazioni di rilievo pubblicistico dell’autorità espropriante circa la convenienza a utilizzarla in funzione dell’opera realizzata.
E’ in considerazione della variabilità delle situazioni che si rivela l’inammissibilità della doglianza. L’interesse ad impugnare con ricorso per cassazione discende dalla possibilità di conseguire, attraverso il richiesto annullamento della sentenza impugnata, un risultato pratico favorevole e, a tal fine, è necessario che sia indicata in maniera adeguata la situazione di fatto della quale si chiede una determinata valutazione giuridica, al fine di valutare l’utilità dell’applicazione del principio, della cui mancata applicazione da parte del giudice di merito le società ricorrenti si dolgono. Esse non hanno dedotto le circostanze per cui sarebbe configurabile un loro diritto alla retrocessione della porzione di area in questione, per l’automatica decadenza dell’amministrazione dal potere di destinarla all’opera programmata, né hanno fatto seguire alla teorica configurabilità del diritto di retrocessione le deduzioni necessarie a conferire al motivo d’impugnazione quel carattere di concretezza per cui l’accoglimento porterebbe ad un risultato utile al soddisfacimento delle proprie aspettative, non essendo dato comprendere di quale porzione di area precisamente si tratti, né quando il termine per attuare la prevista destinazione pubblicistica sarebbe scaduto (circostanza peraltro contraddetta dalla deduzione di Roma Capitale controricorrente sull’esistenza di atti e fatti confermativi dell’intervenuta destinazione pubblicistica).
17.- In conclusione, i ricorsi sono rigettati con integrale compensazione delle spese tra le parti, in considerazione della complessità delle questioni controverse dimostrata dai divergenti orientamenti giurisprudenziali in materia.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi e compensa le spese del giudizio tra le parti.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del dPR n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Roma, 6 dicembre 2022
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 20 giugno 2022, n. 19758, per SS.UU, 12 gennaio 2023, n. 651, in tema di usucapione di bene espropriato
SS.UU, 12 gennaio 2023, n. 651, in tema di usucapione di bene espropriato
In tema di occupazione abusiva – SS.UU, 15 novembre 2022, n. 33659
Civile Sent. Sez. U Num. 33659 Anno 2022
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: SCODITTI ENRICO
Data pubblicazione: 15/11/2022
SENTENZA
sul ricorso 3930-2019 proposto da:
CA.R.PA.S. S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore pro tempore, SIMONE MARTINI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentate e difese dall’avvocato DUCCIO BARI;
– ricorrenti –
contro
LEOLINI MIRELLA, elettivamente domiciliata in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato CARLO CANESSA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2701/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 21/11/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/10/2022 dal Consigliere ENRICO SCODITTI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale MAURO VITIELLO, il quale chiede che la Corte di Cassazione voglia rigettare i primi due motivi di ricorso, accogliere il settimo, assorbiti il terzo, quarto, quinto e sesto, previa affermazione di determinati principi di diritto.
Fatti di causa
1. CAR.PA.S. s.r.l. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Siena Paolo Fabbri chiedendo il risarcimento del danno, previo accertamento dell’occupazione senza titolo da parte del convenuto degli immobili siti nel Comune di Siena e acquistati dall’attrice in sede di esecuzione forzata nei confronti del medesimo convenuto. Espose in particolare l’attrice che era dovuto a titolo di danno patrimoniale l’importo di Euro 326.400,00, così determinato: Euro 116.000,00 quali interessi passivi corrisposti su scoperto di conto corrente bancario in ragione della permanenza dell’esposizione debitoria nei confronti dell’istituto di credito che aveva finanziato l’acquisto dell’immobile a causa dell’impossibilità di vendere l’immobile ed estinguere così il debito; Euro 197.000,00, pari al 10% del valore dell’immobile, corrispondente alla diminuzione del valore di mercato conseguente alla flessione dei prezzi determinata dalla crisi del settore; Euro 13.481,16 per spese sostenute allo scopo di sgomberare e smaltire i beni di proprietà del Fabbri. Aggiunse che era anche dovuto a titolo di danno non patrimoniale l’importo di Euro 163.200,00, pari alla metà di quello patrimoniale, in conseguenza dei reati di invasione ed occupazione di immobili (art. 633 cod. pen.), nonché della lesione del diritto di proprietà costituzionalmente garantito. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. Disposta l’interruzione per la morte del convenuto, il processo fu riassunto nei confronti di Mirella Leolini, la quale eccepì di avere accettato l’eredità con beneficio di inventario.
2. Il Tribunale adito accolse la domanda limitatamente al danno patrimoniale nella misura richiesta.
3. Avverso detta sentenza propose appello la Leolini. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello e proponendo appello incidentale.
4. Con sentenza di data 21 novembre 2018 la Corte d’appello di Firenze, in accoglimento dell’appello principale, rigettò la domanda e rigettò altresì l’appello incidentale. Premise la corte territoriale che fondato era il primo motivo di appello avente ad oggetto la ritenuta inammissibilità delle conclusioni della Leolini perché, sebbene quest’ultima non avesse formalizzato le proprie conclusioni, in sede di costituzione si era riportata a tutte le richieste e conclusioni del Fabbri ed il giudice doveva ricostruire la volontà della parte in base non solo alla formulazione letterale delle conclusioni, ma anche all’intero complesso dell’atto.
Osservò quindi il giudice di appello che, secondo la giurisprudenza più recente, il danno da occupazione senza titolo di un immobile costituiva non un danno in re ipsa, ma un danno conseguenza che il proprietario aveva l’onere di dimostrare e provare e che, essendo la lesione del diritto il presupposto del danno e non il danno in senso giuridico, quest’ultimo era configurabile solo se dalla lesione del diritto fosse derivata una perdita, essendo consentita la liquidazione equitativa solo in presenza di danno certo nella sua esistenza, ma indimostrabile nell’ammontare. Aggiunse che la consulenza di parte costituiva una semplice allegazione difensiva, che non poteva essere oggetto di consulenza d’ufficio (fra le tante Cass. n. 16552 del 2015), e che la società appellata non aveva provato che l’occupazione da parte del Fabbri le avesse cagionato un danno. Osservò in particolare che non era stata provata la perdita di possibili vendite o proposte, non essendo possibile provare dette circostanze per testi, ma solo con documenti, né si poteva porre in nesso di causalità lo scoperto di conto corrente con la mancata (presunta) vendita. Aggiunse che la perizia giurata in atti, tempestivamente contestata dal Fabbri con il primo atto difensivo, non poteva essere ritenuta prova idonea, anche perché intrisa di valutazioni del consulente di parte, fra l’altro espresse su quanto riferitogli dalla medesima parte.
Osservò infine che, a seguito dell’accoglimento dell’appello principale, doveva essere rigettato l’appello incidentale e che comunque, per completezza, nulla era stato provato circa il presunto danno non patrimoniale, incombendo l’onere della prova del nesso causale fra il danno e l’evento sulla parte istante.
5. Hanno proposto ricorso per cassazione CAR.PA.S. s.r.l. in liquidazione e Simone Martini s.r.l., quale cessionaria del credito, sulla base di sette motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. E’ stata depositata memoria di parte.
6. A seguito di ordinanza interlocutoria n. 1162 di data 17 gennaio 2022 della Terza Sezione Civile, la decisione del ricorso è stata rimessa alle Sezioni Unite.
7. Si dà preliminarmente atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in camera di consiglio, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, ai sensi dell’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in combinato disposto con l’art. 16, comma 1, d.l. 30 dicembre 2021, n. 228 (che ne ha prorogato l’applicazione alla data del 31 dicembre 2022).
8. Il Procuratore generale ha presentato le conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento del ricorso. Sono state presentate memorie da entrambe le parti.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., nonché omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5 cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che Mirella Leolini aveva nella comparsa di costituzione dedotto soltanto di avere accettato con beneficio d’inventario e di non essere nel possesso dei beni, chiedendo la declaratoria di difetto di legittimazione passiva e che solo nella memoria conclusiva di primo grado aveva dato atto di avere accettato l’eredità, rinunciando all’eccezione di difetto di legittimazione passiva e chiedendo il rigetto della domanda. Aggiunge che il Tribunale aveva affermato che tali conclusioni dovevano ritenersi tardive e perciò inammissibili e che la Corte d’appello, anziché sostituire l’istanza di carenza di legittimazione accogliendo la domanda di rigetto dell’istanza attorea, avrebbe dovuto, prendendo atto che mai la Leolini aveva richiamato le difese del Fabbri, rigettare il primo motivo di appello e accertare la mancata contestazione della domanda attorea, dichiarando inammissibili gli altri motivi di appello.
1.1. Il motivo è infondato. Il motivo è articolato su due censure. La prima concerne la violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, per avere la corte territoriale rigettato la domanda nonostante che la parte, nei cui confronti era stato riassunto il processo in primo grado dopo l’interruzione per la morte del convenuto, non avesse tempestivamente chiesto il rigetto della domanda. Il principio di cui all’art. 112 cod. proc. civ. trova però applicazione con riferimento alla domanda ed alla eccezione, quest’ultima quale richiesta di pronuncia in ordine agli effetti giuridici fatti valere mediante l’allegazione del fatto (Cass. 13 gennaio 2021, n. 459 in motivazione), ma non in relazione alla conclusione di rigetto della domanda che il convenuto possa proporre, la quale non condiziona il potere/dovere del giudice di pronunciare sulla domanda alla luce dei fatti costitutivi della medesima.
La seconda censura, direttamente collegata alla prima, attiene all’effetto di non contestazione dei fatti alla base del petitum che sarebbe disceso dalla tardiva proposizione della conclusione di rigetto della domanda. Al riguardo va in primo luogo osservato che, stante la permanenza dell’originario rapporto processuale instaurato nei confronti della parte poi deceduta, deve ritenersi insorto un thema probandum quanto ai fatti costitutivi della domanda, e dunque il relativo onere probatorio per l’attrice, a seguito della condotta processuale dell’originario convenuto, la cui valenza di contestazione dei fatti dedotti dall’attrice non è in discussione.
In secondo luogo, l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass. 18 luglio 2016, n. 14652; 13 febbraio 2013, n. 3576). La ricorrente avrebbe dovuto suffragare la denuncia di violazione del principio di non contestazione con la conoscenza in capo alla controparte della circostanza che si assume incontroversa. In mancanza di tale specifica deduzione non è configurabile un onere di contestazione a carico della controparte in ordine a fatti che per essa restano ignoti.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione 2043, 2056, 1223, 126 e 2697 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che, secondo l’indirizzo prevalente della giurisprudenza, il danno del proprietario usurpato è in re ipsa per la semplice perdita della disponibilità del bene, unitamente alla natura normalmente fruttifera di esso, per cui il danno può essere quantificato in modo figurativo mediante il valore locativo del cespite abusivamente occupato, salva la dimostrazione concreta che il proprietario, anche ove non spogliato, si sarebbe comunque disinteressato dell’immobile.
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 61, 191, 201 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., nonché omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5 cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la motivazione è apparente per le seguenti ragioni: 1) Cass. 16552 del 2015 esclude che lo specifico contenuto della consulenza di parte possa essere oggetto di CTU, ma ciò non esclude che possa e debba essere oggetto di CTU il complesso delle valutazioni supportate da copiosa produzione documentale, siano esse o meno contenute in una perizia giurata; 2) la consulenza di parte ben può costituire un rilevante elemento indiziario che, in connessione con altri elementi, può fondare il convincimento del giudice e che la perizia giurata nel caso di specie era supportata da copiosa documentazione (trentacinque allegati), ampiamente sufficiente per provare i danni lamentati; 3) la perizia giurata non è stata contestata dalla Leolini, la quale ha sollevato solo eccezioni processuali; 4) il consulente di parte si era limitato ad argomentare sulla base dei documenti allegati e non si comprendono le circostanze che sarebbero state meramente “riferite dalla parte”.
4. Con il quarto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2721 e 2725 cod. civ., 245 e 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., nonché omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5 cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il divieto di provare mediante testimonianze si riferisce al contratto quale fonte di diritti e obblighi e non quale fatto storico e che nella specie si trattava non di accertare un contratto bensì il fatto dell’esito negativo delle trattative per l’occupazione degli immobili. Aggiunge che se i testimoni fossero stati sentiti vi sarebbe stata la prova dell’an debeatur.
5. Con il quinto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 2043 e 2056 cod. civ., 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., nonché omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5 cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale, escludendo senza motivazione il nesso di causalità fra lo scoperto di conto corrente bancario e la mancata vendita, non ha fatto corretta applicazione della regola di causalità prevista dall’art. 1223. Aggiunge che il nesso di causalità sarebbe stato ravvisato ove si fosse considerato che: Corpas è società commerciale avente ad oggetto l’acquisto, costruzione, ristrutturazione e vendita di immobili; nell’anno 2002 ha acquistato in pubblica asta i beni in questione con un investimento superiore ad Euro 1.000.000,00; non vi sarebbe stato lo scoperto bancario e la produzione di interessi passivi se la società non avesse avuto la necessità di tenere immobilizzato per nove anni (dal 2002 al 2011) il capitale investito a causa dell’occupazione abusiva.
6. Con il sesto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1226, 1223, 2043 e 2056 cod. civ., 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., nonché omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5 cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale avrebbe dovuto scindere la valutazione dell’an debeatur da quella del quantum debeatur ed applicare l’art. 1226, posto che l’esistenza dell’an debeatur era provata sulla base del danno in re ipsa, la mancata contestazione del danno da parte della Leolini e l’esistenza della prova presuntiva.
7. Con il settimo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., nonché omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5 cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che, essendo stata la società costituita per lo scopo della realizzazione della speculazione immobiliare, è inevitabile la presunzione che il bene, acquistato all’asta pubblica, sarebbe stato utilizzato per scopi di lucro (dalla rivendita alla ristrutturazione finalizzata alla rivendita). Aggiunge che sulla base dei documenti (trentacinque) allegati alla perizia di parte risultano i seguenti fatti storici, idonei a fondare una presunzione ed il cui esame è stato omesso dal giudice: l’oggetto della società (l’impresa immobiliare); l’acquisto all’asta quale oggetto dell’attività d’impresa; il rilevante investimento per oltre Euro 1.000.000,00; l’inesistenza di altri cespiti di valore a bilancio; la sottoscrizione del finanziamento e l’importo degli interessi corrisposti; la diminuzione percentuale di valore fra il 2006 ed il 2008 sulla base delle tabelle OMI allegate.
8. Il secondo, il quinto e il settimo motivo, da trattare congiuntamente, sono fondati, e in particolare il secondo per quanto di ragione, il quinto ed il settimo sotto il profilo del vizio motivazionale.
Le censure attingono la questione per cui vi è stata rimessione a queste Sezioni Unite. L’ordinanza interlocutoria, reputando pregiudiziale l’esame di tale motivo, ha rimesso il ricorso per l’assegnazione alle Sezioni Unite in relazione alla questione se il danno da occupazione sine titulo di immobile costituisca danno in re ipsa.
Premette l’ordinanza della Terza Sezione Civile che l’indirizzo assunto dalla decisione impugnata non è pacifico, atteso che secondo altro indirizzo, una volta soppresse le facoltà di godimento e disponibilità del bene per effetto dell’occupazione abusiva, ricorre una praesumptio hominis di danno risarcibile (cioè in re ipsa), corrispondente al danno figurativo rappresentato dal valore locativo del cespite abusivamente occupato, superabile solo con la prova che il proprietario, anche se non spogliato, non avrebbe in alcun modo utilizzato l’immobile. Osserva quindi che la corte territoriale ha seguito l’orientamento secondo cui il danno in re ipsa, giungendo ad identificare il danno con l’evento dannoso, configura un danno punitivo senza alcun riconoscimento legislativo (in contrasto con Cass. Sez. U. n. 16601 del 2017), perché il soggetto leso potrebbe ottenere un risarcimento anche quando in concreto non abbia subito alcun pregiudizio, laddove invece ciò che rileva a fini risarcitori è il danno-conseguenza, per cui il danno da occupazione sine titulo può essere dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma tale alleggerimento dell’onere probatorio non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto. Precisa l’ordinanza interlocutoria che tale indirizzo si colloca all’interno di una tendenza giurisprudenziale propensa a ricusare ogni forma di danno figurativo e astratto, pur ammettendone la prova per presunzioni, per una serie di fattispecie (ad esempio, seguendo Cass. n. 29982 del 2020, non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy determina, ai fini del danno non patrimoniale risarcibile, una lesione ingiustificabile del diritto, ma solo quella che offenda in modo sensibile la portata effettiva del diritto alla riservatezza). Osserva infine che in tema di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, come affermato da Cass. Sez. U. n. 20691 del 2021, fermo restando l’indennizzo previsto dalla legge nella misura del cinque per cento annuo sul valore venale del bene all’attualità, è onere del proprietario provare il danno ulteriore, ed in particolare di avere perduto occasioni particolari di profitto.
8.1. Ai fini dell’esatta delimitazione della questione su cui sono chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite, deve essere richiamata l’ordinanza interlocutoria n. 3946 di data 8 febbraio 2022 della Seconda Sezione Civile.
L’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione Civile, facendo menzione dell’ordinanza n. 1162 del 2022 della Terza Sezione Civile, ha rimesso il ricorso per l’assegnazione alle Sezioni Unite in relazione alla questione se la compressione della facoltà di godimento diretto del bene, costituente il contenuto del diritto di proprietà, debba considerarsi quale danno patrimoniale da risarcire ai sensi del combinato disposto degli artt. 1223 e 2056 cod. civ. Osserva l’ordinanza che l’impedimento a ricavare dal bene abusivamente occupato l’utilità diretta che esso offre non dovrebbe richiedere alcuna prova ulteriore rispetto a quella del fatto generatore del danno, potendo il godimento diretto esaurirsi anche in una fruizione meramente saltuaria o occasionale o anche nella utilitas derivante dalla mera potenzialità di una fruizione (anche una fruizione in potenza è idonea a costituire una posta attiva del patrimonio del proprietario). Precisa l’ordinanza che il valore d’uso che si può ritrarre dal godimento diretto del bene, o il valore di scambio che può ricavarsi dalla cessione di tale godimento a terzi, costituiscono di per sé un valore attivo del patrimonio di chi ha diritto di disporre del bene, integrando la titolarità attiva di un rapporto personale o reale di godimento una componente economicamente valutabile del patrimonio del titolare, e che il risarcimento della perdita della disponibilità temporanea del bene, liquidabile eventualmente in via equitativa, spetta (anche) nei casi in cui non sia provato in qual modo il titolare avrebbe usato di tale disponibilità. Aggiunge che la prova del danno conseguenza (l’impedimento al godimento del fondo) si esaurisce in quella del fatto generatore del danno (l’occupazione del fondo), per cui nel caso della perdita del godimento del bene la prova del danno emergente è in re ipsa, da liquidare sulla base della durata dell’occupazione, dimostrata dal proprietario, e se del caso mediante il valore locativo di mercato quale tecnica, fra le varie possibili, di liquidazione equitativa. Osserva infine che, ove il proprietario agisca per il danno da mancato guadagno, deve invece offrire la prova specifica delle occasioni di guadagno perse, anche mediante il ricorso a presunzioni semplici o al fatto notorio.
8.2. Entrambe le ordinanze interlocutorie pongono la questione della configurabilità del c.d. danno in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo dell’immobile, ma il punto di divergenza fra gli orientamenti che esse esprimono riguarda non il mancato guadagno, bensì la perdita subita. Entrambe le ordinanze escludono infatti che un danno in re ipsa sia configurabile in relazione al lucro cessante e si può convenire sul dato che nella giurisprudenza di legittimità le occasioni di guadagno perse devono essere oggetto di specifica prova, naturalmente anche a mezzo di presunzioni. La problematica del danno in re ipsa emerge in entrambe le ordinanze in relazione alla facoltà di godere del proprietario quale individuazione dell’esistenza di un danno risarcibile per il sol fatto che di tale facoltà il proprietario sia stato privato a causa dell’occupazione abusiva dell’oggetto del suo diritto. Si tratta pertanto del danno da perdita subita (del godimento).
La vendita del bene, quale forma precipua di occasione di guadagno che sarebbe stata persa per l’occupazione sine titulo, è da collegare non al contenuto del diritto previsto dall’art. 832 cod. civ., ma alla titolarità del diritto ed è espressione della possibilità di alienare quale caratteristica di tutti i diritti patrimoniali. La compravendita immobiliare è manifestazione della titolarità del diritto al pari della cessione del credito. Non vi è stata quindi, a seguito dell’illegittima occupazione, una compressione del contenuto del diritto di proprietà, ma il mancato compimento di un atto che il proprietario avrebbe compiuto quale titolare del diritto, se l’occupazione non vi fosse stata, e di cui, anche in via presuntiva, deve essere fornita la prova se viene chiesto il risarcimento per il relativo mancato utile. Per la verità vi è un indirizzo secondo cui avrebbe natura in re ipsa il danno da incommerciabilità dell’immobile che il promittente venditore avrebbe patito a seguito dell’inadempimento del contratto preliminare di compravendita da parte del promissario acquirente (Cass. 31 maggio 2017, n. 13792; 10 marzo 2016, n. 4713; 5 novembre 2001, n. 13630), ma qui può ritenersi operante la presunzione basata sul fatto noto che il proprietario ha posto in vendita l’immobile per cui, se non si fosse impegnato con il convenuto, lo avrebbe venduto ad altri.
Sempre allo scopo di delimitare il campo d’indagine, la mancata stipulazione di locazione è suscettibile di costituire un mancato guadagno se il proprietario dimostra che il contratto sarebbe stato concluso con la previsione di un canone superiore a quello di mercato. La mancata stipulazione di una locazione, quale forma di godimento indiretto del bene mediante i frutti civili che da esso possono ritrarsi (art. 820, comma 3, cod. civ.), è ascrivibile all’area del danno emergente perché pur sempre inerente al diritto di godere. La rilevanza del corrispettivo della locazione, ai fini della liquidazione equitativa del danno derivante dall’impedito godimento del bene, discende proprio dal costituire l’equivalente economico del godimento ceduto nell’ambito del rapporto obbligatorio. Il canone di locazione è parametro privilegiato per la liquidazione del danno ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. proprio perché costituente il corrispettivo in un contratto che ha per oggetto il godimento dell’immobile. Dunque il godimento ha un valore economico e esso, nell’ambito di una valutazione equitativa del danno, può essere il medesimo sia se il godimento è diretto, sia se è indiretto mediante la percezione dei frutti civili per il godimento che altri abbia della cosa. Ecco perché la mancata locazione, quale spoliazione della facoltà di godimento indiretto, rientra nell’area della perdita subita e, per tale via, nella problematica del danno in re ipsa. Ove si ritenga che il danno sussista per la violazione in sé del diritto di godere, il risarcimento spetta, con l’eventuale liquidazione equitativa parametrata sul canone locativo di mercato, a prescindere che si denunci il mancato esercizio della facoltà di godere in modo diretto o in modo indiretto. Rientra invece nel mancato guadagno, e non può quindi in thesi costituire danno in re ipsa, la locazione per un canone superiore a quello di mercato: tale occasione persa, al pari della mancata alienazione del diritto per un prezzo maggiore di quello di mercato, deve essere oggetto di prova specifica, anche in via presuntiva.
Infine, quale ultimo tassello dell’area coperta dalla problematica del danno in re ipsa, vi è il diritto «di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo» (art. 832 cod. civ.). Tradizionalmente tale facoltà è stata ricondotta allo jus vendendi, ma, come si è visto, l’alienazione del diritto è piuttosto espressione della titolarità, la quale è comune a tutti i diritti patrimoniali. La migliore dottrina ha invece ricondotto il diritto di disporre al diritto di scegliere le possibili destinazioni del bene e di modificarne l’organizzazione produttiva, definendolo il profilo più intenso del diritto di godere, che potrebbe rinvenire un proprio ascendente nell’antica locuzione latina “jus utendi et abutendi”. Il rilievo trova conferma nelle caratteristiche del diritto di disporre che, al pari di quello di godere, deve esercitarsi «in modo pieno ed esclusivo». Così inteso, il diritto di disporre del bene inerisce all’area della perdita subita e dunque alla problematica del danno in re ipsa.
8.3. Quanto appena precisato attiene all’occupazione abusiva caratterizzata dall’originario difetto di titolo e che è soggetta al regime della responsabilità di cui all’art. 2043 cod. civ..
Nel caso di sopravvenuto venir meno del titolo, che ab origine giustificava l’occupazione dell’immobile, viene in rilievo la disciplina delle fattispecie di estinzione del rapporto contrattuale. L’art. 1591 cod. civ. in particolare, per ciò che concerne la locazione, prevede per la protrazione del godimento da parte del conduttore, a scapito di quello del proprietario, l’obbligo del pagamento del corrispettivo fino alla riconsegna, salvo il risarcimento del danno, nel quale confluiscono le ipotesi di mancato guadagno (occasioni perse di vendita o di locazione a condizione economiche più favorevoli), ma con il regime della responsabilità previsto dall’art. 1218.
E’ appena il caso di aggiungere che estraneo all’occupazione sine titulo è anche il paradigma dell’arricchimento senza causa (art. 2041), nel quale l’assenza di giusta causa dello spostamento patrimoniale non riveste il carattere dell’antigiuridicità, mentre la diminuzione patrimoniale che qui si fa valere corrisponde a un danno per la presenza di un fatto illecito.
8.4. Le due ordinanze interlocutorie esprimono una divergenza reale che non può essere ricomposta con l’artificio logico secondo cui danno in re ipsa significherebbe in realtà prova in re ipsa, per cui non si tratterebbe altro che di una forma di presunzione ricavata dai fatti noti della condotta non iure dell’occupante e della tipologia del bene destinato ad impiego fruttifero (così Cass. 27 giugno 2016, n. 13224; 21 agosto 2018, n. 20859). In questo quadro, si è inteso ravvisare l’esistenza di un contrasto più apparente che reale, relativo all’utilizzo di formule e non alla sostanza della questione giuridica (Cass. 5 ottobre 2020, n. 21272; 6 ottobre 2021, n. 27126). L’ordinanza n. 3946 del 2022 ha il merito di focalizzare il cuore di un dissenso, che invece è reale e non apparente (rileva, ad esempio, la realtà del contrasto Cass. 7 gennaio 2021, n. 39).
La tesi del danno in re ipsa è debitrice della concezione normativa, elaborata dalla dottrina tedesca, secondo cui l’oggetto del danno coincide con il contenuto del diritto violato, da cui l’esistenza del pregiudizio per il sol fatto della violazione del diritto medesimo. Il danno è in re ipsa perché appunto immanente alla violazione del diritto. I diritti reali, in quanto diritti su cose, hanno la caratteristica della dissociazione fra contenuto del diritto ed oggetto del diritto (la stessa rubrica dell’art. 832 è nel senso del «contenuto del diritto»). La situazione antigiuridica emerge perciò non solo con riferimento al danno alla cosa, ma anche quando è leso il contenuto del diritto, circostanza quest’ultima che comporterebbe di per sé un danno risarcibile.
E’ questa la teorica che fa da sfondo alla giurisprudenza, soprattutto della Seconda Sezione Civile, favorevole al danno in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo di immobile. Il carattere in re ipsa del danno viene fatto discendere dalla natura fruttifera del bene (Cass. 25 maggio 2022, n. 6359; 31 luglio 2019, n. 20708; 6 agosto 2018, n. 20545; 28 agosto 2018, n. 21239; 17 novembre 2011, 24100; 10 febbraio 2011, n. 3223; 11 febbraio 2008, n. 3251). Pure nel caso di preclusione dell’uso, anche solo potenziale, della res da parte del comproprietario ad opera di altro comproprietario si parla di danno in re ipsa, liquidabile in base ai frutti civili ritraibili dal bene (Cass. 28 settembre 2016, n. 19215; 12 maggio 2010, n. 11486; 30 ottobre 2009, n. 23065). Sempre secondo la giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, è data però al convenuto la possibilità di fornire la prova contraria del danno in re ipsa allegato, dimostrando che il proprietario si è intenzionalmente disinteressato dell’immobile (Cass. 22 aprile 2022, n. 12865; 15 febbraio 2022, n. 4936; 31 gennaio 2018, n. 2364; 9 agosto 2016, n. 16670; 15 ottobre 2015, n. 20823; 7 agosto 2012, n. 14222). In questo quadro è stato precisato che non può sostenersi che si tratti di un danno la cui sussistenza sia irrefutabile, posto che la locuzione “danno in re ipsa” rinvia «all’indisponibilità del bene fruttifero secondo criteri di normalità, i quali onerano l’occupante alla prova dell’anomala infruttuosità di uno specifico immobile» (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39). A questo proposito deve darsi atto che nella stessa Seconda Sezione Civile è emerso un più recente orientamento secondo cui la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno normale” o “danno presunto”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39; 20 gennaio 2022, n. 4936; 22 aprile 2022, n. 12865).
L’orientamento della Terza Sezione Civile è invece ispirato dalla teoria causale del danno, secondo cui il pregiudizio risarcibile non è dato dalla lesione della situazione giuridica, ma dal danno conseguenza derivato dall’evento di danno corrispondente alla detta lesione. L’art. 1223 cod. civ., cui rinvia l’art. 2056, attiene al danno conseguenza per il quale rileva il nesso di causalità giuridica fra l’evento di danno e le conseguenze pregiudizievoli meritevoli di risarcimento, mentre altro profilo eziologico è quello che connota la causalità materiale fra la condotta (lesiva) ed il danno evento. Sulla base di questa premessa si è consolidato un indirizzo secondo cui il danno conseguente all’impossessamento sine titulo, in quanto danno conseguenza, deve essere allegato e provato, anche a mezzo di presunzioni, per essere risarcito e non può essere confuso con l’evento di danno rappresentato dalla mancata disponibilità dell’immobile a causa dell’abusiva occupazione (Cass. 6 ottobre 2021, n. 27126; 29 settembre 2021, n. 26331; 25 maggio 2021, n. 14268; 16 marzo 2021, n. 7280; 24 aprile 2019, n. 11203; 4 dicembre 2018, n. 31233; 25 maggio 2018, n. 13071; 27 luglio 2015, n. 15757; 17 giugno 2013, n. 15111; 11 gennaio 2005, n. 378).
Richiamando un passaggio motivazionale di Cass. Sez. U. 11 novembre 2008, n. 26972, secondo cui il danno in re ipsa (nella specie riferito al danno non patrimoniale) «snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo», Cass. n. 13071 del 2018 ha rimarcato come il riconoscimento di un danno in re ipsa nel caso di occupazione sine titulo dell’immobile avrebbe la valenza di danno punitivo fuori delle condizioni previste da Cass. Sez. U. 5 luglio 2017, n. 16601, che ritiene compatibile un tale figura con l’ordinamento giuridico a condizione che vi sia una previsione normativa in tal senso, in ossequio all’art. 23 Cost.. Sulla stessa lunghezza d’onda, Cass. n. 31233 del 2018 ha precisato che il danno evento rappresentato dalla mancata disponibilità dell’immobile non è idoneo ad integrare il fatto noto della presunzione, di cui all’art. 2729 cod. civ., che dovrebbe condurre alla prova del danno conseguenza, dovendo piuttosto quest’ultimo essere inferito da circostanze di fatto allegate e in grado dimostrare il nesso di causalità giuridica fra il danno evento ed il pregiudizio derivatone.
8.5. La questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria. Ritengono le Sezioni Unite che al quesito debba darsi risposta positiva, nei termini emersi nella richiamata linea evolutiva della giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, secondo cui la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39; 20 gennaio 2022, n. 4936; 22 aprile 2022, n. 12865). Tale esito interpretativo, per quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in conseguenza di un fatto illecito. La linea da perseguire è infatti, secondo le Sezioni Unite, quella del punto di mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla Terza Sezione Civile. Al fine di salvaguardare tale punto di mediazione, l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta la distinzione fra le due forme di tutela.
La distinzione fra azione reale e azione risarcitoria è il riflesso processuale di quella sostanziale fra regole di proprietà (property rules) e regole di responsabilità (liability rules). La tutela reale è orientata al futuro e mira al ripristino dell’ordine formale violato mediante l’accertamento dello stato di diritto e la rimozione dello stato di fatto contrario al diritto soggettivo, a parte la tutela inibitoria come negli artt. 844 e 1171 cod. civ.. L’azione di rivendicazione esperita nei confronti dell’occupante sine titulo ripristina sul piano astratto la situazione giuridica violata e rimuove l’impedimento all’esercizio del diritto mediante la riduzione nel pristino stato. Rientra nell’azione reale anche la tutela indennitaria prevista da disposizioni quali l’art. 948, comma 1, cod. civ., con riferimento al valore della cosa in caso di mancato recupero della stessa, o l’art. 938 cod. civ., con riferimento al doppio del valore della porzione di fondo attiguo occupato, come è reso evidente dal fatto che tali disposizioni fanno salvo, quale rimedio distinto, il risarcimento del danno, e dunque costituiscono pur sempre applicazione delle regole di proprietà e non di quelle di responsabilità. L’azione risarcitoria è invece orientata al passato e costituisce il rimedio per la perdita subita a causa della violazione del diritto. Essa costituisce la misura riparatoria per la concreta lesione del bene della vita verificatasi in conseguenza della condotta abusiva dei terzi. Mentre la tutela reale costituisce il rimedio per l’alterazione dell’ordinamento formale, la tutela risarcitoria è compensativa del bene della vita perduto, secondo le modalità del danno emergente se la perdita patrimoniale (o non patrimoniale) è in uscita, del lucro cessante se la perdita è in entrata.
La distinzione fra le due forme di tutela comporta che il fatto costitutivo dell’azione risarcitoria non possa coincidere senza residui con quello dell’azione di rivendicazione ma debba contenere l’ulteriore elemento costitutivo del danno risarcibile. Ciò significa tenere ferma la distinzione, espressione della teoria causale del danno, fra causalità materiale e causalità giuridica.
8.6. La distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica è un’acquisizione risalente della giurisprudenza di questa Corte. Sul punto vanno richiamati gli arresti delle Sezioni Unite. Sia Cass. Sez. U. 11 gennaio 2008, n. 576, che Cass. Sez. U. 11 novembre 2008, n. 26972, entrambe muovendo dall’ipotesi del danno non patrimoniale, hanno differenziato nell’ambito dell’illecito aquiliano la causalità materiale, rilevante ai fini dell’imputazione del danno evento (dommage o damnum) ad una determinata condotta secondo i criteri di responsabilità previsti dalla disciplina del fatto illecito, e la causalità giuridica, di cui sono espressione gli artt. 1223 e 2056, la quale, in funzione di selezione delle conseguenze dannose risarcibili, attiene al nesso eziologico fra il danno evento ed il c.d. danno conseguenza (préjudice o praeiudicium), costituente l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria. Già prima delle richiamate pronunce delle Sezioni Unite vi erano state Cass. 16 ottobre 2007 n. 21619, le sentenze gemelle Cass. n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003, Cass. 24 ottobre 2003, n. 16004, tutte quante rese sempre in materia di danno non patrimoniale, e ancora prima Cass. 15 ottobre 1999, n. 11629. Anche nella giurisprudenza costituzionale, secondo la linea evolutiva che va da Corte cost. 14 luglio 1986 n. 184 a Corte cost. 27 ottobre 1994 n. 372, è emersa la distinzione fra danno evento e danno conseguenza. La distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica è stata da ultimo ripresa da Corte cost. 15 settembre 2022, n. 205.
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che «se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria» (Cass. Sez. U. n. 576 del 2008), così temperando l’originario rigorismo della tesi della causalità giuridica presente nella dottrina che la introdusse. Secondo questa dottrina la fattispecie della responsabilità risarcitoria si perfeziona con la verificazione del fatto, comprensivo dell’azione e dell’evento, mentre la causalità giuridica interviene solo in funzione selettiva del danno risarcibile all’esito di una responsabilità già accertata. Una simile visione resta nell’alveo della prospettiva pan-penalistica dell’atto antigiuridico (non iure, nel senso di comportamento non giustificato dal diritto), mentre il punto di vista della moderna responsabilità civile, improntata al principio di solidarietà (art. 2 Cost.), è quello dell’allocazione del danno contra ius (“ingiusto”, secondo la qualifica dell’art. 2043). Al rigorismo dell’originaria tesi dottrinale va obiettato che in assenza delle conseguenze previste dall’art. 1223 cod. civ. non vi è alcuna responsabilità risarcitoria da accertare perché non vi è danno da risarcire. La fattispecie del fatto illecito si perfeziona con il danno conseguenza: ciò vuol dire che la perdita subita e il mancato guadagno (art. 1223) non sono un posterius rispetto al danno ingiusto, ma sono i criteri di determinazione di quest’ultimo, secondo la lettera dell’art. 2056. Diversamente da quanto pur affermato in dottrina, il «danno» di cui fa menzione la seconda parte dell’art. 2043 non è altra cosa dal «danno ingiusto» di cui si parla nella prima parte: se non c’è danno conseguenza non c’è danno ingiusto. Causalità materiale e causalità giuridica non sono così le fasi di una successione cronologica, ma sono i due diversi punti di vista in sede logico-analitica dell’unitario fenomeno del danno ingiusto (di «profili diversi» dell’unico danno già discorreva Cass. sez. U. n. 576 del 2008, punto n. 5.1.), il quale non è identificabile se non alla luce di questa dualità di nessi causali, l’uno informato al criterio della regolarità causale, l’altro a quello della conseguenzialità immediata e diretta. Cagionato l’evento di danno, la fattispecie del fatto illecito è integrata con la realizzazione delle conseguenze pregiudizievoli, senza che fra evento e conseguenza vi sia un distacco temporale: la distinzione è logica, non cronologica.
Il danno conseguenza assume rilevanza giuridica non per la mera differenza patrimoniale fra il prima e il dopo dell’evento dannoso, ma solo in quanto cagionato da un evento lesivo di un interesse meritevole di tutela ad un determinato bene della vita, secondo la fondamentale definizione contenuta in Cass. Sez. U. 22 luglio 1999, n. 500; reciprocamente, l’evento di danno è giuridicamente rilevante solo se produttivo del danno conseguenza quale concreto pregiudizio al bene della vita. La nozione di danno ingiusto di cui all’art. 2043 cod. civ. rappresenta la sintesi di questi due reciproci vettori.
8.7. Così precisati i termini della distinzione fra evento di danno e danno conseguenza, quale caposaldo della teoria del risarcimento del danno, e chiarita la necessità dell’elemento costitutivo ulteriore nella causa petendi della domanda risarcitoria rispetto a quella della domanda di rivendicazione, deve ora essere definito il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà. Che la violazione dell’ordine giuridico sia suscettibile di tutela non solo reale, ma anche risarcitoria, trova riscontro nel fatto che il diritto soggettivo appartiene al novero delle situazioni giuridiche mezzo, nelle quali il potere giuridico di cui è investito il soggetto rappresenta lo strumento, a sua disposizione, per la soddisfazione dell’interesse ad un determinato bene della vita. La violazione del diritto può così comportare la lesione dell’interesse al bene della vita, che di quel diritto costituisce il substrato materiale e l’elemento teleologico, e configurare dunque l’illecito aquiliano. Ai fini della definizione del danno risarcibile da violazione dell’ordine giuridico, deve muoversi dalla distinzione fra la lesione del bene costituente l’oggetto del diritto di proprietà e la lesione del contenuto stesso del diritto.
Quando l’azione dannosa attinge sulla base del nesso di causalità materiale il bene, l’evento di danno è rappresentato dalla lesione del diritto per il pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà, ma affinché un danno risarcibile vi sia, perfezionandosi così la fattispecie del danno ingiusto, è necessario che al profilo dell’ingiustizia, garantito dalla violazione del diritto, si associ quello del danno conseguenza, e perciò la perdita subita e/o il mancato guadagno che, sulla base del nesso di causalità giuridica, siano conseguenza immediata e diretta dell’evento dannoso. E’ quanto accade ad esempio nel caso del danno da c.d. fermo tecnico di veicolo incidentato, per il quale è richiesta la prova della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo (si vedano Cass. 14 ottobre 2015, n. 20620 e le altre conformi fino alla recente Cass. 19 settembre 2022, n. 27389).
Quando l’azione lesiva attinge invece il contenuto del diritto di proprietà (“il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), ciò che viene in primo luogo in rilievo è la violazione dell’ordine giuridico. L’ordinamento appresta lo strumento di ripristino dell’ordine formale violato, ossia la tutela reale di reintegrazione del diritto leso. Questa tutela può eventualmente concorrere con la misura restitutoria del bene, di cui è pure espressione la fattispecie di cui all’art. 1148 cod. civ., la quale disciplina con riferimento ai frutti naturali separati e ai frutti civili maturati le conseguenze della restituzione della cosa da parte del possessore (nella specie di mala fede o comunque nello stato soggettivo di cui all’art. 1147, comma 2, cod. civ.) convenuto dal proprietario in sede di rivendicazione. Sia la cosa (art. 810 cod. civ.), che i frutti (art. 820 cod. civ.), appartengono alla disciplina dei beni e perciò restano nell’alveo dell’azione di rivendicazione sotto il profilo degli effetti restitutori.
La domanda risarcitoria presuppone che, per la presenza di un danno risarcibile, l’azione lesiva del contenuto del diritto di proprietà sia valutabile non solo come violazione dell’ordine formale, ma anche come evento di danno. In quest’ultimo caso il nesso di causalità materiale si stabilisce fra l’occupazione senza titolo dell’immobile e direttamente la lesione del diritto di proprietà, senza passare per l’intermediazione del pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà. L’evento di danno riguarda non la cosa, ma proprio il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa. Il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione, cagionata dall’occupazione abusiva, del “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”. Il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire.
Saldando il danno suscettibile di risarcimento alla concreta possibilità di godimento persa, per un verso si rende risarcibile il contenuto del diritto violato, in ossequio alla teoria normativa del danno, per l’altro si riconduce la violazione giuridica a una specifica perdita subita, in ossequio alla teoria causale. Il riferimento alla specifica circostanza di godimento perso stabilisce la discontinuità fra il fatto costitutivo dell’azione di rivendicazione e quello dell’azione risarcitoria, preservando la distinzione fra la tutela reale e quella risarcitoria. Diversamente si avrebbe l’inaccettabile conseguenza non del danno punitivo, come pure affermato dalla giurisprudenza della Terza Sezione Civile, ma del danno irrefutabile che non ammette prova contraria. Affinché si abbia un danno punitivo è necessario un quid ulteriore che colleghi la riparazione della perdita subita alla riprorevolezza della condotta del danneggiante, con un’amplificazione della componente riparatoria in misura proporzionale al grado della colpa o all’intensità del dolo del danneggiante (mediante il cumulo di compensatory damage e punitive damage), e tale non può dirsi che sia l’esito della tesi del danno in re ipsa. Viceversa, se la causa petendi dell’azione risarcitoria viene fatta coincidere senza residui con quella dell’azione risarcitoria, il risarcimento spetterebbe sempre a fronte della denuncia della compressione del diritto di godere della cosa quale astratta posizione riconosciuta dall’ordinamento, senza che si dia possibilità della prova contraria.
8.8. Non è invece richiesta l’allegazione della concreta possibilità di godimento persa nell’ipotesi dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione, trattandosi di fattispecie retta da criteri del tutto differenti rispetto alla comune occupazione abusiva.
L’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 prevede che, in caso di utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e di successivo provvedimento di acquisizione, sia corrisposto al proprietario un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene. L’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’articolo 37 del medesimo d.P.R. n. 327. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore del bene come appena determinato.
Anche nel caso di mancanza di formale acquisizione ai sensi dell’art. 42-bis, o di procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto di esproprio o con un accordo di cessione, è configurabile per la giurisprudenza un danno per il mancato godimento del fondo illegittimamente occupato, abitualmente determinato in via equitativa in favore del privato, ove non sia fornita la prova di un danno maggiore, in base al criterio degli interessi legali per ogni anno di occupazione sulla somma corrispondente all’indennità di espropriazione o sul prezzo di cessione volontaria del bene (fra le tante Cass. 20 novembre 2018, n. 29990; 6 agosto 2018, n. 20545; 4 marzo 2005, n. 4797; 27 agosto 2004, n. 17142).
La determinazione legislativa in via forfettaria dell’indennizzo, senza esigere dal proprietario l’allegazione della mancata possibilità di godimento nel periodo di occupazione senza titolo, salva la possibilità per entrambe le parti del giudizio di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in melius o in pejus rispetto a quel limite – per il proprietario ad esempio la perdita di occasioni particolari di profitto), costituisce una valutazione legale tipica di pregiudizio e di relativa compensazione. Si tratta di una valutazione, come anche quella del diritto vivente appena richiamato, tipizzata di pregiudizio al bene della vita, il cui presupposto di fatto è l’esplicazione del rapporto fra privato e pubblica amministrazione, istituzionalmente asimmetrico dal punto di vista del potere, secondo modalità ablatorie non rispettose della legge. Come spiega Cass. Sez. U. 20 luglio 2021, n. 20691, «nella materia espropriativa l’agire amministrativo è cadenzato da atti formali che sono, di per sé, evocativi di conseguenze pregiudizievoli per il privato, apprezzabili secondo l’id quod plerumque accidit, nel caso in cui la pubblica amministrazione non eserciti il potere autoritativo nei tempi e modi previsti dalla legge».
8.9. Nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile è al contrario richiesta, come si è visto, l’allegazione della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa. Ciò significa che il non uso, il quale è pure una caratteristica del contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento. E’ pur vero che a fondamento dell’imprescrittibilità del diritto di proprietà vi è la circostanza che fra le facoltà riconosciute al proprietario vi è anche quella del non uso, ma l’inerzia resta una manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, mentre il danno conseguenza riguarda il pregiudizio al bene della vita che, mediante la violazione del diritto, si sia verificato. Alla reintegrazione formale del diritto violato, anche nella sua esplicazione di non uso, provvede la tutela reale e non quella risarcitoria.
Come si è chiarito al punto 8.2., la perdita subita attiene al godimento, diretto o indiretto mediante il corrispettivo del godimento concesso ad altri, che è poi l’oggetto vero del contrasto giurisprudenziale da risolvere, e non alla vendita, per la quale, corrispondendo il relativo danno alla differenza fra il prezzo di mercato e quello maggiore che si sarebbe potuto ricavare dall’atto dispositivo mancato, non può che parlarsi di mancato guadagno. L’allegazione che l’attore faccia della possibilità di godimento perduta può essere specificatamente contestata dal convenuto costituito. Al cospetto di tale allegazione il convenuto ha l’onere di opporre che giammai il proprietario avrebbe esercitato il diritto di godimento. La contestazione al riguardo non può essere generica, ma deve essere specifica, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, cod. proc. civ.. In presenza di una specifica contestazione sorge per l’attore l’onere della prova dello specifico godimento perso, onere che può naturalmente essere assolto anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115, comma 2, cod. proc. civ.) o mediante presunzioni semplici.
Nel caso della presunzione l’attore ha l’onere di allegare, e provare se specificatamente contestato, il fatto secondario da cui inferire il fatto costitutivo rappresentato dalla possibilità di godimento persa. Sia nel caso di godimento diretto, che in quello di godimento indiretto, il danno può essere valutato equitativamente ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., attingendo al parametro del canone locativo di mercato quale valore economico del godimento nell’ambito di un contratto tipizzato dalla legge, come la locazione, che fa proprio del canone il valore del godimento della cosa.
Se la domanda risarcitoria ha ad oggetto il mancato guadagno causato dall’occupazione abusiva, l’onere di allegazione riguarda gli specifici pregiudizi, fra i quali si possono identificare non solo le occasioni perse di vendita a un prezzo più conveniente rispetto a quello di mercato, ma anche le mancate locazioni a un canone superiore a quello di mercato (una volta che si quantifichi equitativamente il godimento perduto con il canone locativo di mercato, il corrispettivo di una locazione ai correnti valori di mercato rientra, come si è visto, nelle perdite subite). Ove insorga controversia in relazione al fatto costitutivo del lucro cessante allegato, l’onus probandi anche in questo caso può naturalmente essere assolto mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o le presunzioni semplici. In generale, in relazione al mancato guadagno può rinviarsi alla costante giurisprudenza in materia di maggior danno ai sensi dell’art. 1591 cod. civ. (fra le tante Cass. 3 febbraio 2011, n. 2552; 26 novembre 2007, n. 24614; 27 marzo 2007, n. 7499; 13 luglio 2005, n. 14753; 23 maggio 2002, n. 7546).
Sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass. 31 agosto 2020, n. 18074; 4 gennaio 2019, n. 87; 18 luglio 2016, n. 14652; 13 febbraio 2013, n. 3576). Poiché non si compie l’effetto di cui all’art. 115, comma 1, cod. proc. civ., per i fatti ignoti al danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno. Ne consegue sul piano pratico la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115 comma 1, nelle controversie aventi ad oggetto la perdita subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il mancato guadagno. Si chiarisce così la portata eminentemente pratica delle nozioni di “danno normale” e “danno presunto” emerse nella recente giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, le quali rinviano, nelle controversie relative alla perdita subita, a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva.
8.10. Vanno in conclusione enunciati i seguenti principi di diritto:
“nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta”;
“nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato”;
“nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato”.
8.11. Alla luce dei richiamati principi di diritto, acquistano carattere di decisività i fatti il cui omesso esame viene denunciato con la censura ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. contenuta nel quinto e settimo motivo. La denuncia è rispettosa dell’onere processuale di cui all’art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ., risultando indicata la sede di ingresso nel giudizio di merito delle circostanze di fatto di cui viene lamentata la pretermissione. Costituiscono tutti fatti il cui esame è stato omesso dal giudice di merito, e che alla stregua della causa petendi della domanda rivestono carattere di decisività, le circostanze che Corpas sia una società commerciale avente ad oggetto l’acquisto, costruzione, ristrutturazione e vendita di immobili e che nell’anno 2002 abbia acquistato in pubblica asta i beni in questione con un investimento superiore ad Euro 1.000.000,00, unitamente alle circostanze dell’inesistenza di altri cespiti di valore a bilancio, della sottoscrizione del finanziamento e dell’importo degli interessi corrisposti. Resta riservato al giudice del merito, sulla base dei mezzi istruttori indicati, l’accertamento di fatto in ordine alle circostanze in discorso ed alla loro congruenza sul piano dell’inferenza presuntiva.
Il resto delle censure contenute nel quinto e settimo motivo va dichiarato assorbito.
9. Il terzo motivo è inammissibile. Va rammentato che la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione; pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053 e successive conformi).
La censura di motivazione apparente non risulta formulata come denuncia di intrinseca inidoneità della motivazione ad integrare il requisito motivazionale della sentenza, e risultante dal testo della stessa, ma, in modo irrituale, quale contrasto fra la ratio decidendi del provvedimento giurisdizionale e le risultanze processuali, in particolare il contenuto della consulenza di parte e la documentazione allegata.
10. Il quarto motivo è fondato. Ha affermato la corte territoriale che non risulta provata la perdita di possibili vendite o proposte, non essendo possibile provare dette circostanze mediante testimonianze, ma solo con documenti. Si tratta di affermazione errata dal punto di vista giuridico. Il divieto della prova testimoniale riguarda il contratto, peraltro quale fonte di diritti e obblighi e non quale circostanza storica (Cass. 4 marzo 2021, n. 5880; 10 febbraio 2015, n. 3336; 17 gennaio 2021, n. 566), e non il fatto delle proposte di acquisto o i fatti da cui inferire che, in mancanza dell’occupazione abusiva, l’immobile sarebbe stato compravenduto. Naturalmente resta salva la valutazione del giudice di merito circa l’ammissibilità e rilevanza dei capitoli di prova testimoniale, nonché per ciò che concerne l’assolvimento dell’onere probatorio mediante le testimonianze.
11. L’accoglimento di quinto e settimo motivo determina l’assorbimento del sesto motivo.
P. Q. M.
Accoglie il secondo motivo per quanto di ragione, il quarto motivo, e parzialmente il quinto e il settimo motivo, con assorbimento del sesto motivo e della restante parte del quinto e settimo motivo, rigettando per il resto il ricorso;
cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti;
rinvia alla Corte di appello di Firenze in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il giorno 11 ottobre 2022
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 17 gennaio 2022, n. 1162, per SS.UU, 15 novembre 2022, n. 33659, in tema di occupazione abusiva
SS.UU, 15 novembre 2022, n. 33659, in tema di occupazione abusiva
In tema di occupazione abusiva – SS.UU, 15 novembre 2022, n. 33645
Civile Sent. Sez. U Num. 33645 Anno 2022
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: SCODITTI ENRICO
Data pubblicazione: 15/11/2022
SENTENZA
sul ricorso 22958-2019 proposto da:
S.I.A.MED. – SOCIETA’ INIZIATIVE ALBERGHIERE DEL MEDITERRANEO S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PORTUENSE 104, presso lo studio del dott. FABIO TRINCA, rappresentata e difesa dagli avvocati ALBERTO LUMINOSO ed ANGELO LUMINOSO;
– ricorrente –
contro
CONDOMINIO LA RESIDENZA SUL PORTO DI PORTO ROTONDO, in persona dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MERULANA 247, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO DI GIOVANNI, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 557/2018 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 13/06/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/10/2022 dal Consigliere ENRICO SCODITTI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale CORRADO MISTRI, il quale chiede che la Corte concluda per l’accoglimento del secondo e terzo motivo del ricorso, assorbito il primo, previa affermazione di determinati principi di diritto.
Fatti di causa
1. S.I.A.MED. – Società Iniziative Alberghiere del Mediterraneo s.r.l. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Tempio Pausania il condominio “La Residenza sul Porto” di Porto Rotondo. Espose parte attrice di essere proprietaria di numerose porzioni immobiliari all’interno della lottizzazione “La Residenza sul Porto”, in località Porto Rotondo nel Comune di Olbia, per averle acquistate da Porto Rotondo s.r.l. nel 1994; di avere venduto molte delle unità immobiliari ivi realizzate e che tra i singoli acquirenti era stato costituito il condominio convenuto; di avere conservato la proprietà di aree, escluse dalla vendita, circostanti le singole unità immobiliari; che il condominio, con una serie di condotte integranti turbative, aveva impedito all’attrice di vendere le aree. L’attrice chiese quindi l’accertamento del diritto di proprietà ai sensi dell’art. 948 cod. civ. sulle suddette aree, con ordine di rilascio delle stesse, nonché la condanna al risarcimento del danno, sul presupposto che le condotte del convenuto costituissero «causa di un considerevole danno patrimoniale che la società attrice sta subendo, specie in considerazione del fatto che essa si vede impedita di vendere a terzi le aree di sua proprietà e di ricavare i conseguenti profitti economici». Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda.
2. Il Tribunale adito rigettò la domanda. Proposta impugnazione dalla società attrice, la Corte d’appello di Cagliari accolse l’appello limitatamente all’azione di rivendica, ma non quanto alla domanda risarcitoria, sul presupposto che l’occupazione delle aree era avvenuta per opera anche di terzi rispetto al condominio e che la domanda avrebbe dovuto essere proposta contro i singoli proprietari e condomini. Con sentenza n. 20215 del 16 novembre 2012, la Corte di Cassazione rigettò il ricorso principale proposto dal condominio ed accolse quello incidentale proposto dalla società, osservando che «appare contraddittorio ordinare – come ha deciso la corte distrettuale – al condominio il rilascio dei beni – presupponendo dunque che la disponibilità delle aree in questione sarebbe stata sottratta all’uso della proprietaria SI.A.MED. e sottoposta a contestazioni, quanto alla titolarità, con varie iniziative giudiziarie, dal medesimo condominio – ed allo stesso tempo negare la tutela risarcitoria che tali condotte dell’ente di gestione avrebbero comportato».
3. Riassunto il giudizio dalla società, con sentenza di data 13 giugno 2018 la Corte d’appello di Cagliari rigettò l’appello. Osservò la corte territoriale che, con riferimento alla domanda risarcitoria formulata come impossibilità di trarre dai beni il corrispettivo della vendita e non invece proventi di altro genere come canoni locatizi, se era pur vero che nella giurisprudenza di legittimità il danno subito dal proprietario per effetto di occupazione illegittima di immobile era stato definito in re ipsa, tuttavia il riconoscimento del danno figurativo sulla base del valore locatizio presupponeva l’allegazione di un pregiudizio derivante dall’impossibilità di utilizzarlo, pregiudizio nella specie non prospettato poiché nella citazione introduttiva era stata rappresentata soltanto l’impossibilità di alienare gli immobili e di lucrare il prezzo della vendita. Aggiunse che quest’ultima domanda era incompatibile con quella di rivendica e rilascio degli immobili perché, una volta conseguita la disponibilità delle aree, l’accoglimento della domanda risarcitoria avrebbe determinato un’indebita locupletazione in favore dell’attrice la quale, oltre ad avere assicurato i beni al proprio patrimonio, ne avrebbe ricavato anche il valore di mercato. Osservò ancora la corte territoriale, che «né nell’atto introduttivo del giudizio sono state dedotte altre forme di pregiudizio – quali per esempio un’ipotetica differenza di valore tra il prezzo ricavabile al momento dell’instaurazione della controversia e quello ottenibile dal momento della ottenuta disponibilità delle aree – sulle quali, peraltro in disparte le carenze in punto di allegazione, non è stato offerto alcun elemento di prova».
4. Ha proposto ricorso per cassazione S.I.A.MED. – Società Iniziative Alberghiere del Mediterraneo s.r.l. sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. E’ stata depositata memoria di parte.
5. A seguito di ordinanza interlocutoria n. 3946 di data 8 febbraio 2022 della Seconda Sezione Civile, la decisione del ricorso è stata rimessa alle Sezioni Unite.
6. Si dà preliminarmente atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in camera di consiglio, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, ai sensi dell’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in combinato disposto con l’art. 16, comma 1, d.l. 30 dicembre 2021, n. 228 (che ne ha prorogato l’applicazione alla data del 31 dicembre 2022).
7. Il Procuratore generale ha presentato le conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2909 cod. civ., 324 e 384, comma 2, cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la sentenza della Corte di Cassazione aveva delegato alla Corte d’appello la sola quantificazione del risarcimento del danno e non la decisione sul fondamento della stessa domanda, su cui vi era il giudicato interno.
1.1. Il motivo è infondato. Il ricorso incidentale accolto aveva per oggetto la denuncia del mancato riconoscimento del diritto al risarcimento del danno sia perché dell’occupazione delle aree di proprietà sarebbero stati partecipi anche tutti i frequentatori del comprensorio, sia perché la domanda avrebbe dovuto essere proposta nei confronti dei singoli proprietari effettivamente fruenti degli spazi oggetto di revindica. Il ricorso è stato accolto con la motivazione che «appare contraddittorio ordinare – come ha deciso la corte distrettuale – al condominio il rilascio dei beni – presupponendo dunque che la disponibilità delle aree in questione sarebbe stata sottratta all’uso della proprietaria SI.A.MED. e sottoposta a contestazioni, quanto alla titolarità, con varie iniziative giudiziarie, dal medesimo condominio – ed allo stesso tempo negare la tutela risarcitoria che tali condotte dell’ente di gestione avrebbero comportato».
Come risulta evidente, la statuizione di annullamento della sentenza di appello è limitata ai confini soggettivi del rapporto dedotto in giudizio, senza che possa evincersi alcun giudicato interno sull’esistenza del fatto costitutivo dell’invocato risarcimento del danno.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2697 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che nel caso di occupazione illegittima di immobile è sufficiente, ai fini risarcitori, trattandosi di danno in re ipsa, allegare l’idoneità dell’immobile a produrre reddito e l’intenzione del proprietario di godere del bene o di impiegarlo per finalità redditizie e che la società aveva assolto i propri oneri, dichiarando di non poter disporre delle aree, di subire un danno economico per la mancata disponibilità, ed in particolare precisando che prima di aver subito lo spoglio aveva intenzione di vendere trentatré parcheggi già individuati e frazionati. Aggiunge che il fatto che le aree non potevano essere vendute costituiva l’esemplificazione in domanda dei pregiudizi, ma ciò che è stato dedotto è la mancata disponibilità ed il pregiudizio derivante dal fatto che le aree erano destinate ad essere utilizzate e vendute come parcheggi. Osserva ancora che il valore locatizio deve essere riconosciuto non perché il bene sarebbe stato concesso in locazione, ma, quale criterio equitativo, per l’attitudine fruttifera del bene.
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che, come affermato nella comparsa conclusionale di primo grado, il mancato guadagno può essere ricavato dalla mancata disponibilità, e pertanto dai mancati frutti, dei corrispettivi che sarebbero stati ricavati dalla vendita dei parcheggi e dunque come minimo dagli interessi applicati a tali corrispettivi, e che la corte territoriale non ha quindi preso in considerazione la domanda realmente formulata. Aggiunge che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il giudice ha il potere-dovere di accertare il contenuto sostanziale della pretesa e di non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata.
4. Il secondo e il terzo motivo, da trattare congiuntamente, sono fondati per quanto di ragione.
Il ricorso è stato rimesso a queste Sezioni Unite per l’esame di tali motivi poiché essi pongono la questione se il danno da occupazione sine titulo di immobile costituisca danno in re ipsa.
Richiamando l’ordinanza n. 1162 del 17 gennaio 2022 della Terza Sezione Civile, di analoga rimessione del relativo ricorso per l’assegnazione alle Sezioni Unite, l’ordinanza interlocutoria pone la questione se la compressione della facoltà di godimento diretto del bene, costituente il contenuto del diritto di proprietà, debba considerarsi quale danno patrimoniale da risarcire ai sensi del combinato disposto degli artt. 1223 e 2056 cod. civ. Osserva l’ordinanza che l’impedimento a ricavare dal bene abusivamente occupato l’utilità diretta che esso offre non dovrebbe richiedere alcuna prova ulteriore rispetto a quella del fatto generatore del danno, potendo il godimento diretto esaurirsi anche in una fruizione meramente saltuaria o occasionale o anche nella utilitas derivante dalla mera potenzialità di una fruizione (anche una fruizione in potenza è idonea a costituire una posta attiva del patrimonio del proprietario). Precisa l’ordinanza che il valore d’uso che si può ritrarre dal godimento diretto del bene, o il valore di scambio che può ricavarsi dalla cessione di tale godimento a terzi, costituiscono di per sé un valore attivo del patrimonio di chi ha diritto di disporre del bene, integrando la titolarità attiva di un rapporto personale o reale di godimento una componente economicamente valutabile del patrimonio del titolare, e che il risarcimento della perdita della disponibilità temporanea del bene, liquidabile eventualmente in via equitativa, spetta (anche) nei casi in cui non sia provato in qual modo il titolare avrebbe usato di tale disponibilità. Aggiunge che la prova del danno conseguenza (l’impedimento al godimento del fondo) si esaurisce in quella del fatto generatore del danno (l’occupazione del fondo), per cui nel caso della perdita del godimento del bene la prova del danno emergente è in re ipsa, da liquidare sulla base della durata dell’occupazione, provata dal proprietario, e se del caso mediante il valore locativo di mercato quale tecnica, fra le varie possibili, di liquidazione equitativa. Osserva infine che, ove il proprietario agisca per il danno da mancato guadagno, deve invece offrire la prova specifica delle occasioni di guadagno perse, anche mediante il ricorso a presunzioni semplici o al fatto notorio.
4.1. Ai fini dell’esatta delimitazione della questione su cui sono chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite, deve essere richiamata l’ordinanza interlocutoria n. 1162 del 2022 della Terza Sezione Civile.
Premette tale ordinanza che l’indirizzo assunto dalla decisione, impugnata con il ricorso proposto in quel processo, non è pacifico, atteso che secondo altro indirizzo, una volta soppresse le facoltà di godimento e disponibilità del bene per effetto dell’occupazione abusiva, ricorre una praesumptio hominis di danno risarcibile (cioè in re ipsa), corrispondente al danno figurativo rappresentato dal valore locativo del cespite abusivamente occupato, superabile solo con la prova che il proprietario, anche se non spogliato, non avrebbe in alcun modo utilizzato l’immobile. Osserva quindi che la corte territoriale ha seguito l’orientamento secondo cui il danno in re ipsa, giungendo ad identificare il danno con l’evento dannoso, configura un danno punitivo senza alcun riconoscimento legislativo (in contrasto con Cass. Sez. U. n. 16601 del 2017), perché il soggetto leso potrebbe ottenere un risarcimento anche quando in concreto non abbia subito alcun pregiudizio, laddove invece ciò che rileva a fini risarcitori è il danno-conseguenza, per cui il danno da occupazione sine titulo può essere dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma tale alleggerimento dell’onere probatorio non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto. Precisa l’ordinanza interlocutoria che tale indirizzo si colloca all’interno di una tendenza giurisprudenziale propensa a ricusare ogni forma di danno figurativo e astratto, pur ammettendone la prova per presunzioni, per una serie di fattispecie (ad esempio, seguendo Cass. n. 29982 del 2020, non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy determina, ai fini del danno non patrimoniale risarcibile, una lesione ingiustificabile del diritto, ma solo quella che offenda in modo sensibile la portata effettiva del diritto alla riservatezza). Osserva infine che in tema di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, come affermato da Cass. Sez. U. n. 20691 del 2021, fermo restando l’indennizzo previsto dalla legge nella misura del cinque per cento annuo sul valore venale del bene all’attualità, è onere del proprietario provare il danno ulteriore, ed in particolare di avere perduto occasioni particolari di profitto.
4.2. Entrambe le ordinanze interlocutorie pongono la questione della configurabilità del c.d. danno in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo dell’immobile, ma il punto di divergenza fra gli orientamenti che esse esprimono riguarda non il mancato guadagno, bensì la perdita subita. Entrambe le ordinanze escludono infatti che un danno in re ipsa sia configurabile in relazione al lucro cessante e si può convenire sul dato che nella giurisprudenza di legittimità le occasioni di guadagno perse devono essere oggetto di specifica prova, naturalmente anche a mezzo di presunzioni. La problematica del danno in re ipsa emerge in entrambe le ordinanze in relazione alla facoltà di godere del proprietario quale individuazione dell’esistenza di un danno risarcibile per il sol fatto che di tale facoltà il proprietario sia stato privato a causa dell’occupazione abusiva dell’oggetto del suo diritto. Si tratta pertanto del danno da perdita subita (del godimento).
La vendita del bene, quale forma precipua di occasione di guadagno che sarebbe stata persa per l’occupazione sine titulo, è da collegare non al contenuto del diritto previsto dall’art. 832 cod. civ., ma alla titolarità del diritto ed è espressione della possibilità di alienare quale caratteristica di tutti i diritti patrimoniali. La compravendita immobiliare è manifestazione della titolarità del diritto al pari della cessione del credito. Non vi è stata quindi, a seguito dell’illegittima occupazione, una compressione del contenuto del diritto di proprietà, ma il mancato compimento di un atto che il proprietario avrebbe compiuto quale titolare del diritto, se l’occupazione non vi fosse stata, e di cui, anche in via presuntiva, deve essere fornita la prova se viene chiesto il risarcimento per il relativo mancato utile. Per la verità vi è un indirizzo secondo cui avrebbe natura in re ipsa il danno da incommerciabilità dell’immobile che il promittente venditore avrebbe patito a seguito dell’inadempimento del contratto preliminare di compravendita da parte del promissario acquirente (Cass. 31 maggio 2017, n. 13792; 10 marzo 2016, n. 4713; 5 novembre 2001, n. 13630), ma qui può ritenersi operante la presunzione basata sul fatto noto che il proprietario ha posto in vendita l’immobile per cui, se non si fosse impegnato con il convenuto, lo avrebbe venduto ad altri.
Sempre allo scopo di delimitare il campo d’indagine, la mancata stipulazione di locazione è suscettibile di costituire un mancato guadagno se il proprietario dimostra che il contratto sarebbe stato concluso con la previsione di un canone superiore a quello di mercato. La mancata stipulazione di una locazione, quale forma di godimento indiretto del bene mediante i frutti civili che da esso possono ritrarsi (art. 820, comma 3, cod. civ.), è ascrivibile all’area del danno emergente perché pur sempre inerente al diritto di godere. La rilevanza del corrispettivo della locazione, ai fini della liquidazione equitativa del danno derivante dall’impedito godimento del bene, discende proprio dal costituire l’equivalente economico del godimento ceduto nell’ambito del rapporto obbligatorio. Il canone di locazione è parametro privilegiato per la liquidazione del danno ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. proprio perché costituente il corrispettivo in un contratto che ha per oggetto il godimento dell’immobile. Dunque il godimento ha un valore economico e esso, nell’ambito di una valutazione equitativa del danno, può essere il medesimo sia se il godimento è diretto, sia se è indiretto mediante la percezione dei frutti civili per il godimento che altri abbia della cosa. Ecco perché la mancata locazione, quale spoliazione della facoltà di godimento indiretto, rientra nell’area della perdita subita e, per tale via, nella problematica del danno in re ipsa. Ove si ritenga che il danno sussista per la violazione in sé del diritto di godere, il risarcimento spetta, con l’eventuale liquidazione equitativa parametrata sul canone locativo di mercato, a prescindere che si denunci il mancato esercizio della facoltà di godere in modo diretto o in modo indiretto. Rientra invece nel mancato guadagno, e non può quindi in thesi costituire danno in re ipsa, la locazione per un canone superiore a quello di mercato: tale occasione persa, al pari della mancata alienazione del diritto per un prezzo maggiore di quello di mercato, deve essere oggetto di prova specifica, anche in via presuntiva.
Infine, quale ultimo tassello dell’area coperta dalla problematica del danno in re ipsa, vi è il diritto «di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo» (art. 832 cod. civ.). Tradizionalmente tale facoltà è stata ricondotta allo jus vendendi, ma, come si è visto, l’alienazione del diritto è piuttosto espressione della titolarità, la quale è comune a tutti i diritti patrimoniali. La migliore dottrina ha invece ricondotto il diritto di disporre al diritto di scegliere le possibili destinazioni del bene e di modificarne l’organizzazione produttiva, definendolo il profilo più intenso del diritto di godere, che potrebbe rinvenire un proprio ascendente nell’antica locuzione latina “jus utendi et abutendi”. Il rilievo trova conferma nelle caratteristiche del diritto di disporre che, al pari di quello di godere, deve esercitarsi «in modo pieno ed esclusivo». Così inteso, il diritto di disporre del bene inerisce all’area della perdita subita e dunque alla problematica del danno in re ipsa.
4.3. Quanto appena precisato attiene all’occupazione abusiva caratterizzata dall’originario difetto di titolo e che è soggetta al regime della responsabilità di cui all’art. 2043 cod. civ..
Nel caso di sopravvenuto venir meno del titolo, che ab origine giustificava l’occupazione dell’immobile, viene in rilievo la disciplina delle fattispecie di estinzione del rapporto contrattuale. L’art. 1591 cod. civ. in particolare, per ciò che concerne la locazione, prevede per la protrazione del godimento da parte del conduttore, a scapito di quello del proprietario, l’obbligo del pagamento del corrispettivo fino alla riconsegna, salvo il risarcimento del danno, nel quale confluiscono le ipotesi di mancato guadagno (occasioni perse di vendita o di locazione a condizione economiche più favorevoli), ma con il regime della responsabilità previsto dall’art. 1218.
E’ appena il caso di aggiungere che estraneo all’occupazione sine titulo è anche il paradigma dell’arricchimento senza causa (art. 2041), nel quale l’assenza di giusta causa dello spostamento patrimoniale non riveste il carattere dell’antigiuridicità, mentre la diminuzione patrimoniale che qui si fa valere corrisponde a un danno per la presenza di un fatto illecito.
4.4. Le due ordinanze interlocutorie esprimono una divergenza reale che non può essere ricomposta con l’artificio logico secondo cui danno in re ipsa significherebbe in realtà prova in re ipsa, per cui non si tratterebbe altro che di una forma di presunzione ricavata dai fatti noti della condotta non iure dell’occupante e della tipologia del bene destinato ad impiego fruttifero (così Cass. 27 giugno 2016, n. 13224; 21 agosto 2018, n. 20859). In questo quadro, si è inteso ravvisare l’esistenza di un contrasto più apparente che reale, relativo all’utilizzo di formule e non alla sostanza della questione giuridica (Cass. 5 ottobre 2020, n. 21272; 6 ottobre 2021, n. 27126). L’ordinanza n. 3946 del 2022 ha il merito di focalizzare il cuore di un dissenso, che invece è reale e non apparente (rileva, ad esempio, la realtà del contrasto Cass. 7 gennaio 2021, n. 39).
La tesi del danno in re ipsa è debitrice della concezione normativa, elaborata dalla dottrina tedesca, secondo cui l’oggetto del danno coincide con il contenuto del diritto violato, da cui l’esistenza del pregiudizio per il sol fatto della violazione del diritto medesimo. Il danno è in re ipsa perché appunto immanente alla violazione del diritto. I diritti reali, in quanto diritti su cose, hanno la caratteristica della dissociazione fra contenuto del diritto ed oggetto del diritto (la stessa rubrica dell’art. 832 è nel senso del «contenuto del diritto»). La situazione antigiuridica emerge perciò non solo con riferimento al danno alla cosa, ma anche quando è leso il contenuto del diritto, circostanza quest’ultima che comporterebbe di per sé un danno risarcibile.
E’ questa la teorica che fa da sfondo alla giurisprudenza, soprattutto della Seconda Sezione Civile, favorevole al danno in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo di immobile. Il carattere in re ipsa del danno viene fatto discendere dalla natura fruttifera del bene (Cass. 25 maggio 2022, n. 6359; 31 luglio 2019, n. 20708; 6 agosto 2018, n. 20545; 28 agosto 2018, n. 21239; 17 novembre 2011, 24100; 10 febbraio 2011, n. 3223; 11 febbraio 2008, n. 3251). Pure nel caso di preclusione dell’uso, anche solo potenziale, della res da parte del comproprietario ad opera di altro comproprietario si parla di danno in re ipsa, liquidabile in base ai frutti civili ritraibili dal bene (Cass. 28 settembre 2016, n. 19215; 12 maggio 2010, n. 11486; 30 ottobre 2009, n. 23065). Sempre secondo la giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, è data però al convenuto la possibilità di fornire la prova contraria del danno in re ipsa allegato, dimostrando che il proprietario si è intenzionalmente disinteressato dell’immobile (Cass. 22 aprile 2022, n. 12865; 15 febbraio 2022, n. 4936; 31 gennaio 2018, n. 2364; 9 agosto 2016, n. 16670; 15 ottobre 2015, n. 20823; 7 agosto 2012, n. 14222). In questo quadro è stato precisato che non può sostenersi che si tratti di un danno la cui sussistenza sia irrefutabile, posto che la locuzione “danno in re ipsa” rinvia «all’indisponibilità del bene fruttifero secondo criteri di normalità, i quali onerano l’occupante alla prova dell’anomala infruttuosità di uno specifico immobile» (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39). A questo proposito deve darsi atto che nella stessa Seconda Sezione Civile è emerso un più recente orientamento secondo cui la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno normale” o “danno presunto”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39; 20 gennaio 2022, n. 4936; 22 aprile 2022, n. 12865).
L’orientamento della Terza Sezione Civile è invece ispirato dalla teoria causale del danno, secondo cui il pregiudizio risarcibile non è dato dalla lesione della situazione giuridica, ma dal danno conseguenza derivato dall’evento di danno corrispondente alla detta lesione. L’art. 1223 cod. civ., cui rinvia l’art. 2056, attiene al danno conseguenza per il quale rileva il nesso di causalità giuridica fra l’evento di danno e le conseguenze pregiudizievoli meritevoli di risarcimento, mentre altro profilo eziologico è quello che connota la causalità materiale fra la condotta (lesiva) ed il danno evento. Sulla base di questa premessa si è consolidato un indirizzo secondo cui il danno conseguente all’impossessamento sine titulo, in quanto danno conseguenza, deve essere allegato e provato, anche a mezzo di presunzioni, per essere risarcito e non può essere confuso con l’evento di danno rappresentato dalla mancata disponibilità dell’immobile a causa dell’abusiva occupazione (Cass. 6 ottobre 2021, n. 27126; 29 settembre 2021, n. 26331; 25 maggio 2021, n. 14268; 16 marzo 2021, n. 7280; 24 aprile 2019, n. 11203; 4 dicembre 2018, n. 31233; 25 maggio 2018, n. 13071; 27 luglio 2015, n. 15757; 17 giugno 2013, n. 15111; 11 gennaio 2005, n. 378).
Richiamando un passaggio motivazionale di Cass. Sez. U. 11 novembre 2008, n. 26972, secondo cui il danno in re ipsa (nella specie riferito al danno non patrimoniale) «snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo», Cass. n. 13071 del 2018 ha rimarcato come il riconoscimento di un danno in re ipsa nel caso di occupazione sine titulo dell’immobile avrebbe la valenza di danno punitivo fuori delle condizioni previste da Cass. Sez. U. 5 luglio 2017, n. 16601, che ritiene compatibile un tale figura con l’ordinamento giuridico a condizione che vi sia una previsione normativa in tal senso, in ossequio all’art. 23 Cost.. Sulla stessa lunghezza d’onda, Cass. n. 31233 del 2018 ha precisato che il danno evento rappresentato dalla mancata disponibilità dell’immobile non è idoneo ad integrare il fatto noto della presunzione, di cui all’art. 2729 cod. civ., che dovrebbe condurre alla prova del danno conseguenza, dovendo piuttosto quest’ultimo essere inferito da circostanze di fatto allegate e in grado dimostrare il nesso di causalità giuridica fra il danno evento ed il pregiudizio derivatone.
4.5. La questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria. Ritengono le Sezioni Unite che al quesito debba darsi risposta positiva, nei termini emersi nella richiamata linea evolutiva della giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, secondo cui la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39; 20 gennaio 2022, n. 4936; 22 aprile 2022, n. 12865). Tale esito interpretativo, per quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in conseguenza di un fatto illecito. La linea da perseguire è infatti, secondo le Sezioni Unite, quella del punto di mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla Terza Sezione Civile. Al fine di salvaguardare tale punto di mediazione, l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta la distinzione fra le due forme di tutela.
La distinzione fra azione reale e azione risarcitoria è il riflesso processuale di quella sostanziale fra regole di proprietà (property rules) e regole di responsabilità (liability rules). La tutela reale è orientata al futuro e mira al ripristino dell’ordine formale violato mediante l’accertamento dello stato di diritto e la rimozione dello stato di fatto contrario al diritto soggettivo, a parte la tutela inibitoria come negli artt. 844 e 1171 cod. civ.. L’azione di rivendicazione esperita nei confronti dell’occupante sine titulo ripristina sul piano astratto la situazione giuridica violata e rimuove l’impedimento all’esercizio del diritto mediante la riduzione nel pristino stato. Rientra nell’azione reale anche la tutela indennitaria prevista da disposizioni quali l’art. 948, comma 1, cod. civ., con riferimento al valore della cosa in caso di mancato recupero della stessa, o l’art. 938 cod. civ., con riferimento al doppio del valore della porzione di fondo attiguo occupato, come è reso evidente dal fatto che tali disposizioni fanno salvo, quale rimedio distinto, il risarcimento del danno, e dunque costituiscono pur sempre applicazione delle regole di proprietà e non di quelle di responsabilità. L’azione risarcitoria è invece orientata al passato e costituisce il rimedio per la perdita subita a causa della violazione del diritto. Essa costituisce la misura riparatoria per la concreta lesione del bene della vita verificatasi in conseguenza della condotta abusiva dei terzi. Mentre la tutela reale costituisce il rimedio per l’alterazione dell’ordinamento formale, la tutela risarcitoria è compensativa del bene della vita perduto, secondo le modalità del danno emergente se la perdita patrimoniale (o non patrimoniale) è in uscita, del lucro cessante se la perdita è in entrata.
La distinzione fra le due forme di tutela comporta che il fatto costitutivo dell’azione risarcitoria non possa coincidere senza residui con quello dell’azione di rivendicazione ma debba contenere l’ulteriore elemento costitutivo del danno risarcibile. Ciò significa tenere ferma la distinzione, espressione della teoria causale del danno, fra causalità materiale e causalità giuridica.
4.6. La distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica è un’acquisizione risalente della giurisprudenza di questa Corte. Sul punto vanno richiamati gli arresti delle Sezioni Unite. Sia Cass. Sez. U. 11 gennaio 2008, n. 576, che Cass. Sez. U. 11 novembre 2008, n. 26972, entrambe muovendo dall’ipotesi del danno non patrimoniale, hanno differenziato nell’ambito dell’illecito aquiliano la causalità materiale, rilevante ai fini dell’imputazione del danno evento (dommage o damnum) ad una determinata condotta secondo i criteri di responsabilità previsti dalla disciplina del fatto illecito, e la causalità giuridica, di cui sono espressione gli artt. 1223 e 2056, la quale, in funzione di selezione delle conseguenze dannose risarcibili, attiene al nesso eziologico fra il danno evento ed il c.d. danno conseguenza (préjudice o praeiudicium), costituente l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria. Già prima delle richiamate pronunce delle Sezioni Unite vi erano state Cass. 16 ottobre 2007 n. 21619, le sentenze gemelle Cass. n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003, Cass. 24 ottobre 2003, n. 16004, tutte quante rese sempre in materia di danno non patrimoniale, e ancora prima Cass. 15 ottobre 1999, n. 11629. Anche nella giurisprudenza costituzionale, secondo la linea evolutiva che va da Corte cost. 14 luglio 1986 n. 184 a Corte cost. 27 ottobre 1994 n. 372, è emersa la distinzione fra danno evento e danno conseguenza. La distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica è stata da ultimo ripresa da Corte cost. 15 settembre 2022, n. 205.
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che «se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria» (Cass. Sez. U. n. 576 del 2008), così temperando l’originario rigorismo della tesi della causalità giuridica presente nella dottrina che la introdusse. Secondo questa dottrina la fattispecie della responsabilità risarcitoria si perfeziona con la verificazione del fatto, comprensivo dell’azione e dell’evento, mentre la causalità giuridica interviene solo in funzione selettiva del danno risarcibile all’esito di una responsabilità già accertata. Una simile visione resta nell’alveo della prospettiva pan-penalistica dell’atto antigiuridico (non iure, nel senso di comportamento non giustificato dal diritto), mentre il punto di vista della moderna responsabilità civile, improntata al principio di solidarietà (art. 2 Cost.), è quello dell’allocazione del danno contra ius (“ingiusto”, secondo la qualifica dell’art. 2043). Al rigorismo dell’originaria tesi dottrinale va obiettato che in assenza delle conseguenze previste dall’art. 1223 cod. civ. non vi è alcuna responsabilità risarcitoria da accertare perché non vi è danno da risarcire. La fattispecie del fatto illecito si perfeziona con il danno conseguenza: ciò vuol dire che la perdita subita e il mancato guadagno (art. 1223) non sono un posterius rispetto al danno ingiusto, ma sono i criteri di determinazione di quest’ultimo, secondo la lettera dell’art. 2056. Diversamente da quanto pur affermato in dottrina, il «danno» di cui fa menzione la seconda parte dell’art. 2043 non è altra cosa dal «danno ingiusto» di cui si parla nella prima parte: se non c’è danno conseguenza non c’è danno ingiusto. Causalità materiale e causalità giuridica non sono così le fasi di una successione cronologica, ma sono i due diversi punti di vista in sede logico-analitica dell’unitario fenomeno del danno ingiusto (di «profili diversi» dell’unico danno già discorreva Cass. sez. U. n. 576 del 2008, punto n. 5.1.), il quale non è identificabile se non alla luce di questa dualità di nessi causali, l’uno informato al criterio della regolarità causale, l’altro a quello della conseguenzialità immediata e diretta. Cagionato l’evento di danno, la fattispecie del fatto illecito è integrata con la realizzazione delle conseguenze pregiudizievoli, senza che fra evento e conseguenza vi sia un distacco temporale: la distinzione è logica, non cronologica.
Il danno conseguenza assume rilevanza giuridica non per la mera differenza patrimoniale fra il prima e il dopo dell’evento dannoso, ma solo in quanto cagionato da un evento lesivo di un interesse meritevole di tutela ad un determinato bene della vita, secondo la fondamentale definizione contenuta in Cass. Sez. U. 22 luglio 1999, n. 500; reciprocamente, l’evento di danno è giuridicamente rilevante solo se produttivo del danno conseguenza quale concreto pregiudizio al bene della vita. La nozione di danno ingiusto di cui all’art. 2043 cod. civ. rappresenta la sintesi di questi due reciproci vettori.
4.7. Così precisati i termini della distinzione fra evento di danno e danno conseguenza, quale caposaldo della teoria del risarcimento del danno, e chiarita la necessità dell’elemento costitutivo ulteriore nella causa petendi della domanda risarcitoria rispetto a quella della domanda di rivendicazione, deve ora essere definito il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà. Che la violazione dell’ordine giuridico sia suscettibile di tutela non solo reale, ma anche risarcitoria, trova riscontro nel fatto che il diritto soggettivo appartiene al novero delle situazioni giuridiche mezzo, nelle quali il potere giuridico di cui è investito il soggetto rappresenta lo strumento, a sua disposizione, per la soddisfazione dell’interesse ad un determinato bene della vita. La violazione del diritto può così comportare la lesione dell’interesse al bene della vita, che di quel diritto costituisce il substrato materiale e l’elemento teleologico, e configurare dunque l’illecito aquiliano. Ai fini della definizione del danno risarcibile da violazione dell’ordine giuridico, deve muoversi dalla distinzione fra la lesione del bene costituente l’oggetto del diritto di proprietà e la lesione del contenuto stesso del diritto.
Quando l’azione dannosa attinge sulla base del nesso di causalità materiale il bene, l’evento di danno è rappresentato dalla lesione del diritto per il pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà, ma affinché un danno risarcibile vi sia, perfezionandosi così la fattispecie del danno ingiusto, è necessario che al profilo dell’ingiustizia, garantito dalla violazione del diritto, si associ quello del danno conseguenza, e perciò la perdita subita e/o il mancato guadagno che, sulla base del nesso di causalità giuridica, siano conseguenza immediata e diretta dell’evento dannoso. E’ quanto accade ad esempio nel caso del danno da c.d. fermo tecnico di veicolo incidentato, per il quale è richiesta la prova della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo (si vedano Cass. 14 ottobre 2015, n. 20620 e le altre conformi fino alla recente Cass. 19 settembre 2022, n. 27389).
Quando l’azione lesiva attinge invece il contenuto del diritto di proprietà (“il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), ciò che viene in primo luogo in rilievo è la violazione dell’ordine giuridico. L’ordinamento appresta lo strumento di ripristino dell’ordine formale violato, ossia la tutela reale di reintegrazione del diritto leso. Questa tutela può eventualmente concorrere con la misura restitutoria del bene, di cui è pure espressione la fattispecie di cui all’art. 1148 cod. civ., la quale disciplina con riferimento ai frutti naturali separati e ai frutti civili maturati le conseguenze della restituzione della cosa da parte del possessore (nella specie di mala fede o comunque nello stato soggettivo di cui all’art. 1147, comma 2, cod. civ.) convenuto dal proprietario in sede di rivendicazione. Sia la cosa (art. 810 cod. civ.), che i frutti (art. 820 cod. civ.), appartengono alla disciplina dei beni e perciò restano nell’alveo dell’azione di rivendicazione sotto il profilo degli effetti restitutori.
La domanda risarcitoria presuppone che, per la presenza di un danno risarcibile, l’azione lesiva del contenuto del diritto di proprietà sia valutabile non solo come violazione dell’ordine formale, ma anche come evento di danno. In quest’ultimo caso il nesso di causalità materiale si stabilisce fra l’occupazione senza titolo dell’immobile e direttamente la lesione del diritto di proprietà, senza passare per l’intermediazione del pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà. L’evento di danno riguarda non la cosa, ma proprio il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa. Il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione, cagionata dall’occupazione abusiva, del “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”. Il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire.
Saldando il danno suscettibile di risarcimento alla concreta possibilità di godimento persa, per un verso si rende risarcibile il contenuto del diritto violato, in ossequio alla teoria normativa del danno, per l’altro si riconduce la violazione giuridica a una specifica perdita subita, in ossequio alla teoria causale. Il riferimento alla specifica circostanza di godimento perso stabilisce la discontinuità fra il fatto costitutivo dell’azione di rivendicazione e quello dell’azione risarcitoria, preservando la distinzione fra la tutela reale e quella risarcitoria. Diversamente si avrebbe l’inaccettabile conseguenza non del danno punitivo, come pure affermato dalla giurisprudenza della Terza Sezione Civile, ma del danno irrefutabile che non ammette prova contraria. Affinché si abbia un danno punitivo è necessario un quid ulteriore che colleghi la riparazione della perdita subita alla riprovevolezza della condotta del danneggiante, con un’amplificazione della componente riparatoria in misura proporzionale al grado della colpa o all’intensità del dolo del danneggiante (mediante il cumulo di compensatory damage e punitive damage), e tale non può dirsi che sia l’esito della tesi del danno in re ipsa. Viceversa, se la causa petendi dell’azione risarcitoria viene fatta coincidere senza residui con quella dell’azione risarcitoria, il risarcimento spetterebbe sempre a fronte della denuncia della compressione del diritto di godere della cosa quale astratta posizione riconosciuta dall’ordinamento, senza che si dia possibilità della prova contraria.
4.8. Non è invece richiesta l’allegazione della concreta possibilità di godimento persa nell’ipotesi dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione, trattandosi di fattispecie retta da criteri del tutto differenti rispetto alla comune occupazione abusiva.
L’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 prevede che, in caso di utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e di successivo provvedimento di acquisizione, sia corrisposto al proprietario un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene. L’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’articolo 37 del medesimo d.P.R. n. 327. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore del bene come appena determinato.
Anche nel caso di mancanza di formale acquisizione ai sensi dell’art. 42-bis, o di procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto di esproprio o con un accordo di cessione, è configurabile per la giurisprudenza un danno per il mancato godimento del fondo illegittimamente occupato, abitualmente determinato in via equitativa in favore del privato, ove non sia fornita la prova di un danno maggiore, in base al criterio degli interessi legali per ogni anno di occupazione sulla somma corrispondente all’indennità di espropriazione o sul prezzo di cessione volontaria del bene (fra le tante Cass. 20 novembre 2018, n. 29990; 6 agosto 2018, n. 20545; 4 marzo 2005, n. 4797; 27 agosto 2004, n. 17142).
La determinazione legislativa in via forfettaria dell’indennizzo, senza esigere dal proprietario l’allegazione della mancata possibilità di godimento nel periodo di occupazione senza titolo, salva la possibilità per entrambe le parti del giudizio di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in melius o in pejus rispetto a quel limite – per il proprietario ad esempio la perdita di occasioni particolari di profitto), costituisce una valutazione legale tipica di pregiudizio e di relativa compensazione. Si tratta di una valutazione, come anche quella del diritto vivente appena richiamato, tipizzata di pregiudizio al bene della vita, il cui presupposto di fatto è l’esplicazione del rapporto fra privato e pubblica amministrazione, istituzionalmente asimmetrico dal punto di vista del potere, secondo modalità ablatorie non rispettose della legge. Come spiega Cass. Sez. U. 20 luglio 2021, n. 20691, «nella materia espropriativa l’agire amministrativo è cadenzato da atti formali che sono, di per sé, evocativi di conseguenze pregiudizievoli per il privato, apprezzabili secondo l’id quod plerumque accidit, nel caso in cui la pubblica amministrazione non eserciti il potere autoritativo nei tempi e modi previsti dalla legge».
4.9. Nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile è al contrario richiesta, come si è visto, l’allegazione della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa. Ciò significa che il non uso, il quale è pure una caratteristica del contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento. E’ pur vero che a fondamento dell’imprescrittibilità del diritto di proprietà vi è la circostanza che fra le facoltà riconosciute al proprietario vi è anche quella del non uso, ma l’inerzia resta una manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, mentre il danno conseguenza riguarda il pregiudizio al bene della vita che, mediante la violazione del diritto, si sia verificato. Alla reintegrazione formale del diritto violato, anche nella sua esplicazione di non uso, provvede la tutela reale e non quella risarcitoria.
Come si è chiarito al punto 4.2., la perdita subita attiene al godimento, diretto o indiretto mediante il corrispettivo del godimento concesso ad altri, che è poi l’oggetto vero del contrasto giurisprudenziale da risolvere, e non alla vendita, per la quale, corrispondendo il relativo danno alla differenza fra il prezzo di mercato e quello maggiore che si sarebbe potuto ricavare dall’atto dispositivo mancato, non può che parlarsi di mancato guadagno. L’allegazione che l’attore faccia della concreta possibilità di godimento perduta può essere specificatamente contestata dal convenuto costituito. Al cospetto di tale allegazione il convenuto ha l’onere di opporre che giammai il proprietario avrebbe esercitato il diritto di godimento. La contestazione al riguardo non può essere generica, ma deve essere specifica, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, cod. proc. civ.. In presenza di una specifica contestazione sorge per l’attore l’onere della prova dello specifico godimento perso, onere che può naturalmente essere assolto anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115, comma 2, cod. proc. civ.) o mediante presunzioni semplici. Nel caso della presunzione l’attore ha l’onere di allegare, e provare se specificatamente contestato, il fatto secondario da cui inferire il fatto costitutivo rappresentato dalla possibilità di godimento persa. Sia nel caso di godimento diretto, che in quello di godimento indiretto, il danno può essere valutato equitativamente ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., attingendo al parametro del canone locativo di mercato quale valore economico del godimento nell’ambito di un contratto tipizzato dalla legge, come la locazione, che fa proprio del canone il valore del godimento della cosa.
Se la domanda risarcitoria ha ad oggetto il mancato guadagno causato dall’occupazione abusiva, l’onere di allegazione riguarda gli specifici pregiudizi, fra i quali si possono identificare non solo le occasioni perse di vendita a un prezzo più conveniente rispetto a quello di mercato, ma anche le mancate locazioni a un canone superiore a quello di mercato (una volta che si quantifichi equitativamente il godimento perduto con il canone locativo di mercato, il corrispettivo di una locazione ai correnti valori di mercato rientra, come si è visto, nelle perdite subite). Ove insorga controversia in relazione al fatto costitutivo del lucro cessante allegato, l’onus probandi anche in questo caso può naturalmente essere assolto mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o le presunzioni semplici. In generale, in relazione al mancato guadagno può rinviarsi alla costante giurisprudenza in materia di maggior danno ai sensi dell’art. 1591 cod. civ. (fra le tante Cass. 3 febbraio 2011, n. 2552; 26 novembre 2007, n. 24614; 27 marzo 2007, n. 7499; 13 luglio 2005, n. 14753; 23 maggio 2002, n. 7546).
Sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass. 31 agosto 2020, n. 18074; 4 gennaio 2019, n. 87; 18 luglio 2016, n. 14652; 13 febbraio 2013, n. 3576). Poiché non si compie l’effetto di cui all’art. 115, comma 1, cod. proc. civ., per i fatti ignoti al danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno. Ne consegue sul piano pratico la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115 comma 1, nelle controversie aventi ad oggetto la perdita subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il mancato guadagno. Si chiarisce così la portata eminentemente pratica delle nozioni di “danno normale” e “danno presunto” emerse nella recente giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, le quali rinviano, nelle controversie relative alla perdita subita, a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva.
4.10. Vanno in conclusione enunciati i seguenti principi di diritto:
“nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta”;
“nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato”;
“nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato”.
4.11. Tornando ai motivi di ricorso, osserva la parte ricorrente nel secondo motivo che il fatto che le aree non potevano essere vendute costituiva l’esemplificazione in domanda dei pregiudizi, ma ciò che è stato dedotto è la mancata disponibilità ed il pregiudizio derivante dal fatto che le aree erano destinate ad essere utilizzate e vendute come parcheggi. Aggiunge poi nel terzo motivo che, come affermato nella comparsa conclusionale di primo grado, il mancato guadagno può essere ricavato dalla mancata disponibilità, e pertanto dai mancati frutti, dei corrispettivi che sarebbero stati ricavati dalla vendita dei parcheggi e dunque come minimo dagli interessi applicati a tali corrispettivi, e che la corte territoriale non ha quindi preso in considerazione la domanda realmente formulata.
Ciò che in tal modo la parte ricorrente sta denunciando è la violazione del principio di integralità del risarcimento. L’unitarietà del diritto al risarcimento ed il suo riflesso processuale dell’ordinaria infrazionabilità del giudizio di liquidazione comportano che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta: ne consegue che, laddove nell’atto introduttivo siano indicate specifiche voci di danno, a tale specificazione deve darsi valore meramente esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intenda ottenere il ristoro, a meno che non si possa ragionevolmente ricavarne la volontà attorea di escludere dal petitum le voci non menzionate (Cass. 7 giugno 2019, n. 15523; 23 ottobre 2014, n. 22514; 31 agosto 2011, n. 17879; 17 dicembre 2009, n. 26505).
La stessa corte territoriale afferma che il danno denunciato con la domanda è quello della mancata possibilità di vendere gli immobili a causa dell’occupazione abusiva. Di tale danno costituisce una voce anche la mancata disponibilità dei corrispettivi, ove le vendite fossero state compiute, in termini di interessi sul capitale. Il giudice di appello ha invece per un verso limitato il petitum al prezzo di mercato degli immobili, per l’altro non ha considerato che la mancata menzione di altre voci di danno non potesse intendersi come esclusione delle stesse dal risarcimento invocato.
Emerge invero dalla motivazione un’ulteriore ratio decidendi, non specificatamente impugnata, secondo cui gli ulteriori pregiudizi non solo non sarebbero stati allegati, ma non sarebbero neanche stati provati. Tale ratio decidendi, dovendo essere riferita ad un oggetto determinato, pena il vizio di motivazione apparente se intesa quale statuizione indeterminata, va limitata a quanto nello stesso contesto motivazionale evidenziato, e cioè che non è stata dedotta un’altra forma di pregiudizio quale «un’ipotetica differenza di valore tra il prezzo ricavabile al momento dell’instaurazione della controversia e quello ottenibile dal momento della ottenuta disponibilità delle aree».
Escluso pertanto quest’ultimo pregiudizio, per l’assenza di specifica impugnazione della statuizione, resta il danno in termini di interessi sul capitale, ove tempestivamente percepito, che il principio di integralità del risarcimento impone al giudice del merito di valutare.
P. Q. M.
accoglie per quanto di ragione il secondo ed il terzo motivo, rigettando per il resto il ricorso;
cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti;
rinvia alla Corte di appello di Cagliari in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il giorno 11 ottobre 2022
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 08 febbraio 2022, n. 3946, per SS.UU, 15 novembre 2022, n. 33645, in tema di occupazione abusiva
SS.UU, 15 novembre 2022, n. 33645, in tema di occupazione abusiva
In tema di legittimazione processuale del singolo condomino – SS.UU, 18 aprile 2019, n. 10934
Civile Sent. Sez. U Num. 10934 Anno 2019
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: D’ASCOLA PASQUALE
Data pubblicazione: 18/04/2019
SENTENZA
sul ricorso 28352-2015 proposto da:
PAPI MARIA LUDOVICA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 6, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI ACQUARELLI, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
CONDOMINIO VIA GIANGIACOMO PORRO 27 ROMA, in persona dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI BANCHI NUOVI 39, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE ANNETTI DEL GRANDE, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
ALIBRANDI ANTONELLA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 32, presso lo studio dell’avvocato CORRADO GIACCHI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente ricorrente incidentale –
contro
PAPI MARIA LUDOVICA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 6, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI ACQUARELLI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente all’incidentale –
avverso la sentenza n. 7179/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 21/11/2014.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/04/2018 dal Presidente PASQUALE D’ASCOLA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale FEDERICO SORRENTINO, che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale e rigetto di quello incidentale;
uditi gli avvocati Pierluigi Acquarelli, Corrado Giacchi e Renato Mariani per delega dell’avvocato Giuseppe Jannetti Del Grande.
Fatti di causa
1) Il giudizio ha avuto origine nel luglio 2004 dalla azione del Condominio di via Gian Giacomo Porro, 27, in Roma, volta alla riduzione in pristino delle opere realizzate dalla condònnina Papi, proprietaria degli ultimi tre piani dell’edificio, in violazione dell’art. 3 del regolamento condominiale, nonché alla tutela della servitù di passaggio in favore di parti comuni, esercitata mediante una scala esterna corrente tra il quarto ed il quinto piano.
Il Tribunale ha accolto integralmente le domande del Condominio.
In particolare ha ritenuto che il Regolamento vietava le opere che avevano inciso sulle facciate, sui prospetti e sull’estetica del fabbricato a prescindere dalla lesione del decoro architettonico; che la convenuta, in violazione della servitù esistente in favore del Condomino, aveva illecitamente rimosso la scala esterna che dal quarto piano conduceva al locale pulegge di rinvio dell’ascensore e al terrazzo di copertura del super attico, realizzando una scala interna tra quarto e quinto piano internamente all’abitazione, così rendendo più difficoltoso l’esercizio della servitù, dovendo i condomini accedere all’abitazione per raggiungere il terrazzo.
Sull’appello di Maria Ludovica Papi, la Corte d’Appello di Roma ha confermato che l’art. 3 del regolamento di condominio, vietando “qualsiasi opera che modifichi le facciate, i prospetti e l’estetica degli edifici”, precludeva ogni modifica. I giudici di secondo grado hanno altresì negato la legittimità del distacco della Papi dall’impianto centrale di riscaldamento, in forza degli artt. 3 e 10 del medesimo regolamento.
La Corte di Roma ha per contro accolto l’appello della condòmina quanto al difetto di prova di un aggravamento della servitù conseguente allo spostamento all’interno dell’appartamento della scala di accesso al piano quinto.
1.1) Avverso la sentenza del 21 novembre 2014, n. 7179, la signora Papi ha proposto ricorso con due motivi, cui il Condominio ha resistito con controricorso.
La condòmina Antonella Alibrandi ha proposto ricorso incidentale, articolato in due motivi.
Papi si è difesa con controricorso al ricorso incidentale.
La causa, trattata con rito camerale davanti alla Sesta sezione è stata rinviata alla pubblica udienza davanti alla Seconda sezione e successivamente è stata rimessa, con ordinanza 27101 del 15 novembre 2017, al Primo Presidente per
l’assegnazione alle Sezioni Unite.
L’ordinanza ha rilevato che è controversa la configurabilità del diritto della condòmina Alibrandi, che non aveva svolto difese nei gradi di merito, di interporre ricorso incidentale tardivo volto a far rimuovere l’opera in quanto contraria al Regolamento condominiale.
Sono state depositate memorie.
Ragioni della decisione
2) L’ordinanza di rimessione n. 27101/17 dubita della ammissibilità del ricorso incidentale tardivo della condomina Alibrandi, che non era stata parte nei gradi di merito.
Essa ricorda che secondo un insegnamento tradizionale, documentato dai precedenti ivi citati, è stata costantemente reputata ammissibile “l’impugnazione, da parte del singolo partecipante, della sentenza di condanna emessa nei confronti dell’intero condominio, sull’assunto che il diritto di ogni partecipante al condominio ha per oggetto le cose comuni nella loro interezza, non rilevando, in contrario, la circostanza della mancata impugnazione da parte dell’amministratore, senza alcuna necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei condomini non appellanti (o non ricorrenti), nè intervenienti, e senza che ciò determini il passaggio in giudicato della sentenza di primo (o di secondo) grado nei confronti di questi ultimi”.
Le perplessità della Seconda sezione sono state indotte dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 19663/2014, con la quale si è stabilito che la legittimazione ad agire per l’equa riparazione spetta esclusivamente al condominio, in persona dell’amministratore, autorizzato dall’assemblea dei condomini.
La sentenza citata, chiamata a pronunciarsi sulla sussistenza della legittimazione ad agire del singolo condomino per conseguire l’indennizzo ex L. n. 89 del 2001 in controversia in cui era stato parte il solo condominio, ha sviluppato due ordini di considerazioni. Una prima linea di ricerca volta ad individuare la configurabilità in capo al condominio di una “soggettività giuridica autonoma”; la seconda intesa a verificare quale sia stato il trattamento riservato dalla legge e dalla giurisprudenza ad altre situazioni di soggetti collettivi in riferimento al diritto di cui sopra.
Sotto il primo versante le Sezioni unite 19663/14 hanno verificato che anche con la riforma dell’istituto condominiale di cui alla L. n. 220 del 2012 è stato escluso il “riconoscimento della personalità giuridica” del condominio, pur avendo esse rintracciato elementi che “vanno nella direzione della progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pure attenuata personalità giuridica”. Hanno dato conto della giurisprudenza che fa salvo il diritto dei singoli condomini di agire a difesa dei diritti esclusivi e comuni inerenti all’edificio condominiale. Hanno preso atto della acuta distinzione giurisprudenziale con riguardo alle controversie che, avendo ad oggetto non diritti su un bene comune ma la sua gestione, sono intese a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale o l’esazione delle somme dovute in relazione a tale gestione da ciascun condomino, controversie per le quali non trova applicazione la salvaguardia dei poteri processuali del singolo (di agire, intervenire, impugnare) in difesa dei diritti connessi alla sua partecipazione.
Infine le Sezioni Unite del 2014 si sono spinte a registrare che questa impostazione “entra in crisi” in relazione alla crescente configurabilità del condominio come “centro di imputazione di interessi, di diritti e doveri, cui corrisponde una piena capacità processuale”.
2.1) Posta questa base ricognitiva circa la possibilità che in relazione a talune situazioni giuridiche il condominio si atteggi come autonomo soggetto giuridico, il secondo versante della sentenza è risultato decisivo in ordine alla legittimazione dei singoli circa i procedimenti relativi all’equa riparazione. Si è concluso, grazie a una puntuale analisi del rapporto tra diritto all’indennizzo ex L. n. 89 del 2001 e formale assunzione della qualità di parte processuale nel giudizio presupposto, che in assenza di quest’ultima non sorge il diritto del condomino a pretendere “il diritto alla equa riparazione per la durata irragionevole di detto giudizio”.
Secondo i primi commentatori, nonostante le aperture manifestate verso l’estensione della soggettività condominiale, la sentenza qui riassunta, che pure registra un inizio di crisi del sistema, è rimasta nel solco della “impostazione tradizionale”. Questa condivisibile lettura sorregge il convincimento odierno che la portata di SU 19663/14 vada circoscritta alla peculiare situazione giuridica esaminata, cioè a quel diritto all’equa riparazione regolato dalle disposizioni sovranazionali prima ancora che da quelle nazionali di impronta applicativa. A questo complesso normativo la sentenza del 2014 ha infatti prestato speciale attenzione.
3) Quanto alla impostazione tradizionale, va subito detto che essa valorizza l’assenza di personalità giuridica del condominio e la sua limitata facoltà di agire e resistere in giudizio tramite l’amministratore nell’ambito dei poteri conferitigli dalla legge e dall’assemblea e per questa via giunge ad attribuire ai singoli condomini la legittimazione ad agire per la tutela dei diritti comuni e di quelli personali.
Dello stesso segno è la giurisprudenza successiva a SU 19663/14, giurisprudenza che ha continuato a ritenere che nelle controversie aventi ad oggetto un diritto comune, l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, nè di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore (cfr, anche argomentando a contrario, Cass. 29748/17; n. 1208 del 18/01/2017; n. 26557 del 09/11/2017, Rv. 646073; n. 22856/17; n. 4436/2017; n. 16562 del 06/08/2015; 10679/15).
3.1) Questo orientamento, salvi i poteri di rappresentanza dell’amministratore di cui all’art. 1131 c.c., trova il suo perdurante ancoraggio nella natura degli interessi in gioco nelle cause, come quella odierna, relative ai diritti dei singoli sulle parti comuni o sui propri beni facenti parte del condominio.
Una volta riscontrato che il legislatore ha respinto in sede di riforma dell’istituto – lo testimonia il confronto tra testo provvisorio e testo definitivo della L. n. 220 del 2012 – la prospettiva di dare al Condominio personalità giuridica con conseguenti diritti sui beni comuni, è la natura dei diritti contesi la ragione di fondo della sussistenza della facoltà dei singoli di affiancarsi o surrogarsi all’amministratore nella difesa in giudizio dei diritti vantati su tali beni.
Sebbene la riflessione corrente e anche la massimazione delle sentenze più rilevanti in argomento giungano all’affermazione dei poteri processuali dei singoli condomini muovendo dalla formula descrittiva di successo secondo cui il condominio è un ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, e dall’analisi dei poteri dell’organo rappresentativo unitario (amministratore), si può osservare che questi rilievi valgono solo ad escludere che da queste fonti (natura del condominio e poteri dell’amministratore) derivino limiti alle facoltà dei singoli.
La ratio dei poteri processuali dei singoli condomini risiede tuttavia – è possibile coglierlo nella giurisprudenza più risalente – nel carattere necessariamente autonomo del potere del condomino di agire a tutela dei suoi diritti di comproprietario “pro quota”, e di resistere alle azioni da altri promosse anche allorquando gli altri condomini non intendano agire o resistere in giudizio (Cass. 8479/99).
Si diceva infatti – non a caso – che è il diritto dell’amministratore che si aggiunge a quello dei naturali e diretti interessati ad agire per il fine indicato a tutela dei beni dei quali sono comproprietari, insidiati da azioni illegittime di altri condomini o di terzi (Cass. n. 11106 del 12/12/1996; 9629/91).
Nè potrebbe essere diversamente, poiché: a) si discute di diritti reali; b) sussistono molteplici realtà condominiali in cui non è imposta obbligatoriamente la nomina di un amministratore (art. 1129 c.c., comma 1); c) difetta una precisa scelta del legislatore che investa esplicitamente ed esclusivamente il condominio (e il suo amministratore) del potere di difendere le parti comuni (e i riflessi sulla proprietà dei singoli).
Tale scelta non è allo stato rinvenibile ed anzi il quadro normativo di riferimento evidenzia, come nota la dottrina a commento di SU 19663/14, la complessità della “dialettica tra interesse condominiale ed interesse del singolo condomino”, che si pone talvolta in termini di “reciproco contemperamento” talaltra in termini di contrapposizione o “di prevalenza dell’uno sull’altro”. Basti qui ricordare che anche il nuovo art. 1117 quater c.c., in tema di tutela delle destinazioni d’uso, non solo non esclude ma addirittura contempla esplicitamente un potere di iniziativa dei singoli condomini.
4) Il mantenimento della tradizionale facoltà dei singoli condomini è coerente con alcuni insegnamenti in materia provenienti dalle Sezioni Unite.
Occorre richiamare Cass. SU 18331 (e 18332) del 2010, la quale ha configurato i poteri rappresentativi processuali dell’amministratore coordinandoli, per subordinazione, con quelli dell’assemblea. Si è in quell’occasione chiarito che il potere decisionale in materia di azioni processuali spetta “solo ed esclusivamente all’assemblea” che può anche ratificare ex tunc l’operato dell’amministratore, “organo meramente esecutivo” del condominio”, che abbia agito senza autorizzazione.
Al di là dell’ambito di applicazione di questa pronuncia, che non è qui necessario indagare, mette conto evidenziare che allorquando si sia in presenza di cause introdotte da un terzo o da un condomino che riguardino diritti afferenti al regime della proprietà e ai diritti reali relativi a parti comuni del fabbricato, e che incidono sui diritti vantati dal singolo su di un bene comune, non può negarsi la legittimazione alternativa individuale.
Non sarebbe concepibile la perdita parziale o totale del bene comune senza far salva la facoltà difensiva individuale.
Le Sezioni Unite con la sentenza 25454 del 2013 relativa ad azione di un condomino volta all’accertamento della natura condominiale di un bene hanno già avuto modo di affermare, con un esame approfondito della questione, che occorre integrare il contraddittorio nei riguardi di tutti i condomini qualora il convenuto eccepisca la proprietà esclusiva formulando un’apposita domanda riconvenzionale volta ad ampliare il tema del decidere ed ottenere una pronuncia avente efficacia di giudicato che mette in discussione la comproprietà degli altri soggetti (più di recente v. Cass. n. 6649 del 15/03/2017).
Altrettanto vale allorché vi sia espressa azione in tal senso contro il condominio o qualora l’amministratore condominiale introduca un’azione che esula dalle attribuzioni conferitegli dall’art. 1130 c.c. e dalla sfera di rappresentanza attribuitagli dall’art. 1131 c.c., come nel caso di una domanda diretta alla declaratoria di esistenza di una servitù di passaggio su fondo limitrofo, la quale introduce una controversia concernente l’estensione del diritto di ciascun condomino in dipendenza dei rispettivi acquisti (così Cass. 12678/2014 in Arch. Loc., 2014, 546).
Se è configurabile il litisconsorzio necessario in questi casi, non può dubitarsi che per il singolo condomino sussista l’interesse ad agire o a resistere – e quindi la facoltà di affiancarsi all’amministratore per far valere in sede processuale le ragioni del condominio – ogniqualvolta la contesa involga la consistenza dei beni comuni.
La regola sulla rappresentanza di cui al 1131 c.c. ha il fine di agevolare l’instaurazione del contraddittorio, dal lato attivo e passivo, e va letta dunque alla luce del predominante potere assembleare nella vita del condominio e della titolarità dei diritti controversi.
5) In considerazione di quanto sopraesposto è configurabile la legittimazione concorrente della condomina Alibrandi, che ha svolto ricorso incidentale tardivo.
I ragionamenti svolti circa la legittimazione dei singoli condomini in relazione ai diritti reali che fanno capo alle parti comuni del Condominio vanificano anche il dubbio secondario posto dall’ordinanza 27101/17.
Essa ha interpellato le Sezioni unite circa il potere della condomina in relazione al principio della consumazione della impugnazione (tra le altre v. Cass. 4249/15), situazione che potrebbe essersi configurata con il deposito del mero controricorso da parte della difesa del condominio.
L’ipotesi muove dal presupposto che condominio e condomino siano proprio “la stessa parte”, dovendo invece più esattamente parlarsi di legittimazione concorrente, pur se, si badi, il condomino che sopraggiunga in giudizio si giova e subisce i limiti delle difese spese fino a quel momento in giudizio dal Condominio stesso.
Il ricorso incidentale ha nella specie ad oggetto precipuo l’unico capo della sentenza di appello favorevole alla ricorrente principale (già appellante) Papi. Detto capo è relativo alla servitù di passaggio che gravava sulla scala esterna di collegamento tra quarto e quinto piano eliminata dalla ricorrente principale. La Corte di appello ha escluso che sussista un aggravamento della servitù di passaggio e ha rigettato sul punto la domanda di riduzione in pristino.
Ne consegue, in relazione al peculiare atteggiarsi dei rapporti condominiali, che, essendo oggetto del ricorso incidentale un diritto afferente alla sfera di ogni singolo condomino, ciascuno di essi può autonomamente far valere la situazione giuridica vantata. A tal fine può avvalersi personalmente dei mezzi d’impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti del condominio (Cass. 10717/11; 3900/2010; 21444/10; 9213/05;), inserendosi nel processo, delimitato quanto all’oggetto dall’evoluzione maturata, cioè nello stato in cui vi interviene, ma con intatta la facoltà di spiegare il mezzo di impugnazione.
Al controricorso individuale può dunque accedere il ricorso incidentale che, nei limiti della materia del contendere incorniciata in fase di merito, risponda alla autonoma facoltà azionata, senza risentire dell’analoga difesa già svolta dal condominio e dunque dei limiti ventilati dall’ordinanza.
6) Conviene a questo punto soffermarsi sul ricorso incidentale, che si articola in due motivi e risulta in parte inammissibile e in parte infondato.
Con il primo motivo la ricorrente incidentale lamenta violazione dell’art. 3 del Regolamento di condominio e dell’art. 1117 c.c. lamentando che la Corte di appello abbia escluso un aggravamento della servitù di passaggio costituita in favore di talune porzioni condominiali a causa dello spostamento all’interno dell’appartamento della scala esterna di collegamento al piano quinto.
Secondo parte Alibrandi, questa decisione sarebbe in contraddizione con la statuizione, confermata dalla Corte territoriale, di riduzione in pristino delle opere abusive realizzate dalla Papi in violazione del regolamento condominiale.
Il motivo si rivela per più profili non meritevole di accoglimento. Esso non si confronta con i fatti e l’inquadramento della domanda che si desumono dalla sentenza della Corte di appello. Essa ha riferito (pag. 1 in fondo e inizio pag. 2) che il Condominio aveva agito – oltre che per il ripristino delle trasformazioni effettuate in violazione del Regolamento – anche per lamentare che l’eliminazione della scala esterna tra il piano quarto e il piano quinto si poneva in violazione della servitù di passaggio anzidetta. Ha riferito anche che la domanda relativa alla servitù era stata accolta dal tribunale perché lo spostamento all’interno “rendeva più difficoltoso l’esercizio della servitù di passaggio spettante al Condominio”; che l’atto di appello della Papi aveva contestato la configurabilità di detto aggravamento.
La Corte di appello ha accolto questo capo di impugnazione perché di per sé lo spostamento della scala dall’esterno all’interno non configura un aggravamento di servitù e perché non erano state allegate dal Condominio circostanze tali da “configurare come pregiudizievole il transito attraverso locali interni piuttosto che salendo anche sulla pregressa scala esterna”.
In relazione a questa domanda, che, stando alla sentenza impugnata, poneva rispetto alla prima domanda un profilo autonomo di illegittimità della sola parte di opere afferente la scala, la decisione è congrua e non è in contraddizione con l’esito – favorevole al condominio (non a caso acquetatosi) – della domanda di rispristino, giacché esse si muovevano su piano separato, ancorché convergente quanto allo scopo finale.
Parte Papi aveva interesse a censurare in appello, unitamente alla statuizione relativa alla illegittimità delle opere per violazione del Regolamento, anche la pronuncia relativa alla violazione della servitù, violazione che è stata riconosciuta insussistente.
6.1) Rispetto a tale decisione risultano peraltro non pertinenti le censure di violazione di legge che sono state svolte.
Parte Alibrandi denuncia infatti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 3 del Regolamento di condominio, come se si trattasse di violazione o falsa applicazione di norme di diritto (per tali intendendosi soltanto quelle risultanti dal sistema delle fonti dell’ordinamento giuridico), e non di disposizione avente, piuttosto, natura organizzativa o contrattuale. L’omesso o errato esame di una disposizione del regolamento di condominio da parte del giudice di merito è, per contro, sindacabile in cassazione soltanto per inosservanza dei canoni di ermeneutica oppure per difetti logici sub specie del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n.5 (Cass. 23/01/2007, n. 1406; Cass.14/07/2000, n. 9355).
Parimenti inconferente è il richiamo alla violazione dell’art. 1117 c.c., in quanto la ricorrente incidentale non deduce alcuna erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta in tema di oggetto della proprietà comune, nè quindi pone alcun problema interpretativo dell’art. 1117 c.c., in quanto lamenta, forse, un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, da intendersi, a suo dire, come innovazione illegittima delle cose comuni.
Del tutto non esaminabili sono infine le deduzioni svolte in memoria circa l’esito della sanatoria amministrativa che sarebbe stata negata dal Comune di Roma, trattandosi di profili che attengono al lato
amministrativo della vicenda e non rifluiscono sul giudizio relativo alla sussistenza dell’aggravamento di una servitù di accesso al piano più alto di un edificio.
Il motivo è quindi inammissibile.
6.2) Infondato è il secondo motivo del ricorso incidentale, che denuncia violazione dell’art. 91 c.p.c..
La Corte d’Appello di Roma ha compensato le spese sulla base della valutazione dell’esito della lite, conseguente al parziale accoglimento delle domande del Condominio di via Gian Giacomo Porro, 27, Roma . È noto che la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, e restano perciò sottratte al sindacato di legittimità, essendo questo limitato ad accertare soltanto che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (cfr. Cass. Sez. 2, 31/01/2014, n. 2149). Dunque nel caso di specie la configurabilità di soccombenza reciproca (per l’accoglimento dell’appello relativamente alla domanda sulla servitù) rendeva conto a sufficienza della statuizione sulle spese, giacché la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (Cass. 30592/17).
Complessivamente il ricorso incidentale va quindi rigettato.
7) Il primo motivo del ricorso di Maria Ludovica Papi denuncia violazione degli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c., in relazione all’art. 3 del regolamento di condominio, nella parte in cui la sentenza della Corte d’Appello di Roma ha interpretato letteralmente la clausola asserendo l’esistenza di un divieto di modifica dei prospetti del fabbricato a prescindere dall’eventuale violazione del limite del decoro architettonico.
Il motivo risulta infondato.
La Corte d’Appello ha affermato che l’art. 3 del regolamento di condominio, vietando “qualsiasi opera che modifichi le facciate, i prospetti e l’estetica degli edifici”, preclude ogni modifica, dando luogo ad un impedimento ben più ampio del limite del decoro architettonico.
Ora, l’interpretazione della clausola di regolamento “contrattuale” di condominio operata dal giudice del
merito, nell’ambito dell’apprezzamento di fatto ad esso spettante, è incensurabile in sede di legittimità, a
meno che non riveli violazione dei canoni di ermeneutica oppure vizi logici, che non si possono ravvisare nella piana lettura data dalla Corte di appello a conferma della sentenza di primo grado (cfr. Cass.1406/2007; 17893/2009).
È poi costante l’orientamento di questa Corte secondo cui un regolamento di condominio cosiddetto “contrattuale”, ove abbia ad oggetto la conservazione dell’originaria “facies” architettonica dell’edificio condominiale, comprimendo il diritto di proprietà dei singoli condomini mediante il divieto di qualsiasi opera modificatrice, stabilisce in tal modo una tutela pattizia ben più intensa e rigorosa di quella apprestata al mero “decoro architettonico” dall’art. 1120 c.c., comma 2 (nella formulazione, qui applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220), e art. 1138 c.c., comma 1, con la conseguenza che la realizzazione di opere esterne integra di per sé una modificazione non consentita dell’originario assetto architettonico dell’edificio (cfr. Cass.12/12/1986, n. 7398; anche Cass. n. 1748/13; Cass. n. 14898/2013), che giustifica la condanna alla riduzione in pristino in caso di sua violazione.
7.1) Il secondo motivo del ricorso principale deduce violazione degli artt. 1363 e 1366 c.c. in relazione agli artt. 3 e 10 del regolamento di condominio, nella parte in cui la sentenza impugnata desume da tali clausole il divieto regolamentare del distacco del condomino dall’impianto centralizzato di riscaldamento.
La censura è fondata.
La Corte di appello ha ritenuto che la inefficienza dell’impianto e gli effetti migliorativi derivati dal distacco dall’impianto non giustificavano la violazione dei divieti previsti dagli artt. 3 e 10 del regolamento di condominio.
Parte ricorrente nello svolgere la censura si duole, come in sostanza aveva fatto in grado di appello (i passaggi salienti del quale sono riportati), della portata che i giudici di merito hanno attribuito alle due clausole regolamentari e della interpretazione letterale che ha condotto a giudicare impossibile qualsiasi modifica e irrilevanti le circostanze, sopra accennate, relative alle ragioni e alle caratteristiche del proprio distacco.
Per quanto la ricorrente Papi specifica, l’art. 3 del regolamento di condominio, oltre a vietare le innovazioni di cui si è detto al paragrafo precedente, contiene il divieto di modificare gli “impianti idraulici, termici, idrici, di energia (…)”; mentre l’art. 10 del medesimo regolamento prescrive che “nessun condomino può sottrarsi al pagamento del contributo nelle spese mediante abbandono o rinuncia alla proprietà delle cose anzidette o ai servizi comuni”. La Corte d’Appello di Roma ha sostenuto che le due clausole regolamentari risultassero automaticamente violate dall’operato distacco della condomina Papi dall’impianto centrale, ma non si è interrogata sul nesso tra le due disposizioni regolamentari (art. 1363), nè sul senso che l’interpretazione letterale deve avere anche per non contrastare con il principio di buona fede (1366).
In proposito, a fronte della apodittica conclusione affermata dalla sentenza impugnata, parte ricorrente ha buon gioco ad evidenziare che le due disposizioni non sembrano collimanti, in quanto la seconda lascia ipotizzare che un eventuale abbandono o rinuncia alle cose o ai servizi comuni dia luogo soltanto all’obbligo di sottostare comunque al pagamento delle spese (secondo la ricorrente di sola manutenzione e conservazione) e quindi che implicitamente sia consentito il distacco.
A questo rilievo che attiene, si badi, alla portata della clausola -la cui applicazione era contestata in appello proprio svolgendo argomenti circa gli effetti del distacco -, la sentenza impugnata non dà risposta.
E altrettanto vale per il profilo della interpretazione – letterale e secondo buona fede – fatto valere per evidenziare che il rigore della lettura data alla limitazione di cui all’art. 3 non può spingersi fino a ritenere impedite le modifiche attinenti la parte privata (financo una presa elettrica, esemplifica il ricorso) degli impianti collegati a quelli comuni.
In proposito mette conto ricordare che i divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze;
pertanto, l’individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti. (Cass. n. 21307 del 20/10/2016).
Da queste considerazioni scaturisce l’accoglimento del motivo di ricorso, restando estranee all’esame della censura le considerazioni svolte da parte resistente circa l’illegittimità del distacco in relazione a profili che sono rimasti assorbiti nell’esame della Corte di appello e che spetta al giudice di rinvio esaminare, poiché involgono accertamenti di fatto che non sono scrutinabili in sede di legittimità.
8) Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso incidentale e del primo motivo del ricorso principale; l’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale.
La sentenza va cassata in relazione al motivo accolto e la cognizione rimessa ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che si atterrà ai canoni interpretativi esposti nell’accogliere il secondo motivo di ricorso.
Le spese del giudizio di legittimità possono essere compensate tra tutte le parti atteso che vi è soccombenza reciproca anche con parte Alibrandi, soccombente sul ricorso incidentale, la quale ha spiegato controricorso adesivo che ha avuto esito in parte positivo.
A carico della ricorrente incidentale va dato atto della sussistenza delle condizioni per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso incidentale e il primo motivo del ricorso principale; accoglie il secondo motivo del ricorso principale.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
Dichiara compensate tra tutte le parti le spese del giudizio di legittimità.
Dà atto della sussistenza delle condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento di ulteriore importo a titolo di contributo unificato a carico di parte ricorrente incidentale.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 15 novembre 2017, n. 27101, per SS.UU, 18 aprile 2019, n. 10934,in tema di legittimazione processuale del singolo condomino
SS.UU, 18 aprile 2019, n. 10934, in tema di legittimazione processuale del singolo condomino
In tema di divisione della casa coniugale – SS.UU, 09 giugno 2022, n. 18641
Civile Sent. Sez. U Num. 18641 Anno 2022
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: CARRATO ALDO
Data pubblicazione: 09/06/2022
SENTENZA
sul ricorso 22208-2018 proposto da:
ALBANI ALESSANDRA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GAETANO DONIZETTI 7, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE FRISINA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CATERINA MERCURIO;
– ricorrente –
contro
PATRI FURTO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PRISCIANO 42, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO GALLUZZO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SILVIO GALLUZZO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1969/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 27/03/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/04/2022 dal Consigliere ALDO CARRATO;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale ALBERTO CARDINO, il quale chiede che la Corte rigetti il ricorso;
lette le memorie depositate dai difensori di entrambe parti ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
FATTI DI CAUSA
1. Con atto di citazione notificato il 28 ottobre 2008 il sig. Furio Patri conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma, la sig.ra Alessandra Albani, dalla quale era separato legalmente, per sentir disporre lo scioglimento della comunione legale esistente sull’immobile sito in Roma, v. dei Gandolfi n. 4, int. 13 (costituente casa coniugale), con annesso locale cantina posto al piano seminterrato (il tutto distinto nel N.C.E.U. al foglio 387, p.11a 39 sub 13 l’appartamento, nonché sub 502, la cantina).
La convenuta, affidataria della prole, si costituiva in giudizio opponendosi, in via principale, allo scioglimento della comunione immobiliare ai sensi dell’art. 717 c.c. nonché degli artt. 1111 e 1116 c.c., e, in via subordinata, chiedeva che si procedesse alla divisione del compendio immobiliare previo accertamento del suo valore, che tenesse conto dell’assegnazione in suo favore dello stesso a titolo di casa coniugale, come disposta nel giudizio di separazione giudiziale, nonché considerando la coabitazione con lei delle figlie di minore età, che le erano state affidate.
Con sentenza parziale n. 83/2013 l’adito Tribunale rigettava l’opposizione avverso la domanda di divisione formulata – come detto – in via principale dalla convenuta e, con separata ordinanza, rimetteva la causa sul ruolo per la sua prosecuzione in relazione alla sola domanda di scioglimento della comunione.
All’esito della conseguente istruzione probatoria, nel corso della quale veniva espletata c.t.u. estimativa, lo stesso Tribunale, con sentenza n. 10739/2017, così decideva: – disponeva lo scioglimento della comunione legale fra le parti, attribuendo alla convenuta la proprietà esclusiva dell’anzidetto compendio immobiliare, determinando il conguaglio dovuto dalla stessa in favore dell’attore, con garanzia di ipoteca legale sul medesimo ai sensi dell’art. 2817, comma 2, c.c., nell’importo di euro 522.500,00, dal quale andava detratta la somma relativa ad oneri di condominio e di mutuo gravanti in via esclusiva sul Patri fino all’effettivo riscatto, nonché la somma di euro 6.273,00, oltre interessi legali; – respingeva ogni altra domanda, compensando per intero tra le parti le spese giudiziali, ponendo a carico delle stesse, per metà ciascuna, l’importo del compenso liquidato in favore del c.t.u. .
2. Con atto di citazione notificato il 20 luglio 2017, l’Albani proponeva appello avverso la citata sentenza definitiva di primo grado n. 10739/2017 (nel mentre quella parziale, precedentemente emessa, non veniva impugnata), chiedendone, rinnovando se del caso la c.t.u. per stabilire il valore dell’immobile gravato dal provvedimento di assegnazione quale casa coniugale, la sua riforma in relazione alla rideterminazione del conguaglio da versare all’appellato, con vittoria delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
Si costituiva l’appellato Patri, il quale instava per il rigetto del gravame e, contestualmente, formulava appello incidentale al fine di sentir accertato il valore del deprezzamento dell’immobile per effetto dell’assegnazione della casa coniugale all’appellante in misura inferiore a quanto ritenuto dal c.t.u., con il favore delle spese e la condanna dell’Albani ai sensi dell’art. 96 c.p.c. .
La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 1969/2018 (pubblicata il 27 marzo 2018), rigettava l’appello principale e dichiarava assorbito quello incidentale, condannando l’appellante Albani Elisabetta alla rifusione delle spese del grado.
A sostegno dell’adottata decisione, il giudice di appello riconfermava, in primo luogo, l’attendibilità delle valutazioni compiute dal c.t.u. nel giudizio di prime cure circa la stima del valore venale dell’immobile oggetto di controversia, siccome immune da vizi logico-giuridici, senza che potesse considerarsi idoneamente confutata dalle critiche mosse dal consulente di parte dell’Albani (che l’aveva quantificato nella misura di euro 700.400,00).
Di seguito la Corte laziale condivideva l’impugnata sentenza anche con riferimento al punto della mancata considerazione, ai fini dell’ottenimento di una congrua decurtazione del conguaglio stabilito come dovuto in favore del Patri, del diritto di assegnazione come casa coniugale vantato dall’appellante principale sullo stesso quale coniuge legalmente separato dal marito.
A tal proposito il giudice di secondo grado rilevava la correttezza dell’impugnata sentenza del Tribunale di Roma, con la quale era stato osservato che il già adottato provvedimento di assegnazione come casa coniugale dell’immobile oggetto di divisione giudiziale – all’esito della quale l’Albani aveva conseguito l’intera proprietà dell’immobile costituentene oggetto – non potesse sortire alcuna incidenza sulla determinazione del valore effettivo dello stesso immobile, in quanto tale provvedimento avrebbe potuto avere rilevanza solo nel caso di vendita a terzi che sarebbero potuti rimanere pregiudicati dall’opponibilità del medesimo provvedimento trascritto in favore del coniuge assegnatario. Tale effetto, quindi, non si sarebbe potuto verificare nell’ipotesi in cui l’attribuzione dell’intero compendio immobiliare fosse intervenuta – come si era verificato nel caso di specie – in favore del coniuge assegnatario dello stesso quale casa coniugale, poiché egli si sarebbe avvantaggiato, ai danni dell’altro coniuge, del minor valore derivante dallo stato di occupazione, potendo, in futuro, anche vendere l’immobile beneficiando dell’intero prezzo di mercato (risulta riportato, in merito, il principio di diritto espresso da Cass., Sez. II, n. 17843/2016, già preceduta da Cass., Sez. II, n. 27128/2014).
In altri termini, la Corte di appello sottolineava come il provvedimento di assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi separati legittimasse quest’ultimo ad opporlo ai terzi, non avendo lo stesso alcun rilievo sull’aspetto e sull’assetto dei diritti reali spettanti ai coniugi legalmente separati (per intero o pro-quota), con la conseguenza che, in caso di cessazione della comunione legale o comunque in ipotesi di scioglimento della comunione relativamente al bene in comune (anche se oggetto di assegnazione in via esclusiva ad uno dei coniugi separati), si applicano le regoli ordinarie in materia di divisione di diritti reali.
Pertanto, il giudice di secondo grado concludeva – in consonanza con quello di prime cure – per la convinta adesione al principio secondo cui l’assegnazione del godimento della casa familiare, ai sensi degli artt. 155 e art. 155-quater c.c. (previgenti), ovvero in forza della legge sul divorzio n. 898/1970 (con specifico riferimento al suo art. 6, comma 6), non può essere considerata in occasione della divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi al fine di determinare il valore di mercato del bene qualora lo stesso venga attribuito al coniuge titolare del diritto al godimento quale casa coniugale, atteso che il provvedimento di assegnazione per quest’ultimo titolo viene adottato nell’esclusivo interesse dei figli e non del coniuge affidatario; diversamente, si realizzerebbe un’indebita locupletazione a suo favore, potendo egli, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza alcun vincolo e per il prezzo integrale, in relazione, cioè, al suo valore venale determinato dall’andamento del mercato immobiliare.
3. Avverso l’indicata sentenza di appello n.1969/2018 ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico complesso motivo, l’Albani Alessandra, resistito con controricorso dall’intimato Patri Furio.
Il ricorso è stato, inizialmente, assegnato alla Sesta sezione civile-2, il cui collegio designato, decidendo sulla base della proposta del relatore di manifesta infondatezza formulata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., con ordinanza n. 20804/2019, ha ritenuto che non ricorreva l’ipotesi dell’evidenza decisoria in ordine alla questione centrale posta con il ricorso e cioè se in sede di divisione fra ex coniugi della casa familiare, oggetto di assegnazione in favore di uno di essi in sede di separazione, occorra tenere o meno conto dell’incidenza negativa del diritto sul valore del bene anche quando la divisione si concluda con l’attribuzione dell’intero immobile al coniuge beneficiario della sua destinazione a casa familiare. Pertanto, la causa veniva rimessa alla pubblica udienza.
La Seconda Sezione civile, con ordinanza interlocutoria n. 28871/2021 (pubblicata il 19 ottobre 2021), ravvisando un contrasto giurisprudenziale sulla questione come appena indicata, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite.
Il Primo Presidente ha disposto in conformità, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c.
In prossimità della pubblica udienza fissata dinanzi a queste Sezioni unite i difensori di entrambe le parti hanno anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’articolata censura formulata la ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto di cui all’art. 337-sexies c.c., comma 1, e della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6, comma 6, nonché degli artt. 1116,720 e 726 c.c., oltre che dell’art. 3 Cost..
Con essa la ricorrente ha inteso sostenere che l’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi separati, che non sia di sua proprietà esclusiva, instaura un vincolo (opponibile anche ai terzi per nove anni e, in caso di trascrizione, senza limiti di tempo) che oggettivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non sia eventualmente modificato, sicché nel giudizio di divisione (e, quindi, ai fini della determinazione del valore reale dell’immobile che ne forma l’oggetto) se ne deve tener conto indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro dei coniugi legalmente separati oppure venduto a terzi.
Pertanto, ad avviso della difesa dell’Albani, se non si valorizzasse il deprezzamento che l’assegnazione dell’immobile al coniuge affidatario dei figli oggettivamente produce sul suo relativo valore – e, quindi, sul conguaglio da liquidare in sede di attribuzione della proprietà dell’intero cespite ad uno dei coniugi condividenti – si determinerebbe, al contrario di quanto sostenuto dalla Corte di appello nell’impugnata sentenza, un’indebita locupletazione del coniuge non assegnatario, il quale, in violazione del principio secondo cui il giudizio di divisione mira alla formazione di porzioni corrispondenti alle quote dei condividenti al tempo della comunione, si vedrebbe riconosciuto, in cambio della cessione della sua quota, un conguaglio maggiore della somma che gli verrebbe attribuita nel caso di divisione mediante vendita dell’immobile a terzi. Ha osservato, poi, la stessa difesa della ricorrente che, quand’anche si volesse ritenere che il coniuge assegnatario dell’immobile, in caso di attribuzione unitaria del bene in proprio favore, consegua un vantaggio rispetto all’altro coniuge, tale risultato non dovrebbe considerarsi costituente un quid novi derivante dalla divisione, bensì un elemento riflettente un valore aggiuntivo che esisteva nella sua sfera giuridica già in precedenza, consistente nel diritto di godere del bene in misura superiore e più intensa rispetto all’altro coniuge nell’esclusivo e superiore interesse dei figli, per effetto dell’assegnazione.
2. L’enucleazione del quesito relativo alla questione giuridica oggetto di contrasto rimessa alle Sezioni unite.
La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni unite si può compendiare nei seguenti termini: “se – in sede di divisione di un immobile in comproprietà di due coniugi legalmente separati già destinato a residenza familiare e, per tale ragione, assegnato, in sede di separazione, al coniuge affidatario della prole – occorra tenere conto della diminuzione del valore commerciale del cespite conseguente alla presenza sul medesimo del diritto di godimento del coniuge a cui è stata affidata la prole, pure nel caso in cui la divisione si realizzi mediante attribuzione a quest’ultimo della proprietà dell’intero immobile con conguaglio in favore del comproprietario e, quindi, determinandolo non in rapporto al valore venale dello stesso immobile, bensì in misura ridotta che tenga conto dell’incidenza della permanenza di tale vincolo, opponibile anche ai terzi”.
3. L’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione civile.
La Seconda Sezione, con l’ordinanza interlocutoria n. 28871/2021, ha evidenziato che, effettivamente, sulla questione controversa si sono formati due differenti indirizzi interpretativi all’interno della giurisprudenza di questa Corte (che, peraltro, trovano una sostanziale corrispondenza anche nell’ambito dottrinale, il cui quadro pure si presenta diviso in proposito).
Più in particolare, si è posto in evidenza che – alla stregua di un primo orientamento, condiviso dall’impugnata sentenza – l’assegnazione del godimento della casa familiare in sede di separazione personale o divorzio dei coniugi non dovrebbe essere considerata al fine della determinazione del valore di mercato del bene in sede di divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi e ciò anche quando il bene venga attribuito al coniuge titolare del diritto al godimento sullo stesso, atteso che un tale diritto è attribuito nell’esclusivo interesse dei figli e non del coniuge affidatario sicché, decurtandone il valore dalla stima del cespite, si realizzerebbe un’indebita locupletazione a favore del medesimo coniuge affidatario, potendo egli, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza alcun vincolo e per il prezzo integrale (cfr. Cass. Sez. I, n. 11630/2001, Cass., Sez. II, n. 27128/2014, Cass., Sez. II, n. 17843/2016 e, da ultimo, Cass., Sez. II, n. 33069/2018).
In virtù, invece, di una contrapposta posizione, emersa anche diacronicamente nella giurisprudenza della Seconda Sezione civile (cfr. sentenze n. 20319/2004 e n. 8202/2016), è stato sostenuto che l’esistenza del vincolo derivante dall’assegnazione della casa coniugale e la sua opponibilità ai terzi determinerebbe una oggettiva contrazione del valore della proprietà, che si riflette sulla situazione dominicale del coniuge assegnatario e dei suoi aventi causa, fino a che detto provvedimento non sia modificato, con la conseguenza che nel giudizio di divisione si dovrebbe tener conto della portata di detto provvedimento in termini di incidenza sul valore del bene (anche, dunque, ai fini dei conguagli), e ciò indipendentemente dal fatto che il bene sia attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro coniuge ovvero venduto a terzi.
4. Il contesto normativo di riferimento.
Giova premettere che la vigente disciplina in punto di assegnazione della casa familiare, in sede di separazione tra i coniugi, è mutata con la riforma di cui al D.Lgs. n. 154 del 2013, il quale ha riproposto (mediante il suo art. 55, comma 1), con alcune modifiche, il contenuto dell’art. 155-quater c.c., introducendo l’art. 337-sexies c.c., che detta, al comma 1, per la fase di separazione, i principi cardine dell’assegnazione della casa familiare, nel senso che: « Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’art. 2643».
Per la fase divorzile, invece, della L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 11, sancisce che: «L’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età. In ogni caso ai fini dell’assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole. L’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 c.c.».
Come è agevole desumere, l’assegnazione della casa familiare è, di regola, funzionale a tutelare l’interesse prioritario dei figli alla continuità della vita familiare (per garantire il mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale contesto si sono radicate), onde preservarne l’habitat dai possibili esiti negativi conseguenti alla crisi coniugale, giacché la casa rappresenta il luogo degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime la vita familiare e continua a svolgersi la prosecuzione delle relazioni domestiche.
In sostanza, la casa familiare si identifica nel luogo in cui i figli minori o non ancora autosufficienti costruiscono le loro vite affettive attraverso il rapporto con i genitori nello scorrere relazionale della vita quotidiana, o, meglio, nel luogo protetto dove, in particolare, la prole minorenne potrà elaborare l’esperienza traumatica che può scaturire dalla crisi di coppia.
In proposito, la Corte costituzionale con la sentenza n. 454 del 1989, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 155 c.c., comma 4 (oggi riassorbito nell’art. 337-sexies c.c.) nella parte in cui non prevede(va) la trascrizione del provvedimento giudiziale di assegnazione della abitazione nella casa familiare al coniuge affidatario della prole, ai fini dell’opponibilità ai terzi, ebbe a chiarire che il titolo ad abitare il cespite familiare è strumentale alla conservazione della comunità domestica nel solo interesse della prole (in tal senso v., anche, Cass. SU n. 13603/2004 e, tra le più recenti, Cass. Sez. VI- 1, n. 8580/2014 e Cass. Sez. V, n. 25889/2015).
Ne deriva che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare, prioritariamente destinato al coniuge affidatario dei figli o con essi residente, è destinato a creare un vincolo di destinazione sui generis, collegato all’interesse superiore dei figli, si atteggia – secondo l’opinione maggiormente seguita – a diritto personale di godimento del cespite e viene a caducarsi nel caso di allontanamento del coniuge assegnatario, ossia allo scemare delle ragioni di protezione della prole per raggiunta indipendenza dei figli, ovvero, infine, nel caso in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.
Occorre, però, rimarcare che l’art. 337-sexies c.c., pur mantenendo il criterio della priorità dell’interesse dei figli nella valutazione sottesa al provvedimento di assegnazione, non prevede un obbligo di assegnazione della casa coniugale quale criterio automatico di attribuzione al coniuge affidatario della prole minorenne o non autosufficiente, il cui interesse comunque deve essere valutato per primo e salvo che non ricorrano nel caso concreto situazioni tali da favorire l’altro coniuge. In questo modo la casa familiare si afferma come cespite suscettibile di valutazione economica idoneo ad un eventuale riequilibrio delle condizioni reddituali dei coniugi nell’ambito dell’assegno di mantenimento del coniuge e dei figli e solo in questo ambito.
È stato, in proposito, chiarito (cfr., da ultimo, Cass. Sez. I, n. 20858/2021) che, ai fini della determinazione dell’importo dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge richiedente che ne abbia diritto, deve trovare spazio anche la valutazione del godimento della casa familiare, la cui assegnazione, pur essendo finalizzata alla tutela della prole e dell’interesse della stessa a permanere nell’ambiente domestico, costituisce indubbiamente un’utilità suscettibile di apprezzamento economico, sotto il duplice profilo del risparmio assicurato al coniuge convivente con i figli, rispetto alla spesa che dovrebbe (eventualmente) sostenere per procurarsi un alloggio in locazione, e dell’incidenza del relativo uso sulla disponibilità dell’immobile, con la correlata limitazione della facoltà di godimento e di disposizione spettanti al proprietario.
Come già evidenziato, tale principio, affermatosi già in epoca anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che ha innovato la disciplina dell’esercizio della responsabilità genitoriale in caso di separazione, scioglimento o annullamento del matrimonio o nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, ha trovato conferma nell’art. 55 di tale D.Lgs., che ha – come posto in risalto – introdotto l’art. 337-sexies c.c., il quale, nel ribadire il carattere prioritario della valutazione dell’interesse dei figli, ai fini dell’assegnazione del godimento della casa familiare, ha precisato, nel contempo, che di tale godimento il giudice deve tener conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerando l’eventuale titolo di proprietà.
Si è più specificamente puntualizzato, quanto all’assegnazione della casa familiare, che la circostanza che il coniuge assegnatario ne sia comproprietario non esclude la possibilità di tener conto, ai fini della determinazione dell’assegno, dell’incidenza del provvedimento sull’eguale diritto spettante all’altro coniuge, a sua volta comproprietario dell’immobile: infatti, l’esclusività dell’uso del bene da parte del coniuge assegnatario non trova il proprio titolo nella comproprietà del bene, che pur attribuendogli la facoltà di trarre per intero dall’immobile le utilità che lo stesso è in grado di offrire, non gli consentirebbe, ai sensi dell’art. 1102 c.c., di impedire all’altro partecipante di farne parimenti uso secondo il proprio diritto, ma nel provvedimento di assegnazione, che, comportando la sottrazione del bene al godimento dell’altro coniuge, opponibile ai terzi, e limitando conseguentemente anche la facoltà del coniuge non assegnatario di disporre liberamente della propria quota, quantomeno in ragione dell’incidenza dell’uso esclusivo sul valore della stessa, si traduce in un pregiudizio economico, anch’esso valutabile ai fini della liquidazione dell’assegno in favore del coniuge assegnatario della casa coniugale.
Come per tutti i provvedimenti conseguenti alla pronuncia di separazione o di divorzio, anche per l’assegnazione della casa familiare vale il principio generale della modificabilità in ogni tempo per fatti sopravvenuti.
È importante, altresì, sottolineare, da un punto di vista generale, che, in tema di separazione, l’assegnazione della casa coniugale non può costituire una misura assistenziale per il coniuge economicamente più debole, ma postula l’affidamento dei figli minori o la convivenza con i figli maggiorenni non ancora autosufficienti, mentre ogni questione relativa al diritto di proprietà di uno dei coniugi o al diritto di abitazione sull’immobile esula dalla competenza funzionale del giudice della separazione e va proposta con il giudizio di cognizione ordinaria (Cass. Sez. I, n. 18440/2013).
Per quanto direttamente rilevante in questa sede non si può, quindi, prescindere dalla valutazione dei principi generali che caratterizzano la divisione giudiziale nel sistema codicistico, la cui disciplina (che attiene ad un piano distinto) inevitabilmente si interseca – per la risoluzione della questione su cui è insorto il contrasto – con quella, prima sviluppata, relativa agli assetti familiari conseguenti alla separazione o al divorzio tra coniugi con riferimento ai provvedimenti di assegnazione della casa coniugale e di affidamento della prole minorenne o non autosufficiente.
Si osserva, al riguardo, che quando la divisione ha per oggetto un bene immobile sul quale insiste il diritto di assegnazione della casa coniugale, i possibili esiti delle operazioni divisionali sono quelli tipici di una qualsiasi comunione. Se il bene è comodamente divisibile, il giudice è tenuto a formare due porzioni di valore corrispondente alle quote dei condividenti, altrimenti deve procedere secondo le modalità previste dall’art. 720 c.c., con l’attribuzione unitaria (ovvero in favore, in via esclusiva, di uno dei condividenti che lo richieda) o con la vendita agli incanti. Resta fermo che l’attribuzione unitaria e la vendita mediante asta non rappresentano aspetti che esulano dal concetto di divisione, ma ne costituiscono soltanto delle modalità, cioè rimedi per ovviare all’impossibilità di frazionare il bene in tante parti quanti sono i condividenti.
In quanto modalità della divisione, ripartizione in natura, attribuzione unitaria e vendita devono avere un elemento in comune, il quale – pur diversificandosi l’una dall’altra dal punto di vista qualitativo – va ricercato, sotto l’aspetto quantitativo, nella loro idoneità a perpetuare nella sfera dei singoli il valore della quota astratta di comproprietà. L’intera disciplina della divisione e’, dunque, intesa a conservare questa proporzionalità di valori. Ciò pone al centro delle operazioni divisionali la preventiva determinazione del valore venale del bene, ossia il prezzo che si realizzerebbe vendendolo (ai sensi dell’art. 726 c.c.).
Se su di esso insistono vincoli suscettibili di incidere negativamente sul valore venale, il giudice, mediante la preventiva valutazione di un c.t.u., deve di regola tenerne conto, ma ciò non implica che qualsiasi tipo di vincolo determini sempre un’incidenza in peius rispetto al valore di mercato, così come può essere possibile valutare se tale incidenza venga a verificarsi o meno in relazione al modo ed all’esito delle operazioni divisionali, evenienza che – per l’appunto – viene in rilievo qualora l’immobile sia attribuito in proprietà esclusiva al coniuge beneficiario del provvedimento di assegnazione del bene come casa coniugale (in considerazione della rilevanza o meno della sopravvenuta perdita di siffatta destinazione), aspetto che costituisce l’oggetto del contrasto in esame.
5. La natura del diritto di assegnazione della casa coniugale.
Il profilo da ultimo accennato impone di fare qualche osservazione sulla natura giuridica del diritto di assegnazione della casa coniugale.
La tesi che, come anticipato, risulta essere quella più accreditata – e che queste Sezioni unite condividono – lo ricostruisce come diritto di godimento sui generis, ossia originato dal provvedimento di assegnazione e non definibile come diritto reale o semplice vincolo di destinazione (v. Cass., Sez. I, n. 772/2018, che lo considera estraneo alla categoria degli obblighi di mantenimento e collegato all’interesse superiore dei figli a conservare il proprio habitat domestico).
Per quanto riguarda il regime della trascrizione, come è noto, già dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, l’assegnazione della casa nel giudizio di separazione personale era prevista dall’art. 155-quater c.c., comma 4, con riferimento al coniuge a cui i figli venivano affidati, e regolata in funzione all’interesse morale e materiale degli stessi. E’ stata, poi, la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 454 del 1989, a dichiararne l’illegittimità costituzionale nella parte in cui, al citato comma, non si prevedeva la trascrizione del provvedimento giudiziale di assegnazione dell’abitazione nella casa familiare al coniuge affidatario della prole, ai fini dell’opponibilità ai terzi.
In effetti, della L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, opportunamente emendato con la L. n. 74 del 1987, aveva già previsto che l’assegnazione, in quanto trascritta, fosse opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 c.c..
In tal modo, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, deve considerarsi opponibile, anche se non trascritto, al terzo acquirente in data successiva, per nove anni dalla data dell’assegnazione, ovvero, previa trascrizione in data antecedente al titolo, anche oltre i nove anni (Cass. SU n. 11096/2002). La mancata trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa familiare esclude, quindi, l’opponibilità del vincolo, oltre il periodo di nove anni dall’assegnazione, al terzo che abbia successivamente acquistato l’immobile dal coniuge che ne era proprietario, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che il titolo di acquisto del terzo contenga l’indicazione specifica dell’esistenza del diritto del coniuge assegnatario.
Il quadro normativo, secondo lo statuto temporale allora vigente, è stato poi integrato da quello sull’affido condiviso di cui al D.Lgs. n. 54 del 2006.
Il citato art. 155-quater c.c., prima di essere quasi del tutto riprodotto nel contenuto dell’art. 337-sexies c.c., in esito al citato D.Lgs. n. 154 del 2013, prevedeva già che il provvedimento di assegnazione e quello di revoca fossero trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’art. 2643 c.c.. Tale previsione è stata, poi, da ultimo traslata proprio nel comma 1 del citato art. 337-sexies c.c. (inserito – come detto – del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 55, comma 1, a decorrere dal 7 febbraio 2014), attualmente vigente.
Può dirsi, perciò, superata – in consonanza con la dottrina e la giurisprudenza assolutamente maggioritarie – la diatriba sul carattere assoluto, reale o personale di tale diritto sulla casa coniugale. Infatti, tenendo conto che l’assegnazione della casa familiare costituisce, di norma, la manifestazione di un interesse alla tutela e alla protezione dei figli minori o non autosufficienti a non essere sradicati dall’abituale habitat domestico, la giurisprudenza di questa Corte ritiene preferibile, nella ricostruzione giuridica del vincolo di destinazione conseguente all’assegnazione della casa familiare, l’enucleazione di una posizione riconducibile a quella di una detenzione qualificata giustificata, di regola, dalle priorità familiari di conservazione delle abitudini domestiche in favore della prole, ossia a quella di un diritto di godimento personale atipico.
Per vero, la questione non si atteggia come fine a se stessa perché influenza quella della trascrivibilità del provvedimento e dell’opponibilità ai terzi acquirenti, ossia quella della stabilità del provvedimento rispetto alle pretese dei terzi.
Come è risaputo, la giurisprudenza, in passato, traeva il fondamento della trascrivibilità del provvedimento di assegnazione della casa coniugale nel parallelismo con la locazione ex art. 1599 c.c., e, pertanto, esso risultava opponibile al terzo acquirente anche se non trascritto, per nove anni decorrenti dalla data dell’assegnazione stessa, ovvero anche dopo i nove anni ove il titolo fosse stato in precedenza trascritto di modo che ogni conflitto traesse il suo criterio di risoluzione dall’art. 1599 c.c..
Con la riforma di cui alla novella n. 54 del 2006, l’assegnazione della casa coniugale, in caso di separazione, ha creato – come ritenuto preferibile – in capo all’assegnatario un atipico diritto personale di godimento, trascrivibile e opponibile a terzi ai sensi dell’art. 2643 c.c., rimanendo così reciso ogni richiamo all’art. 1599 c.c., mentre l’assegnazione regolarmente trascritta trova il suo complemento nel principio di priorità di cui all’art. 2644 c.c..
Ne deriva che, secondo detto principio, il provvedimento di assegnazione che sia stato trascritto posteriormente all’iscrizione di ipoteca da parte del terzo acquirente non sarà a lui opponibile e, specularmente, lo sarà quello trascritto prima del titolo su cui si fonda la garanzia reale, secondo il principio prior in tempore, potior in iure, il tutto nel solco della possibile revoca dell’assegnazione, anch’essa trascrivibile a mente dello stesso art. 337-sexies c.c. (cfr. Cass., Sez. III, n. 9990/2019).
Come appena precisato, il diritto di godimento della casa familiare in capo al genitore affidatario è destinato a venire meno qualora egli cessi di abitare stabilmente nel cespite, ovvero conviva o contragga nuovo matrimonio, oltre, naturalmente, nei casi di raggiungimento dell’autonomia da parte dei figli affidati (Cass., Sez. VI-1, n. 3015/2018).
Nelle ipotesi elencate dell’estinzione del diritto di godimento in capo al coniuge assegnatario è escluso che possa essere annoverata anche la morte di costui (Cass. n. 772/2018, cit.), stante il fondamento della norma che è funzionale esclusivamente alla protezione dei figli, dei loro affetti, interessi e consuetudini di vita, indispensabili ad una formazione armonica della loro personalità.
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la possibile revoca dell’assegnazione nei casi previsti dall’art. 337-sexies c.c., sopra citato, ovvero per la raggiunta autonomia dei figli conviventi con l’assegnatario, non è azionabile dal terzo acquirente, il quale avrà a sua disposizione un’azione di accertamento preordinata alla liberazione del cespite (Cass., Sez. I, n. 15367/2015), cui potrebbe conseguire il pagamento dell’indennità per illegittima occupazione previa declaratoria di inefficacia del titolo, con decorrenza dalla data di deposito della sentenza di accertamento.
A queste conclusioni è necessario pervenire perché ogni evento che incida sul regime di separazione, divorzio ed affidamento della prole non determina i suoi effetti in via automatica, ma impone l’intervento giudiziale di modificazione e revisione, con conseguente rivalutazione delle esigenze sottese al provvedimento originario.
6. Il quadro complessivo della portata del contrasto.
Chiariti preliminarmente gli aspetti della natura e della funzione del provvedimento di assegnazione, possono essere così riassunti, alla stregua dell’ordinanza interlocutoria in esame, i due orientamenti della giurisprudenza di questa Corte formatisi sulla questione oggetto di contrasto:
a) secondo un primo orientamento, seguito dall’impugnata sentenza della Corte di appello, il provvedimento di assegnazione della casa familiare non verrebbe ad incidere sul valore di mercato del cespite allorché l’immobile, in sede di divisione, venga attribuito in proprietà al coniuge affidatario della prole, atteso che la finalità perseguita con l’attribuzione di questo diritto atipico di godimento è esclusivamente la tutela dei figli minori o, comunque, non autosufficienti, rispetto alla conservazione del loro habitat familiare.
Da quanto premesso non consegue, secondo questo orientamento, una locupletazione a favore del coniuge destinatario del conguaglio, a cui, invece, si richiama il ricorso de quo, atteso che l’assegnazione della casa familiare è strumentale, in via esclusiva, a preservare i figli dall’esito prevedibile della crisi coniugale costituito dai traumi da cambiamento di abitudini e radicamento ambientale che li interessano.
Di contro, come osservato nell’impugnata sentenza, nel caso in cui l’intero immobile, all’esito della divisione, venisse attribuito per l’intero allo stesso coniuge affidatario, il diritto di godimento di quel cespite non potrebbe che venire meno per confusione, cosicché nessun deprezzamento verrebbe sofferto dall’assegnatario divenuto proprietario esclusivo in conseguenza dello scioglimento della comunione sull’immobile destinato a casa familiare.
b) Secondo l’opposto orientamento, l’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l’immobile non appartenga in via esclusiva, instaura un vincolo oggettivo determinante una decurtazione del valore della proprietà, sia totalitaria che parziaria, di cui è titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane condizionato come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento di assegnazione non sia eventualmente modificato. Pertanto, nel giudizio di divisione occorrerebbe tener conto dell’incidenza dell’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro, ovvero venduto a terzi considerato che anche l’assegnatario subisce la diminuzione patrimoniale del valore del cespite. In tal modo, secondo il ragionamento di questa parte della giurisprudenza, il coniuge assegnatario si troverebbe dal punto di vista patrimoniale nella medesima situazione del coniuge non assegnatario o del terzo, finché il provvedimento di assegnazione non viene modificato e/o revocato.
7. Gli argomenti addotti a sostegno dei due contrapposti orientamenti.
7.1 – Nel senso sub a) del precedente paragrafo si è espressa Sez. I n. 11630 del 2001, la quale ha escluso che del provvedimento di assegnazione si debba tenere conto ai fini della valutazione dell’immobile in comproprietà considerato che esso è fonte di un diritto personale di godimento e non reale il quale e’, comunque, attribuito al coniuge affidatario nel solo interesse dei figli, ma che è destinato a venir meno allorché, sciolta la comunione legale, sia nel giudizio di separazione che in quello divorzile, il coniuge, cui la casa familiare sia stata assegnata, ne chieda l’assegnazione in proprietà, acquisendo, così, anche la quota dell’altro. In tal caso, l’originario diritto di godimento si consuma per effetto dell’acquisizione della proprietà esclusiva del cespite e non se ne deve tenere conto nella valutazione del cespite stesso, il che equivale a dire che il diritto in discorso non ha contenuto patrimoniale.
In senso conforme a questo orientamento si è espressa anche Sez. II n. 27128 del 2014, con cui è stato precisato come, ove si operasse la decurtazione del valore in considerazione del diritto di godimento della casa coniugale, il coniuge non assegnatario verrebbe ingiustificatamente penalizzato con la corresponsione di una somma che non sarebbe rispondente alla metà dell’effettivo valore venale del bene (per il caso di comproprietà al 50%): il che è comprovato dalla considerazione che, qualora intendesse rivenderlo a terzi, l’assegnatario in proprietà esclusiva potrebbe ricavarne l’intero prezzo di mercato, pari al valore venale del bene, senza alcuna diminuzione.
Negli stessi termini si è schierata anche Sez. II n. 17843 del 2016, che pure ha escluso l’incidenza dell’assegnazione sulla valutazione dell’immobile familiare in occasione della divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi, al fine di determinare il valore di mercato del bene qualora l’immobile venga attribuito al coniuge titolare del diritto al godimento stesso, atteso che tale diritto è attribuito nell’esclusivo interesse dei figli e non del coniuge affidatario; pertanto, diversamente, si realizzerebbe un’indebita locupletazione a suo favore, potendo egli, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza alcun vincolo e per il prezzo integrale.
Conformemente a detto principio si è pronunciata, da ultimo, anche Sez. II n. 33069 del 2018, con la quale è stato affermato che, nello stimare i beni per la formazione delle quote ai fini della divisione, non può non considerarsi, invero, che, in ipotesi di assegnazione in proprietà esclusiva della casa familiare, di cui i coniugi erano comproprietari, al coniuge affidatario dei figli, si riunisce nella stessa persona il diritto di abitare nella casa familiare – che perciò si estingue automaticamente – e il diritto dominicale sull’intero immobile, che rimane privo di vincoli, con la conseguenza che, in sede di valutazione economica del bene “casa familiare” nel giudizio di scioglimento della comunione, il diritto di abitazione conseguente al provvedimento di assegnazione non deve, pertanto, influire in alcun modo sulla determinazione del conguaglio dovuto all’altro coniuge.
7.2 – Nel senso sub b) del precedente paragrafo si è pronunciata Sez. II, n. 20319 del 2004, a tenore della quale il provvedimento di assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l’immobile non appartenga in via esclusiva, crea un vincolo idoneo a deprezzare il valore del diritto dominicale di cui è titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non venga eventualmente modificato ma che incide sul valore del cespite sia che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro coniuge, sia che venga venduto a terzi in caso di sua infrazionabilità in natura.
Nello stesso senso si è espressa Sez. II, n. 9310 del 2009, con la quale si è sostenuto che l’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi in sede di separazione o divorzio è atto che, quando sia opponibile ai terzi, incide sul valore di mercato dell’immobile, con la conseguenza che, ove si proceda alla divisione giudiziale del medesimo, di proprietà di entrambi i coniugi, si dovrà tener conto, ai fini della determinazione del prezzo di vendita, dell’esistenza di tale provvedimento di assegnazione, che pregiudica il godimento e l’utilità economica del bene rispetto al terzo acquirente.
In senso conforme si è schierata Sez. II, n. 8202 del 2016, secondo la quale il vincolo sulla casa familiare conseguente al provvedimento di assegnazione determinerebbe una decurtazione del valore della proprietà, sia totalitaria che parziale, di cui tenere conto in sede di divisione indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro coniuge ovvero venduto a terzi con la conseguenza che il diritto di abitazione in esito al giudizio di separazione determina una riduzione del valore del bene, analogamente a ciò che si verifica nel caso analogo di diritto vantato da terzi sull’immobile.
E’ importante rimarcare che nessuna delle pronunce relative all’indirizzo giurisprudenziale sub b), appena riportate, affronta specificamente in motivazione il profilo dell’estinzione per confusione (o per fisiologico assorbimento) del diritto personale di godimento da parte del coniuge cui venga attribuito per intero il cespite in sede di divisione, né quello del parametro valutativo temporale in previsione dell’autonomia dei figli, diversamente dagli arresti difformi citati sub a).
8. Orientamenti della dottrina sull’incidenza o meno del provvedimento di assegnazione nel giudizio di scioglimento della comunione immobiliare.
Anche la dottrina si è mostrata divisa nell’affrontare il tema dei rapporti tra provvedimento di assegnazione e valutazione del cespite costituente la casa familiare di cui l’assegnatario chieda, ed ottenga, l’attribuzione per intero in sede di divisione.
Si è da parte dei prevalenti orientamenti teorici sostenuto – sul presupposto che il diritto di godimento sul cespite che l’assegnatario vanta in funzione della tutela della prole viene meno in quanto riassorbito in quello dominicale pieno e che la questione del valore economico del cespite in sede di liquidazione della quota spettante al comproprietario non assegnatario si compone nei rapporti tra i due coniugi e l’immobile – che, in tal caso, l’immobile va considerato come libero. Nell’ipotesi, invece, di vendita all’incanto del cespite, ai sensi dell’art. 720 c.c., nell’ipotesi in cui il bene non sia divisibile e nessuno dei coniugi ne chieda l’attribuzione, il terzo acquista dai coniugi in comunione, tutelati dalla trascrizione del provvedimento di assegnazione, un bene gravato da vincoli che egli è tenuto a rispettare secondo il regime di opponibilità. Da questo punto di vista il prezzo non potrà non tenere conto del pregiudizio della persistente destinazione dell’immobile a casa coniugale, che avrà, perciò, un valore economico quantificabile al ribasso rispetto a quello di mercato. In sintesi, l’eventuale assegnazione al coniuge del cespite in comproprietà incide sul valore venale dell’immobile solo allorché il bene sia venduto ad un terzo o attribuito al coniuge non assegnatario. Nel caso opposto di coincidenza tra attribuzione in sede di divisione e assegnazione il diritto dominicale riassorbe in sé quello atipico di godimento.
Nel senso della non incidenza dell’assegnazione sulla valutazione del cespite si è, in particolare, sottolineato che mentre non è dubitabile che l’assegnazione possa influire sulla valutazione venale dell’immobile rispetto al coniuge non assegnatario, il quale vede compromesso il pieno esercizio delle facoltà dominicali come per il terzo che possa vantare sul cespite un diritto godimento, la situazione giuridica del coniuge assegnatario è ben diversa giacché costui non è il destinatario del vincolo, ma colui che ne beneficia e pertanto, allorché il bene gli sia attribuito per intero in sede divisionale, nulla impedisce che egli possa disporre del bene a valore pieno.
Secondo un diverso indirizzo dogmatico il godimento abitativo accordato dall’assegnazione non sfumerebbe a seguito del conseguimento nel corso del giudizio di divisione dell’intera titolarità del bene assegnato, conservando, per contro, i suoi effetti fino a quando l’unità immobiliare resta asservita alla tutela dei figli e dell’habitat domestico. Detto orientamento afferma, altresì, che l’esistenza (fino a quando non sia revocato) del provvedimento di assegnazione dell’immobile quale casa coniugale, trascritto, si impone all’acquirente (avente causa del coniuge cui è stata assegnata in sede divisionale la proprietà dell’unità immobiliare familiare), di modo che il corrispettivo non potrebbe non risentire di questa limitazione. Per di più, anche se l’assegnatario riuscisse a spuntare un prezzo migliore nella previsione – non deducibile in una formale condizione e slegata da ogni automatismo – di far venir meno il proprio godimento per reintegrare così nella sua pienezza il diritto di proprietà dell’acquirente (ad esempio, cessando di abitare stabilmente nella casa familiare, iniziando una convivenza more uxorio ovvero contraendo un nuovo vincolo matrimoniale), tale eccedenza non costituirebbe una mera plusvalenza, poiché andrebbe a dare copertura economica ai rischi cui espone la decisione potestativa di estinguere il diritto (di godimento) di abitazione, derivanti dalla ridefinizione dei rapporti economici e dei provvedimenti attinenti i figli.
Altro indirizzo scientifico, argomentando dal nuovo testo dell’art. 568 c.p.c., comma 2, che fissa i criteri di determinazione del valore del bene immobile in sede di esecuzione forzata, ove vanno considerati lo stato di possesso nonché i vincoli ed oneri giuridici non eliminabili nel corso del procedimento esecutivo, sostiene che l’assegnazione incide, comunque, sul valore economico del cespite. Un ulteriore elemento di conforto di quest’ultima conclusione è stato rinvenuto nel disposto dell’art. 540 c.c., comma 2, che riconosce al coniuge superstite il diritto di abitazione sulla casa familiare facendo residuare, in capo agli altri eventuali coeredi, la comunione avente ad oggetto la sola nuda proprietà del bene. A tal proposito si osserva, convenendosi sul fatto che il valore capitale di tale situazione giuridica soggettiva vada stralciata dall’asse ereditario prima di procedere alla divisione ereditaria, che non si comprenderebbe perché analogo rilievo economico non debba valere anche per il godimento riconosciuto con il provvedimento di assegnazione della casa coniugale, al di là della non decisiva differenza legata alla sua natura personale.
9. La risoluzione del contrasto e gli argomenti posti a suo fondamento.
Ad avviso di queste Sezioni unite deve essere condiviso l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, nel caso in cui lo scioglimento della comunione immobiliare si attui mediante attribuzione dell’intero al coniuge affidatario della prole, il valore dell’immobile oggetto di divisione non può risentire del diritto di godimento già assegnato allo stesso a titolo di casa coniugale, poiché esso viene ad essere assorbito o a confondersi con la proprietà attribuitagli per intero, con la conseguenza che, ai fini della determinazione del conguaglio in favore dell’altro coniuge, bisognerà porre riferimento, in proporzione alla quota di cui era comproprietario, al valore venale dell’immobile attribuito in proprietà esclusiva all’altro coniuge, risultando, a tal fine, irrilevante la circostanza che nell’immobile stesso continuino a vivere i figli minori o non ancora autosufficienti rimasti affidati allo stesso coniuge divenutone proprietario esclusivo, in quanto il relativo aspetto continua a rientrare nell’ambito dei complessivi e reciproci obblighi di mantenimento della prole da regolamentare nella sede propria, con la eventuale modificazione in proposito dell’assegno di mantenimento.
In primo luogo, deve ritenersi incontestabile la sussistenza di una completa autonomia tra l’istituto dell’assegnazione della casa coniugale e quello della divisione dell’immobile adibito a tale destinazione conseguente allo scioglimento della comunione.
Infatti, è indubbio che il citato provvedimento di assegnazione trova fondamento in presupposti del tutto autonomi dal titolo dominicale che lega i coniugi all’immobile adibito a casa familiare e che, in virtù della sua riconosciuta opponibilità per effetto della trascrizione (già prevista dall’art. 155-quater c.c. e ora dal vigente art. 337-sexies c.c., comma 1), il relativo vincolo continua ad insistere sul bene anche qualora quest’ultimo venga alienato a terzi.
E’, altresì, pacifico che non si intravedono ragioni che possano giustificare il mancato accoglimento della domanda di divisione che abbia ad oggetto anche la casa coniugale gravata da un provvedimento di assegnazione.
In base, quindi, alla disciplina generale in tema di scioglimento della comunione immobiliare, ove trattasi di immobile non divisibile (art. 720 c.c.) e si proceda all’attribuzione dell’intero bene a uno dei comproprietari, scatta quale applicazione della relativa regola generale – il conseguente obbligo di corresponsione a favore dell’altro della quota di conguaglio.
In tal caso, ovvero qualora il bene venga attribuito in proprietà esclusiva al coniuge che già ne godeva come casa coniugale, verrà a prodursi l’effetto della concentrazione in capo allo stesso coniuge di tale diritto di godimento e del diritto dominicale sull’intero immobile, che permane privo di vincoli, con la conseguenza che il primo, già derivante dal provvedimento di assegnazione giudiziale, risulterà assorbito dall’acquisito diritto in proprietà esclusiva dell’immobile stesso, il quale, perciò, ne determinerà l’estinzione (secondo parte della dottrina si tratterebbe di una forma assimilabile a quella di un’estinzione per confusione).
In ragione di ciò, in sede di valutazione economica del bene “casa familiare” ai fini della divisione, il diritto di godimento di esso conseguente al procedimento di assegnazione non potrà avere alcuna incidenza sulla determinazione del conguaglio dovuto all’altro coniuge, in quanto lo stesso – come già rimarcato si atteggia come un atipico diritto personale di godimento (e non un diritto reale) che viene a caducarsi con l’assegnazione della casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge affidatario dei figli, divenendo, in tal caso, la sua persistenza priva di una base logico-giuridica giustificativa, anche in virtù dell’applicazione del principio generale secondo cui nemini res sua servit.
A tal proposito si è precisato che il citato diritto non costituisce un diritto patrimoniale, bensì esclusivamente un diritto familiare a carattere non patrimoniale, che, perciò, incontra il suo naturale limite nella cessazione della sua efficacia nel momento della divisione del bene “casa familiare”, per effetto della quale nella quota di proprietà del coniuge attributario – già titolare di tale diritto – confluisce e si annulla lo stesso diritto di godimento esclusivo.
A ciò deve aggiungersi – come rilevato dal pregresso orientamento giurisprudenziale che si condivide (v. le citate Cass. n. 27128/2014, n. 17843/2016 e n. 33069/2018) – che, ove si operasse la decurtazione del valore in considerazione del già riconosciuto diritto di godimento della “casa familiare”, il coniuge non assegnatario verrebbe ingiustamente penalizzato con la corresponsione di una somma che non sarebbe rispondente alla metà (nell’ipotesi di antecedente comproprietà al 50%) dell’effettivo valore venale del bene. Ciò trova conforto anche nella considerazione che, qualora intendesse rivenderlo a terzi, l’assegnatario della proprietà esclusiva (che decidesse di trasferire altrove la residenza comune con i figli, così rendendo l’immobile libero) potrebbe ricavare l’intero prezzo del mercato, pari al valore venale del bene, senza alcuna diminuzione.
Va, quindi, affermato che l’attribuzione dell’immobile adibito a casa familiare in proprietà esclusiva dell’assegnatario in sede di divisione configura una causa automatica di estinzione (così si esprime testualmente la menzionata Cass. n. 33068/2018) del diritto di godimento con tale destinazione, che comporta il conferimento allo stesso immobile di un valore economico pieno corrispondente a quello venale di mercato.
Pertanto, così come avviene per le altre ipotesi in cui l’estinzione del diritto di abitazione dipende da un fatto giuridico (ad es. la morte del destinatario del provvedimento di assegnazione), anche in tale ipotesi la segnalazione pubblicitaria destinata a certificare l’avvenuta estinzione del vincolo ben potrà essere eseguita sulla scorta di un atto ricognitivo del già titolare del diritto di godimento, divenuto poi esclusivo proprietario dell’immobile (non ritenendosi necessaria in proposito una pronuncia giudiziale, la quale, in ogni caso, non potrebbe che sostanziarsi in una sentenza di accertamento del venir meno degli effetti della trascrizione conseguente alla cessazione del vincolo).
In definitiva, l’immobile attribuito in proprietà esclusiva al coniuge già assegnatario quale casa coniugale non può considerarsi decurtato di alcuna utilità, posto che la qualità di titolare del diritto dominicale e quella di titolare del diritto di godimento vengono a coincidere. Non si configura, in altri termini, alcun diritto altrui che limiti le facoltà di godimento del coniuge attributario dell’intero – e già assegnatario in quanto affidatario della prole – e sia, perciò, idoneo a comportare la diminuzione del valore di mercato del bene.
Appurata in tale ipotesi l’insussistenza di un’incidenza sul valore venale del bene, non si può escludere – pur rimanendo tale aspetto attinente al solo profilo strettamente familiare – che il coniuge, divenuto titolare della proprietà esclusiva sull’intero bene all’esito delle operazioni divisionali, possa eventualmente chiedere l’adeguamento del contributo di mantenimento dei figli all’altro coniuge-genitore, in quanto nella determinazione del relativo assegno, pur venendo meno la componente inerente l’assegnazione della casa familiare, il genitore, non residente con i figli o non affidatario, rimane obbligato a soddisfare pro quota il diritto dei figli (minori o ancora non autosufficienti) a poter usufruire di un’adeguata abitazione (v. Cass., Sez. I, n. 16739/2020).
Infatti, tale obbligo di mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti da parte del genitore non residente con essi deve continuare a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese anche al nuovo assetto abitativo (oltre a quelli, persistenti, di carattere scolastico, sportivo, sanitario e sociale), alla perdurante assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione, secondo uno standard di soddisfacimento correlato a quello economico e sociale della famiglia di modo che si possa conservare, il più possibile, il tenore di vita corrispondente a quello goduto in precedenza.
Peraltro, non può nemmeno escludersi che, a seguito dell’estinzione del vincolo di destinazione a casa familiare (derivante dagli effetti della divisione), si possa convenire tra i coniugi separati (o divorziati), in sede di revisione dei provvedimenti afferenti agli assetti familiari, un affidamento dei figli al coniuge non attributario, all’esito della divisione, dell’immobile già avente detta destinazione, con una correlata nuova regolamentazione della contribuzione per i figli (fino al raggiungimento della loro autosufficienza), in ipotesi anche con esonero dall’assolvimento di tale obbligo per effetto dell’accordo tra gli stessi (ex) coniugi.
Pertanto, riconoscere al coniuge attributario dell’immobile per intero una decurtazione del conguaglio dovuto all’altro coniuge già comproprietario, in virtù del diritto di godimento già riconosciutogli con l’assegnazione, costituirebbe un suo ingiustificato arricchimento, in quanto egli si troverebbe come più volte posto in risalto – ad essere titolare di un bene non gravato da alcun diritto altrui, in virtù della produzione del suddetto effetto estintivo.
Di contro, nell’ipotesi in cui la comunione immobiliare venga sciolta a seguito della divisione giudiziale con l’attribuzione dell’immobile in proprietà esclusiva a favore del coniuge non assegnatario dello stesso quale casa coniugale (e non affidatario della prole), quest’ultimo si troverà in una situazione comparabile a quella del terzo acquirente dell’intero (a seguito di aggiudicazione in esito al procedimento divisionale, con le relative valutazioni del caso ad opera dell’ausiliario tecnico del giudice), ovvero diventerà titolare di un diritto di proprietà il cui valore dovrà essere decurtato dalla limitazione delle facoltà di godimento da correlare all’assegnazione dell’immobile al coniuge affidatario della prole, permanendo il relativo vincolo sullo stesso con i relativi effetti pregiudizievoli derivanti anche dalla sua trascrizione ed opponibilità ai terzi ai sensi dell’art. 2643 c.c..
Da quanto appena posto in risalto deriva, quindi, una soluzione differenziata del valore dell’immobile, a seconda che il medesimo sia assegnato in proprietà esclusiva al coniuge che (per essere residente con i figli o affidatario degli stessi) aveva su di esso il diritto di cui al citato art. 337-sexies c.c., comma 1 (già art. 115-quater c.c.) ovvero, in alternativa, sia trasferito in proprietà per l’intero all’altro coniuge, o venduto ad un terzo, posto che, in questi due ultimi casi, il diritto di godimento in capo all’altro coniuge continua a sussistere.
10. Conclusione.
In definitiva, alla stregua di tutte le argomentazioni complessivamente compiute e risultando il decisum al quale è pervenuta la Corte di appello di Roma nell’impugnata sentenza conforme alla soluzione scelta da queste Sezioni unite per dirimere il contrasto sulla questione, il ricorso dell’ Albani deve essere respinto.
In dipendenza, per l’appunto, del contrasto esistente nella giurisprudenza di questa Corte sulla questione trattata e della complessità dei relativi aspetti giuridici dalla stessa involti, sussistono giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese del presente giudizio.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del presente giudizio.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 12 aprile 2022.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 19 ottobre 2021, n. 28871, per SS.UU, 09 maggio 2022, n. 18641, in tema di divisione della casa coniugale
SS.UU, 09 giugno 2022, n. 18641, in tema di divisione della casa coniugale