In tema di avvocato stabilito – SS.UU, 28 febbraio 2024, n. 5306
Civile Ord. Sez. U Num. 5306 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 28/02/2024
R.G. 9109/2023
Cron.
Rep.
C.C. 16/1/2024
albo avvocati
O R D I N A N Z A
sul ricorso iscritto al NRG 9109-2023 promosso da:
Avv. MURATORI Franco, rappresentato e difeso da se medesimo e, unitamente e disgiuntamente, dall’Avvocato Mauro Vaglio;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI ROMA;
– intimato –
e nei confronti di
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimato –
avverso la decisione n. 41-2023 emessa in data 25 marzo 2023 dal Consiglio nazionale forense.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16 gennaio 2024 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Francesco Salzano, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. – L’avv. Franco Muratori è un cittadino italiano, iscritto all’albo ordinario degli avvocati di Roma dal 29 marzo 2012.
In data 10 maggio 2022 l’avv. Muratori ha chiesto di essere iscritto all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, ai sensi dell’art. 22, comma 3, della nuova legge professionale forense n. 247 del 2012, il quale, in via transitoria, consente l’iscrizione a coloro che abbiano maturato i requisiti secondo la normativa previgente (esercizio della professione per almeno dodici anni davanti a corti d’appello e tribunali, ex art. 33 del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, convertito in legge n. 36 del 1934) entro un certo numero di anni (inizialmente tre, poi divenuti undici) dalla data di entrata in vigore della nuova legge professionale.
L’istanza è stata rigettata dal Comitato per la tenuta dell’albo speciale costituito presso il Consiglio nazionale forense, sul rilievo che l’interessato aveva maturato un periodo di iscrizione all’albo ordinario degli avvocati inferiore a quello, di dodici anni, prescritto dalla normativa previgente, richiamata dal citato art. 22, comma 3.
Avverso la delibera del Comitato l’avv. Muratori ha proposto ricorso al Consiglio nazionale forense.
Il CNF, con decisione del 25 marzo 2023, ha respinto il ricorso.
Il CNF ha premesso che l’avv. Muratori, quale avvocato stabilito ai sensi del d.lgs. n. 96 del 2001, venne iscritto inizialmente, in data 18 marzo 2010, nella sezione speciale dell’albo, e passò all’albo ordinario soltanto in data 29 marzo 2012, sicché, rispetto a quest’ultima data, non erano maturati i dodici anni necessari per l’iscrizione nell’albo speciale degli avvocati ammessi al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori.
Il CNF ha quindi richiamato l’orientamento, già applicato dallo stesso Consiglio, secondo cui l’iscrizione nell’albo ordinario, a seguito di intervenuta integrazione, di un avvocato precedentemente iscritto nella sezione speciale per gli avvocati stabiliti, di cui al d.lgs. n. 96 del 2001, non può comportare il cumulo della relativa anzianità di iscrizione; e ciò in quanto l’iscrizione alla sezione speciale consente una forma peculiare e limitata di esercizio della professione forense, caratterizzata dalla spendita del solo titolo straniero e dalla necessità di intesa con un avvocato iscritto all’albo ordinario, attività, questa, funzionale all’espletamento del procedimento di stabilimento-integrazione ai sensi dello stesso decreto legislativo, il che esclude l’esistenza di qualsivoglia disparità di trattamento costituzionalmente rilevante.
Su questa base, il CNF ha escluso che l’avv. Muratori possa computare, nei dodici anni richiesti dall’art. 22, comma 3, della legge n. 247 del 2012, anche gli anni in cui lo stesso aveva svolto l’attività professionale come avvocato stabilito.
L’anzianità di iscrizione nella sezione speciale, secondo il CNF, non è cumulabile con l’anzianità di iscrizione nell’albo ordinario a seguito di integrazione, giacché le due iscrizioni corrispondono a diverse forme di esercizio della professione, che presuppongono titoli diversi (il titolo straniero per lo stabilito, il titolo di avvocato per l’iscritto nell’albo ordinario), senza che ne derivi violazione della direttiva 98/5/CE del Parlamento Europeo.
2. – Per la cassazione della decisione del CNF l’avv. Muratori ha proposto ricorso, con atto notificato il 24 aprile 2023, sulla base di un unico motivo.
L’intimato Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma non ha svolto attività difensiva in questa sede.
3. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
In prossimità dell’adunanza camerale il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte per il rigetto del ricorso. Secondo l’Ufficio del Procuratore Generale, non è configurabile la violazione della direttiva europea 98/5/CE, in considerazione della ratio del divieto del cumulo delle anzianità, corrispondendo le due iscrizioni, nella sezione speciale e nell’albo ordinario, a due diverse forme di esercizio della giurisdizione.
La difesa del ricorrente, a sua volta, ha presentato una memoria illustrativa, nella quale si sostiene che, qualora le Sezioni Unite serbassero dubbi riguardo alle istanze sollevate nel ricorso, poiché l’esercizio professionale in Italia con la qualifica estera atterrebbe prevalentemente al diritto italiano (e sarebbe dunque idoneo a consentire di maturare periodi di esperienza in tale giurisdizione), sarebbe indispensabile investire della questione la Corte di giustizia dell’Unione Europea.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Con l’unico motivo, l’avv. Muratori prospetta la violazione degli 3, 6 e 9 della direttiva 98/5/CE del Parlamento Europeo in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., nonché l’omesso esame di un punto decisivo della controversia e l’omessa o apparente motivazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
Il ricorrente si duole dell’omessa considerazione, da parte del CNF, delle doglianze sollevate in ordine alla eccepita illegittimità della delibera adottata dal Comitato per la tenuta dell’albo speciale per violazione della direttiva 98/5/CE del Parlamento Europeo volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui era stata acquisita la qualifica.
Sostiene il ricorrente – richiamando, in particolare, la sentenza della Corte di giustizia 17 luglio 2014 (nelle cause riunite C-58/13 e C-59/13, Angelo Alberto Torresi e Pierfrancesco Torresi contro Consiglio dell’ordine degli avvocati di Macerata) – che la direttiva istituisce un meccanismo di mutuo riconoscimento dei titoli professionali degli avvocati migranti che desiderino esercitare con il titolo conseguito nello Stato membro di origine. Pertanto, gli avvocati i quali abbiano acquisito il diritto di fregiarsi di tale titolo professionale in uno Stato membro e che presentino, all’autorità competente dello Stato membro ospitante, il certificato della loro iscrizione presso l’autorità competente di questo primo Stato membro devono essere considerati in regola con tutte le condizioni necessarie per la loro iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante con il loro titolo professionale ottenuto nello Stato membro di origine.
La finalità della direttiva – si ribadisce nella memoria – sarebbe quella di consentire l’esercizio della professione forense da parte di chi abbia acquisito in altro Stato membro il titolo equivalente a quello di avvocato.
In questo contesto, il mancato computo del periodo di prima iscrizione dell’avvocato stabilito ai fini dell’iscrizione all’albo speciale dei cassazionisti violerebbe, ad avviso del ricorrente, la direttiva del Parlamento Europeo, denotando, altresì, un intento discriminatorio.
Secondo il ricorrente, la pronuncia impugnata sarebbe nulla per omessa indicazione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione sulla eccepita illegittimità della delibera per violazione della direttiva. Il CNF avrebbe dovuto motivare la decisione di non adeguarsi alla direttiva e non limitarsi a ribadire che non possono computarsi, nei dodici anni richiesti dal sistema dell’art. 33 del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, cui fa rinvio, in via transitoria, l’art. 22, comma 3, della legge n. 247 del 2012, anche gli anni in cui il richiedente stesso aveva svolto l’attività professionale come avvocato stabilito.
In via subordinata, il ricorrente solleva istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia del quesito se osti al diritto dell’Unione Europea, ed in particolare alla direttiva 98/5/CE là dove quest’ultima ha tra i propri scopi l’eliminazione di qualsiasi forma di discriminazione tra avvocati di diversi Stati membri, una prassi nazionale che, nel computare i periodi di anzianità necessari per ottenere l’abilitazione al patrocinio presso le giurisdizioni superiori, escluda i periodi di iscrizione all’albo in qualità di avvocato stabilito, considerando invece solo quelli maturati con la qualifica italiana eventualmente successivamente ottenuta.
2. – Il ricorso pone la questione se l’iscrizione nell’albo ordinario, a seguito di intervenuta integrazione, di un avvocato precedentemente iscritto nella sezione speciale per gli avvocati stabiliti, di cui al lgs. n. 96 del 2001, comporti o meno il cumulo della relativa anzianità di iscrizione ai fini della maturazione del requisito di anzianità di esercizio della professione necessario per l’accesso all’albo speciale degli avvocati cassazionisti, secondo quanto dispone l’art. 22, comma 3, della legge n. 247 del 2012.
Nel caso di specie, l’avv. Muratori ha richiesto l’iscrizione all’albo speciale degli avvocati ammessi al patrocinio dinanzi alla Corte di cassazione e alle altre giurisdizioni superiori considerando computabile, nei dodici anni prescritti come requisito dalla disciplina cui fa rinvio l’art. 22, comma 3, della legge n. 247 del 2012, anche il periodo in cui lo stesso aveva svolto l’attività come avvocato stabilito, risultando iscritto nella apposita sezione speciale dell’albo degli avvocati.
Di diverso avviso è stato il Consiglio nazionale forense che, con la decisione qui impugnata, ha confermato il provvedimento di rigetto del Comitato per la tenuta dell’apposito albo speciale.
3. – La decisione del CNF si sottrae alle doglianze articolate con il motivo di ricorso.
4. – Non sussiste, innanzitutto, il denunciato vizio di nullità della pronuncia per omessa o apparente motivazione e per omesso esame.
L’assunto da cui muove il ricorrente, secondo cui la decisione impugnata non direbbe nulla in ordine alla eccepita illegittimità della delibera per violazione della direttiva 98/5/CE del Parlamento Europeo, è smentito per tabulas dal tenore testuale della decisione del CNF. Questa, infatti, a pag. 5, indica espressamente le ragioni del non-contrasto con la direttiva del Parlamento Europeo, osservando che “l’anzianità che rileva ai fini dell’iscrizione nella sezione speciale non è già un’iscrizione in albi italiani, bensì soltanto un’anzianità di servizio ed il ricorrente, al momento della proposizione della domanda, era avvocato iscritto nella sezione ordinaria dell’albo a seguito di integrazione e la sua anzianità in detto albo era inferiore ai dodici anni stabiliti per legge”.
5. – L’esame della censura di violazione e falsa applicazione di legge, sollevata dal ricorrente per non avere il giudice a quo operato la doverosa interpretazione conforme alla direttiva 98/5/CE del Parlamento Europeo della pertinente disciplina nazionale, presuppone l’analisi della normativa che disciplina le modalità di accesso al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori.
A tale riguardo, si deve considerare che, mentre la legge professionale forense (n. 247 del 2012) detta i presupposti ed i requisiti dell’iscrizione all’albo ordinario degli avvocati nonché all’albo speciale per gli abilitati al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori, il d.lgs. n. 96 del 2001, di attuazione della direttiva 98/5/CE, disciplina l’esercizio della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale, distinguendo tra avvocato stabilito (che, ai sensi dell’art. 3, lettera d, è definito come il cittadino di uno degli Stati membri dell’Unione europea che esercita stabilmente in Italia la professione di avvocato con il titolo professionale di origine e che è iscritto nella sezione speciale dell’albo degli avvocati) e avvocato integrato (definito, dalla lettera e del medesimo art. 3, come colui che ha ottenuto il diritto di utilizzare in Italia il titolo di avvocato, che è il titolo professionale acquisito in Italia mediante iscrizione nell’albo degli avvocati).
In generale, la previsione di appositi requisiti per l’iscrizione nell’albo degli avvocati ammessi al patrocinio dinanzi alla Corte di cassazione e alle altre giurisdizioni superiori risponde all’esigenza, avvertita dal legislatore, di riservare tale attività ad avvocati esperti e preparati: sia per non sovraccaricare le Corti di ultima istanza di ricorsi inammissibili o manifestamente infondati, sia per stimolare, con atti di impugnazione ben argomentati, l’elaborazione del diritto vivente ad opera della Corte di cassazione e, nel loro ambito, dalle altre giurisdizioni superiori.
Su questa base, la legge n. 247 del 2012, all’art. 22, dispone che l’iscrizione all’albo speciale dei cassazionisti possa essere richiesta al CNF: (a) da chi sia iscritto in un albo ordinario circondariale da almeno cinque anni e abbia superato l’apposito esame (comma 1); (b) da chi abbia maturato un’anzianità di iscrizione all’albo di otto anni e abbia proficuamente frequentato la Scuola superiore dell’avvocatura, istituita e disciplinata con regolamento del CNF (comma 2); (c) infine, da coloro che entro undici anni dalla data di entrata in vigore della nuova legge abbiano maturato i requisiti per detta iscrizione secondo la previgente normativa (comma 3).
Ora, quanto all’ipotesi sub c), la previgente normativa, applicabile in via transitoria, nel delineare il terzo canale di accesso all’albo speciale per il patrocinio davanti alla Corte di cassazione e alle altre giurisdizioni superiori, prevede, all’art. 33, secondo comma, del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, il percorso alternativo dell’anzianità di iscrizione nell’albo degli avvocati, e del conseguente esercizio della professione, per un periodo che l’art. 4 della legge n. 27 del 1997 ha fissato in dodici anni.
In relazione a questo terzo canale di accesso – che è quello che viene qui in rilievo – l’art. 39 del regio decreto n. 37 del 1934 prevede che gli aspiranti all’iscrizione nell’albo speciale di cui all’art. 33 della legge professionale del 1933 debbano “unire alla domanda un certificato del Presidente del Consiglio dell’ordine”, dal quale risultino “l’attuale iscrizione nell’albo degli avvocati e l’anzianità di essa con l’attestazione” di effettivo esercizio della professione “per il periodo prescritto”.
Quanto al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori degli avvocati stabiliti, questo rinviene la propria disciplina nell’art. 9 del d.lgs. n. 96 del 2001.
Secondo tale disposizione, nei giudizi dinanzi alla Corte di cassazione ed alle altre giurisdizioni superiori, l’avvocato stabilito può assumere il patrocinio se iscritto in una sezione speciale dell’albo, ferma restando l’intesa con un avvocato abilitato ad esercitare davanti a dette giurisdizioni. L’iscrizione nella sezione speciale dell’albo può essere richiesta al Consiglio nazionale forense dall’avvocato stabilito che dimostri di aver esercitato la professione di avvocato per almeno otto anni in uno o più degli Stati membri, tenuto conto anche dell’attività professionale eventualmente svolta in Italia, e che successivamente abbia lodevolmente e proficuamente frequentato la Scuola superiore dell’avvocatura, istituita e disciplinata con regolamento dal Consiglio nazionale forense, ai sensi dell’art. 22, comma 2, della legge n. 247 del 2012.
6. – Tale essendo il quadro normativo di riferimento, al quesito se, ai fini dell’iscrizione nell’albo speciale degli avvocati cassazionisti, si possa computare, nei dodici anni di iscrizione all’albo ordinario degli avvocati richiesti dalla normativa cui fa rinvio l’art. 22, comma 3, della legge 247 del 2012, anche il periodo in cui il richiedente stesso aveva svolto l’attività professionale come avvocato stabilito, correttamente il CNF ha dato risposta negativa.
Difatti, l’avvocato stabilito è iscritto in una apposita “sezione speciale” contenuta nell’albo professionale degli avvocati e tale iscrizione nella sezione speciale produce effetti diversi rispetto all’iscrizione nella sezione ordinaria dell’albo, sia all’interno dell’ordinamento professionale forense che in relazione al tipo di attività professionale che può essere esercitata. Nell’esercizio della professione l’avvocato stabilito è tenuto a fare uso del titolo professionale di origine. Inoltre, nell’esercizio delle attività relative alla rappresentanza, assistenza e difesa nei giudizi civili, penali ed amministrativi, nonché nei procedimenti disciplinari nei quali è necessaria la nomina di un difensore, l’avvocato stabilito deve agire di intesa con un professionista abilitato ad esercitare la professione con il titolo di avvocato, il quale assicura i rapporti con l’autorità adita o procedente e nei confronti della medesima è responsabile dell’osservanza dei doveri imposti dalle norme vigenti ai difensori. L’avvocato “comunitario” che abbia esercitato in maniera effettiva ed ininterrotta la professione in Italia per tre anni può chiedere al proprio Consiglio dell’ordine la dispensa dalla prova attitudinale e, se dispensato, può iscriversi nell’albo degli avvocati ed esercitare la professione con il titolo di avvocato.
Ne deriva che l’iscrizione all’albo speciale degli avvocati stabiliti è finalizzata ad una forma peculiare di esercizio della professione forense, caratterizzata dalla spendita del solo titolo straniero e dalla necessità di una intesa con un avvocato iscritto nell’albo. Tale forma di esercizio della professione non è pienamente assimilabile a quella conseguente al superamento dell’esame di abilitazione per avvocato. Sul piano ordinamentale, soltanto l’avvocato stabilito che è stato dispensato dalla prova attitudinale avendo esercitato per almeno tre anni in Italia, in modo effettivo e regolare, la professione con il titolo professionale di origine, può iscriversi nell’albo degli avvocati e per l’effetto esercitare la professione con il titolo di avvocato. Soltanto con l’acquisizione del titolo di avvocato integrato si assiste al venir meno delle limitazioni connesse all’avere fino a quel momento operato in Italia sulla base del titolo di abilitazione acquisito all’estero e alla conseguente equiparazione a tutti gli effetti all’avvocato iscritto ex novo all’albo ordinario.
In siffatta prospettiva, è rispondente alla lettera della disposizione dell’art. 22, comma 3, della legge n. 247 del 2012, e coerente con la sua ratio, che non si tenga conto dell’attività professionale svolta spendendo il titolo acquisito nello Stato di origine, trattandosi di attività ontologicamente diversa da quella che si svolge a seguito dell’iscrizione nell’albo ordinario e non assimilabile a questa.
La ratio del sistema, in particolare, emerge considerando il passaggio dallo status di avvocato stabilito allo status di avvocato integrato: l’avvocato integrato è quello che ha acquisito tutte le conoscenze legate alle peculiarità dell’ordinamento (diverso da quello in cui ha acquisito il titolo) per poter esercitare, al pari di un avvocato che abbia acquisito il titolo in Italia, la professione.
Quindi, correttamente la decisione impugnata è pervenuta alla conclusione secondo cui l’anzianità di iscrizione nella sezione speciale non è cumulabile con l’anzianità di iscrizione nell’albo ordinario a seguito di “integrazione”, proprio in virtù del fatto che le due iscrizioni corrispondono a due diverse forme di esercizio della professione, che presuppongono titoli diversi (il titolo straniero per lo stabilito, il titolo di avvocato per l’iscritto nell’albo ordinario).
Siffatto approdo ermeneutico appare in linea con la disciplina dettata dal già citato art. 9 del d.lgs. n. 96 del 2001 per il patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori da parte dell’avvocato stabilito.
Tale disposizione riconosce all’avvocato stabilito la possibilità di iscriversi in una sezione speciale dell’albo speciale per il patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori, per poter dinanzi alle stesse esercitare con il titolo professionale di origine e sulla base di intesa con un avvocato iscritto nell’albo speciale.
A tal fine, il comma 2 dell’art. 9 prevede che “l’iscrizione nella sezione speciale dell’albo indicato al comma 1 può essere richiesta al Consiglio nazionale forense dall’avvocato stabilito che dimostri di aver esercitato la professione di avvocato per almeno otto anni in uno o più degli Stati membri, tenuto conto anche dell’attività professionale eventualmente svolta in Italia, e che successivamente abbia lodevolmente e proficuamente frequentato la Scuola superiore dell’avvocatura, istituita e disciplinata con regolamento dal Consiglio nazionale forense, ai sensi dell’articolo 22, comma 2, della legge 31 dicembre 2012, n. 247”.
Si tratta, com’è evidente, di un percorso diverso da quello di cui all’art. 22 della legge professionale. In virtù dell’iscrizione ordinaria all’albo speciale, infatti, l’avvocato può esercitare con piena facoltà dinanzi alle giurisdizioni superiori e spendendo il titolo di avvocato. In virtù, invece, dell’iscrizione nella sezione speciale di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 96/2001, l’avvocato stabilito potrà sì esercitare dinanzi alle giurisdizioni superiori, ma con il titolo professionale di origine e come avvocato stabilito (dunque, d’intesa con un professionista iscritto nell’albo speciale).
7. – Alla stregua di tali elementi, l’interpretazione dell’art. 22, comma 3, della legge 247 del 2012 seguita dal CNF neppure si appalesa contrastante con il diritto euro-unitario.
Attribuire ex post, all’avvocato che ha esercitato ancora con il titolo acquisito nello Stato di origine, la stessa anzianità di iscrizione dell’avvocato iscritto nel relativo albo e che abbia esercitato con il titolo di avvocato, ai fini della successiva iscrizione nell’albo speciale dei patrocinanti in Cassazione, non è affatto richiesto dalla direttiva 98/5/CE.
Inoltre, la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi, sicché non sussistono i presupposti per investire la Corte di giustizia del rinvio pregiudiziale sollecitato dal ricorrente anche con la memoria illustrativa.
Preme, infatti, evidenziare: che la citata direttiva permette agli avvocati di esercitare la loro attività in un altro Stato membro con il proprio titolo professionale di origine anche allo scopo di facilitare loro l’ottenimento del titolo professionale dello Stato membro ospitante; che, dopo tre anni di attività effettiva e regolare svolta nello Stato membro ospitante e riguardante il diritto di questo Stato membro, ivi compreso il diritto comunitario, è lecito presumere che tali avvocati abbiano acquisito le competenze necessarie per integrarsi completamente nella professione di avvocato dello Stato membro ospitante; che al termine di tale periodo l’avvocato in grado, con riserva di una verifica, di comprovare la propria competenza professionale nello Stato membro ospitante, deve poter ottenere il titolo professionale di tale Stato membro; che, qualora l’attività effettiva e regolare di almeno tre anni sia di durata inferiore relativamente al diritto dello Stato membro ospitante, l’autorità deve tenere conto anche delle altre conoscenze di tale diritto che può verificare nel corso di un colloquio; che se non viene fornita la prova che tali condizioni sono soddisfatte, la decisione dell’autorità competente di tale Stato di non concedere il titolo professionale di quest’ultimo, secondo le modalità di agevolazione connesse con tali condizioni, deve essere motivata ed è soggetta a ricorso giurisdizionale di diritto interno.
In particolare, gli artt. 3, 6 e 9 della direttiva prevedono, rispettivamente: che l’avvocato che intende esercitare in uno Stato membro diverso da quello nel quale ha acquisito la sua qualifica professionale deve iscriversi presso l’autorità competente di detto Stato membro; che l’avvocato che esercita nello Stato membro ospitante con il proprio titolo professionale di origine è tenuto ad esercitare facendo uso di questo titolo, che deve essere indicato nella lingua o in una delle lingue ufficiali dello Stato membro di origine, comunque in modo comprensibile e tale da evitare confusioni con il titolo professionale dello Stato membro ospitante; che indipendentemente dalle regole professionali e deontologiche cui è soggetto nel proprio Stato membro di origine, l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale d’origine è soggetto alle stesse regole professionali e deontologiche cui sono soggetti gli avvocati che esercitano col corrispondente titolo professionale dello Stato membro ospitante per tutte le attività che esercita sul territorio di detto Stato; che le decisioni con cui viene negata o revocata l’iscrizione devono essere motivate e sono soggette a ricorso giurisdizionale di diritto interno.
Il legislatore dell’Unione ha inteso, in particolare, porre fine alle disparità tra le norme nazionali relative ai requisiti d’iscrizione presso le autorità competenti, da cui derivavano ineguaglianze ed ostacoli alla libera circolazione.
In tale contesto, l’art. 3 della direttiva 98/5 provvede ad armonizzare completamente i requisiti preliminari richiesti ai fini di esercitare il diritto di stabilimento conferito da tale direttiva, prevedendo che l’avvocato che intende esercitare in uno Stato membro diverso da quello nel quale ha acquisito la sua qualifica professionale deve iscriversi presso l’autorità competente di detto Stato membro, la quale è tenuta a procedere a tale iscrizione su presentazione del documento attestante l’iscrizione di questo presso la corrispondente autorità competente dello Stato membro di origine.
La direttiva 98/5 riguarda unicamente il diritto di stabilirsi in uno Stato membro per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro di origine.
Nel rapporto fra normativa interna e disposizioni eurounitarie in materia, invero, risulta determinante la circostanza che la direttiva (undicesimo considerando), per garantire il buon funzionamento della giustizia, lascia agli Stati membri la facoltà di riservare, mediante norme specifiche, l’accesso ai loro più alti organi giurisdizionali ad avvocati specializzati, senza ostacolare l’integrazione degli avvocati degli Stati membri che soddisfino le condizioni richieste.
La disciplina italiana risulta, pertanto, coerente con il contesto normativo sovranazionale e, in particolare, con i principi di libera circolazione delle persone e dei servizi, che hanno condotto al riconoscimento, mediante la normativa europea di fonte derivata, della facoltà di esercitare una professione in uno Stato membro diverso da quello in cui si è acquisita la qualifica professionale.
Il legislatore europeo, con la direttiva 98/5/CE (“volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica”), ha lasciato agli Stati membri la facoltà di stabilire norme specifiche di accesso alle Corti supreme, di fatto escludendo dall’armonizzazione la disciplina dell’accesso ai più alti organi di giustizia.
Conformemente a tale previsione europea, il legislatore italiano, in sede di recepimento, ha dettato, come visto innanzi, regole specifiche per quanto riguarda l’accesso degli avvocati stabiliti al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori (cfr. art. 9 del d.lgs. n. 96 del 2001).
La disciplina che ne risulta si pone in coerenza con i principi espressi dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.
Nella sentenza 10 marzo 2021 – nella causa C-739/19, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Supreme Court (Corte suprema, Irlanda), con decisione del 4 ottobre 2019, pervenuta in cancelleria il 7 ottobre 2019, nel procedimento VK contro An Bord Pleanála – la Corte del Lussemburgo ha statuito che l’art. 5 della direttiva 77/249/CEE del Consiglio, del 22 marzo 1977, intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati, dev’essere interpretato nel senso che: esso non osta, in quanto tale, in considerazione dell’obiettivo della buona amministrazione della giustizia, a
che a un avvocato, prestatore di servizi di rappresentanza del suo cliente, venga imposto di agire di concerto con un avvocato che eserciti dinanzi al giudice adito e che sarebbe in caso di necessità responsabile nei confronti di tale giudice, nell’ambito di un sistema che impone agli avvocati obblighi deontologici e procedurali come quelli di sottoporre al giudice adito qualsiasi elemento giuridico, legislativo o giurisprudenziale, ai fini del regolare svolgimento del procedimento, dai quali il singolo è dispensato qualora decida di provvedere egli stesso alla propria difesa; non è sproporzionato, in considerazione dell’obiettivo della buona amministrazione della giustizia, l’obbligo per un avvocato prestatore di agire di concerto con un avvocato che eserciti dinanzi al giudice adito, in un sistema in cui entrambi gli avvocati hanno la possibilità di definire i propri rispettivi ruoli, ove l’avvocato che esercita dinanzi al giudice adito è, in generale, chiamato soltanto ad assistere l’avvocato prestatore al fine di consentirgli di garantire l’adeguata rappresentanza del cliente e la corretta esecuzione dei suoi obblighi nei confronti di tale giudice; un obbligo generale di agire di concerto con un avvocato che eserciti dinanzi al giudice adito, che non consenta di tenere conto dell’esperienza dell’avvocato prestatore, andrebbe oltre quanto è necessario per conseguire l’obiettivo della buona amministrazione della giustizia.
Più in particolare, la sentenza della Corte (Grande Sezione) 17 luglio 2014 ha stabilito che l’art. 3 della direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, deve essere interpretato nel senso che non può costituire una pratica abusiva il fatto che il cittadino di uno Stato membro si rechi in un altro Stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato a seguito del superamento di esami universitari e faccia ritorno nello Stato membro di cui è cittadino per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro in cui tale qualifica professionale è stata acquisita.
A tale approdo la Corte di giustizia è pervenuta dopo aver rilevato che l’art. 3 della direttiva 98/5 riguarda unicamente il diritto di stabilirsi in uno Stato membro per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro di origine. Tale disposizione non disciplina l’accesso alla professione di avvocato né l’esercizio di tale professione con il titolo professionale rilasciato nello Stato membro ospitante. Ne risulta necessariamente che una domanda di iscrizione all’albo degli avvocati stabiliti, presentata ai sensi dell’art. 3 della direttiva 98/5, non è tale da consentire di eludere l’applicazione della legislazione dello Stato membro ospitante relativa all’accesso alla professione di avvocato. In questo senso, il citato art. 3 della direttiva 98/5, consentendo ai cittadini di uno Stato membro che ottengano il loro titolo professionale di avvocato in un altro Stato membro di esercitare la professione di avvocato nello Stato di cui sono cittadini con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro di origine, non è comunque tale da incidere sulle strutture fondamentali, politiche e costituzionali né sulle funzioni essenziali dello Stato membro di origine ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE.
8. – Il ricorso è rigettato.
Non vi è luogo a pronuncia sulle spese processuali, non avendo l’intimato Consiglio dell’ordine svolto attività difensiva in questa sede.
9. – Ricorrono i presupposti processuali per dare atto della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dichiara che ricorrono i presupposti processuali per dare atto della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 16 gennaio 2024.
Allegati:
SS.UU, 28 febbraio 2024, n. 5306, in tema di avvocato stabilito
In tema di illecito disciplinare – SS.UU, 07 agosto 2023, n. 23990
Civile Sent. Sez. U Num. 23990 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: RUBINO LINA
Data pubblicazione: 07/08/2023
SENTENZA
sul ricorso 28767-2022 proposto da:
ARNONE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato DIEGO GALLUZZO;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI AGRIGENTO, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimati –
nonché
sul ricorso 28769-2022 proposto da:
ARNONE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato DIEGO GALLUZZO;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI AGRIGENTO;
– intimato –
avverso le sentenze nn. 187/2022 (per il ricorso r.g. 28767/2022) e n. 189/2022 (per il ricorso 28769/2022), entrambe del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE e depositate il 21/10/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/05/2023 dal Consigliere LINA RUBINO;
lette le conclusioni scritte dall’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO, il quale chiede che le Sezioni Unite della Corte vogliano rigettare i ricorsi.
FATTI DI CAUSA
1. Con delibera in data 12.2.2021 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati (d’ora innanzi, per brevità, COA) di Agrigento, su iniziativa del Procuratore generale di Palermo, operava la cancellazione dall’albo dell’ Avv. Giuseppe Arnone in quanto erano venuti meno i requisiti di iscrizione previsti dall’art. 17, comma 9, della legge n. 247 del 2012, per essere l’avvocato sottoposto al regime di semilibertà.
2. L’Avv. Arnone proponeva, in data 20.4.2021, ricorso al Consiglio Nazionale Forense (d’ora innanzi, per brevità, CNF) e lo sottoscriveva in proprio, conferendo anche mandato all’avv. Daniela Principato, non abilitata all’esercizio dinanzi alle giurisdizioni superiori. Nel merito, adduceva che non erano sussistenti le cause della operata cancellazione, attese le sostanziali differenze esistenti tra il regime di semilibertà, cui era sottoposto, e la sottoposizione all’esecuzione di pene detentive, ipotesi prevista dall’ordinamento professionale come causa di cancellazione dall’albo.
3. Il CNF, con sentenza n. 187 emessa in data 18.6.2022, dichiarava inammissibile il ricorso, per mancanza di ius postulandi, avendo l’avv. Arnone conferito mandato ad un avvocato non abilitato al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, senza che ciò potesse essere sanato dalla sottoscrizione in proprio del ricorso anche da parte dell’Arnone, in quanto lo stesso, al momento della sottoscrizione, era a sua volta privo di ius postulandi essendo stato sospeso.
La sentenza aggiungeva che in data 18 maggio l’impugnazione era stata rinunciata dall’Arnone, con conseguente stabilizzazione del provvedimento impugnato dalla data della pronuncia, in quanto l’impugnazione sospende l’esecutività della decisione e, finché essa non sia stata definita, gli effetti della cancellazione non sono destinati ad operare, a tutela del legittimo affidamento dei terzi che con l’avvocato si trovino a relazionarsi.
4. Alla medesima udienza del 18 giugno 2022, dinanzi al CNF, era chiamato e trattato, dopo il ricorso di cui sopra, un distinto ricorso avverso altro provvedimento disciplinare adottato nei confronti del dott. Arnone, del quale era stata disposta la radiazione perché ritenuto responsabile delle seguenti incolpazioni:
A) violazione degli artt. 52.1 e 53.1 in relazione all’art. 4.1 e 4.2 del Codice deontologico forense per aver violato il dovere di impostare i rapporti con i magistrati in servizio presso il Tribunale di Agrigento con dignità e rispetto e per aver violato il divieto di utilizzare espressioni offensive o sconvenienti nei confronti dei predetti magistrati ed in particolare per avere nelle memorie datate 4.2.2021 e depositate nel proc.n. 1865/14 MOd. 21 RG Tribunale di Agrigento definito il Procuratore dott. Luigi Patronaggio “delinquente in carica”, “criminale dal colletto bianco”, “il criminale Patronaggio” e per avere utilizzato le seguenti espressioni “in presenza di comprovate attività delinquenziali … sia dell ‘attuale Procuratore Capo di Agrigento Luigi Patronaggio”; “qui l’abuso costante ed abbagliante (delitto di abuso in atti d’ ufficio) è quello posto in essere da Luigi Patronaggio”; “oggi Patronaggio farebbe bene a costituirsi, a chiedere i domiciliari, ad incaricare il suo difensore a chiedere il patteggiamento”;”in carcere dovrebbe andare anche Luigi Patronaggio che sta consentendo la prescrizione ….per tutti i reati commessi dal medesimo . .., in primis la corruzione”, “ruolo delinquenziale di Luigi Patronaggio”; “Patronaggio garantisce la piena impunità alle persone da me denunziate; “reati commessi da Patronaggio per favorire Firetto” ·
B) violazione degli artt. 2.1, 4.2, 9.1, 9.2, 20, 21.1, 22 del Codice Deontologico Forense per aver assunto condotte tali da compromettere i doveri di probità, dignità e decoro cui deve essere ispirata la condotta dell’Avvocato nonché l’immagine della professione forense.
Fatti commessi in Agrigento il 4.02.2021».
Nel provvedimento impugnato dinanzi al CNF, il CDD aveva ritenuto manifesto il disvalore deontologico della condotta tenuta dall’Arnone, considerando come «la responsabilità disciplinare in relazione alla condotta dell’ Avv. Arnone appare di tutta evidenza, essendo stato travalicato – ampiamente – il limite entro cui avrebbe potuto manifestare il proprio pensiero e la linea difensiva», e aveva comminato la massima sanzione della radiazione, ritenendola adeguata tenuto conto della gravità dei fatti e della numerosissima quantità di precedenti disciplinari a carico del medesimo.
5. In relazione alla decisione del CDD di cui al precedente punto 4. l’avv. Arnone proponeva due ricorsi:
1) un primo ricorso, depositato in data 3.3.2022 e sottoscritto personalmente dall’Avv. Arnone e dall’Avv. Daniela Principato, non cassazionista, munita di procura;
2) un secondo ricorso, di contenuto identico, depositato in data 4.3.2022 e sottoscritto unicamente dall’Avv. Francesco Menallo, cassazionista e munito di procura.
6. IL CNF dichiarava il primo ricorso inammissibile, risultando sottoscritto personalmente dall’Avv. Arnone, sospeso dall’albo a far data dal 28 gennaio 2021 in ragione dell’esecuzione di una serie di precedenti sanzioni. Affermava che il difetto di jus postulandi dell’incolpato non risultava sanabile dal conferimento della difesa all’avv. Daniela Principato, munita di procura speciale, ma non abilitata all’esercizio innanzi alle giurisdizioni superiori, in quanto l’art. 182 c.p.c risulta applicabile innanzi al CNF soltanto dove sussista la possibilità «di regolarizzazione in favore del soggetto o del suo procuratore già costituiti in giudizio» (per prima e tra le tante Cass. S.U. 27 aprile 2017, n. 10414), circostanza non ricorrente nel caso di specie.
6.1. Esaminava invece, ritenendolo ammissibile, il secondo ricorso, proposto dall’avv. Arnone con il patrocinio dell’Avv. Francesco Menallo, identico al primo nei contenuti, rilevandone la tempestività e ricordando che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il principio di consumazione dell’impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di impugnazione immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, purchè esso sia tempestivo.
6.2. Il ricorso veniva quindi trattato e deciso, nonostante l’opposizione dello stesso Arnone che chiedeva si dichiarasse l’estinzione del procedimento per intervenuta sua cancellazione dall’Albo, con la sentenza n. 187 del 2022 adottata dal CNF nell’ambito della medesima udienza e qui separatamente impugnata.
6.3. Dopo averlo ritenuto ammissibile, il CNF, con la sentenza n. 189\2022, emessa in data 18.6.2022, rigettava nel merito il ricorso del dott. Arnone contro il provvedimento di radiazione, ritenendo che le espressioni utilizzate numerose volte dallo stesso, come già esattamente rilevato già dal CDD, superassero senza ombra di dubbio i limiti della critica, sia pur aspra, all’operato di un’autorità giudiziaria e apparissero senz’altro meritevoli della sanzione disciplinare, confermata nella misura massima della radiazione stante la quantità di procedimenti disciplinari a carico del medesimo.
7. In questa sede il dott. Giuseppe Arnone ha proposto due separati ricorsi, ciascuno articolato in tre motivi, l’uno per la cassazione della sentenza n. 187 del 2022 (con la quale si è dichiarato inammissibile il suo ricorso contro il provvedimento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Agrigento che ne aveva disposto la cancellazione dall’Albo degli Avvocati), che ha preso il n.28767\2022 di iscrizione al ruolo generale, e l’altro per la cassazione della sentenza n. 189 del 2022, con la quale si è confermata la sua radiazione (iscritto al n. 28769\2022 del ruolo generale).
Entrambe le sentenze sono state emesse dal Consiglio Nazionale Forense in data 18.6.2022 e notificate al ricorrente in data 27.10.2022.
8. La Procura generale ha depositato conclusioni scritte con le quali chiede il rigetto di entrambi i ricorsi.
9. L’intimato Consiglio dell’ordine territoriale non ha compiuto attività difensiva in questa sede.
10. Chiamate entrambe le cause all’udienza pubblica del 23 maggio 2023, si è disposta la riunione del secondo ricorso, r.g. 28769, proposto avverso la seconda sentenza (n.189\2022), a quello recante r.g. 28767\2022, proposto contro la prima sentenza (n.187\2022) ed iscritto a ruolo per primo, ai sensi dell’art. 274, secondo comma, cod. proc. civ., stante la connessione sia soggettiva che oggettiva tra le cause, relative a provvedimenti disciplinari irrogati nei confronti di uno stesso professionista, definiti in sede di impugnazione dal CNF nell’ambito della stessa udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso n. 28767\2022 avverso la sentenza n. 187\2022
1.Con il primo motivo del ricorso avverso la sentenza n. 187, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 591 c.p.p., sostenendo che la declaratoria di inammissibilità del proprio ricorso avverso il provvedimento di cancellazione avrebbe dovuto comportare la stabilità degli effetti della sua cancellazione dall’Albo a partire dal passaggio in giudicato del provvedimento del COA di Agrigento, 14 aprile 2021, o, in subordine, dalla data della propria rinuncia all’impugnazione, 18 maggio 2022, e non, in ogni caso, contrariamente a quanto affermato dal CNF, dalla data della sentenza.
2. Con il secondo motivo, si denuncia l’eccesso di potere in cui sarebbe incorso il CNF, in quanto a fronte della rinuncia all’impugnazione e alla stessa inesistenza dell’impugnazione, non avrebbe potuto ritenere il ricorrente validamente iscritto fino al 18 giugno 2022.
3. Con il terzo motivo denuncia “la violazione degli artt. della Costituzione italiana che garantiscono il diritto di difesa, a partire dall’art. 27, nonché l’art. 1 della legge n. 247 \12, che sancisce il rispetto dei principi costituzionali e comunitari, e quindi sempre il diritto di difesa”. Sostiene il ricorrente che, giacché era stato già cancellato in via definitiva dall’albo degli avvocati, non aveva alcun titolo neanche per comparire e difendersi all’udienza del 18.6.2022, ove, in assenza di alcuna difesa, si è disposta la sua radiazione dall’albo.
Il ricorso n. 28769\2022 avverso la sentenza n. 189 del 2022
Con il primo motivo, il ricorrente formula una censura di eccesso di potere, ritenendo che il CNF, allorchè ha pronunciato la sentenza n. 189 del 2022, fosse ormai privo del potere di disporre sanzioni nei suoi confronti, non risultando più il dott. Arnone iscritto ad alcun albo forense nel momento in cui veniva giudicato: la cancellazione dall’albo era divenuta definitiva il 14 aprile 2021, o alla data della rinuncia all’impugnazione, 18 maggio 2022, o, al più, in pari data a quella del giudizio sulla radiazione dinanzi al CNF, ma prima che fosse esaminato il ricorso relativo alla radiazione.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione della legge n. 247 del 2012, nella parte in cui si sottopone ai poteri del CNF la situazione di un soggetto già cancellato dall’albo professionale.
Con il terzo motivo denuncia “la violazione degli artt. della Costituzione italiana che garantiscono il diritto di difesa, a partire dall’art. 27, nonché l’art. 1 della legge n. 247 \12, che sancisce il rispetto dei principi costituzionali e comunitari, e quindi sempre il diritto di difesa”. Aggiunge che le predette norme sono state violate perché il dott. Arnone, già cancellato in via definitiva dall’albo degli Avvocati, non aveva alcun titolo neanche per comparire e difendersi all’udienza del 18.6.2022, ove in assenza di alcuna difesa, si è confermata la sua radiazione.
All’esito della pubblica udienza del 23 maggio 2023 si è disposta la riunione delle due cause, cui invero ben avrebbe dovuto provvedere il Giudice del merito disciplinare, in quanto non soltanto si tratta di decisioni disciplinari nei confronti di un medesimo professionista, ma esiste una stretta connessione oggettiva, enfatizzata, nella sua rilevanza, dalla complessiva linea difensiva adottata dal ricorrente: il dott. Arnone sostiene che, avendo rinunciato ad impugnare il provvedimento di cancellazione in data 15 maggio 2022, con rinuncia inserita nel procedimento definito con sentenza del CNF n. 187 del 2022, il ricorso con cui si impugnava la radiazione non avrebbe dovuto essere neppure fissato nè tanto meno esaminato nel merito dal CNF. Invece, malgrado tale rinuncia, il Consiglio Nazionale Forense riteneva di fissare nella medesima udienza del 18 giorno 2022 la discussione in ordine sia al ricorso avverso la cancellazione sia la discussione dell’altro ricorso, avverso il provvedimento di radiazione.
Il ricorrente evidenzia che, avendo rinunziato all’impugnazione avverso la cancellazione, non risultava più iscritto all’albo professionale nel momento in cui si è discussa la sua radiazione, e non aveva più alcun titolo neanche per poter presenziare all’udienza, non essendo più iscritto all’albo forense.
Per cui, sostiene il ricorrente che il procedimento avente ad oggetto la radiazione doveva essere dichiarato estinto, quanto meno perché la decisione relativa alla cancellazione, come comprova il numero progressivo 187 della relativa sentenza, era stata adottata prima della decisione in merito alla radiazione (che porta il numero progressivo 189), e nella prima decisione si riportavano le due circostanze sopra indicate, ovvero la rinuncia alla impugnazione e l’impugnazione sottoscritta da parte di difensore non abilitato.
Da questa premessa si dipartono le tre censure contenute e brevemente illustrate nei ricorsi.
Ciò premesso, i motivi di cui al ricorso n. 28769\2022, che devono logicamente essere esaminati per primi, sono infondati.
Il rapporto tra la cancellazione dall’albo, sia essa volontaria o officiosa e i procedimenti disciplinari a carico degli avvocati è regolato dalla attuale legge professionale nel senso che una volta avviati i prodromi di un procedimento disciplinare, esso debba andare avanti e non possa essere evitato a mezzo di una eventuale cancellazione dall’albo, che, comunque, nelle more non può essere disposta.
L’art. 57 della legge n.247 del 2012 (denominato “divieto di cancellazione”) dispone infatti che durante lo svolgimento del procedimento disciplinare, dal giorno dell’invio degli atti al consiglio di disciplina (quindi da un momento ancora antecedente rispetto all’apertura vera e propria del procedimento disciplinare) non può più essere deliberata la cancellazione dall’albo dell’incolpato; l’art. 17, 16° comma, prevede che non si può pronunciare la cancellazione quando sia in corso un procedimento disciplinare, salvo quanto previsto dall’art. 58.
L’attuale disciplina professionale si pone in sostanziale continuità con la precedente, in quanto già l’art.37, comma 8, del R.d.l. n. 1578 del 1933 poneva il divieto di pronunciare la cancellazione dall’albo degli avvocati, anche nel caso di richiesta di cancellazione volontaria, qualora fosse in corso, a carico dell’avvocato, un procedimento penale o disciplinare, sicché l’istanza dell’interessato non avrebbe avuto effetto sospensivo del giudizio relativo alla radiazione (v. Cass. Sez. U. 2015 n.15574); essa sposta però ad un momento antecedente rispetto al momento della apertura vera e propria del procedimento disciplinare il divieto di cancellazione.
La disposta cancellazione non spiegava quindi alcuna efficacia sospensiva o interruttiva del distinto procedimento disciplinare relativo alla radiazione, né tanto meno determinava la cessazione della materia del contendere in relazione a quest’ultimo.
Si aggiunga che, quanto alla dedotta stabilità o definitività ormai assunta dal provvedimento sulla cancellazione, esso era ancora soggetto ad impugnazione, tant’è che è stato impugnato dallo stesso ricorrente con il ricorso che ha preso il numero di ruolo n. 28767\2022.
Il rigetto del ricorso sulla radiazione e la conseguente definitività del provvedimento di radiazione del dott. Arnone dall’albo degli avvocati produce l’assorbimento dei motivi di ricorso relativi alla cancellazione dall’albo dello stesso dott. Arnone, dedotti con il ricorso n. 28767\2022.
Nulla sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.
I ricorsi riuniti sono stati proposti in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte, giudicando sui procedimenti riuniti, dispone il rigetto dei motivi di cui al ricorso n. 28769\2022 del ruolo generale, dichiara assorbiti i motivi di cui al n. 28767\2022 del ruolo generale.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 23
Allegati:
SS.UU, 07 agosto 2023, n. 23990, in tema di illecito disciplinare
In tema di illecito disciplinare – SS.UU, 19 luglio 2023, n. 21351
Civile Sent. Sez. U Num. 21351 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: STALLA GIACOMO MARIA
Data pubblicazione: 19/07/2023
SENTENZA
sul ricorso 27821-2022 proposto da:
CASSANO avv. GABRIELLA, rappresentata e difesa dall’avvocato LUIGI GIUSEPPE PICCINNI;
– ricorrente –
contro
ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LECCE, PROCURATORE GENERALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimati –
avverso la sentenza n. 171/2022 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 11/10/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/05/2023 dal Consigliere GIACOMO MARIA STALLA;
lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO;
Fatti rilevanti e ragioni della decisione.
§ 1.1 L’avvocatessa Gabriella Cassano del foro di Lecce propone quattro motivi di ricorso per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata (deliberata il 18.11.2021), con la quale il Consiglio Nazionale Forense, su conformi conclusioni del Procuratore Generale, ha confermato la decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina di Lecce-Brindisi- Taranto applicativa nei suoi confronti della sanzione disciplinare della censura per il seguente capo di incolpazione: “violazione dell’articolo 68 comma primo Codice Deontologico, per aver assunto la difesa dell’avvocato Vito Quarta, citato in giudizio per responsabilità professionale nel procedimento n. 2137 del 2014 (registro delle richieste del patrocinio a spese dello Stato) dal signor Cosimo Visconti, il quale era stato da lei difeso in precedenza in vari giudizi (nn. 73, 517, 604 del 2013 del registro delle richieste del patrocinio a spese dello Stato). In Lecce il 20 giugno 2014”.
Nella sentenza qui impugnata il Consiglio Nazionale Forense ha, in particolare, osservato che:
- contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, doveva farsi qui correttamente applicazione dell’articolo 68, comma primo, del vigente Codice Deontologico Forense, e non degli articoli 37 e 51 del Codice Deontologico previgente posto che, come affermato da costante giurisprudenza anche di legittimità, le disposizioni del nuovo Codice Deontologico dovevano applicarsi anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore se più favorevoli per l’incolpato, avendo l’articolo 65, comma quinto, della l. n. 247 del 2012 recepito il criterio del favor rei in luogo di quello del tempus regit actum e, nel caso di specie, la sanzione più tenue era appunto quella consentita dal codice deontologico sopravvenuto;
- in ordine al merito della responsabilità disciplinare, l’illecito doveva ritenersi qui integrato per il fatto che, com’era pacifico, l’avvocatessa Cassano avesse assunto la difesa del collega avv. Quarta – convenuto in un giudizio di responsabilità professionale dal sig. Cosimo Visconti, già cliente dell’avvocatessa Cassano perchè da lei difeso in vari procedimenti civili – senza che dalla cessazione di tale pregressa difesa fosse già decorso un biennio;
- a nulla rilevava che, secondo quanto sostenuto dalla ricorrente, la tutela dell’avvocato Quarta da parte di quest’ultima avesse avuto natura meramente formale, finalizzata alla sola chiamata in giudizio della compagnia assicuratrice nel consenso dello stesso Visconti, dal momento che la ratio dell’art.68 Codice Deontologico vigente (così dell’art.51 Codice Deontologico previgente) andava ricercata, non nella distinzione tra difesa formale e difesa sostanziale, bensì: “nella tutela dell’immagine della professione forense, ritenendosi non decoroso, né opportuno, che un avvocato muti troppo rapidamente cliente, difenda il proprio avversario senza un adeguato intervallo temporale, e prescinde anche dal concreto utilizzo di eventuali informazioni acquisite nel precedente incarico”, così come dal consenso (non scriminante) dello stesso ex-cliente;
- in ordine alla sanzione, congrua doveva ritenersi la censura, attesa “la gravità della violazione che lede l’immagine ed il decoro della attività professionale”.
§ 1.2 Il Procuratore Generale ha chiesto che, nell’assorbente accoglimento del quarto motivo di ricorso, la Corte rilevi l’intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare ex art.56 legge 247/12, con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata.
§ 1.3 Fissato all’udienza pubblica odierna, il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina (successivamente prorogata) dettata dal sopravvenuto art. 23, comma 8-bis, del decreto-legge n. 137 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento in presenza fisica del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.
Proprio per questa evenienza (trattazione del procedimento in camera di consiglio non partecipata), non può trovare accoglimento l’istanza di rinvio per impedimento fatta pervenire il 15 maggio u.s. dall’avv.Piccinni, difensore della ricorrente, in quanto impegnato in data odierna dinanzi ad altro giudice.
§ 2.1 Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione di legge, per avere il Consiglio Nazionale erroneamente applicato alla fattispecie il sopravvenuto Codice Deontologico Forense, nonostante che quest’ultimo (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16 ottobre 2014 ed entrato in vigore il 16 dicembre successivo) non fosse ancora vigente al momento tanto dell’illecito (20 giugno 2014), quanto della contestazione (21 novembre 2014). Ciò comportava che fossero qui applicabili i criteri interpretativi già adottati dallo stesso Consiglio Nazionale Forense sulla base del previgente Codice Deontologico (approvato il 17 aprile 1997 con successive modifiche) volti ad applicare, ad un caso come quello dedotto, la più mite sanzione dell’avvertimento (sent. CNF 16/2016).
Con il secondo ed il terzo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione per omesso esame delle prove a discarico (secondo motivo) e motivazione meramente apparente (terzo motivo). Per non avere il Consiglio Nazionale Forense esaminato gli atti processuali allegati a difesa, e fotoriprodotti nel ricorso di legittimità (tra cui le dichiarazioni testimoniali dell’avvocato Quarta e la dichiarazione sottoscritta dal Visconti), dai quali emergeva con chiarezza che si era trattato di una difesa meramente formale al solo fine di consentire all’avvocato Quarta, convenuto in un giudizio di responsabilità dal Visconti per aver omesso di produrre documenti rilevanti in un procedimento monitorio, di citare in giudizio la compagnia di assicurazione e ciò, in sostanza, con il consenso ed anche nell’interesse dello stesso Visconti. Ciò deponeva per l’esclusione dell’illecito o, quantomeno, per l’applicazione della più tenue sanzione dell’avvertimento.
Con il quarto motivo di ricorso si eccepisce l’intervenuta prescrizione dell’illecito disciplinare per decorso di sette anni e mezzo dal compimento del fatto; il regime della prescrizione in concreto applicabile, nel caso di illecito di esclusiva rilevanza disciplinare, dovrebbe infatti individuarsi in quello della data di commissione del fatto e non di incolpazione, con la conseguenza che la prescrizione si sarebbe qui compiuta il 20 dicembre 2021 (sette anni e mezzo dalla data di commissione del fatto, 20 giugno 2014).
§ 2.2 E’ fondato, con assorbimento delle altre doglianze, quest’ultimo motivo.
In ragione della data di commissione del fatto contestato (criterio temporale determinativo sia del regime legale della prescrizione, sia del dies a quo di decorrenza: Cass.SSUU n. 20383/21 ed altre) si rende qui applicabile l’art. 56 Legge n. 247/12, secondo cui: “(Prescrizione dell’azione disciplinare).
1. L’azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto.
2. Nel caso di condanna penale per reato non colposo, la prescrizione per la riapertura del giudizio disciplinare, ai sensi dell’articolo 55, è di due anni dal passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna.
3. Il termine della prescrizione è interrotto con la comunicazione all’iscritto della notizia dell’illecito. Il termine è interrotto anche dalla notifica della decisione del consiglio distrettuale di disciplina e della sentenza pronunciata dal CNF su ricorso. Da ogni interruzione decorre un nuovo termine della durata di cinque anni. Se gli atti interruttivi sono più di uno, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi, ma in nessun caso il termine stabilito nel comma 1 può essere prolungato di oltre un quarto. Non si computa il tempo delle eventuali sospensioni.”
Si è in proposito osservato (da ultimo, Cass.SSUU n. 10085/23) che “il regime attuale della prescrizione, stabilito dall’articolo 56 della legge professionale, configura una fattispecie riconducibile ad un modello di matrice penalistica, volto a promuovere il sollecito esercizio dell’azione disciplinare e la definizione del procedimento disciplinare in tempi certi, laddove, al contrario, quella del regime precedente si rifaceva al modello civilistico. Si tratta di prescrizione non di un diritto ma dell’azione disciplinare, in relazione alla quale la nuova legge, se da un lato ha elevato la durata della prescrizione, portandola a sei anni, ed ha tipizzato alcuni eventi interruttivi, prevedendo che da quelle date il termine di prescrizione riprenda a decorrere, seppur per una durata più breve, di cinque anni, ha poi previsto un termine finale complessivo e inderogabile, entro il quale il procedimento disciplinare deve concludersi a pena di prescrizione, di sette anni e mezzo dalla consumazione dell’illecito.”
Orbene, nella concretezza del caso, concernente una contestazione di esclusiva rilevanza deontologico-disciplinare, il termine massimo di prescrizione così individuato si è ormai largamente consumato (fatto del 20.6.2014) non essendosi il giudizio disciplinare esaurito, nel termine suddetto, con sentenza definitiva.
§ 3. Il ricorso va quindi accolto e la sentenza impugnata va cassata senza rinvio per avvenuta prescrizione dell’azione disciplinare; il che assorbe anche l’istanza di sospensione cautelare dell’esecutività sanzionatoria della sentenza impugnata, pure proposta dalla ricorrente.
L’esito del giudizio, caratterizzato dal sopravvenire della causa estintiva alla deliberazione della sentenza impugnata, depone per la compensazione delle spese di lite e, al contempo, per l’insussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, ex art. 13 comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla L. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
La Corte
– accoglie il quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri;
– cassa senza rinvio la sentenza impugnata essendo l’azione disciplinare prescritta ex art. 56 legge 247/12;
– compensa le spese di lite.
Così deciso nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili,
Allegati:
SS.UU, 19 luglio 2023, n. 21351, in tema di illecito disciplinare
In tema di illecito disciplinare – SS.UU, 18 luglio 2023, n. 21069
Civile Sent. Sez. U Num. 21069 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: SESTINI DANILO
Data pubblicazione: 18/07/2023
SENTENZA
sul ricorso 1614-2023 proposto da:
—, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE PINTURICCHIO 89, presso lo studio dell’avvocato —, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE AVVOCATI DI —;
– intimato –
avverso la sentenza n. —/2022 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il —/—/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del —/—/2023 dal Consigliere DANILO SESTINI.
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale RENATO FINOCCHI GHERSI, che ha concluso per il rigetto del ricorso dichiarandolo
inammissibile o infondato;
udito l’Avvocato —.
FATTI DI CAUSA
Con decisione n. —/2018, il Consiglio Distrettuale di Disciplina di — comminò all’avv. — la sanzione disciplinare della censura in relazione alla violazione dell’art. 36, comma 1 del nuovo Codice Deontologico Forense, per avere svolto attività defensionale avanti al Consiglio di Stato pur essendo sprovvisto di abilitazione al patrocinio avanti alle giurisdizioni superiori; e ciò – secondo l’incolpazione- accentando il mandato, seppure unitamente ad avvocati abilitati, certificando l’autenticità delle sottoscrizioni dei clienti e sottoscrivendo i ricorsi e le memorie nei giudizi nn. ———- del 2011 e n. — del 2012.
Il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato l’impugnazione dell’avv. —, il quale ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di — non ha svolto attività difensiva.
Fissata l’odierna udienza pubblica, il ricorrente ha formulato tempestiva istanza di discussione orale e ha depositato memoria.
Il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o infondato.
All’odierna pubblica udienza, il P.G. e il difensore hanno insistito nelle precedenti richieste.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo, il ricorrente denuncia «violazione, erronea interpretazione ed eccesso di potere in relazione all’art. 29, n. 1, lett. f) della l. 247/2012 e del previgente art. 42, u.c., RDL n. 1578/1933».
Premette che sia avanti al CDD di — che avanti al CNF aveva eccepito la non corretta incardinazione del procedimento, e ciò per il fatto che la prima contestazione disciplinare (risalente al — 2013) gli era stata mossa dal Presidente del COA sulla base di una conoscenza personale dei fatti contestati, ma in difetto di materiale cognizione degli stessi da parte del COA che, pertanto, non aveva adottato alcuna delibera in proposito; ribadisce che il Presidente del COA aveva gestito “personalmente” il procedimento (in una situazione di potenziale conflitto di interessi, in quanto precedente difensore dei clienti poi assistiti dall’incolpato), senza trasmetterlo al Consiglio, sia nella fase di audizione dell’avv. — (avvenuta nella vigenza del previgente ordinamento forense) che in quella di trasmissione degli atti al CDD (nella vigenza del nuovo ordinamento); evidenzia che la violazione procedimentale aveva sottratto al Consiglio le sue prerogative e aveva violato il diritto di difesa del ricorrente; contesta la decisione impugnata per avere ritenuto irrilevante quanto denunciato e conclude per l’«accertamento della nullità del provvedimento di trasmissione degli atti da parte del Presidente del COA di — al CDD e di ogni altra attività successiva».
1.1. Sul punto, il CNF ha escluso che le attività iniziali compiute dal COA di — siano censurabili in relazione al contenuto del regolamento n. 2/2014 del CNF (entrato in vigore il 1° gennaio 2015) e ha ritenuto che il Presidente del COA non poteva che avere agito in rappresentanza dell’ente, tanto più che l’audizione dello — era avvenuta alla presenza del segretario del COA e una successiva richiesta di documentazione all’incolpato era stata avanzata tramite un altro componente del medesimo Consiglio; ha affermato che, «in ogni caso», eventuali violazioni procedimentali avrebbero potuto comportare l’annullamento della decisione disciplinare soltanto ove avessero comportato una lesione del diritto di difesa, che non si era verificata in concreto; ha aggiunto che sarebbe del tutto irrilevante la circostanza che la notizia dell’illecito fosse pervenuta al presidente nella sua veste di iscritto all’Ordine, in quanto l’azione disciplinare può essere avviata dal COA anche sulla base di semplici informazioni.
1.2. Il motivo è infondato in quanto, a prescindere dalle modalità con cui venne appresa la notizia dell’illecito, non risulta configurabile alcuna concreta lesione del diritto di difesa dell’incolpato, che fin dall’inizio ha avuto modo di contestare gli addebiti e di giustificare la propria condotta; per di più, e in via dirimente, va escluso che eventuali vizi procedurali della fase che precedette la trasmissione degli atti al CDD di — (a seguito dell’entrata in vigore del nuovo sistema disciplinare) possano refluire sul procedimento istruito ex novo in tale sede e sulle successive sentenze emesse dall’anzidetto CDD e dal CNF, essendo incontestato (come rilevato anche dal P.G.) che, dopo la trasmissione al Consiglio Distrettuale, il procedimento si è svolto con tutti gli adempimenti di rito.
2. Col secondo motivo, il ricorrente denuncia «violazione, errata interpretazione ed eccesso di potere in relazione all’art. 36, n. 1, del Codice Deontologico forense (già art. 21 del VCDF)».
Lo — deduce di avere assistito le società facenti capo all’ATI — fin dall’anno — e di averle informate della mancanza di abilitazione per il patrocinio avanti alle giurisdizioni superiori; aggiunge che le stesse gli avevano chiesto di indicare loro un avvocato abilitato e, in forza del rapporto di fiducia e della complessità delle vicende sottese alle controversie, di affiancare i difensori abilitati per il compimento di attività di raccordo e di supporto; precisa che tale affiancamento si era sviluppato mediante incontri personali o telefonici con gli avvocati abilitati, ma non aveva mai riguardato attività difensive o la partecipazione alle udienze (alle quali egli aveva assistito nel settore dedicato al pubblico); sostiene che la sottoscrizione degli atti difensivi da parte sua non aveva «causato conseguenza alcuna sugli atti stessi (vitiatur sed non vitiat)»; tanto premesso, censura la sentenza impugnata per aver affermato che tali circostanze non erano idonee a determinare l’insussistenza dell’elemento oggettivo dell’illecito disciplinare, potendo al più costituire motivo di valutazione in ordine alla sanzione da irrogare; evidenzia, al riguardo, che il principio di proporzionalità costituisce un canone di valenza costituzionale (oltreché conforme alla giurisprudenza della CEDU) che vale anche in ambito di responsabilità disciplinare e che l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito «non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità», atteso che «la violazione della regola della proporzionalità da parte dell’organo sanzionatore comporta l’illegittimità della sanzione irrogata»; rileva che lo stesso CNF aveva riconosciuto che le particolari circostanze risultanti dagli atti avevano evidenziato come la condotta del ricorrente non avesse in concreto recato offesa ad alcuno ed era anche mancato completamente lo “strepitum fori”, cosicché difettava «totalmente il requisito dell’offensività, che è uno dei presupposti su cui parametrare la misura della sanzione sulla base del principio della proporzionalità»; conclude, quindi, che «la decisione impugnata, che ha ritenuto valida una sanzione irrogata in difetto di alcuna offensività in concreto della condotta, ma solo sulla base della astratta previsione normativa, [è] illegittima, e la sentenza emessa viziata per violazione della norma incriminatrice -interpretata secondo il principio della proporzionalità-, ed emessa in eccesso di potere»;
2.1. Il motivo è inammissibile, in quanto volto ad una rivisitazione del merito della controversia che -nelle intenzioni del ricorrente- dovrebbe ruotare intorno al principio di proporzionalità e dovrebbe pervenire alla conclusione l’inoffensività della condotta tenuta dal professionista non abilitato nell’espletamento dell’attività di “affiancamento” all’avvocato abilitato.
Va considerato, peraltro, che:
– il criterio della proporzionalità non risulta di per sé idoneo ad escludere la rilevanza del dato oggettivo dell’espletamento dell’attività, apparendo piuttosto funzionale ad una censura sull’adeguatezza della sanzione applicata che, tuttavia, non è stata specificamente svolta in questa sede; invero, il ricorrente ha inteso contestare la stessa configurabilità dell’illecito disciplinare, com’è reso manifesto dalla circostanza che abbia denunciato la violazione dell’art. 36 del Codice Deontologico Forense e dal fatto che abbia dichiarato (pag. 14) di censurare la parte della decisione che concerneva la sussistenza dell’elemento oggettivo dell’illecito disciplinare;
– neppure risulta postulabile il difetto di offensività di una condotta che, essendo espressamente vietata, risulta per ciò stesso valutata -a priori e in termini generali- come lesiva dei valori e degli interessi sottesi alla normativa deontologica.
3. Il ricorso va pertanto, nel complesso, rigettato:
4. Poiché l’intimato non ha svolto attività difensiva, non deve provvedersi sulle spese di lite.
5. Sussistono le condizioni per l’applicazione dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Roma, —.—.2023
Allegati:
SS.UU, 18 luglio 2023, n. 21069, in tema di illecito disciplinare
In tema di illecito disciplinare – SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19200
Civile Sent. Sez. U Num. 19200 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: DI PAOLANTONIO ANNALISA
Data pubblicazione: 06/07/2023
SENTENZA
sul ricorso 3295-2023 proposto da:
Meloni Rodolfo, rappresentato e difeso da sé medesimo;
– ricorrente –
contro
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione;
– intimati –
avverso la sentenza n. 250/2022 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 15/12/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/06/2023 dal Consigliere ANNALISA DI PAOLANTONIO;
lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO, il quale chiede che le Sezioni Unite della Corte di cassazione vogliano accogliere il quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri e cassare senza rinvio la sentenza impugnata per intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare.
FATTI DI CAUSA
1. Il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso proposto dall’avvocato Rodolfo Meloni avverso la decisione del 5 maggio/4 luglio 2017 del Consiglio Distrettuale di Disciplina di Cagliari che, ritenuta la responsabilità del ricorrente per i fatti contestati, aveva irrogato la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per la durata di mesi due.
2. Il Consiglio ha richiamato in premessa il contenuto del capo di incolpazione, con il quale era stata contestata la violazione del dovere di verità, imposto dall’art. 50 del Codice Disciplinare, per avere formato o fatto formare una scrittura falsa, recante la firma apocrifa di Pierluigi Dessalvi, della quale si era poi avvalso, producendola, in un processo civile pendente dinanzi al Tribunale di Cagliari.
Ha precisato che il procedimento era stato avviato, con delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari (COA) del 27 marzo 2007, a seguito della notizia, appresa dalla stampa, inerente alla pendenza di un procedimento penale a carico dello stesso Meloni, il quale, invitato dal Consiglio a fornire chiarimenti, con memoria del 27 aprile 2007 aveva negato ogni addebito e sollecitato la sospensione del procedimento disciplinare sino alla definizione di quello penale.
Il procedimento era stato, quindi, sospeso e, successivamente, a seguito dell’entrata in funzione dei Consigli Distrettuali di Disciplina (CDD), gli atti erano stati trasmessi al nuovo organo disciplinare, che, avuta conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per il delitto di falso in scrittura privata, aveva disposto la riapertura del procedimento, accertato la condotta ascritta all’incolpato e inflitto la sanzione sopra indicata.
3. Il Consiglio ha riassunto i plurimi motivi di ricorso proposti dal Meloni in relazione ad entrambe le fasi del procedimento e li ha ritenuti tutti infondati, evidenziando che:
a) non era spirato il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 51 del R.d.l. n. 1578/1939, applicabile alla fattispecie ratione temporis, perché il dies a quo deve essere individuato nella data del passaggio in giudicato della sentenza penale (18 dicembre 2013) e ciò anche nell’ipotesi in cui il procedimento sia stato avviato in epoca antecedente e sospeso;
b) occorreva, inoltre, tener conto della natura permanente dell’illecito, che era cessata solo con la decisione di primo grado risalente al luglio 2017;
c) la sospensione, sollecitata dallo stesso Meloni, era obbligatoria in presenza di un fatto contestato in sede penale sovrapponibile a quello ritenuto di rilievo disciplinare, e nessun rilievo poteva avere la circostanza che al momento dell’adozione dell’atto non fosse stato ancora disposto il rinvio a giudizio;
d) legittimamente il COA aveva esercitato il potere di promuovere d’ufficio l’azione disciplinare e non aveva leso il diritto di difesa, sebbene la prima contestazione non fosse del tutto specifica, perché: l’incolpato era stato sentito; su sollecitazione dello stesso il procedimento era stato sospeso; al momento della riattivazione era stato pienamente assolto l’onere di specificità della contestazione;
e) non era stato violato l’art. 17, comma 2, del Regolamento di disciplina, in quanto la richiesta di audizione era stata formulata quando già era spirato il termine previsto dalla norma regolamentare;
f) il procedimento era stato riavviato tempestivamente, poiché solo il 14 ottobre 2015 era stata acquisita la sentenza penale passata in giudicato;
g) i plurimi profili di illegittimità prospettati dal ricorrente andavano tutti disattesi o perché insussistenti, o perché si era a fronte di irregolarità, sprovviste di sanzione, che non avevano leso il diritto di difesa dell’incolpato;
h) il giudicato penale aveva accertato il fatto e la responsabilità del Meloni non poteva essere esclusa solo perché il difensore aveva successivamente rinunciato ad avvalersi della prova falsificata;
i) la sentenza penale non era stata travolta, pienamente e con efficacia retroattiva, dall’ordinanza del 20 aprile 2016 con la quale il Tribunale di Cagliari aveva revocato la condanna ex art. 673 cod. proc. pen., perché l’intervenuta depenalizzazione non poteva essere equiparata all’assoluzione dell’imputato con formula piena e lasciava impregiudicato l’accertamento sul fatto e sulla commissione dello stesso da parte dell’incolpato;
l) la sanzione inflitta era adeguata alla gravità ed alla natura della condotta illecita, da valutare anche alla luce della disciplina dettata dall’art. 50 CDF, che può integrare utile parametro di raffronto.
4. Per la cassazione della sentenza l’avvocato Rodolfo Meloni ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi, articolati in più punti, ai quali non ha opposto difese l’Ordine degli Avvocati di Cagliari, rimasto intimato.
5. L’Ufficio della Procura Generale ha depositato requisitoria scritta ed ha concluso per l’accoglimento del quarto motivo di ricorso, con assorbimento delle ulteriori censure.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., il ricorrente denuncia «violazione e falsa applicazione degli artt. 47 1° comma RD 37/1934 e 38 1° comma RDL 1578/33 anche in relazione agli artt. 24, 111 3°c., 97 Cost. e/o eccesso di potere» nonché nullità della sentenza per violazione degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., 111 Cost. anche in relazione all’art. 64 1° comma R.d. n. 37/1934.
Il ricorrente deduce che la deliberazione di avvio del procedimento del 27 marzo 2007 e la nota del 12 aprile 2007, comunicata dal COA, non contenevano alcuna specificazione della condotta di rilievo disciplinare, perché si limitavano ad un generico richiamo dei « fatti per i quali è stato recentemente rinviato a giudizio», rinvio a giudizio che, tra l’altro, all’epoca non era stato ancora disposto.
Addebita alla decisione impugnata di non avere colto il significato ed il contenuto del motivo di impugnazione e deduce che doveva essere accertata l’illegittimità dell’atto perché abnorme, viziato da eccesso di potere e, comunque, privo dei requisiti richiesti dalle norme indicate in rubrica.
Eccepisce la nullità della sentenza gravata sotto il profilo della mancanza della motivazione, nella specie inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione.
Evidenzia, infine, che l’accoglimento del motivo determina «come precipitato giuridico l’inesistenza di atti interruttivi della prescrizione e l’illegittimità della sospensione del procedimento».
2. La seconda critica, ricondotta al vizio di cui al n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ., eccepisce la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 295, 296, 305 cod. proc. civ., in relazione all’art. 44, comma 1, del R.d. n. 1578/1933, degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., in relazione all’art. 65 del R.d. n. 37/1934.
Il ricorrente, ribadito che la sospensione non poteva essere disposta rispetto ad un illecito disciplinare non identificato, addebita al C.N.F. di avere affermato la sovrapponibilità dei fatti a quelli oggetto di accertamento in sede penale, senza indagare il contenuto della notizia appresa dalla stampa locale, che si riferiva unicamente all’ipotizzato delitto di estorsione, dal quale poi l’imputato era stato assolto.
Sostiene che la sospensione, illegittima per le ragioni già dette, poteva al più operare con riferimento al delitto in parola e non a quello di falso, al quale, evidentemente, non poteva all’epoca essere riferita l’iniziativa disciplinare.
Deduce, in sintesi, che la sospensione, seppure sollecitata dallo stesso Meloni, in assenza delle condizioni richieste dall’art. 295 cod. proc. civ., doveva essere qualificata volontaria ex art. 296 cod. proc. civ., con la conseguenza che, decorsi quattro mesi, il procedimento doveva essere riattivato.
3. La terza critica, articolata in più punti e formulata ai sensi dei nn. 3, 4 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., denuncia «violazione degli artt. 295, 297, 305 c.p.c. in relazione agli artt. 65 1° comma L. 247/2012 e 1; nullità della sentenza dell’intero giudizio per violazione degli artt. 15 lett. c) e 17 lett. c) Reg. 2/14 in relazione all’art. 152 2 comma Cc e 10 co 4 Reg. 2/14 con riferimento all’art. 415 bis cpp e 111 3° comma Cost.; nullità della sentenza per violazione degli artt. 132 2° e 4° comma c.p.c. – 118 disp. att. c.p.c. in relazione all’art. 111 Cost.; violazione e falsa applicazione dell’art. 192 2°c c.p.p. e/o 2727-2729 c.c.; violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 48 1° comma RDL 1978/33 – 49 RD 27/1934 e 22 2° comma lett. c reg. 2/14 o in via alternativa omessa motivazione sulle deduzioni di prova e istruttorie; nullità della sentenza per violazione art. 112 cp.c. omessa pronuncia».
Deduce, in sintesi, il ricorrente che il procedimento disciplinare, sulla base della normativa applicabile ratione temporis, non poteva essere riattivato in assenza di una delibera del COA, non adottata nella fattispecie.
Aggiunge che dalla documentazione acquisita emergeva che il Consiglio dell’ordine aveva avuto notizia del passaggio in giudicato della sentenza penale ben prima della data indicata nella sentenza impugnata, perché era stato dato incarico all’avvocato Perra di seguire gli sviluppi del processo penale, processo al quale, tra l’altro, la stampa aveva dato ampio risalto. Rileva che assolutamente indispensabile era l’audizione del menzionato avvocato Perra ed aggiunge che, comunque, gli elementi già acquisiti avrebbero dovuto indurre il CNF a ritenere spirato il termine per la riassunzione, con conseguente estinzione del procedimento disciplinare. Sostiene che la prova dell’avvenuta conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza penale poteva essere desunta, in via presuntiva, da plurimi indizi, convergenti nel far ritenere che il COA fosse stato posto in condizione di riattivare il procedimento ben prima della produzione da parte dello stesso incolpato della sentenza definitiva.
Quanto, poi, agli atti compiuti successivamente alla trasmissione al CDD, ribadisce il ricorrente che la mancata audizione, richiesta con la memoria del 21 aprile 2016, comporta, al pari dell’omesso espletamento nel processo penale dell’interrogatorio richiesto ex art. 415 bis cod. proc. pen., la nullità dell’intero procedimento. Aggiunge che il termine previsto dall’art. 17 Reg. è ordinatorio, non perentorio, e, pertanto, l’attività sollecitata andava disposta anche se la memoria era stata tardivamente depositata, non assumendo alcun rilievo la circostanza che nel procedimento l’incolpato fosse stato posto in condizione di difendersi.
Rileva, poi, che l’atto di citazione richiamava unicamente l’incolpazione e non la richiesta del Consigliere istruttore e la delibera di rinvio a giudizio e, pertanto, poiché detti atti non erano mai stati prodotti, nonostante l’espressa richiesta, il CNF avrebbe dovuto ritenere che gli stessi non fossero stati adottati.
4. Il quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., addebita alla decisione impugnata la violazione e falsa applicazione dell’art. 51 del R.d.l. n. 1578/1933 in relazione agli artt. 295, 296, 297 cod. proc. civ., agli artt. 2935 e 2943 cod. civ., all’art. 111 Cost. e denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., dell’art. 111 Cost. sotto il profilo della «motivazione apparente e/o intrinsecamente e irrimediabilmente illogica e contraddittoria».
Il ricorrente censura il capo della sentenza che ha escluso la prescrizione dell’illecito disciplinare e rileva che ha errato il CNF nel valorizzare la natura permanente dello stesso, senza considerare che dagli atti emergeva l’avvenuta rinuncia ad avvalersi della produzione, rinuncia contenuta nella memoria ex art. 184 cod. proc. civ..
Assume, poi, che il principio secondo cui la prescrizione decorre, per i fatti oggetto di processo penale, dal passaggio in giudicato della sentenza non può operare qualora l’illecito risulti prescritto prima della formulazione dell’incolpazione.
Torna ad evidenziare, riprendendo argomenti già sviluppati nei primi due motivi di ricorso, che nella fattispecie, poiché la sospensione obbligatoria non poteva essere riferita al delitto di falso, il primo atto interruttivo riguardante detto illecito andava individuato nell’atto di incolpazione del 21 marzo 2016, intervenuto quando era maturata la prescrizione quinquennale, in ragione della cessazione della permanenza risalente al 29 gennaio 2007.
5. Con la quinta critica, ricondotta al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 653 e 673 cod. proc. pen., in relazione all’art. 2 cod. pen. ed all’art. 54 del Regolamento n. 2/2014. Rileva il ricorrente che ha errato il CNF nel ritenere applicabile l’art. 653 cod. proc. pen. anche alla sentenza di condanna, revocata a seguito della sopravvenuta depenalizzazione del reato.
Deduce che la revoca disposta ex art. 673 cod. proc. pen. fa venir meno ogni conseguenza negativa e pregiudizievole derivante dalla sentenza che, di conseguenza, non può più fare stato nei procedimenti disciplinari quanto all’accertamento dei fatti ed alla responsabilità dell’imputato.
6. Infine con la sesta censura è eccepita la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ravvisata nell’omessa pronuncia sul motivo di impugnazione con il quale era stato dedotto che, una volta esclusa l’efficacia vincolante del giudicato penale, in sede disciplinare andavano accertate la condotta e la responsabilità dell’incolpato.
Ribadisce che l’atto falso non era stato formato dal difensore, che aveva prontamente rinunciato ad avvalersi della produzione, sebbene nel processo civile non ne fosse stata contestata l’autenticità.
7. Nel rispetto dell’ordine logico e giuridico delle questioni deve essere esaminato con priorità il quarto motivo di ricorso, che censura entrambe le rationes decidendi sulla base delle quali il CNF ha escluso che fosse maturata l’eccepita prescrizione dell’illecito disciplinare.
Il motivo è infondato.
Occorre richiamare in premessa l’orientamento, ormai consolidato, di queste Sezioni Unite secondo cui con riferimento alla disciplina della prescrizione lo jus superveniens dettato dalla legge n. 247 del 2012 non trova applicazione, seppure più favorevole all’incolpato, e l’operatività del principio di retroattività della lex mitior resta limitato alla fattispecie incriminatrice e alla pena, sicché il momento di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione applicabile rimane quello della commissione del fatto e non quello della incolpazione ( cfr. fra le tante Cass. S.U. 14 settembre 2022 n. 26990; Cass. S.U. 30 novembre 2021 n. 37550; Cass. S.U. 16 luglio 2021 n. 20383; Cass. S.U. 28 febbraio 2020 n. 5596).
E’, quindi, applicabile alla fattispecie, nella quale viene in rilievo una condotta risalente all’anno 2004, l’art. 51 del R.d.l. n. 1578 del 1933, che fissa per la prescrizione dell’azione disciplinare il termine quinquennale. Queste Sezioni Unite, con orientamento anch’esso consolidato, hanno affermato che, ai fini della individuazione del dies a quo, rileva il combinato disposto con gli artt. 38 e 44 dello stesso R.d.l. ed occorre distinguere il caso, previsto dall’art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, da quello, disciplinato dall’art. 44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti reato, per i quali sia stata iniziata l’azione penale.
Nel primo caso, poiché l’azione disciplinare è collegata a ipotesi generiche e a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto. Nel secondo, invece, l’azione disciplinare: è collegata alla pronuncia penale, che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso; ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata una imputazione; ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto.
Se ne è tratta la conseguenza che la prescrizione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta (Cass. S.U. 13 maggio 2021 n. 12902; Cass. S.U. 4 gennaio 2020 n. 1609; Cass. S.U. 3 novembre 2017 n. 26148 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione), salva l’ipotesi in cui il termine quinquennale sia già interamente decorso al momento dell’esercizio dell’azione penale (Cass. S.U. 14 dicembre 2020 n. 28386; Cass. S.U. 7 novembre 2016 n. 22516).
Correttamente, pertanto, il CNF ha escluso che la prescrizione fosse maturata nella fattispecie, a prescindere dalla validità degli atti compiuti in epoca antecedente al passaggio in giudicato della sentenza penale, atteso che, pacificamente, l’evento esterno che segna il dies a quo della prescrizione, ossia la definitività dell’accertamento in ordine alla responsabilità penale, si era verificato nel dicembre del 2013 e, pertanto, il termine quinquennale non era decorso alla data della notifica dell’incolpazione, risalente al marzo 2016, né quel termine era spirato nelle more fra la commissione del fatto e l’esercizio dell’azione penale, giacché la condotta era stata realizzata nell’anno 2004 ed il rinvio a giudizio era stato disposto, come afferma lo stesso ricorrente, il 18 dicembre 2007.
Al riguardo va precisato che, una volta ancorato il dies a quo alla data del passaggio in giudicato della sentenza penale, non vale discorrere della validità di atti interruttivi o sospensivi posti in essere in epoca antecedente alla verificazione del fattore esterno, che rende doverosa l’azione disciplinare, giacché una questione di sospensione o di interruzione si può porre solo con riferimento ad un termine il cui decorso sia iniziato, evenienza, questa, che non ricorre, per quanto sopra detto, nella fattispecie ( cfr. Cass. S.U. 31 maggio 2016 n. 11367; Cass. S.U. 3 novembre 2017 n. 26148; Cass. S.U. 14 settembre 2022 n. 26990).
7.1. Il quarto motivo è, in conclusione, infondato nella parte in cui sostiene che l’orientamento richiamato dal CNF non sarebbe applicabile nei casi in cui l’illecito risulti prescritto prima della formulazione dell’incolpazione, sicché, una volta consolidata una delle due rationes decidendi della decisione impugnata, la formazione del giudicato interno rende inammissibile la questione, pure posta dal motivo, dell’idoneità a determinare la cessazione della permanenza del comportamento processuale tenuto dall’avvocato Meloni nel giudizio civile.
Costituisce, infatti, ius receptum il principio secondo cui, qualora la sentenza impugnata risulti sorretta da diverse rationes decidendi, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’inammissibilità o l’infondatezza del motivo di ricorso attinente ad una di esse rende irrilevante l’esame dei motivi riferiti alle altre, i quali non risulterebbero in nessun caso idonei a determinare la cassazione della sentenza impugnata, una volta consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura rigettata o dichiarata inammissibile ( cfr. fra le tante Cass. n. 13880/2020; Cass. n. 15399/2018; Cass. n. 11403/2018; Cass. n. 9752/2017).
8. Esclusa in radice, sulla base dell’orientamento richiamato nel punto che precede, la possibilità che la prescrizione potesse decorrere e maturare in epoca antecedente al dicembre 2013, anno di formazione del giudicato penale, vanno dichiarati inammissibili, per difetto di interesse all’impugnazione, il primo, il secondo e, parzialmente, il terzo motivo (con la sola eccezione della censura inerente alle violazioni che si sarebbero verificate dopo la ripresa del procedimento), perché, come riconosce lo stesso ricorrente, tutte le questioni poste in relazione alla legittimità dell’originaria contestazione e della sospensione del procedimento disciplinare nonché alla tempestività della riattivazione sono finalizzate a far escludere che fossero stati compiuti validi atti interruttivi o sospensivi.
Nel giudizio di cassazione opera il principio secondo cui l’interesse all’impugnazione, che deve essere valutato in relazione ad ogni singolo motivo, va apprezzato con riferimento all’utilità concreta che la parte può ricavare dall’eventuale accoglimento del gravame, ed inoltre non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica (che può venire in rilievo solo nei casi previsti dall’art 363 cod. proc. civ.), con la conseguenza che va escluso ogniqualvolta la dedotta violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, sia diretta all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico.
Il richiamato principio opera nella fattispecie, giacché in nessun caso eventuali vizi del procedimento verificatisi in epoca antecedente alla formazione del giudicato penale potrebbero indurre, quale conseguenza, l’invocato annullamento della sanzione disciplinare in ragione della maturazione della prescrizione, prescrizione che, lo si ripete, non poteva iniziare a decorrere prima del dicembre 2013.
9. E’ infondata la censura prospettata al punto 3 del terzo motivo.
Anche a voler prescindere dall’omesso rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ. ( il ricorrente non fornisce alcuna indicazione in merito alla localizzazione nel fascicolo degli atti sui quali la censura si fonda), va detto che la censura, nella parte in cui denuncia la nullità dell’atto di citazione, non considera la diversità fra la delibera di approvazione del capo di incolpazione di cui all’art. 16 del regolamento e la successiva deliberazione di rinvio a giudizio, disciplinata dall’art. 18 dello stesso regolamento, della quale non occorre fare menzione nella citazione, perché sia l’art. 59 della legge professionale, sia gli artt. 17 e 21 del regolamento prescrivono che all’incolpato sia data comunicazione, al momento dell’avvio dell’istruttoria ( e quindi non con la citazione) che segue alla fase preliminare, della deliberazione di approvazione del capo di incolpazione, non di quella di rinvio a giudizio né, tanto meno, della richiesta formulata dal consigliere istruttore.
9.1. Parimenti infondato è il motivo nella parte in cui pretende di far discendere la nullità dell’intero procedimento dall’omessa audizione dell’incolpato, non disposta sebbene sollecitata prima del rinvio a giudizio.
L’art. 59, lett. b) n. 2, della legge n. 247 del 2012 prevede che nella comunicazione diretta all’incolpato debba essere inserito « l’avviso che l’incolpato, nel termine di venti giorni dal ricevimento della stessa, ha diritto di accedere ai documenti contenuti nel fascicolo, prendendone visione ed estraendone copia integrale; ha facoltà di depositare memorie, documenti e di comparire avanti al consigliere istruttore, con l’assistenza del difensore eventualmente nominato, per essere sentito ed esporre le proprie difese. La data per l’interrogatorio è fissata subito dopo la scadenza del termine concesso per il compimento degli atti difensivi ed è indicata nella comunicazione». La successiva lettera c) stabilisce che «decorso il termine concesso per il compimento degli atti difensivi, il consigliere istruttore, qualora, per il contenuto delle difese, non ritenga di proporre l’archiviazione, chiede al consiglio distrettuale di disciplina di disporre la citazione a giudizio dell’incolpato» ed analoga disposizione è contenuta nell’art. 18 del regolamento.
Il legislatore, quindi, ha previsto una specifica scansione temporale del procedimento, sicché correttamente il CNF ha rilevato che, a prescindere da ogni altra considerazione, nessuna irregolarità poteva essere ravvisata nella fattispecie, perché la memoria contenente la richiesta di audizione era stata presentata quando già il termine concesso all’incolpato era scaduto.
Infondatamente il ricorrente richiama l’art. 415 bis cod. proc. pen., atteso che nel procedimento penale affinché l’omesso interrogatorio possa determinare nullità degli atti successivamente compiuti è necessario che la richiesta venga formulata dall’indagato nel termine concesso, il cui spirare determina l’irrimediabile consumazione della facoltà (Cass. 9 settembre 2015 n. 36430; Cass. 22 marzo 2016 n. 35342).
10. E’, invece, fondato, nei limiti di seguito precisati, il quinto motivo.
Il delitto di falsità in scrittura privata, nelle more fra la formazione del giudicato penale e la definizione del giudizio disciplinare, è stato depenalizzato dall’art. 4 del d.lgs. n. 7 del 2016 che, all’art. 12, ha previsto che «Se i procedimenti penali per i reati abrogati dal presente decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.».
Non è in discussione, e ne dà atto la decisione qui impugnata, che, in ragione dell’intervenuta abolitio criminis, la sentenza definitiva di condanna è stata revocata in sede esecutiva dal Tribunale di Cagliari.
E’ indubbio che la depenalizzazione, e la successiva revoca della sentenza di condanna, non abbiano fatto venir meno il carattere illecito della condotta né abbiano inciso retroattivamente sul regime della prescrizione dell’illecito disciplinare, che resta quello, di cui si è detto, applicabile ratione temporis.
Non è, invece, condivisibile la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che, in ragione dell’applicabilità dell’art. 653 cod. proc. pen., non era tenuto il giudice disciplinare a procedere ad un nuovo accertamento del fatto e della responsabilità dell’incolpato, già definitivamente acclarati in sede penale.
La disposizione citata, infatti, limita l’efficacia di giudicato alla sola sentenza penale di condanna, sicché, a seguito della revoca, che comporta l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, nel giudizio disciplinare non ancora definito non può più operare la regola di giudizio fissata dal secondo comma del richiamato art. 653 e torna ad espandersi il principio generale secondo cui il giudice disciplinare può e deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti (cfr. Cass. S.U. 13 maggio 2021 n. 12902), in relazione al quale la sentenza penale ed il materiale probatorio acquisito in quella sede possono essere utilizzati ai fini del giudizio.
La fondatezza del quinto motivo comporta l’assorbimento della sesta censura.
11. In via conclusiva merita accoglimento il solo quinto motivo, con conseguente assorbimento della sesta censura, e la pronuncia impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio al Consiglio Nazionale Forense che procederà ad un nuovo esame, attenendosi al principio di diritto enunciato nel punto che precede.
12. Le spese del giudizio di cassazione devono essere interamente compensate, in ragione della fondatezza solo parziale del ricorso.
13. Non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, con assorbimento della sesta censura. Rigetta il quarto motivo e dichiara inammissibili gli ulteriori motivi. Cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia al C.N.F. per un nuovo esame. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 6 giugno 2023
Allegati:
SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19200, in tema di illecito disciplinare
In tema di illecito disciplinare – SS.UU, 07 agosto 2023, n. 23990
Civile Sent. Sez. U Num. 23990 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: RUBINO LINA
Data pubblicazione: 07/08/2023
SENTENZA
sul ricorso 28767-2022 proposto da:
ARNONE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato DIEGO GALLUZZO;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI AGRIGENTO, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimati –
nonché
sul ricorso 28769-2022 proposto da:
ARNONE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato DIEGO GALLUZZO;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI AGRIGENTO;
– intimato –
avverso le sentenze nn. 187/2022 (per il ricorso r.g. 28767/2022) e n. 189/2022 (per il ricorso 28769/2022), entrambe del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE e depositate il 21/10/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/05/2023 dal Consigliere LINA RUBINO;
lette le conclusioni scritte dall’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO, il quale chiede che le Sezioni Unite della Corte vogliano rigettare i ricorsi.
FATTI DI CAUSA
1. Con delibera in data 12.2.2021 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati (d’ora innanzi, per brevità, COA) di Agrigento, su iniziativa del Procuratore generale di Palermo, operava la cancellazione dall’albo dell’ Avv. Giuseppe Arnone in quanto erano venuti meno i requisiti di iscrizione previsti dall’art. 17, comma 9, della legge n. 247 del 2012, per essere l’avvocato sottoposto al regime di semilibertà.
2. L’Avv. Arnone proponeva, in data 20.4.2021, ricorso al Consiglio Nazionale Forense (d’ora innanzi, per brevità, CNF) e lo sottoscriveva in proprio, conferendo anche mandato all’avv. Daniela Principato, non abilitata all’esercizio dinanzi alle giurisdizioni superiori. Nel merito, adduceva che non erano sussistenti le cause della operata cancellazione, attese le sostanziali differenze esistenti tra il regime di semilibertà, cui era sottoposto, e la sottoposizione all’esecuzione di pene detentive, ipotesi prevista dall’ordinamento professionale come causa di cancellazione dall’albo.
3. Il CNF, con sentenza n. 187 emessa in data 18.6.2022, dichiarava inammissibile il ricorso, per mancanza di ius postulandi, avendo l’avv. Arnone conferito mandato ad un avvocato non abilitato al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, senza che ciò potesse essere sanato dalla sottoscrizione in proprio del ricorso anche da parte dell’Arnone, in quanto lo stesso, al momento della sottoscrizione, era a sua volta privo di ius postulandi essendo stato sospeso.
La sentenza aggiungeva che in data 18 maggio l’impugnazione era stata rinunciata dall’Arnone, con conseguente stabilizzazione del provvedimento impugnato dalla data della pronuncia, in quanto l’impugnazione sospende l’esecutività della decisione e, finché essa non sia stata definita, gli effetti della cancellazione non sono destinati ad operare, a tutela del legittimo affidamento dei terzi che con l’avvocato si trovino a relazionarsi.
4. Alla medesima udienza del 18 giugno 2022, dinanzi al CNF, era chiamato e trattato, dopo il ricorso di cui sopra, un distinto ricorso avverso altro provvedimento disciplinare adottato nei confronti del dott. Arnone, del quale era stata disposta la radiazione perché ritenuto responsabile delle seguenti incolpazioni:
A) violazione degli artt. 52.1 e 53.1 in relazione all’art. 4.1 e 4.2 del Codice deontologico forense per aver violato il dovere di impostare i rapporti con i magistrati in servizio presso il Tribunale di Agrigento con dignità e rispetto e per aver violato il divieto di utilizzare espressioni offensive o sconvenienti nei confronti dei predetti magistrati ed in particolare per avere nelle memorie datate 4.2.2021 e depositate nel proc.n. 1865/14 MOd. 21 RG Tribunale di Agrigento definito il Procuratore dott. Luigi Patronaggio “delinquente in carica”, “criminale dal colletto bianco”, “il criminale Patronaggio” e per avere utilizzato le seguenti espressioni “in presenza di comprovate attività delinquenziali … sia dell ‘attuale Procuratore Capo di Agrigento Luigi Patronaggio”; “qui l’abuso costante ed abbagliante (delitto di abuso in atti d’ ufficio) è quello posto in essere da Luigi Patronaggio”; “oggi Patronaggio farebbe bene a costituirsi, a chiedere i domiciliari, ad incaricare il suo difensore a chiedere il patteggiamento”;”in carcere dovrebbe andare anche Luigi Patronaggio che sta consentendo la prescrizione ….per tutti i reati commessi dal medesimo . .., in primis la corruzione”, “ruolo delinquenziale di Luigi Patronaggio”; “Patronaggio garantisce la piena impunità alle persone da me denunziate; “reati commessi da Patronaggio per favorire Firetto” ·
B) violazione degli artt. 2.1, 4.2, 9.1, 9.2, 20, 21.1, 22 del Codice Deontologico Forense per aver assunto condotte tali da compromettere i doveri di probità, dignità e decoro cui deve essere ispirata la condotta dell’Avvocato nonché l’immagine della professione forense.
Fatti commessi in Agrigento il 4.02.2021».
Nel provvedimento impugnato dinanzi al CNF, il CDD aveva ritenuto manifesto il disvalore deontologico della condotta tenuta dall’Arnone, considerando come «la responsabilità disciplinare in relazione alla condotta dell’ Avv. Arnone appare di tutta evidenza, essendo stato travalicato – ampiamente – il limite entro cui avrebbe potuto manifestare il proprio pensiero e la linea difensiva», e aveva comminato la massima sanzione della radiazione, ritenendola adeguata tenuto conto della gravità dei fatti e della numerosissima quantità di precedenti disciplinari a carico del medesimo.
5. In relazione alla decisione del CDD di cui al precedente punto 4. l’avv. Arnone proponeva due ricorsi:
1) un primo ricorso, depositato in data 3.3.2022 e sottoscritto personalmente dall’Avv. Arnone e dall’Avv. Daniela Principato, non cassazionista, munita di procura;
2) un secondo ricorso, di contenuto identico, depositato in data 4.3.2022 e sottoscritto unicamente dall’Avv. Francesco Menallo, cassazionista e munito di procura.
6. IL CNF dichiarava il primo ricorso inammissibile, risultando sottoscritto personalmente dall’Avv. Arnone, sospeso dall’albo a far data dal 28 gennaio 2021 in ragione dell’esecuzione di una serie di precedenti sanzioni. Affermava che il difetto di jus postulandi dell’incolpato non risultava sanabile dal conferimento della difesa all’avv. Daniela Principato, munita di procura speciale, ma non abilitata all’esercizio innanzi alle giurisdizioni superiori, in quanto l’art. 182 c.p.c risulta applicabile innanzi al CNF soltanto dove sussista la possibilità «di regolarizzazione in favore del soggetto o del suo procuratore già costituiti in giudizio» (per prima e tra le tante Cass. S.U. 27 aprile 2017, n. 10414), circostanza non ricorrente nel caso di specie.
6.1. Esaminava invece, ritenendolo ammissibile, il secondo ricorso, proposto dall’avv. Arnone con il patrocinio dell’Avv. Francesco Menallo, identico al primo nei contenuti, rilevandone la tempestività e ricordando che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il principio di consumazione dell’impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di impugnazione immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, purchè esso sia tempestivo.
6.2. Il ricorso veniva quindi trattato e deciso, nonostante l’opposizione dello stesso Arnone che chiedeva si dichiarasse l’estinzione del procedimento per intervenuta sua cancellazione dall’Albo, con la sentenza n. 187 del 2022 adottata dal CNF nell’ambito della medesima udienza e qui separatamente impugnata.
6.3. Dopo averlo ritenuto ammissibile, il CNF, con la sentenza n. 189\2022, emessa in data 18.6.2022, rigettava nel merito il ricorso del dott. Arnone contro il provvedimento di radiazione, ritenendo che le espressioni utilizzate numerose volte dallo stesso, come già esattamente rilevato già dal CDD, superassero senza ombra di dubbio i limiti della critica, sia pur aspra, all’operato di un’autorità giudiziaria e apparissero senz’altro meritevoli della sanzione disciplinare, confermata nella misura massima della radiazione stante la quantità di procedimenti disciplinari a carico del medesimo.
7. In questa sede il dott. Giuseppe Arnone ha proposto due separati ricorsi, ciascuno articolato in tre motivi, l’uno per la cassazione della sentenza n. 187 del 2022 (con la quale si è dichiarato inammissibile il suo ricorso contro il provvedimento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Agrigento che ne aveva disposto la cancellazione dall’Albo degli Avvocati), che ha preso il n.28767\2022 di iscrizione al ruolo generale, e l’altro per la cassazione della sentenza n. 189 del 2022, con la quale si è confermata la sua radiazione (iscritto al n. 28769\2022 del ruolo generale).
Entrambe le sentenze sono state emesse dal Consiglio Nazionale Forense in data 18.6.2022 e notificate al ricorrente in data 27.10.2022.
8. La Procura generale ha depositato conclusioni scritte con le quali chiede il rigetto di entrambi i ricorsi.
9. L’intimato Consiglio dell’ordine territoriale non ha compiuto attività difensiva in questa sede.
10. Chiamate entrambe le cause all’udienza pubblica del 23 maggio 2023, si è disposta la riunione del secondo ricorso, r.g. 28769, proposto avverso la seconda sentenza (n.189\2022), a quello recante r.g. 28767\2022, proposto contro la prima sentenza (n.187\2022) ed iscritto a ruolo per primo, ai sensi dell’art. 274, secondo comma, cod. proc. civ., stante la connessione sia soggettiva che oggettiva tra le cause, relative a provvedimenti disciplinari irrogati nei confronti di uno stesso professionista, definiti in sede di impugnazione dal CNF nell’ambito della stessa udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso n. 28767\2022 avverso la sentenza n. 187\2022
1.Con il primo motivo del ricorso avverso la sentenza n. 187, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 591 c.p.p., sostenendo che la declaratoria di inammissibilità del proprio ricorso avverso il provvedimento di cancellazione avrebbe dovuto comportare la stabilità degli effetti della sua cancellazione dall’Albo a partire dal passaggio in giudicato del provvedimento del COA di Agrigento, 14 aprile 2021, o, in subordine, dalla data della propria rinuncia all’impugnazione, 18 maggio 2022, e non, in ogni caso, contrariamente a quanto affermato dal CNF, dalla data della sentenza.
2. Con il secondo motivo, si denuncia l’eccesso di potere in cui sarebbe incorso il CNF, in quanto a fronte della rinuncia all’impugnazione e alla stessa inesistenza dell’impugnazione, non avrebbe potuto ritenere il ricorrente validamente iscritto fino al 18 giugno 2022.
3. Con il terzo motivo denuncia “la violazione degli artt. della Costituzione italiana che garantiscono il diritto di difesa, a partire dall’art. 27, nonché l’art. 1 della legge n. 247 \12, che sancisce il rispetto dei principi costituzionali e comunitari, e quindi sempre il diritto di difesa”. Sostiene il ricorrente che, giacché era stato già cancellato in via definitiva dall’albo degli avvocati, non aveva alcun titolo neanche per comparire e difendersi all’udienza del 18.6.2022, ove, in assenza di alcuna difesa, si è disposta la sua radiazione dall’albo.
Il ricorso n. 28769\2022 avverso la sentenza n. 189 del 2022
Con il primo motivo, il ricorrente formula una censura di eccesso di potere, ritenendo che il CNF, allorchè ha pronunciato la sentenza n. 189 del 2022, fosse ormai privo del potere di disporre sanzioni nei suoi confronti, non risultando più il dott. Arnone iscritto ad alcun albo forense nel momento in cui veniva giudicato: la cancellazione dall’albo era divenuta definitiva il 14 aprile 2021, o alla data della rinuncia all’impugnazione, 18 maggio 2022, o, al più, in pari data a quella del giudizio sulla radiazione dinanzi al CNF, ma prima che fosse esaminato il ricorso relativo alla radiazione.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione della legge n. 247 del 2012, nella parte in cui si sottopone ai poteri del CNF la situazione di un soggetto già cancellato dall’albo professionale.
Con il terzo motivo denuncia “la violazione degli artt. della Costituzione italiana che garantiscono il diritto di difesa, a partire dall’art. 27, nonché l’art. 1 della legge n. 247 \12, che sancisce il rispetto dei principi costituzionali e comunitari, e quindi sempre il diritto di difesa”. Aggiunge che le predette norme sono state violate perché il dott. Arnone, già cancellato in via definitiva dall’albo degli Avvocati, non aveva alcun titolo neanche per comparire e difendersi all’udienza del 18.6.2022, ove in assenza di alcuna difesa, si è confermata la sua radiazione.
All’esito della pubblica udienza del 23 maggio 2023 si è disposta la riunione delle due cause, cui invero ben avrebbe dovuto provvedere il Giudice del merito disciplinare, in quanto non soltanto si tratta di decisioni disciplinari nei confronti di un medesimo professionista, ma esiste una stretta connessione oggettiva, enfatizzata, nella sua rilevanza, dalla complessiva linea difensiva adottata dal ricorrente: il dott. Arnone sostiene che, avendo rinunciato ad impugnare il provvedimento di cancellazione in data 15 maggio 2022, con rinuncia inserita nel procedimento definito con sentenza del CNF n. 187 del 2022, il ricorso con cui si impugnava la radiazione non avrebbe dovuto essere neppure fissato nè tanto meno esaminato nel merito dal CNF. Invece, malgrado tale rinuncia, il Consiglio Nazionale Forense riteneva di fissare nella medesima udienza del 18 giorno 2022 la discussione in ordine sia al ricorso avverso la cancellazione sia la discussione dell’altro ricorso, avverso il provvedimento di radiazione.
Il ricorrente evidenzia che, avendo rinunziato all’impugnazione avverso la cancellazione, non risultava più iscritto all’albo professionale nel momento in cui si è discussa la sua radiazione, e non aveva più alcun titolo neanche per poter presenziare all’udienza, non essendo più iscritto all’albo forense.
Per cui, sostiene il ricorrente che il procedimento avente ad oggetto la radiazione doveva essere dichiarato estinto, quanto meno perché la decisione relativa alla cancellazione, come comprova il numero progressivo 187 della relativa sentenza, era stata adottata prima della decisione in merito alla radiazione (che porta il numero progressivo 189), e nella prima decisione si riportavano le due circostanze sopra indicate, ovvero la rinuncia alla impugnazione e l’impugnazione sottoscritta da parte di difensore non abilitato.
Da questa premessa si dipartono le tre censure contenute e brevemente illustrate nei ricorsi.
Ciò premesso, i motivi di cui al ricorso n. 28769\2022, che devono logicamente essere esaminati per primi, sono infondati.
Il rapporto tra la cancellazione dall’albo, sia essa volontaria o officiosa e i procedimenti disciplinari a carico degli avvocati è regolato dalla attuale legge professionale nel senso che una volta avviati i prodromi di un procedimento disciplinare, esso debba andare avanti e non possa essere evitato a mezzo di una eventuale cancellazione dall’albo, che, comunque, nelle more non può essere disposta.
L’art. 57 della legge n.247 del 2012 (denominato “divieto di cancellazione”) dispone infatti che durante lo svolgimento del procedimento disciplinare, dal giorno dell’invio degli atti al consiglio di disciplina (quindi da un momento ancora antecedente rispetto all’apertura vera e propria del procedimento disciplinare) non può più essere deliberata la cancellazione dall’albo dell’incolpato; l’art. 17, 16° comma, prevede che non si può pronunciare la cancellazione quando sia in corso un procedimento disciplinare, salvo quanto previsto dall’art. 58.
L’attuale disciplina professionale si pone in sostanziale continuità con la precedente, in quanto già l’art.37, comma 8, del R.d.l. n. 1578 del 1933 poneva il divieto di pronunciare la cancellazione dall’albo degli avvocati, anche nel caso di richiesta di cancellazione volontaria, qualora fosse in corso, a carico dell’avvocato, un procedimento penale o disciplinare, sicché l’istanza dell’interessato non avrebbe avuto effetto sospensivo del giudizio relativo alla radiazione (v. Cass. Sez. U. 2015 n.15574); essa sposta però ad un momento antecedente rispetto al momento della apertura vera e propria del procedimento disciplinare il divieto di cancellazione.
La disposta cancellazione non spiegava quindi alcuna efficacia sospensiva o interruttiva del distinto procedimento disciplinare relativo alla radiazione, né tanto meno determinava la cessazione della materia del contendere in relazione a quest’ultimo.
Si aggiunga che, quanto alla dedotta stabilità o definitività ormai assunta dal provvedimento sulla cancellazione, esso era ancora soggetto ad impugnazione, tant’è che è stato impugnato dallo stesso ricorrente con il ricorso che ha preso il numero di ruolo n. 28767\2022.
Il rigetto del ricorso sulla radiazione e la conseguente definitività del provvedimento di radiazione del dott. Arnone dall’albo degli avvocati produce l’assorbimento dei motivi di ricorso relativi alla cancellazione dall’albo dello stesso dott. Arnone, dedotti con il ricorso n. 28767\2022.
Nulla sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.
I ricorsi riuniti sono stati proposti in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte, giudicando sui procedimenti riuniti, dispone il rigetto dei motivi di cui al ricorso n. 28769\2022 del ruolo generale, dichiara assorbiti i motivi di cui al n. 28767\2022 del ruolo generale.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 23
Allegati:
SS.UU, 07 agosto 2023, n. 23990, in tema di illecito disciplinare
In tema di illecito disciplinare – SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20650
Civile Sent. Sez. U Num. 20650 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 17/07/2023
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 29360/2022 R.G. proposto da:
NENNA MAURIZIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE GORIZIA 14, presso lo studio dell’avvocato SINAGRA AUGUSTO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MINISCI LORENZO
-ricorrente-
contro
CONSIGLIO ORDINE AVVOCATI di ROMA
-intimato-
avverso la SENTENZA del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE n. 240/2022 depositata il 03/12/2022.
Viste le conclusioni motivate, ai sensi dell’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni nella legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile a norma dell’art. 8, comma 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito con modificazioni nella legge 24 febbraio 2023, n. 14), formulate dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale FRANCESCO SALZANO.
Udita la relazione svolta nell’udienza del 23/05/2023 dal Consigliere ANTONIO SCARPA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale FRANCESCO SALZANO, il quale ha chiesto di rigettare il ricorso;
udito l’Avvocato AUGUSTO SINAGRA.
FATTI DI CAUSA
1. L’avvocato Maurizio Nenna ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 240/2022 del Consiglio Nazionale Forense, pubblicata il 3 dicembre 2022.
L’intimato Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma non ha svolto attività difensive.
2. Il Consiglio Nazionale Forense ha respinto il ricorso presentato dall’avvocato Maurizio Nenna contro la decisione n. 102/2019, emessa in data 30 ottobre -19 dicembre 2019, dal Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense (CDD) del distretto della Corte d’appello di Roma, che gli ha inflitto la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione forense per mesi venti.
3. In data 7 marzo 2013 il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati (COA) di Roma deliberò l’apertura del procedimento disciplinare nei confronti del ricorrente avvocato Maurizio Nenna con i seguenti capi di incolpazione:
“1) per avere, nel processo penale n. 35222/07 N.R., l’Avv. Maurizio Nenna, difensore di fiducia dell’imputato Ing. Pompei Eugenio, per il reato di bancarotta fraudolenta, rinunziato al mandato nel giugno 2008, in prossimità della data fissata per l’Udienza Preliminare, dopo aver incassato due acconti dal Sig. POMPEI (il primo in data 9 maggio 2008, seguito dall’altro in data 23 maggio 2008). In questo modo, l’Avv. NENNA, anziché formalizzare la propria rinunzia al mandato con congruo anticipo rispetto all’udienza, impediva all’imputato di organizzare ai meglio la propria difesa, attraverso la nomina di altro difensore, In violazione dell’art.47 del Codice Deontologico Forense (ora art. 32 NCDF). In Roma, nel giugno 2008 (prescrizione ripetutamente interrotta).
2) Per aver – con le condotte di tempo e di luogo descritte nei capi d’imputazione penale che seguono e parzialmente accertate con sentenza del Tribunale penale monocratico di Roma II sezione emessa il 28.5.2014 n.9747 con la quale, per i reati di cui ai capi d’imputazione “a”-“b”-“d”-“e”-, riportava condanna alla pena di anni uno e mesi sette di reclusione (assolto ex art. 530/2° CPP per i capi “c”-“f”) – leso le prerogative e le funzioni dell’Ordine Forense nonché la dignità e decoro professionale in violazione dell’art. 38 /1° c. RDL n.1578/1933 (ora art. 3/2°c. L.247/12) nonché ulteriormente violato gli artt. 3-5/1° inciso e I^ c.-6-7-35-41-44 previgente CDF (ora rispettivamente artt. 4/1-2°c-9-10-11/2°c. -30/1° e 2° c.-31 NCDF). Con l’aggravante della particolare gravità delle condotte ex art. 2/II° c. previgente CDF (ora art.22/2°c. NCDF).
“ a) per i reati di cui agli artt. 81, 646, 61 n.7 e n.11 c.p. perché in esecuzione di un medesimo disegno criminoso con i reati di cui ai capi che seguono, al fine di procurare a sé un ingiusto profitto, si appropriava della somma di euro 21.500,00 della quale aveva il possesso in qualità di legale della Meta Corsi S.r.l. e che gli era stata fatta pervenire mediante bonifico bancario da Eugenio Pompei, Amministratore della Meta Corsi al fine di versarla alla Banca MPS Gestioni Crediti Banca Spa, quale importo per la transazione con la Banca per la procedura esecutiva relativa al procedimento civile n. R.G. 22223/02.
In Roma in data prossima al 5.5.2006.
b) Per il reato di cui agli artt. 81, 486, 61 n.11 c.p., perché in esecuzione di un medesimo disegno di legge criminoso al fine di procurare a sé un vantaggio, più volte abusava di fogli firmati in bianco da Pompei Eugenio, amministratore della Meta Corsi S.r.l., firme rilasciate nell’ambito dell’attività professionale da lui svolta come legale di Pompei e della Meta Corsi ai fini di corrispondenza, in particolare:
– vi iscriveva una scrittura privata di riconoscimento di debito pari ad euro 123.616,00 al lordo dell’acconto di euro 21.500,00 versato, con imputazione della somma di euro 21.500,00 (di cui al capo A) versata da Pompei per accedere ad una transazione a pagamento di prestazioni professionali recante la data del 29 marzo 2007;
– vi iscriveva una scrittura privata di riconoscimento di debito, in cui sollevava l’Avv. NENNA da ogni responsabilità riconoscendo la correttezza del suo operato recante data del 5 giugno 2008;
– vi iscriveva una scrittura privata di riconoscimento di debito in cui sollevava l’Avv. NENNA da ogni responsabilità riconoscendo la correttezza del suo operato recante la data del 31 agosto 2008.
Tutti atti, in particolare quello con data riportata del 29 marzo 2007, erano successivamente utilizzati per ottenere l’emissione nei confronti del POMPEI Eugenio del decreto ingiuntivo n.12088/07 dei Tribunale di Roma.
In Roma, in data anteriore e prossima al 20 aprile 2007 in cui veniva richiesto il decreto ingiuntivo.
c) Per i reati p. e p. dagli artt. 81, 485, 61 n.11 c.p., perché in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, al fine di procurare a sé un vantaggio, formava un atto falso avente ad oggetto la rinuncia alla procedura esecutiva instaurata dalla MPS Gestione Crediti Banca S.p.A. nei confronti di Eugenio POMPEI e recante firma dell’Avv. Massimo Luconi, facendone uso mediante invio, a mezzo posta, ad Eugenio Pompei.
In Roma, 6 novembre 2006.
d) Per i reati p. e p. dagli artt. 81 e 380 c.p., perché in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, si rendeva infedele ai suoi doveri professionali, intervenendo personalmente (quale creditore) nella procedura esecutiva n.181/06 incardinata dinanzi al Tribunale di Roma, Sezione esecuzioni immobiliari nei confronti di Eugenio POMPEI, arrecando così danno a quest’ultimo in quanto da lui assistito innanzi alla medesima Autorità e nel medesimo procedimento.
In Roma 31.7.2007.
e) Per i reati di cui all’art 368 c.p. perché con più atti di querela inviati per raccomandata presso la Procura di Roma, di cui il primo datato 16 luglio 2008, poi 2 agosto 2008, 8 settembre 2008, 16 settembre, 21 febbraio 2009, 2 marzo 2009, accusava ingiustamente, pur sapendolo innocente, il suo ex cliente (e controparte nel procedimento esecutivo in cui si era insinuato) POMPEI Eugenio di calunnia in relazione alle denunce che Pompei aveva presentato nei suoi confronti, tanto da far iniziate un procedimento penale nei confronti di POMPEI.
In Roma, alle date suindicate.
f) Per i reati p. e p. dagli artt. 110, 81 e 381 c.p. perché in concorso tra loro, nella procedura esecutiva n.181/06 incardinata dinanzi al Tribunale di Roma sezione esecuzioni Immobiliari nei confronti di Eugenio POMPEI, facevano in modo che l’Avv. NENNA prestasse contemporaneamente per il tramite dell’Avv. Stefania Giacchero, sua collaboratrice di studio, il suo patrocinio a favore di parte contraria nel medesimo procedimento. In particolare, l’Avv. NENNA prestava attività di patrocinatore di POMPEI nel giudizio civile di cognizione (opposizione a decreto ingiuntivo della banca MPS), seguendolo anche nella fase transattiva volta alla definizione extraprocessuale della causa, fino alla revoca del mandato in data 12 giugno 2008, in sede di procedura esecutiva promossa dalla Banca MPS, mentre la sua collaboratrice di studio praticante legale, Dott. Stefania Giacchero patrocinava l’interveniente Giulio Palumbo, nella medesima procedura esecutiva, redigendo in data 21 giugno 2007 atto di intervento.
In Roma nella data indicata dell’atto di rinuncia”.
Condanna parzialmente riformata dalla Corte di Appello sez. III^ penale in data 18.10.2016 n. 8464 per intervenuta prescrizione per il capo “a” (con conferma delle statuizioni civili e quindi della responsabilità penale), intervenuta depenalizzazione per il capo “b” (confermata declaratoria di falsità delle scritture), assolto per il capo “d”, confermata assoluzione per i capi “c”-“f”, confermata condanna per il capo “e”, con rimodulazione della pena in anni uno e mesi quattro di reclusione oltre ad una provvisionale provvisoriamente esecutiva in favore della parte offesa pari ad € 20 mila. Sentenza divenuta irrevocabile in data 19.9.2017 a seguito di declaratoria di inammissibilità da parte della Corte di Cessazione Sez. VI^ penale n. 49725”.
4. La sentenza impugnata espone che il procedimento disciplinare fu originato da un esposto presentato al COA di Roma in data 13 ottobre 2011 da Eugenio Pompei, il quale riferì di aver sporto denuncia penale nei confronti dell’avvocato Nenna, suo ex difensore di fiducia, accusandolo di una pluralità di condotte illecite, poi oggetto del procedimento penale n. 35507/08, definito con le sentenze richiamate.
Il COA di Roma emise atto di citazione a giudizio il 12 febbraio 2014 per l’udienza del 5 giugno 2014. Il procedimento fu quindi trasmesso all’istituito Consiglio Distrettuale di Disciplina di Roma. Seguì la richiesta di citazione a giudizio, approvata nella seduta del 17 maggio 2019. Alle udienze dibattimentali vennero acquisite le sentenze penali di primo, secondo e terzo grado di giudizio e si procedette all’esame dei testimoni. All’esito dell’udienza del 30 ottobre 2019, il CDD di Roma, rigettata l’eccezione di prescrizione dell’azione disciplinare, ritenne:
– non sussistente l’incolpazione di cui al capo 1);
– non sussistente l’incolpazione di cui al capo 2) limitatamente alla contestazione della violazione dell’art. 31 NCDF, con conseguente non luogo a provvedimento disciplinare in relazione a tali capi di incolpazione;
– sussistenti, in relazione al capo 2) di incolpazione, le violazioni deontologiche di cui agli artt. 4, 9, 10, 11 e 30, commi 1 e 2, del NCDF.
Il CDD inflisse così all’avvocato Nenna la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per mesi venti, ritenendo sussistente la violazione dell’art. 30, commi 1 e 2, nonché la violazione degli artt. 4, 9, 10 e 11 del Codice Deontologico, con l’aggravante di cui all’art. 22, comma 2, lett. c), della legge n. 247 del 2012, per aver l’incolpato, con il suo comportamento, leso il prestigio e l’onore della classe forense, ponendo in essere condotte biasimevoli ed eticamente scorrette.
Le accuse, ad avviso del CDD, avrebbero trovato conferma negli esiti del giudizio penale, nel quale risultavano accertati o acquisiti: l’impossessamento, da parte dell’avvocato Nenna, di una somma di denaro affidatagli dal cliente per la definizione stragiudiziale di una procedura immobiliare; la prova documentale dei bonifici eseguiti dall’ingegnere Pompei nell’anno 2006 sul conto corrente del professionista e recanti la causale “pro quota precetto MPS-Metacorsi” e, dunque, per la conclusione transattiva con l’Istituto Bancario; la circostanza che tale transazione non avesse mai avuto luogo (avendo l’esponente scoperto anni dopo che il versamento non era stato eseguito), ad attestare l’illecita ritenzione delle somme da parte del professionista.
Per il CDD, la tesi sostenuta dall’avvocato Nenna, secondo cui il Pompei ebbe a corrispondere tali somme per pagare prestazioni professionali, non sarebbe stata verosimile, sia per la causale dei bonifici eseguiti dall’esponente, sia perché lo stesso aveva prodotto numerose ricevute di bonifici effettuati al proprio legale e muniti della casuale relativa al pagamento di fatture, quando a tal fine erano stati eseguiti.
Infine, il CDD affermò che l’intervenuta prescrizione in sede penale di alcuni dei reati contestati all’incolpato non aveva incidenza sul procedimento disciplinare e, anzi, il mancato proscioglimento nel merito per assenza di prova evidente di innocenza poteva rilevare come riconoscimento di responsabilità.
L’avvocato Nenna propose ricorso avanti al Consiglio nazionale forense in data 30 dicembre 2019, chiedendo la declaratoria di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione dell’esercizio del potere disciplinare, ovvero di proscioglimento in ordine alle incolpazioni disciplinari sulla base di una diversa valutazione dei fatti rispetto a quella operata in sede penale. Nel dettaglio, il ricorso dedusse: a) la superficialità della decisione in ordine ai fatti di causa, alle correlate questioni giuridiche, ed in particolare ai rapporti correnti tra l’incolpato e l’ingegnere Pompei: b) l’intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare in base al regime introdotto dall’art. 56 della l. n. 247 del 2012, essendo il 2 marzo 2009 la data ultima di consumazione dei contestati presunti illeciti e quindi decorso il termine massimo di sette anni e sei mesi dal fatto; o altrimenti la prescrizione comunque dell’azione disciplinare ai sensi dell’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, in forza dell’operatività sopravvenuta dell’art. 54 della l. n. 247 del 2012 sulla reciproca autonomia tra procedimento disciplinare e penale, che esclude la sospensione necessaria del primo giudizio; c) l’insussistenza degli illeciti disciplinari contestati, essendosi il CDD appiattito sulle risultanze del procedimento penale. In particolare, il Consiglio Distrettuale, quanto al fatto dell’appropriazione indebita, non avrebbe apprezzato il riscontro documentale sulla causale della consegna nel 2006, prima dunque dell’accordo con la MPS, della somma di € 21.500,00, la quale non costituiva l’importo per la transazione con la Banca a definizione della procedura di esecuzione immobiliare, quanto il compenso elargito dal cliente per la difesa nell’azione esecutiva intentata dalla stessa MPS, da detrarre dal maggior credito di € 123.616,00 riconosciuto dall’ingegnere Pompei. Quanto poi all’abuso di fogli in bianco, il Consiglio Distrettuale non avrebbe dato il giusto rilievo alla testimonianza della signora Elena Di Marcantonio, la quale aveva dichiarato che l’ultimo dei tre fogli firmati dal Pompei conteneva una dichiarazione già predisposta e scritta, che richiamava gli altri due fogli. L’intervenuta depenalizzazione avrebbe inoltre sottratto ogni valore di giudicato alla sentenza penale; d) la erroneità dei riferimenti giurisprudenziali contenuti nella decisione impugnata ai fini del regime normativo della prescrizione applicabile; e) l’eccessività della sanzione disciplinare irrogata dal CDD di Roma, alla luce dei criteri dettati dall’art. 21 del Nuovo Codice deontologico forense.
La sentenza n. 240/2022 del Consiglio Nazionale Forense, pubblicata il 3 dicembre 2022, ha dapprima escluso l’applicabilità del regime della prescrizione introdotto dall’art. 56 della l. n. 247 del 2012 alle condotte esauritesi prima della entrata in vigore della nuova disciplina; ha quindi affermato che la condotta consistente nell’illecito trattenimento di somme di competenza del cliente costituisce illecito permanente, mentre l’abuso di fogli in bianco (qui consistito in plurime condotte poste in essere tra il 2007 e il 2008) e la calunnia (qui consistita in plurime condotte poste in essere tra il 2008 e il 2009) costituiscono illeciti istantanei; ha poi evidenziato che la condotta di appropriazione indebita/trattenimento somme di pertinenza del cliente non risultava ancora cessata, stante la mancata restituzione delle somme da parte dell’incolpato, e ciò quantomeno fino al momento della data di emissione della decisione disciplinare (30 ottobre 2019), sicché solo da tale data il termine prescrizionale poteva dirsi decorrente; quanto agli illeciti istantanei di abuso di foglio in bianco e calunnia, consumati tra il 2007 e il 2009, ha invece sostenuto l’applicabilità del regime di cui all’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, decorrendo pertanto la prescrizione disciplinare soltanto dal momento della definizione irrevocabile del processo penale sugli stessi fatti (sentenza della Corte di cassazione del 19 settembre/20 ottobre 2017), prescrizione non verificatasi alla luce della citazione a giudizio del 17 maggio 2019 e del deposito della decisione del CDD del 19 dicembre 2019; ha negato l’operatività dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sul giusto processo in sede di processo disciplinare.
Quanto alla fondatezza delle accuse, la sentenza n. 240/2022 del Consiglio Nazionale Forense ha sottolineato che il fatto della appropriazione indebita della somma di € 21.500,00, consegnata dal cliente per la transazione con la banca MPS nell’ambito del procedimento esecutivo pendente, era stato accertato da sentenza penale passata in giudicato, concretando l’illecito di cui all’art. 30 del codice deontologico forense; il fatto in esame risultava anche dai riscontri documentali compiuti dal CDD (bonifici del Pompei effettuati nel 2006 e causale degli stessi incompatibili con le tesi difensive dell’avvocato Nenna), a nulla valendo in senso contrario il credito per prestazioni professionali vantato dal legale verso il cliente.
Altrettanto in ordine all’abuso del riempimento di documenti in bianco, la sentenza n. 240/2022 ha ricordato che il fatto è stato accertato in sede penale ed ha esaminato, confutandole, le difese inerenti al disconoscimento delle scritture ed alla querela di falso, al decreto ingiuntivo non opposto dal Pompei giacché notificato dall’avvocato Nenna al domicilio eletto (presso la sede della società PBC Service s.r.l. in Roma Via Luigi Ronzoni n. 23, coincidente con l’ufficio del commercialista, padre dell’avvocato Nenna), alla dichiarazione di riconoscimento di debito a firma del Pompei e risultata falsamente compilata, al pagamento da parte dell’avvocato Nenna della provvisionale di € 20.000,00 stabilita in sede penale in favore del Pompei, somma diversa da quella di cui all’appropriazione indebita, alla rilevanza della testimonianza resa dalla signora Di Marcantonio. Circa la depenalizzazione dell’illecito relativo all’abuso di fogli in bianco, la sentenza del Consiglio Nazionale Forense ha rivendicato che la sentenza penale di proscioglimento perché il fatto non costituisce reato non priva di rilievo deontologico il fatto. Così anche quanto alla sentenza penale pronunciata sul reato prescritto di appropriazione indebita, condotta la cui rilevanza disciplinare risultava valutata dal CDD tenendo conto dell’accertato illegittimo trattenimento della somma di € 21.500,00, avendo anche attenzione alla intervenuta condanna per calunnia relativamente a tale circostanza. Ed ancora, sono stati richiamati i principi sulla influenza del giudizio penale ai fini delle valutazioni di competenza del giudice disciplinare. La sentenza ha infine motivato circa la adeguatezza e proporzionalità della sanzione irrogata rispetto alle plurime violazioni deontologiche commesse.
La causa è stata decisa in camera di consiglio procedendo nelle forme di cui all’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile a norma dell’art. 8, comma 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito con modificazioni nella legge 24 febbraio 2023, n. 14), con richiesta di discussione orale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso dell’avvocato Maurizio Nenna avverso la sentenza n. 240/2022 del Consiglio Nazionale Forense si struttura in 57 pagine. A pagina 2 premette che “[l]’impugnata decisione del Consiglio Nazionale Forense merita integrale riforma perché viziata da violazione di legge ed eccesso di potere sotto plurimi aspetti. Introduttivamente ci si riporta integralmente a quanto esposto nel ricorso al Consiglio Nazionale Forense”. Seguono paragrafi numerati da 1 a 26, suddivisi in sottoparagrafi.
2. In punto di esposizione sommaria dei fatti di causa, di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., nella formulazione operante ratione temporis, il ricorso non contiene, invero, una compiuta premessa narrativa distinta ed autonoma, illustrativa delle vicende della lite. Sono tuttavia ritraibili nell’intero contesto dell’atto gli elementi sostanziali e processuali necessari a rendere intellegibili il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia dei giudici di merito, ovvero il thema decidendum del giudizio di legittimità.
3. Non sono state predisposte distinte rubriche introduttive, che indichino i singoli motivi per i quali si chiede la cassazione e le ragioni di censura sussunte in una delle tassative categorie logiche contemplate dall’art. 36, comma 6, della legge n. 247 del 2012, il quale ammette il ricorso avverso le decisioni del CNF alle sezioni unite della Corte di cassazione per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge. Il ricorso per cassazione si sostanzia, piuttosto, in una diffusa critica della decisione impugnata, formulata sotto una molteplicità di profili tra loro combinati, lamentando l’ingiustizia della sentenza n. 240/2022 del Consiglio Nazionale Forense e sollecitando un complessivo riesame delle fattispecie sostanziali di merito.
4. In ogni modo, le censure possono così ricostruirsi.
4.1. E’ dapprima criticata la decisione sulla assunta inoperatività nel caso in esame della disciplina della prescrizione dell’azione disciplinare delineata dall’art. 56 della legge n. 247 del 2012, assumendosi che “l’idea della irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative applicata alla fattispecie è totalmente destituita di ogni fondamento, risolvendosi in realtà in una grave violazione di precetti costituzionali che da un canto garantiscono il cosiddetto giusto processo e d’altro canto limitano l’azione legislativa e la correlativa attività interpretativa e applicativa di norme internazionali convenzionali, ove contrastanti con gli obblighi internazionali assunti dallo Stato e come interpretati e applicati dalla correlativa giurisprudenza dell’organismo internazionale preposto (la Corte di Strasburgo), che ne determina la natura, i contenuti e gli effetti”.
4.2. Il ricorrente critica poi “la tesi secondo la quale, pur fuori dall’ambito disciplinare, lo ius superveniens, ancorché più favorevole all’incolpato, non sarebbe applicabile per le condotte antecedenti l’entrata in vigore della nuova disciplina legislativa: idea questa violativa di un consolidato e riconosciuto principio generale di diritto e di diritto penale in particolare”. Segue la “cronologia di tutti i fatti accaduti come ricavabile documentalmente dagli atti del fascicolo disciplinare”, con correzione di alcune date indicate nella sentenza impugnata. All’esito si ribadisce che “il regime dell’azione disciplinare è ora regolato dalla detta legge n. 247 del 2012 e a tale nuovo regime normativo deve farsi riferimento per quanto ora interessa”, con le conseguenti ricadute sul procedimento disciplinare de quo, essendo stato superato il termine massimo dei sette anni e mezzo. Vengono quindi ricordati i precedenti della Corte EDU sulla soggezione degli organi di disciplina degli ordini professionali al principio del “giusto processo” ex art. 6 della Convenzione; analoghe considerazioni sono poi svolte nelle pagine 30 e seguenti di ricorso. Altrimenti, per il ricorrente, pure facendo ancora applicazione dell’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, occorrerebbe considerare che, sempre in forza della sopravvenuta legge di riforma del 2012, la concomitante pendenza del procedimento penale non poteva comportare la sospensione del procedimento disciplinare, “con l’effetto che il termine prescrizionale previgente dei cinque anni decorre indipendentemente dalla concomitante pendenza di un procedimento penale”. Si pone in evidenza che “il giudicato si era formato solo per il supposto reato di calunnia, non per gli altri reati ascritti all’Avv. Maurizio Nenna (dichiarati prescritti o depenalizzati)”. Sulla prescrizione il ricorso torna nelle pagine 36 e seguenti, §§ 20-23, aperti dal titolo “Ancora sulla prescrizione”.
4.3. Nel paragrafo n. 8 (pagina 19 di ricorso) hanno inizio le critiche sulla indebita ritenzione della somma di € 21.500,00, unica condotta per cui potrebbe assumersi, ad ogni effetto, il protrarsi del comportamento violativo. Il ricorso lamenta che la sentenza del Consiglio Nazionale Forense si sarebbe sul punto “appiattita” sulle valutazioni del giudice penale, che però non costituiscono giudicato, essendo su questo fatto di reato intervenuta la prescrizione, priva di valore di accertamento delle condotte. Segue un elenco delle allegazioni difensive non adeguatamente considerate dal Consiglio Nazionale Forense sulle modalità, i tempi e la causale della dazione di tale somma dal Pompei all’avvocato Nenna; analoghe considerazioni vengono poi svolte nelle pagine 27 e seguenti di ricorso. Sono contrastate le argomentazioni della sentenza impugnata sulla decorrenza della prescrizione a fini disciplinari in ipotesi di mancata restituzione delle somme del cliente oggetto di indebita appropriazione da parte dell’avvocato (“l’esercizio del potere disciplinare non avrebbe mai fine e potrebbe essere ripetuto [anche dopo la intervenuta sanzione]; e ogni quanto tempo?!…“).
Nelle pagine 47 e seguenti, §§ 25-26, si torna “conclusivamente alla questione della pretesa appropriazione indebita della somma di 21.500 euro da parte dell’Avv. Maurizio Nenna, con la conseguenza della pretesa permanenza del supposto illecito disciplinare, impeditiva della declaratoria di intervenuta prescrizione del potere disciplinare”, e ciò al fine di ancor più precisare la vicenda civile/esecutiva intercorsa tra l’Avv. Maurizio Nenna e il Signor Eugenio Pompei”. Il ricorrente pone in risalto che è sua intenzione “segnalare come la decisione ora impugnata sia affetta da macroscopico eccesso di potere per erroneità o inesistenza dei suoi presupposti; come anche sia affetta insanabilmente da una diffusa e grave assenza di motivazione sol che si consideri il fatto che, come già detto, per la famosa somma di 21.500 euro l’Avv. Maurizio Nenna aveva rilasciato al Pompei la relativa fattura e la somma imputata a compensi professionali”.
4.4. C’è poi la questione della intervenuta depenalizzazione della fattispecie dell’uso abusivo di foglio firmato in bianco, il cui accertamento spetta pertanto non più al giudice penale, ma al giudice civile, “e nella vicenda che vede protagonista l’Avvocato Maurizio Nenna in sede esecutiva civile contro il Pompei, il giudice non ha mai dichiarato l’uso abusivo di foglio firmato in bianco dal Pompei da parte dell’Avv. Maurizio Nenna” (pagina 27 di ricorso). Detta questione è ripresa nelle pagine 33 e seguenti del ricorso (“[s]ul preteso uso abusivo di foglio firmato in bianco, ci si riporta a quanto prima osservato e ci si riporta alle memorie difensive presentate al Consiglio Distrettuale di Disciplina oltre che al Consiglio Nazionale Forense con il ricorso”); è contestata la conclusione raggiunta dal CNF sulla mancata opposizione al decreto ingiuntivo intimato al Pompei. Il paragrafo 16 del ricorso chiede a questa Corte di rivalutare le deposizioni della teste Elena Di Marcantonio in sede penale e in sede disciplinare: “a nulla rileva l’eccezione che la stessa dichiarando il vero senza alcun condizionamento, riferì che non vedeva il Pompei dal 2006, ben potendo essere – in assenza di qualsiasi contraddittorietà – che fosse stata proprio lei a sottoporre alla firma del Signor Eugenio Pompei e in sua presenza, in data 5 giugno 2008 il preteso foglio ‘firmato in bianco’ e che ‘in bianco’ non era. Che la teste non avesse visto la mano del Pompei vergare il foglio (magari trovandosi arretrata e alle di lui spalle) non significa negare la veridicità di quanto testimoniato; salvo a voler pensare che il Signor Eugenio Pompei non stava firmando nulla ma si stava producendo con un inchino in un gesto reverenziale nei confronti dell’Avvocato Maurizio Nenna…”. a pagina 34, § 17, si aggiunge: “…con la depenalizzazione, il giudice penale non aveva più alcuna competenza e potere di ‘accertare la falsità dei documenti’ ”.
4.5. A pagina 42 e seguenti, § 24, si introduce il profilo dal titolo “La valutazione dei fatti e la determinazione della sanzione”. Ribadendo le lacune valutative imputate alla sentenza impugnata già oggetto delle pagine che precedono, il ricorso osserva che “nel caso presente il Consiglio Nazionale Forense non ha tenuto presenti tali principi e criteri conducenti alla determinazione in concreto della sanzione eventualmente da irrogare, concludendo con la conferma della irrogazione di una sanzione obiettivamente spropositata e sproporzionata che non ha tenuto conto alcuno di quelle circostanze, oggettive e soggettive, e né del generale ‘contesto’ di svolgimento dei fatti (costituenti poi oggetto di incolpazione) di cui all’art. 21 del Codice deontologico”.
4.6. Il ricorso si chiude con una istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, adducendo ragioni di salute e familiari.
5. Il Collegio può dare risposta alle critiche sin qui riassunte nei limiti in cui appaia quanto meno soddisfatta l’esigenza di una chiara esposizione delle relative ragioni e le censure consentano di individuare il vizio dedotto e la norma o il principio di diritto che si assume violato, in maniera da sussumere le stesse in una delle categorie logiche contemplate dall’art. 36, comma 6, della legge n. 247 del 2012.
5.1. In ordine al regime della prescrizione, la sentenza impugnata ha deciso la questione di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per mutare tale orientamento.
5.1.1. In tema di illecito disciplinare degli avvocati, il regime più favorevole di prescrizione introdotto dall’art. 56 della legge n. 247 del 2012, il quale prevede un termine massimo di prescrizione dell’azione disciplinare di sette anni e sei mesi, non trova applicazione con riguardo agli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore; per le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense non rileva, dunque, lo “jus superveniens” attinente alla disciplina della prescrizione, seppure più favorevole all’incolpato. Il momento di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione applicabile, nel caso di illecito punibile solo in sede disciplinare, rimane così quello della commissione del fatto o della cessazione della sua permanenza, e non quello della incolpazione (Cass. Sez. Unite, sentenze n. 9543 e n. 8558 del 2023; n. 37550, n. 35461 e n. 20383 del 2021; n. 23746 del 2020; n. 9558 del 2018; n. 14905 del 2015).
5.1.2. La questione può porsi in relazione all’art. 7 (e non all’art. 6, più volte invocato dal ricorrente) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, interpretato alla luce della sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo del 17 settembre 2009 (ric. n. 10249/03, Scoppola contro Italia), secondo cui «l’art. 7 della Convenzione, che stabilisce il principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale, incorpora anche il corollario del diritto dell’accusato al trattamento più lieve».
5.1.3. La giurisprudenza della Corte EDU ha sovente affermato che il principio di retroattività della lex mitior riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, e non anche le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perché si produca l’effetto estintivo del reato, considerando le disposizioni in materia di prescrizione come norme processuali, che pongono una semplice condizione preliminare affinché la causa sia esaminata (ad esempio, Previti c. Italia, dec., n. 1845/08, 12 febbraio 2013, § 80; Borcea c. Romania dec., n. 55959/14, 22 settembre 2015, § 64).
5.1.4. La Corte costituzionale, tuttavia, considera che la prescrizione, nel nostro ordinamento giuridico, costituisce un istituto di natura sostanziale «che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena», sicché «rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. con formula di particolare ampiezza» (sentenze n. 278 del 2020, n. 115 del 2018, n. 265 del 2017, n. 324 del 2008, n. 393 del 2006 e ordinanza n. 24 del 2017). Il rispetto del principio di legalità implica la non retroattività della norma di legge che, fissando la durata del tempo di prescrizione dei reati, ne allunghi il decorso ampliando in peius la perseguibilità del fatto commesso. Simmetricamente la norma che invece riduca la durata del tempo di prescrizione costituisce disposizione penale più favorevole ai sensi dell’art. 2 cod. pen., applicabile in melius anche ai fatti già commessi in precedenza (quindi retroattivamente) nei limiti di operatività della lex mitior. Il principio di retroattività della norma penale più favorevole rinviene il proprio fondamento non già nell’art. 25 Cost., ma nel principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), essendo quindi «suscettibile di limitazioni e deroghe» che, tuttavia, «devono giustificarsi in relazione alla necessità di preservare interessi contrapposti di analogo rilievo» e possono trovare fondamento e limite anche nel condizionamento ad attività processuali (sentenze n. 278 del 2020 e n. 238 del 2020). Il rispetto del principio di legalità coinvolge anche la disciplina della decorrenza, della sospensione e dell’interruzione della prescrizione stessa, perché essa, nelle sue varie articolazioni, concorre a determinare la durata del tempo il cui decorso estingue il reato per prescrizione (sentenza n. 278 del 2020).
5.1.5. La sentenza della Corte EDU [GC], Gestur Jónsson e Ragnar Halldór Hall c. Islanda, ric. nn. 68273/14 e 68271/14, 22 dicembre 2020, ha comunque ribadito, proprio in tema di sanzioni disciplinari irrogate ad avvocati (sia pure applicate da autorità giurisdizionali per violazioni di obblighi di lealtà e probità nel comportamento processuale), che gli illeciti ed i procedimenti disciplinari non rientrano nell’ambito sostanzialmente «penale» né ai sensi dell’articolo 6, né ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, il che condurrebbe ad escludere in radice l’applicabilità delle evocate tutele penalistiche (nella specie, per quanto rileva nel giudizio in esame, quella della retroattività della lex mitior in tema di prescrizione dell’azione disciplinare), non potendo il giudice nazionale discostarsi da tale interpretazione. Nonostante l’incidenza di alcune sanzioni disciplinari, aventi anche contenuto inibitorio, come la sospensione o la cancellazione dall’albo e la radiazione, la giurisprudenza della Corte EDU evidenzia le divergenze rispetto alle figure di reato, divergenze rinvenibili nella limitata estensione soggettiva ed oggettiva dell’ambito applicativo, giacché tali sanzioni sono rivolte ai soli membri di una categoria professionale, nella specie in possesso dello status di avvocato, e consistono nella violazione di regole di condotta finalizzate a preservare il decoro e la dignità della professione forense (Corte EDU, Erdoğan c. Turchia, ric. n. 32985/12, 5 dicembre 2017; Biagioli c. San Marino, ric. n. 64735/14, 13 settembre 2016; Müller-Hartburg c. Austria, ric. n. 47195/06, 19 febbraio 2013; Goriany c. Austria, ric. n. 31356/04, 10 maggio 2010).
A tale conclusione si perviene pur nella consapevolezza della complessità delle forme di esercizio del potere sanzionatorio disciplinare, nonché delle considerazioni svolte nella sentenza n. 197 del 2018 della Corte costituzionale, circa l’inerenza delle sanzioni disciplinari “in senso lato al diritto sanzionatorio-punitivo”, sebbene conservando “una propria specificità, anche dal punto di vista del loro statuto costituzionale”, la quale comporta l’inapplicabilità, o una più flessibile applicabilità, delle garanzie che circondano la pena in senso stretto.
Si è, infatti, in presenza, nel caso in esame, di sanzioni irrogate da organi di disciplina dell’ordine forense per violazioni di obblighi deontologici dettati a tutela dell’onore e del prestigio della professione, in rapporto alle quali, nella verifica dei cosiddetti “criteri Engel”, l’interpretazione qualificata della Corte EDU (da ultimo riaffermata nella citata sentenza pagina 27 di ricorso e Ragnar Halldór Hall contro Islanda) solitamente evidenzia, appunto, sotto il profilo sostanziale, la loro ristretta riferibilità soggettiva e la finalizzazione a preservare gli interessi particolari della categoria (oltre che in via indiretta interessi generali e di rilevanza pubblica), e, sotto il profilo dell’afflittività delle misure inibitorie, la connessione del loro oggetto con il diritto soggettivo di matrice civilistica ad esercitare la professione. Inoltre, la verifica è qui compiuta per un caso in cui è questione della pretesa retroattività della lex mitior in punto di prescrizione dell’azione disciplinare, disciplina che la giurisprudenza convenzionale colloca nell’alveo delle norme processuali.
5.1.6. Come ritenuto nella sentenza del Consiglio Nazionale Forense, alle condotte istantanee commesse ed esauritesi prima dell’entrata in vigore dall’art. 56 della legge n. 247 del 2012 (l’abuso di fogli firmati in bianco, condotte poste in essere tra il 2007 e il 2008, e la calunnia, condotte poste in essere tra il 2008 e il 2009), costituenti illeciti disciplinari per fatti di reato, trovava perciò applicazione il regime della prescrizione quinquennale dettato dall’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, con il conseguente effetto interruttivo permanente del termine fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il processo penale (Cass. Sez. Unite, sentenza n. 11367 del 2016). Si verteva, infatti, nel caso previsto dall’art. 44 del r.d.l. n. 1578 del 1933, in cui il procedimento disciplinare ha avuto luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali era stata iniziata l’azione penale, sicché l’azione disciplinare rimaneva collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non fosse di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, aveva come oggetto lo stesso fatto per il quale era stata formulata una imputazione, aveva natura obbligatoria e non poteva essere iniziata prima che se ne fosse verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorreva soltanto dal momento in cui il diritto di punire poteva essere esercitato, ovvero da un fatto esterno alla condotta (Cass. Sez. Unite, sentenze n. 1609 del 2020; n. 10071 del 2011).
Non rileva, ai fini della decorrenza e del calcolo della prescrizione in fattispecie soggetta agli artt. 44 e 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933, neppure il sopravvenuto art. 54 della legge n. 247 del 2012, il quale reca la nuova disciplina del rapporto tra procedimento disciplinare e processo penale per i medesimi fatti, stabilendo l’autonomia del loro svolgimento e delle relative valutazioni, salva l’ipotesi che agli effetti della decisione del primo sia indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penale, stabilendo in tale evenienza la durata massima biennale della sospensione del giudizio e del termine di prescrizione.
5.1.7. Anche la decisione che la sentenza impugnata ha adottato sul punto della decorrenza della prescrizione per la condotta permanente di indebita ritenzione delle somme del cliente è in linea con la giurisprudenza di queste Sezioni Unite. L’illecito disciplinare commesso dall’avvocato che trattiene, a compensazione di propri asseriti crediti professionali non certi né liquidi, una somma di denaro consegnatagli dal suo cliente per adempiere ad una transazione stipulata con un terzo, ha natura permanente e la sua consumazione si protrae, in mancanza di restituzione, fino alla decisione disciplinare di primo grado, dalla quale inizia a decorrere il termine prescrizionale massimo di cui all’art. 56, comma 3, della l. n. 247 del 2012 (Cass. Sez. Unite, sentenza n. 23239 del 2022; si veda anche sentenza n. 8946 del 2023).
La condotta viene sussunta nell’illecito disciplinare di cui all’art. 30 NCDF, ovvero all’art. 41 codice previgente, secondo cui l’avvocato deve gestire con diligenza il denaro ricevuto dalla parte assistita, o nell’interesse della stessa, nell’adempimento dell’incarico professionale, e non deve trattenere oltre il tempo strettamente necessario le somme ricevute per conto della parte assistita, senza il consenso di quest’ultima. Avendo riguardo agli obblighi civilistici derivanti dal mandato, nonché a quelli deontologici di lealtà, correttezza e probità, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante il professionista che disponga di una somma di denaro ricevuta dall’assistito destinandola a sé, a nulla rilevando l’eventuale pretesa creditoria dell’avvocato ai fini della sua remunerazione. Si tratta di illecito, a ben vedere, eventualmente permanente, perdurandone la commissione finché non viene rimossa la situazione antigiuridica in atto, consistente nella indebita ritenzione del denaro in violazione del mandato conferito dal cliente, e potendosi pertanto intendere cessata tale condotta, anche per la decorrenza della prescrizione, al momento della pronuncia disciplinare di primo grado.
6. Va esente da censure di legittimità rilevanti agli effetti dell’art. 36, comma 6, della legge n. 247 del 2012 altresì la motivazione addotta dalla sentenza impugnata sulla fondatezza delle accuse.
Come visto, il Consiglio Nazionale Forense ha valutato il fatto della appropriazione indebita della somma di € 21.500,00, consegnata dal cliente per la transazione con la banca MPS nell’ambito del procedimento esecutivo pendente, alla luce di quanto emergente dalla sentenza penale passata in giudicato (benché dichiarativa della prescrizione del reato di appropriazione indebita, e tuttavia recante condanna per la connessa condotta di calunnia), fatto sussunto nell’illecito di cui all’art. 30 del codice deontologico forense (art. 41 codice previgente). Tale fatto è stato corroborato dai riscontri documentali compiuti dal CDD (ovvero dai bonifici effettuati dal Pompei nel 2006 e dalla causale degli stessi, apprezzati come incompatibili con la tesi difensive dell’avvocato Nenna), privando di valenza scriminante il credito per prestazioni professionali vantato dal legale verso il cliente.
Quanto al passaggio in cui la sentenza impugnata ha affermato, circa la rilevanza disciplinare della condotta di appropriazione indebita perpetrata dell’avvocato Nenna, che occorreva avere “attenzione alla intervenuta condanna per calunnia relativamente a tale circostanza”, esso non svilisce l’autonomia dei distinti comportamenti di rilevanza disciplinare e delle diverse incolpazioni simultaneamente contestate, avendo riguardo, piuttosto, alla emergente connessione teleologica tra le vicende.
Ciò vale pure per la condotta di abusivo riempimento di documenti in bianco. La decisione impugnata ha evidenziato che anche tale fatto emergeva dalla sentenza penale, benché di assoluzione perché il fatto non costituiva più reato a seguito di depenalizzazione, non privando la stessa di rilievo deontologico la condotta, ed ha confutato le difese inerenti al disconoscimento delle scritture ed alla querela di falso, al decreto ingiuntivo non opposto dal Pompei (giacché notificato dall’avvocato Nenna al domicilio eletto presso la sede della società PBC Service s.r.l.), alla dichiarazione di riconoscimento di debito a firma del Pompei risultata falsamente compilata, al pagamento da parte dell’avvocato Nenna della provvisionale di € 20.000,00 stabilita in sede penale in favore del Pompei ed alla rilevanza della testimonianza resa dalla signora Di Marcantonio.
La sentenza del Consiglio Nazionale Forense si è così posta in linea con l’art. 54, comma 1, della legge n. 247 del 2012, operando in sede disciplinare congrue valutazioni autonome a fini deontologici in ordine alla sussistenza delle condotte materiali esaminate nel processo penale avente per oggetto i medesimi fatti, e ivi definite con declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di appropriazione indebita e di proscioglimento dal delitto di falsità in foglio firmato in bianco perché non costituente più reato (arg. da Cass. Sez. Unite, sentenza n. 12902 del 2021).
In particolare, l’intervenuta abrogazione del delitto di cui all’art. 486 c.p., per effetto del d. lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, e la contestuale previsione di sanzione pecuniaria civile per l’ipotesi di abuso di foglio firmato in bianco, alle condizioni dettate da tale disciplina, sopravvenienze normative che abbiano determinato, come nella specie, il proscioglimento dell’imputato nel giudizio penale perché il fatto non è previsto come reato, non negano al giudice disciplinare la possibilità di attribuire rilievo deontologico al medesimo fatto storico assurto ad elemento costitutivo della condotta, previa autonoma rivalutazione della vicenda.
L’invocazione di un rinnovato esame dei fatti storici oggetto delle allegazioni difensive del ricorrente e tutti, peraltro, considerati nella sentenza del Consiglio Nazionale Forense, come le richieste di procedere ad un accesso diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, allo scopo di pervenire ad un opposta delibazione inferenziale delle risultanze probatorie ed ad una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti dai quali è originata la condanna disciplinare, eccedono i limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione, come risultanti dall’interpretazione costante dell’art. 360, comma 1, n. 5, e dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. Le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono impugnabili per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, ovvero per difetto del “minimo costituzionale” di motivazione, con la conseguenza che l’accertamento del fatto e l’apprezzamento della sua rilevanza ai fini della concreta individuazione della condotte costituenti illecito disciplinare e della valutazione dell’adeguatezza della sanzione irrogata non possono essere oggetto del controllo di legittimità, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza (si vedano, tra le tante, Cass. Sez. Unite, sentenze n. 34206, n. 28468, n. 26991, n. 22729, n. 11675, n. 7501 e n. 7073 del 2022 del 2022; n. 42090, n. 37550, n. 35462, n. 27889, n. 21965, n. 21964, n. 21963 e n. 21962 del 2021 n. 34476 del 2019; n. 20344 del 2018; n. 24647 del 2016). Né le censure allegano l’omesso esame di fatti storici, oggetto di discussione tra le parti e aventi carattere decisivo in relazione all’esito del giudizio, sollecitando, piuttosto, un diverso esame, più favorevole al ricorrente, di fatti tutti comunque presi in considerazione dal Consiglio Nazionale Forense.
Così anche la rilettura della cronologia delle vicende che opera il ricorrente, collegando l’e-mail del 10 maggio 2006 inviata dal Pompei, il riferimento ivi contenuto al “bonifico promesso”, la fattura emessa dall’avvocato Nenna il 5 luglio 2006 e la missiva del 18 luglio 2006, (oltre a rivelare carenza di specifica illustrazione del contenuto rilevante dei documenti richiamati e dell’indicazione del “come” e del “quando” tali documenti siano stati oggetto di allegazione nelle pregresse fasi del processo) si sostanzia nel prospettare una spiegazione dei fatti di causa e delle risultanze istruttorie alla stregua di una logica alternativa, che, sia pure supportata dalla possibilità o dalla probabilità di corrispondenza alla realtà fattuale, non delinea il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
7. Quanto appena detto impedisce di accogliere pure le censure sulla “determinazione in concreto della sanzione eventualmente da irrogare”, la quale sarebbe “obiettivamente spropositata e sproporzionata” alla luce dell’art. 21 del Codice deontologico.
La norma disciplinare allegata afferma, piuttosto, che “[s]petta agli Organi disciplinari la potestà di applicare, nel rispetto delle procedure previste dalle norme, anche regolamentari, le sanzioni adeguate e proporzionate alla violazione deontologica commessa”, valutando “il comportamento complessivo dell’incolpato” ed irrogando un’unica sanzione anche quando siano contestati più addebiti nell’ambito del medesimo procedimento. La sanzione deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, all’eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell’incolpato, precedente e successivo al fatto, avuto riguardo alle circostanze, soggettive e oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione. Nella determinazione della sanzione si deve altresì tenere conto del pregiudizio eventualmente subito dalla parte assistita e dal cliente, della compromissione dell’immagine della professione forense, della vita professionale, dei precedenti disciplinari.
Il Consiglio Nazionale Forense, nel giustificare la sanzione della sospensione di venti mesi dall’esercizio della professione, ha rimarcato che la stessa fosse correlata alla “violazione degli artt. 4, 9, 10, 11 e 30, commi 1 e 2, del vigente CDF, i cui precetti erano contenuti negli artt. 3, 5, 6, 7, 35 e 41 del previgente CDF”. Ai fini della determinazione nell’ambito delle rispettive cornici edittali, sono state considerate “le plurime condotte deontologicamente rilevanti poste in essere unitamente alla condanna per calunnia ed il generale comportamento tenuto dall’incolpato”.
La determinazione dell’entità della sanzione disciplinare adeguata e proporzionata costituisce tipico apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità giacché altresì sorretta da motivazione congrua e immune da vizi logico-giuridici (Cass. Sez. Unite, sentenza n. 1609 del 2020).
8. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato, ciò assorbendo anche la richiesta di sospensione dell’esecuzione ex art. 36, comma 7, della legge n. 247 del 2012.
Non occorre provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, in quanto l’intimato Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma non ha svolto attività difensive.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20650, in tema di illecito disciplinare
In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19103
Civile Sent. Sez. U Num. 19103 Anno 2023
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: IOFRIDA GIULIA
Data pubblicazione: 06/07/2023
SENTENZA
sul ricorso 25533-2020 proposto da:
FUCCILO MARISA, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA PAGANICA, 13, presso lo studio dell’avvocato FABIO FRANCARIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALFONSO CELOTTO;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI POTENZA, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SISTINA 121, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNA CORRIAS LUCENTE, rappresentato e difeso dall’avvocato ORAZIO ABBAMONTE;
– controricorrente –
nonchè contro
TRAFICANTE DONATO, DI CIOMMO GERARDO, LOPES RAFFAELE, elettivamente domiciliati in Roma, Via Giovanni Pierluigi da Palestrina n. 19, presso lo studio dell’avvocato Olga Guglielmucci, rappresentati e difesi dall’avvocato Donato Traficante;
-controricorrenti –
avverso la sentenza n. 3040/2020 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 13/05/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/06/2023 dal Consigliere GIULIA IOFRIDA;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale STEFANO VISONA’ che, riportandosi alle conclusioni scritte, ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Fabio Francario e Donato Traficante.
FATTI DI CAUSA
Il Consiglio di Stato, con sentenza n.3040/2020, pubblicata il 13/5/2020, ha respinto il gravame proposto dall’avv. Marisa Fuccilo avverso sentenza del TAR Basilicata n.331/2019, con la quale, nel giudizio promosso dall’avvocato medesimo, nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza e dei componenti avvocati del COA territoriale che le aveva irrogato, nel procedimento disciplinare aperto nei suoi riguardi, in data 3/7/2014 , la sanzione della radiazione, per sentirne ottenere la condanna al risarcimento del danno, ha respinto il ricorso per difetto dell’essenziale presupposto dell’accertamento dell’illegittimità del provvedimento di radiazione.
In particolare, risulta dalla sentenza impugnata e dagli atti, che il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Melfi (COA) comminava all’ avv. Marisa Fuccilo la sanzione disciplinare della radiazione, confermata a seguito di ricorso dell’interessata al Consiglio Nazionale Forense, per avere trattenuto indebitamente la somma di € 98.496,39, destinata alla sua cliente sig.ra Carmela Pace, versandole la minor somma di € 103.957,00, a fronte della somma di € 197.953,39 percepita dalla compagnia di assicurazione in forza di una sentenza del Tribunale di Bari, all’esito di una causa per risarcimento danni promossa dal padre, nelle more deceduto.
Il ricorso per cassazione proposto dall’interessata in quattro motivi, avverso sentenza del Consiglio Nazionale Forense del 2016 (che aveva confermato la sanzione disciplinare), veniva accolto, con sentenza di questa Corte a Sezioni Unte n. 16694 del 6/7/2017, in relazione al quarto motivo di ricorso, implicante vizio motivazionale ex art.360 n. 5 c.p.c., sulla congruità della motivazione circa la scelta della sanzione della radiazione applicata dal COA territoriale (in quanto la Fuccilo: «a) ha trattenuto presso di se ingenti somme di pertinenza della cliente, omettendo di restituirle alla cliente che ne faceva richiesta; b) si è impegnata di fronte al Consiglio dell’ordine in sede disciplinare alla restituzione (quantomeno parziale) di quanto percepito, senza poi adempiere, invocando una malattia (della durata di 10 giorni) ed iniziando invece in pari tempo una causa di accertamento sull’effettiva debenza della somma avanti il tribunale di Bari; c) ha investito le somme in un buono di risparmio a se intestato, sottoponendole un vincolo di indisponibilità sino al 25/4/2016, allorché l’esponente, resasi conto che non vi sarebbe stata spontanea restituzione, ha minacciato un’azione cautelare a propria tutela; d) ha moltiplicato le iniziative giudiziarie al fine di paralizzare le richieste dell’esponente»; così attuando «un sistematico disegno volto ad eludere il proprio obbligo di restituzione, in piena violazione, anzi tradendo il rapporto fiduciario con la cliente»). Queste Sezioni Unite hanno rilevato che il CNF aveva omesso di valutare, ai fini della considerazione della gravità della condotta, la sussistenza o meno dell’appropriazione indebita aggravata, anche in considerazione della circostanza che la professionista non è stata sottoposta a procedimento penale per i fatti contestati in sede disciplinare, non essendosi valutato, nella scelta della sanzione, il pignoramento della somma in contestazione presso terzi, reso possibile dal mancato occultamento della somma da parte dell’avv. Fuccilo, la quale aveva dichiarato dove si trovava il denaro. La sentenza impugnata venne quindi cassata con rinvio, rilevandosi che i suddetti fatti storici avrebbero dovuto essere esaminati dal CNF ai fini della scelta della sanzione disciplinare da comminare.
La Fuccilo veniva reiscritta nell’albo degli avvocati di Potenza, con decorrenza dal 14/7/2017.
All’esito della pronuncia della Corte di cassazione, nessuna delle parti ha riassunto il giudizio in sede di rinvio con sua conseguente estinzione ai sensi dell’articolo 393 c.p.c.
Spirato il termine per la riassunzione, la Fuccilo ha introdotto, con ricorso del 1° marzo 2018, davanti al TAR per la Basilicata, un giudizio, nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza – succeduto ex lege all’Ordine degli Avvocati di Melfi – notificando il ricorso anche agli avvocati Traficante, Lopes e Di Ciommo, individuati come controinteressati in quanto già componenti dell’Ordine degli Avvocati di Melfi -, per il risarcimento dei danni patiti a causa dell’ingiusto provvedimento di radiazione, danni quantificati in € 412.500.00.
Il Tribunale ha respinto «nel merito» il ricorso, prescindendo dall’esame delle eccezioni preliminari di inammissibilità (anche per tardività) dell’azione risarcitoria «del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amminstrativa», sollevate dai controricorrenti, rilevando che: a) ai sensi dell’art.30 c.p.a., la domanda di condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa presuppone l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento che si assume lesivo, vale a dire il provvedimento di radiazione, e, nella specie, in disparte ogni valutazione circa la sussistenza degli altri requisiti prescritti dall’art.2043 c.cc., difetta tale essenziale presupposto; b) la mancata riassunzione del giudizio all’esito della sentenza n. 16694/2017 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha determinato l’estinzione del processo relativo all’impugnazione del provvedimento di radiazione, con caducazione della sola decisione, di natura giurisdizionale, del CNF n. 327/2016, di rigetto del ricorso avverso il provvedimento disciplinare, che invece, essendo una mera determinazione amministrativa, non risulta essere stato travolto; c) di nessun rilievo l’avvenuta reiscrizione della ricorrente nell’albo professionale, avvenuta in ragione della pronuncia cassatoria e della «pendenza del giudizio di rinvio dinanzi al CNF», prima della maturazione della fattispecie di estinzione processuale, cosicché da essa non può trarsi alcun riconoscimento della illegittimità dell’avversata radiazione; d) non è consentito al giudice amministrativo adito, neppure incidenter tantum ai soli fini risarcitori, conoscere dell’illegittimità del provvedimento disciplinare, «considerata l’assoluta carenza di giurisdizione del giudice amministrativo nella materia disciplinare degli avvocati (cfr., artt.50, comma 3, e 54 n. 2 Regio D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art.61 l. 31 dicembre 2012, n. 247)»
Il Consiglio di Stato, nel confermare il rigetto del ricorso della Fuccilo, ha osservato, in particolare, che: a) in primo luogo, andava condivisa la valutazione del TAR secondo cui il provvedimento di radiazione non poteva dirsi «travolto dall’estinzione del relativo processo impugnatorio instaurato davanti al CNF» (pag. 5 della sentenza impugnata), con sua conseguente perdurante efficacia; il Consiglio di Stato, nel fare proprio tale giudizio, ha rilevato che la ricorrente si era limitata ad affermare che «la sentenza del CNF “assorbe e sostituisce nel merito la precedente pronuncia amministrativa”» e ha sottolineato come la sentenza delle Sezioni Unite si fosse limitata a cassare con rinvio la sentenza del CNF che aveva rigettato l’impugnazione del provvedimento di radiazione, il che «implicava un nuovo giudizio (subordinato a impulso di parte) su una determinazione ancora vitale ed efficace»; b) in secondo luogo, a fronte della deduzione, da parte dell’appellante circa il fatto, asseritamente omesso dal TAR, che le Sezioni Unite nel 2017 avessero «escluso la possibilità di comminare la sanzione massima della radiazione», nella specie, non era intervenuta (richiamato il disposto del comma 5 dell’art.30 c.p.a., secondo cui «5. Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza») alcuna pronuncia di «annullamento del provvedimento di radiazione», non essendo stato il giudizio riassunto dinanzi al CNF; c) il giudice amministrativo, non avendo giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati, non potrebbe – «come correttamente evidenziato in prime cure con statuizione non oggetto di specifica contestazione»- conoscere della legittimità del menzionato provvedimento di radiazione, nemmeno in via incidentale; d) nessuna valenza univoca di riconoscimento dell’illegittimità della radiazione poteva attribuirsi alla temporanea reiscrizione dell’interessata all’Albo professionale (peraltro, dopo l’estinzione del giudizio, il Consiglio dell’ordine ha revocato, nel 2020, la reiscrizione previamente disposta).
Avverso la suddetta pronuncia, Marisa Fuccilo propone ricorso per cassazione, notificato il 12/10/2020, affidato a unico motivo, nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza (che resiste con controricorso, notificato il 21/11/2020) e degli avvocati Donato Traficante, Gerardo Di Ciommo e Raffaele Lopes (che resistono con controricorso notificato il 19/11/2020).
Il P.G., in vista dell’adunanza camerale del 12/7/2022, ha depositato conclusioni scritte, chiedendo, in accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata; il P.G. ha osservato che non meriterebbero accoglimento le eccezioni sollevate dai controricorrenti Traficante, Di Ciommo e Lopes, di decadenza per non essere stata l’azione promossa entro centoventi gg dalla conoscenza del provvedimento amministrativo, ex art.30 c.p.a., in quanto la sentenza impugnata ha respinto la domanda risarcitoria in base all’affermazione «in astratto della carenza di giurisdizione», e dal CNF, di inammissibilità della domanda, ha osservato che la sentenza del Consiglio di Stato, sindacabile ai sensi dell’art.111, comma 8, Cost., in quanto, nella specie, vi sarebbe stato un diniego di giurisdizione, sull’assunto della pregiudizialità dell’annullamento del provvedimento amministrativo ai fini dell’esperimento della tutela risarcitoria, pregiudizialità invece esclusa da questa Corte a Sezioni Unite con la sentenza n. 13659/2006, stante l’autonomia della domanda risarcitoria rispetto all’annullamento dell’atto, principio codificato dall’art.30 c.p.a., d.lgs. 104/2010.
La ricorrente ha depositato due memorie, nel novembre 2021 e nel luglio 2022.
Con ordinanza interlocutoria n. 3599/2023, resa all’esito dell’adunanza del 12/7/2022 , questa Corte, alla luce del complesso delle questioni involte dal ricorso, ha ritenuto opportuna la rimessione della causa alla pubblica udienza, poi fissata per il 20/6/2023. La ricorrente ha depositato istanza di discussione orale.
Il P.G. ha depositato in data 29/5/23 nuova memoria, concludendo per il rigetto del ricorso.
La ricorrente ed i controricorrenti Traficante, Lopes e Di Ciommo hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1.La ricorrente lamenta, con unico articolato motivo, la violazione, ex at.360 n. 1 .p.c., degli artt.111comma 8 , Cost. e 110 c.p.a., per rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo adito.
Con un primo profilo di doglianza, la ricorrente argomenta che il Consiglio di Stato avrebbe errato nel non rilevare che le Sezioni Unite avevano ritenuto illegittimo il provvedimento di radiazione, in tal modo violando l’articolo 393 c.p.c., laddove dispone che «la sentenza della Corte di cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che si è instaurato con la riproposizione della domanda».
Sotto ulteriore profilo, la Fuccilo sostiene che, nella specie, ricorrerebbe una ipotesi di «arretramento dalla giurisdizione», per avere il Consiglio di Stato sostanzialmente negato, in via assoluta, la tutela giurisdizionale alla ricorrente, rifiutando di esercitare la giurisdizione sulla domanda risarcitoria, in difetto di previo annullamento dell’atto amministrativo, e il correlato potere di disapplicazione, e così riproposto «la teorizzazione della necessaria pregiudizialità dell’annullamento rispetto all’azione risarcitoria, della quale viene quindi nuovamente negata l’autonomia» (pag. 9, § 2, del ricorso). La ricorrente invoca il principio, affermato da queste Sezioni Unite con le ordinanze nn. 13659 e 13660 del 2006, e ripreso da Sez.Un. n. 30254/2008, secondo cui «Il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione, e la sua decisione, a norma dell’art. 362, primo comma, cod. proc. civ., si presta a cassazione da parte delle Sezioni Unite quale giudice del riparto della giurisdizione, se l’esame del merito della domanda autonoma di risarcimento del danno è rifiutato per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l’annullamento dell’atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti».
La ricorrente, nella memoria da ultimo depositata, si sofferma (in replica alle conclusioni da ultimo formulate dal PG) sulla sussistenza di un interesse legittimo leso, quale posizione giuridica soggettiva che può essere fatta valere dal professionista di fronte ai Consigli Distrettuali, enti pubblici non economici le cui decisioni hanno natura amministrativa, rispetto al corretto esercizio dei relativi poteri, e della giurisdizione del giudice amministrativo, essendosi lamentato, con la proposta azione risarcitoria, l’illegittimo esercizio del potere disciplinare (per avere, in particolare, omesso di considerare fatti di primaria rilevanza, quali stigmatizzati da questa Corte nella sentenza n. 16694/2017, nonché dato per presupposto, erroneamente, un fatto inesistente, quale quello dell’appropriazione indebita cui soltanto poteva ricollegarsi la grave sanzione disciplinare irrogata); in sostanza, essendosi lamentata la sproprorzione della grave sanzione inflitta al professionista, si è fatta questione non della liceità della condotta di quest’ultimo ma di cattivo esercizio del potere, rientrante nella discrezionalità amministrativa, disciplinare, con giurisdizione conseguente del giudice amministrativo. La ricorrente rileva, peraltro, che sulla questione della giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria si è formato il giudicato interno (non avendo il TAR Potenza negato la propria giurisdizione e non essendo stata la sentenza di primo grado impugnata in punto di giurisdizione. Quindi la ricorrente censura la statuizione del Consiglio di Stato per essere stata negata la tutela per mancata previa dichiarazione di illegittimità del provvedimento disciplinare da parte del Giudice speciale (CNF), malgrado il superamento del principio della c.d. pregiudiziale amministrativa.
Assume la Fuccilo, facendo espresso richiamo alle sentenze n. 49/2011 e n. 160/2019 della Corte Costituzionale (citata nella ordinanza interlocutoria n. 3599/2023), che, malgrado non vi sia un’analoga previsione che, come accade per la giustizia sportiva, radichi la controversia nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, deve comunque essere «garantita una protezione giurisdizionale da parte del Giudice comune, che seppure non demolitoria sia quantomeno risarcitoria» e «qualunque sia il giudice individuato …quale avente giurisdizione sulla domanda risarcitoria conseguente all’adozione di un provvedimento disciplinare adottato nei confronti di un avvocato, questi potrà e dovrà eventualmente conoscere in via incidentale della legittimità dell’atto disciplinare, seppure ai soli fini risarcitori», equivalendo la tesi contraria a privare surrettiziamente il soggetto leso anche della residua tutela risarcitoria.
In via subordinata si chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale delle norme che radicano la giurisdizione speciale del CNF, per violazione del fondamentale diritto di difesa e del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt.24,103,11 e 113 Cost.).
1.2.I controricorrenti Traficante, Lopes e Di Ciommo, anche in memoria, premesso di essere stati evocati in giudizio dinanzi al giudice amministrativo, soltanto in qualità di controinteressati, non essendo stata svolta nei loro riguardi alcuna domanda risarcitoria, ribadiscono che la questione della giurisdizione sulla domanda risarcitoria è ormai coperta dal giudicato interno, con conseguente inammissibilità di un controllo sul punto da parte delle Sezioni Unite, trattandosi di sindacato sui limiti interni della giurisdizione, pur dichiarando di aderire a quanto esposto, da ultimo, dal P.G., ai soli fini di chiarimento in funzione nomofilattica, circa la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla domanda risarcitoria avanzata dall’avvocato in relazione al danno derivante da provvedimento disciplinare emesso nei suoi confronti. Gli stessi ribadiscono che non vi è stato un erroneo rifiuto della giurisdizione da parte del giudice amministrativo e che la sentenza, comunque, sarebbe inutiliter data, a causa delle preclusioni maturate, oggetto di specifiche eccezioni.
1.3. Il PG, nella memoria del maggio 2023 ed all’udienza pubblica, ha concluso per il rigetto del ricorso, rilevando che: a) il Consiglio di Stato, senza declinare la propria giurisdizione secondo le regole di riparto, ha ritenuto la propria carenza assoluta di giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati; b) in mancanza di previsione normativa derogatoria, il giudice munito della giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno derivante da procedimento disciplinare emesso nei confronti di un avvocato è il giudice ordinario (che ha il potere di sindacare e disapplicare l’atto amministrativo presupposto in ragione dell’art.5 l.20 marzo 1865 all.E, senza limiti determinati dall’inoppugnabilità) e con riferimento a provvedimenti disciplinari degli avvocati ovvero in materia di risarcimento danni derivanti dal provvedimento disciplinare che si assume illegittimo non è riconosciuto alcun potere giurisdizionale esclusivo in capo al giudice amministrativo; c) il giudice amministrativo privo di potere demolitorio, spettante al CO e al CNF, è, di conseguenza, privo del potere di cognizione incidentale di cui all’art.8 c.p.a.; d) non sussiste il vizio denunciato, ex art.111, comma 8, Cost., in ragione dell’effettiva carenza di giurisdizione del giudice amministrativo nella materia disciplinare degli avvocati e non è sindacabile l’errore in cui è incorso il Consiglio di Stato, per avere ritenuto implicitamente la propria giurisdizione e dichiarato la carenza assoluta di giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati.
2. E’ utile un breve richiamo al contenuto della sentenza n. 16694/2017 e dell’ordinanza interlocutoria n. 3599/2023 di questa Corte.
Risulta dalla sentenza n. 16694/2017, che ha cassato la sentenza del CNF, dando luogo potenzialmente ad un giudizio di rinvio dinanzi a quest’ultimo, giudizio poi non sollecitato da alcuna delle parti, che questa Corte riteneva fondata la denuncia di un vizio motivazionale contenuta nel ricorso per cassazione avverso la sentenza del CNF, in punto di omessa valutazione di fatti decisivi nella valutazione della gravità della condotta contestata all’avvocatessa e della congruità della sanzione irrogata.
Come rilevato da questa Corte nell’ordinanza interlocutoria n. 3599/2023, anzitutto, il giudice amministrativo non ha declinato la giurisdizione di tale giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria dedotta in giudizio, avendo, al contrario, rigettando tale domanda anche nei confronti degli avvocati Traficante, Lopes e Di Ciommo, implicitamente ritenuto la propria giurisdizione non solo sulla domanda risarcitoria rivolta nei confronti del Consiglio dell’Ordine ma anche su quella rivolta nei confronti delle menzionate persone fisiche; sul punto, peraltro, è calato il giudicato interno, non essendo stata la sentenza del TAR appellata in punto di giurisdizione (tra le tante, da ultimo, Cass. SSUU 21972/2021); il giudice amministrativo, pur ritenendosi munito di giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno da provvedimento disciplinare asseritamente illegittimo, si legge nell’ordinanza interlocutoria resa nel presente giudizio di legittimità, ha respinto tale domanda sull’assunto di non poter accertare «in via incidentale la sussistenza dei presupposti per procedere all’annullamento della sanzione, a prescindere dal giudizio del CNF, atteso che … nella materia disciplinare degli avvocati v’è assoluta carenza di giurisdizione del giudice amministrativo» (pag. 7 della sentenza impugnata).
Alla base del rigetto della domanda della Fuccilo da parte del Consiglio di Stato, in sostanza, non vi sarebbe l’assunto che la condanna al risarcimento del danno derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa postulerebbe, in termini generali, la previa caducazione del provvedimento asseritamente lesivo, bensì il rilievo che, nello specifico caso in cui l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa si sia sostanziato nell’emanazione di un provvedimento disciplinare a carico di un avvocato, la condanna risarcitoria, non preceduta dall’annullamento del provvedimento illegittimo, sarebbe preclusa dal rilievo che la giurisdizione sulla legittimità di tale provvedimento compete al CNF e non al giudice amministrativo.
Questa Corte, nell’ordinanza interlocutoria del 2023, ha quindi rammentato che la giurisdizione sui provvedimenti disciplinari relativi agli avvocati (che sono provvedimenti amministrativi e non pronunce giurisdizionali, cfr. SSUU n. 20843/3007, SSUU n. 11564/2011) appartiene per legge al CNF, giudice speciale istituito con l’art. 21 del D.Lgs. luogotenenziale 23 novembre 1944, n. 382, tuttora operante, giusta la previsione della VI disposizione transitoria della Costituzione (cfr., tra le tante, Cass. SSUU n. 9097/2005 e, da ultimo, Cass. SSUU n. 9545/2021) e che le sentenze del CNF sono impugnabili soltanto per cassazione, davanti alle Sezioni Unite Civili, occorrendo, nella specie, approfondire «la questione se, ed in quali limiti, il principio che la tutela risarcitoria per i danni causati da provvedimenti illegittimi può essere offerta indipendentemente dal previo annullamento del provvedimento asseritamente lesivo operi anche nelle materie, quali la disciplina degli avvocati, in cui l’impugnativa del provvedimento amministrativo sia sottratta alla giurisdizione del giudice amministrativo, per essere demandata dalla legge ad altro giudice (nella specie, il giudice speciale CNF)».
Si possono ipotizzare, secondo l’estensore della ordinanza interlocutoria, diverse ipotesi ricostruttive: a) il giudice amministrativo, avendo giurisdizione sulla tutela risarcitoria ma non su quella demolitoria, non può accordare la tutela risarcitoria se non previo annullamento del provvedimento disciplinare asseritamente lesivo; b) ovvero ritenere che, come sostenuto dalla difesa dell’odierna ricorrente, la carenza di giurisdizione del giudice amministrativo sulla tutela demolitoria non impedisca a tale giudice di conoscere della legittimità del provvedimento disciplinare asseritamente lesivo ai soli fini della pronuncia sulla domanda risarcitoria, sia se si riconosca, come sostenuto dal Consiglio di Stato nella sentenza impugnata, natura incidentale alla cognizione sulla legittimità del provvedimento disciplinare da parte del giudice della domanda risarcitoria (con possibile richiamo all’art.8 c.p.a.), sia se si riconosca a tale cognizione natura principale, potendo essere evocati i principi – di portata evidentemente generale – espressi dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 49 del 2011 e 160 del 2019, in tema di rapporti tra giudice statale e giudice sportivo, secondo cui «il giudice amministrativo può comunque conoscere delle questioni disciplinari che riguardano diritti soggettivi o interessi legittimi, poiché l’esplicita riserva a favore della giustizia sportiva, se esclude il giudizio di annullamento, non intacca tuttavia la facoltà di chi ritenga di essere stato leso nelle sue posizioni soggettive, ivi comprese quelle di interesse legittimo, di agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno. A tali fini non opera infatti la riserva a favore della giustizia sportiva, davanti alla quale del resto la pretesa risarcitoria non potrebbe essere fatta valere» (così C. Cost. n. 160/2019, § 3.2.2., che ha enunciato tale principio in un contesto normativo che – con l’articolo 3 del decreto-legge 19 agosto 2003 n. 220, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280 – attribuisce al giudice amministrativo ogni controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo, eccezion fatta per le controversie, attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario, sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti).
A tale ultimo riguardo, si può rilevare che, sul tema, sono intervenute anche le Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno in più occasioni affermato che «In tema di sanzioni disciplinari sportive, vi è difetto assoluto di giurisdizione sulle controversie riguardanti i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni, riservate, a tutela dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, agli organi di giustizia sportiva che le società, le associazioni, gli affiliati e i tesserati hanno l’onere di adire ai sensi del d.l. n. 220 del 2003 , conv. in legge n. 280 del 2003 , anche ove si invochi la tutela in forma specifica della rimozione della sanzione disciplinare, ferma restando la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ex art. 133, comma 1, lett. z), c.p.a., in ordine alla tutela risarcitoria per equivalente, non operando in tal caso alcuna riserva a favore della giustizia sportiva e potendo il giudice amministrativo conoscere in via incidentale e indiretta delle sanzioni disciplinari, ove lesive di situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento statale» (Cass., Sez. Un., n. 33536/2018; sul punto anche, Cass. , Sez. Un. , n. 32358/2018; Cass. Sez.Un. n. 12149/2021).
Va rilevato, però, che, nella materia della giustizia sportiva, vi è giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art.133, lett.z), per «le controversie aventi ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservate agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ed escluse quelle inerenti i rapporti patrimoniali tra societa’, associazioni e atleti».
Quindi, nella suddetta materia, ai sensi dell’art.2 l.280/2003 lett.a) e b), le questioni tecniche e disciplinari rimangono nell’ordinamento sportivo e sono soggette alla giurisdizione dei giudici sportivi, mentre il giudice statale amministrativo, in forza della giurisdizione esclusiva riconosciuta, conosce delle controversie che, seppure nascenti da sanzioni disciplinari, incidono sul godimento dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi, quali la domanda di risarcimento del danno per equivalente, ma non ha il potere di statuire sull’annullamento del provvedimento sanzionatorio disciplinare (corte Cost. nn. 49/2011 e 160/2019), potendo soltanto procedere ad un accertamento incidentale dell’illegittimità del provvedimento stesso a fini risarcitori.
Nell’ambito delle sanzioni disciplinari agli avvocati, di cui in questo giudizio si controverte, vi è, invece, un giudice speciale statuale, diverso da quello amministrativo, deputato ad accertare l’illegittimità della sanzione.
Altra questione meritevole di approfondimento da parte di queste Sezioni Unite, in funzione nomofilattica, prospettata nell’ordinanza interlocutoria n. 3599/2023 – pur nel dubbio, palesato, se nel presente giudizio il tema della giurisdizione sulla domanda risarcitoria sia, come si prospetta nell’ordinanza, coperto dal giudicato interno – concerne i criteri di individuazione del giudice munito di giurisdizione sulla domanda di risarcimento dei danni causati da un provvedimento disciplinare, asseritamente illegittimo, adottato nei confronti di un avvocato, in quanto, escluso che la giurisdizione sulla tutela risarcitoria competa al CNF, al quale la legge attribuisce la giurisdizione solo sulla tutela demolitoria, «andrebbe approfondita la questione se la situazione soggettiva lesa da un provvedimento disciplinare illegittimo abbia natura di interesse legittimo o di diritto soggettivo», in quanto, in questo secondo caso, in assenza di una disposizione attributiva di giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo, la giurisdizione potrebbe ritenersi spettante al giudice ordinario (per l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di risarcimento dei danni da provvedimento disciplinare in relazione al quale la tutela demolitoria sia rimessa dalla legge ad altro plesso giurisdizionale, Cass. SSUU n. 1415 del 2004: «La domanda proposta da un lavoratore autoferrotramviere intesa ad ottenere dall’azienda datrice di lavoro il risarcimento dei danni derivanti da una sanzione disciplinare, sul presupposto della illegittimità del relativo provvedimento di irrogazione, è sottratta alla giurisdizione del giudice amministrativo prevista dall’art. 58 r.d. n. 148 del 1931, all. A), ed appartiene alla cognizione del giudice ordinario, posto che in tale ipotesi l’accertamento di illegittimità dell’atto amministrativo è strumentalmente collegato alla tutela di un diritto soggettivo, mentre appartiene al merito della controversia ogni questione concernente la disapplicabilità del medesimo atto in via incidentale»).
3. Deve rilevarsi che, nel presente giudizio, si è formato un giudicato implicito sulla giurisdizione, nell’azione risarcitoria proposta, del giudice amministrativo, secondo le regole di riparto.
Ai sensi dell’art.9 c.p.a. («Il difetto di giurisdizione e’ rilevato in primo grado anche d’ufficio. Nei giudizi di impugnazione é rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione»), la mancata espressa impugnazione di una sentenza, contenente una statuizione, ancorché implicita, sulla giurisdizione, preclude al giudice del gravame di rilevare il difetto di giurisdizione, essendosi sul punto formato il giudicato interno.
Orbene, la decisione sul merito non può che presupporre la verifica positiva della sussistenza della giurisdizione, oggetto di una statuizione implicita.
Nella specie, il giudice amministrativo non ha negato di avere giurisdizione, nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità (non vertendosi in ipotesi di giurisdizione esclusiva) sulla domanda risarcitoria, per lesione di interesse legittimo derivante dal provvedimento disciplinare adottato a carico dell’avvocato ricorrente, avendo respinto la domanda perché ritenuta infondata nel merito, affermando che – dovendo ritenersi l’azione risarcitoria proposta in via autonoma e non in via complementare e contestuale alla tutela impugnatoria dell’atto amministrativo, in difetto di una pronuncia «di annullamento del provvedimento» di radiazione del COA Potenza, essendosi estinto, per effetto della mancata riassunzione del giudizio di rinvio, ex art.393 c.pc., il processo impugnatorio avverso la sola decisione del CNF – il giudice amministrativo non avrebbe potuto, neppure in via incidentale, vagliare l’illegittimità della sanzione disciplinare irrogata, presupposto questo indefettibile della domanda di risarcimento del danno ingiusto, in quanto la giurisdizione è riservata al Consiglio Nazionale Forese quale giudice speciale .
Deve qui rilevarsi che, allorché il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente la propria giurisdizione e le parti abbiano prestato acquiescenza, non contestando la relativa sentenza sotto tale profilo, non è consentito al giudice della successiva fase impugnatoria rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione, in quanto tale questione è ormai coperta dal giudicato implicito, interno (cfr. Cass. Sez.UN. n. 21972/2021; Cass.Sez.Un. n.10359/2021; id.nn.25208 e 5587 del 2020). Rimane, altresì, precluso all’attore, rimasto soccombente nel merito, contestare la giurisdizione di quel giudice che egli stesso ha adito (v.Sez.Un. n.25367 del 2020; id.n. 21260 del 2016);
Sulla decadenza per mancato rispetto del termine di cui all’art.30 c.p.a. e tardività dell’azione risarcitoria, pur eccepita dai controricorrenti, il giudice amministrativo non si è pronunciato.
4. Va ricostruito, quindi, il quadro normativo e giurisprudenziale, sull’azione risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo.
4.1. La giurisdizione generale di legittimità.
La giurisdizione affermata, nel presente giudizio, dal giudice amministrativo, con giudicato implicito, è, non vertendosi, pacificamente, in ipotesi di giurisdizione esclusiva, quella generale di legittimità, di cui all’art.7, comma 4, c.p.a. («Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma»), nell’ambito della quale vengono in rilievo, di regola, le posizioni di interesse legittimo a fronte di fattispecie in cui la pubblica amministrazione agisce in via autoritativa, nell’esercizio di un potere pubblico.
Nei casi di giurisdizione di legittimità, la decisione sugli interessi legittimi può comportare (art.8 c.p.a.) la necessità di una pronuncia, in via incidentale, senza efficacia di giudicato, rispetto a diritti soggettivi, salvo le materie escluse di cui a 2° comma della stessa disposizione (questioni di stato, capacità delle persone ed incidenti di falso).
Nella specie, non si è invocata la tutela demolitoria (volta all’annullamento dell’atto illegittimo viziato per violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere), ma si è esercitata un’azione di condanna (al risarcimento dei danni), in via autonoma.
4.2. L’azione risarcitoria nel processo amministrativo.
La questione della pregiudizialità della domanda di annullamento dell’atto illegittimo rispetto all’azione di risarcimento del danno, già risolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in favore della autonomia delle azioni e della proponibilità della domanda di risarcimento dinanzi al giudice amministrativo anche in difetto di previa domanda di annullamento dell’atto lesivo (Cass. Sez.Un. ord. nn. 13659, 13660 e 13911 del 13.6.2006), è ora disciplinata dal codice del processo amministrativo, all’art. 30.
Tale disposizione regolamenta ormai, in maniera unitaria, l’azione di condanna esperibile nel processo amministrativo (a) a tutela di interessi legittimi e (b) di diritti soggettivi (nei casi di giurisdizione esclusiva).
L’art.30 c.p.a., al comma 1°, stabilisce che «L’azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma». L’art.7, al quarto comma, del pari, prevede che «Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma».
Quindi, l’azione di condanna correlata a diritti soggettivi (c.d. privatistica), nell’ambito della giurisdizione esclusiva, può essere proposta esclusivamente (comma 6, art.30) dinanzi al giudice amministrativo, anche in via autonoma (comma 1, art.30), entro il termine prescrizionale ordinario di dieci anni. Al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva, l’azione di condanna a tutela di diritti soggettivi va invece proposta dinanzi al giudice ordinario.
L’azione di condanna (c.d. pubblicistica) a tutela degli interessi legittimi può essere proposta esclusivamente dinanzi al giudice amministrativo (comma 6, art.30); ove correlata all’emanazione di un provvedimento amministrativo illegittimo può essere proposta o unitamente all’azione di annullamento in via complementare per reintegrare in modo completo l’interesse leso ovvero (questa la novità normativa) in modo autonomo (c.d. azione risarcitoria pura), senza la previa proposizione di un’azione di annullamento.
Il legislatore ha dunque ammesso, in via di principio, l’autonomia della domanda risarcitoria rispetto a quella di annullamento del provvedimento lesivo: al giudice amministrativo può essere richiesto il risarcimento dei danni per lesione a interessi legittimi anche se l’atto amministrativo non sia stato impugnato (comma 3 dell’art.30) e, in tal caso, il giudice amministrativo può conoscere della sua illegittimità, ove essa assuma rilievo ai fini della pronuncia sulla pretesa risarcitoria.
Tuttavia, l’autonomia della domanda risarcitoria, nel caso di lesione di interessi legittimi, è stata temperata dall’introduzione di uno specifico termine di decadenza: a) l’azione (art.30, comma 3, c.p.a.) in via autonoma va proposta entro un termine di 120 giorni dal momento in cui si è verificato «il fatto» ovvero «dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo»; b) se il provvedimento lesivo sia stato invece impugnato, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio (anche dopo la scadenza del termine di 120 giorni), con lo strumento dei motivi aggiunti, o successivamente alla sentenza di annullamento, fino a 120 giorni dal suo passaggio in giudicato (comma 5° art.30 ).
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 94 del 4/5/2017 ha ritenuto infondata la relativa questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla previsione nell’azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi di un termine breve di decadenza, non presente nella disciplina civilistica sul risarcimento dei danni, rilevando che «la previsione del termine di decadenza per l’esercizio dell’azione risarcitoria non può ritenersi il frutto di una scelta viziata da manifesta irragionevolezza, ma costituisce l’espressione di un coerente bilanciamento dell’interesse del danneggiato di vedersi riconosciuta la possibilità di agire anche a prescindere dalla domanda di annullamento (con eliminazione della regola della pregiudizialità), con l’obiettivo, di rilevante interesse pubblico, di pervenire in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria, secondo una logica di stabilità degli effetti giuridici ben conosciuta in rilevanti settori del diritto privato ove le aspirazioni risarcitorie si colleghino al non corretto esercizio del potere, specie nell’ambito di organizzazioni complesse e di esigenze di stabilità degli assetti economici (art. 2377, sesto comma, del codice civile)».
Inoltre, in caso di proposizione in via autonoma, di domanda risarcitoria da lesione di interessi legittimi, entro il termine decadenziale indicato, ai sensi del terzo comma dell’art.30 «nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti». Quindi, in sede di determinazione dell’ammontare del risarcimento, il giudice amministrativo deve escludere quei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’azione di annullamento dell’atto illegittimo ovvero attivando strumenti di tutela cautelare o istanza di autotutela (con richiamo implicito all’art.1227 comma 2 c.c., Cons.St., adunanza Plenaria, n. 3/2011; Cons.St-., VI Sez., 15/6/2015 n. 2906), rilevando l’omessa tempestiva proposizione del ricorso per l’annullamento del provvedimento lesivo non come fatto preclusivo della domanda risarcitoria a solo come condotta che, nell’ambito di una valutazione complessiva del comportamento delle parti in causa, può autorizzare il Giudice ad escludere il risarcimento o a ridurne l’importo, ove si accerti che la tempestiva proposizione del ricorso per l’annullamento dell’atto lesivo avrebbe evitato o limitato i danni.
Al secondo comma del successivo art.34 c.p.a. si dispone che, salvo quanto previsto «dall’art.30, comma 3, il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento di cui all’articolo 29».
L’art. 34, comma 3, attiene poi all’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato a fini risarcitori, quale (primo e fondamentale) elemento costitutivo della responsabilità della p.a. per atto illegittimo, vale a dire – essendo tale responsabilità ricondotta all’illecito aquiliano ex art. 2043 cod. civ.- all’accertamento dell’ingiustizia del danno, ferma restando la necessità di accertare la sussistenza degli altri elementi della fattispecie nell’instaurando giudizio risarcitorio, cosicché, venuto meno l’interesse alla caducazione dell’atto, l’azione di annullamento si converte per legge in azione di accertamento di detta illegittimità (cfr. Cons. Stato, VI, 20 novembre 2017, n. 5324).
In presenza di una domanda risarcitoria, l’art. 34, comma 3, c.p.a. impone, quindi, l’accertamento dell’illegittimità degli atti impugnati, sempre che sussista la condizione di tale azione di accertamento, cioè l’«interesse a fini risarcitori», da vagliarsi, secondo la regola generale dell’art. 100 cod. proc. civ., tenuto conto delle sopravvenienze di fatto e di diritto.
4.3. L’accertamento incidentale a fini risarcitori.
Deve poi rilevarsi che, ai sensi dell’art.8 c.p.a., Cognizione incidentale e questioni pregiudiziali, il giudice amministrativo «nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva conosce, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale 2. Restano riservate all’autorita’ giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacita’ delle persone, salvo che si tratti della capacita’ di stare in giudizio, e la risoluzione dell’incidente di falso.».
La disposizione, che disciplina la cognizione incidentale del giudice amministrativo solo con riguardo alle materia in cui ha giurisdizione non esclusiva, deve essere messa in relazione all’art.7, comma 5, la norma generale che si riferisce invece alle materie di giurisdizione esclusiva («5. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi»).
In sostanza, il giudice amministrativo deve essenzialmente considerarsi titolare del potere di conoscere sia le questioni pregiudiziali sia le questioni principali allo stesso devolute, come rientranti nella sua giurisdizione, pur se le determinazioni relative alle questioni pregiudiziali concernenti diritti non possano assumere efficacia di giudicato, che deve essere limitato alla questione principale. La previsione normativa afferisce più propriamente a quelle ipotesi in cui il giudice amministrativo non sia in grado di conoscere incidenter tantum una questione pregiudiziale, perché riservata ad altro giudice e/o già sottoposta al suo esame, con conseguente necessità per lo stesso di sospensione del processo dinanzi ad esso stesso pendente, ex art.79 c.p.a., processo che sarà proseguito all’esito della definizione giudiziale della pregiudiziale da parte del giudice competente.
Il comma 2 dell’art. 8 (passato indenne al vaglio di costituzionalità, cfr. Corte Cost 11.11.2011 n. 304, ove si è rilevato che il «riservare al giudice civile la risoluzione delle controversie sullo stato e la capacità delle persone, salvo la capacità di stare in giudizio, nonché la risoluzione dell’incidente di falso, in tema di atti muniti di fede privilegiata, risponde, come è noto, alla esigenza di assicurare in talune peculiari materie – rispetto alle quali maggiore è la necessità di una certezza erga omnes e sulle quali possa dunque formarsi anche un giudicato – una sede e un modello processuale unitari: così da evitare, ad un tempo, il rischio di contrastanti pronunce – che minerebbero la fiducia verso determinati atti ovvero in ordine a condizioni e qualità personali di essenziale risalto agli effetti dei rapporti intersoggettivi – e il ricorso a modelli variegati di accertamento, dipendenti dalle specificità dei procedimenti all’interno dei quali simili questioni “pregiudicanti” possono intervenire») elenca le questioni, tra quelle pregiudiziali, che viceversa, devono considerarsi oggetto di esclusiva competenza del giudice ordinario, ossia le questioni «concernenti lo stato e la capacità delle persone», riservando al giudice amministrativo, quale eccezione alla deroga, la valutazione della «capacità di stare in giudizio», e la «risoluzione dell’incidente di falso».
In ordine alle questioni pregiudiziali concernenti gli status e la capacità giuridica o di agire dei privati individui, con la necessità per il giudice amministrativo di sospendere il processo e disporre la conseguente devoluzione della questione al giudice ordinario, si è rilevato, in dottrina, che l’interpretazione debba essere necessariamente rigorosa, evitando di ampliarne l’ambito di applicazione.
Si ha, invero, un’eccezione al principio secondo cui al giudice amministrativo è ammessa la pronuncia incidenter tantum anche su questioni relative a diritti, qualora la loro soluzione si atteggi come pregiudiziale necessaria per la decisione che gli è richiesta (Cons.St., Sez.V, 13.9.1999 n.1052).
In particolare, in merito alla identificazione degli status, in essi sono certamente da ricomprendere quelli di carattere familiare (Cass. n. 21628/2006) e riguardanti la cittadinanza (Cons. Stato, Sez.IV, 22.12.1942), mentre si sono ritenute non sussumibili tra le pregiudiziali di che trattasi altre posizioni di natura politico-sociale, quali ad esempio il diritto di nazionalità o di elettorato attivo e passivo, che non sono considerate questioni di natura eccezionale tali da imporre la sospensione del processo, ai sensi degli artt. 79, comma l, e 79, comma 3, c.p.a. cosicché il giudice amministrativo ha ritenuto che le questioni pregiudiziali sottratte alla sua cogniione sia pure incidentale sono da considerarsi «limitate allo status di famiglia e di cittadinanza» (Cons. Stato, Sez.V, 15.6.2000 n. 3338; Cons.St., Sez.V, 13 settembre 1999, n.1052).
Nella pronuncia Sez.Un. 16959/2018, questa Corte ha cassato una sentenza del Consiglio di Stato (in punto di non trascrivibilità nei registri dello stato civile di matrimoni omosessuali celebrati all’estero) per violazione dell’art.8, comma 2, c.p.a., configurandosi eccesso di potere giurisdizionale e non un mero error in procedendo nell’ipotesi in cui il giudice amministrativo svolga la propria cognizione in via incidentale su una questione che ad esso è sottratta, attenendo allo stato delle persone, espressamente riservata alla giurisdizione ordinaria.
5. Occorre, inoltre, porre l’accento sulla peculiarità del procedimento disciplinare avvocati, nella sua articolazione tra fase amministrativa e fase impugnatoria giurisdizionale dinanzi a CNF.
Le funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli degli ordini territoriali, e il relativo procedimento, hanno natura amministrativa e non giurisdizionale, come affermato, tra le altre, da Cass. Sez. Un. n. 6295/2003, Cass. Sez. Un. n. 9097/2005; Cass. Sez. Un n. 20843/2007, Cass. Sez. Un. n. 23593/2020, Cass. Sez. Un. n. 8777/2021. In particolare, è stato sottolineato (Cass. Sez. Un. n. 10688/2002) che i Consigli locali svolgono i relativi compiti nei confronti dei professionisti che formano l’ordine forense, quindi all’interno del gruppo che essi costituiscono e per la tutela della classe professionale, cosicché la funzione disciplinare che a tali organi compete è, dunque, manifestazione di un potere amministrativo attribuito dalla legge per l’attuazione del rapporto che si instaura con l’appartenenza all’ordine, il quale stabilisce comportamenti conformi ai fini che intende perseguire. Queste Sezioni Unite hanno affermato (Cass. Sez.Un. 16993/2017; conf. Cass. Sez.Un. 19030/2021) che anche l’organo distrettuale di disciplina ha una funzione sicuramente amministrativa, ma di natura «giustiziale», anche se non giurisdizionale, caratterizzata da elementi di terzietà valorizzati sia dal peculiare sistema elettorale, sia dalle specifiche garanzie d’incompatibilità, astensione e ricusazione (art. 3 reg. elett.; art. 6-9 reg. disc.). E’ stato evidenziato come, con la Riforma forense, si sia accentuata «la separazione tra il COA, quale organo di vigilanza deontologica e di esecuzione delle sanzioni, e il CDD, quale organo titolare del potere disciplinare» (sent. n. 16993 cit.).
Invece, il Consiglio nazionale forense, allorché pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale, istituito con d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 382 (art.21) e legittimamente tuttora operante, giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione; la disciplina della funzione giurisdizionale del C.N.F., quale giudice terzo, è coperta dall’art. 108, comma 2, e dall’art. 111, comma 2, Cost. (cfr.: Cass., Sez.Un. n. 16993/2017, in motiv.; Cass. Sez. Un. n. 8777/2021).
Come ribadito da questa Corte «a norma degli artt. 24, 31, 35, 37, 50 e 54 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sono devolute alla giurisdizione del Consiglio nazionale forense tutte le controversie relative alla iscrizione, al rifiuto di iscrizione, nonché alla cancellazione dall’albo professionale degli avvocati, così come quelle relative all’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei medesimi» (Cass. Sez.Un.25831/2007) e «A norma dell’art. 36 della l. n. 247 del 2012 – il quale riproduce, nella sostanza, una disposizione già precedentemente in vigore perché contenuta nel r.d.l. n. 1578 del 1933 – spetta al Consiglio Nazionale Forense la competenza a conoscere dei ricorsi avverso i provvedimenti di iscrizione, di diniego di iscrizione e di cancellazione dall’albo professionale degli avvocati, emessi dai Consigli dell’Ordine degli avvocati, così integrandosi una ipotesi di giurisdizione speciale» (Cass. Sez.Un. 34429/2019; conf. Cass. Sez.Un. 16548/2020).
In ordine al controllo rimesso alle Sezioni Unite di questa Corte sulle decisioni del CNF, si è rilevato (Cass. Sez.Un. 15873/2013; conf. Cass.13168/2021) che «Il codice deontologico forense non ha carattere normativo, essendo costituito da un insieme di regole che gli organi di governo degli avvocati si sono date per attuare i valori caratterizzanti la propria professione e garantire la libertà, la sicurezza e la inviolabilità della difesa, con la conseguenza che la violazione di detto codice rileva in sede giurisdizionale solo quando si colleghi all’incompetenza, all’eccesso di potere o alla violazione di legge, cioè ad una delle ragioni per le quali l’art. 56, terzo comma, del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, consente il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, per censurare unicamente un uso del potere disciplinare da parte degli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce»
La materia del risarcimento del danno non rientra nella giurisdizione del CNF, essendo la competenza di detto organo limitata alla cognizione delle impugnazioni delle deliberazioni dei Consigli territoriali e alla valutazione della loro eventuale illegittimità.
6. Altro tema controverso, nel presente giudizio, è la sorte della sanzione disciplinare per effetto della mancata riassunzione del giudizio di rinvio e della conseguente estinzione del giudizio impugnatorio.
6.1. Risulta, dalla sentenza di queste Sezioni Unite n. 16694/2017, che questa Corte accoglieva un vizio motivazionale del ricorso per cassazione avverso la sentenza del CNF, in punto di omessa valutazione di fatti decisivi nella valutazione della gravità della condotta contestata all’avvocatessa e della congruità della sanzione irrogata.
Il giudizio di rinvio dinanzi al CNF, nella specie, non è stato però riassunto.
6.2. L’art.393 c.p.c. stabilisce che, in ipotesi di cassazione con rinvio, sia la mancata sia la tardiva riassunzione rispetto al termine di cui all’art.392 c.p.c. (entro tre mesi dalla pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione) determinano l’estinzione «dell’intero processo», con conseguente caducazione delle sentenze emesse nel corso dello stesso, permanendo solo l’effetto vincolante del principio di dritto, che non viene meno nell’eventuale nuovo processo instaurato con la riproposizione della domanda.
Questa Corte a Sezioni Unite, con la sentenza n. 17938/2008, ha chiarito che la riassunzione del giudizio disciplinare davanti al Consiglio nazionale forense, a seguito di sentenza di cassazione con rinvio deve essere compiuta secondo il disposto dell’art. 392 cod. proc. civ., su impulso della parte processuale, con la conseguenza che l’eventuale riassunzione disposta d’ufficio dal medesimo Consiglio è inammissibile e non impedisce l’estinzione del processo ai sensi dell’art. 393 cod. proc. civ., in quanto il modello di riferimento procedurale è quello civilistico/dispositivo, in assenza, nell’ambito della legge speciale forense, di una specifica disposizione regolante le modalità di proposizione del giudizio di riassunzione e non essendo consentito riconoscere o attribuire al giudice terzo, in via interpretativa, spazi per iniziative di ufficio, della cui legittimità dovrebbe dubitarsi anche in presenza di una espressa norma di legge.
Sugli effetti dell’estinzione del processo sull’atto (amministrativo) costituente l’oggetto dell’impugnazione, questa Corte ha ribadito in varie occasioni, in ambito di contenzioso tributario (strutturato secondo il modello della natura impugnatoria dell’atto impositivo, di natura amministrativa e non processuale), che «l’estinzione del giudizio comporta la definitività dell’avviso di accertamento impugnato, giacchè quest’ultimo non è un atto processuale, ma l’oggetto dell’impugnazione» (Cass. 5044/2008; Cass. 16689/2013; Cass. 556/2016; Cass. 32276/2018; Cass. 25014/2021; Cass. 7444/2022).
6.3. Orbene, la sanzione della radiazione, comminata dal COA Potenza, del 2014, veniva impugnata in sede giurisdizionale dinanzi al Consiglio Nazionale Forense.
Il processo impugnatorio si è estinto, ex art.393 c.p.c., per effetto della mancata riassunzione del giudizio di rinvio, a seguito di cassazione con rinvio, per difetto di motivazione, della decisione del CNF del 2016 (che aveva ritenuto congrua la sanzione irrogata all’avv.Fuccilo), con sentenza di questa Corte a Sez.Unite n. 16694 del 6/7/2017.
L’estinzione, come affermato dal giudice amministrativo, non ha, nella specie, travolto l’atto amministrativo di irrogazione della sanzione, che era l’oggetto del processo impugnatorio estinto.
Nella materia tributaria, si afferma che l’estinzione del giudizio impugnatorio tributario, all’esito della cassazione con rinvio della sentenza di merito e dell’omessa riassunzione del giudizio, comporta la definitività dell’avviso di accertamento che ne costituisce l’oggetto (Cass.3040/2008 e 8765/2008; Cass. 21143/2015; Cass. 569/2016; Cass. 5223/2019).
Tuttavia, nella specie, la questione della definitività della sanzione discipinare, che costituiva l’oggetto dell’impugnazione dinanzi al CNF, non risulta del tutto decisiva, in quanto non potrebbe per ciò solo ritenersi non esercitabile l’azione risarcitoria proposta in via autonoma, avendo la ricorrente prospettato che la propria domanda non è rivolta a travolgere l’atto amministrativo giustiziale ma a conseguire solo l’asserito danno ingiusto conseguente.
L’unico interesse azionato è qui quello risarcitorio, anche se, in effetti, sull’aspetto della intervenuta caducazione della sanzione disciplinare (all’esito della pronuncia di queste Sezioni Unite del 2017) la difesa della ricorrente si è ripetutamente soffermata, nei gradi di merito, come emerge dagli atti.
7. Tanto chiarito, occorre esaminare il preliminare aspetto della ammissibilità del presente ricorso per cassazione.
7.1. Con atto del 1°/3/2018, l’avv.Fuccilo (a distanza di anni dal provvedimento disciplinare di radiazione, adottato dal COA di Melfi, cui poi è subentrato il COA di Potenza, nel luglio 2014, e dopo oltre sette mesi dalla sentenza n. 16694/2017 di questa Corte di Cassazione di cassazione con rinvio di pregressa decisione del CNF del 13/10/2016) ha promosso, dinanzi al giudice amministrativo, un’azione risarcitoria per sentire condannare il COA Potenza al risarcimento del danno patrimoniale e morale patito a seguito dell’ingiusta radiazione subita.
L’atto è stato notificato ai componenti del COA quali controinteressati.
La domanda è stata, in primo e secondo grado, respinta, nel merito, per difetto del presupposto dell’illecita condotta dell’amministrazione resistente, essendosi rilevato che, non essendo stata annullata la sanzione disciplinare ma solo dichiarato estinto il processo avente ad oggetto l’impugnazione di detto atto, il giudice amministrativo non poteva conoscere neppure incidenter tantum dell’illegittimità dedotta della suddetta sanzione.
Il giudice amministrativo non si è pronunciato sulla preliminare eccezione di decadenza, sollevata dal resistente e dai controinteressati, ritenendola assorbita in ragione dell’infondatezza della domanda risarcitoria nel merito, per difetto del presupposto dell’illegittimità del provvedimento lesivo.
7.2. In punto di ammissibilità del ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione ed alla disciplina del relativo riparto, ai sensi dell’art.111, comma ottavo, Cost. (contestata dai controricorrenti anche dinanzi al giudice amministrativo), va ribadito che il ricorso per cassazione contro le sentenze del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art.111, ult.comma, Cost., è ammesso per soli motivi inerenti alla giurisdizione.
La ricorrente, nei due profili dell’unico motivo, denuncia il vizio di rifiuto o diniego di giurisdizione per avere il Consiglio di Stato sia invocato un «aprioristico diniego di tutela nel caso non vi sia stato il previo annullamento dell’atto» amministrativo sia rifiutato di esercitare il correlato potere di disapplicazione dell’atto asseritamente illegittimo, per «carenza di giurisdizione del giudice amministrativo nella materia disciplinare degli avvocati».
7.3. Secondo l’interpretazione costituzionalmente corretta tra i motivi inerenti alla giurisdizione denunciabili in Cassazione vi sono solamente alcuni casi specifici.
Questa Corte a Sezioni Unite ha affermato (Cass., Sez. Un., 13 maggio 2020, n. 8848; Cass., Sez. Un., 19 aprile 2021, n. 10245; Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2021, n. 30112) che l’eccesso di potere denunciabile con ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione o eccesso di potere giurisdizionale (c.d. sconfinamento o invasione), o di rifiuto di giurisdizione (c.d. arretramento), che si verificano, rispettivamente, quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto «in assoluto» di cognizione giurisdizionale, o di difetto relativo di giurisdizione o diniego di giurisdizione, riscontrabili, rispettivamente, quando detto giudice abbia violato i limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale (c.d. invasione), ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici, giudice ordinario o altro giudice speciale (c.d. autolimitazione).
Il difetto relativo di giurisdizione è funzionale al rispetto degli ambiti di giurisdizione tra i vari plessi giudiziari.
Poiché la nozione di eccesso di potere giurisdizionale non ammette letture estensive, neanche limitatamente ai casi di sentenze abnormi, anomale ovvero caratterizzate da uno stravolgimento radicale delle norme di riferimento, il relativo vizio non è configurabile in relazione a denunciate violazioni di legge sostanziale o processuale riguardanti il modo di esercizio della giurisdizione speciale (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2021, n. 2605).
Si è quindi precisato (Cass. Sez.Un. 13976/2017), in ordine alla distinzione tra casi in cui vi è rifiuto della giurisdizione e quelli in cui si riscontra un semplice cattivo esercizio della giurisdizione per errores in iudicando o in procedendo, non sindacabile dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, che «il cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che provveda perché investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione e, tuttavia, nell’esercitarla, applichi regole di giudizio che lo portino a negare tutela alla situazione giuridica azionata, si risolve soltanto nell’ipotetica commissione di un errore all’interno ad essa e, se tale errore porta a negare tutela alla situazione fatta valere, ciò si risolve in una valutazione di infondatezza della richiesta di tutela, ancorché la statuizione, in quanto proveniente dal giudice di ultimo grado della giurisdizione adìta, comporti che la situazione rimanga priva di tutela giurisdizionale».
Ne deriva che integra il vizio di «rifiuto» dell’esercizio della giurisdizione l’affermazione – contro la regula iuris che attribuisce a quel giudice il potere di dicere ius sulla domanda – che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio è, in astratto, priva di tutela, allorché essa sia corredata dal rilievo della estraneità di tale situazione non solo alla propria giurisdizione ma anche a quella di ogni altro giudice; mentre, ove tale affermazione sia accompagnata dal riconoscimento dell’esistenza dell’altrui giurisdizione, ricorre un’ipotesi di diniego della propria giurisdizione, l’uno e l’altro vizio, peraltro, risultando i soli sindacabili dalla Corte di cassazione ex art. 111, ultimo comma, Cost., diversamente dall’erronea negazione, in concreto, della tutela alla situazione soggettiva azionata (Cass., Sez. Un., 6 giugno 2017, n. 13976).
E’ stato poi ribadito (Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2018, n. 32773; Cass., Sez. Un., 9 aprile 2020, n. 7762) che la negazione «in concreto» di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non implica eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, ottavo comma, Cost., atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione.
Ancora, sempre in tema di sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato per motivi inerenti alla giurisdizione, si è precisato (Cass. Sez.Un. n. 24468/2013) che «è configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo solo nel caso di radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia e non già nel caso di mero dissenso del ricorrente nell’interpretazione della legge» (nella specie, il ricorrente, revocato dalla provvisoria aggiudicazione del servizio di riscossione tributi per sua inaffidabilità desumibile da un precedente rapporto, aveva lamentato che il Consiglio di Stato non si fosse limitato alla mera verifica della sufficienza della motivazione di tale revoca, ma ne aveva operato una vera e propria integrazione, così travalicando i confini della giurisdizione operando apprezzamenti discrezionali riservati alla pubblica amministrazione).
E, in linea, si è affermato che «in tema di sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato, la violazione dei limiti della cognizione incidentale stabiliti dall’art. 8 c.p.a. non configura un eccesso di potere giurisdizionale, ma solo un “error in procedendo”, commesso dal giudice amministrativo all’interno della sua giurisdizione» (Cass. sez.Un. n. 7292/2016).
Da ultimo (Cass. Sez.Un. n. 31023/2019), è stato dichiarato inammissibile un ricorso, con il quale si denunciava, anche in relazione agli artt. 30 e 34 c.p.a., l’erroneo rifiuto del Consiglio di stato di esercitare la giurisdizione in riferimento alla domanda di risarcimento del danno da illegittimità del provvedimento amministrativo per effetto della dichiarata inammissibilità dell’appello (una società, esclusa da una gara, aveva impugnato il provvedimento amministrativo di aggiudicazione provvisoria in favore di una concorrente, chiedendo anche i danni, ma, respinte le domande in primo grado, l’appello era dichiarato inammissibile, essendo intervenuta, nelle more del giudizio, l’aggiudicazione definitiva, con conseguente improcedibilità del ricorso contro il provvedimento di esclusione dalla gara o di aggiudicazione provvisoria, non potendo, secondo il Consiglio di stato, quanto alla connessa domanda risarcitoria, trovare applicazione l’art. 34, comma 3, c.p.a. invocato dall’appellante, poiché tale norma era operante solo se sussistevano le «condizioni per poter esaminare nel merito la domanda»). Si è quindi ritenuto che «le censure mosse alla sentenza impugnata, in quanto investenti la portata applicativa degli artt. 30 e 34 c.p.a., siccome ritenuta dal giudice di appello unitamente all’operare di un certo presupposto processuale reputato connesso all’esercizio dell’azione risarcitoria per esercizio illegittimo della funzione pubblica…, si risolvono nella denuncia di errori inerenti ai limiti interni alla giurisdizione, non sindacabili da questa Corte regolatrice».
Affinché si abbia rifiuto o diniego di giurisdizione, occorre, in definitiva, che una domanda sia stata proposta e che il giudice adito, nel declinare la giurisdizione, ritenga che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio sia «in astratto» priva di tutela ovvero riconosca che, sulla stessa, del tutto erroneamente, la competenza giurisdizionale spetti ad un giudice appartenente ad un diverso plesso, cosicché si è ritenuto non prospettabile tale vizio «quando il ricorrente si lamenti di giudizi che avrebbero dovuto essere promossi innanzi al giudice ordinario ma non lo sono stati, o che avrebbero potuto anche essere incardinati di fronte allo stesso giudice speciale, ma in epoca precedente rispetto alla introduzione di quello definito con la sentenza impugnata» (Cass. Sez. Un. 37552/2021).
7.4.Orbene, il proposto ricorso risulta inammissibile, non risolvendosi la decisione impugnata del Consiglio di Stato in un diniego relativo di giurisdizione, per arretramento o meglio autolimitazione, non essendosi affermato, da parte del giudice adito, che la situazione soggettiva fatta valere, con la pretesa risarcitoria proposta in via autonoma dinanzi al giudice amministrativo (non a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento dell’atto, ai sensi del 5° comma dell’art.30 c.p.a.), è, in assoluto, priva di tutela, ma soltanto che, in concreto, nella, del tutto peculiare, vicenda in esame, a fronte della definitività della sanzione disciplinare, ormai cristallizzatasi, la sua legittimità non poteva essere più esaminata, neppure in via incidentale, ai fini risarcitori, dal giudice amministrativo adito, carente di giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati, riservata al giudice speciale dell’ordine professionale, ossia al Consiglio Nazionale Forense, e ciò alla luce di una certa interpretazione dell’art.30, 2° e 3° comma, e 34, comma terzo, c.p.a..
E siccome il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale è circoscritto al controllo dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo, ovvero all’esistenza dei vizi che attengono all’esercizio della funzione giurisdizionale e non al modo del suo esercizio, cui attengono, invece, gli errori «in iudicando» o «in procedendo», il suddetto sindacato non è esperibile per censurare un’omessa pronuncia di merito, ovvero una declaratoria di inammissibilità di una determinata domanda, ove esse discendano non dal diniego di competenza giurisdizionale, ma dall’applicazione di norme processuali ritenute ostative all’esame della domanda medesima (Cass. Sez.Un. n. 10287/2003).
Vero che l’art.30 c.p.a. ha sancito l’abolizione della pregiudiziale amministrativa, prevedendo la possibilità di promuovere autonomamente l’azione di condanna derivante da un provvedimento amministrativo illegittimo, a prescindere quindi dal previo annullamento di quest’ultimo.
Ma, nella specie, non si affermato, nella sentenza impugnata del Consiglio di Stato, che la presente azione risarcitoria non potesse essere proposta, a prescindere dal previo annullamento dell’atto amministrativo e quindi in difetto di operatività del comma 5 dell’art.30 c.p.a., non essendo intervenuta alcuna sentenza di «annullamento» della sanzione disciplinare, ma che la pretesa risarcitoria difettava della dimostrazione di uno dei requisiti dell’illecito, ex art.2043 c.c., l’illegittimità dell’atto amministrativo, la cui valutazione è rimessa al giudice speciale, il Consiglio nazionale Forense, essendo tale sanzione disciplinare ormai divenuta definitiva.
In relazione propriamente a tale peculiare fattispecie, occorsa in concreto, il giudice amministrativo, il quale non ha declinato la propria giurisdizione sulla situazione soggettiva dedotta con l’azione risarcitoria, qualificata dalla ricorrente come relativa a tutela di interesse legittimo, affermava di non potere conoscere, in via incidentale e indiretta, delle sanzioni disciplinari, ove lesive di situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento statale.
Ed anche l’asserita non corretta, implicita, valutazione da parte del Consiglio di Stato dell’ambito della propria cognizione incidentale di cui all’art. 8 c.p.a. (per essere l’oggetto della cognizione incidentale conosciuto dal giudice amministrativo sempre e soltanto in funzione della esplicazione della giurisdizione sul bene della vita dedotto in giudizio in via principale, oggetto della giurisdizione esercitata) concernerebbe sempre e soltanto una norma del procedimento regolatore del processo amministrativo e non la negazione di una sua giurisdizione.
Non si verte, dunque, in ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale per violazione dei limiti esterni della giurisdizione, con riferimento alle regole del processo amministrativo, in quanto non vi è stato un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego, relativo (per essere la cognizione riservata a giudice speciale), di giustizia, ma soltanto essendo stato dedotto un «dissenso del ricorrente nell’interpretazione della legge» (Cass. sez.Un. 24468/2013), e non è stata negata, in astratto, la giurisdizione in ordine alla domanda risarcitoria sulla base dell’erroneo presupposto che essa appartenesse ad altri giudici e che occorresse comunque e sempre il previo esperimento dell’azione di annullamento dell’atto amministrativo giustiziale, essendosi, invece, respinta la domanda per difetto del presupposto dell’illegittimità della sanzione, in quanto divenuta, in concreto, definitiva e non sindacabile dal giudice adito, sulla base di una certa interpretazione delle norme processuali, che rientrano nel modo di esercizio della giurisdizione speciale amministrativa.
E il sindacato di questa Corte si deve fermare, non vertendosi in controllo dell’osservanza dei limiti esterni della giurisdizione .
9. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso.
Ricorrono giusti motivi, attesa la novità e complessità delle questioni di diritto e tutte le peculiarità della vicenda, anche processuali, per compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, si deve dar atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, dichiara inammissibile il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 20 giugno 2023.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 06 febbraio 2023, n. 3599, per SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19103, in tema di riparto di giurisdizione
SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19103, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di illecito disciplinare – SS.UU, 19 giugno 2023, n. 17480
Civile Sent. Sez. U Num. 17480 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: CARRATO ALDO
Data pubblicazione: 19/06/2023
SENTENZA
sul ricorso 30278-2022 proposto da:
ANGELINI CARLO, rappresentato e difeso da se medesimo unitamente all’avvocato SERGIO MARINI;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, ORDINE DEGLI AVVOCATI DI FERMO;
– intimati –
avverso la sentenza n. 212/2022 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 11/11/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 6/06/2023 dal Consigliere ALDO CARRATO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale ALESSANDRO PEPE, che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri e cassare senza rinvio la sentenza impugnata per intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare;
uditi gli avvocati Carlo Angelini e Sergio Marini.
RITENUTO IN FATTO
1. L’Avv. Carlo Angelini ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Consiglio Nazionale Forense RD n. 212/2022, emessa il 13 luglio 2022, depositata l’11 novembre 2022, e regolarmente notificata all’interessato.
Il giudizio disciplinare nei confronti del ricorrente iniziava a seguito di numerosi esposti presentati al COA di Macerata nei quali si segnalavano diverse condotte poste in essere dal legale e che avrebbero potuto avere rilievo disciplinare.
In particolare, nei predetti esposti si rappresentava:
– che l’avv. Angelini aveva accusato ingiustamente un collega del delitto di tentata estorsione e sulla base di tale esposto era stato instaurato un procedimento penale per calunnia nei suoi confronti (illecito rubricato al capo 1 della successiva incolpazione);
– che lo stesso avv. Angelini aveva proferito frasi volgarmente lesive dell’onore e del decoro di un collega nel corso di un’udienza e alla presenza di altre persone (illecito rubricato al capo 2 della successiva incolpazione);
– che il medesimo professionista legale aveva, infine, accettato un incarico professionale a favore di una cliente, in relazione ad una successione ereditaria di uno zio, pur essendo il professionista creditore del defunto e, di conseguenza, della sua stessa cliente (illecito rubricato al capo 3 della successiva incolpazione).
Il C.D.D. di Ancona richiedeva chiarimenti all’avv. Angelini, acquisiva gli atti del procedimento penale instaurato a suo carico e deliberava l’apertura di un procedimento disciplinare nei suoi confronti.
All’esito dello stesso, il citato C.D.D., con decisione n. 17/2018, riconosceva la sussistenza della responsabilità disciplinare dell’avv. Angelini in relazione alle incolpazioni di cui ai capi 2 e 3 della rubrica e lo assolveva con riferimento all’incolpazione riportata al capo 1, irrogando, a suo carico, la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per un mese.
2. L’Avv. Angelini impugnava la menzionata decisione ponendo numerose questioni processuali, eccependo la prescrizione delle incolpazioni ascrittegli ed assumendo che la sentenza emessa non era adeguatamente motivata sotto il profilo sanzionatorio.
Il CNF, con la sentenza qui impugnata n. 212/2019, accoglieva parzialmente il gravame, dichiarava la prescrizione dell’illecito disciplinare di cui al capo 3 ed irrogava all’avv. Angelini la sanzione della censura, sulla base della conferma dell’impugnata decisione nella parte in cui aveva ravvisato la sussistenza dell’addebito rubricato al capo 2.
3. Avverso la citata sentenza del CNF l’Avv. Angelini ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, per violazione di legge e difetto di motivazione, eccependo l’estinzione per prescrizione dell’ipotesi disciplinare contestata al capo 2 della rubrica.
Le parti intimate non hanno svolto attività difensive in questa sede.
Il P.G. ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto l’accoglimento del quarto (rectius: secondo) motivo, assorbito l’altro (il primo) con cassazione senza rinvio della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare con le conseguenze di legge.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia che l’impugnata sentenza è manifestamente ingiusta e motivata in violazione di legge, riproducendo, poi, il testo dell’art. 36, comma 6, della legge n. 247/2012, circa l’individuazione delle censure deducibili in materia ed evidenziando anche il diritto a far valere il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
Poi, quanto al capo 2 di incolpazione, si prosegue lamentando la violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., con riferimento al riconoscimento – nell’impugnata sentenza – della violazione disciplinare prevista dall’art. 52 del codice deontologico.
Quindi, il motivo si sviluppa e dilunga nella esposizione della vicenda fattuale, sostenendosi che “il libero convincimento del giudice non può mai tramutarsi in una arbitraria presunzione, ma deve fondarsi sui fatti di causa ponderatamente e criticamente valutati tra loro”, per cui, di conseguenza, nel caso di specie, si era deciso in forza di una presunzione di colpevolezza su un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, ovvero la presunta conoscenza del soprannome di famiglia dell’Antonelli da parte dell’incolpato.
Alla stregua di ciò, con il motivo si aggiunge che la motivazione dell’impugnata sentenza si sarebbe dovuta considerare del tutto assente, avendo, in sostanza, il CNF ritenuto che “il C.D.D. ha ragione perché così ha deciso”, ponendosi, quindi, in stridente contrasto con il dettato costituzionale di cui all’art. 111 Cost., essendosi il giudice disciplinare di appello pronunciato “in forza di argomentazione meramente presuntiva ed in contrasto con le risultanze probatorie assunte”.
2. Il secondo motivo è così rubricato: quanto al capo 2 di incolpazione: prescrizione. Poi, nello svolgimento della doglianza, si richiama l’art. 56 della legge n. 274/2012, sostenendosi che, sul presupposto che la sentenza penale relativa all’esposto Antonelli risaliva al 23/11/2013, la prescrizione sarebbe maturata al massimo il 23/5/2021, prescrizione poi ritenuta – illogicamente ed incomprensibilmente – intervenuta solo con riferimento al capo 3) dell’atto di incolpazione, con lo spirare del relativo termine al 1° aprile 2021.
In sostanza, il ricorrente allega l’applicabilità della norma asseritamente violata rapportata alla fattispecie, prospettando che, in relazione al citato capo 2 dell’incolpazione, si sarebbe dovuto individuare il “dies a quo” nella data del 23 novembre 2013, ovvero in coincidenza temporale con la formazione del giudicato penale, con la conseguente maturazione del termine prescrizionale per l’illecito disciplinare alla suddetta data del 23 maggio 2021.
3. Va, innanzitutto, rilevato che il secondo motivo di ricorso relativo alla questione dell’asserita prescrizione dell’illecito disciplinare di cui al capo 2 della rubrica (l’unico sul quale ancora si controverte) deve essere esaminato con priorità sul piano logico-giuridico (poiché, ove accolto, renderebbe superfluo l’esame della prima censura).
Il motivo è infondato per le ragioni che seguono.
Occorre rilevare che il suo impianto argomentativo poggia su un presupposto giuridico errato, ovvero sul dato che – con riferimento all’illecito di cui al capo 2 (ricondotto alla violazione degli artt. 4, 9 e 52 del codice deontologico, consistita nell’aver proferito nei confronti di un suo collega frasi lesive del suo onore e decoro) – sarebbe applicabile il nuovo regime normativo riconducibile all’art. 56 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (in vigore dal 2 febbraio 2013), con il conseguente computo della durata del termine di prescrizione nel massimo di sette anni e mezzo, che sarebbe nelle more decorso, avendosi riguardo come “dies a quo” alla data del passaggio in giudicato (23 novembre 2013) della sentenza penale di condanna del Tribunale di Fermo relativa al reato riconducibile alla stessa condotta ascrittagli in sede disciplinare.
Si deve, invece, evidenziare, in senso opposto a tale prospettazione, che – nel caso di specie, con riferimento, per l’appunto, all’addebito disciplinare di cui al capo 2 (per il quale è stata irrogata, con l’impugnata sentenza, la sanzione della censura) ed avuto riguardo al momento della sua consumazione con condotta istantanea (in data 14 dicembre 2007) – deve trovare applicazione il previgente regime normativo, ovvero quello di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, e, in particolare, al disposto dell’art. 51, il quale sanciva che l’azione disciplinare si prescriveva in cinque anni, senza alcuna determinazione di un termine massimo comunque non oltrepassabile per effetto di sopravvenute interruzioni (come previsto con il nuovo art. 56 della legge n. 247/2012, citata, non applicabile retroattivamente), ma con l’applicazione della disciplina generale dell’interruzione di cui all’art. 2943 c.c. e, quindi, di quella relativa ai suoi effetti e durata come prevista dal primo comma del successivo art. 2945 c.c. (in virtù del quale “per effetto dell’interruzione s’inizia un nuovo periodo di prescrizione”).
Al riguardo, si evidenzia che la giurisprudenza di queste Sezioni unite ha affermato i seguenti principi:
– per un verso, che, in tema di illecito disciplinare degli avvocati, il regime più favorevole di prescrizione introdotto dall’art. 56 della L. n. 247 del 2012, il quale prevede un termine massimo di prescrizione dell’azione disciplinare di sette anni e sei mesi, non trova applicazione con riguardo agli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore e, ciò perché le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicché, da un lato, con riferimento alla disciplina della prescrizione, non trova applicazione lo jus superveniens, ove più favorevole all’incolpato, restando limitata l’operatività del principio di retroattività della lex mitior alla fattispecie incriminatrice ed alla pena, mentre, dall’altro lato, il momento di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione applicabile in sede disciplinare rimane quello della commissione del fatto e non quello della incolpazione (cfr., da ultimo, SU n. 20383/2021 e SU n. 12447/2022);
– per altro verso, che la pretesa punitiva esercitata dal Consiglio dell’Ordine forense in relazione agli illeciti disciplinari commessi dai propri iscritti ha natura di diritto soggettivo potestativo che, sebbene di natura pubblicistica, resta soggetto a prescrizione, dovendo escludersi che il termine di cui all’art. 51 del RDL possa intendersi come un termine di decadenza, insuscettibile di interruzione o di sospensione, specificandosi che la previsione, da parte del citato art. 51 di un termine quinquennale di prescrizione, mentre delimita nel tempo l’inizio dell’azione disciplinare, vale anche ad assicurare il rispetto dell’esigenza che il tempo dell’irrogabilità della sanzione non venga protratto in modo indefinito, perché al procedimento amministrativo di inflizione della sanzione è da ritenere applicabile non già la regola dell’effetto interruttivo permanente della prescrizione sancito dall’art. 2945, secondo comma, c.c., bensì quello dell’interruzione ad effetto istantaneo di cui al precedente art. 2943 c.c., con la conseguente idoneità interruttiva anche dei successivi atti compiuti dal titolare dell’azione disciplinare in pendenza del relativo procedimento (v. SU n. 26182/2006; n. 16402/2007 e n. 28336/2011).
Pertanto, sulla base di queste premesse, deve ritenersi del tutto corretta la motivazione adottata nell’impugnata sentenza del CNF, con la quale è stato rilevato come non fosse revocabile in dubbio che la disciplina applicabile alla fattispecie disciplinare di cui al capo 2 addebitata al ricorrente era quella prevista dall’art. 51 del RDL n. 1578/1933, vigente al momento della contestata violazione (anno 2007), essendo la stessa riferibile ad un illecito disciplinare a consumazione istantanea e che, successivamente, erano intervenuti diversi atti interruttivi della prescrizione quinquennale (apertura del procedimento, approvazione del capo di incolpazione, esame dell’incolpato) sino alla decisione di primo grado del 10 dicembre 2018, ragion per cui, da quest’ultima e sino all’emanazione della sentenza da parte dello stesso CNF, non era decorso il (nuovo) quinquennio previsto dal più volte ricordato art. 51 del RDL n. 1578/1933, con conseguente valutabilità nel merito (in relazione, per l’appunto, all’illecito disciplinare di cui al capo 2, nel mentre – con riguardo a quello riconducibile al capo 3 – il CNF ha legittimamente applicato il nuovo regime normativo di cui alla legge n. 247/2012, essendo rimasto accertato che la violazione era stata commessa il 1° ottobre 2013) del gravame proposto avverso la decisione di primo grado.
4. Respinto il secondo motivo, occorre esaminare il primo.
Esso è inammissibile, poiché con lo stesso si contestano le valutazioni di merito operate – adeguatamente e logicamente – nell’impugnata sentenza, come tali incensurabili nella presente sede di legittimità, circa la ritenuta sussistenza della violazione disciplinare di cui al capo 2) dell’incolpazione, in relazione alla cui condotta, oltretutto, il ricorrente è stato dichiarato responsabile anche in sede penale.
Il CNF, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, non ha affatto adottato una motivazione apodittica, ma ha basato il suo giudizio circa la ritenuta sussistenza dell’addebito disciplinare di cui al capo 2) (come, del resto, aveva fatto anche il primo giudice) sull’esame complessivo delle testimonianze assunte, sulla corrispondenza dei fatti descritti dai testi a quanto emergente dai documenti acquisiti, sugli accertamenti compiuti nella sentenza penale passata in giudicato riguardanti la stessa condotta, nonché sulle inequivoche dichiarazioni rese dalla stessa persona offesa, così giungendo legittimamente a rilevare gli estremi dell’illecito disciplinare consistito nel proferire espressioni offensive (ancorché in forma dialettale) nei confronti di un suo collega, oltretutto nel corso di un’udienza e alla presenza di altre persone, con la configurazione della violazione ricondotta all’art. 52 del nuovo codice deontologico (riproduttivo, nella sostanza, di quanto già previsto e sanzionato dall’art. 20 del precedente codice deontologico).
5. In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, senza farsi luogo ad alcuna pronuncia sulle spese, non avendo alcuna delle parti intimate svolto attività difensiva nella presente sede.
Infine, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio della Sezioni unite civili del 6
Allegati:
SS.UU, 19 giugno 2023, n. 17480, in tema di illecito disciplinare
In tema di responsabilità del magistrato – SS.UU, 23 marzo 2023, n. 8428
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASSANO Margherita – Primo Presidente f.f. –
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente di Sez. –
Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –
Dott. MANZON Enrico – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. RUBINO Lina – Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15572-2022 proposto da:
A.A., rappresentata e difesa dall’avvocato MARCELLO MADDALENA, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE CORTE CASSAZIONE, MINISTRO DELLA GIUSTIZIA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 71/2022 del CONSIGLIO SUP. MAGISTRATURA di ROMA, depositata il 21/04/2022;
Lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, nella persona della Sostituta Procuratore Generale, Dott. ELISABETTA CENICCOLA, la quale ha chiesto il rigetto del ricorso;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/02/2023 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Udita la Sostituta Procuratore Generale, Dott. ELISABETTA CENICCOLA, la quale ha chiesto il rigetto del ricorso;
Udito l’avvocato MARCELLO MADDALENA per la ricorrente.
Svolgimento del processo
1. La Dott.ssa A.A. venne incolpata dei seguenti illeciti disciplinari:
A) dell’ illecito disciplinare di cui al decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109, artt. 1 e 2 lett. d), perchè, in violazione dei doveri di correttezza, diligenza ed equilibrio, in qualità di Giudice della (Omissis) serbava un comportamento gravemente scorretto nei confronti del Presidente di sezione titolare, del Presidente coordinatore, dei componenti del collegio, delle parti e dei loro difensori e dei collaboratori dell’udienza del (Omissis) nel proc. n. (Omissis) In particolare, quale componente del collegio, per disposizione tabellare, del processo n. (Omissis) (Omissis) contro B.B. detenuto (per i reati di rapina, estorsione abuso sessuale ed altro), dopo avere partecipato alle udienze istruttorie del (Omissis) e (Omissis), del tutto intempestivamente, il giorno dell’udienza del (Omissis)18, ancorchè il Presidente titolare, Dott. C.C., con email delle ore 9,29 le avesse confermato la contitolarità del processo, alle ore 15,00 comunicava al Presidente coordinatore, Dott. D.D., che le era stata accolta l’ istanza di astensione per essersi pronunciata nei confronti del compartecipe E.E. con rito alternativo nel procedimento n. (Omissis) (per furto), ancorchè ciò non corrispondesse alla realtà dei fatti; l’astensione seduta stante le veniva rigettata per insussistenza del presupposto. Tale vicenda determinava un ritardo nell’inizio dell’udienza, fissata per le ore 14,30 e la successiva sospensione derivante dal suo repentino allontanamento dall’aula tra le ore 16,09 e le ore 16,17 (senza avanzare alcuna richiesta al Presidente).
In (Omissis) (Omissis)18, notizia pervenuta il (Omissis), a seguito di nota della Presidenza della Corte d’Appello di (Omissis).
B) dell’ illecito disciplinare di cui al decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109, artt. 1 e 2 lett. d), perchè, in violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza ed equilibrio, quale Giudice monocratico della (Omissis), teneva un comportamento gravemente scorretto nei confronti della parte offesa, del suo difensore e del Pubblico Ministero. In particolare, nel processo n. (Omissis) rgnr – n. (Omissis) trib. a carico di F.F. per il reato di maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate, pochi minuti dopo l’ inizio dell’esame, con modalità protetta della persona offesa, G.G., difesa dall’Avv. H.H., esame condotto dal P.M., assumendo l’ insussistenza della convivenza di fatto, interrompeva l’esame per pronunciare sentenza ex art. 129 c.p.p., intento da cui recedeva solo su insistenza del Pubblico Ministero e del difensore di parte civile. Ripreso l’esame, interrompeva continuamente la deposizione e, quando il Pubblico Ministero chiedeva alla persona offesa, in stato di difficoltà, se avesse bisogno di fermarsi un attimo, alla richiesta di avere un bicchiere d’acqua replicava con comportamento gravemente disattento ai diritti ed alle esigenze della parte escussa: “Non passa l’acqua per i testi, non è previsto”; alla richiesta di verbalizzazione da parte del P.M. dello stato della persona offesa, in lacrime e tremante, rispondeva definendo la richiesta “cose che non è possibile concedere”.
In (Omissis) (Omissis), notizia pervenuta il (Omissis), a seguito di nota della Presidenza del Tribunale di (Omissis).
C) dell’ illecito disciplinare di cui al decreto legislativo 23 febbraio 2006 n. 109, artt. 1 e 2 lett. a), d), ed l), perchè, in violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza ed equilibrio, in qualità di Giudice monocratico della (Omissis), teneva un comportamento gravemente scorretto nei confronti del Pubblico Ministero, e della persona offesa, I.I., e pronunciava un provvedimento privo di motivazione, arrecando un indebito vantaggio all’ imputato. In particolare, all’udienza del (Omissis), nel processo n. (Omissis) rgnr e (Omissis) trib. a carico di L.L., detenuto in custodia cautelare per il reato di stalking (recidivo specifico, reiterato ed infraquinquennale), subito dopo l’ammissione delle prove, sollecitava le parti a formulare una richiesta sul mantenimento della misura cautelare e disponeva la revoca della misura in atto, sul presupposto che l’ imputato era detenuto dal (Omissis), motivandola con l’ impossibilità di procedere all’ istruttoria dibattimentale per assenza del difensore di fiducia dell’ imputata e mancata comparizione dei testi, ovvero con grave violazione di legge, per motivi estranei alla gravità indiziaria ed alle esigenze cautelari, che solo l’avrebbero potuta consentire.
In (Omissis) (Omissis), notizia pervenuta il (Omissis), a seguito di nota della Presidenza del Tribunale di (Omissis).
Con sentenza del (Omissis) n. (Omissis) la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura dichiarava la Dott.ssa A.A. responsabile dell’ illecito di cui al capo B) e degli illeciti di cui all’art. 2 lett. a) ed l) di cui al capo C) e l’ha condannata alla sanzione disciplinare della censura.
La sentenza evidenziava che il procedimento disciplinare aveva tratto origine dall’ iniziativa della Procura Generale presso la Corte di Cassazione, in data 19 febbraio 2021, con la quale erano stati contestati alla Dott.ssa A.A., gli illeciti disciplinari di cui all’ incolpazione, e ciò a seguito dell’ invio di tre note di cui una del Presidente della Corte d’appello di Milano e le altre due del Presidente del Tribunale di Milano.
La Sezione Disciplinare, dopo avere richiamato la nozione di “grave scorrettezza”, quale delineata nella giurisprudenza di legittimità, reputava però insussistente l’illecito di cui al capo A).
Dall’esame degli atti emergeva, infatti, che il Presidente coordinatore del settore penale del Tribunale di Milano, in precedenza, aveva accolto in un diverso procedimento nei confronti di B.B. la richiesta di astensione della Dott.ssa A.A., in quanto la stessa aveva in precedenza emesso sentenza di patteggiamento nei confronti di E.E., coimputato di B.B. per il delitto di furto aggravato. Successivamente l’ incolpata aveva ritenuto che tale situazione di incompatibilità potesse ravvisarsi anche nel diverso procedimento nel quale era stata formulata l’ incolpazione sempre nei confronti di
B.B.. La nota della Dott.ssa A.A., depositata alle ore 15 del giorno di udienza (il (Omissis)), con la quale veniva avanzata richiesta di autorizzazione all’astensione, veniva respinta dal coordinatore, che riteneva insussistenti situazioni di incompatibilità ex art. 34 c.p.p..
Ancorchè la richiesta fosse intempestiva, oltre che erronea nei presupposti, non risultava che l’incolpata avesse comunicato circostanze non corrispondenti alla realtà dei fatti, nè si poteva escludere che fosse incorsa in errore sull’esistenza di una situazione di incompatibilità.
Quanto poi alla condotta di allontanamento dall’aula di udienza per circa otto minuti senza darne avviso al Presidente del Collegio, la sentenza escludeva la configurabilità di scorrettezza, atteso il breve lasso di tempo dell’allontanamento senza preavviso ai colleghi, e lo stato di salute del magistrato, affetto da un’ intolleranza alimentare confermata da un certificato medico. Sussisteva, quindi, il fondato dubbio che la Dott.ssa A.A. si fosse allontanata per urgenti necessità personali.
In relazione all’illecito di cui al capo B), contenente due distinti profili di addebito, pur se avvenuti nel corso della medesima udienza dibattimentale del (Omissis) nei confronti di F.F. (imputato per i reati di maltrattamento in famiglia e lesioni aggravate in danno di G.G.), la sentenza osservava che il primo profilo concerneva la manifestata intenzione di pronunciare subito sentenza assolutoria ex art. 129 c.p.p. per il reato di maltrattamenti in famiglia, senza concludere l’esame della persona offesa, subito dopo che la teste aveva dichiarato che con il fidanzato F.F. non vi era una convivenza di fatto. Il secondo profilo riguardava, invece, le modalità di conduzione dell’audizione della persona offesa, in evidente stato di difficoltà emotiva.
Grazie all’ascolto della fonoregistrazione dell’udienza dibattimentale del (Omissis) (oggetto di fedele
trascrizione), la Sezione Disciplinare aveva ricostruito il clima in cui si era svolta l’udienza.
Emergeva che effettivamente la Dott.ssa A.A., dopo la dichiarazione della persona offesa di non essere convivente di fatto di F.F., aveva affermato di volere pronunciare sentenza assolutoria ex art. 129 c.p.p., da intendersi, molto probabilmente, riferita al solo delitto di cui all’art. 572 c.p. tanto premesso, la Sezione Disciplinare evidenziava che, se in astratto il giudice può ritenere sussistenti le condizioni per emettere una sentenza ex art. 129 c.p.p., tuttavia nel caso di specie la condotta della Dott.ssa A.A. appariva quantomeno singolare, atteso che la persona offesa era chiamata a testimoniare su entrambe le imputazioni, per una delle quali non rilevava lo stato di convivenza, e pertanto, sarebbe stato opportuno far terminare la testimonianza per eventualmente procedere all’esito allo stralcio del delitto di lesioni aggravate per il quale non vi erano i presupposti di una sentenza assolutoria ex art. 129 c.p.p..
Tuttavia, l’anticipazione della volontà di definire il procedimento ex art. 129 c.p.p. su un solo capo d’imputazione, ad avviso della Sezione Disciplinare, rientrava comunque nelle scelte rimesse al libero convincimento del giudice, su cui non è ammesso il sindacato disciplinare.
Diversa conclusione doveva, invece, essere assunta quanto alle modalità di conduzione dell’esame della persona offesa costituita parte civile.
Considerato che al giudice spetta il compito di assicurare non solo il regolare svolgimento dell’udienza dal punto di vista dell’osservanza delle norme processuali, ma anche il rispetto della dignità dei soggetti coinvolti nei singoli processi, garantendo che il contributo dei testimoni alla ricerca della verità processuale avvenga in un clima di serenità e di fiducia nei confronti dell’organo giudicante, tra le norme da rispettare si impone il dovere di correttezza da parte del giudice nei confronti delle parti processuali.
Nel caso di specie era emerso che la persona offesa, durante la sua audizione, precisamente quando stava per descrivere alcune condotte violente dell’ imputato in suo danno, aveva accusato un momento di forte disagio emotivo, manifestatosi in un’evidente difficoltà a proseguire l’esame testimoniale.
L’audizione della fonoregistrazione evidenziava questa situazione: la teste aveva iniziato a sospirare profondamente, aveva mutato il tono della voce che si era incrinato, come se la donna fosse in procinto di scoppiare in lacrime, tant’è che il pubblico ministero si era preoccupato di chiedere al giudice un pò d’acqua per la testimone e aveva chiesto di dare atto a verbale che “la teste piange e trema in questo momento”.
Secondo la sentenza, la Dott.ssa A.A. non poteva non aver percepito anche essa che in quel momento la teste stava per piangere ed era molto turbata e che quindi vi sarebbe stata la necessità di interrompere per qualche minuto l’audizione.
Di fronte alle evidenti difficoltà della persona offesa, la decisione della Dott.ssa A.A. di proseguire l’esame testimoniale, si era caratterizzata in negativo per l’atteggiamento insofferente e per le espressioni quasi scontrose nei confronti sia del pubblico ministero sia della teste. Era stata così impedita di fatto anche una momentanea sospensione dell’esame stesso, esigenza non infrequente nei processi per reati sessuali o maltrattamenti.
Significativa in tal senso appariva la frase pronunciata dall’ incolpata che, rivolta al P.M., il quale aveva chiesto un pò d’acqua per la testimone ed un momento di pausa, aveva detto: ” Mi scusi pubblico ministero ma sta continuando a chiedere cose che non è possibile concedere. Già le sto consentendo di andare avanti con l’esame quando ho già espresso il mio pensiero, no ?”.
Poteva quindi affermarsi che l’ incolpata aveva condotto l’udienza senza tenere in nessuna considerazione le difficoltà manifestate dalla persona offesa, ignorando del tutto le corrette modalità
di audizione dei soggetti cosiddetti “fragili o deboli”, oggetto di insegnamento nei corsi di formazione professionale riservati ai magistrati. Inoltre, si riscontrava anche un atteggiamento di malcelato fastidio per il processo da svolgere, messo in luce dai toni irritati nei confronti del pubblico ministero che cercava di tranquillizzare la persona offesa la quale manifestava forte agitazione. Tale assunto trovava conferma nelle stesse dichiarazioni difensive rese dalla Dott.ssa A.A., dalle quali risultava confermato che essa nutriva la convinzione che il processo poteva essere concluso con sentenza ex art. 129 c.p.p. e che la testimone non era pienamente attendibile.
Avuto riguardo alla gravità della scorrettezza, da parametrare all’entità della lesione del bene giuridico protetto, con tali condotte la dottoressa A.A. aveva leso la fiducia e il prestigio di cui il giudice deve godere.
Quanto, infine, agli illeciti di cui al capo C), la sentenza del pari riteneva che la Dott.ssa A.A. ne fosse
responsabile, non essendo configurabile solo l’ipotesi di cui alla lett. d) del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2.
Infatti, dalle prove raccolte emergeva che l’ incolpata dettò a voce al cancelliere di udienza il contenuto dell’ordinanza di revoca della misura cautelare detentiva applicata in precedenza all’imputato L.L., preferendo operare in tal modo anzichè scrivere l’ordinanza in camera di consiglio o addirittura riservarsi sull’istanza di revoca per poi depositarla fuori udienza.
Nel provvedimento dettato, dopo le conclusioni delle parti, si legge quanto segue: “Il Giudice, rilevato che l’ imputato è ristretto in custodia cautelare dal (Omissis) e che in questa data non è stato possibile celebrare il processo per mancata comparizione del suo difensore di fiducia e per assenza di testi (impossibilitati a comparire come da giustificazioni inviate), rinvia il processo all’udienza del 3 marzo 2021, come meglio sopra specificato e revoca la misura cautelare della custodia in carcere per l’imputato”.
Emergeva altresì che il verbale era privo di sottoscrizione da parte del giudice e riportava solo la firma del cancelliere d’udienza.
Il provvedimento di revoca della misura cautelare non conteneva alcuna motivazione in ordine alla gravità indiziaria e neppure relativamente alla permanenza delle esigenze cautelari (anche solo per affermare ad esempio che esse erano scemate in ragione del tempo trascorso) e ciò in quanto l’indicazione della data di emissione della misura non era connessa ad alcuna argomentazione successiva sulla permanenza delle esigenze cautelari.
La revoca della custodia cautelare era stata immediatamente impugnata dal pubblico ministero proprio in ragione della mancanza di motivazione sotto ogni profilo.
Per giustificare la sua condotta, l’ incolpata aveva riferito che l’udienza era molto disturbata anche mentre lei dettava il provvedimento al cancelliere, e che il verbale non le era stato sottoposto, perchè
altrimenti si sarebbe “…accorta che l’ordinanza risultava motivata esclusivamente sul decorso del tempo…” e perciò andava integrata.
Ricorreva quindi l’illecito di cui al D.Lgs. n.109/2006 , art. 2, comma 1, lett. l), essendo mancata una
motivazione, anche solo in forma succinta. In particolare, la ratio dell’ illecito in esame non investe solo l’aspetto formale dell’ inosservanza delle norme processuali, ma inerisce alla sostanza delle motivazione rese dai giudici, ossia consentire alle parti di comprendere le ragioni osta a base di un determinato provvedimento, che nella specie, era rimasto del tutto oscuro, diventando così un “immotivato comando” di scarcerazione.
Ai fini dell’ integrazione dell’ illecito di cui alla lettera l) dell’art. 2 è estranea la considerazione del pregiudizio che dalla omessa motivazione (invece richiesta dalla legge) possa essere derivata dalla parte, giacchè la possibile mancanza di pregiudizio non incide sulla rilevanza dell’ illecito disciplinare quando il comportamento del magistrato medesimo risulti comunque idoneo, secondo la valutazione del giudice di merito, ad arrecare discredito all’ordine giudiziario.
Ciò privava di rilievo la deduzione difensiva secondo cui la revoca della misura cautelare detentiva non comportava alcun effettivo pregiudizio alla persona offesa in quanto rimaneva in vigore un’altra misura cautelare, e precisamente il divieto di avvicinamento alla persona offesa, emessa nei confronti dello stesso imputato.
Quanto all’altro illecito contestato, previsto dalla lett. a) dell’art. 2 citato, la condotta della Dott.ssa A.A., che non aveva motivato il provvedimento di revoca dettato a verbale e non aveva neppure successivamente verificato il contenuto del provvedimento, aveva arrecato un indebito vantaggio alla parte.
Rilevava a tal fine la circostanza che, come riferito nell’atto di impugnazione del provvedimento de quo da parte del PM, l’ imputato, due giorni dopo la sua scarcerazione, era stato nuovamente arrestato in flagranza per il delitto di cui all’art. 612 bis c.p., sempre in danno del fratello.
Da ciò era dato concludere che il provvedimento di revoca della misura cautelare aveva procurato senza dubbio un indebito vantaggio all’imputato che, in forza di esso, era stato scarcerato. E’ vero che il capo di incolpazione non menzionava l’ ingiusto danno arrecato alla persona offesa, ma trattasi di circostanza che, seppure estranea alla contestazione disciplinare, era utile per comprendere l’elevata gravità della condotta negligente che poteva produrre effetti ancor più pericolosi per la persona offesa.
Essendo unico il fatto storico da sanzionare (l’emissione di un solo provvedimento privo di motivazione), e pur potendo tale condotta in astratto integrare sia l’ illecito di cui alla lett. l) sia quello di cui alla lett. d), tuttavia la grave scorrettezza sia consistita nell’adozione di un provvedimento giudiziario privo di motivazione o con motivazione apparente, integrava una fattispecie speciale, rispetto all’ipotesi di cui alla lett. d).
Avuto riguardo alle condotte illecite per le quali era stata ravvisata la responsabilità disciplinare, la sentenza escludeva che fosse applicabile la scriminante di cui al D.lgs. 109/2006, art. 3 bis, stante la gravità riscontrata, atteso che nella considerazione delle parti presenti ai due distinti processi penali l’immagine professionale e il prestigio dell’incolpata erano risultati gravemente compromessi.
Quanto al trattamento sanzionatorio la Sezione Disciplinare reputava congrua la condanna alla censura, e ciò in considerazione del fatto che si trattava di due specifici episodi a fronte di centinaia di processi celebrati dalla Dott. A.A. negli anni 2018/2020.
2. Avverso la sentenza disciplinare è stato proposto ricorso per cassazione da A.A. sulla base di tre motivi.
3. Gli intimati non hanno svolto difese in questa fase.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso denuncia, ex art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., l’ inosservanza di norme processuali stabilite a pena di decadenza, ed in particolare l’ inosservanza del disposto del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15 comma 1, nella parte in cui dispone che l’azione disciplinare sia promossa entro un anno dalla notizia del fatto da parte del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione.
Deduce la ricorrente che quanto al capo di incolpazione sub B), la notizia del fatto era pervenuta in data (Omissis) a seguito di nota della Presidenza del Tribunale di (Omissis), ma che l’azione disciplinare è stata promossa solo in data (Omissis) (ultime due righe di pag. 3 della sentenza gravata), il che imponeva il proscioglimento per l’ improcedibilità dell’azione disciplinare a seguito di decadenza della Procura Generale dall’esercizio della relativa azione.
Il Collegio ritiene che, in applicazione del principio della ragione più liquida, possa pervenirsi alla decisione nel merito del motivo in esame, attesa la sua infondatezza, senza la necessità di dover approfondire la questione posta dalla requisitoria del Pubblico Ministero circa la asserita inammissibilità della deduzione, solo in sede di legittimità, dell’ intervenuta decadenza dell’azione disciplinare per il decorso del tempo.
Il motivo è privo di fondamento, in quanto non tiene conto delle previsioni di cui al D.L. n. 18/2020, art. 103, convertito nella L. n. 27/2020, che al comma 1 prevede che: 1. Ai fini del computo dei termini ordinatori o perentori, propedeutici, endoprocedimentali, finali ed esecutivi, relativi allo svolgimento di procedimenti amministrativi su istanza di parte o d’ufficio, pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o iniziati successivamente a tale data, non si tiene conto del periodo compreso tra la medesima data e quella del 15 aprile 2020. Le pubbliche amministrazioni adottano ogni misura organizzativa idonea ad assicurare comunque la ragionevole durata e la celere conclusione dei procedimenti, con priorità per quelli da considerare urgenti, anche sulla base di motivate istanze degli interessati. Sono prorogati o differiti, per il tempo corrispondente, i termini di formazione della volontà conclusiva dell’amministrazione nelle forme del silenzio significativo previste dall’ordinamento.
Il successivo comma 5 dispone poi che: 5. I termini dei procedimenti disciplinari del personale delle amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2, ivi inclusi quelli del personale di cui all’art. 3, del medesimo decreto legislativo, pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o iniziati successivamente a tale data, sono sospesi fino alla data del 15 aprile 2020.
Il termine di cui al comma 1 è stato poi prorogato alla data del 15 maggio 2020, a norma del D.L. n. 8 aprile 2020, n. 23, art. 37, comma 1, convertito con modificazioni dalla Legge 5 giugno 2020, n. 40, analogamente al termine di cui al comma 5, mentre il solo termine di cui al comma 1 a norma dell’art. 41, comma 1, del D.L. n. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla Legge 17 luglio 2020, n. 77, è stato prorogato al 30 novembre 2020.
La norma che è stata emanata al fine di assicurare il contenimento del rischio epidemiologico, scaturente dalla recente diffusione della pandemia da Covid-19, ha per l’appunto previsto una sospensione anche dei termini dei procedimenti disciplinari riguardanti i magistrati, come si ricava dal riferimento al personale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 3. A fronte dell’obiezione secondo cui il comma 5 dell’art. 103 fa riferimento solo a procedimenti disciplinari pendenti o iniziati in data successiva al 23 febbraio 2020 – il che presuppone che sia intervenuta la richiesta di indagini rivolta dal Ministero della Giustizia al PG presso la Corte di Cassazione ovvero la comunicazione data da quest’ultimo al CSM, ex D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 14, comma 3, e 15, comma 3, con conseguente inapplicabilità della previsione de qua ove alla notizia di illecito pervenuta dal Tribunale di (Omissis) non sia effettivamente seguito alla data di entrata in vigore della norma uno degli atti menzionati – può però replicarsi osservando che la vicenda disciplinare ha inizio proprio nel momento in cui la notizia del fatto disciplinarmente rilevante è acquisita dal Ministero della Giustizia o dal Procuratore Generale, poichè è da tale momento che decorre, come ricordato anche dalla ricorrente, il termine di decadenza per l’esercizio dell’azione disciplinare (art. 14 cpv. del D.Lgs. n. 109 del 2006).
Ma anche a voler reputare che la vicenda oggetto di causa fosse ancora in una fase cd. pre-disciplinare, con connotazione ancora spiccatamente amministrativa, ancorchè non risulti invocabile la sospensione dei termini di cui al comma 5 dell’art. 103, risulterebbe in ogni caso applicabile la generale sospensione del comma 1 del medesimo articolo che fa riferimento alla neutralizzazione del periodo contemplato dalla norma per tutti i termini ordinatori o perentori, propedeutici, endoprocedimentali, finali ed esecutivi, relativi allo svolgimento di procedimenti amministrativi su istanza di parte o d’ufficio pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o successivamente iniziati. Ciò comporta che al termine di un anno decorrente dalla ricezione della notizia dell’ illecito (3 febbraio 2020), deve aggiungersi il periodo previsto dalla norma, con la conclusione che l’avvenuta promozione dell’azione disciplinare in data (Omissis), ha impedito la decadenza annuale, dovendo intendersi il relativo termine incrementato del periodo compreso tra la data del (Omissis) e quella del (Omissis).
2. Il secondo motivo lamenta l’ inosservanza del disposto del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 2, quanto all’ insindacabilità in sede disciplinare dell’attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove, con conseguente erronea applicazione, relativa alla responsabilità di cui al capo di incolpazione sub B) e C), del disposto di cui alla lett. d) (relativamente all’addebito di cui al capo B), e di cui alle lettere a) ed l) del D.Lgs. n. 109 del 2006, comma 1 dell’art. 2 (relativamente al capo di incolpazione sub C), con erronea applicazione della legge sorretta da motivazione carente, contraddittoria e manifestamente illogica, vizio che risulta dallo stesso testo del provvedimento impugnato e da altri atti del processo.
Quanto alla condanna per la violazione dell’ illecito di cui al capo B, si assume che il carattere elastico della fattispecie sia stato erroneamente invocato dal giudice disciplinare.
Si contesta la violazione dell’obbligo del giudice di assicurare il regolare svolgimento dell’udienza nel rispetto della dignità dei soggetti coinvolti, e si lamenta che la sentenza impugnata non abbia adeguatamente spiegato perchè non sarebbe stata assicurata la dignità della persona offesa in sede di audizione. In sostanza si addebiterebbe alla Dott.ssa A.A. solo di avere negato dell’acqua alla teste, scelta dettata esclusivamente dalla finalità di non interrompere la sua escussione, peraltro protrattasi per ben ottanta minuti.
Ogni intervento della ricorrente è stato connotato dall’utilizzo di espressioni di scusa per l’eventuale interruzione, così come del pari deve escludersi che il suo atteggiamento nei confronti del pubblico ministero sia stato idoneo a determinare una scorrettezza.
Non è sindacabile la scelta di voler immediatamente procedere all’emissione di sentenza di proscioglimento di cui all’art. 129 c.p.p., ma deve considerarsi che comunque è stata assicurata l’audizione della persona offesa, essendo del tutto legittimo condurre tale audizione senza dare adito
al sospetto di una forma di indulgenza nei confronti della stessa. Nè, inoltre, è imputabile alla ricorrente l’omessa menzione nel verbale riassuntivo dell’udienza dello stato di agitazione della teste, in quanto, oltre a trattarsi della persona offesa, tale condizione psicologica sarebbe in ogni caso emersa dalla trascrizione della fonoregistrazione.
Con un secondo punto sviluppato all’ interno del medesimo motivo, la ricorrente, quanto ai fatti di cui al capo di incolpazione sub C), lamenta che le sarebbe stato erroneamente imputato, nel provvedimento che disponeva la scarcerazione dell’ imputato, di non avere motivato sulla gravità indiziaria dei fatti, senza considerare che, pur essendo ormai consentito al giudice del dibattimento di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ove chiamato a pronunciarsi sulle misure cautelari applicate all’ imputato, di norma tale valutazione non viene compiuta in sede dibattimentale, onde prevenire l’accusa di avere anticipato l’esito dell’imminente giudizio di merito.
Alcuna motivazione sulla gravità indiziaria poteva quindi essere pretesa, mentre, quanto alle esigenze cautelari, si deduce che sarebbe erronea l’affermazione secondo cui il provvedimento risulterebbe del tutto privo di motivazione.
Il richiamo alla data di applicazione della misura cautelare non può che voler significare un giudizio anche in ordine alla permanenza delle originarie esigenze che avevano suggerito l’adozione della misura custodiale.
Trattasi di motivazione sommaria, ma che non consente di affermare che sia del tutto carente.
Non sono quindi pertinenti i precedenti giurisprudenziali richiamati nella sentenza impugnata, così come risulta essere un fuor d’opera il richiamo al vantaggio o al danno arrecato alle parti, facendo richiamo a vicende successive alla scarcerazione, occorrendo arrestare il giudizio alla situazione esistente al momento dell’adozione del provvedimento oggetto di contestazione.
Infine, si invoca l’applicazione del principio di specialità anche in relazione al concorso tra le lett. a) ed l), in quanto l’ indebito vantaggio dell’ imputato non deriva dal difetto di motivazione, ma caso mai dalla tipologia del provvedimento adottato.
3.1 In relazione alla censura che investe la condanna emessa per l’ illecito di cui al capo B), la Corte ritiene che la stessa si risolve, pur a fronte della formale affermazione del difensore di non volere accedere a tale esito, in una sostanziale richiesta di rivalutazione del merito, in contrasto con quanto operato dalla Sezione Disciplinare, con motivazione logica e coerente, del tutto immune dalle critiche mosse in ricorso.
Il giudice disciplinare, pur prendendo atto delle deduzioni difensive della ricorrente, che appaiono sostanzialmente reiterate in questa sede, ha però rilevato che le modalità di conduzione dell’udienza, ed in particolare dell’escussione della persona offesa, erano del tutto anomale, in contrasto con il canone generale secondo cui occorre garantire che lo svolgimento dell’udienza avvenga in un clima di serenità e di fiducia nei confronti del giudice, il quale deve rifuggire da ogni atteggiamento che possa far dubitare della sua imparzialità. In particolare, ove la vicenda oggetto di causa sia relativa a procedimenti che vedano coinvolti soggetti potenzialmente fragili o deboli, come nel caso di asserita commissione di atti di violenza in danno di una donna, secondo quanto ormai ribadito anche nell’ambito dell’attività deputata alla formazione dei magistrati, la conduzione dell’interrogatorio della persona offesa deve avvenire con modalità tali da contemperare l’accertamento dei fatti con l’esigenza di andare incontro a quelle difficoltà che, proprio in ragione della tipologia degli episodi suscettibili di essere richiamati alla memoria, la persona offesa potrebbe incontrare nel ricordare e narrare, rievocando per l’appunto fatti in grado di incidere profondamente sulla sua sensibilità.
La sentenza impugnata, ritenuta di per sè non idonea a determinare la responsabilità disciplinare della Dott.ssa A.A. la manifestata intenzione di addivenire ad un’ immediata pronuncia ex art. 129 c.p.p. per il reato di maltrattamenti in famiglia (e ciò sebbene si procedesse anche per il reato di lesioni dolose aggravate), ha però soffermato la sua attenzione proprio sulle modalità di conduzione dell’udienza, ritenute in totale contrasto con le regole sia processuali che deontologiche che presiedono all’attività del giudice.
In tal senso è stato ritenuto essenziale l’ascolto della fonoregistrazione dell’udienza dibattimentale del (Omissis), sebbene la sua trascrizione testuale sia avvenuta in maniera fedele, idonea a consentire la ricostruzione dei fatti.
La riproduzione audio dell’udienza traduce in termini immediati le difficoltà incontrate dalla persona offesa nel corso della deposizione, il mutamento del tono della voce, accompagnato da profondi sospiri, il sopravvenire di una crisi di pianto, circostanze queste emerse allorchè la teste era stata chiamata a ricordare le condotte violente asseritamente poste in essere in suo danno dall’imputato.
A fronte della comprensibile richiesta del pubblico ministero di offrire dell’acqua alla teste, anche al
fine di smorzare la tensione del momento, la Dott.ssa A.A. si è rifiutata sia di dare seguito alla richiesta del pubblico ministero di verbalizzare una sommaria descrizione delle condizioni in cui versava la teste (“piange e trema in questo momento”), ma ha altresì rifiutato che potesse esserle offerta dell’acqua, assumendo che fosse una richiesta che non poteva essere assentita.
La sentenza ha altresì aggiunto che tale atteggiamento volto a negare un momento di pausa al teste, in un momento di evidente difficoltà, era da correlare al complessivo atteggiamento tenuto dal giudice durante tutto il corso dell’udienza, connotato da una generale insofferenza per la prosecuzione del processo (che intendeva definire in limine con la pronuncia ex art. 129 c.p.c.), e con l’assunzione di toni irritati anche nei confronti del pubblico ministero, che invece, resosi conto delle condizioni psicologiche del teste, intendeva assicurare il ripristino, per quanto possibile, delle condizioni di serenità reputate necessarie per la prosecuzione dell’escussione.
A fronte di tale quadro probatorio, che, come detto, si fonda anche e soprattutto sul riscontro della fonoregistrazione dell’udienza, in grado di trasmettere all’ascoltatore anche le sfumature verbali ed il reale tenore delle espressioni adottate, la ricorrente si limita a richiamare il contenuto delle trascrizioni della stessa udienza, sottolineando come i suoi vari interventi fossero sovente preceduti da espressioni di scusa o da forme verbali di cortesia.
Tuttavia non può ignorarsi che anche il rispetto di forme di continenza verbale o l’adozione di espressioni che evochino regole di correttezza formale non possono elidere quanto è emerso a seguito dell’audizione della fonoregistrazione, che ha denotato come fosse ben diverso l’atteggiamento sostanziale tenuto dall’ incolpata, che ha conservato per tutto il tempo riservato all’audizione della teste un atteggiamento di malcelato fastidio, come appunto verificato dal giudice disciplinare, in quanto convinta (come poi confermato anche dalle dichiarazioni rese in sede di istruttoria disciplinare) dell’atteggiamento artificioso e teatrale della teste.
Ed, infatti, ove anche tali dubbi fossero corrisposti ad un’effettiva inattendibilità della teste, ciò non
esimeva dal dover condurre la sua escussione in ottemperanza alle regole deontologiche e processuali che impongono il rispetto delle parti e dei soggetti a vario titolo coinvolti nel processo, e l’osservanza dell’immagine di terzietà ed imparzialità durante la celebrazione del processo.
Deve, quindi, reputarsi che sia incensurabile l’accertamento operato in sentenza che ha ritenuto che
l’atteggiamento di diffidenza nei confronti della teste e di scarsa attenzione alle difficoltà dalla stessa
incontrate nel corso della deposizione, unitamente al contegno serbato nei confronti del rappresentate dell’accusa, di cui sono state disattese le richieste volte a meglio illustrare il reale andamento dell’audizione, nonchè a fornire ausilio alla teste, abbiano integrato l’ illecito disciplinare di cui al capo di incolpazione.
La decisione impugnata ha correttamente fatto richiamo alla giurisprudenza di questa Corte che ha appunto ritenuto che la nozione di “grave scorrettezza” contenuta nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), nel rendere sanzionabili disciplinarmente i comportamenti del magistrato nei confronti delle parti, dei difensori, di altri magistrati e di chiunque abbia con esso rapporti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ha carattere “elastico”.
Per l’effetto, in funzione del giudizio di sussunzione dei fatti accertati nella norma che tipizza il predetto illecito, il giudice disciplinare deve attingere sia ai principi che la disposizione (anche implicitamente) richiama, sia a fattori esterni presenti nella coscienza comune, così da fornire concretezza alla parte mobile della disposizione che, come tale, è suscettibile di adeguamento rispetto al contesto storico sociale in cui deve trovare operatività (Cass. S.U. n. 29823/2020; conf. Cass. S.U. n. 31058/2019).
Peraltro, la stessa giurisprudenza di questa Corte – e ciò in risposta all’asserzione di parte ricorrente secondo cui il precedente del 2020 sopra riportato farebbe riferimento a vicende svoltesi al di fuori dell’udienza e con l’utilizzo di espressioni evidentemente lesive della dignità dei soggetti cui erano rivolte – ha ritenuto che risponda dell’ illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. d), il magistrato che, contravvenendo ai doveri di correttezza, equilibrio e rispetto della persona, individuati dal medesimo D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, quali precondizioni essenziali di un corretto esercizio della giurisdizione, si abbandoni, in udienza, a comportamenti indicativi di scarso controllo della propria impulsività e di aggressività verbale, assumendo così un contegno che, per essere tenuto in pubblico e davanti ad estranei all’ordine giudiziario, assume, anche per il pregiudizio arrecato all’ immagine di una giurisdizione esercitata in termini di equilibrio e terzietà, quel carattere di oggettiva gravità richiesto per la sussistenza dell’illecito (Cass. S.U. n. 20588/2013, che ha sanzionato in via disciplinare il P.M. che – nel corso di un procedimento a carico di prevenuto arrestato in flagranza di reato – aveva criticato platealmente i provvedimenti del giudice, mantenendo un atteggiamento di contestazione verso il medesimo, nonostante il suo invito a rimandare alla fine dell’udienza ogni discussione).
3.2 Quanto alla articolazione del motivo che investe la correttezza della sanzione relativa al capo di incolpazione sub C), ad avviso del Collegio deve ritenersi che lo stesso sia del pari privo di fondamento.
Ancorchè possa concordarsi con la difesa della ricorrente circa la superfluità di una specifica motivazione in merito alla ricorrenza dei gravi indizi di colpevolezza, essendosi ormai nella fase dibattimentale, e dovendo quindi escludersi la necessità, ai fini dell’adozione del provvedimento di revoca della misura cautelare, di una motivazione anche in ordine a tale profilo, tuttavia deve reputarsi che, sia pur limitatamente alla permanenza delle esigenze cautelari, la motivazione dell’ordinanza resa in udienza sia meramente apparente e quindi sostanzialmente assente, il che rende legittima la contestazione dell’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. l).
Questa Corte, anche di recente, ha ribadito che integra l’ illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. l), il comportamento di un magistrato di sorveglianza che – per negare ad una donna ristretta in regime di detenzione domiciliare l’autorizzazione ad allontanarsi dall’abitazione per sottoporsi ad un intervento di interruzione volontaria della gravidanza – abbia adottato un provvedimento la cui motivazione consiste nella sola declamazione dell’ insussistenza dei presupposti di cui all’art. 284, comma 3, c.p.p., richiamato dalla L. n. 354 del 1974, art. 47 ter, privando così la richiedente della possibilità di cogliere la ragione della decisione, destinata a risolversi nell’espressione di un immotivato diniego (Cass. S.U. n. 3780/2021). Tali principi inducono a ritenere, in maniera analoga, ed in relazione alla fattispecie in esame, che sia sostanzialmente priva di motivazione la revoca della misura disposta con il solo richiamo alla data di applicazione della stessa, ma senza alcuna concreta verifica dell’ incidenza del decorso del tempo sulla permanenza delle esigenze cautelari.
Non può accedersi alla tesi difensiva secondo cui il solo richiamo alla data di applicazione della misura restrittiva valga anche a fornire una motivazione esistente (sebbene in parte lacunosa), circa le ragioni dell’emissione del provvedimento di revoca, essendo quello cronologico un dato obiettivo che di per sè solo non consente di inferire anche la necessaria incidenza sul permanere delle esigenze sottese alla misura cautelare.
Giova a tal fine richiamare quanto precisato in motivazione da Cass. n. 3780/2021 citata, a mente della quale “… la mancanza della motivazione assurge a illecito disciplinare non per le sue conseguenze processuali, ma in quanto lesiva di un valore fondamentale della giurisdizione, la cui legittimazione è strettamente connessa alla tra Spa renza delle decisioni ed alla conoscibilità delle ragioni che hanno condotto il giudice ad assumere una determinata decisione. Attraverso la motivazione è possibile verificare se il giudice abbia applicato la legge in conformità all’obbligo esclusivo di soggezione ad essa, posto dalla Cost., art. 101, comma 2”.
Peraltro, deve evidenziarsi che il decorso del tempo è di per sè ritenuto idoneo ad incidere sul permanere della misura cautelare solo nel caso della maturazione dei termini di fase o dei termini massimi. Ove però, come nella fattispecie, non emerga che il termine della misura sia già esaurito, il
potere del giudice di revocare la stessa e di disporre la scarcerazione dell’ imputato, necessita anche di una specifica valutazione in ordine all’ incidenza del tempo sulla permanenza delle esigenze cautelari. Tale valutazione nella specie risulta del tutto omessa, sicchè il solo riferimento alla data cui risale l’applicazione della misura, in ragione della natura del provvedimento emesso, costituisce una motivazione apparente, inidonea ad assolvere all’obbligo di motivazione dei provvedimenti giudiziari, come sopra ribadito.
Queste considerazioni consentono di disattendere anche le ulteriori deduzioni difensive della ricorrente, la quale censura la sentenza gravata per non avere ravvisato il principio di specialità anche in relazione al rapporto tra l’ ipotesi dell’ illecito di cui alla lett. l) e quella di cui alla lett. a), e per non avere ricondotto la condotta contestata alla sola fattispecie di cui alla lett. l), e cioè all’assenza di motivazione. In particolare, una volta escluso il concorso con la fattispecie della grave scorrettezza di cui alla lett. d), dovrebbe escludersi che il vantaggio arrecato all’ imputato per effetto dell’adozione del provvedimento di scarcerazione consegua alla carenza di motivazione, occorrendo piuttosto dimostrare che non sarebbe stato possibile emettere il provvedimento di revoca della misura cautelare, quale che sia l’ ipotetica motivazione, poichè solo in tal caso sarebbe possibile affermare che il comportamento adottato abbia arrecato un indebito vantaggio.
La giurisprudenza di questa Corte si è occupata in numerose occasioni della figura di illecito di cui alla lett. a), ed ha messo in luce come si tratti di un illecito c.d. di evento, nel senso che la consumazione non si esaurisce con la semplice condotta tipica, essendo invece necessario il verificarsi dell’ ingiusto danno o dell’indebito vantaggio per una delle parti (si vedano, tra le altre, le sentenze Cass. 15 febbraio 2011, n. 3669, Cass. 22 aprile 2013, n. 9691, e Cass. 27 novembre 2013, n. 26548). E’ stato poi affermato che tale illecito sussiste anche qualora la violazione dei doveri di imparzialità, correttezza, diligenza e laboriosità sia stata colposa e l’evento di danno o di vantaggio non sia stato previsto o voluto (Cass. sentenza 12 marzo 2015, n. 4953).
Non sussiste il rapporto di specialità tra la lett. c) e la lett. a) dell’art. 2.
Premesso che in base all’art. 2, comma 1, lettera a), costituiscono illecito disciplinare funzionale “fatto salvo quanto previsto dalle lettere b), c), g) e m), i comportamenti che, violando i doveri di cui all’art. 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti”, il Collegio osserva che il provvedimento privo di motivazione, ovvero con motivazione meramente apparente, integra anche la violazione dei doveri di cui alla L. n. 109/2006, art. 1, e ciò in quanto rientra tra i doveri di correttezza, diligenza, e laboriosità, richiamati dall’art. 1 citato, anche quello di assumere provvedimenti motivati. Ciò consente di affermare che ove dalla condotta di inosservanza dell’obbligo di motivazione derivi anche un indebito vantaggio (nella specie l’avvenuta scarcerazione dell’ imputato, a seguito di un provvedimento evidentemente illegittimo), sussista il concorso tra le due fattispecie sanzionatorie in esame (Cass. S.U. n. 3780/2021).
Sul punto occorre richiamare anche Cass. S.U. n. 2610/2021 che ha escluso il rapporto di specialità tra le fattispecie di illecito disciplinare previste, rispettivamente, dalle lettere a) e g) del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, evidenziando che possono sussistere sia gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza inescusabile che non arrecano danno ingiusto o indebito vantaggio ad una delle parti, ma che comunque compromettono il bene giuridico (l’immagine del magistrato) a tutela del quale è diretta la previsione di ogni illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, sia, simmetricamente, violazioni dei doveri imposti al magistrato che non si traducono in gravi violazioni di legge determinate da ignoranza o negligenza inescusabile ma arrecano, tuttavia, ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti. Qualora l’unica condotta del magistrato ricada nella sfera di applicazione di entrambe le norme, qualora la violazione dell’obbligo di motivazione procura un indebito vantaggio alla parte, ben può ricorrere un’ ipotesi di concorso formale di illeciti disciplinari, tutti astrattamente sanzionabili.
Nè, infine, coglie nel segno l’affermazione della ricorrente secondo cui la valutazione del giudice disciplinare contrasterebbe con il principio di insindacabilità in sede disciplinare dell’attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove. L’ insindacabilità del provvedimento giurisdizionale in sede disciplinare viene, infatti, meno nei casi in cui sia stato adottato sulla base di una macroscopica violazione dell’obbligo di motivazione (Cass. S.U. n. 11586/2019; Cass. S.U. n. 33328/2018; Cass. S.U. n. 7379/2013), poichè in tal caso l’ intervento disciplinare ha per oggetto, non già il risultato dell’attività giurisdizionale, ma il comportamento deontologicamente deviante posto in essere dal magistrato nell’esercizio della sua funzione.
4. Il terzo motivo, riportato sub n. 4, a pag. 13 del ricorso, infine, lamenta che in ogni caso si imporrebbe una rivalutazione circa la scarsa rilevanza dei fatti, anche per effetto dell’auspicato annullamento di una delle condotte reputate disciplinarmente rilevanti, e ciò in quanto la caducazione di un illecito è destinata a riverberarsi anche sul giudizio globale circa la compromissione dell’ immagine del magistrato a seguito delle condotte per le quali è stata emessa condanna in sede disciplinare.
Il motivo non è fondato, e ciò sia in ragione del fatto che i precedenti motivi di ricorso sono stati rigettati, restando quindi confermata la responsabilità disciplinare, come accertata dalla Sezione Disciplinare, sia in ragione del principio per cui l’applicazione o la negazione dell’esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis compete alla valutazione del giudice disciplinare, soggetta a sindacato di legittimità soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica oppure motivata in modo insufficiente o illogico (conf. ex multis Cass. S.U. n. 17327/2017).
La censura in esame peraltro non attinge la motivazione della sentenza impugnata per negare la ricorrenza della detta esimente. Il provvedimento impugnato ha, infatti sottolineato che entrambe le
condotte per le quali è stata sanzionata non potevano essere considerate di scarsa rilevanza, in quanto lesive dell’ immagine professionale e del prestigio dell’ incolpata. Inoltre, la ricorrente si limita a sostenere che il giudizio reso al riguardo avrebbe dovuto essere riformulato, ove, a seguito dell’accoglimento del ricorso, fosse venuta meno anche una sola delle due incolpazioni. Come detto
questa ipotesi non ricorre nel caso in esame, in cui le censure difensive sono state respinte.
5. Il ricorso è pertanto rigettato.
6. Nulla a disporre quanto alle spese atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato.
7. Ancorchè il ricorso sia rigettato, non sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, comma 1-quater dell’art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 21 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2023
Allegati:
SS.UU, 23 marzo 2023, n. 8428, in tema di responsabilità del magistrato