In tema di protezione dei minori – SS.UU, 26 giugno 2023, n. 18199
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
FILIAZIONE
MINORI
Ud. 20/06/2023 –
U.P.cam.
R.G.N. 23918/2021
Rep.
SENTENZA
sul ricorso 23918-2021 proposto da:
E.Y. , rappresentata e difesa dall’avvocato ELISABETTA RENIER;
– ricorrente –
contro
R.S. , rappresentato e difeso dall’avvocato LAURA COSSAR;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza n. 2860/20214 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 21/06/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2023 dal Consigliere ENRICO SCODITTI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale LUISA DE RENZIS, il quale chiede che le Sezioni Unite rigettino il ricorso ed affermino il principio di diritto esposto nella parte motiva della requisitoria.
Fatti di causa
1. E.Y. propose innanzi alla Corte d’appello di Bologna domanda di accertamento dei requisiti di riconoscimento della sentenza del 13 giugno 2019, emessa sulla base del ricorso presentato in data 29 settembre 2018 dal Tribunale di Butirskiy – Città di Mosca (Federazione Russa), e mediante cui erano stati affidati i due figli nati nel corso della sua relazione con R.S. , entrambi minorenni, alla madre, determinando la residenza presso quest’ultima e fissando l’orario di visite per il padre. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda.
2. Con sentenza di data 21 giugno 2021 la Corte d’appello adita rigettò la domanda.
Osservò la corte territoriale, premesso che la norma regolante la giurisdizione in Italia era quella della residenza abituale del minore, come previsto dall’art. 8 Reg. CEE n. 2201/2003, che ostava al riconoscimento della sentenza la carenza del presupposto di cui all’art. 64 lett. a) l. n. 218 del 1995 («il giudice che l’ha pronunciata poteva conoscere della causa secondo i princìpi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano»), ed in particolare la circostanza che la Federazione Russa non costituiva lo Stato di residenza abituale dei minori. Osservò in particolare che, all’epoca di proposizione del ricorso (29 settembre 2018), i minori erano residenti abitualmente in Italia, avendo sempre abitato a C. (ove avevano anche la residenza anagrafica) dalla nascita, e trovandosi nella Federazione Russa solo da un paio di mesi per le vacanze estive. Aggiunse che, dovendosi identificare il criterio della residenza abituale del minore nella dimora stabile, non precaria, costituente il luogo dei più radicati legami affettivi e dei principali e reali interessi, non poteva tale luogo essere identificato all’interno della Federazione Russa, in luogo dell’Italia, ove invece i minori fino al settembre 2018 erano cresciuti con i genitori. Osservò inoltre che i due mesi trascorsi nella Federazione Russa non potevano costituire un tempo apprezzabile per considerare radicata in quello Stato l’abituale residenza.
Aggiunse che, se era vero che il padre non aveva eccepito innanzi al Tribunale della Federazione Russa il difetto di giurisdizione, ciò nondimeno trovava applicazione il principio di diritto di cui a Cass. Sez. U. n. 28 ottobre 2015, n. 21946, secondo cui «in tema di riconoscimento di sentenze straniere, ai sensi della L. n. 218 del 1995, i vizi (tra cui il difetto di competenza giurisdizionale, secondo i principi propri dell’ordinamento italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. a) che, se tempestivamente dedotti avanti al giudice straniero, avrebbero inficiato il giudizio, non possono essere fatti valere, per la prima volta, davanti al giudice italiano». Osservò quindi che se il S. avesse eccepito il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria della Federazione Russa, invocando la norma di cui all’art. 8 del Regolamento CE n. 2201/03, «avrebbe visto respinta la sua eccezione, perché l’A.G. della Federazione Russa non era tenuta ad applicare il Reg. CE».
3. Ha proposto ricorso per cassazione E.Y. sulla base di quattro motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. E’ stata depositata memoria di parte.
4. Con ordinanza interlocutoria n. 34969 del 28 novembre 2022 la Prima Sezione Civile ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per l’eventuale sua assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 3, affinché le stesse stabilissero «se, nell’ambito di un giudizio di riconoscimento, in Italia, dell’efficacia di una sentenza straniera, la parte ivi convenuta, che si sia ritualmente costituita nel giudizio svoltosi innanzi al giudice a quo senza sollevare, in quella sede, alcuna eccezione circa la carenza della “competenza giurisdizionale” di quest’ultimo, possa ancora formulare una siffatta eccezione innanzi al giudice della invocata delibazione oppure se la stessa possa essere sollevata di ufficio da quest’ultimo». Il ricorso è stato quindi assegnato a queste Sezioni Unite.
5. Si dà preliminarmente atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in camera di consiglio, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, ai sensi dell’art. 8, comma 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, che ha prorogato fino alla data del 30 giugno 2023 l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 221, comma 8, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, e di cui all’articolo 23, commi 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, e 9-bis, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.
6. Il Procuratore Generale ha presentato le conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso. E’ stata presentata memoria dalla ricorrente.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 42 l. n. 218 del 1995, che rinvia ai principi della Convenzione dell’Aja del 5 Ottobre 1961 sulla competenza delle autorità e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori, e dell’art. 64 lett. a) della medesima legge. Lamenta la ricorrente che la corte territoriale ha ritenuto che il giudice della Federazione Russa non fosse competente a decidere della causa in base ai principi sulla competenza giurisdizionale dell’ordinamento italiano, tra i quali principi però non possono non rientrare anche quelli dettati dalla L. n. 218 del 1995, art. 42 e della Convenzione dell’Aja, e che nella specie è stato violato l’art. 5 della Convenzione dell’Aja del 1996 in base al quale, in caso di lecito trasferimento della residenza abituale di un minore, sono competenti giurisdizionalmente le Autorità del nuovo Stato di residenza, per cui sulla base del lecito trasferimento doveva intendersi come residenza abituale dei minori non quella anagrafica, ma quella corrispondente alla residenza di fatto nella Federazione Russa. Aggiunge che erroneamente è stato richiamato il Regolamento CE 2201/03 inapplicabile al caso di specie.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 116 c.p.c. e dell’art. 2699 c.c.. Osserva la ricorrente che la Corte d’appello ha omesso la valutazione di elementi probatori documentali in atti, ed in particolare gli elementi di prova documentali presenti nelle sentenze della Federazione Russa, parificabili agli atti redatti da un pubblico ufficiale e deponenti nel senso della residenza stabile dei minori in quel Paese o comunque suscettibile di diventare tale, e ha in ogni caso omesso la valutazione di ogni elemento presente in atti necessario a confermare che la residenza dei minori in Russia aveva carattere di abitualità.
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 64 lett. a) l. n. 218 del 1995. Osserva la ricorrente, con riferimento al rilievo che se il S. avesse eccepito il difetto di giurisdizione della Federazione Russa invocando l’art. 8 Regolamento CE cd. Bruxelles II bis, avrebbe vista respinta la sua eccezione in quanto la Federazione Russa non era obbligata ad applicare il predetto Regolamento europeo, che il medesimo S. ben avrebbe potuto contestare la giurisdizione della Federazione Russa ai sensi della Convenzione dell’Aja del 1996, da applicare per la determinazione della giurisdizione in materia di affidamento di minori ai sensi della L. n. 216 del 1995, ed alla quale la Federazione Russa era tenuta ad uniformarsi per averla ratificata. Aggiunge che non avendo egli opposto tale eccezione, che sarebbe stata decisa in base alle disposizioni della Convenzione medesima, risultava evidente che lo stesso fosse decaduto definitivamente da ogni eccezione in merito alla giurisdizione, anche ai sensi delle norme italiane di diritto internazionale privato.
4. Con il quarto motivo si denuncia violazione della l. n. 766 del 1985 (“Ratifica ed esecuzione della convenzione tra la Repubblica italiana e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche sull’assistenza giudiziaria in materia civile”, firmata a Roma il 25 gennaio 1979), per avere la corte ignorato e disapplicato i dispositivi della predetta Convenzione che riconoscono la facoltà ai cittadini delle Parti contraenti di adire liberamente le autorità giurisdizionali di ciascuna parte e l’efficacia delle decisioni giurisdizionali delle parti contraenti. Precisa che in particolare sono stati disapplicati gli artt. 1, 19 e 24 della medesima Convenzione.
5. Nell’ordinanza interlocutoria, dopo avere premesso che la inapplicabilità del Reg. CE n. 2201/03 nei confronti della Federazione Russa non avrebbe escluso la necessità di verificare l’esito della suddetta eccezione alla stregua della disciplina sancita dalla Convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 – ratificata dall’Italia con la L. 18 giugno 2015, n. 101 – cui ha aderito anche la Russia, viene revocato in dubbio il principio di diritto reso da Cass. Sez. U. n. 21946 del 2015 sul presupposto sia dell’art. 11 della l. n. 218 del 2015, secondo cui il difetto di giurisdizione può essere rilevato, in qualunque stato e grado del processo, soltanto dal convenuto costituito che non abbia espressamente accettato la giurisdizione italiana (mentre il giudice può rilevare d’ufficio il proprio difetto di giurisdizione se il convenuto è contumace), che dell’art. 4 della medesima legge, secondo cui il convenuto costituitosi in giudizio, qualora non proponga l’eccezione di difetto di giurisdizione nella propria comparsa di risposta, accetta, anche implicitamente, la giurisdizione italiana, decadendo dalla possibilità di contestarla in seguito. Il Collegio remittente mostra di non condividere l’opzione della corte territoriale di non conferire rilevanza alla costituzione dell’odierno intimato innanzi all’autorità giudiziaria straniera senza sollevare l’eccezione di giurisdizione alla luce del principio di diritto sopra richiamato, perché è il giudice a quo ad essere investito dei poteri di accertamento della pretesa fatta valere, per cui in quella sede processuale debbono essere valutate tutte le questioni di merito, ma anche di rito, preliminari o pregiudiziali, che attengono alla proponibilità e fondatezza della domanda giudiziale, mentre al Collegio della delibazione spetta la verifica del rispetto di principi fondamentali quali, ad esempio, il contraddittorio, la difesa e l’ordine pubblico, ma anche, sempre ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. a), proprio la competenza giurisdizionale del giudice a quo secondo, però, le norme interne.
Ne consegue, per il Collegio remittente, che era inibito alla Corte d’appello di valutare il profilo della giurisdizione sulla base di un’eccezione che poteva essere proposta dalla parte ritualmente costituitasi, non potendosi far dipendere la possibilità di sollevare, di fronte al giudice italiano, l’eccezione di difetto di competenza giurisdizionale del giudice straniero dal fatto che, davanti a quest’ultimo, il medesimo potere processuale non avrebbe potuto essere esercitato efficacemente per l’inidoneità dell’eccezione ad «inficiare il giudizio», così obbligando il giudice ad quem ad una verifica sull’ipotetico esito dell’eccezione, e dovendosi invece considerare il fatto che la questione non era stata sollevata nel giudizio a quo dalla parte diligente che pur astrattamente avrebbe potuto farlo, con conseguente automatica preclusione nel giudizio ad quem.
6. I motivi, da trattare congiuntamente in quanto connessi, sono infondati, conformemente alle conclusioni del Pubblico Ministero.
6.1. Deve essere premesso un chiarimento preliminare in ordine al principio di diritto da cui prende le mosse l’ordinanza interlocutoria.
Al riguardo va subito detto che Cass. Sez. U. n. 21946 del 2015 non ha fatto applicazione del detto principio. Quest’ultimo, nei termini richiamati dall’ordinanza di rimessione, era stato formulato ed invocato dai ricorrenti in quel giudizio richiamando Cass. 29 maggio 2003, n. 8588. A quest’ultima pronuncia hanno fatto riferimento le Sezioni Unite, tratteggiando il principio nei termini seguenti: «in tema di riconoscimento di sentenze straniere, ai sensi della L. n. 218 del 1995, i vizi (tra cui il difetto di competenza giurisdizionale, secondo i principi propri dell’ordinamento italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. a) che, se tempestivamente dedotti avanti al giudice straniero, avrebbero inficiato il giudizio, non possono essere fatti valere, per la prima volta, davanti al giudice italiano». Non applicando il principio, le Sezioni Unite hanno escluso che l’eccezione di difetto di giurisdizione fosse stata sollevata tardivamente dai ricorrenti, rimasti contumaci dinanzi al giudice statunitense, e che per la prima volta in sede di riconoscimento della sentenza in Italia avevano sollevato l’eccezione di difetto di competenza giurisdizionale del detto giudice, secondo i principi propri del diritto italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. a).
In particolare, il Collegio osservò che «anche là dove i convenuti (la Repubblica Islamica dell’Iran e il Ministero dell’informazione e della sicurezza dell’Iran) avessero partecipato al giudizio dinanzi alla Corte distrettuale per il Distretto della Columbia, il difetto di giurisdizione del giudice statunitense non avrebbe potuto essere utilmente eccepito, in quanto l’immunità dalla giurisdizione dello Stato iraniano sarebbe stata rifiutata da quel giudice in ragione delle disposizioni di una normativa speciale di diritto interno del 1996, cioè la legge sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri (Foreign Sovereign Immunities Act – FSIA), che prevede sì una presunzione di immunità a favore degli Stati stranieri, ma con una eccezione (art. 1605 (a)(7)), applicabile retroattivamente, per le domande di danni materiali introdotte da cittadini americani vittime di atti di terrorismo commessi ai loro danni con il supporto di agenti di Stati, incluso l’Iran, indicati ufficialmente dagli Stati Uniti come sponsor del terrorismo».
Il principio di diritto, come si è detto, risale a Cass. n. 8588 del 2003, nell’ambito di un giudizio di riconoscimento di sentenza sempre statunitense e della quale è opportuno qui richiamare la motivazione, afferente alla ritenuta inammissibilità del motivo in scrutinio.
«Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 64 della Legge 218-95 nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, lamentando che la Corte d’Appello abbia riconosciuto la sentenza straniera, senza considerare che:
– il giudice che l’ha pronunciata non poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano (art. 64 lett. a), avendo detta causa riguardato una responsabilità per fatto illecito (“frode ed istigazione fraudolenta”) che, in base all’art. 64 della legge in esame, è regolata dalla legge dello Stato in cui si è verificato l’evento ovvero il fatto che ha causato il danno, con la conseguenza che, essendo i fatti avvenuti in Italia, in relazione all’acquisto ed alla gestione un’azienda di abbigliamento di Positano, competente doveva ritenersi il giudice italiano;
– l’atto introduttivo del giudizio svoltosi avanti alla Corte americana non era stato portato a conoscenza del convenuto secondo la legge del luogo in cui si era svolto il processo, essendo stato notificato anch’esso in Positano alla via Boscariello ed inoltre il termine a comparire di venti giorni concesso per la sua costituzione avanti alla Corte Federale dello Stato di New York non poteva consentirgli, quale cittadino italiano residente oltre oceano, di esercitare il proprio diritto di difesa.
Anche tale censura è inammissibile, non potendo i rilevati vizi che avrebbero inficiato il giudizio avanti al giudice straniero essere dedotti per la prima volta in questa sede, senza che mai in precedenza, nè avanti al giudice statunitense (nonostante la notifica dell’atto di citazione fosse avvenuta a mani proprie) né avanti alla Corte d’Appello, fossero stati fatti valere. Ciò vale indubbiamente sia per la competenza giurisdizionale di cui all’art. 64 lett. a) della Legge 218-95, tenuto conto, oltre tutto, della sua derogabilità prevista dall’art. 4 della stessa legge, sia per la notifica dell’atto introduttivo di quel giudizio (avvenuta peraltro a mani proprie, come si è già evidenziato) e sia ai fini della valutazione della congruità del termine a comparire assegnato al convenuto, che richiede di volta in volta uno specifico esame in relazione alle particolari circostanze del caso concreto».
Si ricava dalla motivazione in primo luogo che i vizi, inficianti il giudizio innanzi al giudice straniero e non dedotti in quella sede, dei quali viene rilevata l’impossibilità di dedurli con il ricorso per cassazione, sono due: l’incompetenza giurisdizionale e l’irritualità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio. L’impossibilità di dedurli in sede di legittimità riguarda quindi entrambi i vizi ed essi vengono ai fini della decisione unitariamente considerati, e non singolarmente valutati. In secondo luogo, l’inammissibilità della censura discende dalla mancata deduzione del vizio non solo innanzi al giudice straniero, ma anche innanzi alla Corte d’appello, per cui la novità rilevava anche quale proposizione dell’eccezione per la prima volta in sede di legittimità.
Alla luce di tali considerazioni va detto che il principio di diritto in discorso non è mai stato originariamente enunciato come tale, ma è stato dedotto estrapolandolo da un’articolata motivazione di inammissibilità del motivo di ricorso nella sentenza n. 8588 del 2003, inammissibilità basata essenzialmente su due rationes decidendi, congiuntamente rilevanti ai fini della ritenuta inammissibilità. Del principio è stata invocata l’applicazione da parte dei ricorrenti nel giudizio innanzi alle Sezioni Unite e queste si sono limitate a negarne l’applicabilità. Non vi è dunque allo stato un principio di diritto che possa dirsi enunciato dalle Sezioni Unite, nel senso indicato nell’ordinanza di rimessione, né tanto meno un principio che possa assurgere alla dignità prevista dal secondo comma dell’art. 374 cod. proc. civ.
6.2. Ciò chiarito in ordine alla premessa da cui ha preso le mosse l’ordinanza interlocutoria, va detto che, avuto riguardo all’epoca di introduzione del giudizio innanzi al giudice straniero (29 settembre 2018), trova applicazione nel caso di specie la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1996 (“Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori”), cui deve intendersi rinvii l’art. 42 della legge n. 218 del 1995 quale normativa succeduta alla Convenzione del 5 ottobre 1961 (così in motivazione Cass. 12 settembre 2019, n. 22828), in quanto disciplina internazionale ratificata non solo dallo Stato italiano con legge 18 giugno 2015 n. 101, ma anche dalla Federazione Russa. Già la norma generale di cui all’art. 2 della legge n. 218 prevede che «le disposizioni della presente legge non pregiudicano l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l’Italia», ma è soprattutto l’art. 42 a venire in gioco, in base al quale «la protezione dei minori è in ogni caso regolata dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, sulla competenza delle autorità e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori, resa esecutiva con la legge 24 ottobre 1980, n. 742». Nel senso che il caso di specie ricada nella disciplina della detta Convenzione sono anche le conclusioni del Pubblico Ministero.
Per ciò che concerne il riconoscimento della sentenza straniera l’art. 23 della Convenzione, premesso il riconoscimento di pieno diritto della misura adottata dalla autorità di uno Stato contraente negli altri Stati contraenti, prevede, fra le condizioni ostative del riconoscimento, che la misura sia stata adottata da un’autorità la cui competenza non era fondata in base alle disposizioni convenzionali sulla competenza, ed in particolare l’art. 5 della medesima Convenzione, secondo cui «le autorità, sia giudiziarie che amministrative, dello Stato contraente di residenza abituale del minore sono competenti ad adottare misure tendenti alla protezione della sua persona o dei suoi beni».
L’art. 24 prevede poi che «senza pregiudizio dell’art. 23, paragrafo primo, ogni persona interessata può chiedere alle autorità competenti di uno Stato contraente che si pronuncino sul riconoscimento o il mancato riconoscimento di una misura adottata in un altro Stato contraente. La procedura è regolata dalla legge dello Stato richiesto». Si intende da tale disposizione convenzionale che la legge dello Stato richiesto per il riconoscimento trova applicazione limitatamente alle norme che disciplinano la procedura, mentre, per quanto riguarda i presupposti del riconoscimento, trova applicazione la disciplina convenzionale. Quest’ultima non prevede, contrariamente all’art. 64 l. n. 218 del 1998, requisiti costitutivi di efficacia (l’art. 64 è formulato nei termini che si ha riconoscimento quando ricorrano i presupposti contemplati dalla norma), ma contempla il riconoscimento di pieno diritto della sentenza straniera, salvo la ricorrenza di condizioni ostative, ed in particolare, per quanto qui rileva, quella secondo cui la misura giurisdizionale non è stata adottata dalla autorità giudiziaria dello Stato contraente di residenza abituale del minore. La fattispecie resta così regolata, in funzione di disciplina sostanziale del riconoscimento, dall’art. 23 della Convenzione, mentre trova applicazione la legge italiana soltanto per ciò che riguarda la procedura, in particolare, in base alla legge applicabile ratione temporis, il rito sommario di cognizione (a decorrere dal 28 febbraio 2023, il rito è quello semplificato di cognizione), con competenza della corte d’appello del luogo di attuazione del provvedimento straniero (art. 30 d. lgs. n. 150 del 2011, cui rinvia l’art. 67, comma 1-bis, della legge n. 218).
6.3. Con il primo motivo di ricorso si invoca l’applicazione della Convenzione dell’Aja, ma allo scopo di fare applicazione dell’art. 5 della disciplina convenzionale, ed in particolare il secondo paragrafo, il quale prevede che, fatta salva l’ipotesi del trasferimento illecito, «in caso di trasferimento della residenza abituale del minore in un altro Stato contraente, sono competenti le autorità dello Stato di nuova abituale residenza». La censura è inammissibile perché muove da un presupposto di fatto non accertato dal giudice del merito, e cioè che la residenza abituale del minore fosse stata trasferita nella Federazione Russa. Il giudizio di fatto del giudice del merito, in quanto tale non sindacabile nella presente sede alla luce dei noti limiti del controllo di legittimità, è stato nel senso che non vi è stato trasferimento della residenza abituale non potendosi considerare tale il periodo di permanenza di due mesi per le vacanze estive. Tale giudizio di fatto resta fermo nella presente sede di legittimità perché, benché l’art. 25 preveda che «l’autorità dello Stato richiesto è vincolata dalle constatazioni di fatto sulle quali l’autorità dello Stato che ha adottato la misura ha fondato la propria competenza», la ricorrente non ha impugnato l’ordinanza della corte territoriale sotto il profilo della violazione dell’art. 25 della Convenzione.
Alla stregua quindi dell’accertamento di fatto del giudice del merito deve concludersi nel senso che il riconoscimento alla sentenza straniera deve essere negato per essere stata emessa da autorità priva di competenza ai sensi dell’art. 23, paragrafo 2 lett. a), della Convenzione, in quanto non appartenente allo Stato contraente di residenza abituale dei minori.
Inammissibile è anche la censura sollevata con il secondo motivo, essenzialmente per violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., sotto il profilo dell’omessa valutazione della prova, omissione che, secondo l’assunto della ricorrente, avrebbe determinato pure una violazione dell’art. 2699 cod. civ. perché le prove pretermesse sarebbero le sentenze della Federazione Russa. Al riguardo è sufficiente rammentare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ed anche di queste Sezioni Unite, in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867). E’ stato anche da ultimo affermato che il potere del giudice di valutazione della prova non è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione dell’art. 116 c.p.c., quale apprezzamento riferito ad un astratto e generale parametro non prudente della prova, posto che l’utilizzo del pronome “suo” è estrinsecazione dello specifico prudente apprezzamento del giudice della causa, a garanzia dell’autonomia del giudizio in ordine ai fatti relativi, salvo il limite che “la legge disponga altrimenti” (Cass. 17 novembre 2021, n. 34786).
Conformemente a quanto osservato dal Procuratore Generale, il terzo motivo, su cui verte la questione per cui è intervenuta l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, non è fondato. L’ordinanza interlocutoria richiama la problematica dell’integrazione del requisito di cui all’art. 64 lett. a) della legge n. 218 con l’art. 4, comma 1, quanto alla sussistenza della giurisdizione del giudice italiano, per ipotesi mancante in base all’art. 3, per effetto della mancata sollevazione dell’eccezione di difetto della giurisdizione nel primo atto difensivo. Ne seguirebbe che fra i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento giuridico vi sarebbe anche la regola enunciata dall’art. 4, comma 1. Di qui, alla stregua del ragionamento dell’ordinanza di rimessione, l’inoperatività del criterio dell’esito che avrebbe avuto la sollevazione dell’eccezione innanzi al giudice straniero, su cui invece si è basata la corte territoriale richiamando Cass. Sez. U. n. 21946 del 2015. Come osservato dal Procuratore Generale, l’articolazione normativa derivante dalla legge n. 218 cede il passo al criterio della residenza abituale del minore contemplato dalla Convenzione. Lo scrutinio del terzo motivo non può non sfociare nei termini dell’infondatezza proprio perché la fattispecie, sotto il profilo delle condizioni sostanziali di riconoscimento della sentenza straniera, è disciplinata dalla Convenzione e non dall’art. 64 della legge n. 218, trovando applicazione la legge italiana, come si è detto, solo limitatamente alla procedura, in forza di quanto previsto dalla medesima Convenzione.
La sentenza della corte territoriale, nella misura in cui assume quale paradigma decisionale la consumazione del potere di eccepire l’incompetenza giurisdizionale per mancata sollevazione della relativa eccezione innanzi al giudice straniero, sia pure ravvisando l’assenza del presupposto di applicabilità di quel paradigma, è erroneamente motivata in diritto, benché sia conforme a diritto sul punto il dispositivo, e quindi la motivazione va corretta nel senso qui indicato ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 384 cod. proc. civ..
Infine, quanto al quarto motivo, con cui si denuncia la violazione della legge n. 766 del 1985 (“Ratifica ed esecuzione della convenzione tra la Repubblica italiana e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche sull’assistenza giudiziaria in materia civile”, firmata a Roma il 25 gennaio 1979), e segnatamente degli artt. 1, 19 e 24 della medesima Convenzione, come esattamente osservato dal Procuratore Generale, la normativa richiamata non disciplina il riparto di giurisdizione, ma si limita a riconoscere il diritto dei cittadini di ciascuno Stato firmatario di adire gli uffici giudiziari dell’altro, a condizione che, in base ai criteri di collegamento previsti dalle norme di volta in volta applicabili, l’autorità giudiziaria adita sia munita di giurisdizione in ordine alla controversia (si vedano in motivazione Cass. Sez. U. 19 ottobre 2022, n. 30903 e 12 aprile 2022, n. 21351). Il criterio di collegamento della giurisdizione previsto dalla Convenzione del 1996 è, come si è visto, quello della residenza abituale del minore, che il giudice del merito ha accertato essere nel territorio dello Stato italiano.
6.4. Va, in conclusione, enunciato il seguente principio di diritto: “ove, in base all’art. 42 legge n. 218 del 1995, trovi applicazione la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1996, le condizioni sostanziali di riconoscimento delle misure di protezione dei minori disposte dalla giurisdizione straniera risultano fissate dall’art. 23 della detta Convenzione, e non dall’art. 64 legge n. 218 del 1995, mentre il procedimento del riconoscimento innanzi al giudice italiano resta disciplinato, come previsto dall’art. 24 della medesima Convenzione, dalla legge italiana”.
6.5. I profili di novità evocati dalla controversia, anche avuto riguardo alla questione interpretativa posta dalla decisione impugnata che ha sollecitato l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, costituiscono ragione di compensazione delle spese processuali
Poiché il ricorso viene disatteso, vi sono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 – quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso;
dispone la compensazione delle spese processuali.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del d.lgs. n. 196 del 2003.
Così deciso in Roma il giorno 20 giugno 2023
Il consigliere estensore
Dott. Enrico Scoditti
Il Presidente
Dott. Guido Raimondi
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 28 novembre 2022, n. 34969, per SS.UU, 26 giugno 2023, n. 18199, in tema di protezione dei minori
SS.UU, 26 giugno 2023, n. 18199, in tema di protezione dei minori
In tema di filiazione – SS.UU, 22 marzo 2023, n. 8268
SS.UU, 22 marzo 2023, n. 8268, in tema di filiazione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA
sul ricorso 8291-2022 proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE;
– ricorrente –
contro
RICORSO NON NOTIFICATO AD ALCUNO;
avverso la sentenza n. 14782-2018 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 17/07/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2023 dal Consigliere GIULIA IOFRIDA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale LUISA DE RENZIS, che si riporta, come da memoria già depositata.
Svolgimento del processo
La Procura generale della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 363, comma 1, c.p.c., ha chiesto, con atto depositato il 5/4/2022, l’enunciazione, nell’interesse della legge, del seguente principio di diritto: “Il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c.”.
I fatti di causa dai quali prende le mosse la richiesta della Procura generale sono i seguenti.
A.A., B.B. e C.C., premesso di risultare figli di D.D. e E.E., entrambi deceduti, hanno adito il Tribunale di Roma, nel 2016, chiedendo l’accertamento giudiziale di paternità di F.F..
A sostegno della domanda proposta, gli attori hanno dedotto:
a) di avere appreso che la madre, D.D., aveva intrattenuto una relazione con F.F., proprietario terriero alle cui dipendenze avevano lavorato i coniugi B.B.;
b) che da questa relazione erano nati nove dei dodici figli della donna, tra i quali i tre attori;
c) che questi ultimi non erano stati cresciuti e mantenuti dal presunto padre e avevano vissuto in condizioni di grave indigenza, mentre i figli del F.F., nati nel matrimonio, avevano beneficiato delle elevate consistenze reddituali e patrimoniali del padre;
d) che, sin dal 2010, essi avevano promosso un’azione giudiziale per il disconoscimento della paternità di E.E., marito della madre e, all’esito del giudizio, recepite le conclusioni formulate nella C.T.U. avente ad oggetto indagini ematologiche ed immunogenetiche sul DNA, era stata esclusa l’esistenza del legame di filiazione tra gli attori e lo B.B., ma la sentenza era stata impugnata da parte di uno dei fratelli degli attori, in qualità di erede dello B.B.;
e) nel giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità, si erano costituiti G.G., H.H. ed I.I., eredi del F.F., eccependo, preliminarmente, l’inammissibilità dell’azione proposta, stante la pendenza, dinanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro, del giudizio avente ad oggetto il disconoscimento di paternità e risultando pertanto, allo stato, gli attori figli di E.E., marito della madre;
f) nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale di Roma, gli attori hanno chiesto la sospensione del giudizio in attesa della definizione del processo pendente dinanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro;
g) con sentenza n. 14782/2018, depositata il 17.7.2018, il Tribunale di Roma, rilevato che il procedimento di disconoscimento di paternità azionato dagli attori non era stato ancora definito, essendo pendente appello, accogliendo l’eccezione spiegata dai convenuti e rigettata l’istanza di sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c., essendosi ritenuto che l’art. 295 c.p.c. è una norma di stretta interpretazione (cfr., SS.UU, 10027/2012) e che tra i due giudizi non può dirsi sussistente un rapporto di stretta pregiudizialità, teso ad evitare che si realizzi un contrasto di giudicati, ha dichiarato inammissibile la domanda, richiamato il consolidato orientamento espresso dallo stesso Tribunale di Roma (sentenze del 24.4.2015 e del 19.1.2017), nonchè del giudice di legittimità (Cass. n. 8190/1998 e, da ultimo, Cass. n. 12167/2005 e Cass. n. 487/2014), in forza del quale non è ammesso il riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova (principio sancito dall’art. 253 c.c.), in quanto “presupposto perchè possa essere esperita l’azione di accertamento giudiziale di paternità è l’assenza di uno stato di figlio formalmente accertato”, e condannato gli attori al pagamento delle spese di lite;
h) la predetta sentenza, non impugnata, è passata in giudicato.
La Procura generale, ritenute pertanto sussistenti le condizioni di non ricorribilità per cassazione e di non impugnabilità della decisione giudiziale, previste dall’art. 363, comma 1, c.p.c. per farsi luogo alla richiesta di enunciazione di principio di diritto nell’interesse della legge, ha declinato la questione di diritto nelle seguenti correlate domande:
I) “il giudizio finalizzato ad accertare la paternità al di fuori del matrimonio può essere proposto anche se la paternità del marito non è ancora stata disconosciuta giudizialmente con pronuncia passata in giudicato?”;
II) “il processo di accertamento giudiziale di paternità biologica può essere proposto e sospeso ex art. 295 c.p.c., sulla base di un nesso di pregiudizialità tecnico-giuridica, in attesa della definizione del giudizio di disconoscimento della paternità?”.
Premesso che la questione affrontata dal Tribunale di Roma è stata oggetto di decisione di merito contrastanti che, a loro volta, riflettono l’orientamento non univoco della dottrina, la Procura generale – richiamata anche l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità – ha osservato come la Suprema Corte, nell’ordinanza n. 17392 del 2018, ha chiarito che tra l’azione di disconoscimento della paternità e quella di dichiarazione giudiziale di altra paternità sussiste un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico, con conseguente possibilità di sospensione, ex art. 295 c.p.c..
Nella richiesta ai sensi dell’art. 363 c.p.c., viene altresì evidenziato come appaia necessario che la Corte di Cassazione “affermi e consolidi un principio di diritto compatibile con la piena tutela dei diritti dei soggetti coinvolti, evitando così che una tesi troppo formalistica, e soprattutto poco adeguata al contesto normativo di riferimento, costringa le parti a dover attendere il tempo – non breve, è noto – del giudizio di disconoscimento e di incardinare ex novo un’azione già proposta (quella di accertamento giudiziale della paternità), laddove l’istituto della sospensione ex art. 295 c.p.c. possa soccorrere e conservare gli effetti dell’azione già incardinata, contestualmente o separatamente al giudizio di disconoscimento”.
Si osserva inoltre che, nell’ambito della giurisprudenza di merito, come emblematicamente emerge dalla decisione del tribunale di Roma, ancora “persiste una tendenza ad effettuare confusione nel coordinamento tra i due giudizi, dichiarando l’inammissibilità dell’azione di accertamento giudiziale della paternità nella pendenza dell’azione di disconoscimento, tralasciando di considerare che, di fronte ad un’azione ricostruttiva della filiazione, sia pure promossa prematuramente, la pronuncia di inammissibilità costringe le parti alla nuova proposizione della domanda, ad effettuare nuove spese, a dilatare i tempi del giudizio”, mentre la tesi giuridica che predilige “l’aspetto per così dire sanante o conservativo dell’azione già intrapresa (facendo leva sull’istituto della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c.) è quella che bene accorda i due istituti, meglio tutela i diritti delle parti e rispetta il principio (di valenza generale) di necessaria economia processuale quale strumento di fondamentale importanza per la deflazione dei contenziosi”.
A ciò non osta la formulazione dell’art. 253 c.c. e nemmeno il testo dell’art. 269 c.c. perchè il diverso status filiationis preclude la dichiarazione (l’accertamento) della filiazione al di fuori del matrimonio ma non “la richiesta (la domanda) di una siffatta dichiarazione”.
Si evidenzia, inoltre, nella richiesta, come si possa anche ipotizzare “una frontiera processuale” non incompatibile con il quadro normativo, che, come previsto dall’art. 276, comma 2, c.c. ammette a partecipare al giudizio “chiunque vi abbia interesse”, vale a dire la possibilità che i giudizi di cui si tratta possano essere introdotti cumulativamente, con unico atto introduttivo, dal soggetto che vanti la legittimazione per entrambi i giudizi (ad es. il figlio), anche ammettendo l’ipotesi che il presunto padre naturale possa prendere parte al giudizio di disconoscimento della paternità del marito, non trovando tale ipotesi di introduzione cumulativa ostacolo nel comma 1 dell’art. 247 c.c. poichè il fatto che il figlio, la madre ed il marito siano “parti necessarie del giudizio non comporta che queste siano le uniche parti del giudizio”.
In ordine alle vicende sopravvenute rispetto al deposito della richiesta del P.G., deve rilevarsi, anzitutto, che la Corte Costituzionale, investita, con ordinanza dell’11/3/2021 della Corte d’appello di Salerno (richiamata nella richiesta del P.G. dell’aprile 2022), con sentenza n. 177 del 14/7/2022, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 269, comma 1, c.c. sollevata – in riferimento alla Cost., artt. 2, 3, 24, 29, 30, 111 e 117, comma 1, in riferimento all’art. 8 CEDU, agli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo e dell’art. 24, par. 2, CDFUE – nella parte in cui non consente la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità alle condizioni richieste per il riconoscimento, non permettendo dunque di pronunciare una sentenza dichiarativa della genitorialità prima che sia demolito lo stato attribuito al figlio o, quantomeno, di addivenire ad una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità condizionata all’esito del giudizio demolitivo dello stato di filiazione goduto dal figlio.
Deve, inoltre, essere rilevato che uno dei due attori, C.C., ha proposto ricorso dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, ravvisando una violazione dell’art. 8 della CEDU, in ragione del fatto che l’ordinamento giuridico italiano (artt. 253 e 269 c.c.) non consente l’introduzione di una domanda di riconoscimento della paternità biologica prima della previa rimozione del diverso status (il cui procedimento, ad avviso della ricorrente, ha comunque una durata eccessiva): più precisamente, la ricorrente, dell’età di 68 anni, lamentando, da un lato, l’impossibilità di avviare un’azione per il riconoscimento della paternità nei confronti del padre biologico (in ragione della previsione che subordina l’accertamento di altra paternità al passaggio in giudicato della sentenza relativa al disconoscimento di altra paternità) e, dall’altro, l’eccessiva lunghezza del procedimento di paternità protrattosi, nel caso di specie, per oltre dodici anni.
I giudici di Strasburgo, con sentenza del 6/12/2022, all’esito della camera di consiglio del 15/11/2022, ritenuto il ricorso ricevibile e respinte le eccezioni formulate dal Governo italiano, hanno affermato che:
a) i fatti relativi al procedimento di paternità rientrano incontestabilmente nell’ambito di applicazione dell’art. 8 della Convenzione, che riconosce il diritto di ogni individuo a conoscere le proprie origini e a farle stabilire legalmente, che la “vita privata” può includere aspetti dell’identità non solo fisica, ma anche sociale dell’individuo e che il diritto a conoscere le proprie origini ed a vederle accertate non può essere pregiudicato per il raggiungimento della maggiore età già al momento della proposizione del procedimento interno;
b) trovandosi la ricorrente da dodici anni “nell’incertezza della sua identità personale”, in quanto le è impossibile proporre un’azione per l’accertamento della paternità, poichè la sentenza di disconoscimento di paternità non è ancora definitiva (pendendo ancora, “secondo le ultime informazioni ricevute” dalla Corte, il giudizio di disconoscimento in cassazione), cosicchè lo svolgimento del procedimento deve ritenersi interferire in modo sproporzionato con il diritto al rispetto della propria vita privata, la suddetta violazione dell’art. 8 della Cedu sussiste, atteso che le autorità italiane sono venute meno al loro obbligo positivo di garantire alla ricorrente il diritto al rispetto della sua vita privata, con conseguente, in applicazione dell’art. 41 della Convenzione, condanna dello Stato italiano al risarcimento, a titolo di danno morale, della somma di Euro 10.000,00 ed al pagamento delle spese.
In merito alla compatibilità del sistema italiano – che prevede che il disconoscimento di paternità sia pregiudiziale rispetto all’accertamento di altra paternità – con l’art. 8 della Cedu, tenuto conto del margine di discrezionalità dello Stato, la Corte Edu ha affermato, in motivazione, che, nell’ambito di un siffatto sistema, devono essere difesi gli interessi della persona che intende determinare la propria filiazione e che tale obiettivo non si realizza quando il procedimento dura diversi anni, peraltro senza possibilità di misure volte ad accelerare il procedimento, e impedisce la proposizione di un’azione di accertamento di paternità; si è richiamata nella sentenza, in un’ottica di dialogo tra le Corti, la decisione della Corte Costituzionale n. 177 del 2022, nella parte in cui è stato sottolineato come il sistema vigente, che richiede la previa demolizione in via giudiziale dello status, costituisce, in effetti, un onere gravoso a carico del figlio che intenda far accertare la propria identità biologica, e rischia di risolversi, oltre che in una violazione del principio di ragionevole durata del processo (Cost., art. 111, comma 2), in un ostacolo “all’esercizio del diritto di azione garantito dalla Cost., art. 24, e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica” (sentenza n. 50 del 2006) (par. 7).
La Corte Edu ha, altresì, ricordato come la Corte Costituzionale avesse ammonito il legislatore ad intervenire per disciplinare le questioni relative all’accertamento della verità biologica, senza limitare in modo sproporzionato altri diritti costituzionali, e ha espressamente affermato di condividere la seconda criticità ravvisata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 177 del 2022, relativa al rischio per il figlio di rimanere privo di status: quello oramai demolito e quello che potrebbe non palesarsi all’esito del successivo giudizio.
Deve ancora aggiungersi, in relazione all’esito del giudizio di disconoscimento della paternità, che la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro n. 1649/2019, pubblicata il 23/8/2019 – con la quale era stato respinto il gravame proposto da L.L. (uno dei fratelli degli attori) avverso decisione del Tribunale di Catanzaro del 2015, che, dichiarato inammissibile l’intervento in giudizio dei figli dell’asserito padre biologico, F.F., nelle more del giudizio deceduto, aveva accertato che C.C., A.A. e B.B. non erano figli di E.E., – è stata confermata da questa Corte di Cassazione, con ordinanza n. 32628/2022, pubblicata il 4/11/22 (dopo che il giudizio era stato, con ordinanza interlocutoria del 15/9/21, rinviato a Nuovo Ruolo in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite sul contrasto insorto, all’interno della Corte, in merito al carattere della nullità della consulenza tecnica d’ufficio, oggetto di doglianza in un motivo del ricorso, in caso di allargamento dell’indagine oltre i limiti stabiliti dal giudice, contrasto definito con la sentenza delle Sezioni unite n. 3086/2022), essendosi respinto il ricorso per cassazione proposto.
E’ stata formulata istanza di discussione orale. In prossimità dell’udienza pubblica del 7 febbraio 2023, il pubblico ministero ha depositato note illustrative, chiedendo l’accoglimento del principio di diritto sopra trascritto e che la Corte valuti l’opportunità di definire la questione giuridica con una pronuncia ancora più ampia al fine di ipotizzare, in alcuni casi, la possibilità che i giudizi siano introdotti in via cumulativa.
Motivi della decisione
1. La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite attiene all’accertamento dei rapporti tra l’azione di disconoscimento della paternità (azione con cui si contesta lo status di figlio) e quella di dichiarazione giudiziale di genitorialità (azione che tende a conseguire lo status di figlio), con specifico riferimento ai profili processuali, in relazione a decisione resa dal Tribunale di Roma nel 2018, passata in giudicato, di inammissibilità della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, non essendo stata ancora definita la causa, pendente, di demolizione del pregresso status.
1.1. La richiesta è ammissibile, ai sensi dell’art. 363 c.p.c..
Questa Corte, con riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 363, comma 3, c.p.c. – come novellato dal D.Lgs. n. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 4 – ha affermato (Cass. 27187/2007) che “se le parti non possono, nel loro interesse e sulla base della normativa vigente, investire la Corte di cassazione di questioni di particolare importanza in rapporto a provvedimenti giurisdizionali non impugnabili, e il P.G. presso la stessa Corte non chieda l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge, le Sezioni Unite della Corte – chiamate comunque a pronunciarsi su tali questioni su disposizione del Primo Presidente – dichiarata l’inammissibilità del ricorso, possono esercitare d’ufficio il potere discrezionale di formulare il principio di diritto concretamente applicabile. Tale potere, espressione della funzione di nomofilachia, comporta che – in relazione a questioni la cui particolare importanza sia desumibile non solo dal punto di vista normativo, ma anche da elementi di fatto – la Corte di cassazione possa eccezionalmente pronunciare una regola di giudizio che, sebbene non influente nella concreta vicenda processuale, serva tuttavia come criterio di decisione di casi analoghi o simili”.
La richiesta del P.G. di enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge si configura non come mezzo di impugnazione, ma “come procedimento autonomo, originato da un’iniziativa diretta a consentire il controllo sulla corretta osservanza ed uniforme applicazione della legge, con riferimento non solo all’ipotesi di mancata proposizione del ricorso per cassazione, ma anche a quelle di provvedimenti non impugnabili o non ricorribili per cassazione, in quanto privi di natura decisoria, con la conseguenza che l’iniziativa del P.G., che si concreta in una mera richiesta e non già in un ricorso, non dev’essere notificata alle parti, prive di legittimazione a partecipare al procedimento” (cfr., SS.UU, 13332/2010; conf.., SS.UU, 23469/2016 e SS.UU, 19427/2021).
Si tratta di un procedimento del tutto peculiare, in cui non è prevista la instaurazione di un vero e proprio contraddittorio, con la notifica della richiesta del Procuratore generale alle parti o ad eventuali controinteressati, i quali sono privi di legittimazione a partecipare al procedimento, non essendo configurabile in capo agli stessi un interesse giuridicamente rilevante ad intervenire in un processo destinato a concludersi con una pronuncia che, per espresso dettato legislativo, non spiega efficacia nei loro confronti (art. 363, ult. comma, c.p.c..: “La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”; cfr. SS.UU, 13332/2010).
Nella sentenza n. 404/2011, si è poi ritenuta inammissibile la richiesta ex art. 363 c.p.c. del P.G., sul rilievo della sua astrattezza nello specifico, rilevandosi che il principio di diritto richiesto “anche se non è in grado di incidere sulla fattispecie concreta, non può tuttavia prescinderne; tale ricorso, pertanto, pur non avendo natura impugnatoria, non può assumere carattere preventivo o esplorativo, dovendo il P.G. attivarsi soltanto in caso di pronuncia contraria alla legge, per denunciarne l’errore e chiedere alla Corte di ristabilire l’ordine del sistema, chiarendo l’esatta portata e il reale significato della normativa di riferimento”.
Il procedimento, promosso in seguito alla richiesta del Procuratore generale e disciplinato dal comma 10 dell’art. 363 c.p.c., richiede la ricorrenza dei seguenti presupposti processuali (v. SS.UU, 18 novembre 2016, n. 23469; SS.UU, 1946/2017):
a) l’avvenuta pronuncia di uno specifico provvedimento giurisdizionale non impugnato o non impugnabile nè ricorribile per cassazione;
b) l’illegittimità del provvedimento stesso (o, in caso di pluralità di provvedimenti divergenti, di almeno uno di essi), quale indefettibile momento di collegamento ad una controversia concreta;
c) un interesse della legge, quale interesse generale o trascendente quello delle parti, all’affermazione di un principio di diritto per l’importanza di una sua formulazione espressa.
La Riforma di cui al D.Lgs. n. 10 ottobre 2022, n. 149 non ha inciso sulla disposizione in esame. Orbene, i requisiti sopra indicati ricorrono tutti nel caso in esame.
Invero, il Procuratore generale specifica di avere formulato la richiesta, non in via astratta o esplorativa, ma con riferimento ad un ben preciso e pertinente caso della vita venuto all’esame del Tribunale di Roma e risolo con declaratoria di inammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità dei sigg.ri A.A., passata in giudicato, e nella richiesta della Procura, con denuncia dell’errore e istanza a questa Corte di ristabilire l’ordine del sistema, si è evidenziata l’esistenza, non solo presso tale ufficio giudiziario ma anche presso altri tribunali d’Italia, di un orientamento opposto a quello seguito da questa Corte nella sentenza n. 17392/2018, il che rende apprezzabile la sussistenza di un interesse ad una pronuncia che, “prescindendo completamente dalla tutela dello ius litigatoris, si sostanzia nella stessa enunciazione del principio di diritto richiesta alla Corte, finalizzata alla stabilizzazione della giurisprudenza” (SS.UU,13332/2010).
Il tutto anche tenuto conto delle implicazioni Eurounitarie nella materia conseguenti alla violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, CEDU.
2. La richiesta del Procuratore Generale è fondata, per le ragioni che seguono.
2.1. In generale, sui diversi modi di accertamento della filiazione.
Nonostante la riforma della filiazione, attuata con L. 10.12.2012 n. 219 e con il D.lgs. 28.12.2013 n. 154, abbia riconosciuto la parità giuridica di tutti i figli (art. 315 c.c.), ispirandosi all’obiettivo di “eliminare ogni discriminazione tra i figli (…) nel rispetto della Costituzione , art. 30“ (della L. 10 dicembre 2012, n. 219, art. 2, comma 1) – così tutelando la condizione giuridica del figlio indipendentemente dal vincolo esistente tra i genitori, in linea con le indicazioni della Costituzione e dei principi affermati dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo – è stata mantenuta, per quanto riguarda l’attribuzione dello stato di figlio, la distinzione tra filiazione all’interno e al di fuori del matrimonio.
Nel primo caso – situazione disciplinata dagli artt. 231, 232 e 234 c.c. – il matrimonio determina l’attribuzione automatica dello stato dei figli dei coniugi, in forza di una presunzione di paternità, secondo la quale “il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio” o del possesso di stato (art. 237 c.c.).
L’art. 231 c.c., che rimane norma cardine del sistema, continua ad essere rubricato come “paternità del marito” e stabilisce che “il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”.
I presupposti per l’applicazione di tale norma sono il matrimonio dei genitori, la maternità della moglie, la nascita o il concepimento in costanza di matrimonio e la paternità del marito.
Tali risultanze possono essere contestate solo con azioni di stato tipiche: l’azione di disconoscimento della paternità, l’azione di contestazione e l’azione di reclamo dello stato di figlio (quest’ultima, ove sia presente un titolo che attesti uno status difforme può essere fatta valere solo dopo aver rimosso quel titolo con la relativa azione, come previsto dall’art. 239, c. 4, c.c.).
In caso di filiazione fuori dal matrimonio, in assenza di meccanismi presuntivi, il figlio acquista il corrispondente titolo allo stato attraverso il riconoscimento da parte dei genitori (artt. 250 e ss. c.c.) o la dichiarazione giudiziale (art. 269 c.c.).
Le azioni di stato esperibili in questo caso sono la dichiarazione giudiziale di genitorialità e l’impugnativa del riconoscimento.
2.2. Riguardo all’azione di disconoscimento della paternità, deve osservarsi che tale azione, diretta a superare lo stato di figlio “legittimo” (dizione questa ormai superata alla luce della Riforma della filiazione del 2013) allo stesso attribuito per effetto delle presunzioni di legge, negando specificamente la paternità di colui che dal titolo risulta padre, presuppone la nascita del figlio e l’attribuzione in capo a quest’ultimo dello stato di figlio legittimo.
Lo stato di figlio legittimo era, nel sistema originario, dotato invero di elevate garanzie di certezza e stabilità, atteso che poteva essere disconosciuto solo in casi limitati (previsti dall’art. 235 c.c.), ad iniziativa di soggetti tassativamente indicati (il marito, la madre ed il figlio e, in seguito alle modifiche di cui alla l. n. 184 del 1983, art. 81, anche un curatore speciale su istanza del figlio minore che abbia compiuto 16 anni o dal pubblico ministero per i minori infrasedicenni) ed entro i termini di cui all’art. 244 c.c.
Prima della riforma, la Corte Costituzionale aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 244 c.c., nella parte in cui, regolando il termine di decadenza annuale per l’esercizio dell’azione, non aveva previsto che esso potesse decorrere anche dalla scoperta dell’adulterio (sentenza n. 134 del 1985) nonchè dalla conoscenza dell’impotenza (sentenza n. 170 del 1999). La giurisprudenza costituzionale aveva rilevato, in proposito: “l’irragionevole esclusione del diritto del padre di agire per il disconoscimento, nel caso di scoperta dell’adulterio oltre un anno dopo la nascita del figlio, poichè l’azione sarebbe inutiliter data” (sentenza n. 134 del 1985), così come aveva contestato la ragionevolezza di una previsione che negava l’azione a chi “non (era) stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima” (sentenza n. 170 del 1999).
Ancora la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 50 del 2006, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 274 c.c., osservando come il giudizio di ammissibilità previsto dalla citata norma – non più giustificato alla luce degli sviluppi normativi del diritto di famiglia e del progresso della scienza nei mezzi di ricerca della verifica della paternità – si risolva in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dalla Cost., art. 24, e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica.
Con la sentenza n. 266 del 2006, il giudice delle leggi aveva, poi, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 235 c.c., nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento, condizionava l’esame delle prove tecniche sulla non paternità alla previa dimostrazione di fatti ulteriori: nello specifico, alla prova dell’adulterio.
La sentenza n. 266 del 2006 rilevava, infatti, che “(i)l subordinare (…) l’accesso alle prove tecniche, che, da sole, consentono di affermare se il figlio è nato o meno da colui che è considerato il padre legittimo, alla previa prova dell’adulterio è, da una parte, irragionevole, attesa l’irrilevanza di quest’ultima prova al fine dell’accoglimento, nel merito, della domanda proposta; e, dall’altra, si risolve in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dalla v, art. 24”.
Con la novella introdotta dal D.Lgs. n. 154 del 2013, abrogato l’art. 235 c.c., la disciplina dell’azione di disconoscimento è ora contenuta negli artt. 243 bis c.c. e ss.: all’eliminazione del filtro di previa ammissibilità, si affiancano l’ampliamento dei soggetti legittimati attivi, la previsione dell’imprescrittibilità dell’azione rispetto al figlio, la decadenza quinquennale prevista a carico della madre e del padre che si trovava, al tempo della nascita nel luogo in cui la stessa è avvenuta e la generale previsione in forza della quale “chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre” (con l’eliminazione dell’originario impianto casistico contenuto nell’art. 235 c.c.).
Questa Corte ha quindi precisato che il quadro normativo (Cost., artt. 30, 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali della UE, e 244 c.c.) e giurisprudenziale attuale non comporta la prevalenza del “favor veritatis” sul “favor minoris”, ma impone un bilanciamento fra il diritto all’identità personale legato all’affermazione della verità biologica – anche in considerazione delle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dell’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini – e l’interesse alla certezza degli “status” ed alla stabilità dei rapporti familiari, nell’ambito di una sempre maggiore considerazione del diritto all’identità personale, non necessariamente correlato alla verità biologica ma ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno di una famiglia, specie quando trattasi di un minore infraquattordicenne (Cass. n. 27140/2021; cfr. anche, in tema di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, Cass. n. 4791/2020).
2.3. L’azione di dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità è volta all’accertamento della genitorialità biologica, anche in contrasto con quella legittima, in presenza di figli nati al di fuori del matrimonio.
La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito le caratteristiche dell’azione in esame sottolineando come “il favor veritatis, nell’azione giudiziale di paternità e maternità, sorregge un nucleo di diritti inviolabili della persona umana, quali quello alla genitorialità e ad uno dei profili costitutivi della propria identità personale del quale il richiedente è stato privato per effetto del mancato riconoscimento” (Cass. n. 17773 del 2013).
Nell’originaria disciplina della famiglia e della filiazione, in ossequio al favor legitimitatis, erano previsti limiti molto rigorosi all’accertamento di quella che veniva definita la paternità naturale: l’art. 269 c.c. indicava le ipotesi in cui l’azione era esperibile, l’art. 273 c.c. fissava un termine biennale di decadenza, l’art. 274 c.c. prevedeva un filtro di ammissibilità dell’azione, mentre l’art. 278 c.c. vietava le indagini sulla paternità e maternità, nei casi in cui il riconoscimento era vietato, anche oltre i limiti degli allora vigenti artt. 251-253 c.c..
Malgrado l’eliminazione della tassatività delle ipotesi in cui l’azione era esperibile, la previsione della possibilità di fornire la prova della genitorialità con ogni mezzo, l’indicazione dell’imprescrittibilità dell’azione del figlio e l’abrogazione dell’art. 275 c.c., introdotte dalla riforma del 1975, permanevano delle criticità che, prima della riforma degli anni 2012 e 2013, sono state rimosse solo grazie agli interventi della Corte Costituzionale.
Vanno qui richiamate, in particolare, le sentenze n. 341 del 1990 (che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 274 c.c., nella parte in cui, nell’ipotesi di minore infrasedicenne, non prevedeva che l’azione promossa dal genitore esercente la potestà fosse ammessa solo quando ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del figlio), n. 494 del 2002 (che, incidendo sull’art. 278 c.c., ha consentito l’accertamento per via giudiziaria dello status filiationis dei figli incestuosi), n. 50 del 2006 (che ha dichiarato illegittimo il filtro di ammissibilità dell’art. 274 c.c.), n. 266 del 2006, la quale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con la Cost., art. 24, l’art. 235, comma 1, n. 3, c.c., nella parte in cui ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità subordina l’esame delle prove tecniche, da cui risulta “che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre”, alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.
Si è così sancito il definitivo abbandono della presunzione (assoluta) per cui l’interesse del minore coincide e si soddisfa di per sè con l’acquisizione dello status corrispondente a verità, richiedendosi una valutazione in concreto del predetto interesse, con particolare riferimento “ai benefici dell’ampliamento della sfera affettiva, sociale ed economica del minore” (aspetto, quello relativo all’interesse del minore nell’attribuzione dello status, sul quale, in ragione dei fatti oggetto della richiesta della Procura generale, non ci si soffermerà in questa sede).
Con specifico riferimento all’azione in esame, la riforma della filiazione del 2012-2013 non ha dunque introdotto particolari novità, ad eccezione della previsione della legittimazione passiva in caso di azione proposta dopo la morte del genitore (art. 276 c.c.). Tuttavia, il sistema binario di necessaria preventiva demolizione dello stato di filiazione ai fini dell’esperimento dell’azione di accertamento giudiziale di genitorialità, confermato nella Riforma, risulta mitigato, come osservato in dottrina, dalle modifiche apportate alla disciplina dell’azione di disconoscimento della paternità, le quali hanno fortemente inciso – rendendola più immediata – sulla conseguibilità dello status filiationis veridico da parte di chi goda dello stato di figlio nato nel matrimonio: si pensi all’abrogazione dei presupposti tassativi di cui all’art. 235 c.c., abrogato, e all’attuale formulazione dell’art. 243, comma 2, c.c., secondo cui, sul piano probatorio, il marito è ammesso a provare che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, o ogni altro fatto tendente ad escludere la paternità.
La riforma si è poi mossa, per quanto attiene all’azione in esame, nell’ottica di un rafforzamento dei poteri del figlio (attraverso la previsione dell’imprescrittibilità dell’azione di disconoscimento prevista dall’art. 270 c.c., anche nell’esigenza di assimilazione di tale azione a quella di impugnazione del riconoscimento) e della limitazione del ruolo degli altri soggetti interessati alla vicenda della filiazione (art. 273 c.c.).
Il processo di omogenizzazione della disciplina delle due azioni, di impugnazione del riconoscimento e di disconoscimento, ha condotto all’introduzione di termini prescrizionali, salva l’imprescrittibilità riguardo al figlio, per l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità (art. 263, comma 3, c.c.), in particolare prevedendosi che l’azione non possa essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento (ma la Corte Costituzionale, con sentenza del 12 maggio – 25 giugno 2021, n. 133, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della richiamata disposizione nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità), e di un analogo termine decadenziale per l’azione di disconoscimento di cinque anni dalla nascita (art. 244, ultimo comma, c.c.) per l’esperimento dell’azione di stato per i legittimati diversi dal figlio. Il tutto, in una funzione di contenimento della accresciuta potenziale precarietà del rapporto genitoriale, dovuta anche alle sempre più evolute tecniche di accertamento dei legami biologici, anche a distanza di anni, ed allo scopo di proteggere il minore dai pregiudizi derivanti dalla recisione di legami affettivi e relazionali nel frattempo consolidatisi.
2.4. E’ impossibile, nel nostro ordinamento, far valere lo stato di figlio prima di aver rimosso il titolo cui risulta uno status contrastante.
L’art. 269, comma 1, c.c. pone la regola (comune al riconoscimento, ex art. 253 c.c. e all’azione di reclamo dello stato di figlio legittimo, ex art. 239, comma 4, c.c.) in forza della quale la paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate soltanto “nei casi i cui il riconoscimento è ammesso” e l’art. 253 c.c. prescrive che tale atto non è ammesso quando si ponga “in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova”.
Ne deriva che sia l’accertamento giudiziale positivo della filiazione fuori dal matrimonio sia l’atto di riconoscimento negoziale non possono intervenire quando si pongano “in contrasto” con lo stato di figlio preesistente (art. 253 c.c.), allo scopo di impedire una sovrapposizione di stati di filiazione tra loro in contrasto, stante il carattere unico ed indivisibile dello status.
Questa Corte ha più volte precisato che “la condizione di “figlio legittimo” è ostativa all’accoglimento della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità da parte di colui che assume di essere il padre biologico, atteso che deve, prima, essere rimosso lo stato di “figlio legittimo”, con accertamento efficace erga omnes (Cass. n. 27560/2021) e che la rimozione dell’impedimento, costituito ad un diverso stato di figlio, decorre solo dal passaggio in giudicato dell’azione di disconoscimento (Cass. n. 15990/2013).
Nel nostro ordinamento non è infatti ammesso il c.d. “riconoscimento di rottura” che, in certi sistemi giuridici, estingue autonomamente, senza l’intervento del giudice, il titolo di figlio legittimo o figlio naturale riconosciuto.
Presupposto dell’accertamento giudiziale della filiazione fuori dal matrimonio (così come per il riconoscimento) è, dunque, la demolizione dello stato di figlio preesistente.
Atteso che tale stato è provato da un titolo, nell’attuale sistema, è richiesto il passaggio in giudicato della sentenza che conclude il giudizio demolitivo dello stato preesistente: giudicato sul disconoscimento della paternità (art. 243 bis c.c. e ss., per quel che rileva in questa sede), sulla contestazione dello stato di figlio (art. 240 c.c.) o sull’impugnazione del riconoscimento (art. 263 c.c.).
Come precisato anche da parte della dottrina, il riconoscimento inammissibile ex art. 253 c.c., non è da ritenersi nullo, ma inefficace (atteso che il titolo vigente gli si oppone ab externo), con la conseguenza che, come affermato da tempo da questa Corte (Cass. n. 10838/1997; Cass. n. 2782/1978), il riconoscimento, originariamente inefficace per contrasto con lo stato di figlio nato nel matrimonio, diviene efficace ex tunc, ove sia accolta l’azione di disconoscimento della paternità.
2.5. E’ utile fare richiamo ai recentissimi interventi del 2022 della Corte Costituzionale e della Corte EDU, nonchè ad alcuni cenni di diritto comparato.
Sulla scelta di garantire il carattere unico e indivisibile dello status, si è recentemente pronunciata la Corte Costituzionale (sentenza n. 177 del luglio 2022), chiamata ad intervenire su questione di legittimità costituzionale dell’art. 269 c.c., in rapporto all’art. 253 c.c., sollevata dalla Corte di appello di Salerno, affermando che la scelta di richiedere la previa demolizione in via giudiziale dello status, anzichè una sua rimozione automatica per effetto del successivo accertamento di un’identità contrastante, ha una duplice spiegazione:
a) anzitutto, l’esigenza di “evitare un’instabilità e un’incertezza dello status” dal quale si diramano plurimi effetti, in campo pubblicistico e privatistico, atteso che “lo status è comprovato da un titolo, dotato di funzione certativa erga omnes, in quanto fondato su presunzioni legali o sull’atto di riconoscimento”, precisandosi che “quando non erano ancora disponibili le cosiddette prove scientifiche (in specie, i test genetici), non si sarebbe giustificata una sua caducazione solo in quanto contraddetto dall’accertamento di un diverso e confliggente status, all’esito di un giudizio che si avvaleva di mezzi di prova connotati da un tasso di affidabilità limitato (di regola, presunzioni e testimonianze)”, ragione questa, prosegue il Giudice delle leggi, oggi “fortemente incrinata dall’evoluzione della scienza, che ha reso disponibili prove capaci di offrire un grado elevatissimo di affidabilità nel dimostrare la sussistenza o insussistenza di un vincolo biologico (in proposito, Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 6 ottobre 2021, n. 27140)”, con la conseguenza che, rispetto al passato, in cui lo status, comprovato dal titolo, si caratterizzava per una notevole resistenza, “attualmente i nuovi accertamenti disponibili potrebbero suggerire soluzioni differenti, come, per l’appunto, la caducazione dello status antecedente, con il relativo titolo, quale effetto di un nuovo accertamento con esso incompatibile”;
b) l’esigenza della previa azione demolitiva risiede, ad avviso della Corte Costituzionale, anche nel fine di dovere “assicurare a chi è già titolare dello status di genitore di essere parte, e dunque di avere una congrua tutela sostanziale e processuale, nel giudizio che può incidere sul suo legame familiare”, rilevandosi come un intervento sull’art. 269 c.c. che escludesse la necessità dell’azione demolitiva dovrebbe garantire, in altro modo, un’adeguata protezione a chi è titolare del precedente status, il quale è propriamente parte solo nel giudizio in cui è contestato lo status preesistente.
Alla luce delle predette considerazioni, la Corte costituzionale ha concluso che, nonostante si tratti di una disposizione “non priva di criticità sotto il profilo costituzionale”, “per rimuovere il vulnus lamentato dal giudice a quo, eliminando la condizione del giudizio demolitivo del precedente status, sarebbe necessaria – alla luce dell’evoluzione delle tecniche di accertamento della filiazione – una riforma di sistema idonea a farsi carico di molteplici profili” e della complessità degli interessi, di rango costituzionale, coinvolti, ad esempio dovendosi disporre, nel giudizio intrapreso per l’accertamento della nuova identità, l’intervento necessario del genitore che vanta, sulla base del preesistente titolo, un legame familiare, e conseguentemente, rientrando nei compiti del legislatore procedere ad una “revisione organica della materia in esame” (revisione già da tempo auspicata da Corte Cost. n. 100 del 2022, ma cfr. anche sentenze n. 143, n. 100 e n. 22 del 2022, n. 151, n. 32 e n. 33 del 2021; n. 80 e n. 47 del 2020, n. 23 del 2013) e stante il carattere generico del petitum, ha dichiarato inammissibile la questione prospettata in via principale.
E’ stata poi dichiarata inammissibile anche la questione di illegittimità costituzionale sollevata dai giudici remittenti in via subordinata, in ordine alla possibilità di addivenire d una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità condizionata sospensivamente all’esito del giudizio demolitivo, la cui necessità non veniva, in questo caso, messa in discussione, in quanto l’intervento additivo richiesto avrebbe condotto ad una eccessiva manipolazione del sistema, invertendo radicalmente l’ordine di proposizione delle due azioni fissato dal codice, peraltro in una materia, quella processuale, riservata al legislatore.
La Corte, nel dichiararne l’inammissibilità, evidenzia come la introduzione nel sistema di una “sentenza condizionata” si ponga in contrasto con il “principio di discrezionalità del legislatore nella disciplina della materia processuale, salvo che la stessa palesi una “manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute”.
Riguardo alle implicazioni processuali che derivano dal collegamento dell’art. 269 e dell’art. 253 c.c., si è dato conto che vi è stata un’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, che appare avviata verso una configurazione della necessaria rimozione del pregresso status non più come presupposto processuale dell’azione di dichiarazione giudiziale della paternità (o maternità) che rende inammissibili o improponibile la domanda (Cass. n. 8190/1998), ma come questione pregiudiziale in senso tecnico-giuridico, non ostativa alla proposizione della domanda ma solo al suo accoglimento, il che renderebbe necessaria una sospensione del giudizio pregiudicato in attesa della definizione del giudizio pregiudiziale (Cass. n. 17392/2018), rilevandosi che tale soluzione ermeneutica della sospensione ex art. 295 c.p.c. del giudizio e art. 269 c.p.c. non sarebbe applicabile nel giudizio a quo, nel quale non era stato neppure ancora avviato il processo relativo al disconoscimento di paternità, e comunque essa è idonea solo a “temperare” non anche a sanare l’asserito vulnus ai principi costituzionali. In particolare, si è evidenziato che “se è vero che l’esistenza di un nesso di pregiudizialità tecnica tra i due giudizi consente la loro proposizione cumulativa (art. 103 c.p.c.) o la loro riunione per connessione (art. 274 c.p.c.), si tratta di facoltà non sempre esperibili: nello specifico, la riunione dipende dallo stadio di avanzamento dei due giudizi”.
La declaratoria di inammissibilità non ha comunque impedito alla Corte di precisare le criticità del sistema vigente, che richiede la previa demolizione in via giudiziale dello status. In particolare, la Corte ha sottolineato come “la necessità di un giudizio articolato in più gradi, che si concluda con una sentenza passata in giudicato demolitiva del precedente status, costituisce, in effetti, un onere gravoso a carico del figlio che intenda far accertare la propria identità biologica, e rischia di risolversi, oltre che in una violazione del principio di ragionevole durata del processo (Cost., art. 111, comma 2), in un ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dalla Cost., art. 24, e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica” (par. 7).
Una seconda criticità risiede, ad avviso della Corte, nel rischio per il figlio “di rimanere privo di status: quello oramai demolito e quello che potrebbe non palesarsi all’esito del successivo giudizio; rischio particolarmente grave quando riguardasse un minore, il cui interesse ai legami familiari merita – com’è noto – particolare tutela (si vedano le sentenze di questa Corte n. 127 del 2020 e n. 272 del 2017 e, in una prospettiva analoga, le pronunce della Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza n. 27140 del 2021 e sentenza 22 dicembre 2016, n. 26767)” (par. 7).
Si è dunque evidenziato come sia tempo di rivedere in termini semplificanti il rapporto tra demolizione e accertamento dello stato, in quanto il sistema duale, se prima dell’avvento delle prove genetiche era funzionale al raggiungimento della certezza in ordine alla non veridicità dello stato di filiazione in essere, ora è divenuto inattuale stante il carattere di preminenza del risultato dell’esame genetico, idoneo a provare o negare la genitorialità con un grado di sostanziale certezza. La Corte EDU, nella sentenza del 6/12/2022 sopra citata, ha fatto, come già rilevato, ampio richiamo alla pronuncia della Consulta n. 177/2022.
L’Ufficio del Massimario e del Ruolo di questa Corte ha evidenziato, nella Relazione redatta ai fini del presente procedimento, che la regola in forza della quale il riconoscimento non è efficace sino a quando sussiste la paternità di un altro uomo è comune a molti ordinamenti Europei (Francia, Germania, Spagna).
In Austria, invece, è stata adottata una soluzione diversa, consentendosi l’accertamento dello stato di filiazione anche in contrasto con uno stato preesistente, con previsione di un meccanismo di caducazione dello status precedente.
La paternità del marito della madre può essere annullata da un riconoscimento “di rottura” da parte di un altro uomo, con una procedura di c.d. “scambio di paternità” (p. 150 ABGB: il figlio può agire per la dichiarazione di paternità anche in presenza di uno stato preesistente incompatibile e, in caso di successo, essa è di per sè in grado di provocare la caducazione dello stato incompatibile e dunque di fatto una scambio di paternità) e attraverso l’accertamento del “difetto di paternità del marito della madre”. In particolare, per il riconoscimento della paternità “di rottura”, il p. 147 ABGB dispone che la paternità di un uomo già stabilita (in forza di un matrimonio o di un provvedimento del tribunale) può essere rimossa e tale riconoscimento diventa efficace solo a seguito del consenso del figlio (che, se minorenne, deve essere accompagnata dall’indicazione da parte della madre del nome dell’uomo che ha effettuato il riconoscimento quale padre del nato) prestato in forma pubblica. In Austria, Germania, Olanda, Spagna e in Portogallo, inoltre, le due azioni possono essere promosse nello stesso processo.
2.6. In ordine ai profili processuali relativi al rapporto tra azione di disconoscimento di una e di accertamento di altra paternità, occorre, anzitutto, chiarire se la rimozione dello status di figlio costituisca un presupposto processuale della domanda o una questione pregiudiziale in senso tecnico-giuridico.
All’esito della pronuncia di incostituzionalità della preventiva delibazione che connotava il giudizio avente ad oggetto la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità, ai sensi dell’art. 274 c.c. (sentenza della Corte Cost. n. 50 del 2006), non appare più predicabile l’assunto secondo cui la rimozione del preesistente status di figlio costituirebbe un “presupposto processuale della domanda”.
Questo giudice di legittimità, prima della suddetta declaratoria di incostituzionalità di tale disposizione, aveva ritenuto che tra i motivi di improponibilità della domanda (che potevano, da soli, risolvere la lite, portando ad una declaratoria di inammissibilità) fosse ricompresa la richiesta di riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio “legittimo” (Cass. n. 7447/1993; Cass. n. 7644/1995; Cass. n. 8190/1998) o legittimato, proprio ragionando sulla previgente formulazione dell’art. 274 c.c. (ormai abrogata).
Nel precedente del 1998 (richiamato dal Tribunale di Roma nella sentenza del 2018 attinente alla vicenda che ha dato luogo alla richiesta della P.G. in esame) si affermava che “il giudizio instaurato per la dichiarazione della paternità o maternità naturale ha inizio con l’accertamento della previa ammissibilità della relativa domanda (art. 274 c.c.), e prevede una prima fase procedimentale (collegata, senza soluzione di continuità sul piano processuale, a quella, eventuale e successiva, che conduce alla pronuncia sullo stato della persona) in cui il giudice adito è tenuto ad esaminare, con pienezza di cognizione, le questioni preliminari non soltanto di rito, ma anche di merito, e, tra esse, la esistenza di motivi di improponibilità della domanda che possano già, “ex se”, risolvere immediatamente la controversia, con la conseguenza che l’azione predetta va dichiarata inammissibile se proposta in presenza della situazione prevista dal precedente art. 253 c.c. (richiesta di riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo o legittimato)”.
Con riferimento alla seconda questione, si possono ripercorrere le risposte della giurisprudenza di legittimità e di merito alla qualificazione del rapporto tra le due azioni in esame.
Un primo orientamento, più risalente nel tempo e più volte invocato a sostegno della tesi ermeneutica sostenuta nella sentenza del Tribunale di Roma (che, si rammenta, ha dichiarato inammissibile la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità), si è formato con riferimento a fattispecie diverse rispetto a quella in esame.
Deve anzitutto rammentarsi che, già nella sentenza n. 14315 del 2001, questa Corte aveva affermato che il padre naturale non è legittimato neppure ad intervenire in appello in un giudizio di disconoscimento della paternità, essendo tale legittimazione riconosciuta a chi potrebbe proporre opposizione ai sensi dell’art. 404 c.p.c., rimedio esperibile solo da chi faccia valere un diritto autonomo e incompatibile col rapporto giuridico accertato o costituito dalla sentenza opposta, e quindi solo a favore di chi sia pregiudicato in un suo diritto.
Il principio è stato ribadito in Cass. n. 1784/2012 (“nel giudizio per il disconoscimento della paternità, non è ammissibile l’intervento di colui che è indicato come padre naturale, non potendo la controversia sul relativo riconoscimento avere ingresso sino a quando la presunzione legale di legittimità della filiazione non sia venuta meno con il vittorioso esperimento dell’azione di disconoscimento”).
Orbene, con sentenza del 9 giugno 2005 n. 12167, questa Corte ha affermato che colui verso cui sia stata proposta l’azione di accertamento della paternità non è titolato a contrastare, con l’opposizione di terzo semplice, la pronuncia con cui è stata accolta l’azione di disconoscimento della paternità legittima proposta, verso altro soggetto, da colui che si affermi suo figlio (nella specie, (Omissis) aveva appreso dalla madre di essere figlio di (Omissis) e non del marito della stessa, (Omissis), aveva proposto ricorso, il Giudice aveva dichiarato ammissibile l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti di (Omissis) ed il Tribunale aveva dichiarato che egli non era figlio di (Omissis); tanto premesso, l’attore aveva poi chiesto che venisse dichiarata ammissibile l’azione per la dichiarazione della paternità nei confronti di P.G., il quale costituendosi, aveva contestato la fondatezza della domanda e chiesto la sospensione del giudizio, ex art. 295 c.p.c., fino alla definizione di quello di opposizione di terzo, da lui introdotto ai sensi dell’art. 404 c.p.c. avverso la sentenza con cui il Tribunale aveva disconosciuto la paternità di (Omissis); nel caso esaminato, pertanto, l’esclusione del nesso di pregiudizialità è stata argomentata da questa Corte, in forza del rilievo per cui la paternità legittima non può essere nè messa in discussione nè difesa da colui che è indicato come padre naturale, atteso che, quando si deduce che l’esito positivo dell’azione di disconoscimento di paternità si riverbera sull’azione di riconoscimento della paternità promossa nei suoi confronti, egli in realtà si limita a far valere un “pregiudizio di mero fatto”, laddove il rimedio contemplato dall’art. 404 c.p.c. presuppone, in capo all’opponente, un diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata).
Il predetto principio è stato ribadito anche nella sentenza n. 430 del 16 gennaio 2012, per affermare che nè colui che sia indicato come padre naturale, nè i suoi eredi, sono legittimati passivi nel giudizio di disconoscimento della paternità e che la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento è opponibile nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio ed anche in Cass. n. 12211/2012; ad analoghe conclusioni, giunge anche la successiva sentenza n. 487 del 13 gennaio 2014 (relativa, ancora, ad un’opposizione di terzo proposta dall’asserito padre naturale avverso una sentenza che aveva accolto la domanda di disconoscimento della paternità), nella quale si è dichiarata manifestamente infondata, in relazione alla Cost., artt. 24, 29 e 30, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 244 c.c., 395, n. 1, e 404 c.p.c., nella parte in cui limitano la proponibilità dell’opposizione di terzo o l’intervento del soggetto indicato come padre naturale, o dei suoi eredi, nel giudizio di disconoscimento di paternità, promosso da colui che solo all’esito del positivo esperimento di tale azione potrà chiedere il riconoscimento di paternità, precisandosi come l’insussistenza del nesso di pregiudizialità tra i due giudizi discenda anche dal fatto che “nè colui che sia indicato come padre naturale, nè i suoi eredi, sono legittimati passivi nel giudizio di disconoscimento della paternità e la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento è opponibile nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio”.
La posizione del padre naturale rispetto al giudizio demolitorio dello status si trova riaffermata in Cass. n. 20953/2018 (relativamente a giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 c.c.), Cass. n. 18601/2021, Cass. n. 27560/2021 (ove si chiarisce che il padre biologico, non legittimato a promuovere il giudizio di disconoscimento della paternità, nè potendo intervenire in tale giudizio o promuovere l’opposizione di terzo contro la decisione ivi assunta – in qualità di “altro genitore”, può comunque chiedere, ai sensi dell’art. 244, comma 6, c.c., la nomina di un curatore speciale, che eserciti la relativa azione, nell’interesse del presunto figlio infraquattordicenne).
Il secondo orientamento, fatto proprio da questa Corte nella richiamata (in sede di richiesta ex art. 363 c.p.c.) ordinanza n. 17392 del 3 luglio 2018, si pronuncia sulla specifica questione (diversa da quella esaminata dalle pronunce appena richiamate) dell’influenza che l’accoglimento della domanda di disconoscimento è idonea a spiegare sul giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità, avendo proprio riguardo alla condizione posta dall’art. 269, comma 1, c.c., adottando una soluzione interpretativa già affermata, come sopra rammentato, dalla Corte con riferimento al riconoscimento (invero, già con sentenza n. 10838 del 5.11.1997, si era, infatti, affermato che un riconoscimento originariamente improduttivo di effetti giuridici, in quanto in contrasto con lo stato di figlio legittimo del riconosciuto, diventa efficace ex tunc a seguito del vittorioso esperimento dell’azione di disconoscimento della paternità), nel senso di uno stemperamento della rigidità del sistema binario demolitivo-accertativo.
Nel caso portato all’attenzione della Corte, l’attrice aveva convenuto in giudizio gli eredi di (Omissis), defunto, chiedendo di accertare che costui era suo padre. Con successivo atto, la stessa aveva poi evocato in giudizio la propria madre e le altre figlie di (Omissis) affinchè venisse disconosciuta la paternità di quest’ultimo. Il Tribunale di Torino, ex art. 295 c.p.c., aveva disposto la sospensione del giudizio. Contro tale provvedimento alcuni eredi di (Omissis) avevano proposto regolamento di competenza, evidenziando come il disconoscimento della paternità non avrebbe potuto costituire l’antecedente logico-giuridico dell’accertamento della paternità, che doveva essere dichiarato inammissibile.
Questa Corte, dopo aver precisato che i principi affermati dalle richiamate sentenze n. 12167 del 2005 e n. 487 del 2014 avevano scrutinato il nesso tra i due giudizi da angolazioni diverse rispetto a quella rilevante nel caso di specie, ha richiamato il disposto dell’art. 253 c.c. (“in nessun caso è ammesso un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova”), per sottolineare come l’accertamento contenuto in una sentenza che accoglie l’azione di disconoscimento di paternità ha efficacia ultra partes e retroattiva travolgendo, con effetti ex tunc, lo stato fino a quel momento goduto dal figlio (come già più volte affermato da Cass. n. 2782 del 1978; Cass. n. 10838 del 1997; Cass., n. 430 del 2012) e, dunque, “non può non riverberarsi sul giudizio di accertamento pendente determinando, nel caso di vittorioso esperimento dell’azione di disconoscimento, il definitivo venir meno di quella condizione (di figlio legittimo) che era originariamente ostativa all’accoglimento della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità”. Tanto premesso, prosegue la Corte, non sembra contestabile che l’accertamento con cui viene rimosso (o mantenuto) lo stato di figlio legittimo sia “pregiudiziale rispetto a quello con cui è rivendicata altra paternità”.
Viene ravvisato, pertanto, un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico che giustifica la sospensione, così da evitare pronunce contrastanti (ove, in particolare, la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità venisse, in ipotesi, accolta, laddove, per effetto del rigetto dell’azione di disconoscimento, non potrebbe esserlo).
In termini più ampi, questa Corte osserva altresì che la tesi della inammissibilità del giudizio ex art. 269 c.c., pendente quello demolitivo, porterebbe all’irragionevole risultato di condurre ad una pronuncia di inammissibilità anche nell’ipotesi in cui “successivamente all’introduzione di quel giudizio, ma prima della pronuncia che lo definisca, la res iudicata in questione si sia formata”. Ancora con riferimento al rapporto di pregiudizialità, questa Corte sottolinea come non costituisca ostacolo alla pronuncia ex art. 295 c.p.c. il fatto che il giudizio pregiudicante intercorra tra soggetti diversi. In particolare si sottolinea come il rapporto di pregiudizialità viene escluso tra causa pendenti tra soggetti diversi allo scopo di evitare che la parte rimasta estranea ad uno di essi possa eccepire l’inopponibilità, nei propri confronti, della relativa decisione, ma tale eventualità è da escludere nel rapporto tra disconoscimento della paternità ed accertamento di altra paternità atteso che la sentenza resa in esito al giudizio di disconoscimento ha efficacia erga omnes.
Il principio affermato nella sentenza del 2018 è stato poi ribadito nella successiva ordinanza n. 19956 del 13 luglio 2021 (nella quale la Corte ha altresì precisato come, nel giudizio di accertamento della paternità di un minore nato in costanza di matrimonio, promosso a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che ha accolto la domanda di disconoscimento della paternità del marito della madre, l’eccezione di tardività di quest’ultima azione, formulata dal presunto padre, debba ritenersi inammissibile perchè la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento della paternità assume autorità di cosa giudicata erga omnes, opponibile anche al presunto padre, anche se non ha partecipato al relativo giudizio).
Secondo una dottrina, che ha condiviso l’indirizzo espresso dal giudice di legittimità, proprio i termini utilizzati nell’art. 269 c.c. orientano nel senso fatto proprio dalla Cassazione: la norma, infatti, afferma come il diverso status filiationis preclude la dichiarazione (vale a dire la sentenza che accerta) della filiazione al di fuori del matrimonio e non la richiesta (cioè la domanda) di tale dichiarazione.
Lo stesso autore ha evidenziato, altresì, come la soluzione suggerita dalla Corte presenti vantaggi anche in termini di economia processuale (atteso che, di fronte ad un’azione ricostruttiva della filiazione proposta prima della demolizione dello status preesistente, non costringe le parti ed il giudice ad un’immediata pronuncia di inammissibilità) e di ragionevole durata del processo.
Ad avviso di questa parte della dottrina, inoltre, la tesi in esame presenterebbe una valenza rivoluzionaria, consentendo al padre naturale di prendere parte al giudizio di disconoscimento.
2.7. La giurisprudenza di merito registra, parimenti, due orientamenti contrastanti:
a) in forza del primo orientamento, parte della giurisprudenza ha dichiarato inammissibili le domande volte ad ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità, ove proposte nel medesimo giudizio avente ad oggetto il disconoscimento della paternità (Trib. Roma 19.1.2017 n. 914, chiamata a pronunciarsi sulla domanda di disconoscimento proposta dall’uomo che aveva effettuato al momento della nascita il riconoscimento – e che, solo molti anni dopo, aveva scoperto non essere il padre – nei confronti di colei che risultava sua figlia, ha dichiarato improcedibile la domanda riconvenzionale spiegata da quest’ultima, avente ad oggetto la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti del padre biologico, evocato in giudizio dall’attore; le medesime argomentazioni sono contenute nella successiva sentenza del Tribunale di Roma n. 14782 del 17.7.2018 – dalla quale ha preso le mosse la presente richiesta della Procura generale – che, chiamata a pronunciarsi rispetto ad una domanda di disconoscimento pendente in grado di appello, ha escluso la possibilità di disporre la sospensione ex art. 295 c.p.c., in forza dei principi affermati dalla Suprema Corte in merito alla diversa fattispecie relativa all’opposizione di terzo proposta dall’asserito padre naturale avverso una sentenza che aveva accolto la domanda di disconoscimento della paternità, nelle pronunce sopra esaminate; in conformità, Tribunale di Bari, nella sentenza n. 1038 del 25.2.2016, relativa ad un giudizio nel quale erano state contestualmente proposte la domanda di disconoscimento di paternità, in via principale, e quella di dichiarazione giudiziale di altra paternità, in via riconvenzionale, ed il Tribunale di Nola, nella sentenza n. 1971 del 26.9.2019, nella quale, pur condivisi i principi affermati dalla Suprema Corte nell’ordinanza n. 17392 del 2018, con riferimento alla sospensione ex art. 295 c.p.c., il Tribunale si limita ad osservare come, in assenza di contestualità processuale delle due azioni, non possa farsi applicazione di detta norma);
b) un secondo orientamento si è espresso, al contrario, in modo favorevole alla contestuale proposizione della domanda di disconoscimento della paternità e di dichiarazione giudiziale di altra paternità, ritenendo ammissibile un provvedimento di separazione delle cause e conseguente sospensione ex art. 295 c.p.c., (Tribunale di Crotone, sentenza n. 633 del 18.5.2019, chiamato a decidere sulla domanda formulata dal curatore speciale nell’interesse di un minore avente ad oggetto entrambe le domande, disconoscimento e dichiarazione giudiziale di altra paternità, ha ritenuto sussistente un rapporto di pregiudizialità di una controversia rispetto all’altra e, previa separazione delle domande, ha disposto la sospensione del giudizio relativo alla domanda ex art. 269 c.p.c.; anche il Tribunale di Modena, nella sentenza n. 282 del 1.3.2019, ha richiamato i principi affermati dalla Corte nell’ordinanza n. 17392/2018, espressamente condividendoli, salvo poi concludere per una declaratoria di inammissibilità della domanda di accertamento giudiziale di paternità atteso che, nel caso di specie, la parte non aveva proposto alcuna domanda, nè nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Modena, nè in altro giudizio, volta ad accertare il difetto di veridicità del riconoscimento di paternità effettuato da altri).
2.8. Venendo quindi alla questione centrale relativa al nesso di pregiudizialità tecnico giuridica tra i due procedimenti e alla possibilità di sospensione ex art. 295 c.p.c., la richiesta della Procura Generale prospetta i seguenti aspetti problematici: se il giudizio di disconoscimento possa ritenersi pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità e se, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applichi l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c..
In ordine al concetto di pregiudizialità (in ambito civilistico), cui fa riferimento quello di dipendenza enunciato dall’art. 295 c.p.c. e che presuppone l’analisi del rapporto di possibile interferenza fra decisioni, la pregiudizialità si risolve, pertanto, in una relazione che lega due questioni e si qualifica come rapporto di antecedenza logica.
Il nesso sostanziale di pregiudizialità si manifesta, in primo luogo, nella dipendenza logica di una controversia rispetto all’altra, all’interno di uno stesso rapporto giuridico (a titolo di esempio, la giurisprudenza della Suprema Corte ha qualificato in termini di pregiudizialità logica il rapporto tra eccezione di inadempimento e volontà della parte di avvalersi della clausola risolutiva espressa, Cass. n. 21115 del 16/09/2013 e più di recente, negli stessi termini, Cass. n. 27692 del 12/10/2021) e, in secondo luogo, nella dipendenza tecnica, che intercorre tra rapporti giuridici diversi ed è tale per cui l’esistenza di uno dipende dall’esistenza o inesistenza dell’altro (questa Corte, nell’ordinanza n. 3936 del 18/02/2008, ha ravvisato un rapporto di pregiudizialità tecnica tra una domanda di restituzione di somme, proposta dalla parte nell’asserita veste di erede testamentario universale, e quella spiegata dal terzo al quale le somme erano state versate, volta ad ottenere la nullità o l’annullamento del testamento; cfr. anche Cass. 15353/2010, ove, chiarendosi che “la sospensione ex art. 295 c.p.c. presuppone l’esistenza di un nesso di pregiudizialità sostanziale, ossia una relazione tra rapporti giuridici sostanziali distinti ed autonomi (dedotti in via autonoma in due diversi giudizi), uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell’altro (dipendente), in modo tale che la decisione sul primo rapporto si riflette necessariamente, condizionandola, sulla decisione del secondo”, si è escluso che un giudizio di appello dovesse essere sospeso, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., per effetto della proposizione di un’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c.).
In sostanza, quando si verta in ipotesi di rapporti giuridici distinti ed autonomi, la pregiudizialità tecnico-giuridica consiste in una relazione tra rapporti giuridici sostanziali, uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell’altro (dipendente) in modo tale che la decisione sul primo rapporto si riflette necessariamente, condizionandola, sulla decisione del secondo.
Queste Sezioni Unite hanno ribadito di recente (Cass. n. 21763/2021) che “il concetto di dipendenza fra decisioni può presupporre a sua volta l’esistenza di un rapporto di dipendenza fra le cause e, in tale accezione, il nesso di pregiudizialità è posto in collegamento con la disposizione generale contenuta nell’art. 34 c.p.c., che regola, tra le norme dedicate alle modificazioni della competenza per ragioni di connessione, l’istituto degli accertamenti incidentali, generalmente considerato come espressione di una ratio omologa a quella dell’art. 295 c.p.c.”.
Pertanto, al termine pregiudizialità, attesa l’identità delle situazioni disciplinate dagli artt. 34 e 295 c.p.c. (diverse, quanto agli effetti, ma analoghe quanto ai presupposti), può attribuirsi il comune scopo di eliminare il rischio di giudicati contrastanti.
In merito al fatto che, nel caso in esame, il giudizio pregiudicante intercorre tra soggetti diversi, si può rilevare che, come già sottolineato nell’ordinanza n. 17392 del 2018, avendo la sentenza resa in esito al giudizio di disconoscimento efficacia erga omnes, non può ravvisarsi la possibilità che la parta rimasta estranea ad uno dei due giudizi possa eccepire l’inopponibilità nei propri confronti. Inoltre, non essendo consentito un accertamento in via incidentale su una questione di stato della persona, per evitare il conflitto di giudicati, non può neanche invocarsi la possibilità del giudice di evitare la sospensione ex art. 295 c.p.c. facendo ricorso al potere di conoscere incidenter tantum delle questioni pregiudiziali, allo stesso riconosciuto dall’art. 34 c.p.c.. In effetti, la sospensione necessaria prevista dall’art. 295 c.p.c. stabilisce che “il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.
La novella del 1990 ha portato dottrina e giurisprudenza ad un’interpretazione fortemente restrittiva delle ipotesi di sospensione necessaria, anche in ossequio al principio di economia processuale declinato nella prospettiva della ragionevole durata del processo (artt. 6 CEDU e Cost., 111, comma 2) e di effettività della tutela giurisdizionale (Cost., art. 24).
Tale interpretazione è stata fatta propria da queste Sezioni Unite che, nella pronuncia n. 10027 del 2012, hanno affermato che l’istituto processuale della sospensione necessaria è costruito sui seguenti tre presupposti:
1) “la rilevazione del rapporto di dipendenza che si effettua ponendo a raffronto gli elementi fondanti delle due cause, quella pregiudicante e quella in tesi pregiudicata”;
2) “la conseguente necessità che i fatti siano conosciuti e giudicati, secondo diritto, nello stesso modo”;
3) “lo stato di incertezza in cui il giudizio su quei fatti versa, perchè controversi tra le parti”.
La sospensione prevista dall’art. 295 c.p.c. presuppone, quindi, ad avviso della Corte, le seguenti condizioni: che sussista un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra due situazioni sostanziali; che queste ultime siano entrambe dedotte in giudizio; che non si realizzi o in virtù dell’art. 34 c.p.c. o per effetto degli artt. 40 e 274 c.p.c. la simultaneità del processo.
Più di recente, queste Sezioni Unite (Cass. n. 21763/2021), investite in merito alla questione di massima di particolare importanza relativa al rapporto tra la sospensione necessaria e facoltativa, ha condiviso l’orientamento espresso nel 2012 (sebbene con alcuni distinguo ritenuti necessari allo scopo di raggiungere l’obiettivo di “un’equilibrata efficienza dell’amministrazione della giustizia nel suo complesso”), ulteriormente precisando che “in tema di sospensione del giudizio per pregiudizialità necessaria, salvi i casi in cui essa sia imposta da una disposizione normativa specifica che richieda di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità tecnica e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non può ritenersi obbligatoria ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (e, se disposta, può essere proposta subito istanza di prosecuzione ex art. 297 c.p.c.), ma può essere adottata, in via facoltativa, ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c., applicandosi, nel caso del sopravvenuto verificarsi di un conflitto tra giudicati, il disposto dell’art. 336, comma 2, c.p.c.”.
Ora, nel caso in esame, trattandosi di accertamenti relativi allo stato delle persone, non è possibile una pronuncia incidentale (ex art. 34 c.p.c.) ed è la legge a richiedere espressamente di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante (come risulta dal combinato disposto degli artt. 253 e 269 c.c., così come interpretati dalla costante giurisprudenza di legittimità sopra richiamata).
Risulta, pertanto, che – a fronte della contemporanea pendenza di un procedimento di disconoscimento di paternità e di un altro procedimento volto alla dichiarazione giudiziale di altra paternità – stando all’interpretazione fornita da queste Sezioni Unite, non può escludersi la necessità di una sospensione obbligatoria ex art. 295 c.p.c..
Ovviamente, come anche rilevato dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n. 177/2022, l’affermazione, nell’interesse della legge ai sensi dell’art. 363 c.p.c., del principio di diritto proposto non risolve tutte le criticità ma opera solo un temperamento.
Infatti, il principio, laddove ricorre all’istituto della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., a fronte di una pregiudizialità tecnico-giuridica, non stravolge l’attuale assetto normativo “duale” sopra descritto, ribadendo anzi la necessità di far risolvere, con efficacia di giudicato, la questione sullo status pregresso, sollevata con specifica domanda, prima di decidere l’altra, di carattere dipendente, inerente alla domanda di accertamento della filiazione fuori dal matrimonio.
La richiesta non risulta meramente astratta, in quanto nel giudizio definito dal Tribunale di Roma nel 2018, si era proprio negata la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. del giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità in attesa della definizione del pendente giudizio di disconoscimento.
Potrebbe, peraltro, verificarsi l’ipotesi (come nella controversia pendente dinanzi alla Corte d’appello di Salerno che ha ritenuto di investire la Corte Costituzionale, nel 2021) in cui il previo giudizio di disconoscimento non sia stato neppure avviato al momento della proposizione dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità. E pertanto la Consulta, nella sentenza n. 177/2022, ha ritenuto necessario un intervento organico e di sistema del legislatore.
2.9. I limiti posti dall’art. 363 c.p.c. nell’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge (cfr., SS.UU, 404/2011), in rapporto alla necessità che esso non trascenda la valutazione delle violazioni di legge contenute nel provvedimento concretamente assunto, non più ricorribile in cassazione nè altrimenti impugnabile, e abbia stretta attinenza con le questioni oggetto di tale provvedimento, avendo la funzione di evitare, in proiezione futura, il consolidamento di una enunciazione di diritto errata e di fornire la regola preferibile, per l’eventualità in cui si ripresenti un caso in cui quella enunciazione del principio di dirotto sia conferente, inducono queste Sezioni Unite a non estendere la portata del principio di diritto che si va ad affermare, nel senso prospettato dalla stessa Procura Generale in sede di memoria e di discussione orale, in relazione anche alla possibilità di instaurazione in via cumulativa dell’azione volta alla rimozione dello status di figlio e di quella volta all’accertamento di altra paternità: invero, la fattispecie concreta che ha dato origine alla richiesta ai sensi dell’art. 363 c.p.c. ha riguardato due giudizi promossi non contestualmente ma separatamente e pendenti anche in grado diverso.
Va, tuttavia, evidenziato che, proprio in ragione dell’affermato nesso di pregiudizialità tra le due azioni, ostativo, finchè il disconoscimento della paternità non sia accertato con sentenza passata in giudicato, non alla proposizione dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità ma solo al suo accoglimento, la possibilità che i due procedimenti, quello demolitorio dello status e quello ricostruttivo, possano svolgersi contestualmente non può essere esclusa, in linea di principio, ed anzi consentirebbe di superare le criticità messe in luce da ultimo dalla Corte costituzionale nella richiamata pronuncia n. 177 del 2022.
Invero, per prevenire il conflitto di giudicati, derivante da decisioni tra loro incompatibili, le cause connesse per pregiudizialità dovrebbero essere, di regola, trattate e decise congiuntamente, attraverso il cumulo in un unico processo (c.d. simultaneus processus).
E il legislatore della recente Riforma di cui al D.Lgs. n. 149/2022 ha colto l’occasione, nel ridefinire il procedimento “in materia di persone, minorenni e famiglie”, per affermare una regola che risponde a tale esigenza di celerità e concentrazione delle tutele in ambito di liti nell’ambito della famiglia, nell’attuale art. 479 bis.49 c.p.c.: “(Cumulo di domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio). Negli atti introduttivi del procedimento di separazione personale le parti possono proporre anche domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e le domande a questa connesse. Le domande così proposte sono procedibili decorso il termine a tal fine previsto dalla legge, e previo passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la separazione personale. Se il giudizio di separazione e quello di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio sono proposti tra le stesse parti davanti a giudici diversi, si applica l’art. 40.
In presenza di figli minori, la rimessione avviene in favore del giudice individuato ai sensi dell’art. 473-bis.11, comma 1. Se i procedimenti di cui al comma 2 pendono davanti allo stesso giudice, si applica l’art. 274. La sentenza emessa all’esito dei procedimenti di cui al presente articolo contiene autonomi capi per le diverse domande e determina la decorrenza dei diversi contributi economici eventualmente previsti”.
Orbene, la proposizione della domanda di disconoscimento e di quella di dichiarazione giudiziale mediante un unico atto introduttivo, già riconosciuta da parte della giurisprudenza di merito, è stata commentata con favore da parte della dottrina che ha evidenziato come l’evidente connessione per pregiudizialità-dipendenza possa portare alla riunione (rispettivamente ai sensi dell’art. 40 c.p.c. o dell’art. 274 c.p.c., a seconda che pendano davanti a giudici diversi o davanti al medesimo giudice) o alla sospensione ex art. 295 c.p.c., nel caso in cui i due procedimenti non possano venire riuniti (quando, come nel caso di specie, uno dei due procedimenti penda in un grado diverso dall’altro).
Vi sono indubbiamente riflessi, in caso di contestuale svolgimento delle due azioni, in merito, soprattutto, alla possibilità del padre biologico di partecipare anche all’azione di disconoscimento. Vero che non è consentito al padre biologico di un minore generato nel matrimonio contestare la paternità attribuita al marito della madre, ai sensi dell’art. 231 c.c., nè autonomamente promuovere l’azione di disconoscimento, ex art. 243 c.p.c. consentita solo al marito, alla madre ed al figlio, mentre è consentito a “chiunque vi abbia interesse” (compreso, quindi, il padre naturale) di contestare lo stato di figlio nato fuori dal matrimonio, impugnando il riconoscimento per difetto di veridicità.
Trattasi di una scelta legislativa (e la questione di legittimità costituzionale di tale esclusione della legittimazione attiva è stata dichiarata inammissibile, in quanto coinvolgente la discrezionalità del legislatore, da Corte Cost. n. 429/1991), ancora dettata a tutela della famiglia che ha base nel matrimonio, che è stata ritenuta “discutibile” dalla dottrina, in rapporto all’unità dello status filiationis come disegnata dal D.Lgs. n. 154 del 2013.
Questa Corte ha da tempo affermato che il padre biologico, interessato a contestare la paternità legittima, non è legittimato al promovimento dell’azione di disconoscimento della paternità (riservato dall’art. 244 c.c. esclusivamente alla madre, al marito, al figlio o, in caso di minore età, al curatore speciale su istanza del figlio che abbia compiuto 14 anni o su istanza del pubblico ministero, se di età inferiore), nè ad intervenire nel relativo procedimento nè a proporre opposizione di terzo avverso la sentenza che ha deciso sul disconoscimento (Cass. n. 4035/1995; Cass. n. 487/2014 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 244 c.c., 395, n. 1, e 404 c.p.c., nella parte in cui limitano la proponibilità dell’opposizione di terzo o l’intervento del soggetto indicato come padre naturale, o dei suoi eredi, nel giudizio di disconoscimento di paternità, promosso da colui che solo all’esito del positivo esperimento di tale azione potrà chiedere il riconoscimento di paternità, ritenendo che il pregiudizio fatto valere sia di mero fatto; nello stesso senso anche Cass. n. 13638 del 2013; Cass. n. 18601/2021).
Con riferimento al minore infraquattordicenne, tuttavia, questa Corte, come già rilevato sopra, ha interpretato la norma richiamata riconoscendo comunque al padre biologico il diritto di chiedere al giudice la nomina di un curatore speciale per promuovere l’azione di disconoscimento (Cass. n. 4020/2017; Cass. n. 27560/2017).
In dottrina, si è poi osservato che la partecipazione del presunto padre naturale al giudizio di disconoscimento, oltre che semplificare il quadro probatorio dal quale ricavare la verità, non sarebbe neppure idonea a creare “qualche imbarazzo nella compagine familiare fondata sul matrimonio”, in quanto il quieto vivere familiare già sarebbe stato scardinato per effetto della stessa proposizione della domanda di disconoscimento, che il presunto padre naturale non può autonomamente promuovere.
In ordine alla compatibilità con l’art. 8 della CEDU, i giudici di Strasburgo hanno affermato che l’impossibilità “assoluta” per un uomo che afferma di essere il padre biologico di cercare di stabilire la propria paternità, per il solo motivo che un altro uomo ha già riconosciuto il bambino, integra una violazione dell’art. 8.
Nella sentenza Rózanski v. Poland, app.55339/00, la Corte ha dichiarato che il fatto che le autorità disponessero di un potere discrezionale nel decidere se avviare o meno un procedimento di contestazione di un riconoscimento di paternità non era di per sè criticabile. Tuttavia, la mancanza di accesso diretto a una procedura attraverso la quale il richiedente potesse cercare di stabilire la paternità, l’assenza nel diritto interno di orientamenti su come dovrebbe essere esercitato il potere discrezionale delle autorità di contestare un riconoscimento di paternità e il modo superficiale in cui sono state esaminate le domande del richiedente di contestare il riconoscimento da parte di un altro uomo, ha portato la Corte a constatare una violazione dell’art. 8.
Con sentenza del 13.10.2020, la Corte Edu, nel caso Koychev c. Bulgaria, app.32495/15, si è pronunciata sulla violazione dell’art. 8 CEDU, da parte della legge bulgara, nella parte in cui la medesima non consente a colui che affermi di essere il padre biologico del minore, di contestare il riconoscimento della paternità effettuato da un altro uomo (nella specie, il marito della madre in virtù di un matrimonio contratto alcuni anni dopo la nascita del minore).
La vicenda sulla quale la Corte si è pronunciata riguarda il ricorso del sig. Koychev, il quale, tra il 2003 e il 2005 ha avuto una relazione dalla quale è nato un bambino nel 2006 (riconosciuto solo nel 2013). La madre si è opposta al riconoscimento e solo in seguito il ricorrente è stato informato che il minore era stato riconosciuto dal nuovo compagno della madre. Nel 2014 l’azione di riconoscimento promossa dal ricorrente è stata dichiarata inammissibile dal Tribunale. Il sig. Koychev, ha, dunque agito contro il riconoscimento del nuovo compagno della madre, allegando che non era il padre biologico del bambino. Sia in primo grado che in appello è stata pronunciata l’inammissibilità della domanda, poichè, secondo la legge bulgara, solo la madre e il figlio possono ricorrere contro la dichiarazione di riconoscimento di paternità. Nel 2015, la Corte di Cassazione ha confermato l’inammissibilità rilevando che il ricorrente avrebbe dovuto rivolgersi al pubblico ministero o alla direzione territoriale dei servizi sociali, i quali avrebbero potuto promuovere azione di annullamento del riconoscimento di paternità.
A differenza della legge bulgara, nel nostro ordinamento, è, peraltro, consentito a “chiunque vi abbia interesse”, compreso, quindi, il padre naturale, di contestare lo stato di figlio nato fuori dal matrimonio.
E’ stato osservato che, ove si trattasse di contestare la paternità di un figlio nato nel matrimonio, atteso che il padre biologico non può contestare la paternità attribuita al marito della madre ai sensi dell’art. 231 c.c. nè con l’azione di disconoscimento della paternità nè con quella di contestazione dello stato di figlio, si giungerebbe al punto di negare al padre naturale il diritto di ottenere l’accertamento della sua paternità, con possibile violazione dell’art. 8 CEDU.
Tale conclusione, come visto, può essere temperata, nel caso di minori infraquattordicenni, attraverso il riconoscimento al padre naturale della possibilità di sollecitare la nomina di un curatore speciale per promuovere l’azione di disconoscimento (Cass. 27560/2021).
In ordine alla posizione del presunto padre naturale nel giudizio, cumulato o riunito, di disconoscimento, va, inoltre, richiamato il principio secondo cui la riunione di cause connesse lascia inalterata l’autonomia dei giudizi per tutto quanto concerne la posizione assunta dalle parti in ciascuno di essi, con la conseguenza che gli atti e le statuizioni riferiti ad un processo non si ripercuotono sull’altro processo sol perchè questo è stato riunito al primo (Cass. 15383/2011; Cass. 5434/2021) ed il principio di autonomia dei giudizi è suscettibile di temperamento solo al fine di evitare un inutile aggravio degli oneri processuali e purchè non ne risulti vulnerato il diritto di difesa. Si può poi aggiungere, sulla possibile contestualità delle due azioni, che questa Corte ha già ritenuto ammissibile una domanda di regresso e di rimborso delle somme anticipate da un genitore per il mantenimento del figlio nato fuori dal matrimonio, nell’ambito del giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale.
Nella sentenza n. 17914 del 2010 si è affermato che “in materia di mantenimento del figlio naturale, la domanda di rimborso delle somme anticipate da un genitore può essere proposta nel giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale, mentre l’esecuzione del titolo e la conseguente decorrenza della prescrizione del diritto a contenuto patrimoniale richiedono la preventiva definitività della sentenza di accertamento dello “status“” (conf. Cass. 21364/2018).
Quindi, con riguardo alla proponibilità dell’azione di regresso, da parte del genitore che aveva provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio, unitamente alla domanda di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, questa Corte ha già ammesso l’esercizio della prima azione, prima del passaggio in giudicato della sentenza di dichiarazione giudiziale della paternità (che produce gli stessi effetti, del riconoscimento, con decorrenza dalla nascita del figlio), anche se l’esecuzione del titolo e la conseguente decorrenza della prescrizione del diritto a contenuto patrimoniale richiedono la preventiva definitività della sentenza di accertamento dello status.
In conclusione, proprio in ragione del nesso di pregiudizialità affermato, non si può escludere la possibilità, in alcuni casi, del simultaneus processus (che rappresenta in genere la soluzione da privilegiare rispetto a quella della sospensione ex art. 295 c.p.c. che rappresenta sempre un’extrema ratio) tra azione di disconoscimento (o di impugnazione del riconoscimento o di contestazione dello status di figlio) ed azione di dichiarazione giudiziale di paternità, che potrebbero nascere separatamente e venire riunite (ex art. 40 c.p.c., se pendano davanti a giudici diversi, o ex art. 274 c.p.c., se pendano dinanzi allo steso ufficio giudiziario) ovvero essere cumulativamente promosse in unico atto introduttivo da parte del soggetto legittimato ad entrambe le azioni (ad es. il figlio e la madre), salva ovviamente la possibilità ex art. 103 c.p.c., comma 2, per il giudice del merito di disporre la separazione dei giudizi, nei casi di difficile gestione del processo cumulativo (laddove ad es. i soggetti direttamente coinvolti dal lato genitoriale siano ancora in vita). Il tutto, nel rispetto della cronologia e della pregiudizialità degli accertamenti riguardanti il disconoscimento della paternità ed attraverso una necessaria e rigorosa scansione (utilizzando il vigente meccanismo della “calendarizzazione”) dei tempi procedurali e dell’attività istruttoria relativa all’azione pregiudicante, da esperire necessariamente in via prioritaria.
Il raccordo tra i due istituti e la possibilità di introduzione cumulativa delle due azioni, salva sempre la discrezionalità del giudice di merito nel governo della trattazione del processo, in ragione di variabili organizzative oltre che processuali, potrebbe rispondere all’esigenza, valorizzata dalla Corte EDU nella decisione citata del 2022, di assicurare la più sollecita definizione dello status e di concretizzare nella sua effettività il diritto del figlio all’acquisizione del nuovo status.
Rimane comunque ferma la necessità, in difetto di un intervento del legislatore e tenuto conto di quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 177/22 (rammentandosi che, sul punto dell’ammissibilità di una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità condizionata sospensivamente all’esito del giudizio demolitivo, la Consulta ha rilevato che essa attiene alla materia processuale, la cui disciplina è riservata in primis al legislatore), di attendere il passaggio in giudicato della sentenza, parziale, di disconoscimento, prima di potere esaminare la domanda, dipendente, di dichiarazione giudiziale di paternità.
3. Si può quindi concludere che l’analisi, attuale, degli artt. 253 e 269 c.c. deve essere condotta alla luce dei principi costituzionali, artt. 2, Cost., 29 e 30, in particolare) e sovranazionali (in particolare, l’art. 8 della CEDU, implicante, oltre ad obblighi negativi delle autorità pubbliche, anche obblighi positivi inerenti all’effettivo rispetto della vita privata).
L’onere particolarmente gravoso a carico del figlio (come qualificato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 177 del 2022) – che richiede la necessità di un giudizio articolato in più gradi che si concluda con una sentenza passata in giudicato demolitiva del precedente stato – ed il rischio che lo stesso rimanga “privo di status”, in assenza di un intervento del legislatore (cui spetta, come affermato dalla Corte costituzionale, il compito di realizzare un “intervento di sistema” che “possa tenere conto di tutti gli interessi coinvolti, senza comprimere in maniera sproporzionata diritti di rango costituzionale”), possono essere comunque, in parte, temperati attraverso il riconoscimento della possibilità di sospendere il giudizio relativo all’attribuzione del nuovo status, non essendo ancora definito con sentenza passata in giudicato quello sulla rimozione dello status preesistente.
Ove, infatti, non si consentisse tale sospensione e si propendesse per una declaratoria di inammissibilità – come ha fatto il Tribunale di Roma nel caso concreto richiamato dalla Procura Generale -, si correrebbe il rischio di violare il principio della ragionevole durata del processo nonchè di realizzare un ostacolo all’esercizio del diritto – garantito dalla Cost., artt. 6 Cedu e 24 – di agire a tutela del diritto fondamentale allo status e all’identità biologica, protetto anche ai sensi dell’art. 8 Cedu.
Conclusivamente, deve essere affermato, nell’interesse della legge, affinchè possa orientare la giurisprudenza, il seguente principio di diritto: “Il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c.”.
P.Q.M.
La Corte enuncia nell’interesse della legge, a norma dell’art. 363 c.p.c., comma 1, il seguente principio di diritto: “Il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c.”.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 7 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2023
Allegati:
SS.UU, 22 marzo 2023, n. 8268, in tema di filiazione
In tema di maternità surrogata – SS.UU, 08 maggio 2019, n. 12193
Civile Sent. Sez. U Num. 12193 Anno 2019
Presidente: MAMMONE GIOVANNI
Relatore: MERCOLINO GUIDO
Data pubblicazione: 08/05/2019
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 10101/2017 R.G. proposto da PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI TRENTO;
– ricorrente –
e
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., e SINDACO DI TRENTO, in qualità di ufficiale di governo, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– ricorrenti e intimati –
contro
[ M.D. ] e [ R.R. ] proprio e nella qualità di genitori esercenti la responsabilità nei confronti dei minori [ M.C. ] e [ M.A. ] rappresentati e difesi dagli Avv. Giulia Perin e Alexander Schuster, con domicilio eletto presso lo studio della prima in Roma, via Piemonte, n. 117;
– controricorrenti –
avverso l’ordinanza della Corte d’appello di Trento depositata il 23 febbraio 2017.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 6 novembre 2018 dal Consigliere Guido Mercolino;
uditi l’Avv. Alexander Schuster e l’Avvocato dello Stato Wally Ferrante;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Federico SORRENTINO, che ha concluso in via principale per la dichiarazione della legittimazione a ricorrere del Procuratore generale, del Ministero dello interno e del Sindaco, con raccoglimento del quarto motivo del ricorso incidentale, e per la dichiarazione d’inammissibilità del secondo motivo del ricorso principale e del primo motivo del ricorso incidentale, con il rigetto del secondo e del terzo motivo del ricorso incidentale, e l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso principale e del quinto motivo del ricorso incidentale; in subordine, per l’ipotesi d’inammissibilità di entrambi i ricorsi, ha chiesto l’enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 363 cod. proc.
FATTI DI CAUSA
1. [ L.M. ] e [ R.R. ], in proprio e nella qualità di genitori esercenti la responsabilità nei confronti dei minori [ C.A. ] [ M. ] proposero ricorso alla Corte d’appello di Trento, per sentir riconoscere, ai sensi dell’art. 67 della legge 31 maggio 1995, n. 218, l’efficacia nell’ordinamento interno del provvedimento emesso il 12 gennaio 2011 dalla Superior Court of Justice dell’Ontario (Canada), con cui era stato accertato il rapporto di genitorialità tra il [ R. ] ed i minori, e per sentirne ordinare la trascrizione negli atti di nascita di questi ultimi da parte dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento.
Premesso di aver contratto matrimonio il 2 dicembre 2008 in Canada, i ricorrenti esposero che i minori, nati in quel Paese il 23 aprile 2010, erano stati generati mediante procreazione medicalmente assistita, a seguito del reperimento di una donatrice di ovociti e di un’altra donna disposta a sostenere la gravidanza; riferirono che, dopo un primo provvedimento giudiziale, regolarmente trascritto in Italia, con cui il Giudice canadese aveva riconosciuto che la gestante non era genitrice dei minori e che l’unico genitore era il [ M. ], l’ufficiale di stato civile, con atto del 31 maggio 2016, aveva rifiutato di trascrivere quello oggetto della domanda, con cui era stata riconosciuta la cogenitorialità del [ R. ] disposto l’emendamento degli atti di nascita; precisato inoltre che la loro unione era produttiva di effetti nell’ordinamento italiano ai sensi dell’art. 1, comma 28, lett. b), della legge 20 maggio 2016, n. 76 e che i minori erano cittadini sia italiani che canadesi, aggiunsero di aver assunto entrambi il ruolo di padre fin dalla nascita dei bambini e di essere stati riconosciuti come tali non solo dai figli, ma anche nella cerchia degli amici, familiari e colleghi.
Si costituì il Procuratore generale della Repubblica, ed eccepì l’incompetenza della Corte, ai sensi dell’art. 95 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, chiedendo in ogni caso il rigetto della domanda, per contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento adottato dal Giudice canadese.
Nel giudizio, spiegò intervento il Ministero dell’interno, a difesa del provvedimento emesso dal Sindaco di Trento in qualità di ufficiale di governo, affermando anch’esso che, in assenza di una relazione biologica tra il [ R. ] ed i minori, il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento emesso dal Giudice canadese si poneva in contrasto con l’ordine pubblico.
1.1. Con ordinanza del 23 febbraio 2017, la Corte d’appello di Trento ha accolto la domanda.
Premesso che il procedimento ha ad oggetto esclusivamente il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento emesso dal Giudice straniero, rispetto al quale la richiesta di trascrizione non costituisce un’autonoma domanda, idonea ad introdurre un giudizio di opposizione al rifiuto dell’ufficiale di stato civile, la Corte ha escluso da un lato la propria incompetenza, dallo altro la legittimazione all’intervento del Sindaco e del Ministero, osservando che il primo non rivestiva la qualità di parte, nonostante la notificazione del ricorso, mentre il secondo non poteva considerarsi portatore di un interesse attuale all’intervento, né in relazione alla regolare tenuta dei registri dello stato civile, tenuto conto dell’oggetto dell’accertamento da compiere, né in qualità di organo sovraordinato al Sindaco, né in relazione ad ipotetiche future pretese risarcitorie per danni da attività provvedimentale illegittima. Ha affermato che l’unico interesse pubblico rilevante nel caso in esame, costituito dall’esigenza di evitare l’ingresso nell’ordinamento di provvedimenti contrari all’ordine pubblico, doveva considerarsi tutelato dall’intervento del Procuratore generale, non richiesto in via generale nelle cause di riconoscimento dell’efficacia di sentenze straniere, ma legittimato dalle norme del codice di rito che prevedono la partecipazione del Pubblico Ministero a specifiche tipologie di controversie, come quelle in materia di stato delle persone.
Precisato poi che nel caso di specie l’unico requisito in contestazione ai fini del riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero era costituito dalla compatibilità con l’ordine pubblico internazionale, la Corte ha richiamato la più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui il contenuto di tale nozione va desunto esclusivamente dai principi supremi e/o fondamentali della Carta costituzionale, ovverosia da quelli che non potrebbero essere sovvertiti dal legislatore ordinario, restando escluso il contrasto con l’ordine pubblico in caso di difformità della norma straniera da norme del diritto nazionale con cui il legislatore abbia esercitato la propria discrezionalità in una determinata materia, con la conseguenza che, ai fini della relativa valutazione, il giudice deve verificare se l’atto straniero contrasti con l’esigenza di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla CEDU. Ciò posto, ha ritenuto che nella specie dovesse attribuirsi rilievo alla tutela dell’interesse superiore del minore, articolato in diverse situazioni giuridiche che hanno trovato riconoscimento sia nell’ordinamento internazionale che in quello interno, ed individuabile in particolare nel diritto del minore alla conservazione dello status di figlio riconosciutogli in un atto validamente formato in un altro Stato, come conseguenza diretta del favor filiationis emergente dagli artt. 13, comma terzo, e 33, commi primo e secondo, della legge n. 218 del 1995 ed implicitamente riconosciuto dall’art. 8, par. 1, della Convenzione di New York sui
diritti del fanciullo. Ha osservato infatti che il mancato riconoscimento del predetto status avrebbe determinato un evidente pregiudizio per i minori, precludendo il riconoscimento in Italia di tutti i diritti che ne derivavano nei confronti del [ R. ], indipendentemente dalla possibilità di farli valere nei confronti dell’altro genitore, impedendo al [ R. ] di assumere la responsabilità genitoriale nei loro confronti, e privando di rilievo giuridico nel nostro ordinamento l’identità familiare ed i legami familiari legittimamente acquisiti in Canada.
Pur rilevando che, a differenza di quella canadese, la disciplina vigente in Italia non consente il ricorso alla maternità surrogata, in quanto la legge 19 febbraio 2004, n. 40 limita alle coppie di sesso diverso la possibilità di accedere alla procreazione medicalmente assistita, prevedendo sanzioni amministrative in caso di ricorso alle relative pratiche da parte di coppie composte da soggetti dello stesso sesso e sanzioni penali per chi in qualsiasi forma realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o embrioni, mentre la legge 20 maggio 2016, n. 76 esclude l’applicabilità alle unioni civili delle disposizioni della legge 4 maggio 1983, n. 184, la Corte ha ritenuto che ciò non costituisse un ostacolo al riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento interno del provvedimento canadese che aveva accertato il rapporto di filiazione tra il [ R. ] e i due minori generati attraverso la maternità surrogata. Premesso infatti che, in presenza di questioni che pongano delicati interrogativi di ordine etico in ordine ai quali non vi sia consenso su scala europea, la Corte EDU ha riconosciuto al legislatore statale un ampio margine di apprezzamento, confermato anche dalla Corte costituzionale in occasione della dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma terzo, della legge n. 40 del 2004, la Corte ha affermato che la disciplina positiva della procreazione medicalmente assistita non costituisce espressione di principi fondamentali costituzionalmente obbligati, ma il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela degl’interessi fondamentali coinvolti in tale materia. Ha aggiunto che le conseguenze della violazione dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 non possono ricadere su chi è nato, il quale ha il diritto fondamentale alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero, non rappresentando un ostacolo l’insussistenza di un legame genetico tra i minori ed il [ R. ], dal momento che nel nostro ordinamento non esiste un modello di genitorialità fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato: ha evidenziato in proposito l’importanza assunta a livello normativo dal concetto di responsabilità genitoriale, che si manifesta nella consapevole decisione di allevare ed accudire il nato, la favorevole considerazione accordata dall’ordinamento al progetto di formazione di una famiglia anche attraverso l’istituto dell’adozione, e la possibile assenza di una relazione biologica con uno dei genitori nel caso di ricorso a tecniche di fecondazione eterologa consentite dalla legge. Ha rilevato che l’assenza di un legame biologico con il minore non riveste portata determinante neppure nella giurisprudenza della Corte EDU relativa all’art. 8 della CEDU, la quale, anche nei casi in cui ha escluso la configurabilità di una vita familiare, ha attribuito rilievo preminente alla breve durata della relazione ed alla precarietà del legame giuridico con i genitori, derivante dalla condotta di questi ultimi, contraria al diritto italiano. Ha infine escluso che nella specie l’interesse dei minori possa trovare una tutela più adeguata attraverso un’adozione disposta ai sensi dell’art. 44, lett. b), della legge n. 184 del 1983, non essendo pacifica l’ammissibilità del ricorso a tale forma di adozione da parte delle coppie omosessuali.
2. Avverso la predetta ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione il Pubblico Ministero, per due motivi, nonché il Ministero dell’interno ed il Sindaco di Trento, in qualità di ufficiale di governo, per cinque motivi, illustrati anche con memoria. Il [ M. ] [ ed il [ R. ] hanno resistito con controricorso, anch’essi illustrato con memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo d’impugnazione, il Pubblico Ministero denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 16 e 65 della legge n. 218 del 1995 e dell’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, censurando l’ordinanza impugnata per aver riconosciuto efficacia nell’ordinamento interno ad un provvedimento contrario all’ordine pubblico, in quanto avente ad oggetto l’accertamento di un rapporto genitoriale con persone del medesimo sesso, sulla base di norme straniere scelte dagli stessi ricorrenti e sul presupposto indimostrato della rispondenza di tale situazione all’interesse dei minori. Precisato che la questione non ha ad oggetto l’equiparazione di una paternità non biologica a quella biologica, ma l’ammissibilità di un rapporto genitoriale di coppia in capo a persone dello stesso sesso, sostiene che la riduttiva nozione di ordine pubblico accolta dall’ordinanza impugnata si pone in contrasto con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la stessa va desunta non solo dai valori consacrati nelle norme costituzionali, ma anche dagli altri principi e regole che, pur non trovando collocazione nella Carta fondamentale, informano l’intero ordinamento, in quanto immanenti ai più importanti istituti giuridici ed emergenti dal complesso delle norme inderogabili che caratterizzano l’atteggiamento eticogiuridico dell’ordinamento in un determinato momento storico. In quanto difforme da tali principi, l’ordinanza impugnata intacca la sovranità statale, consentendo l’ingresso nell’ordinamento di istituti apertamente contrastanti con i principi che informano un intero settore di rapporti in un determinato momento storico, la cui individuazione compete al legislatore ordinario, nel rispetto della Costituzione: la nozione di genitori da quest’ultima emergente non può infatti considerarsi gender neutral, trovando specificazione nei concetti di paternità e maternità risultanti dagli artt. 30, ultimo comma, e 31 e nell’istituto del matrimonio previsto dall’art. 29, che postula l’unione tra persone di sesso diverso; la bigenitorialità fondata sulla diversità di genere costituisce inoltre il presupposto dell’intera disciplina civilistica dei rapporti di famiglia e delle successioni, nonché di quella della procreazione medicaimente assistita, consentita soltanto a coppie di sesso diverso.
2. Con il secondo motivo, il Pubblico Ministero deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la nullità dell’ordinanza impugnata, per violazione dell’art. 111 Cost. e degli artt. 132, quarto comma, e 134 cod. proc. civ., osservando che il provvedimento è sorretto da una motivazione meramente apparente, in quanto priva dell’esposizione delle ragioni giuridiche a sostegno dell’affermata compatibilità con l’ordine pubblico di un rapporto di filiazione con doppia paternità e di un rapporto genitoriale di coppia fra persone dello stesso sesso. Premesso che la relativa verifica è
sottratta alla disponibilità delle parti, dovendo aver luogo d’ufficio, contesta la pertinenza delle argomentazioni svolte nell’ordinanza, rilevando che le stesse riguardano esclusivamente l’ammissibilità di un rapporto genitoriale privo di collegamento biologico, che non era stata mai posta in discussione, risultando positivamente prevista e disciplinata dalle norme in materia di adozione. Aggiunge che l’assenza di considerazioni riguardanti la compatibilità con l’ordine pubblico è resa ancor più grave, nella specie, dalla totale carenza di motivazione del provvedimento straniero, che rappresenta di per sé stessa una causa ostativa al riconoscimento dell’efficacia dello stesso nell’ordinamento interno. Afferma infine che, nel conferire rilievo decisivo all’esistenza di un progetto di genitorialità dei ricorrenti, la Corte territoriale si è limitata ad un enunciato meramente assertivo, senza indicare gli elementi da quali ha tratto il relativo convincimento.
3. Con il primo motivo del loro ricorso, il Ministero ed il Sindaco lamentano il difetto assoluto di giurisdizione, sostenendo che, nel riconoscere efficacia ad un provvedimento straniero che prevede la trascrizione nei registri dello stato civile di una doppia paternità, in assenza di una norma interna
che lo consenta, l’ordinanza impugnata ha ecceduto i limiti della giurisdizione, invadendo la sfera di discrezionalità politica riservata al legislatore. Premesso che l’estensione di una serie di diritti alle coppie omosessuali, in prospettiva antidiscriminatoria, non comporta necessariamente un’equiparazione perfetta e completa sotto ogni profilo, soprattutto in materia familiare, osservano che, in tema di filiazione, l’ordinamento appresta, indipendentemente dalla discendenza biologica, strumenti normativi idonei all’istituzione di un rapporto di responsabilità di tipo genitoriale, la cui previsione segna tuttavia anche il limite all’equiparazione delle diverse situazioni socio-personali. Tale limite risulta superato dall’ordinanza impugnata, la quale costituisce espressione di un’attività di produzione normativa estranea alla competenza della Corte territoriale, anche con riguardo al richiamo della giurisprudenza della Corte EDU, non applicabile direttamente dal giudice nazionale, e comunque inidonea a giustificare una completa equiparazione delle coppie omosessuali in relazione ad ogni aspetto del diritto di famiglia.
4. Con il secondo motivo, il Ministero ed il Sindaco denunciano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 2 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, osservando che, nell’individuare l’oggetto del procedimento esclusivamente nel riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero, l’ordinanza impugnata non ha tenuto conto della ragion d’essere del giudizio, costituita dal rifiuto dell’ufficiale di stato civile di procedere alla trascrizione del provvedimento emesso dal Giudice canadese, e delle conclusioni formulate dai ricorrenti, in cui questi ultimi chiedevano espressamente di ordinarne la trascrizione negli atti di nascita dei minori. La Corte territoriale ha omesso di rilevare la contraddittorietà della condotta processuale degl’istanti, i quali, pur richiamando le norme in materia di trascrizione, non hanno seguito la procedura dalle stesse prevista, rimessa alla competenza del tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale dev’essere eseguito l’adempimento richiesto.
5. Con il terzo motivo, il Ministero ed il Sindaco deducono, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., rilevando che l’ordinanza impugnata ha omesso di pronunciare in ordine all’eccezione d’inammissibilità del ricorso proposto dal [ R. ],da essi sollevata in relazione al difetto di legittimazione del ricorrente, non investito del potere di rappresentanza dei minori, in quanto non titolare della responsabilità genitoriale sugli stessi, secondo l’ordinamento italiano.
6. Con il quarto motivo, il Ministero ed il Sindaco lamentano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione degli artt. 101 e 702-bis cod. proc. civ. e dell’art. 67 della legge n. 218 del 1995, censurando l’ordinanza impugnata nella parte in cui ha escluso la loro legittimazione, senza tener conto della vicenda da cui trae origine il procedimento, contrassegnata dal rifiuto dell’ufficiale di stato civile di procedere alla trascrizione del provvedimento straniero, e della richiesta di trascrizione espressamente formulata nel ricorso introduttivo, nonché della natura contenziosa del procedimento disciplinato dall’art. 67 cit., assoggettato alle forme del rito sommario di cognizione ed avente necessariamente come controparte il soggetto che si oppone alla richiesta di trascrizione. Tale soggetto non è identificabile nel Pubblico Ministero, legittimato esclusivamente ad intervenire nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone, ai sensi dell’art. 70, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., ma nel Sindaco, al quale spetta, in qualità di ufficiale dello stato civile, la corretta tenuta dei relativi registri, e per esso nel Ministero, al quale fa capo il Sindaco nell’esercizio delle funzioni di ufficiale di governo.
7. Con il quinto motivo, il Ministero ed il Sindaco denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 16 e 65 della legge n. 218 del 1995, dell’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000 e degli artt. 5 e 12, commi secondo e sesto, della legge n. 40 del 2004, osservando che, nell’escludere il contrasto tra il provvedimento emesso dal Giudice canadese e l’ordine pubblico, l’ordinanza impugnata ha fornito un’interpretazione eccessivamente estensiva di tale nozione, il cui accoglimento finirebbe per svuotare di ogni significato gli artt. 16 e 65 cit., che la pongono come limite all’ingresso di provvedimenti stranieri contrastanti con quell’insieme di principi e valori ritenuti fondamentali nel nostro ordinamento, al punto da essere considerati parte integrante e imprescindibile del sostrato giuridico nazionale. Nel richiamare i principi enunciati dalla più recente giurisprudenza di legittimità, la Corte territoriale ha trascurato la precisazione, da quest’ultima emergente, secondo cui, in quanto posto a salvaguardia della coerenza interna dell’ordinamento nazionale, l’ordine pubblico non è riducibile ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri dell’ordinamento interno, purché fondamentali ed irrinunciabili. Tra gli stessi va senz’altro incluso il principio, chiaramente desumibile dalle norme inderogabili in materia di filiazione, che postula, quale requisito imprescindibile per il riconoscimento del relativo rapporto, la differenza di sesso tra i genitori, avendo quest’ultima influito significativamente su tutta la legislazione nazionale introdotta nel tempo, ivi compresa quella concernente le diverse tecniche di fecondazione assistita; tale principio è rimasto inalterato anche a seguito della dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma terzo, della legge n. 40 del 2004, che nulla ha mutato con riguardo ai requisiti prescritti per l’accesso alle predette tecniche, non essendo venute meno le sanzioni comminate per l’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie composte da soggetti dello stesso sesso e per la surrogazione di maternità. Ad avviso dei ricorrenti, non può dunque dubitarsi della contrarietà all’ordine pubblico della trascrizione di un atto di nascita che preveda una duplice paternità, la cui ammissibilità non può essere desunta né dalle pronunce della Corte EDU che, ai fini dell’adozione, hanno sancito la piena equiparazione delle coppie omosessuali alla famiglia tradizionale, né dalla recente pronuncia di legittimità che ha disposto la trascrizione di una duplice maternità, dal momento che le prime hanno ad oggetto esclusivamente il rapporto di genitorialità civile, mentre la seconda, oltre a riferirsi ad un caso diverso da quello in esame, ha conferito rilievo non già alle esigenze di genitorialità della coppia, ma all’interesse esclusivo del minore, non invocabile utilmente nel caso in esame, in quanto i minori sono già in possesso della cittadinanza italiana e risultano già figli del padre biologico. Quanto alla legge n. 76 del 2016, la stessa, nel dettare tra l’altro la disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, applicabile anche alle coppie che abbiano contratto matrimonio all’estero, ha ampiamente esteso a queste ultime i diritti e i doveri derivanti dal matrimonio, ma ha escluso l’operatività delle disposizioni della legge n. 184 del 1983, ferme restando quelle già ritenute applicabili in materia di adozione, in tal modo segnando il punto di equilibrio cui l’ordinamento è giunto nel bilanciamento tra i vari istituti del diritto familiare, dal quale non può prescindersi nella valutazione della conformità all’ordine pubblico dei provvedimenti giudiziali stranieri; tale disciplina impedisce di estendere alle coppie formate da persone dello stesso sesso le norme sulla filiazione e la responsabilità genitoriale, ai fini delle quali assume rilievo decisivo il rapporto di discendenza genetica, quale fatto oggettivo accertabile in sede giudiziale, indipendentemente dall’aspetto volitivo-negoziale; ciò comporta l’esclusività della posizione giuridica di padre, la quale va tenuta distinta dal concetto di genitonalità, intesa come relazione affettivo-familiare con il minore e come responsabilità e capacità di cura degli interessi dello stesso, che può trovare realizzazione anche attraverso altri istituti previsti dall’ordinamento.
8. Con ordinanza del 22 febbraio 2018, la Prima Sezione civile di questa Corte ha disatteso le eccezioni d’improcedibilità delle impugnazioni, sollevate dalla difesa dei ricorrenti in relazione al mancato deposito della copia notificata del provvedimento impugnato, dando atto dell’avvenuta effettuazione di tale adempimento da parte del Ministero, con efficacia anche nei confronti del Pubblico Ministero.
Rilevato inoltre che i controricorrenti hanno contestato l’ammissibilità di entrambi i ricorsi, per difetto di legittimazione dei ricorrenti, sostenendo che il Sindaco non ha mai assunto formalmente la qualità di parte del giudizio di merito, in quanto il ricorso introduttivo gli è stato notificato soltanto a titolo di litis denuntiatio, mentre il Pubblico Ministero ha rivestito la mera posizione d’interventore, essendo privo del potere di proporre l’azione, ha affermato che la risoluzione della prima questione implica la definizione della nozione d’interessato, ai sensi dell’art. 67 della legge n. 218 del 1995, in relazione all’oggetto del giudizio, costituito non solo dal riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento straniero di volontaria giurisdizione, ma anche dalla richiesta di ordinarne la trascrizione negli atti dello stato civile, rispetto alla quale difficilmente può escludersi la legittimazione del Sindaco, in qualità di ufficiale di stato civile. Ha ritenuto poi di dover sollevare d’ufficio la questione concernente la legittimazione del Ministro dell’interno, portatore, in qualità di titolare della funzione amministrativa esercitata dal Sindaco in materia di tenuta dei registri anagrafici, di uno specifico interesse all’uniforme tenuta di tali registri, osservando invece, relativamente alla legittimazione del Pubblico Ministero, che, nonostante l’indubbio interesse ad evitare che possano trovare ingresso nel nostro ordinamento giuridico provvedimenti contrari all’ordine pubblico riguardanti lo stato delle persone, in tale materia egli non è titolare del potere d’impugnazione, limitato alle cause previste dall’art. 72, terzo e quarto comma, cod. proc. civ. ed a quelle che egli stesso avrebbe potuto proporre. Premesso tuttavia che, ai sensi dell’art. 73 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, il Pubblico Ministero ha azione diretta per far osservare le leggi di ordine pubblico, ha rilevato che la questione di legittimazione s’intreccia nella specie con quella che costituisce oggetto dei ricorsi, evidenziando la diversità delle nozioni di ordine pubblico emergenti da recenti pronunce di legittimità.
Precisato infine che la denuncia dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni del legislatore comporta obbligatoriamente la rimessione della causa alle Sezioni Unite, la Prima Sezione ha ritenuto che tale provvedimento sia imposto nella specie anche dalla complessità e dalla rilevanza delle censure proposte con i motivi di ricorso, il cui esame implica, per l’attinenza a delicatissimi profili di diritto, la risoluzione di questioni di massima di particolare importanza.
9. Rigettata pertanto l’eccezione d’improcedibilità delle impugnazioni, la prima questione da esaminare concerne l’ammissibilità di entrambi i ricorsi, contestata dai controricorrenti sotto il profilo della legittimazione all’impugnazione, a loro avviso non spettante né al Sindaco, in quanto non evocato formalmente in giudizio e non costituitosi nella precedente fase processuale, né al Pubblico Ministero, in quanto convenuto in qualità di parte necessaria del giudizio di merito, ma privo del potere d’impugnare la relativa sentenza.
Tale questione è strettamente collegata a quella della legitimatio ad causam del Sindaco e del Ministero dell’interno, dagli stessi riproposta con il quarto motivo del loro ricorso, nel senso che la mancata citazione del primo, cui l’atto introduttivo del giudizio sarebbe stato notificato a mero titolo di litis denuntiatio, in tanto potrebbe considerarsi idonea ad escluderne la legittimazione all’impugnazione, in quanto, come affermato dalla sentenza impugnata, egli non avesse titolo a partecipare al giudizio: in caso contrario, la mancanza della vocatio in jus si risolverebbe in un mero vizio del ricorso introduttivo, la cui notificazione dovrebbe essere considerata sufficiente a far assumere al Sindaco la qualità di parte, legittimata ad impugnare la sentenza, in quanto risultata soccombente nel merito. Com’è noto, infatti, la legittimazione a proporre l’impugnazione o a resistervi spetta a chi abbia rivestito formalmente la posizione di parte nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, e dev’essere desunta da quest’ultima, intesa sia nella parte dispositiva che in quella motiva, indipendentemente dalla correttezza di tale individuazione e dalla sua corrispondenza alle risultanze processuali, nonché dalla titolarità (attiva o passiva) del rapporto sostanziale controverso (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. V, 30/05/2017, n. 13584; Cass., Sez. VI, 2/10/
2014, n. 20789; 29/07/2014, n. 17234; Cass., Sez. III, 14/07/2006, n. 16100).
9.1. La legittimazione a contraddire del Sindaco e del Ministero è stata esclusa dalla Corte di merito sulla base di tre distinte ragioni, fondate rispettivamente sull’oggetto della domanda, identificato non già nella trascrizione del provvedimento straniero, ma nel riconoscimento della sua efficacia nell’ordinamento italiano, sulla non configurabilità nel presente giudizio di un interesse alla regolare tenuta dei registri dello stato civile, e sull’estraneità alla materia del contendere di pretese risarcitorie per danni cagionati da attività provvedimentale illegittima.
La tesi secondo cui, in quanto avente carattere meramente accessorio e consequenziale rispetto alla domanda di riconoscimento, e quindi inidonea ad introdurre un procedimento di rettificazione ai sensi dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, la richiesta di trascrizione del provvedimento risulterebbe insufficiente a giustificare la legittimazione del Sindaco, in qualità di ufficiale di stato civile, è stata disattesa da una recente pronuncia di legittimità, che in tema di riconoscimento dell’efficacia di una sentenza straniera di adozione ha ravvisato proprio nel rifiuto opposto dal Sindaco alla richiesta di trascrizione (anche in quel caso riproposta con il ricorso introduttivo del giudizio) quella «contestazione» che l’art. 67 della legge n. 218 del 1995 richiede ai fini dell’insorgenza della controversia: premesso infatti che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’espressione «chiunque vi abbia interesse», con cui la predetta disposizione individua i soggetti legittimati a ricorrere alla corte d’appello, non si riferisce esclusivamente alle parti del processo che ha dato luogo alla sentenza da eseguire, tale pronuncia ha affermato, richiamando anche l’ordinanza interlocutoria emessa nel presente giudizio, che in presenza del predetto rifiuto la nozione di «interessato» al riconoscimento del provvedimento straniero difficilmente potrebbe condurre a negare la qualità di parte del Sindaco come ufficiale di stato civile (cfr. Cass., Sez. I, 31/05/2018, n. 14007).
Il rilievo in tal modo conferito al rifiuto di trascrizione ed alla riproposizione della relativa richiesta nel procedimento di riconoscimento impone un approfondimento del rapporto intercorrente tra quest’ultimo ed il procedimento previsto dall’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000 per la rettificazione degli atti di stato civile nel caso in cui, come nella specie, la richiesta di trascrizione trovi fondamento in una sentenza o un provvedimento giurisdizionale straniero del quale il richiedente intenda far valere l’efficacia nel nostro ordinamento. Non appare necessario, in questa sede, soffermarsi sulle differenze strutturali tra i due istituti, già evidenziate dalla dottrina in riferimento al procedimento di delibazione disciplinato dagli artt. 796 e ss. cod. proc. civ. ed a quello di rettificazione previsto dal r.d. 9 luglio 1939, n. 1238, poi sostituiti da quelli in esame, e ribadite anche in relazione a questi ultimi, soprattutto con riguardo al tipo di giurisdizione (contenziosa o volontaria) di cui ciascuno di essi costituisce espressione ed ai limiti entro i quali le relative decisioni sono destinate a spiegare efficacia di giudicato. Giova piuttosto sottolineare la diversa funzione dei due rimedi, il primo dei quali è volto a risolvere contestazioni in ordine all’efficacia di provvedimenti giurisdizionali stranieri o a consentirne l’esecuzione nel nostro ordinamento, laddove il secondo mira ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e quella risultante dai registri dello stato civile, a causa di un vizio comunque originatosi nel procedimento di formazione dei relativi atti (cfr. Cass., Sez. I, 2/10/ 2009, n. 21094; 27/03/1996, n. 2776; 30/10/1990, n. 10519). La più ampia portata del procedimento di delibazione, riguardante sentenze e provvedimenti di qualsiasi genere e finalizzato alla produzione di effetti non limitati alla trascrizione nei registri dello stato civile, aveva indotto, in passato, parte della dottrina ad affermarne la prevalenza su quello di rettificazione, e ciò in coerenza con il sistema previsto dal codice di rito, che subordinava in via generale alla pronuncia di delibazione la possibilità di far valere nel nostro ordinamento i provvedimenti stranieri; tale opinione, che ha trovato seguito anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 218 del 1995, non può essere ritenuta più condivisibile, alla luce del radicale mutamento di prospettiva da quest’ultima determinato: in quanto imperniato sul principio del riconoscimento automatico (art. 64), applicabile anche ai provvedimenti in materia di stato e capacità delle persone (art. 65) ed a quelli di volontaria giurisdizione (art. 66), il regime da essa introdotto rende infatti superfluo, almeno in prima battuta, il ricorso al procedimento previsto dall’art. 67, consentendo di procedere direttamente alla trascrizione nei registri dello stato civile, e rimettendo quindi all’ufficiale di stato civile la verifica dei requisiti prescritti dalla legge. Soltanto nel caso in cui tale verifica abbia esito negativo, ovvero nel caso in cui l’efficacia del provvedimento straniero debba essere fatta valere anche ad altri fini, si rende necessaria la procedura di riconoscimento, la cui applicabilità non può ritenersi esclusa dalla possibilità di proporre opposizione ai sensi dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, configurandosi
quest’ultima come un rimedio concorrente, ma avente una portata più limitata rispetto a quella del procedimento di cui all’art. 67 della legge n. 218 del 1995: la funzione della rettificazione resta infatti strettamente collegata con quella pubblicitaria propria dei registri dello stato civile e con la natura meramente dichiarativa delle annotazioni ivi riportate, aventi l’efficacia probatoria privilegiata prevista dall’art. 451 cod. civ., ma non costitutive dello status cui i fatti da esse risultanti si riferiscono; esula pertanto dal suo ambito applicativo l’ipotesi in cui, come nella specie, il predetto stato emerga dal provvedimento straniero, la cui trascrivibilità nei registri dello stato civile venga contestata non già per un vizio di carattere formale, ma per l’insussistenza dei requisiti di carattere sostanziale cui gli artt. 64-66 della legge n. 218 del 1995 subordinano l’ingresso nel nostro ordinamento. Tale contestazione, investendo la stessa possibilità di ottenere il riconoscimento dello status accertato o costituito dal provvedimento straniero, dà luogo ad una controversia di stato, per la cui risoluzione, com’è noto, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente escluso l’applicabilità del procedimento di rettificazione, in virtù dell’osservazione che tale questione deve essere necessariamente risolta nel contraddittorio delle parti, in un giudizio contenzioso avente ad oggetto per l’appunto lo status (cfr. Cass., Sez. I, 21/12/1998, n. 12746; 27/03/1996, n. 2776; 26/01/1993, n. 951).
Se ciò è vero, peraltro, deve riconoscersi per un verso che la richiesta di trascrizione, non proponibile nelle forme previste dall’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, può ben essere avanzata contestualmente alla domanda di riconoscimento, rispetto alla quale non riveste carattere meramente accesso rio e consequenziale, per altro verso che la proposizione di tale domanda esige l’instaurazione del contraddittorio nei confronti dell’organo il cui rifiuto di trascrivere il provvedimento straniero ha dato origine alla controversia, non potendosi negare a quest’ultimo la qualifica di «interessato», nel senso previsto dall’art. 67 della legge n. 218 del 1995, non spettante esclusivamente ai soggetti che hanno assunto la veste di parti nel giudizio in cui il provvedimento è stato pronunciato, ma anche a quelli direttamente coinvolti nella sua attuazione (cfr. Cass., Sez. I, 8/01/2013, n. 220). L’ordine di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile non è infatti configurabile come una mera conseguenza della pronunzia di riconoscimento, la cui funzione non si esaurisce nell’attribuzione degli effetti specificamente previsti dall’art. 451 cod. civ., ma investe l’efficacia del provvedimento straniero in tutti i suoi aspetti; esso si inserisce nel petitum della domanda come oggetto dotato di una propria autonomia concettuale e giuridica, essendo volto a rimuovere l’ostacolo frapposto dall’organo competente, al quale, come destinatario del provvedimento richiesto dall’istante, va pertanto riconosciuta la posizione di legittimo contraddittore nel relativo procedimento.
9.2. Nell’esercizio delle funzioni di ufficiale dello stato civile, il Sindaco agisce poi, ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 1, in qualità di ufficiale del governo, e quindi non già come organo di vertice e legale rappresentante dell’Amministrazione comunale, bensì come organo periferico della Amministrazione statale, dalla quale dipende ed alla quale sono pertanto imputabili gli atti da lui compiuti nella predetta veste, nonchè la responsabilità per i danni dagli stessi cagionati (cfr. Cass., Sez. I, 25/03/2009, n. 7210; Cass., Sez. III, 6/08/2004, n. 15199; 14/02/2000, n. 1599). Com’è noto, la competenza in materia di tenuta dei registri dello stato civile, già spettante al Ministero della giustizia, ai sensi del R.D. n. 1238 del 1939, art. 13, è stata in seguito trasferita al Ministero dell’interno, al quale il D.P.R. n. 396 del 2000, art. 9 attribuisce il potere di impartire istruzioni agli ufficiali dello stato civile, nonchè la vigilanza sui relativi uffici, da esercitarsi attraverso il prefetto: pur non essendo certo che questi poteri costituiscano espressione di un rapporto di gerarchia in senso proprio, tale da consentire al Ministero di annullare gli atti compiuti dagli ufficiali di stato civile (cfr. le contrastanti pronunce del Giudice amministrativo: Cons. Stato, Sez. III, 1/12/2016, n. 5047; 4/11/2015, n. 5043; 26/10/2015, nn. 4897 e 4899), è pacifico che le predette istruzioni rivestono carattere vincolante per questi ultimi, ai quali è espressamente imposto l’obbligo di uniformarvisi, e ciò al fine di assicurare il regolare svolgimento del servizio e l’unità d’indirizzo nell’interpretazione di disposizioni dalla cui applicazione discendono effetti determinanti per la tutela dei diritti sia personali che patrimoniali. La circostanza che la corretta ed uniforme applicazione delle predette disposizioni risponda ad un’esigenza obiettiva dell’ordinamento, nel cui perseguimento l’Amministrazione non agisce in qualità di parte, non consente quindi di escludere la configurabilità di un autonomo interesse, concreto ed attuale, tale da legittimare l’intervento del Ministero nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero e la correlata richiesta di trascrizione, indipendentemente dalla proposizione, contestuale o paventata, di una domanda di risarcimento dei danni cagionati dal rifiuto dell’ufficiale di stato civile.
9.3. In quanto collegato alla funzione amministrativa specificamente esercitata dal Ministero, il predetto interesse non coincide con quello che legittima la partecipazione al giudizio del Pubblico Ministero, riconducibile invece alla natura del rapporto controverso ed all’indisponibilità delle situazioni giuridiche fatte valere, da cui deriva l’esigenza di garantire che, pur nel rispetto del principio dispositivo, gli strumenti processuali apprestati per la tutela delle predette situazioni operino in funzione della puntuale applicazione della legge.
Correttamente, nella specie, l’ordinanza impugnata ha confermato la legittimazione del Pubblico Ministero ad intervenire nel giudizio dinanzi a sè, avuto riguardo alla natura della questione sollevata dagl’istanti, che, in quanto avente ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento straniero attributivo di uno status, è qualificabile, come si è detto, come controversia di stato, con la conseguente applicabilità dell’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3, che attribuisce all’organo in questione la qualità di parte necessaria nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone, prescrivendone l’intervento a pena di nullità rilevabile d’ufficio. Il riferimento alla predetta disposizione implica tuttavia l’esclusione del potere di impugnare la decisione emessa dalla Corte d’appello, non essendo la controversia annoverabile nè tra quelle per le quali la legge riconosce al Pubblico Ministero il potere di azione nè tra quelle matrimoniali, e non trovando pertanto applicazione nè il comma 1 dell’art. 72 c.p.c., che in riferimento alla prima categoria di controversie attribuisce al predetto organo, in caso d’intervento, gli stessi poteri che competono alle parti, nè il terzo ed il comma 4 del medesimo articolo, che in riferimento al secondo gruppo di controversie attribuiscono al Pubblico Ministero il potere d’impugnazione.
Non può condividersi, in proposito, la tesi sostenuta dal Procuratore generale, secondo cui la legittimazione all’impugnazione del Pubblico Ministero, apparentemente esclusa dalle norme citate, potrebbe essere ricavata dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, comma 2, che, riconoscendo al Procuratore della Repubblica la facoltà di promuovere in ogni tempo il procedimento di rettificazione, contemplerebbe proprio quel potere di azione dalla cui titolarità il comma 1 dell’art. 72 c.p.c. fa dipendere il potere d’impugnazione, ovvero dal L. n. 218 del 1995, artt. 64 – 66, che, subordinando il riconoscimento dell’efficacia dei provvedimenti stranieri alla condizione che gli stessi non risultino contrari all’ordine pubblico, lascerebbero spazio all’iniziativa del Pubblico Ministero, cui il R.D. n. 12 del 1941, art. 73 attribuisce l’azione diretta per far osservare le leggi di ordine pubblico. L’esclusione della possibilità di avvalersi del procedimento di cui al D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95 per la risoluzione di controversie di stato, e la conseguente necessità di promuovere la procedura di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 67 per ottenere la dichiarazione di efficacia del provvedimento straniero, anche ai fini della trascrizione nei registri dello stato civile, impediscono infatti di estendere il potere di iniziativa riconosciuto al Pubblico Ministero ai fini della rettificazione oltre l’ambito in riferimento al quale è specificamente previsto, ostandovi la natura stessa della controversia, intrinsecamente disomogenea rispetto a quelle che possono dar luogo al procedimento di rettificazione, ed il chiaro dettato dell’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3, che in riferimento alle controversie di stato si limita ad attribuire al Pubblico Ministero un potere d’intervento. E’ proprio la predetta disomogeneità a spiegare l’asimmetria del sistema segnalata dal Procuratore generale, e consistente nell’attribuzione al Pubblico Ministero di un potere d’iniziativa (e quindi d’impugnazione) limitato a controversie che, pur coinvolgendo l’interesse pubblico alla corretta applicazione della legge in una materia delicata come quella riguardante la formazione e la registrazione degli atti di stato civile, rivestono una portata più circoscritta rispetto a quelle riguardanti direttamente lo stato delle persone. In realtà, il potere di azione previsto dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, comma 2, costituisce un retaggio del sistema previgente, in cui gli uffici dello stato civile facevano capo al Ministero della giustizia e il R.D. n. 1238 del 1939, art. 182 attribuiva al Pubblico Ministero, posto alle dipendenze del Ministro, la vigilanza sul regolare svolgimento del servizio e sulla tenuta dei relativi registri; il suo mantenimento da parte della nuova disciplina appare coerente con la natura non contenziosa del procedimento di rettificazione, la cui instaurazione costituirebbe altrimenti appannaggio esclusivo degl’interessati, ma non risulta sufficiente a giustificarne l’estensione ad un procedimento contenzioso qual è quello di riconoscimento, che ha come controparte, secondo la formula adottata dalla L. n. 218 del 1995, art. 67, “chiunque vi abbia interesse”, ivi compresi, come si è detto, l’ufficiale di stato civile ed il Ministero dell’interno. Il richiamo all’art. 73
dell’ord. giud. non tiene invece conto dell’anteriorità di tale disposizione rispetto alla disciplina introdotta dal codice civile (art. 2907) e dal codice di procedura civile (art. 69), che concordemente limitano l’iniziativa del Pubblico Ministero in materia civile ai soli casi stabiliti dalla legge, in tal modo delineando un sistema ispirato a canoni di rigida tipizzazione, nell’ambito del quale risulta assente qualsiasi riferimento all’osservanza delle “leggi d’ordine pubblico”; tale sistema trova il suo completamento negli artt. 70-72 del codice di rito, che distinguono puntualmente le ipotesi in cui al predetto organo spetta il potere di azione da quelle in cui è titolare di un mero potere d’intervento, includendo nella seconda categoria le controversie di stato, e limitando espressamente alle prime la legittimazione all’impugnazione. L’assoggettamento della fattispecie a disposizioni di ordine pubblico costituirebbe d’altronde un criterio di applicazione tutt’altro che agevole ai fini dell’individuazione del potere di azione del Pubblico Ministero, avuto riguardo alle difficoltà che s’incontrano nella definizione della stessa nozione di “ordine pubblico”, e nella conseguente delimitazione di tale categoria di disposizioni, il riferimento alla quale risulterebbe foriero di non poche incertezze, in un settore in cui appare invece primaria l’esigenza di garantire la corretta ed uniforme applicazione della legge; significativa, in proposito, è la circostanza che, proprio in tema di controversie di stato, la giurisprudenza di legittimità abbia più volte escluso la possibilità d’individuare nel carattere imperativo della disciplina applicabile il fondamento di un interesse tale da legittimare l’esercizio dell’azione da parte del Pubblico Ministero, affermando che l’iniziativa spetta ai soli soggetti privati che abbiano un interesse individuale qualificato (concreto, attuale e legittimo) sul piano del diritto sostanziale, di carattere patrimoniale o morale, all’essere o al non essere dello status, del rapporto o dell’atto dedotto in giudizio, e concludendo quindi che, in mancanza di una deroga esplicita, trova applicazione la regola generale prevista dall’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3 (cfr. Cass., Sez. I, 16/03/1994, n. 2515; 18/10/1989, n. 4201).
Quanto infine alla possibilità, prospettata in via alternativa dal Procuratore generale, di desumere il potere d’impugnazione del Pubblico Ministero dalla mera partecipazione alla precedente fase processuale, configurabile come intervento adesivo volontario, e quindi idonea a giustificare la proposizione dell’impugnazione indipendentemente dal ricorso all’art. 72 c.p.c., è appena il caso di evidenziare la portata esaustiva della disciplina dettata da tale disposizione, che, nel limitare il potere d’impugnazione del Pubblico Ministero che abbia spiegato intervento nel giudizio alle cause che avrebbe potuto proporre, ovverosia alle ipotesi di cui all’art. 70, comma 1, n. 1, ed alle cause matrimoniali, escluse quelle di separazione dei coniugi, non introduce, relativamente alle altre ipotesi, alcuna distinzione tra quelle in cui l’intervento ha carattere obbligatorio, essendo prescritto a pena di nullità rilevabile d’ufficio, e quelle in cui l’intervento ha carattere facoltativo, in quanto fondato su una valutazione del pubblico interesse rimessa allo stesso Pubblico Ministero.
9.4. La prima questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite dunque essere risolta con l’enunciazione dei seguenti principi di diritto:
«Il rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero ed un cittadino italiano, se non determinato da vizi formali, dà luogo ad una controversia di stato, da risolversi mediante il procedimento disciplinato dall’art. 67 della legge n.218 del 1995, in contraddittorio con il Sindaco, in qualità di ufficiale dello dello stato civile, ed eventualmente con il Ministero dell’interno, legittimato a spiegare intervento nel giudizio, in qualità di titolare della competenza in materia di tenuta dei registri dello stato civile, nonchè ad impugnare la relativa decisione».
«Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero ed un cittadino italiano, il Pubblico Ministero riveste la qualità di litisconsorte necessario, ai sensi dello art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3, ma è privo della legittimazione ad impugnare la relativa decisione, non essendo titolare del potere di azione, neppure ai fini dell’osservanza delle leggi di ordine pubblico».
In applicazione dei predetti principi, il ricorso del Pubblico Ministero va dichiarato inammissibile, mentre risulta ammissibile quello proposto dal Sindaco e dal Ministero dello interno, del quale vanno altresì accolti il secondo ed il quarto motivo.
10. Va altresì accolto il terzo motivo del predetto ricorso, concernente la legittimazione del [ R. ] ad agire anche nella veste di legale rappresentante dei minori, dal momento che, indipendentemente dal conflitto d’interessi con i rappresentati, eventualmente configurabile in relazione all’oggetto della domanda, la sussistenza del potere rappresentativo nella specie doveva ritenersi subordinata proprio al riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero, dal quale dipendeva la possibilità di attribuire rilievo allo status filiationis anche nell’ambito dell’ordinamento italiano.
11. Con riguardo alle altre censure, occorre innanzitutto escludere che, come sostengono i ricorrenti, attraverso il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento emesso dal Giudice canadese, ed in particolare mediante l’affermazione della conformità all’ordine pubblico dell’accertamento di un rapporto di filiazione non fondato su un legame biologico, l’ordinanza impugnata sia incorsa nel vizio di eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore. A tale fattispecie, com’è noto, questa Corte ha attribuito un rilievo eminentemente teorico, ritenendola configurabile soltanto qualora il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa estranea alla sua competenza. Essa non è ravvisabile nel caso in esame, avendo la Corte d’appello giustificato la propria decisione attraverso il richiamo a una pluralità di indici normativi, collegati tra loro ed interpretati alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte EDU, dai quali ha tratto la convinzione che il modello di genitorialità cui s’ispira il nostro ordinamento nell’attuale momento storico non possa più considerarsi fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato, ma debba tener conto di nuove fattispecie contrassegnate dalla costituzione di un legame familiare con quest’ultimo, in conseguenza della consapevole assunzione da parte del primo della responsabilità di allevarlo ed accudirlo, nel quadro di un progetto di vita della coppia costituita con il genitore biologico.
In quanto ancorato alla disciplina vigente, sia pure interpretata secondo criteri evolutivi, il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla decisione risulta immune dal vizio lamentato, la cui individuazione presupporrebbe d’altronde la possibilità di distinguere, nell’ambito del predetto iter, l’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice da quella interpretativa a lui normalmente affidata: operazione, questa, piuttosto disagevole, in quanto, come la Corte ha già avuto modo di rilevare, l’interpretazione non svolge una funzione meramente euristica, ma si sostanzia nell’enunciazione della regula juris applicabile al caso concreto, con profili innegabilmente creativi. E’ proprio alla luce di tale considerazione che va ribadita la portata eminentemente astratta e teorica dell’eccesso di potere, certamente non configurabile quando, come nella specie, il giudice si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la predetta regola attraverso la ricostruzione della voluntas legis, anche se la stessa non sia stata desunta dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dal loro coordinamento sistematico, in quanto tale operazione non può tradursi nella violazione dei limiti esterni della giurisdizione, ma può dar luogo, al più, ad un error in iudicando (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068).
12. Nell’escludere la contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento con cui il Giudice canadese ha riconosciuto a [ C.A.M. ] ed [ A. ], già dichiarati figli di [ L.M. ], il medesimo status nei confronti di [ R.R. ], con il quale i minori non hanno alcun legame biologico, l’ordinanza impugnata ha richiamato una recente pronuncia di legittimità, che identifica la predetta nozione con il “complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati ad un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria” (cfr. Cass., Sez. I, 30/09/2016, n. 19599). Premesso che, a differenza di quanto previsto dalla legge canadese, che ammette il ricorso alla maternità surrogata, purchè a titolo gratuito, la disciplina della procreazione medicalmente assistita vigente nel nostro ordinamento non lo consente, la Corte di merito ha ritenuto che il divieto posto dalla L. n. 40 del 2004 non precluda il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero con cui è stato accertato il rapporto di filiazione tra i minori generati attraverso la suddetta pratica ed il genitore intenzionale, trattandosi di disposizioni che non costituiscono espressione di principi vincolanti per il legislatore ordinario, ma dell’ampio margine di apprezzamento di cui quest’ultimo gode nella regolamentazione di una materia in ordine alla quale non vi è consenso a livello Europeo, per i delicati interrogativi di ordine etico che la stessa suscita. Precisato inoltre che il nostro ordinamento non prevede un modello di genitorialità fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato, ha conferito rilievo da un lato all’interesse superiore dei minori, identificato nel diritto a conservare lo status di figli loro riconosciuto dall’atto validamente formato all’estero, dall’altro alla consapevole decisione di accudirli ed allevarli, nell’ambito del progetto familiare avviato con l’altro genitore.
12.1. Il richiamo ai principi fondamentali che caratterizzano l’ordinamento interno nell’attuale momento storico, quale parametro di riferimento della valutazione prescritta ai fini del riconoscimento, costituisce espressione dell’orientamento da tempo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, che, abbandonando la precedente concezione difensiva dell’ordine pubblico quale limite all’ingresso nel nostro ordinamento di norme ed atti provenienti da altri sistemi e ritenuti contrastanti con i valori sottesi alla vigente normativa interna, ha attribuito alla predetta nozione una diversa funzione, eminentemente promozionale, che circoscrive l’ambito del giudizio di compatibilità ai valori tutelati dalle norme fondamentali, ponendo in risalto il collegamento degli stessi con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale, dei quali mira a favorire la diffusione, congiuntamente all’armonizzazione tra gli ordinamenti.
In passato, la giurisprudenza di legittimità si era infatti uniformata ad una nozione di ordine pubblico fortemente orientata alla salvaguardia dell’identità e della coerenza interna dell’ordinamento, nonchè alla difesa delle concezioni morali e politiche che ne costituivano il fondamento, definendolo come il complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico e dei principi inderogabili immanenti ai più importanti istituti giuridici (cfr. Cass., Sez. I, 12/03/1984, n. 1680; 14/04/1980, n. 2414; 5/12/1969, n. 3881): pur distinguendo concettualmente tra ordine pubblico internazionale, riferibile ai soli rapporti caratterizzati da profili transnazionali e preclusivo del richiamo alla legge straniera applicabile in base ai criteri stabiliti dalle norme di diritto internazionale privato, ed ordine pubblico interno, attinente invece alla libera esplicazione dell’autonomia privata nei rapporti tra soggetti appartenenti al medesimo ordinamento (cfr. Cass., Sez. lav., 25/05/1985, n. 3209; Cass., Sez. I, 3/05/1984, n. 2682; Cass., Sez. 2, 19/02/1970, n. 389), il predetto indirizzo faceva sostanzialmente coincidere le due nozioni, ravvisando nella prima null’altro che un aspetto della seconda, fino ad affermare esplicitamente che essa non doveva essere intesa in senso astratto ed universale, ma andava riferita all’ordinamento giuridico nazionale ed ai suoi più elevati interessi, dei quali era volta ad assicurare il rispetto (cfr. Cass., Sez. I, 9/01/1976, n. 44; 14/04/1972, n. 1266; 24/04/1962, n. 818). Tale orientamento, estendendo il parametro di riferimento della valutazione prescritta ai fini della delibazione ai principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano, finiva tuttavia per lasciare ben poco spazio all’efficacia dei provvedimenti stranieri, la cui attuazione nel territorio dello Stato risultava in definitiva subordinata alla condizione che la disciplina dagli stessi applicata non differisse, almeno nelle linee essenziali, da quella dettata dall’ordinamento interno.
L’apertura di quest’ultimo al diritto sovranazionale ed il recepimento dei principi introdotti dalle convenzioni internazionali cui il nostro Paese ha prestato adesione, oltre ad influire sull’interpretazione della normativa interna, ha peraltro determinato una modificazione del concetto di ordine pubblico internazionale, caratterizzato, nelle formulazioni più recenti, da un sempre più marcato riferimento ai valori giuridici condivisi dalla comunità internazionale ed alla tutela dei diritti fondamentali, al quale fa inevitabilmente riscontro un affievolimento dell’attenzione verso quei profili della disciplina interna che, pur previsti da norme imperative, non rispondono ai predetti canoni. Emblematica di tale evoluzione è l’affermazione di ordine generale secondo cui i principi di ordine pubblico vanno individuati in quelli fondamentali della nostra Costituzione o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, o che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale (cfr. Cass., Sez. lav., 26/05/2008, n. 13547; 23/02/2006, n. 4040; 26/11/2004, n. 22332). Significativa è anche la precisazione, conforme alle critiche mosse al precedente orientamento, che l’ordine pubblico internazionale non è identificabile con quello interno, perchè altrimenti le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, con la conseguenza che resterebbe cancellata la diversità tra sistemi giuridici e diverrebbero sostanzialmente inutili le stesse regole del diritto internazionale privato (cfr. Cass., Sez. lav., 4/05/2007, n. 10215). La conclusione che se ne trae è che non vi è coincidenza tra le norme inderogabili dell’ordinamento italiano ed i principi di ordine pubblico rilevanti come limitazione all’applicazione di leggi straniere, dal momento che questi ultimi non vanno enucleati soltanto dal quadro normativo interno, ma devono essere ricavati da esigenze (comuni ai diversi ordinamenti statali) di garanzia e tutela dei diritti fondamentali, o da valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale (cfr. Cass., Sez. III, 22/08/2013, n. 19405; Cass., Sez. lav., 19/ 07/2007, n. 16017).
In tale mutato contesto s’inserisce anche il precedente richiamato dalla ordinanza impugnata, avente ad oggetto il riconoscimento dell’atto straniero di nascita di un minore generato da due donne, una delle quali aveva fornito l’ovulo necessario al concepimento mediante procreazione medicalmente assistita, mentre l’altra lo aveva partorito: tale pronuncia, nel ribadire la nozione di ordine pubblico dianzi riportata, si pone in rapporto di continuità con il nuovo orientamento, affermando a chiare lettere che «il legame, pur sempre necessario con l’ordinamento nazionale, è da intendersi limitato ai principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione, ma anche, laddove compatibili con essa, dai trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo»; essa precisa che «un contrasto con l’ordine pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale, perché il parametro di riferimento non è costituito (o non è costituito più) dalle norme con le quali il legislatore ordinario eserciti (o abbia esercitato) la propria discrezionalità in una determinata materia, ma esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario», e conclude pertanto che «il giudice, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali principi, dovrà negare il contrasto con l’ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico» (cfr. Cass., Sez. I, 30/09/2016, n. 19599, cit.). Nella medesima ottica, una successiva pronuncia, riguardante la rettifica dell’atto di nascita di un minore generato da due donne mediante il ricorso alla fecondazione assistita, ha affermato che la contrarietà dell’atto estero all’ordine pubblico internazionale dev’essere valutata alla stregua non solo dei principi della nostra Costituzione, ma anche, tra l’altro, di quelli consacrati nella Dichiarazione ONU dei Diritti dell’Uomo, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nei Trattati Fondativi e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché, con particolare riferimento alla posizione del minore e al suo interesse, tenendo conto della Dichiarazione ONU dei diritti del Fanciullo, della Convenzione ONU dei Diritti del Fanciullo e della Convenzione Europea di Strasburgo sui diritti processuali del minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878).
Il risalto in tal modo conferito ai principi consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ai quali viene attribuita una portata complementare a quella dei principi sanciti dalla nostra Costituzione, non trova smentita nella recente sentenza emessa da questa Corte a Sezioni Unite e richiamata nell’ordinanza di rimessione (cfr. Cass., Sez. Un., 5/07/2017, n. 16601), la quale, nell’escludere la sussistenza di un’incompatibilità ontologica tra l’istituto dei danni punitivi e l’ordinamento italiano, non ha affatto inteso rimettere in discussione il predetto orientamento, ma si è limitata a richiamare l’attenzione sui principi fondanti del nostro ordinamento, con i quali il giudice investito della domanda di riconoscimento è pur sempre tenuto a confrontarsi. A fronte degli effetti sovente innovativi della mediazione esercitata dalle carte sovranazionali ai fini dell’ingresso di istituti provenienti da altri ordinamenti, essa ha ribadito l’essenzialità del controllo sui principi essenziali della lex fori in materie presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della repubblica, affermando che «Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancor vivo: privato di venature egoistiche, che davano loro “fiato corto”, ma reso più complesso dall’intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca». Ha quindi chiarito che la sentenza straniera applicativa di un istituto non regolato dall’ordinamento nazionale, quand’anche non ostacolata dalla disciplina europea, deve misurarsi «con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale»; nel contempo, ha precisato che la valutazione di compatibilità con l’ordine pubblico non può essere limitata alla ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri ed istituti italiani, ma deve estendersi alla verifica dell’eventuale contrasto tra l’istituto di cui si chiede il riconoscimento e l’intreccio di valori e norme rilevanti ai fini della delibazione.
12.2. Viene in tal modo evidenziato un profilo importante della valutazione compatibilità, rimasto forse in ombra nelle enunciazioni di principio delle precedenti decisioni, ma dalle stesse tenuto ben presente nell’esame delle fattispecie concrete, ovverosia la rilevanza della normativa ordinaria, quale strumento di attuazione dei valori consacrati nella Costituzione, e la conseguente necessità di tener conto, nell’individuazione dei principi di ordine pubblico, del modo in cui i predetti valori si sono concretamente incarnati nella disciplina dei singoli istituti. Significativo, in proposito, risulta l’ampio excursus dedicato dalla prima delle sentenze richiamate alle norme di legge ordinaria che conferiscono rilievo all’interesse superiore del minore ed a quelle che disciplinano l’acquisto dello status di figlio e la procreazione medicalmente assistita. Così come va sottolineata l’attenzione costantemente prestata, in tema di riconoscimento dell’efficacia dei provvedimenti stranieri, all’opera di sintesi e ricomposizione attraverso la quale la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità sono pervenute all’estrapolazione dei principi fondamentali, sulla base non solo dei solenni enunciati della Costituzione e delle Convenzioni e Dichiarazioni internazionali, ma anche dell’interpretazione della legge ordinaria, che dà forma a quel diritto vivente dalla cui valutazione non può prescindersi nella ricostruzione dell’ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico. Caratteristica essenziale della nozione di ordine pubblico è infatti la relatività e mutevolezza nel tempo del suo contenuto, soggetto a modificazioni in dipendenza dell’evoluzione dei rapporti politici, economici e sociali, e quindi inevitabilmente destinato ad essere influenzato dalla disciplina ordinaria degl’istituti giuridici e dalla sua interpretazione, che di quella evoluzione costituiscono espressione, e che contribuiscono a loro volta a tenere vivi e ad arricchire di significati i principi fondamentali dell’ordinamento.
Il segnalato processo di armonizzazione tra gli ordinamenti, di cui costituisce espressione il riferimento ai valori giuridici condivisi dalla comunità internazionale, non esige d’altronde la realizzazione di un’assoluta uniformità nella disciplina delle singole materie, spettando alla discrezionalità del legislatore l’individuazione degli strumenti più opportuni per dare attuazione a quei valori, compatibilmente con i principi ispiratori del diritto interno, senza che ciò consenta di declassare automaticamente a mera normativa di dettaglio le disposizioni a tal fine adottate. In tal senso depongono anche gli artt. 64 e ss. della legge n. 218 del 1995, i quali, nel disciplinare l’ingresso nel nostro ordinamento di atti e provvedimenti formati all’estero, non prevedono affatto il recepimento degl’istituti ivi applicati, così come sono disciplinati dagli ordinamenti di provenienza, ma si limitano a consentire la produzione dei relativi effetti, nella misura in cui gli stessi risultino compatibili con la delineata nozione di ordine pubblico.
12.3. La seconda questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite può quindi essere risolta con l’enunciazione del seguente principio di diritto:
«In tema di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, richiesta dagli artt. 64 e ss. della legge n. 218 del 1995, dev’essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione delle nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico».
13. Tale profilo non ha costituito oggetto di adeguato apprezzamento da parte dell’ordinanza impugnata, la quale si è limitata a far proprie le enunciazioni di principio della sentenza n. 19599 del 2016, ritenendole suscettibili di automatica trasposizione alla fattispecie da essa esaminata, senza tener conto delle profonde differenze intercorrenti tra la stessa e quella presa in considerazione dal precedente di legittimità, ed omettendo conseguentemente di valutare il diverso modo di atteggiarsi dei principi richiamati, alla stregua della disciplina ordinaria specificamente applicabile.
La domanda proposta nel presente giudizio ha infatti ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento emesso all’estero, che ha attribuito ai minori lo status di figli di uno dei due istanti, con il quale essi non hanno alcun rapporto biologico, essendo stati generati mediante gameti forniti dall’altro, già dichiarato loro genitore con un precedente provvedimento regolarmente trascritto in Italia, con la cooperazione di due donne, una delle quali ha donato gli ovociti, mentre l’altra, in virtù di un accordo validamente stipulato ai sensi della legge straniera, ha portato avanti la gravidanza, rinunciando preventivamente a qualsiasi diritto nei confronti dei minori.
Il giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza richiamata aveva invece ad oggetto la trascrizione nei registri dello stato civile italiano di un atto di nascita formato all’estero e riguardante un minore generato da due donne, a ciascuna delle quali egli risultava legato da un rapporto biologico, in quanto una di esse lo aveva partorito, mentre l’altra aveva fornito gli ovuli necessari per il concepimento mediante procreazione medicalmente assistita.
Le due fattispecie hanno in comune il fatto che il concepimento e la nascita del minore hanno avuto luogo in attuazione di un progetto genitoriale maturato nell’ambito di una coppia omosessuale, con l’apporto genetico di uno solo dei partner, differenziandosi invece per il numero di terzi estranei (due, anziché uno) che hanno cooperato al predetto scopo, e soprattutto per il contributo fornito da uno di essi, che risulta però determinante ai fini della individuazione della disciplina applicabile.
Come rilevato da questa Corte, la tecnica fecondativa esaminata dalla precedente sentenza è assimilabile per un verso alla fecondazione eterologa, alla quale è accomunata dalla necessità dell’apporto genetico di un terzo donatore del gamete per la realizzazione del progetto genitoriale proprio di una coppia che, essendo dello stesso sesso, si trovi in una situazione analoga a quella di una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilità o infertilità assoluta e irreversibile, per altro verso alla fecondazione omologa, con la quale condivide il contributo genetico fornito da un partner all’altro nell’ambito della stessa coppia. La fattispecie non è pertanto riconducibile alla surrogazione di maternità, in quanto priva della caratteristica essenziale di tale figura, costituita dal fatto che una donna presta il proprio corpo (ed eventualmente gli ovuli necessari al concepimento) al solo fine di aiutare un’altra persona o una coppia sterile a realizzare il proprio desiderio di avere un figlio, assumendo l’obbligo di provvedere alla gestazione ed al parto per conto della stessa, ed impegnandosi a consegnarle il nascituro. E’ per tale motivo che la predetta sentenza ha potuto agevolmente escludere l’applicabilità dell’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, che vieta «la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità», comminando una sanzione penale per «chiunque, in qualsiasi forma», la «realizza, organizza o pubblicizza»; nel contempo, essa ha evidenziato la minore portata del divieto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, imposto dall’art. 5 alle coppie dello stesso sesso, osservando che, ai sensi del comma secondo dell’art. 12, lo stesso è presidiato esclusivamente da una sanzione amministrativa; ed ha dato atto della diversità della fattispecie anche dalla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per il fatto che l’ovulo è fornito dal partner della gestante, ritenendo quindi non pertinente il richiamo all’art. 9, comma terzo, della medesima legge, che, in caso di violazione del divieto di cui all’art. 4, comma terzo, preclude al donatore di gameti l’acquisizione di qualsiasi relazione giuridica parentale con il nato e la possibilità di far valere nei confronti dello stesso alcun diritto o assumere alcun obbligo.
La fattispecie che costituisce oggetto del presente giudizio è invece annoverabile a pieno titolo tra le ipotesi di maternità surrogata, caratterizzandosi proprio per l’accordo intervenuto con una donna estranea alla coppia genitoriale, che ha provveduto alla gestazione ed al parto, rinunciando tuttavia ad ogni diritto nei confronti dei nati: essa non è pertanto assimilabile in alcun modo a quella esaminata dal precedente citato, e neppure a quella che ha costituito oggetto della successiva sentenza n. 14878 del 2017, riguardante la rettifica dell’atto di nascita di un minore, formato all’estero e già trascritto in Italia, a seguito della modifica apportata dall’ufficiale di stato civile straniero, che aveva indicato il nato come figlio non solo della donna che lo aveva partorito, ma anche di un’altra donna, con essa coniugata, con cui il minore non aveva alcun legame biologico; nell’escludere la contrarietà della rettifica all’ordine pubblico, quest’ultima sentenza ha infatti equiparato la fattispecie alla fecondazione eterologa, ricordando da un lato che il divieto del ricorso a tale pratica è venuto parzialmente meno per effetto della sentenza n. 162 del 2014, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo la L. n. 40 del 2004, art. 4, comma 3, e richiamando dall’altro i principi enunciati dalla sentenza n. 19599 del 2016. Tale ragionamento non è tuttavia suscettibile di estensione al caso in esame, il cui unico punto di contatto con la fecondazione eterologa è rappresentato dall’estraneità alla coppia di uno dei soggetti che hanno fornito i gameti necessari per il concepimento, dal momento che la gestazione ed il parto non hanno avuto luogo nell’ambito della coppia, ma con la cooperazione di un quarto soggetto.
13.1. In quanto manifestatosi nelle forme tipiche della surrogazione di maternità, l’intervento di quest’ultimo rende la vicenda assimilabile a quella presa in considerazione da una più risalente sentenza, con cui questa Corte, nel pronunciare in ordine allo stato di adottabilità di un minore nato all’estero mediante il ricorso alla predetta pratica, ha ritenuto contrastante con l’ordine pubblico il riconoscimento dell’efficacia dell’atto di nascita formato all’estero, in cui erano indicati come genitori due coniugi italiani, i quali si erano avvalsi della maternità surrogata senza fornire alcun apporto biologico (cfr. Cass., Sez, I, 11/11/2014, n. 24001). Nel ribadire che l’ordine pubblico internazionale è «il limite che l’ordinamento nazionale pone all’ingresso di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna», e dunque «non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili», tale sentenza ha ritenuto pacifica l’applicabilità del divieto della surrogazione di maternità risultante dall’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, osservando che tale disposizione è certamente di ordine pubblico, come suggerisce già la previsione della sanzione penale, posta di regola a presidio di beni fondamentali; ha precisato che «vengono qui in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto, perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato»; ed ha escluso che tale divieto si ponga in contrasto con l’interesse superiore del minore, tutelato dall’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, ritenendolo espressione di una scelta non irragionevole, compiuta dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità, e volta a far sì «che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando […] all’istituto dell’adozione, realizzata con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale, piuttosto che al semplice accordo delle parti, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico».
Rispetto alla fattispecie presa in considerazione dalla predetta sentenza, quella esaminata dall’ordinanza impugnata si distingue soltanto per il fatto che la surrogazione di maternità non si è realizzata mediante gameti interamente forniti da soggetti estranei alla coppia, ma con il contributo genetico di uno dei componenti della stessa; nella specie, tuttavia, l’assenza di un legame genetico tra i minori e l’altro partner è stata ritenuta inidonea ad impedire il riconoscimento del rapporto genitoriale accertato con il provvedimento del Giudice canadese, in virtù dell’affermazione che il modello di genitorialità cui s’ispira il nostro ordinamento non è fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato. Per giungere a tale conclusione, la Corte di merito ha escluso innanzitutto la possibilità di considerare l’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004 come una norma di ordine pubblico, negando che la disciplina della procreazione medicalmente assistita costituisca espressione di principi fondamentali e costituzionalmente obbligati, non modificabili ad opera del legislatore ordinario, e ravvisandovi piuttosto «il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela dei differenti interessi fondamentali che vengono in considerazione nella materia»; ha conseguentemente ritenuto che la predetta disciplina non possa prevalere sull’interesse superiore dei minori, identificato in quello alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito allo estero, che risulterebbe pregiudicato dall’impossibilità di far valere i relativi diritti nei confronti del genitore intenzionale, nonché dalla mancata assunzione dei corrispondenti obblighi da parte di quest’ultimo.
13.2. Nella parte in cui esclude che il divieto della surrogazione di maternità costituisca un principio di ordine pubblico, il ragionamento seguito dalla Corte territoriale si pone in evidente contrasto con l’orientamento precedentemente riportato della giurisprudenza di legittimità, che assegna a tale disposizione una funzione essenziale di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, trascurando altresì le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza costituzionale, che vi ravvisa il risultato di un bilanciamento d’interessi attuato dallo stesso legislatore.
Com’è noto, infatti, la Corte costituzionale ha da tempo riconosciuto nella legge n. 40 del 2004 una legge «costituzionalmente necessaria», osservando che essa rappresenta la prima legislazione organica relativa ad un delicato settore che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa (cfr. Corte Cost., sent. n. 45 del 2005; v. anche sent. n. 151 del 2009); pur escludendo che detta legge abbia un contenuto costituzionalmente vincolato, ha affermato che le questioni da essa affrontate toccano temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio delle contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore (cfr. Corte Cost., sent. n. 347 del 1998). Premesso che “la determinazione di avere o meno un figlio, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali”, e precisato che “il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerato dall’ordinamento giuridico, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione”, la Corte da un lato ha riconosciuto che “il dato della provenienza genetica non costituisce un requisito imprescindibile della famiglia”, dall’altro ha tenuto però a chiarire che “la libertà e la volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori e di formare una famiglia, nel senso sopra precisato, di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti” (cfr. Corte Cost., sent. n. 162 del 2014). Tra questi limiti va indubbiamente annoverato il divieto della surrogazione di maternità, al quale dev’essere riconosciuta una rilevanza del tutto particolare, tenuto conto della speciale considerazione di cui la predetta pratica costituisce oggetto nell’ambito della L. n. 40: quest’ultima, infatti, nel consentire il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ivi comprese (a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014) quelle di tipo eterologo, nei casi di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, nonchè (per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 2015) nel caso di coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui alla L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 6, comma 1, lett. b), distingue nettamente tra le predette tecniche e la surrogazione di maternità, subordinando l’utilizzazione delle prime al concorso di determinate condizioni e vietando in ogni caso il ricorso alla seconda, nonchè prevedendo sanzioni di diversa gravità (rispettivamente amministrative e penali) per la violazione delle relative disposizioni. Tale diversità di regime giuridico è stata evidenziata anche dal Giudice delle leggi, che nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge in esame, nella parte in cui vietava il ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo anche nel caso in cui fosse stata diagnosticata una patologia tale da causare sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, ha tenuto a precisare che tale pronuncia non investiva in alcun modo il divieto posto dall’art. 12, comma 6 (cfr. sent. n. 162 del 2014).
Il senso di detto limite è stato chiarito dalla stessa Corte costituzionale, la quale, nel dichiarare infondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost. ed all’art. 8 della CEDU, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso, ha posto nuovamente in risalto il ruolo svolto dal divieto di cui all’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004 ai fini della regolamentazione degl’interessi coinvolti nelle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Premesso che, nonostante l’accentuato favor dimostrato dall’ordinamento per la conformità dello status di figlio alla realtà della procreazione, l’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento con gli altri interessi coinvolti, in particolare con l’interesse del minore alla conservazione dello status filiationis, e dato atto che in caso di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita il legislatore ha attribuito la prevalenza proprio a quest’ultimo interesse, dichiarando inammissibile il disconoscimento di paternità, la Corte ha rilevato che, a fianco dei casi in cui il bilanciamento è demandato al giudice, «vi sono casi nei quali la valutazione comparativa tra gli interessi è fatta direttamente dalla legge, come accade con il divieto di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa», mentre «in altri il legislatore impone, allo opposto, l’imprescindibile presa d’atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata», confermando inoltre che in quest’ultimo caso l’interesse alla verità riveste natura anche pubblica, in quanto correlato ad una pratica che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, e per tale motivo è vietata dalla legge (cfr. Corte cost., sent. n. 272 del 2017).
Non può pertanto condividersi il ragionamento seguito dalla Corte di merito, nella parte in cui, pur riconoscendo nella disposizione di cui all’art. 12, sesto comma, della legge n. 40 del 2004 il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela dei differenti interessi fondamentali che vengono in considerazione nella materia, ha preteso di sostituire la propria valutazione a quella compiuta in via generale dal legislatore, attribuendo la prevalenza all’interesse dei minori alla conservazione dello status filiationis, nonostante la pacifica insussistenza di un rapporto biologico con il genitore intenzionale. Non risulta pertinente, in proposito, il richiamo all’affermazione, contenuta nella citata sentenza n. 19599 del 2016, secondo cui le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004, imputabili agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia, non possono ricadere su chi è nato, il quale ha il diritto fondamentale, che dev’essere tutelato, alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero: tale interesse, come si è visto, è destinato ad affievolirsi in caso di ricorso alla surrogazione di maternità, il cui divieto, nell’ottica fatta propria dal Giudice delle leggi, viene a configurarsi come l’anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione, segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilità fondato sul consenso prestato alla predetta pratica, e torna ad operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell’identità genetica e biologica. Tale prevalenza, d’altronde, non si traduce necessariamente nella cancellazione dell’interesse del minore, la cui tutela, come precisato dalla Corte costituzionale, impone di prescindere dalla rigida alternativa vero o falso, tenendo conto di variabili più complesse, tra le quali assume particolare rilievo, nella specie, la presenza di strumenti legali idonei a consentire la costituzione di un legame giuridico con il genitore intenzionale, che, pur diverso da quello previsto dall’art. 8 della legge n. 40 del 2004, garantisca al minore una adeguata tutela (cfr. Corte cost., sent. n. 272 del 2017); in proposito, va richiamato soprattutto l’orientamento di questa Corte in tema di adozione in casi particolari, che, proprio facendo leva sull’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura, individua nell’art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983 una clausola di chiusura del sistema, volta a consentire il ricorso a tale strumento tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità della relazione affettiva ed educativa, all’unica condizione della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo», da intendersi non già come impossibilità di fatto, derivante da una situazione di abbandono del minore, bensì come impossibilità di diritto di procedere all’affidamento preadottivo (cfr. Cass., Sez. I, 22/06/2016, n. 12962).
13.3. Tali conclusioni non si pongono affatto in contrasto con i principi sanciti dalle convenzioni internazionali in materia di protezione dei diritti dell’infanzia, cui lo Stato italiano ha prestato adesione, ratificandole e rendendole esecutive nell’ordinamento interno, né con le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza formatasi al riguardo, e richiamata nell’ordinanza impugnata.
E’ pur vero, infatti, che le predette fonti assicurano la più ampia tutela al minore, riconoscendo allo stesso il diritto alla protezione ed alle cure necessarie per il suo benessere, impegnando gli Stati a preservarne l’identità ed a rispettarne le relazioni familiari, ed individuando, quale criterio preminente da adottare in tutte le decisioni che lo riguardino, il suo interesse superiore, nonché promuovendo la concessione delle garanzie procedurali necessarie ad agevolare l’esercizio dei suoi diritti (cfr. in particolare gli artt. 3, 8 e 9 della Convenzione di New York cit.; gli artt. 1 e 6 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con legge 20 marzo 2003, n. 77; gli artt. 8, 9, 10, 22, 23, 28 e 33 della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all’Aia il 19 ottobre 1996 e ratificata con legge 18 giugno 2015, n. 101; l’art. 24 della Carta di Nizza). Ciò non significa tuttavia che la tutela del predetto interesse non possa costituire oggetto di contemperamento con quella di altri valori considerati essenziali ed irrinunciabili dall’ordinamento, la cui considerazione può ben incidere sull’individuazione delle modalità più opportune da adottare per la sua realizzazione, soprattutto in materie sensibili come quella in esame, che interrogano profondamente la coscienza individuale e collettiva, ponendo questioni delicate e complesse, suscettibili di soluzioni differenziate. D’altronde, proprio in tema di riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione tra il minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore intenzionale, la Corte EDU ha da tempo affermato che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento sia ai fini della decisione di autorizzare o meno la predetta pratica che con riguardo alla determinazione
degli effetti da ricollegarvi sul piano giuridico, dando atto che è in gioco un aspetto essenziale dell’identità degli individui, ma rilevando che in ordine a tali questioni non vi è consenso a livello internazionale, e ritenendo comunque legittime le finalità di tutela del minore e della gestante, perseguite attraverso l’imposizione del divieto in questione. Pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, essa ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie, ravvisando soltanto una violazione del diritto al rispetto della vita privata, in relazione alla lesione dell’identità personale eventualmente derivante dalla coincidenza di uno dei genitori d’intenzione con il genitore biologico del minore (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia). Le predette violazioni non sono pertanto configurabili nel caso in cui, come nella specie, non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale né l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status finiliationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore. Nel caso esaminato da questa Corte nella sentenza n. 24001 del 2014, e riproposto dinanzi ad essa, la Corte EDU ha d’altronde escluso entrambe le violazioni, negando per un verso la configurabilità di una vita familiare, in considerazione dell’assenza di qualsiasi legame genetico o biologico tra il minore ed entrambi i genitori e della breve durata della relazione con gli stessi, e ritenendo per altro verso legittima l’ingerenza nella vita privata, concretizzatasi nell’interruzione dei rapporti con i genitori e nella dichiarazione dello stato di adottabilità, alla luce dell’illegalità della condotta tenuta dai genitori, che avevano condotto il minore in Italia senza rispettare la disciplina dell’adozione, e della conseguente precarietà della relazione in tal modo instauratasi (cfr. Corte EDU, sent. 24/01/2017, Paradiso e Campanelli c. Italia). Anche nella giurisprudenza della Corte EDU, la sussistenza di un legame genetico o biologico con il minore rappresenta dunque il limite oltre il quale è rimessa alla discrezionalità del legislatore statale l’individuazione degli strumenti più adeguati per conferire rilievo giuridico al rapporto genitoriale, compatibilmente con gli altri interessi coinvolti nella vicenda, e fermo restando l’obbligo di assicurare una tutela comparabile a quella ordinariamente ricollegabile allo status filiationis: esigenza, questa, che nell’ordinamento interno può ritenersi soddisfatta anche dal già menzionato istituto dell’adozione in casi particolari, per effetto delle disposizioni della legge n. 184 del 1983, che parificano la posizione del figlio adottivo allo stato di figlio nato dal matrimonio.
13.4. L’ultima questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite può dunque essere risolta mediante l’enunciazione del seguente principio di diritto:
«Il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dall’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983».
14. In applicazione dei predetti principi, va pertanto accolto anche il quinto motivo del ricorso proposto dal Ministero e dal Sindaco, con la conseguente cassazione dell’ordinanza impugnata, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., con il rigetto della domanda di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero.
L’incertezza delle questioni trattate, inerenti ad una materia che ha costituito oggetto di un dibattito dottrinale e giurisprudenziale assai vivace e tuttora in evoluzione, giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi del giudizio.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Trento; rigetta il primo motivo del ricorso proposto dal Ministero dell’interno e dal Sindaco di Trento; accoglie il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo; cassa l’ordinanza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa integralmente le spese processuali.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di [ R.M. ] [ R.R. ] [ C.M. ] [ A.M. ] riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma il 6/11/2018
Allegati:
SS.UU, 08 maggio 2019, n. 12193, in tema di maternità surrogata
In tema di maternità surrogata – SS.UU, 30 dicembre 2022, n. 38162
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA
sul ricorso iscritto al N. R.G. 30401/2018 proposto da:
MINISTERO DELL’INTERNO e SINDACO DEL COMUNE DI VERONA, quest’ultimo nella qualità di ufficiale di Governo, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio presso gli Uffici di questa in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– ricorrenti –
contro
A.A., e B.B., in proprio e quali genitori del minore C.C., rappresentati e difesi dall’Avvocato —;
– controricorrenti e ricorrenti in via incidentale –
e nei confronti di:
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI VENEZIA;
– intimato –
per la cassazione dell’ordinanza della Corte d’appello di Venezia n. 6775/2018, depositata il 16 luglio 2018.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’8 novembre 2022 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Finocchi Ghersi Renato, che ha concluso per il rigetto del primo, del secondo e del terzo motivo del ricorso principale e dell’unico motivo del ricorso incidentale nonché per l’accoglimento del quarto motivo del ricorso principale.
Svolgimento del processo
1. – Il caso che ha dato origine al giudizio riguarda un bambino nato all’estero da maternità surrogata.
In base al progetto procreativo condiviso dalla coppia omoaffettiva, uno dei due uomini ha fornito i propri gameti, che sono stati uniti nella fecondazione in vitro con l’ovocita di una donatrice.
L’embrione è stato poi trasferito nell’utero di una diversa donna, non anonima, che ha portato a termine la gravidanza e partorito il bambino.
I due uomini, entrambi di cittadinanza italiana, si sono uniti in matrimonio in Canada e l’atto è stato trascritto in Italia nel registro delle unioni civili.
Il bambino, di nome C.C., è nato nel (Omissis).
Quando il bambino è venuto alla luce, le autorità canadesi hanno formato un atto di nascita che indicava come genitore il solo padre biologico, A.A., mentre non sono stati menzionati né il padre intenzionale, B.B., né la madre surrogata, né la donatrice dell’ovocita.
Accogliendo il ricorso della coppia, nel 2017 la Corte Suprema della British Columbia ha dichiarato che entrambi i ricorrenti devono figurare come genitori del bambino e ha disposto la corrispondente rettifica dell’atto di nascita in Canada.
Costoro, sulla base del provvedimento della Corte Suprema della British Columbia, hanno chiesto all’ufficiale di stato civile italiano di rettificare anche l’atto di nascita del bambino in Italia, che indicava come genitore il solo padre biologico.
L’ufficiale di stato civile ha rifiutato la richiesta, sia perché esisteva già un atto di nascita trascritto, sia per l’assenza di dati normativi certi e di precedenti favorevoli da parte della giurisprudenza di legittimità.
2. – In seguito al rifiuto opposto alla loro richiesta, A.A. e B.B. hanno proposto ricorso ex art. 702-bis c.p.c. alla Corte d’appello di Venezia.
Con tale atto i ricorrenti hanno chiesto, a norma della L. n. 218 del 1995, art. 67 il riconoscimento del provvedimento canadese in Italia. Essi hanno sottolineato la non contrarietà all’ordine pubblico del suddetto provvedimento canadese, già passato in giudicato, e la liceità delle condotte che hanno determinato la nascita del bambino secondo le leggi del Paese in cui sono state poste in essere.
L’Avvocatura dello Stato si è costituita per il Sindaco del Comune di Verona, nella qualità di ufficiale del Governo, e per il Ministero dell’interno, sollevando l’eccezione preliminare d’inammissibilità della domanda per contrarietà all’ordine pubblico.
Il Pubblico Ministero è intervenuto opponendosi all’accoglimento del ricorso.
3. – Con ordinanza del 16 luglio 2018, la Corte d’appello di Venezia, in accoglimento del ricorso, ha accertato che la sentenza emessa dalla Suprema Corte della British Columbia in data 8 settembre 2017 – che ha dichiarato A.A. e B.B. quali genitori di C.C., nato il (Omissis) – possiede i requisiti per il riconoscimento a norma della L. n. 218 del 1995, art. 67.
Secondo la Corte territoriale veneziana, la circostanza che nel sistema delle fonti interne non sia previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso, e quindi che non sia concesso di attribuire automaticamente ad entrambi la responsabilità genitoriale del minore nato dalla procreazione medicalmente assistita, si risolve nell’evidenza di una diversità di discipline sostanziali, ma non è di per sé indice dell’esistenza di un principio superiore, fondante e irrinunciabile, dell’assetto costituzionale italiano o dell’ordinamento dell’Unione Europea.
La Corte d’appello ha rilevato che rientra tra i diritti fondamentali la tutela del superiore interesse del minore in ambito interno e internazionale, come sancita dalle convenzioni internazionali.
L’ordine pubblico internazionale – ha sottolineato la Corte di Venezia – impone di assicurare al minore la conservazione dello status e dei mezzi di tutela di cui egli possa validamente giovarsi in base alla legislazione nazionale applicabile, in particolare del diritto al riconoscimento dei legami familiari ed al mantenimento dei rapporti con chi ha legalmente assunto il riferimento della responsabilità genitoriale.
Né – ha proseguito la Corte lagunare – può ricondursi all’ordine pubblico la previsione che il minore debba avere genitori di sesso diverso, posto che nel nostro ordinamento è contemplata la possibilità che il minore abbia due figure genitoriali dello stesso sesso nel caso in cui uno dei genitori abbia ottenuto la rettificazione dell’attribuzione del sesso.
Quanto al divieto di ricorrere alla pratica della surrogazione di maternità, di cui alla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, la Corte d’appello ha osservato che le scelte del legislatore italiano sono frutto di discrezionalità e non esprimono principi fondanti a livello costituzionale che impegnino l’ordine pubblico. Non potrebbe ritenersi rilevante la sanzione penale comminata dal citato art. 12, comma 6, che punisce chiunque, in qualsiasi forma, realizzi, organizzi o pubblicizzi la maternità surrogata, dato che il divieto e la sanzione penale non si sovrappongono alla valutazione del miglior interesse del minore concepito all’estero con tali tecniche, il quale non potrebbe essere privato dello status legittimamente acquisito nel Paese in cui è nato.
4. – Per la cassazione dell’ordinanza della Corte d’appello hanno proposto ricorso, con atto notificato il 15 ottobre 2018, il Ministero dell’interno e il Sindaco di Verona, nella qualità di ufficiale del Governo, sulla base di quattro motivi.
A.A. e B.B., in proprio e quali esercenti la responsabilità genitoriale sul minore C.C., hanno resistito con controricorso. I controricorrenti hanno proposto altresì ricorso incidentale affidato ad un unico motivo, condizionato all’accoglimento di uno o più motivi del ricorso principale.
5. – Con il primo motivo del ricorso principale, il Ministero e il Sindaco deducono il difetto assoluto di giurisdizione, a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, in quanto nell’ordinamento giuridico nazionale non esisterebbe una norma che legittimi una piena bigenitorialità omosessuale.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 95 del D.P.R. n. 396 del 2000, essendo competente in materia il Tribunale in primo grado. La Corte d’appello – sostiene la difesa erariale – avrebbe erroneamente ritenuto oggetto del procedimento il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero nell’ordinamento italiano, laddove i ricorrenti hanno richiesto la trascrizione dell’atto di nascita straniero ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 28, comma 2, lett. e), impugnando il provvedimento con cui l’ufficiale di stato civile aveva rifiutato di trascrivere il provvedimento giurisdizionale canadese. Verrebbe dunque in rilievo un’opposizione al rifiuto di trascrizione che, a norma del citato art. 95, è proponibile con ricorso innanzi al Tribunale. Il terzo motivo censura la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello omesso di pronunciare sull’eccezione di difetto di legittimazione del padre intenzionale, B.B., a rappresentare il minore.
Con il quarto motivo il Ministero e il Sindaco di Verona denunciano la violazione e la falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, artt. 16 e 65, del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18, della L. n. 40 del 2004, art. 5 e art. 12, commi 2 e 6, in quanto l’ordinanza impugnata confliggerebbe con vari principi fondanti l’ordine pubblico, tra cui la nozione di filiazione intesa nell’ordinamento italiano quale discendenza da persone di sesso diverso, come disciplinata dalle norme in materia di fecondazione assistita, anche eterologa, nonché con il divieto di maternità surrogata, fattispecie costituente reato secondo la legge italiana.
6. – L’unico motivo del ricorso incidentale condizionato denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. e della L. n. 218 del 1995, art. 67 per avere erroneamente la Corte d’appello considerato il Ministero e il Sindaco legittimati passivi. Ad avviso dei ricorrenti in via incidentale condizionata, il Ministero non avrebbe competenze in materia di stato civile, mentre il Sindaco non sarebbe titolare di un interesse proprio rispetto all’istanza di trascrizione.
7. – Investita di tali ricorsi, la Prima Sezione civile ha preso atto che nel frattempo era stata depositata la sentenza delle Sezioni Unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, la quale ha affermato il principio secondo cui non può essere riconosciuto nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra un bambino nato in seguito a maternità surrogata e il genitore d’intenzione. Secondo le Sezioni Unite, tale riconoscimento trova infatti ostacolo insuperabile nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione. Secondo le Sezioni Unite, la tutela del nato non si realizza attraverso l’automatica trascrizione dei provvedimenti stranieri che riconoscono lo stato di filiazione, ma mediante il ricorso del genitore d’intenzione all’adozione in casi particolari, prevista dalla L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d).
Tuttavia, la Prima Sezione di questa Corte ha dubitato della compatibilità di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con una pluralità di parametri costituzionali; pertanto, con ordinanza 29 aprile 2020, n. 8325, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la L. n. 176 del 1991, e all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) – questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. g), e del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 18 nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento, nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestazione per altri, del genitore d’intenzione non biologico.
A sostegno dell’incidente di costituzionalità, l’ordinanza di rimessione ha richiamato, in particolare, il parere consultivo della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo, reso su richiesta della Corte di Cassazione francese il 10 aprile 2019. Con esso la Grande Camera ha ricondotto al principio del rispetto della vita privata e familiare, e dunque all’art. 8 della CEDU, il diritto del minore a ottenere il riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione, precisando ulteriormente che il margine di apprezzamento spettante alle autorità nazionali che in questi casi si oppongano alla trascrizione del provvedimento straniero, imponga comunque l’alternativa attivazione di strumenti giuridici diversi ma egualmente garantistici nei confronti del bambino, quale è stata ritenuta l’adozione da parte del genitore d’intenzione.
8. – La Corte costituzionale, con sentenza n. 33 del 2021, ha dichiarato inammissibile la questione. Premesso che l’interesse del minore deve essere bilanciato, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore, la Corte costituzionale ha sottolineato che il punto di equilibrio raggiunto dalla Corte EDU (che ha riconosciuto agli Stati ampi margini di discrezionalità nell’individuare i modi attraverso i quali formalizzare il rapporto di genitorialità intenzionale, ferma restando la necessità di riconoscimento del legame di filiazione con entrambi i componenti della coppia che di fatto si prende cura del bambino) è corrispondente all’insieme dei principi della Costituzione italiana. Tali principi, se per un verso non ostano alla soluzione della non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero di riconoscimento della doppia genitorialità ai componenti della coppia (eterosessuale od omosessuale) che abbia fatto ricorso all’estero alla maternità surrogata, per l’altro verso impongono che, in tali casi, sia comunque assicurata tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del legame con coloro che esercitano di fatto la responsabilità genitoriale.
L’adozione in casi particolari non appare ancora del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali, dal momento che essa non attribuisce la genitorialità all’adottante e richiede il necessario assenso del genitore biologico, che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia.
Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – ha rilevato la Corte – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore. A tal fine, quest’ultimo – quale titolare di un significativo margine di manovra, a fronte di un ventaglio di opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica – deve farsi carico di una disciplina che assicuri una piena tutela degli interessi del minore, in modo più aderente alle peculiarità della situazione, che sono assai diverse da quelle dell’adozione in casi particolari, prevista dalla L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d).
9. – Ripreso il giudizio dinanzi a questa Corte, la Prima Sezione civile, con ordinanza 21 gennaio 2022, n. 1842, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
L’ordinanza della Sezione sostiene che, in assenza di un intervento innovativo del legislatore, è necessario partire da una rivalutazione degli strumenti normativi esistenti (delibazione e trascrizione) per verificare se sussista un insuperabile ostacolo alla loro utilizzazione derivante dalla natura di ordine pubblico del divieto di maternità surrogata.
Tale ostacolo, ad avviso della Sezione rimettente, non sussisterebbe, a condizione che siffatti strumenti non operino automaticamente e che la compatibilità della delibazione o della trascrizione con i valori sottesi al divieto di surrogazione sia compiuto non in astratto, ma con riferimento ad ogni singolo caso concreto, sia pure alla luce di criteri che abbiano validità generale ed in base ad un bilanciamento dei valori in conflitto ispirato a principi di proporzionalità e ragionevolezza, senza che vi sia un’aprioristica definizione di prevalenza di un interesse in gioco.
L’ordinanza di rimessione ha posto, in particolare, i seguenti quesiti, afferenti al quarto motivo del ricorso principale:
– se la sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2021, accertando l’inidoneità del ricorso in questa materia all’adozione in casi particolari, abbia determinato il superamento del diritto vivente rappresentato dalla sentenza n. 12193 del 2019 delle Sezioni Unite;
– se la non attuazione del monito rivolto al legislatore dalla stessa sentenza n. 33 del 2021 abbia determinato di conseguenza un vuoto normativo;
– se, ed eventualmente come, sia superabile in via interpretativa tale situazione di vuoto normativo, non potendosi più il giudice, sia di merito che di legittimità, riferire al preesistente diritto vivente che, in base alla motivazione della sentenza della Corte Costituzionale, non sarebbe idoneo a impedire la lesione dei diritti fondamentali del minore a causa del generale mancato riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore d’intenzione e nello stesso tempo per l’inadeguatezza della soluzione offerta dall’istituto di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d);
– se una possibile interpretazione adeguatrice, consentita alle Corti, possa consistere nel configurare la valutazione del conflitto del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione con l’ordine pubblico internazionale, spettante al giudice investito della richiesta di delibazione, come valutazione legata al singolo caso in esame, secondo criteri di inerenza, proporzionalità e ragionevolezza per come affermati dalla giurisprudenza costituzionale, specificamente nell’ottica della ricerca della soluzione ottimale in concreto per l’interesse del minore;
– se in tale valutazione il giudice debba mettere a confronto, in concreto, l’interesse del minore a che vengano rispettati i suoi diritti fondamentali alla identità personale e alla vita familiare con la tutela della dignità della donna coinvolta nel processo procreativo mediante gestazione per altri, con la prevenzione di qualsiasi attentato che, sempre in concreto, possa derivare dal riconoscimento all’istituto dell’adozione, con la legittima aspirazione dello Stato a scoraggiare pratiche elusive del divieto di surrogazione di maternità;
– se i criteri generali indicati nella ordinanza di rimessione (adesione libera consapevole e non determinata da necessità economiche da parte della donna alla gestazione; revocabilità del consenso alla rinuncia all’instaurazione del rapporto di filiazione sino alla nascita del bambino; necessità di un apporto genetico alla procreazione da parte di uno dei due genitori intenzionali; valutazione in concreto degli effetti dell’eventuale diniego del riconoscimento sugli interessi in conflitto), eventualmente in aggiunta o combinazione con altri criteri generali, debbano o possano assumere il ruolo di una direttiva nell’interpretazione cui debba attenersi il giudice del merito;
– se infine derivi anche dal diritto dell’Unione Europea un limite alla possibilità di non riconoscere lo status filiationis acquisito all’estero da un minore cittadino italiano nato da gestazione per altri legalmente praticata nello Stato di nascita nella misura in cui tale disconoscimento comporti la perdita dello status e limiti la sua libertà di circolazione e di esplicazione dei suoi legami familiari nel territorio dell’Unione.
10. – Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione dei ricorsi alle Sezioni Unite e ha fissato per la discussione l’udienza pubblica dell’8 novembre 2022.
Non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale, i ricorsi sono stati trattati in camera di consiglio, senza l’intervento del Procuratore Generale e delle parti, in base alla disciplina dettata dal D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 176 del 2020, e dal D.L. n. 228 del 2021, art. 16, comma 1, convertito dalla L. n. 15 del 2022.
11. – In prossimità della camera di consiglio il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.
L’Ufficio del Procuratore Generale ha chiesto che la questione proposta dalla Prima Sezione venga risolta escludendo la sussistenza di un vuoto normativo come prefigurato nell’ordinanza interlocutoria e riaffermando il principio statuito dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019, con l’ulteriore espressa indicazione delle modifiche derivanti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 79 del 2022 in relazione alla disciplina dell’adozione in casi particolari.
12. – Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. – L’ordinamento italiano non consente il ricorso ad operazioni di maternità surrogata. L’accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente a “reclamare diritti” sul bambino che nascerà, non ha cittadinanza nel nostro ordinamento. Tale pratica è vietata in assoluto, sotto minaccia di sanzione penale, dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6. Il divieto è presidiato dalla reclusione e dalla multa per “chiunque, in qualsiasi forma”, la “realizza, organizza o pubblicizza”.
Le istanze di genitorialità, nondimeno, si rivelano difficilmente comprimibili. Il divieto di gestazione per altri non argina il progetto di diventare genitori. L’esistenza del divieto in Italia induce molti cittadini, quando supportati da una adeguata disponibilità economica, a ricorrere alla surrogazione di maternità all’estero, nei Paesi che hanno regolamentato e consentito questa tecnica di procreazione.
Il contesto internazionale è alquanto frastagliato sulla legittimità del ricorso alla gestazione per altri. Il panorama comparato offre indicazioni non omogenee sia sui limiti di liceità di questa pratica sia, dove essa è vietata, sulle scelte sanzionatorie, che possono andare dall’ampia criminalizzazione, alla limitazione della rilevanza penale alle forme di surrogazione di tipo commerciale, alla previsione di sole sanzioni amministrative.
La regolamentazione permissiva presente in alcuni Paesi stranieri favorisce, appunto, il turismo procreativo di cittadini italiani che si recano all’estero al fine di ottenere, nel rispetto della lex loci, ciò che in Italia è vietato. Coppie con problemi di sterilità femminile o coppie omosessuali che intendono accedere alla filiazione vanno all’estero per realizzare là dove è consentito il progetto procreativo proibito nel nostro Paese.
Ogni qualvolta la surrogazione di maternità è praticata all’estero, la questione dello status del nato da maternità surrogata fuoriesce dal perimetro dell’ordinamento interno e si traduce nel problema del riconoscimento in Italia della genitorialità acquisita al di fuori dei confini nazionali.
Si pone il problema del riconoscimento dello status genitoriale ottenuto all’estero in virtù di norme più liberali di quelle italiane in materia di procreazione medicalmente assistita.
Entra in campo il limite dell’ordine pubblico internazionale.
2. – Rispondere al quesito se possa essere riconosciuto lo stato di figlio nei confronti del genitore intenzionale non genetico, è un problema complesso per una pluralità di ragioni. Innanzitutto, perché alla configurazione della surrogazione di maternità come reato non si accompagna alcuna espressa disposizione normativa sullo status del minore comunque nato da detta pratica (in Italia o) all’estero. La legge non regola la sorte del nato malgrado il divieto. Secondariamente, perché la surrogazione all’estero in conformità della legge ivi vigente da parte di cittadini italiani non può essere ricondotta all’illecito penale di cui al citato art. 12, comma 6. La norma incriminatrice non intercetta le condotte commesse fuori dal territorio dello Stato, essendo il fatto tipico di surrogazione di maternità contrassegnato da un forte radicamento al territorio nazionale.
In terzo luogo, perché vengono in rilievo e si confrontano diversi interessi.
Da un lato, si pone l’esigenza di salvaguardare i principi ispiratori dell’ordinamento giuridico italiano in una materia di rilevante sensibilità sul piano etico, che mette in gioco il valore fondamentale della dignità umana, alla quale è preordinato il divieto di ricorso alla maternità surrogata posto da una legge della Repubblica. Nella gestazione per altri non ci sono soltanto i desideri di genitorialità, le aspirazioni e i progetti della coppia committente. Ci sono persone concrete. Ci sono donne usate come strumento per funzioni riproduttive, con i loro diritti inalienabili annullati o sospesi dentro procedure contrattuali. Ci sono bambini esposti a una pratica che determina incertezze sul loro status e, quindi, sulla loro identità nella società.
L’esigenza di salvaguardare i valori ispiratori dell’ordinamento italiano si traduce in una finalità general-preventiva: scoraggiare i cittadini dal ricorso all’estero ad un metodo di procreazione che l’Italia vieta nel suo territorio, perché ritenuto lesivo di valori primari.
Dall’altro lato, si profila, una volta che il bambino è nato, l’esigenza di proteggere il diritto fondamentale del minore alla continuità del rapporto affettivo con entrambi i soggetti che hanno condiviso la decisione di farlo venire al mondo, senza che vi osti la modalità procreativa. Il bambino avrebbe certamente il diritto di essere allevato dalla madre che lo ha partorito; ma è constatazione diffusa che la donna che porta una gravidanza solo per adempiere un obbligo contrattuale assunto verso i committenti spesso non ha alcuna reale intenzione di svolgere la funzione materna. Potrebbe sempre cambiare idea, e proprio per disincentivare ciò è prassi comune che l’embrione sia formato con l’ovocita di un’altra donna. Ma se non ci ripensa, non è nell’interesse del nato far valere nei confronti della madre gestante il suddetto diritto per ottenerne una qualche esecuzione specifica.
Questo spiega perché l’interesse del minore che vive e cresce in una determinata comunità di affetti con entrambi i committenti può essere quello del riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico di tale legame.
Allorché il progetto procreativo sia seguito dalla concretezza ed attualità dell’accudimento del minore e sia caratterizzato dall’esercizio in via di fatto della responsabilità genitoriale attraverso la cura costante del bambino, la mancata attribuzione di una veste giuridica a tale rapporto non si limiterebbe alla condizione del genitore d’intenzione, che ha scelto un metodo di procreazione che l’ordinamento italiano disapprova, ma finirebbe con il pregiudicare il bambino stesso, il cui diritto al rispetto della vita privata si troverebbe significativamente leso.
C’è una parte debole del rapporto che potrebbe risultare fortemente danneggiata pur senza alcuna responsabilità.
Una discriminazione del bambino, fatta derivare dallo stigma verso la decisione dell’adulto di aver fatto ricorso a una tecnica procreativa vietata nel nostro ordinamento, si risolverebbe in una violazione del principio di eguaglianza e di pari dignità sociale, ponendo a carico del nato conseguenze riconducibili unicamente alle scelte di chi ha concepito la sua nascita.
Il nato non è mai un disvalore e la sua dignità di persona non può essere strumentalizzata allo scopo di conseguire esigenze general-preventive che lo trascendono. Il nato non ha colpa della violazione del divieto di surrogazione di maternità ed è bisognoso di tutela come e più di ogni altro. Non c’è Spazio per piegare la tutela del bambino alla finalità dissuasiva di una pratica penalmente sanzionata. Il disvalore della pratica di procreazione seguita all’estero non può ripercuotersi sul destino del nato. Occorre separare la fattispecie illecita (il ricorso alla maternità surrogata) dagli effetti che possono derivarne sul rapporto di filiazione e in particolare su chi ne sia stato in qualche modo vittima.
Del resto, quando si ha a che fare con i diritti delle persone, l’interpretazione deve essere improntata ad un senso di umanità. La Costituzione “non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti” (Corte Cost., sentenza n. 494 del 2002) e non consente una capitis deminutio perpetua e irrimediabile dei diritti del bambino, come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti. Da tempo la Corte costituzionale reputa costituzionalmente necessario non condizionare negativamente, men che mai in termini automatici e presuntivi, la condizione giuridica del figlio in ragione del disvalore che la legge attribuisce alla condotta dei genitori, come in caso di incesto (sentenza n. 494 del 2002, cit.) o di alterazione o soppressione di stato (sentenza n. 102 del 2020).
3. – La questione di massima di particolare importanza rimessa all’esame delle Sezioni Unite si colloca in quest’ambito: riguarda lo stato civile di un bambino nato in Canada attraverso la pratica della maternità surrogata, alla quale ha fatto ricorso una coppia di uomini, cittadini italiani, uniti in matrimonio in Canada, con atto poi trascritto in Italia nel registro delle unioni civili. Il bambino, frutto di un disegno genitoriale comune, ha già conseguito nel Paese di nascita lo stato giuridico di figlio di entrambi i suoi genitori.
Si controverte se sia possibile dare effetto nell’ordinamento italiano al provvedimento giurisdizionale straniero – della Supreme Court della British Columbia – che ha riconosciuto come genitore del bambino non solo il padre biologico, che ha fornito i propri gameti, ma anche l’altra persona, il genitore d’intenzione, che ha condiviso con il partner il percorso che ha portato al concepimento e alla nascita pur senza fornire il proprio apporto genetico.
E’, quindi, in discussione il legame di filiazione con il componente della coppia omoaffettiva che non ha con il bambino un rapporto di sangue ma che, avendo condiviso con il padre biologico il disegno di genitorialità, risulta comunque genitore sulla base di un atto legittimamente formato da un’autorità giurisdizionale straniera.
L’interrogativo riguarda, pertanto, la possibilità di riconoscere o meno il provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che ha concorso nella scelta di ricorrere alla surrogazione di maternità, senza fornire i propri gameti, in un caso nel quale la gestante ha confermato, dopo il parto, la volontà di non voler divenire madre e di riconoscere altri come genitori del nato.
In altri termini, non è in discussione il rapporto di filiazione con il padre biologico. Difatti, nel caso di specie, l’originario atto di nascita canadese, che riportava un solo genitore – il padre che ha fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata -, è stato trascritto nei registri di stato civile italiani.
E’ invece controversa la trascrizione della co-genitorialità del padre d’intenzione, che insieme al padre biologico ha voluto la nascita del bambino, ricorrendo alla surrogazione di maternità nel Paese estero in conformità della lex loci.
Si tratta di stabilire se il divieto di ricorrere alla gestazione per altri, previsto dalla legislazione italiana in materia di procreazione medicalmente assistita, precluda o meno la possibilità di estendere il riconoscimento della genitorialità anche al partner che, pur privo di un legame genetico con il minore, ha condiviso il percorso che ha condotto al concepimento e alla nascita nel territorio di uno Stato dove la maternità surrogata non è contraria alla legge, e che ha quindi portato il bambino in Italia, per poi qui prendersene quotidianamente cura.
La questione rimessa alle Sezioni Unite consiste nel precisare se sia o meno contrario all’ordine pubblico internazionale il provvedimento giurisdizionale straniero; se sia trasferibile nell’ordinamento interno la formalizzazione del legame con il genitore intenzionale sancita nel provvedimento straniero; ancora, se l’adozione in casi particolari costituisca o meno l’unico strumento compatibile con l’ordine pubblico e idoneo ad instaurare un legame giuridico tra il nato all’estero da gestazione per altri e il genitore intenzionale.
4. – La questione di massima riguarda un tema che è già stato affrontato, di recente, dalle Sezioni Unite.
4.1. – Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12193 del 2019, hanno giudicato contrario all’ordine pubblico internazionale il provvedimento che riconosce il rapporto filiale con il genitore intenzionale del bambino nato da maternità surrogata. La Corte, nella sua composizione allargata, ha stabilito che, per inquadrare giuridicamente il rapporto affettivo e sociale sussistente tra il minore e il genitore intenzionale, considerato padre a pieno titolo sin dalla nascita del bambino nel Paese in cui le pratiche procreative sono state poste in essere, l’ordinamento italiano offre la possibilità del ricorso all’adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d): una soluzione che non opera fin dalla nascita, ma solo dal momento in cui l’adozione è pronunciata.
Ciò implica, in concreto, che il padre genetico viene riconosciuto come tale, mentre l’altro componente della coppia può ricorrere all’adozione in casi particolari.
Il rifiuto del riconoscimento per quest’ultimo è stato fondato sul rilievo che il divieto di surrogazione di maternità, sancito dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, integra un principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione.
Le Sezioni Unite hanno escluso che esista, nell’ordinamento italiano, un modello di genitorialità, diverso dall’adozione, alternativo a quello fondato sul legame biologico tra genitore e figlio. Hanno affermato che la tutela del concreto ed effettivo interesse del minore si realizza mediante la possibilità dell’adozione in casi particolari da parte del genitore d’intenzione. Attraverso l’adozione si salvaguarda la continuità della relazione affettiva ed educativa eventualmente instauratasi.
Con tale pronuncia, le Sezioni Unite hanno quindi individuato le modalità attraverso le quali l’ordinamento italiano consente di soddisfare l’interesse confliggente che viene ad essere compresso per effetto del diniego di riconoscimento della situazione costituita all’estero in violazione di un divieto che deve ritenersi presentare carattere di ordine pubblico. L’adozione in casi particolari rappresenta il mezzo attraverso il quale il rapporto di filiazione costituito all’estero tra il minore e il padre di intenzione potrebbe ricevere continuità nel nostro ordinamento.
4.2. – Sul diritto vivente formatosi a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite è intervenuta, in questo stesso giudizio, la Corte costituzionale, chiamata a verificare la costituzionalità delle norme che impediscono al partner del genitore biologico del minore concepito all’estero con metodiche di maternità surrogata di acquisirne la genitorialità legale sin dalla nascita.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 33 del 2021, ha ammesso che il ricorso alla adozione particolare può non essere completamente adeguato rispetto alla piena tutela degli interessi del minore; ha sottolineato che, comunque, l’interesse del bambino non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto ad ogni altro controinteresse in gioco, quale lo scopo legittimo perseguito dal legislatore di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità; ha sottolineato che è “indiscutibile” l’interesse del bambino al “riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico” del legame con il genitore intenzionale “a tutti i fini che rilevano per la vita del bambino stesso”, escludendo che tale interesse possa ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore biologico.
Il Giudice delle leggi ha ritenuto che il possibile ricorso all’adozione in casi particolari “costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali“.
La Corte costituzionale ha elencato le insufficienze che la disciplina dell’adozione in casi particolari presenta nella tutela dei diritti fondamentali del bambino. “L’adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialità all’adottante. Inoltre, pur a fronte della novella dell’art. 74 c.c., (…) è ancora controverso (…) se anche l’adozione in casi particolari consenta di stabilire vincoli di parentela tra il bambino e coloro che appaiono socialmente, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l’adottante abbia già altri figli propri. Essa richiede inoltre, per il suo perfezionamento, il necessario assenso del genitore biologico (…), che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce per essere così definitivamente privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall’inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto preso cura di lui sin dal momento della nascita“.
Nello stesso tempo, la Corte costituzionale ha riconosciuto che spetta, “in prima battuta”, al legislatore “il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata“, “nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori“.
Al legislatore “deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco“. “Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica“, la Corte costituzionale – si legge nella sentenza n. 33 del 2021 – “non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore”.
5. – L’ordinanza di rimessione della questione di massima pone un problema di effettività della tutela.
La Prima Sezione ha riscontrato un deficit di tutela a seguito della pronuncia della Corte costituzionale che, avendo rilevato l’inadeguatezza dello strumento dell’adozione in casi particolari, ha sollecitato il legislatore ad intervenire.
In mancanza di un intervento del Parlamento, il Collegio rimettente si è rivolto a questa composizione allargata della Corte di cassazione per sollecitare una rimeditazione della soluzione elaborata dalle Sezioni Unite con la sentenza del 2019.
Secondo l’ordinanza di rimessione, si sarebbe aperto, dopo la sentenza della Corte costituzionale, un vuoto normativo.
Non sarebbe più in linea con la pronuncia del Giudice costituzionale la lettura della clausola di ordine pubblico come precostituita da una valutazione generale e aprioristica del legislatore tale da comportare, con la prevalenza della finalità antielusiva sull’interesse del minore, il diniego del riconoscimento dello status filiationis.
Il Collegio della Prima Sezione propone una nuova interpretazione del sistema normativo, che consenta una tutela adeguata dei diritti del minore e, nel contempo, salvaguardi i valori sottesi al divieto penale di surrogazione di maternità.
L’ordinanza interlocutoria auspica una riconsiderazione del limite dell’ordine pubblico delineato dalle Sezioni Unite: una rimeditazione dell’approdo a cui questa Corte è pervenuta al fine di garantire nei giudizi di delibazione, nel contesto di dialogo tra le Corti, una valutazione del singolo caso intesa a non incidere sui diritti inviolabili del minore.
Nell’ordinanza di rimessione si sostiene che con la delibazione del provvedimento giurisdizionale canadese si recepisce nel nostro ordinamento non l’accordo di maternità surrogata e tanto meno la legittimità di una pratica procreativa assistita dal divieto penale. Ad essere riconosciuto efficace sarebbe, piuttosto, l’atto di assunzione di responsabilità genitoriale da parte del soggetto che ha deciso di essere coinvolto, prestando il suo consenso, nella decisione del partner di ricorrere alla tecnica di procreazione medicalmente assistita in questione.
Ad avviso del Collegio remittente, non è in discussione un preteso diritto alla genitorialità, ma l’interesse del minore a che sia affermata la titolarità giuridica di quel fascio di doveri che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio della responsabilità genitoriale.
Si tratterebbe di dare efficacia in Italia a un riconoscimento del rapporto di filiazione che è già avvenuto nell’ordinamento in cui il minore è nato per dare continuità al suo status e ai suoi diritti nei confronti dei soggetti responsabili della sua nascita, evitando così i gravi pregiudizi che deriverebbero dalla rimodulazione della sua identità e dalla eliminazione di una figura genitoriale.
Il bilanciamento tra i diritti del bambino e la tutela della dignità della donna, secondo l’interpretazione proposta dalla Prima Sezione, non andrebbe fatto in astratto, ma dovrebbe tener conto del singolo caso in esame, secondo criteri di inerenza, proporzionalità e ragionevolezza, considerando anche la multiforme realtà della surrogazione.
In quest’ambito, anche la natura dell’accordo di surrogazione dovrebbe essere soggetta a specifica verifica, dovendosi accertare se la gestazione per altri sia frutto di scelta libera e consapevole e non di necessità economiche, se l’accordo sia stato realizzato nel rispetto delle prescrizioni legali del Paese estero, se ci sia un legame genetico con uno dei genitori.
In particolare, l’ordinanza sottolinea che la donna che accetta di portare a termine una gravidanza anche nella prospettiva di non diventare la madre del bambino che partorirà sarebbe in una condizione che può essere considerata non lesiva della sua dignità quando alla base vi sia una scelta libera e consapevole, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino.
Secondo l’ordinanza interlocutoria, per un verso la centralità nel riconoscimento dello status filiationis del diritto all’identità del minore e al godimento pieno della vita familiare, desumibile dalla sentenza “monitoria” n. 33 del 2021 della Corte costituzionale, porrebbe questi diritti in posizione di preminenza rispetto al disvalore per la gestazione per altri e consentirebbe, a determinate condizioni, di superare il carattere invalicabile di limite di ordine pubblico così come disegnato nel 2019 dalle Sezioni Unite, valutando caso per caso anche la tipologia di accordo gestazionale.
Per l’altro verso, l’ordinanza interlocutoria ritiene che l’attentato all’istituto dell’adozione sia scongiurato quando manca la prova di una mercificazione. Si richiama, al riguardo, la sentenza delle Sezioni Unite n. 9006 del 2021, che ha ritenuto compatibile con l’ordine pubblico internazionale la domanda di trascrizione di un atto di nascita proveniente da una sentenza estera di adozione ancorché fondata sul consenso dei genitori biologici.
L’ordinanza di rimessione affida alle Sezioni Unite la ricerca di un nuovo punto di equilibrio fra la ribadita contrarietà all’ordine pubblico internazionale del recepimento nel nostro ordinamento degli accordi di maternità surrogata e la tutela dei diritti fondamentali del minore affermati dalle Corti Europee, in armonia con la giurisprudenza della Corte costituzionale.
6. – Queste Sezioni Unite ritengono che la sentenza della Corte costituzionale non abbia determinato alcun vuoto normativo.
La Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale delle norme che non consentono, rispetto al genitore non biologico, la trascrizione dell’atto di nascita del bambino nato all’estero a seguito di un contratto di maternità surrogata, ha invitato il legislatore – per garantire il riconoscimento giuridico del legame di filiazione con il bambino – a disciplinare un procedimento di adozione idoneo a realizzare il superiore interesse del minore e ad instaurare quel legame di filiazione anche con il genitore non biologico all’interno di una coppia omoaffettiva.
La Corte costituzionale ha riscontrato una situazione di insufficiente tutela del preminente interesse del minore e ha invitato il legislatore a disciplinare l’adozione del bambino nato da maternità surrogata in modo più aderente alle peculiarità della situazione.
Nello specifico, la sentenza n. 33 del 2021 ha reputato non del tutto adeguata ai principi costituzionali e sovranazionali l’adozione in casi particolari di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 44 in quanto questa non determina un rapporto di filiazione pieno, dato che non crea legami del bambino con i parenti dell’adottante, e ha il limite di richiedere, come condizione insuperabile, l’assenso del genitore biologico, che potrebbe mancare in caso di crisi della coppia.
La citata sentenza n. 33 del 2021 è una decisione di inammissibilità, non di illegittimità costituzionale. E’ accompagnata da un forte invito al legislatore a trovare soluzioni migliori di quelle oggi esistenti per la tutela dell’interesse del bambino.
Il Collegio concorda con l’osservazione del Pubblico Ministero secondo cui “dal testo della sentenza n. 33 del 2021 non emergono i caratteri propri delle sentenze di illegittimità accertata e non dichiarata: la Corte non ha disposto alcun rinvio ad altra udienza, nè ha indicato un termine al legislatore per intervenire; e non ha affermato l’incostituzionalità, esprimendo invece l’invito al legislatore ad “adeguare” la specifica normativa vigente in materia di adozione in casi particolari (…) al fine di assicurare una migliore garanzia dell’interesse del minore“.
E’ una pronuncia di inammissibilità-monito, in quanto la Corte, pur avendo rilevato aspetti di criticità, ha ritenuto di non poter intervenire direttamente in una materia che richiede necessariamente una valutazione discrezionale del legislatore.
Il possibile ricorso all’adozione in casi particolari “costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovra-nazionali“.
La Corte costituzionale evidenzia la “insufficiente tutela degli interessi del minore”, ma rimette al circuito degli organi attraverso i quali si esprime la sovranità popolare il “difficile bilanciamento” tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori.
La Corte ha dato così al legislatore la prima parola, esortandolo a individuare lo strumento maggiormente idoneo per salvaguardare tutti gli interessi in gioco, orientando la propria scelta verso forme possibilmente più celeri ed effettive.
Si tratta di materia di particolare rilevanza etico-sociale: è dunque il legislatore rappresentativo a doversi porre quale interprete della coscienza sociale, ad avere le antenne per intercettarla e tradurla in atti normativi.
E’ il legislatore in prima battuta a dover effettuare il bilanciamento dei valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati nel momento dato nella coscienza sociale.
Il procedimento adottivo prefigurato dalla sentenza n. 33 del 2021 deve essere caratterizzato da una maggiore speditezza, dalla parificazione degli effetti a quelli dell’adozione legittimante e dall’abbandono dell’assenso condizionante del genitore biologico dell’adottando.
La Corte chiama in causa il legislatore perché la decisione sulla direzione di marcia, in un terreno denso di implicazioni etiche, antropologiche, sociali, prima ancora che giuridiche, non può essere devoluta alla giurisprudenza. Per le riforme, occorre la discussione in sede politica, affidando al confronto democratico, e per esso all’intera comunità, scelte di così rilevante significato.
7. – Il legislatore è rimasto finora inerte.
Il monito giace inascoltato.
Nell’attesa dell’intervento, sempre possibile ed auspicabile, del legislatore, il giudice, trovandosi a dover decidere una questione relativa allo status del figlio di una coppia omoaffettiva, non può lasciare i diritti del bambino indefinitamente sospesi, ma deve ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare, nel caso concreto, la protezione dei beni costituzionali implicati, tenendo conto delle indicazioni ricavabili dalla citata sentenza della Corte costituzionale.
Anche quando non si trova al cospetto di un enunciato normativo concepito come regola a fattispecie, ma è investito del compito di concretizzare la portata di una clausola generale come l’ordine pubblico internazionale, che rappresenta il canale attraverso cui l’ordinamento si confronta con la pluralità degli ordinamenti salvaguardando la propria coerenza interna, o di un principio, come il migliore interesse del minore, in cui si esprime un valore fondativo dell’ordinamento, il giudice non detta né introduce una nuova previsione normativa.
La valutazione in sede interpretativa non può spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l’assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore.
La giurisprudenza non è fonte del diritto.
Soprattutto in presenza di questioni, come quella oggetto del presente giudizio, controverse ed eticamente sensibili, che finiscono con l’investire il significato della genitorialità, al giudice è richiesto un atteggiamento di attenzione particolare nei confronti della complessità dell’esperienza e della connessione tra questa e il sistema.
Si tratta di temi, infatti, in rapporto ai quali lo stesso diritto di famiglia, nel mentre riflette, come uno specchio, lo stato dell’evoluzione delle relazioni familiari nel contesto sociale, tuttavia non può prescindere dal sistema, affidato anche alle cure del legislatore.
Ciò vale soprattutto in una vicenda, come l’attuale, nella quale si profila un ambito di discrezionalità del legislatore che la Corte costituzionale ha inteso preservare, indicando un percorso di collaborazione istituzionale nel quadro di un bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla maternità surrogata e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori.
Una pluralità di ragioni giustifica l’indicato approccio metodologico.
Il rispetto del pluralismo e dell’equilibrio tra i poteri, profilo centrale della democrazia, perché la ricerca dell’effettività deve seguire precise strade compatibili con il principio di leale collaborazione e con il dialogo istituzionale che la Corte costituzionale ha avviato con il legislatore.
La presa d’atto che talora la ricerca dell’effettività richiede un camminare in direzione di una meta non ancora completamente a portata di mano, perché la gradualità concorre a far assorbire il cambiamento e le novità nel sistema, con la giurisprudenza che accompagna ed asseconda l’evoluzione che si realizza nel costume e nella coscienza sociale.
La coerenza degli orientamenti giurisprudenziali, giacché le nuove frontiere dell’interpretazione che aspirino a offrire stabilità e certezza non conseguono a bruschi cambiamenti di rotta, ma sono il frutto di un progredire nel dialogo con i precedenti, con le altre Corti e con la cultura giuridica.
Non c’è spazio, in altri termini, né per una penetrazione diretta – attraverso la ricerca di un bilanciamento diverso da quello già operato dal Giudice delle leggi – di quell’ambito di discrezionalità legislativa che la Corte costituzionale ha inteso far salvo, né per una messa in discussione del punto di equilibrio da essa indicato.
8. – La Corte costituzionale, rivolgendosi in prima battuta al legislatore, ha riconosciuto il ruolo primario del legislatore e della sua discrezionalità a fronte del ventaglio delle opzioni possibili.
Ciò nondimeno, al giudice compete pur sempre di valutare la situazione rimasta in attesa di una migliore disciplina per via legislativa.
La giurisprudenza, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, dà vita al testo normativo e dà contenuto alle clausole generali, elaborando la regola del caso concreto e poi reiterando la regola del caso nelle successive decisioni.
La riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della normazione primaria, al livello cioè delle fonti del diritto: come tale, essa non estromette il giudice comune, nel ruolo – costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore – di organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema, nel quadro dell’equilibrio dei valori già indicato con chiarezza dalla Corte costituzionale.
9. – In materia di maternità surrogata, la sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2021, accertando le insufficienze dell’adozione in casi particolari ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), non ha determinato il superamento del diritto vivente rappresentato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2019.
La Corte costituzionale ha affermato che gli orientamenti espressi dalla Corte EDU e i principi costituzionali non ostano alla soluzione della non trascrivibilità del provvedimento giurisdizionale straniero e ha ribadito che la maternità surrogata è lesiva della dignità della donna.
La pronuncia del Giudice delle leggi ha inciso nella parte relativa alla tutela dei diritti del minore, ritenendo l’adozione in casi particolari strumento non del tutto adeguato.
La Corte costituzionale ha evidenziato l’insufficienza della tutela del nato realizzata per il tramite dell’adozione in casi particolari, ma non ha avallato la tesi di un accertamento ab initio di una genitorialità puramente intenzionale in tutti o in taluni casi di nascita da una madre surrogata.
Se avesse considerato praticabile questa soluzione al fine di garantire l’interesse alla stabilità affettiva del nato da maternità surrogata, la Corte costituzionale si sarebbe espressa diversamente, accogliendo le questioni di legittimità prospettate o pronunciando una sentenza di rigetto interpretativa.
10. – Preme evidenziare che, se il legislatore non ha finora raccolto l’invito ad adeguare l’adozione in casi particolari al metro dei principi costituzionali e sovranazionali, è tuttavia sopraggiunta una pronuncia della Corte costituzionale che ha eliminato una delle criticità sottolineate dallo stesso Giudice delle leggi.
Con la sentenza n. 79 del 2022, depositata il 28 marzo 2022, quindi successivamente all’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, la Corte costituzionale ha rimosso l’impedimento alla costituzione di rapporti civili con i parenti dell’adottante (L. n. 184 del 1983, art. 55 in relazione all’art. 300 c.c., comma 2), intervenendo su uno snodo centrale della disciplina dell’adozione in casi particolari all’insegna della piena attuazione del principio di unità dello stato di figlio.
In seguito alla sentenza n. 79 del 2022 della Corte costituzionale, anche l’adozione del minore in casi particolari produce effetti pieni e fa nascere relazioni di parentela con i familiari dell’adottante.
Al pari dell’adozione “ordinaria” del minore di cui alla L. n. 184 del 1983, artt. 6 e ss. l’adozione in casi particolari non si limita a costituire il rapporto di filiazione con l’adottante, ma fa entrare l’adottato nella famiglia dell’adottante. L’adottato acquista lo stato di figlio dell’adottante.
La sentenza riconosce i legami familiari anche per l’adottato in casi particolari e così realizza il suo inserimento nell’ambiente familiare dell’adottante, in applicazione del principio di unità dello stato di figlio e secondo un approccio teso a considerare unitariamente filiazione e adozione.
La pronuncia della Corte costituzionale si riferisce proprio ad una procedura di adozione conseguente ad una pratica di maternità surrogata da parte di una coppia dello stesso sesso unita civilmente, in relazione alla quale l’adottante aveva richiesto espressamente al tribunale per i minorenni di dichiarare la sussistenza di rapporti giuridici tra l’adottato e i parenti dell’adottante.
La sentenza ha fatto venir meno il più importante elemento di inadeguatezza della soluzione dell’adozione particolare.
La declaratoria di illegittimità costituzionale rimuove dunque un ostacolo all’effettività della tutela offerta dall’adozione in casi particolari.
11. – Un altro aspetto di inadeguatezza messo in luce dalla sentenza n. 33 del 2021 risiede nell’impossibilità di costituire il rapporto adottivo, secondo la disciplina dei casi particolari, in mancanza dell’assenso del genitore biologico.
Si tratta di un aspetto di criticità perché l’interesse del minore reclama che siano garantite stabilità e certezza al rapporto di cura e affetto, in assenza di un legame di discendenza biologica ma in una cornice di vita familiare, superando un sistema di tutela parziale ed esposto alle sopravvenienze nei rapporti tra adulti.
In effetti, la disciplina dell’adozione in casi particolari, alla L. n. 184 del 1983, art. 46 richiede, ai fini del perfezionamento della procedura, l’assenso del genitore biologico, il quale potrebbe non prestarlo in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia.
L’adozione diverrebbe così impraticabile proprio nelle situazioni più delicate per il benessere del minore.
Se è negato l’assenso, il tribunale, sentiti gli interessati, su istanza dell’adottante può, ove ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando, pronunciare ugualmente l’adozione, salvo che l’assenso sia stato rifiutato dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale.
La lettera del citato art. 46 sembra considerare preclusivo il mancato assenso in tutti i casi in cui i genitori non siano decaduti dall’esercizio della responsabilità genitoriale.
In realtà, la giurisprudenza è già pervenuta ad una lettura restrittiva della disposizione, ritenendo che per genitori esercenti la responsabilità genitoriale, il cui dissenso impedisce l’adozione particolare, debbono intendersi i genitori che non siano meri titolari della responsabilità stessa, ma ne abbiano altresì il concreto esercizio grazie a un rapporto effettivo con il minore. Seguendo quest’ordine di idee, si è considerato superabile, in ragione del preminente interesse del minore, il dissenso all’adozione manifestato dal genitore dell’adottando che non eserciti in concreto, da molti anni, la responsabilità genitoriale sul figlio, con il quale non intrattenga alcun rapporto affettivo (Cass., Sez. I, 21 settembre 2015, n. 18575; Cass., Sez. I, 16 luglio 2018, n. 18827).
Il Collegio delle Sezioni Unite osserva che alla base della domanda di adozione particolare da parte del genitore sociale, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d), c’è la condivisione, con il genitore biologico, della responsabilità conseguente alla scelta di aver dato vita al progetto procreativo in un Paese estero in conformità della lex loci; c’è, inoltre, il rapporto costante di affetto e di cura all’interno dell’unica famiglia nella quale il bambino è cresciuto.
In altri termini, alla condivisione, da parte della coppia, della decisione di far venire al mondo il bambino, liberamente impegnandosi ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità, fanno seguito e si associano l’accudimento, l’allevamento e la cura del minore.
Essendo l’adozione particolare, nel particolare caso della lettera d), destinata ad offrire un riconoscimento giuridico al rapporto intessuto con il genitore sociale all’interno dell’unica famiglia di accoglienza, il dissenso alla costituzione del legame di filiazione adottiva da parte del genitore biologico esercente la responsabilità genitoriale non può essere espressione di un volere meramente potestativo, ma va collocato in una dimensione funzionale.
L’effetto ostativo del dissenso dell’unico genitore biologico all’adozione del genitore sociale, allora, può e deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, secondo il modello del dissenso al riconoscimento.
In altri termini, è possibile superare la rilevanza ostativa del dissenso all’adozione in casi particolari ai sensi della lett. d), tenendo conto che il contrasto rischia, non di vanificare l’acquisto di un legame ulteriore rispetto a quello che il minore ha con la famiglia di origine, ma proprio di sacrificare uno dei rapporti sorti all’interno della famiglia nella quale il bambino è cresciuto, privandolo di un apporto che potrebbe invece essere fondamentale per la sua crescita e il suo sviluppo.
Nella medesima prospettiva ermeneutica si pone la dottrina, la quale sottolinea che il dissenso all’adozione da parte del genitore biologico del bambino nato mediante maternità surrogata, in tanto è suscettibile di impedire la costituzione del legame di filiazione, in quanto passi attraverso la negazione in radice del progetto genitoriale o di quel rapporto costante di affetto e di cura del minore che rappresenta il requisito per richiedere l’adozione in casi particolari, anche nell’ipotesi in cui vi sia stata separazione.
In altri termini, il genitore biologico potrebbe negare l’assenso all’adozione del partner solo nell’ipotesi in cui quest’ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato, oppure abbia partecipato solo al progetto di procreazione ma abbia poi abbandonato il partner e il minore.
Mettendo in collegamento l’art. 46 con l’art. 57 della L. n. 184 del 1983, che impone al giudice di valutare se l’adozione particolare realizzi in concreto il preminente interesse del minore, il rifiuto dell’assenso all’adozione, da parte del genitore biologico, appare ragionevole soltanto se espresso nell’interesse del minore, ossia quando non si sia realizzato tra quest’ultimo ed il genitore d’intenzione quel legame esistenziale la cui tutela costituisce il presupposto dell’adozione.
Se tale relazione sussiste, il rifiuto non sarebbe certamente giustificato dalla crisi della coppia committente né potrebbe essere rimesso alla pura discrezionalità del genitore biologico.
Il Collegio delle Sezioni Unite, rimanendo nel solco del bilanciamento tracciato dalla Corte costituzionale, ritiene di dover in questa sede evidenziare le potenzialità dell’interpretazione costituzionalmente conforme, in vista del superamento della criticità legata al dissenso dell’unico genitore biologico, senza che occorra sollevare, persistendo l’omissione da parte del legislatore, una questione di legittimità costituzionale.
12. – La soluzione dell’adozione da parte del genitore d’intenzione privo di legame biologico presenta altri aspetti problematici.
L’adozione è, ancora, non pienamente adeguata nella prospettiva di una tutela piena del generato nei confronti di chi, partecipando al progetto procreativo, ha assunto la responsabilità di farlo venire al mondo, perché l’istituto dell’adozione, in tutte le sue forme, presuppone che il genitore assuma l’iniziativa.
L’iniziativa ai fini della costituzione dello status non compete mai all’adottando.
Il minore non può rivendicare la costituzione del rapporto genitoriale per il tramite dell’adozione.
Qualora il partecipante al progetto procreativo, che non abbia legami genetici con il minore, cambi idea e non voglia più instaurare alcun rapporto giuridico con il nato, il minore non ha alcun diritto alla costituzione, attraverso l’adozione, di un rapporto con il genitore d’intenzione privo di legame genetico.
Sicché l’adozione può risultare, in concreto, di fronte al rifiuto del committente, strutturalmente inidonea ad offrire una garanzia completa nella prospettiva della tutela del generato.
La constatazione di questa evenienza particolare non conduce, tuttavia, ad ammettere o a giustificare l’automatismo della trascrizione. L’automatico riconoscimento della genitorialità intenzionale già accertata all’estero non realizza la pienezza di tutela del minore, che richiede invece una particolare conformazione, con i caratteri della effettività e della stabilità, impressa dalla concomitante e acclarata situazione di fatto.
Quella constatazione impone, invece, ove si presenti il caso, che siano ricercati nel sistema gli strumenti affinché siano riconosciuti al minore, in una logica rimediale, tutti i diritti connessi allo status di figlio anche nei confronti del committente privo di legame biologico, subordinatamente ad una verifica in concreto di conformità al superiore interesse del minore. Difatti, chi con il proprio comportamento, sia esso un atto procreativo o un contratto, quest’ultimo lecito o illecito, determina la nascita di un bambino, se ne deve assumere la piena responsabilità e deve assicuragli tutti i diritti che spettano ai bambini nati “lecitamente”.
L’adeguatezza dell’istituto dell’adozione in casi particolari deve essere valutata considerando anche la celerità del relativo procedimento, che non deve lasciare il legame genitore-figlio privo di riconoscimento troppo a lungo. Come ha sottolineato, anche di recente, la Corte Europea dei diritti dell’uomo (sentenza 22 novembre 2022, D.B. e altri c. Svizzera), il vincolo deve poter trovare riconoscimento al più tardi quando, secondo l’apprezzamento delle circostanze di ciascun caso, il legame tra il bambino e il genitore d’intenzione si è concretizzato. La Corte EDU considera cioè l’adozione un rimedio possibile se ed in quanto consegua con celerità il risultato del riconoscimento dei legami tra il minore e il genitore d’intenzione.
La Corte costituzionale, a sua volta, nella sentenza n. 33 del 2021, ha affermato che i principi costituzionali impongono che la tutela dell’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con il genitore d’intenzione sia “assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino“.
13. – Per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 79 del 2022 e prospettandosi la possibilità di una interpretazione adeguatrice del requisito del necessario assenso del genitore biologico, l’adozione in casi particolari, per come attualmente disciplinata, si profila come uno strumento potenzialmente adeguato al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali, restando la valutazione in ogni caso sottoposta al vaglio del giudice nella concretezza della singola vicenda e ferma la possibilità per il legislatore di intervenire in ogni momento per dettare una disciplina ancora più aderente alle peculiarità della situazione.
14. – Si tratta, a questo punto, di affrontare più da vicino l’interrogativo, sollevato dall’ordinanza di rimessione, se, essendo nel caso di specie stato chiesto il riconoscimento di effetti del provvedimento giurisdizionale straniero che accerta il rapporto di filiazione anche con il genitore intenzionale, il rifiuto sia giustificato dal contrasto con l’ordine pubblico internazionale, l’adozione rappresentando l’unico modo per dare forma giuridica al rapporto con il genitore intenzionale.
15. – A tale riguardo, occorre premettere che, ai sensi della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, il riconoscimento della sentenza straniera è subordinato al fatto che le sue disposizioni non producano effetti contrari all’ordine pubblico. La L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. g), focalizza l’attenzione sugli effetti che la pronuncia straniera è destinata a produrre nel nostro ordinamento.
Volto alla salvaguardia dei fondamentali principi sui quali si fonda l’ordinamento e che ne assicurano la complessiva coerenza, il limite dell’ordine pubblico opera non tanto con riferimento alle disposizioni applicate dal giudice straniero ai fini della soluzione della controversia, ma con riguardo alle conseguenze che la pronuncia straniera resa sulla base di quelle disposizioni è in grado di produrre nel nostro ordinamento.
A questo proposito, è pacifico che la mera diversità delle soluzioni legislative nazionali in merito ad una determinata questione non può di per sé considerarsi dar luogo ad un problema di compatibilità con l’ordine pubblico, giacché, ove si accogliesse una simile lettura estensiva del limite in questione, le regole di diritto internazionale privato verrebbero private della loro ragione d’essere, insita nella diversità degli ordinamenti giuridici nazionali e nell’opportunità di realizzare tra di loro un profilo di coordinamento, funzionale ad agevolare la vita internazionale delle persone.
Tuttavia, nemmeno può presumersi, all’inverso, una apertura del tutto incondizionata degli ordinamenti giuridici statali al coordinamento con gli altri ordinamenti, tale da permettere senza limiti l’attribuzione di effetti a provvedimenti giurisdizionali stranieri, rinunciando ad un qualsiasi controllo in ordine alla loro compatibilità con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico del foro.
L’ordine pubblico nel diritto internazionale privato svolge una funzione di meccanismo di salvaguardia dell’armonia interna dell’ordinamento giuridico statale di fronte all’ingresso di valori incompatibili con i suoi principi ispiratori, di argine contro la compromissione dei valori irrinunciabili dell’ordinamento del foro: una vocazione, tuttavia, in parte ridimensionata per effetto della progressiva integrazione tra ordinamenti, realizzata al fine di soddisfare le esigenze di tutela dei diritti fondamentali.
Alla funzione originaria dell’ordine pubblico internazionale, tesa a salvaguardare la coerenza interna dell’ordinamento italiano, si è via via affiancata una funzione promozionale, volta a favorire la diffusione dei valori tutelati, anche in connessione con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale, nonché la loro armonizzazione fra gli ordinamenti.
Quanto ai formanti dell’ordine pubblico, i principi propri dell’ordinamento giuridico statale possono trovare espressione non soltanto in disposizioni di rango costituzionale bensì anche in norme di legge ordinaria che siano significative del modo di essere dell’ordinamento giuridico statale in un dato momento storico nei diversi ambiti materiali suscettibili di venire in considerazione.
Nella nozione di ordine pubblico internazionale rientrano, quindi, anzitutto quei principi fondamentali, quei valori della nostra Costituzione che esprimono la fisionomia inconfondibile della comunità nazionale. L’ordine pubblico internazionale comprende anche quelle altre regole che, pur non collocate nella Costituzione, danno concreta attuazione ai principi costituzionali o esprimono un principio generale di sistema.
Il concetto di ordine pubblico internazionale si allarga ai valori condivisi dalla comunità internazionale e, in particolare, alla tutela dei diritti umani risultanti dal diritto dell’Unione Europea, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, avente lo stesso valore vincolante dei trattati istitutivi, nonché dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dato il fenomeno di osmosi che interessa i diritti fondamentali, garantiti in particolare dall’art. 2 Cost., e quelli che risultano dalle fonti internazionali. I diritti di libertà e i diritti della persona hanno infatti, per loro natura, una vocazione aperta all’implementazione e all’arricchimento del loro contenuto.
L’ordine pubblico internazionale si pone nel punto di intersezione di tendenze diverse: clausola generale per eccellenza, naturalmente portata a recepire le evoluzioni socio-culturali, anche sotto l’influenza della giurisprudenza della CEDU, ma anche a non dimenticare la propria radice identitaria in una cornice costituzionale. L’apertura all’altro non è perdita del sé. E il sé di un ordinamento – la sua identità, appunto – è quanto risulta tanto dalla Costituzione quanto dalle fondamentali e consolidate opzioni che tracciano le grandi linee della legislazione.
Il Collegio intende ribadire l’approdo al quale sono pervenute le Sezioni Unite.
La sentenza straniera deve misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale. Costituzioni e tradizioni giuridiche, con le loro diversità, costituiscono un limite ancora vivo, privato di venature egoistiche, che davano loro “fiato corto”, ma reso più complesso dall’intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca. Non vi potrà essere perciò arretramento del controllo sui principi essenziali della lex fori in materie che sono presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della Repubblica. Nel contempo, non ci si potrà attestare ogni volta dietro la ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri e istituti italiani (così Cass., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601).
La compatibilità con l’ordine pubblico, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. g), deve essere valutata non solo alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico (Cass., Sez. Un., n. 12193 del 2019, cit.).
L’operazione che il giudice deve svolgere ha ad oggetto, non la coerenza della normazione interna di uno o più istituti con quella estera che ha condotto alla formazione del provvedimento giurisdizionale di cui si chiede il riconoscimento, ma la verifica della compatibilità degli effetti che l’atto produce con i limiti non oltrepassabili. Essi sono costituiti: dai principi fondanti l’autodeterminazione e le scelte relazionali del minore e degli aspiranti genitori; dal principio del preminente interesse del minore, di origine convenzionale ma ampiamente attuato in numerose leggi interne ed in particolare nella recente riforma della filiazione; dal principio di non discriminazione, rivolto sia a non determinare ingiustificate disparità di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto all’identità ed al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico nonché relazionale, sia a non limitare la genitorialità esclusivamente sulla base dell’orientamento sessuale della coppia richiedente; dal principio solidaristico che fonda la genitorialità sociale sulla base del quale la legge interna ed il diritto vivente hanno concorso a creare una pluralità di modelli di genitorialità adottiva, unificati dall’obiettivo di conservare la continuità affettiva e relazionale ove già stabilizzatasi nella comunità familiare (Cass., Sez. Un., 31 marzo 2021, n. 9006, cit.).
16. – Ad avviso di questo Collegio, la L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, che considera fattispecie di reato ogni forma di maternità surrogata, con sanzione rivolta a tutti i soggetti coinvolti, compresi i genitori intenzionali, è norma di ordine pubblico internazionale. Costituisce indice univoco della rilevanza del divieto, quale limite di ordine pubblico, la natura penale della sanzione posta dalla disposizione di legge a presidio del valore fondamentale della dignità della persona umana.
Nel quadro delle metodiche di procreazione medicalmente assistita, la maternità surrogata riveste una posizione del tutto peculiare rispetto alle ordinarie procedure di fecondazione artificiale, omologa o eterologa, postulando la collaborazione di una donna estranea alla coppia, che presta il proprio corpo per condurre a termine una gravidanza e partorire un bambino non per sé ma per un’altra persona.
La sanzione penale di cui alla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, esprime l’elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento attribuisce alla surrogazione di maternità.
L’operazione che tende a cancellare il rapporto tra la donna e il bambino che porta in grembo, ignorando i legami biologici e psicologici che si stabiliscono tra madre e figlio nel lungo periodo della gestazione e così smarrendo il senso umano della gravidanza e del parto, riducendo la prima a mero servizio gestazionale e il secondo ad atto conclusivo di tale prestazione servente, costituisce una ferita alla dignità della donna.
La gestazione per altri lede la dignità della donna e la sua libertà anche perché durante la gravidanza essa è sottoposta ad una serie di limiti e di controlli sulla sua alimentazione, sul suo stile di vita, sulla sua astensione dal fumo e dall’alcol e subito dopo il parto è oggetto di limitazioni altrettanto pesanti causate dalla privazione dell’allattamento e dalla rescissione immediata di ogni rapporto con il bambino.
La L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, esprime l’esigenza di porre un confine al desiderio di genitorialità ad ogni costo, che pretende di essere soddisfatto attraverso il corpo di un’altra persona utilizzato come mero supporto materiale per la realizzazione di un progetto altrimenti irrealizzabile.
In termini analoghi si è espressa la Corte costituzionale, sottolineando che la pratica della maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane” (sentenza n. 272 del 2017 e, da ultimo, sentenze n. 33 del 2021 e n. 79 del 2022). La Corte costituzionale ha inoltre rilevato che “gli accordi di maternità surrogata comportano un rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate; situazioni che, ove sussistenti, condizionerebbero pesantemente la loro decisione di affrontare il percorso di una gravidanza nell’esclusivo interesse di terzi, ai quali il bambino dovrà essere consegnato subito dopo la nascita” (sentenza n. 33 del 2021).
La condanna di “qualsiasi forma di maternità surrogata a fini commerciali” è stata espressa anche dal Parlamento Europeo nella propria risoluzione del 13 dicembre 2016 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea nel 2015.
Alla medesima conclusione è pervenuto, di recente, il Tribunal Supremo Spagnolo, sottolineando, con la sentenza n. 277 del 2022, che il contratto di maternità surrogata comporta uno sfruttamento della donna e non può accettarsi per principio: il desiderio di una persona di avere un figlio, per quanto nobile, non può realizzarsi al costo dei diritti di altre persone.
17. – Secondo l’ordinanza di rimessione la maternità surrogata non sarebbe un fenomeno unitario da disconoscere in ogni situazione.
Nella valutazione complessiva dovrebbe tenersi conto delle peculiarità delle singole situazioni, distinguendo in concreto tra surrogazione totale o parziale, tra gestazione gratuita o a pagamento, e considerare che in Paesi come il Canada la surrogazione è disciplinata in modo da permettere l’attuazione della libera autodeterminazione della donna, consentendole di compiere un gesto di altruismo nei confronti di chi desidera realizzare una delle funzioni più importanti della famiglia.
Nell’ordinanza di rimessione si mette in dubbio che sia lesiva della dignità della donna una pratica considerata lecita nell’ordinamento di origine quando sia frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile fino alla nascita del bambino e soprattutto indipendente da contropartite economiche.
In questa prospettiva, la trascrizione di atti di nascita o la delibazione di sentenze provenienti da ordinamenti che consentono la surrogazione di maternità – si osserva nell’ordinanza interlocutoria della Prima Sezione – sarebbe possibile, e non si porrebbe in contrasto con limiti di ordine pubblico, al ricorrere di talune circostanze, quali lo spirito di solidarietà per altri, la presenza del diritto della gestante al ripensamento e la sussistenza del legame genetico del nato con almeno uno dei partner della coppia committente.
In particolare, secondo l’interpretazione suggerita dall’ordinanza di rimessione, l’aspirante madre surrogata andrebbe tutelata nella misura in cui possa essere ritenuta soggetto vulnerabile, tipicamente versante in condizioni di bisogno, e quindi indotta a stipulare l’accordo di gestazione per altri dall’offerta o dalla dazione di un corrispettivo in denaro o comunque economicamente valutabile. Diversa considerazione – si sostiene – dovrebbe essere riservata alle ipotesi in cui la gestante su commissione si sottoponga alle tecniche senza chiedere né ottenere nulla in cambio dai genitori di intenzione.
18. – Il Collegio delle Sezioni Unite ritiene che non possa essere seguita la proposta interpretativa della Sezione rimettente di escludere il contrasto con l’ordine pubblico, e quindi di ammettere la delibazione, là dove la pratica della gestazione per altri sia considerata lecita nell’ordinamento di origine, in quanto frutto di una scelta libera e consapevole, revocabile sino alla nascita del bambino e indipendente da contropartite economiche.
Il legislatore italiano, infatti, nel disapprovare ogni forma di maternità surrogata, ha inteso tutelare la dignità della persona umana nella sua dimensione oggettiva, nella considerazione che nulla cambia per la madre e per il bambino se la surrogazione avviene a titolo oneroso o gratuito. Indipendentemente dal titolo, oneroso o gratuito, e dalla situazione economica in cui versa la madre gestante (eventuale stato di bisogno), la riduzione del corpo della donna ad incubatrice meccanica, a contenitore di una vita destinata ad altri, ne offende la dignità, anche in assenza di una condizione di bisogno della stessa e a prescindere dal concreto accertamento dell’autonoma e incondizionata formazione del suo processo decisionale.
Nella maternità surrogata il bene tutelato è la dignità di ogni essere umano, con evidente preclusione di qualsiasi possibilità di rinuncia da parte della persona coinvolta.
Nel nostro sistema costituzionale la dignità ha una dimensione non solo soggettiva, ancorata alla sensibilità, alla percezione e alle aspirazioni del singolo individuo, ma anche oggettiva, riferita al valore originario, non comprimibile e non rinunciabile di ogni persona.
La dignità ferita dalla pratica di surrogazione chiama in gioco la sua dimensione oggettiva.
Il Collegio è consapevole che il panorama internazionale offre indicazioni non omogenee sui limiti di liceità della pratica della surrogazione di maternità e che l’opzione per il divieto interno risulta maggioritaria ma non unanime, anche rispetto a ordinamenti saldamente inseriti nella tradizione liberaldemocratica occidentale, come, appunto, quello canadese, da cui origina la vicenda in esame.
Le Sezioni Unite non ignorano che la lettura suggerita dall’ordinanza di rimessione trova sostegno in una parte significativa del pensiero giuridico e culturale del nostro Paese, che prende le distanze dall’idea dei valori della persona che si impongono alla persona medesima, anche oltre quanto da questa voluto in maniera assolutamente libera, consapevole, integra e non condizionata. In questa prospettiva, il limite dell’ordine pubblico internazionale non sarebbe destinato ad operare quando la lex loci salvaguardi il diritto alla libertà e all’autodeterminazione della donna, alla quale soltanto sarebbe rimesso, in ultima istanza, il potere di individuare i tempi e i modi di realizzazione della sua personalità, sicché anche la scelta di accogliere l’embrione per aiutare altri a realizzare il loro progetto di genitorialità potrebbe rappresentare per la gestante un modo per realizzare la propria personalità.
Il Collegio ha presente che l’approdo interpretativo suggerito dall’ordinanza di rimessione è già stato raggiunto nella giurisprudenza di legittimità di Paesi vicini al nostro. La giurisprudenza del Bundesge-richtshof (sentenze 10 dicembre 2014 e 5 settembre 2018), ad esempio, in tema di stato dei nati all’estero da gestazione per altri, assegna rilievo dirimente alla circostanza che il vincolo di filiazione di cui si chiede il riconoscimento risulti fondato su un provvedimento giurisdizionale, e dunque su un atto idoneo, per sua natura, a fornire un’adeguata attestazione della conformità della vicenda procreativa alle regole e alle procedure del diritto straniero. Una lesione della dignità della gestante è infatti ravvisata solo qualora emergano fattori che lascino dubitare della sua libera partecipazione alla surrogazione, o là dove risultino oscure circostanze essenziali come i dati personali della donna, le condizioni del suo impegno o l’esistenza stessa di un accordo, o, ancora, quando nel procedimento giudiziale straniero non siano osservate le fondamentali garanzie procedurali, senza che rilevi, invece, l’avvenuto pagamento di un corrispettivo, non integrando l’attribuzione economica un elemento di costrizione di volontà della gestante.
Il Collegio osserva, al riguardo, che il nostro sistema vieta qualunque forma di surrogazione di maternità, sul presupposto che solo un divieto così ampio è in grado, in via precauzionale, di evitare forme di abuso e sfruttamento di condizioni di fragilità.
Di fronte a una scelta legislativa dettata a presidio di valori fondamentali, non è consentito all’interprete ritagliare dalla fattispecie normativa, per escluderle dal raggio di operatività dell’ordine pubblico internazionale, forme di surrogazione che, sebbene in Italia vietate, non sarebbero in grado di vulnerare, per le modalità della condotta o per gli scopi perseguiti, il nucleo essenziale del bene giuridico protetto.
Invero, punendo la surrogazione di maternità in via assoluta, cioè a prescindere dalle modalità della condotta o dagli scopi perseguiti, da una parte si tutela in via immediata la dignità della gestante su commissione, dall’altra si tende a prevenire, secondo la logica della china scivolosa, eventuali derive estreme di manifestazione del fenomeno, espresse da deprecabili forme di sfruttamento di donne in condizioni di bisogno economico, vulnerabili e presuntivamente prive di apprezzabili margini di autonomia decisionale.
Non è pertanto consentito al giudice, in sede di interpretazione, escludere la lesività della dignità della persona umana e, con essa, il contrasto con l’ordine pubblico internazionale, là dove la pratica della surrogazione della maternità sia il frutto di una scelta libera e consapevole della donna, indipendente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino.
D’altra parte, la soluzione interpretativa ipotizzata dall’ordinanza di rimessione presenta un’altra criticità, puntualmente evidenziata dal Pubblico Ministero nelle conclusioni scritte. La valutazione caso per caso finirebbe per essere attribuita, in prima battuta, non al giudice, bensì all’ufficiale di stato civile, il quale sarebbe così chiamato ad operare la scelta relativa al riconoscimento della genitorialità intenzionale sulla base dei criteri generali “normati” dalla pronuncia di queste Sezioni Unite. Ma vi sarebbe la “pratica impossibilità”, con i poteri conferiti all’ufficiale di stato civile, “di procedere alla verifica se vi sia stato un corrispettivo economico a favore della donna che in un lontano Stato estero ha gestito per altri la maternità, e valutare la sua concreta condizione di soggezione ed il reale grado di libertà e consapevolezza della scelta effettuata, nonché le modalità di partecipazione alla scelta da parte del genitore intenzionale“.
19. – Concorre a formare l’ordine pubblico internazionale anche il best interest of the child.
E’ un principio, questo, riconducibile agli artt. 2, 30 e 31 Cost. e proclamato da molteplici fonti internazionali ed Europee, a cominciare dall’art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la L. n. 176 del 1991, ai cui sensi “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente“, nonché dall’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
L’interesse del minore non può certo rappresentare un diritto tiranno rispetto alle altre situazioni soggettive costituzionalmente riconosciute o protette, che costituiscono nel loro insieme espressione della dignità della persona.
Nondimeno, esso ha un ruolo centrale e preminente.
Non legittima comportamenti disapprovati dall’ordinamento, ma esige ed impone che sia assicurata tutela all’interesse al riconoscimento giuridico del rapporto con il genitore d’intenzione. Corte costituzionale e Corte Europea dei diritti dell’uomo convergono nel tracciare questa linea di fondo del sistema.
E’ “imprescindibile” – afferma la Corte costituzionale – la necessità di assicurare tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con chi ne abbia voluto la nascita in un Paese estero in conformità della lex loci e lo abbia poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale (sentenza n. 33 del 2021, cit.).
A sua volta, la Corte Europea dei diritti dell’uomo declama che, dal punto di vista della Convenzione, occorre fare “abstraction du comportement eventuellement critiquable des parents de maniere à permettre la recherche de l’interet superieur de l’enfant, critere suprême dans de telles situations” (sentenza 22 novembre 2022, D.B. e altri c. Svizzera).
L’inserimento, nell’ordine pubblico internazionale, dell’interesse del minore apre uno scenario nuovo.
L’ordine pubblico internazionale, tradizionalmente concepito con funzione meramente preclusiva od oppositiva, viene infatti ad assumere una funzione positiva, consistente nel favorire l’ingresso di nuove relazioni genitoriali.
Ne deriva un temperamento, una mitigazione (non già, beninteso, un superamento) della aspirazione identitaria connessa al tradizionale modello di filiazione, in nome di un valore uniforme rappresentato dal miglior interesse del bambino.
20. – Poste queste coordinate, deve allora escludersi la trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il padre d’intenzione. L’ineludibile esigenza di garantire al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è assicurata attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame con il partner del genitore biologico che ha condiviso il progetto genitoriale e ha di fatto concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita.
21. – Il provvedimento giudiziario straniero non è trascrivibile per un triplice ordine di considerazioni.
21.1. – In primo luogo, perché nella non trascrivibilità si esprime la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale.
Il riconoscimento ab initio, mediante trascrizione o delibazione del provvedimento straniero di accertamento della genitorialità, dello status filiationis del nato da surrogazione di maternità anche nei confronti del committente privo di legame biologico con il bambino, finirebbe in realtà per legittimare in maniera indiretta e surrettizia una pratica degradante.
L’automatismo del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione sulla base del contratto di maternità surrogata e degli atti di autorità straniere che riconoscono la filiazione risultante dal contratto, non è funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi. L’interesse superiore del minore è uno dei valori in cui si sostanzia l’ordine pubblico internazionale.
Esso costituisce non soltanto il valore fondante di ogni disciplina che riguardi i minori, ma anche l’indice concreto ed effettivo al quale la tutela deve essere commisurata.
Il fatto che l’interesse del minore debba essere oggetto di valutazione prioritaria non significa, tuttavia, che lo Stato sia obbligato a riconoscere sempre e comunque uno status validamente acquisito all’estero.
21.2. – In secondo luogo, perché va escluso che il desiderio di genitorialità, attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita lasciata alla autodeterminazione degli interessati, possa legittimare un presunto diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo (Corte Cost., sentenza n. 79 del 2022).
Non v’è nel sistema normativo un paradigma genitoriale fondato unicamente sulla volontà degli adulti di essere genitori e destinato a concorrere liberamente con quello naturalistico.
E’ esatto che l’accertamento della filiazione prescinde, oggi, dalla rigida dicotomia, che in passato costituiva il fondamento del sistema, tra filiazione biologica, basata sulla discendenza ingenita, e filiazione adottiva, incentrata sulla affettività e sulla necessità per il minore di crescere in un ambiente familiare idoneo all’accoglienza.
L’ordinamento – è vero – già conosce e tutela rapporti di filiazione non originati dalla genetica, ma sorti sulla base della “scelta”, e quindi dell’assunzione di responsabilità, di dar vita a un progetto genitoriale comune.
La L. n. 40 del 2004 ha dato ingresso alla possibilità di costituire in via diretta lo stato di figlio a prescindere dalla trasmissione di geni anche al di fuori delle ipotesi di adozione.
La scelta di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita eterologa non consente ripensamenti rispetto alla creazione del rapporto di filiazione (artt. 8 e 9 della legge citata). Il consenso è integralmente sostitutivo della mancanza di discendenza genetica.
La disciplina del fenomeno procreativo ormai si compone di modelli fondati sul legame biologico realizzato attraverso il rapporto sessuale e modelli affidati all’intervento in via assistita di tecniche mediche, anche con il contributo genetico di un soggetto terzo rispetto alla coppia, la quale si assume la responsabilità dell’evento procreativo.
La genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita è legata anche al consenso prestato e alla responsabilità conseguentemente assunta.
Con la L. n. 40 del 2004, artt. 8 e 9 il legislatore ha inteso definire lo status di figlio del nato da procreazione medicalmente assistita anche eterologa, ancor prima che fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale del relativo divieto (sentenza n. 162 del 2014).
Nel fondare un progetto genitoriale comune, i soggetti maggiorenni che, all’interno di coppie di sesso diverso, coniugate o conviventi, abbiano consensualmente fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita (L. n. 40 del 2004, art. 5), divengono, per ciò stesso, responsabili nei confronti dei nati, destinatari naturali dei doveri di cura, pur in assenza di un legame biologico.
Dalla disciplina della L. 40 del 2004, artt. 8 e 9 tuttavia, non possono trarsi argomenti per sostenere l’idoneità del consenso a fondare lo stato di figlio nato a seguito di surrogazione di maternità.
Lo spazio entro il quale il consenso risulta idoneo ad attribuire lo stato di figlio in difetto di legame genetico è circoscritto ad una specifica fattispecie – la fecondazione eterologa – ben diversa e ben distinta dalla surrogazione di maternità. In caso di maternità surrogata, la genitorialità giuridica non può fondarsi sulla volontà della coppia che ha voluto e organizzato la procreazione assistita, così come avviene per la fecondazione assistita.
21.3. – In terzo luogo, perché il riconoscimento della genitorialità non può essere affidato ad uno strumento di carattere automatico. L’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettività che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale.
Una diversa soluzione porterebbe a fondare l’acquisto della genitorialità sulla sola scelta degli adulti, anziché su una relazione affettiva già di fatto instaurata e consolidata.
La Corte costituzionale ha indicato la strada, che non è quella della delibazione o della trascrizione dei provvedimenti stranieri, secondo un più o meno accentuato automatismo funzionale ad assecondare il mero desiderio di genitorialità degli adulti che ricorrono all’estero ad una pratica vietata nel nostro ordinamento.
22. – L’esclusione della automatica trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero non cancella, né affievolisce l’interesse superiore del minore.
Il nostro ordinamento conosce e tutela rapporti di filiazione non originati dalla genetica, ma sorti sulla base dell’accoglienza o dell’impegno in un condiviso disegno di genitorialità sociale.
Appartiene all’istituto dell’adozione particolare la valutazione in concreto dell’interesse alla identità filiale del minore che vive di fatto in una relazione affettiva con il partner del genitore biologico.
L’adozione in casi particolari non dà rilevanza al solo consenso e non asseconda attraverso automatismi il mero desiderio di genitorialità; dimostra, piuttosto, una precisa vocazione a tutelare l’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto anche con colui che, insieme al padre biologico, ha condiviso e attuato il progetto del suo concepimento e, assumendosi la responsabilità della cura e dell’educazione, ha altresì concorso in fatto a instaurare quella organizzazione di vita comune diretta alla crescita e allo sviluppo della personalità che è la famiglia.
L’adozione in casi particolari presuppone, infatti, un giudizio sul miglior interesse del bambino e un accertamento sulla idoneità dell’adottante.
Il riconoscimento della pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato postula che ne sia accertata la corrispondenza all’interesse del minore.
Il riconoscimento della genitorialità è quindi ancorato a una verifica in concreto dell’attualità del disegno genitoriale e della costante cura in via di fatto del bambino.
La filiazione riguarda un profilo basilare dell’identità stessa del minore.
Proprio in ragione di ciò è essenziale la ricerca, anche nel caso della maternità surrogata, della soluzione ottimale del superiore interesse del minore.
Esattamente si è sostenuto che il superiore interesse del minore – non astrattamente considerato bensì concretamente valutato anche nell’assorbente e decisiva ottica del rapporto e del connesso principio di responsabilità, e come tale, quindi, anche realisticamente interpretato in funzione dell’eventuale necessità di preservare, pure in prospettiva, comprovate effettive relazioni familiari instauratesi tra lo stesso minore e il genitore d’intenzione – non può non rappresentare l’irrinunciabile parametro di commisurazione da cui muovere per la costruzione anche dello stato giuridico del figlio nato da maternità surrogata.
L’interesse superiore del minore può risultare anche fondativo di un vero e proprio rapporto di filiazione, ma deve basarsi su un corrispondente legame affettivo di tipo familiare dotato dei caratteri della effettività e della stabilità.
23. – Va da sé che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore non può fondarsi sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner.
L’orientamento sessuale della coppia non incide sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Cass., Sez. I, 2 giugno 2016, n. 12962; Corte Cost., sentenza n. 230 del 2020).
La giurisprudenza ha in più occasioni chiaramente respinto la tesi che l’omosessualità sia una condizione in sé ostativa all’assunzione e allo svolgimento dei compiti genitoriali.
Lo ha fatto, in particolare, negando che l’orientamento sessuale abbia una qualche incidenza sulle decisioni in merito all’affidamento dei figli (Cass., Sez. I, 11 gennaio 2013, n. 601) o sulla valutazione dell’idoneità affettiva e della capacità educativa di chi abbia presentato domanda di adozione del figlio del proprio o della propria partner (Cass., Sez. I, 22 giugno 2016, n. 12962, cit.), nonché nel confutare che contrasti con l’ordine pubblico internazionale un provvedimento giurisdizionale straniero che dichiari l’adozione piena di un minore da parte di una coppia formata da due uomini (Cass., Sez. Un., 31 marzo 2021, n. 9006, cit.).
Lo ha ribadito ammettendo il riconoscimento e la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero, validamente formato, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne a seguito di procedura assimilabile alla fecondazione eterologa, per aver la prima donato l’ovulo e la seconda condotto a termine la gravidanza con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto (Cass., Sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599).
Più nello specifico, estendendo in via ermeneutica la nozione di impossibilità, di cui alla L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), che viene riferita all’impedimento giuridico, oltre che a quello di fatto, la giurisprudenza ordinaria ha valorizzato alcune specificità dell’adozione in casi particolari, ampliandone il raggio applicativo.
Facendo leva sulle due finalità sottese all’istituto – quella volta a tutelare l’interesse del minore a preservare rapporti già instaurati e quella diretta a risolvere situazioni di giuridica impossibilità di accedere all’adozione “ordinaria” -, la giurisprudenza ha utilizzato l’adozione in casi particolari anche nel caso del minore frutto di progetti gestazionali dell’unione civile realizzati all’estero.
E’ questo il caso da cui ha preso, appunto, le mosse la sentenza n. 79 del 2022 della Corte costituzionale: quello di una coppia di uomini che ha contratto matrimonio all’estero, matrimonio trascritto in Italia con effetti di unione civile, ed ha avuto, grazie a una gravidanza per altri effettuata sempre all’estero, una bambina, della quale il genitore intenzionale ha chiesto al giudice italiano l’adozione in casi particolari.
Anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo risulta che l’esistenza di una vita familiare è una questione di fatto dipendente dalla realtà pratica di stretti legami personali e che la possibilità per un genitore e il figlio di essere insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita familiare (Corte EDU, 12 luglio 2001, K. e T. c. Finlandia). Il principio è ribadito dalla recente, e già citata, sentenza della Corte di Strasburgo D.B. e altri c. Svizzera: “La Cour rappelle d’emblee que l’interet superieur de l’enfant comprend inter alia l’identification en droit des personnes qui ont la responsabilitè de l’elever, de satisfaire à ses besoins et d’assurer son bien-etre, ainsi que la possibilitè de vivre et d’evoluer dans un milieu stable (…). Pour cette raison, le droit au respect de la vie privèe de l’enfant requiert que le droit interne offre une possibilitè de reconnaissance d’un lien de filiation entre l’enfant et le parent d’intention (…). Des lors, la marge d’appreciation des Etats est limitee s’agissant du principe meme de l’etablissement ou de la reconnaissance de la filiation (…). La Cour estime egalement que l’interet de l’enfant ne peut pas dependre de la seule orientation sexuelle des parents“.
Con tale pronuncia la Corte EDU ha ritenuto sussistente la violazione del diritto alla vita privata, tutelato dall’art. 8 CEDU, da parte dello Stato svizzero nei confronti di un minore – nato attraverso tecniche di surrogazione di maternità, proibite in Svizzera, già legalmente riconosciuto figlio dei ricorrenti da provvedimento giudiziale della California – per averlo lasciato, per sette anni ed otto mesi, a causa dell’assenza di previsioni specifiche nella legislazione svizzera (che, solo nel 2018, aveva consentito alle persone dello stesso sesso legate da un’unione registrata, di procedere all’adozione), privo della possibilità di ottenere il riconoscimento del rapporto con il proprio genitore d’intenzione, dovendosi ritenere tale significativo periodo di tempo, per aver posto il minore in una condizione di incertezza giuridica relativa alla sua identità sociale, incompatibile con i principi già affermati dalla Corte e con il principio del best interest of the child. La Corte ha, invece, escluso la violazione del diritto alla vita familiare dei due genitori, sottolineando come l’accordo di maternità surrogata fosse contrario all’ordine pubblico svizzero e che le difficoltà pratiche incontrate dalla coppia a causa delle previsioni della legislazione svizzera dovessero ritenersi, comunque, conformi alle condizioni di cui all’art. 8 CEDU. Anche secondo la Corte di giustizia la relazione intrattenuta da una coppia omosessuale può rientrare nel concetto di “vita privata” così come in quello di “vita familiare” allo stesso modo di una coppia di sesso opposto nella stessa situazione (v. sentenza del 5 giugno 2018, Coman e a., C-673/2016).
Partendo dal principio di non discriminazione – il quale esige che i diritti enunciati nella Convenzione sui diritti del fanciullo, tra cui il diritto di essere registrato dalla nascita, di avere un nome e di acquisire una cittadinanza, siano garantiti al minore senza che quest’ultimo subisca discriminazioni al riguardo, “comprese quelle basate sull’orientamento sessuale dei suoi genitori” – la Corte di Lussemburgo (Grande Sezione, sentenza 14 dicembre 2021, V.-.-. c. Stolichna obshtina, rayon “Pancharevo”, causa C-490/2020) ha precisato che “sarebbe contrario ai diritti fondamentali che gli artt. 7 e 24 della Carta garantiscono a tale minore privarlo del rapporto con uno dei suoi genitori nell’ambito dell’esercizio del suo diritto di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri o rendergli de facto impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di tale diritto per il fatto che i suoi genitori sono dello stesso sesso“.
Si assiste, cioè, a quello che la dottrina italiana, attenta a cogliere i grandi mutamenti del diritto di famiglia, ha descritto come il passaggio da una famiglia “isola” ad un “arcipelago” di famiglie. Alla famiglia, rispettosa dell’immagine offerta dalla Costituzione, “fondata” sul matrimonio, si sono aggiunte altre famiglie. E la filiazione è divenuta il collante di diverse comunioni di affetti. All’unità dello stato di figlio corrisponde la pluralità dei modelli familiari: lo stato di figlio è unico, mentre sono ormai numerosi i modelli normativi o sociali dei rapporti di coppia.
24. – Attraverso l’adozione in casi particolari, l’ordinamento italiano assicura tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico, ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, del suo rapporto con il genitore d’intenzione.
Non si manifesta, in tal modo, alcuna insidiosa vicinanza alla logica del fatto compiuto, ma si guarda alla condizione materiale del minore e al suo interesse affinché l’accudimento prestato da colui che ha condiviso in concreto il progetto procreativo assuma, con la costituzione dello status, la doverosità tipica della responsabilità genitoriale.
25. – La soluzione dell’adozione in casi particolari appare in linea con la giurisprudenza della Corte EDU. Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, in un ordinamento che disapprova la gestazione per altri, non è affatto necessario che il rapporto del nato da madre surrogata con il committente privo di legame genetico con esso sia formalizzato ab initio mediante trascrizione del provvedimento estero che ne accerti il carattere genitoriale. Il rispetto della vita privata e familiare del nato richiede, tuttavia, che la procedura alternativa a tal fine prevista dal singolo ordinamento – una procedura che, si ammette, può anche essere di tipo adottivo – consenta di conseguire quel risultato in una maniera agevole sempreché risulti la corrispondenza del rapporto di cura in atto con l’interesse del minore.
Dal complesso delle pronunce rese sul tema dalla Corte di Strasburgo, si evince che – anche a fronte della grande varietà di approccio degli Stati parte rispetto alla pratica della maternità surrogata – ciascun ordinamento gode, in linea di principio, di un certo margine di apprezzamento in materia; ferma restando, però, la necessità di riconoscimento del legame di filiazione con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura.
La Corte EDU (sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia) afferma, in particolare, che gli Stati parte possono non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al genitore d’intenzione; e ciò proprio allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica procreativa che ciascuno Stato ben può considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignità delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi.
Tuttavia, la stessa Corte EDU ritiene comunque necessario che ciascun ordinamento garantisca la concreta possibilità del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il genitore d’intenzione, al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati; lasciando poi alla discrezionalità di ciascuno Stato la scelta dei mezzi con cui pervenire a tale risultato, tra i quali si annovera anche il ricorso all’adozione del minore.
Rispetto, peraltro, a quest’ultima soluzione, la Corte EDU sottolinea come essa possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria “filiazione” tra adottante e adottato, e a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino.
26. – L’adozione in casi particolari rappresenta l’istituto che consente al bambino, nato a seguito di maternità surrogata nell’ambito di un progetto procreativo di una coppia omoaffettiva, di mantenere, con il riconoscimento dello status di figlio, la relazione affettiva e di cura già di fatto instaurata e consolidata con il partner del genitore biologico.
L’adozione in casi particolari rappresenta anche il modello rivolto a consolidare, con una veste giuridica, il rapporto con quello, dei due componenti della coppia, che non è genitore biologico e quindi non risulta genitore secondo l’ordinamento italiano. Un modello di accoglienza non originato dalla genetica, ma dalla responsabilità che consegue all’aver condiviso e attuato un progetto genitoriale comune.
L’ordinamento italiano mantiene fermo il divieto di maternità surrogata e, non intendendo assecondare tale metodica di procreazione, rifugge da uno strumento automatico come la trascrizione, ma non volta le spalle al nato.
Il titolo che giustifica la costituzione dello stato è fondato, non sull’intenzione di essere genitore, ma sulla condivisione del progetto genitoriale seguita dalla cura e dal rapporto affettivo costanti; il provvedimento del giudice presuppone, inoltre, un giudizio sul miglior interesse del bambino e una verifica in concreto dell’idoneità del genitore istante.
27. – La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite, afferente al quarto motivo del ricorso principale del Sindaco e dell’Amministrazione dell’interno, può dunque essere risolta mediante l’enunciazione del seguente principio di diritto:
“Poichè la pratica della maternità surrogata, quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, non è automaticamente trascrivibile il provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori l’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il genitore d’intenzione, che insieme al padre biologico ne ha voluto la nascita ricorrendo alla surrogazione nel Paese estero, sia pure in conformità della lex loci. Nondimeno, anche il bambino nato da maternità surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale. L’ineludibile esigenza di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è garantita attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d). Allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento, l’adozione rappresenta lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita“.
27. – Di conseguenza, il quarto motivo del ricorso proposto dal Sindaco e dal Ministero dell’interno va accolto.
Ha, infatti, errato la Corte d’appello a ritenere che il divieto, posto dal legislatore italiano, di maternità surrogata sia frutto di una scelta discrezionale e ad escludere che esso esprima principi fondanti a livello costituzionale che impegnino l’ordine pubblico.
Ha errato, altresì, l’ordinanza impugnata a giungere ad un riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale canadese dando rilievo alla mera volontà ed intenzione di diventare genitore del partner del padre biologico, tra l’altro limitandosi ad una considerazione non individualizzata né contestualizzata dell’interesse del minore, misurato sull’astratta esigenza di assicurare al bambino la conservazione dello status acquisito all’estero in conformità della lex loci.
Così decidendo, il giudice a quo è pervenuto ad un, non consentito perché contrario all’ordine pubblico internazionale, riconoscimento automatico del provvedimento giurisdizionale straniero nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia omoaffettiva che ha partecipato alla surrogazione di maternità senza fornire i propri gameti.
Il giudice del merito avrebbe dovuto considerare che il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra il minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità, qualificabile come principio di ordine pubblico, e che l’ordinamento italiano consente di conferire rilievo, attraverso l’adozione in casi particolari, alla socialità del rapporto affettivo instaurato e vissuto anche con colui che ha condiviso il disegno genitoriale in un Paese estero in conformità della lex loci .
28. – L’esame delle altre censure articolate con i primi tre motivi del ricorso principale resta, a questo punto, assorbito.
29. – L’unico motivo di ricorso incidentale, con cui si contesta che la Corte d’appello abbia considerato il Ministero e il Sindaco legittimati passivi, è privo di fondamento.
Va ribadito che il Sindaco è l’organo il cui rifiuto di trascrizione dà origine alla controversia e, come tale, è direttamente interessato alle conseguenze e all’attuazione della pronuncia di delibazione.
L’ordine di trascrizione (o di cancellazione della trascrizione già eseguita) riveste, infatti, un ruolo centrale e non accessorio nella decisione L. n. 218 del 1995, ex art. 67. Dall’altro lato, nell’esercizio delle funzioni di ufficiale di stato civile il Sindaco è ufficiale del Governo, organo periferico dell’Amministrazione statale dell’interno, alla cui competenza il D.P.R. n. 396 del 2000 ha trasferito le attribuzioni in materia di tenuta di registri dello stato civile. La circostanza che la corretta ed uniforme applicazione delle disposizioni sul servizio dello stato civile risponda ad un’esigenza obiettiva dell’ordinamento, nel cui perseguimento l’Amministrazione non agisce in qualità di parte, non consente quindi di escludere la configurabilità di un autonomo interesse, concreto ed attuale, tale da legittimare la partecipazione del Ministero al giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero e la correlata richiesta di trascrizione (Cass., Sez. Un., n. 12193 del 2019).
30. – Riassuntivamente, il quarto motivo del ricorso proposto dal Ministero e dal Sindaco è accolto, mentre gli altri motivi del medesimo ricorso restano assorbiti; è rigettato il ricorso incidentale delle parti private.
31. – L’ordinanza impugnata è cassata.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., con il rigetto della domanda di riconoscimento del provvedimento straniero.
La complessità e l’importanza delle questioni trattate giustificano l’integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi del giudizio.
32. – Va disposto che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti.
P.Q.M.
accoglie il quarto motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti i primi tre motivi del medesimo ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale; cassa l’ordinanza impugnata in relazione alla censura accolta e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di riconoscimento del provvedimento straniero.
Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 08 novembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2022
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 21 gennaio 2022, n. 1842, per SS.UU, 30 dicembre 2022, n. 38162, in tema di maternità surrogata
SS.UU, 30 dicembre 2022, n. 38162, in tema di maternità surrogata
In tema di assegno di mantenimento – SS.UU, 08 novembre 2022, n. 32914
SS.UU, 08 novembre 2022, n. 32914, in tema di assegno di mantenimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Primo Presidente f.f. –
Dott. DE CHAIRA Carlo – Presidente di Sezione –
Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –
Dott. MANZON Enrico – Consigliere –
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
Dott. RUBINO Lina – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 11821/2018 proposto da:
A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARLO PASSAGLIA 11, presso lo studio dell’avvocato LUCIANA LETIZIA, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
B.B., elettivamente domiciliato in Roma, VIA VALADIER 43, presso lo studio dell’avvocato EGIDIO LIZZA, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 668/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 02/02/2018;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/09/2022 dal Consigliere GIULIA IOFRIDA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del quinto motivo di ricorso e l’affermazione del principio di diritto;
uditi gli avvocati Luciana Letizia ed Egidio Lizza.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 668/2018, pubblicata in data 2/2/2018 – nei giudizi riuniti promossi da A.A. nei confronti di B.B., di modifica, ex art. 710 c.p.c., delle condizioni di separazione tra i coniugi (separazione consensuale omologata nel 2006, senza previsione di alcun contributo al mantenimento della moglie, ai sensi dell’art. 156 c.c.) e di divorzio, L. n. 898 del 1970, ex art. 5, in relazione alle condizioni economiche, a seguito di pronuncia non definitiva di declaratoria della cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato il 14/10/1989, – ha parzialmente riformato la decisione di primo grado, che aveva, “fermo per il passato quanto già provvisoriamente disposto” (avendo, in sede di provvedimenti urgenti, nel procedimento ex art. 710 c.p.c., il presidente del Tribunale determinato, nel febbraio 2010, il contributo di mantenimento, a favore della A.A. ed a carico del marito, con decorrenza dall’ottobre 2009, in Euro 500,00 mensili, ridotti poi dal giudice istruttore ad Euro 400,00 mensili, a far data dal dicembre 2010), respinto le domande tutte avanzate dalla A.A. di riconoscimento di un assegno di mantenimento quale coniuge separato e di un assegno divorzile, nonché determinato in Euro 650,00 mensili il contributo paterno al mantenimento del figlio C.C., maggiorenne ma non economicamente autosufficiente, oltre al 50% delle spese straordinarie, mediche, non coperte dal Servizio sanitario nazionale, di istruzione, sportive e ricreative, preventivamente concordate, e assegnato la casa coniugale alla madre, convivente con il figlio.
In particolare, i giudici d’appello, respingendo il gravame principale della A.A. (volto alla revisione delle condizioni economiche della separazione consensuale omologata ed al riconoscimento di un assegno divorzile), hanno sostenuto che:
a) in relazione alla richiesta di modifica delle condizioni di separazione, alcuna sopravvenienza di giustificati motivi era intervenuta, atteso che il licenziamento collettivo dal precedente datore di lavoro, intervenuto nel maggio 2007 (a fronte di domanda ex art. 710 c.p.c. del luglio 2009), era consistito in un incentivo all’esodo, che aveva comportato l’erogazione alla stessa della somma di Euro 65.698,20, in uno con il t.f.r. pari ad Euro 28.897,69, nonché, per due anni, dell’indennità di mobilità (di Euro 870,00 per il primo anno e Euro 750,00 per il secondo anno), e la A.A. aveva svolto, come dalla stessa ammesso in sede di interrogatorio, negli anni 2009-2010, lavori part-time, per l’importo mensile di Euro 833,00 (ed anzi la documentata permanenza presso l’attuale datore di lavoro per un tempo superiore al part-time dichiarato “lasciava intendere che essa percepisse una retribuzione più alta di quella asserita“), rifiutando offerte di lavoro procuratele dall’ex marito, mentre l’incremento reddituale, da attività lavorativa, dell’ex marito, rispetto all’epoca della separazione, non aveva determinato alcun miglioramento della sua condizione economica, essendo accresciuti gli oneri economici del medesimo verso una figlia, nata da una relazione sentimentale nelle more instaurata e successivamente cessata, e verso il figlio C.C., nato dall’unione coniugale con la A.A.;
b) quanto all’assegno divorzile, da vagliare sulla base dell’orientamento recente del giudice di legittimità espresso nella sentenza n. 11504/2017, anziché secondo il criterio del c.d. tenore di vita seguito dal Tribunale, la A.A. disponeva di mezzi sufficienti ad assicurarle l’indipendenza e l’autosufficienza economica, tenuto conto dell’inalterata capacità lavorativa e reddituale, non aveva spese abitative, usufruendo della casa coniugale, ed inoltre poteva beneficiare del contributo economico (per le utenze e il vitto) del figlio C.C., con lei convivente, il quale, da aprile 2015, aveva un contratto di lavoro a tempo indeterminato e percepiva un reddito mensile di Euro 900,00 (ma sul punto, relativo al contributo paterno al mantenimento del figlio maggiorenne, la sentenza di primo grado non era stata impugnata, con conseguente formazione del giudicato interno).
La Corte territoriale accoglieva, invece, l’appello incidentale del B.B. (volto a conseguire la restituzione delle somme versate alla moglie in esecuzione dei provvedimenti provvisori adottati in sede di procedimento ex art. 710 c.p.c.), rilevando che “sin dalla richiesta di modifica delle condizioni della separazione non sussistessero i presupposti” per il riconoscimento di un contributo al mantenimento della A.A., con necessità di revoca dei provvedimenti provvisori adottati in primo grado nel giudizio promosso ex art. 710 c.p.c., e condanna la A.A. alla restituzione delle somme indebitamente percepite a decorrere dall’ottobre 2009 (secondo quanto indicato nell’ordinanza presidenziale del febbraio 2010).
Avverso la suddetta pronuncia, A.A. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 9/4/2018, affidato a cinque motivi, nei confronti di B.B. (che ha resistito con controricorso).
La ricorrente lamenta:
a) con il primo motivo di ricorso, la violazione dell’art. 156 c.c., poichè la Corte d’Appello, nel rigettare la domanda in punto di assegno di mantenimento e nell’escludere che dopo la separazione fossero sopravvenuti giustificati motivi in grado di modificare le condizioni pattuite al riguardo in quella sede, ancorchè nella specie la A.A. fosse stata licenziata e risultasse perciò priva di redditi, non si sarebbe richiamata alla normativa e alla giurisprudenza unanimemente applicabili;
b) con il secondo motivo, l’omesso esame di fatti decisivi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto la Corte d’Appello, nell’escludere il diritto della stessa all’assegno di mantenimento, avrebbe trascurato l’esame del CUD 2007, rappresentativo dei redditi di ammontare ben superiore da essa percepiti nell’anno della separazione nonchè il merito delle posizioni lavorative sottopostegli dall’ex coniuge anche in relazione alla retribuzione;
c) con il terzo motivo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 111 Cost. in riferimento all’art. 374 c.p.c., e della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, essendosi la Corte d’Appello, nel negare il diritto di essa ricorrente a percepire l’assegno divorzile richiesto in conseguenza della cessazione degli effetti civili del matrimonio, attenuta agli enunciati di Cass. 11504/2017, e ciò tanto in violazione del principio del giusto processo che “impone di non cambiare le regole quando la partita è in corso“, quanto in violazione del principio dell’affidamento avendo la Corte d’Appello “fatto proprio un orientamento espresso da una sezione semplice“, violazioni nella specie ravvisabili nel fatto che con la citata decisione questa Corte ha abbandonato il criterio, costituente diritto vivente, del tenore di vita in favore di quello dell’indipendenza e della autosufficienza economica ed ancora nel fatto che, sovvertendosi in tal modo un pregresso indirizzo interpretativo legittimato dalle SS.UU., la relativa questione avrebbe dovuto essere rimessa nuovamente alle SS.UU e non avrebbe potuto essere decisa da una sezione semplice;
d) con il quarto motivo, la violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, poichè la Corte d’Appello, sempre ricusando il diritto di essa ricorrente all’assegno divorzile, avrebbe fatto impiego del criterio dell’autosufficienza enunciato da Cass. 11504/2017, senza tuttavia chiarire “quale sia il contenuto del parametro dell’indipendenza economica“, malgrado al detto parametro si attribuisca una caratterizzazione sempre preclusiva in spregio alla necessità di assicurare la tutela della parte debole in ossequio ai criteri di cui all’art. 5 medesimo;
e) con il quinto motivo, la falsa applicazione degli artt. 156 e 445 c.c., in relazione al capo dell’impugnata decisione che, accogliendo l’appello incidentale, ne ha pronunciato la condanna alla ripetizione in favore dell’ex coniuge delle somme percepite a titolo di assegno di mantenimento a seguito dei provvedimenti provvisoriamente adottati dal presidente del tribunale e, poi, dal giudice istruttore, e ciò nella convinzione che, stante la natura alimentare dell’assegno di mantenimento, diversamente disponendo “la Corte d’Appello di Roma non si è uniformata ai principi di diritto costantemente applicati alla questione“.
La Prima Sezione civile di questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 36509/2021, ha ritenuto necessario rimettere al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la soluzione dei seguenti quesiti, posti dal quinto motivo di ricorso, ritenuti comunque di particolare importanza:
a) se i crediti afferenti agli assegni che traggono origine dalla crisi del rapporto di coniugio posseggano tutti indistintamente i caratteri della irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità propri dei crediti alimentari;
b) se i caratteri di cui sopra possano farsi dipendere dalla entità delle somme erogate a tali titoli e se, in particolare, se ne renda obbligato il riconoscimento in presenza di importi di ammontare modesto che inducano a ravvisare la destinazione para-alimentare;
c) se nel caso in cui sia in discussione la non debenza dell’assegno sia possibile scorporare da esso ai fini di riconoscervi i caratteri di cui sopra, la quota di esso avente destinazione para-alimentare;
d) se il regime giuridico individuato in base all’accertamento da condursi in relazione al punto a) sia estensibile anche all’assegno in favore dei figli maggiorenni non autosufficienti di cui venga accertato l’indebito.
Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2.
Il Procuratore generale ha chiesto rigettarsi il quinto motivo di ricorso, con affermazione del seguente principio di dritto: “Il provvedimento giudiziale che riconosce l’insussistenza dei presupposti dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato o dei figli o dell’assegno divorzile, ovvero l’eccessività di tali assegni, già concessi nel corso del giudizio, consente all’obbligato la ripetizione delle somme indebitamente versate, quand’anche la funzione di tali assegni avesse natura alimentare. L’aliquota di tali assegni avente finalità alimentari o di sostentamento gode dei limiti alla compensazione ed al pignoramento, di cui all’art. 447 c.c., comma 2, e art. 1246 c.c., n. 3), ed all’art. 545 c.p.c.“.
La causa è stata, quindi, posta in decisione all’udienza pubblica collegiale del 27 settembre 2022.
Entrambe le parti hanno depositato istanze di trattazione orale e ulteriori memorie.
Motivi della decisione
1. La questione, sollevata con il quinto motivo e sottoposta alle Sezioni Unite, attiene, in relazione alla condanna della ricorrente, disposta dalla Corte d’appello, alla restituzione delle somme percepite dal coniuge separato e poi divorziato, dall’ottobre 2009, a titolo di assegno di mantenimento, alla asserita irripetibilità, in tutto o in parte (nei limiti della modesta entità dell’importo del contributo), delle somme versate a titolo di mantenimento, stante la natura sostanzialmente alimentare dell’obbligazione.
La questione implica, a sua volta, la soluzione di alcuni fondamentali quesiti:
a) quello circa la sussistenza o meno di un principio generale di irripetibilità delle statuizioni economiche in sede di giudizio di separazione e divorzio (in relazione ai coniugi ed ai figli), ricavabile dalla disciplina processuale;
b) quello relativo alla natura alimentare (in tutto o in parte) o para-alimentare o con finalità anche alimentare dell’assegno di mantenimento del coniuge separato o divorzile, ricavabile dal diritto sostanziale e circa l’effettivo carattere di irripetibilità della prestazione di alimenti, desumibile, in difetto di un’espressa disposizione normativa, dalla complessiva disciplina dettata in materia o da principi costituzionali.
Le ulteriori questioni, pure poste dall’ordinanza interlocutoria, attinenti sia all’assegno di mantenimento dei figli sia all’applicabilità agli assegni di mantenimento o di divorzio delle disposizioni specifiche dettate dalla disciplina sugli alimenti, in punto di incedibilità e impignorabilità delle somme, ai sensi dell’art. 447 c.c., e artt. 545e 671 c.p.c., non formano oggetto del giudizio di legittimità pendente, o perchè sul punto si è formato il giudicato o perchè estranee alla fattispecie concreta, e quindi non verranno esaminate.
2. Il quadro normativo.
Le norme su cui specificamente va incentrato l’esame sono:
– Codice Civile (R.D. n. 262 del 1942):
– Art. 156 (Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi): “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato. Resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti di cui agli artt. 433 e seguenti“.
– Art. 438. (Misura degli alimenti): “1. Gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento. 2.Essi devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale… “.
– Art. 439 (Misura degli alimenti tra fratelli e sorelle), nel testo modificato per effetto della L. n. 39 del 1975: “Tra fratelli e sorelle gli alimenti sono dovuti nella misura dello stretto necessario. Possono comprendere anche le spese per l’educazione e l’istruzione se si tratta di minore“.
– Art. 440 c.c. (Cessazione, riduzione e aumento): “Se dopo l’assegnazione degli alimenti mutano le condizioni economiche di chi li somministra o di chi li riceve, l’autorità giudiziaria provvede per la cessazione, la riduzione o l’aumento, secondo le circostanze. Gli alimenti possono pure essere ridotti per la condotta disordinata o riprovevole dell’alimentato. Se, dopo assegnati gli alimenti, consta che uno degli obbligati di grado anteriore è in condizione di poterli somministrare, l’autorità giudiziaria non può liberare l’obbligato di grado posteriore se non quando abbia imposto all’obbligato di grado anteriore di somministrare gli alimenti“.
– Art. 445 c.c. (Decorrenza degli alimenti): “Gli alimenti sono dovuti dal giorno della domanda giudiziale o dal giorno della costituzione in mora dell’obbligato, quando questa costituzione sia entro sei mesi seguita dalla domanda giudiziale“.
– Art. 446 (Assegno provvisorio): “Finchè non sono determinati definitivamente il modo e la misura degli alimenti, il presidente del tribunale può, sentita l’altra parte, ordinare un assegno in via provvisoria ponendolo, nel caso di concorso di più obbligati, a carico anche di uno solo di essi, salvo il regresso verso gli altri“.
– Art. 447 c.c. (Inammissibilità di cessione e di compensazione) “Il credito alimentare non può essere ceduto. L’obbligato agli alimenti non può opporre all’altra parte la compensazione, neppure quando si tratta di prestazioni arretrate“.
– Il comma 19 della L. 76 /2016 estende alle unioni civili, nei limiti di compatibilità, le disposizioni dettate dall’art. 433 c.c. e ss..
– Art. 2033 (Indebito oggettivo): “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda“.
– Codice procedura civile (R.D. 1443 del 1940):
– Art. 282 (a seguito della Riforma di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353): “La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti“.
– Art. 336 (a seguito della Riforma di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353): “La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata. La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata”. Il testo originario al comma 2 statuiva che “la riforma con sentenza passata in giudicato… estende i suoi effetti al provvedimento e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata“.
– Art. 708 (Tentativo di conciliazione e provvedimenti del presidente), nel testo modificato (comma 4) per effetto della L.54/2006: “All’udienza di comparizione il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente, tentandone la conciliazione. Se i coniugi si conciliano, il presidente fa redigere il processo verbale della conciliazione. Se la conciliazione non riesce, il presidente, anche d’ufficio, sentiti i coniugi ed i rispettivi difensori, dà con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell’interesse della prole e dei coniugi, nomina il giudice istruttore e fissa udienza di comparizione e trattazione davanti a questi. Nello stesso modo il presidente provvede, se il coniuge convenuto non compare, sentiti il ricorrente ed il suo difensore. Contro i provvedimenti di cui al comma 3 si può proporre reclamo con ricorso alla Corte d’appello che si pronuncia in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione del provvedimento“.
– Art. 709, u.c. (nel testo modificato dalla L. n. 80 del 2005): “provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente con l’ordinanza di cui all’art. 708, comma 3, possono essere revocati o modificati dal giudice istruttore“. (In precedenza, l’art. 708, comma 3, prevedeva che “Se si verificano mutamenti nelle circostanze, l’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a norma dell’art. 177”).
– Art. 189 disp. att. c.p.c. (nel testo modificato per effetto del R.D. 504/1942): “L’ordinanza con la quale il presidente del tribunale o il giudice istruttore dà i provvedimenti di cui all’art. 708 del codice costituisce titolo esecutivo. Essa conserva la sua efficacia anche dopo l’estinzione del processo finchè non sia sostituita con altro provvedimento emesso dal presidente o dal giudice istruttore a seguito di nuova presentazione del ricorso per separazione personale dei coniugi“.
– Art. 669 octies c.p.c., modifiche introdotte dalla L. n. 80 del 2005, (Provvedimento di accoglimento): Comma 6: “Le disposizioni di cui al presente articolo e al comma 1 dell’art. 669 novies non si applicano ai provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, previsti dal codice civile o da leggi speciali, nonchè ai provvedimenti emessi a seguito di denunzia di nuova opera o di danno temuto ai sensi dell’art. 688, ma ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito“. Comma 8: “L’estinzione del giudizio di merito non determina l’inefficacia dei provvedimenti di cui al comma 6, anche quando la relativa domanda è stata proposta in corso di causa“.
– Art. 669 novies c.p.c.: (Inefficacia del provvedimento cautelare): “Se il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di cui all’art. 669 octies, ovvero se successivamente al suo inizio si estingue, il provvedimento cautelare perde la sua efficacia. In entrambi i casi, il giudice che ha emesso il provvedimento su ricorso della parte interessata, convocate le parti con decreto in calce al ricorso, dichiara, se non c’è contestazione, con ordinanza avente efficacia esecutiva, che il provvedimento è divenuto inefficace e dà le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente….Il provvedimento cautelare perde altresì efficacia se non è stata versata la cauzione di cui all’art. 669 undecies, ovvero se con sentenza, anche non passata in giudicato, è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso. In tal caso i provvedimenti di cui al comma precedente sono pronunciati nella stessa sentenza o, in mancanza, con ordinanza a seguito del ricorso al giudice che ha emesso il provvedimento“.
– Art. 669 quaterdecies (Ambito di applicazione): “Le disposizioni della presente sezione si applicano ai provvedimenti previsti nelle sezioni II, III e V di questo capo, nonchè, in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile e dalla leggi speciali“.
– Legge divorzio n. 898/1970:
– Art. 4 (commi 8, 12, 13, 14): “8. Se la conciliazione non riesce, il presidente, sentiti i coniugi e i rispettivi difensori nonchè, disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, da, anche d’ufficio, con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l’udienza di comparizione e trattazione dinanzi a questo. Nello stesso modo il presidente provvede, se il coniuge convenuto non compare, sentito il ricorrente e il suo difensore.
L’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore. Si applica l’art. 189 disp. att. c.p.c….12. Nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Avverso tale sentenza è ammesso solo appello immediato. Appena formatosi il giudicato, si applica la previsione di cui all’art. 10. 13. Quando vi sia stata la sentenza non definitiva, il tribunale, emettendo la sentenza che dispone l’obbligo della somministrazione dell’assegno, può disporre che tale obbligo produca effetti fin dal momento della domanda. 14. Per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva“.
– Art. 5 (comma 6): “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive“.
– La L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 25, prevede poi che alle unioni civili si applichi, tra le altre disposizioni, la L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, sul diritto ad un assegno periodico, in favore del soggetto che non abbia i mezzi adeguati o non possa procurarseli per ragioni oggettive.
– L. n. 76 del 2016, Art. 1, comma 65: “In caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente e gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. In tali casi, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell’art. 438 c.c., comma 2. Ai fini della determinazione dell’ordine degli obbligati ai sensi dell’art. 433 c.c., l’obbligo alimentare del convivente di cui al presente comma è adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle“.
3. In generale, sul contributo al mantenimento del coniuge.
Vanno, anzitutto, svolte alcune considerazioni generali in ordine agli effetti della separazione e del divorzio (e della crisi del rapporto di coppia, avuto riguardo alle unioni civili) sui rapporti patrimoniali fra i coniugi, con riguardo all’assegno di mantenimento del coniuge (e dei figli). La separazione personale tra i coniugi non estingue il dovere reciproco di assistenza materiale, espressione del dovere, più ampio, di solidarietà coniugale, ma il venir meno della convivenza comporta significati mutamenti:
a) il coniuge cui non è stata addebitata la separazione ha diritto di ricevere dall’altro un assegno di mantenimento, qualora non abbia mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacità concreta lavorativa del richiedente, nonchè le condizioni economiche dell’obbligato, che può essere liquidato in via provvisoria nel corso del giudizio, ai sensi dell’art. 708 c.p.c.;
b) il coniuge separato cui è addebitata la separazione perde invece il diritto al mantenimento e può pretendere solo la corresponsione di un assegno alimentare se versa in stato di bisogno.
Già per effetto della L. n. 74 del 1987, artt. 8 e 23, di modifica della L. n. 898 del 1970, si è previsto che, nel procedimento di divorzio come in quello di separazione, “per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva“, anticipandosi la scelta poi operata dal legislatore in via generale nel nuovo testo dell’art. 282 c.p.c..
Si afferma, con orientamento prevalente, che il diritto al mantenimento a favore del coniuge separato sorge e decorre dalla data della relativa domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio, anche se tale principio attiene soltanto al profilo dell'”an debeatur” della domanda, e non interferisce, pertanto, sull’esigenza di determinare il “quantum” dell’assegno alla stregua dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi, nè sulla legittimità della determinazione di misure e decorrenze differenziate, in relazione alle modificazioni intervenute fino alla data della decisione, dalle diverse date in cui i mutamenti si siano verificati (Cass. n. 1919/1984, ove si fa richiamo al principio generale stabilito per gli alimenti dall’art. 445 c.c.; Cass. n. 147/1994, “L’assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione, così come la sua successiva revisione, decorre dalla data della correlativa domanda, in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio“, evidenziandosi, secondo la disciplina vigente ratione temporis della L.div., la differenza rispetto all’assegno di divorzio che decorreva dal momento della formazione del titolo in forza del quale esso è dovuto e cioè appunto dal passaggio in giudicato della sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, avente effetto costitutivo; Cass. n. 4011/1999; Cass. n. 4558/2000; Cass. n. 14886/2002; Cass. n. 17199/2013; Cass.n. 2960/2017).
Invece, l’assegno divorzile, del tutto autonomo rispetto a quello di mantenimento concesso al coniuge separato, a seguito della riforma introdotta nel 1987, e dell’intervento chiarificatore da ultimo espresso da queste Sezioni Unite nella sentenza n. 18287/2018, ha natura composita, in pari misura, assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno dei coniugi non gli assicuri l’autosufficienza economica) e riequilibratrice o meglio perequativo-compensativa (quale riconoscimento dovuto, laddove le situazioni economico-patrimoniali dei due coniugi, pur versando entrambi in condizione di autosufficienza, siano squilibrate, per il contributo dato alla realizzazione della vita familiare, con rinunce ad occasioni reddituali attuali o potenziali e conseguente sacrificio economico), nel senso che i criteri previsti dall’art. 5 L.div. (tra i quali la durata del matrimonio, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune e le ragioni della decisione) rilevano nel loro insieme sia al fine di decidere l’an della concessione sia al fine di determinare il quantum dell’assegno.
Si è quindi evidenziato (Cass. SS.UU. n. 18287/2018) che “la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile – al pari dell’assegno di mantenimento in sede di separazione -, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi“.
In sostanza, in presenza di uno squilibrio economico tra le parti, patrimoniale e reddituale, occorrerà verificare se esso, in termini di correlazione causale, sia o meno il frutto delle scelte comuni di conduzione della vita familiare che abbiano comportato il sacrificio delle aspettative lavorative e professionali di uno dei coniugi.
E’ inoltre previsto che le parti si accordino per una corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione (art. 5, comma 8), con conseguente improponibilità di ogni successiva domanda di contenuto economico tra gli ex coniugi.
In ogni caso, l’assegno divorzile cesserà con le nuove nozze dell’avente diritto (art. 5, comma 10), mentre, nell’ipotesi di instaurazione di una stabile convivenza di fatto con un terzo, viene caducata, alla luce di quanto affermato da queste Sezioni unite nella recente sentenza n. 32198/2021, la sola componente assistenziale dello stesso, potendo essere mantenuto il diritto al riconoscimento di un assegno a carico dell’ex coniuge economicamente più debole, in funzione esclusivamente perequativa-compensativa.
Quanto alla decorrenza dell’assegno divorzile, se, vigente la disciplina dettata dal testo originario della L.898/1970, si era individuato tale momento, in correlazione con la definitiva acquisizione da parte dei coniugi dello status di divorziati, con riferimento al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, che segna lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del vincolo coniugale e che rispetto allo status predetto ha efficacia costitutiva (Cass. n. 3038/1977; Cass. n. 6485/1986), la riforma del 1987 ha introdotto un temperamento, prevedendo che la sentenza di primo grado volta a determinare la misura dell’assegno sia provvisoriamente esecutiva, riguardo ai provvedimenti di natura economica, e che il tribunale, nell’emanare la sentenza non definitiva (e questa Corte ne ha esteso la portata anche all’ipotesi in cui sia stata emessa sentenza definitiva di divorzio, Cass. n. 5140/2011, o di contestuale pronuncia sul divorzio e sull’assegno, Cass.n. 7458/1990), possa stabilire, motivatamente, che l’assegno decorra, ancor prima, a partire dalla data della domanda giudiziale, ex art. 4, pur in mancanza di una specifica richiesta di parte (Cass. n. 3351/2003; Cass. n. 19330/2020). Per il periodo precedente, la situazione economica rimane disciplinata dalla normativa sulla separazione dei coniugi (ove il divorzio sia pronunciato per il protrarsi della stessa).
Sia l’assegno di mantenimento sia quello divorzile possono subire variazioni, in aumento o in diminuzione, per effetto del cambiamento della situazione patrimoniale relativa al debitore o al creditore considerata al momento della sentenza. Quanto all’assegno divorzile se la necessità di un assegno si manifesti dopo il passaggio in giudicato della statuizione attributiva del nuovo status, esso verrà liquidato in separato giudizio, restando ferma la possibilità di avanzare la domanda successivamente alla sentenza di divorzio, anche in difetto di pregressa domanda giudiziale (Cass. n. 2198/2003, ove si è chiarito che il deterioramento delle condizioni economiche di uno o di entrambi gli ex coniugi, che consente il riconoscimento dell’assegno, può verificarsi anche dopo il divorzio, proprio perchè trova fondamento nel dovere di assistenza, e non nel nesso di causalità o di concomitanza tra divorzio e deterioramento delle condizioni di vita). Ove si verifichino mutamenti di circostanza, così da richiedere una modifica dell’assegno, la pronuncia potrebbe far retroagire tale aumento dal momento (successivo alla domanda) del mutamento di circostanza o addirittura disporlo a far data dalla decisione (cfr., sul punto, Cass. 15 marzo 1986, n. 3202).
4. In generale, sulla disciplina degli alimenti.
Ancora, in generale, sul tema degli alimenti, si osserva che l’obbligazione legale di alimenti, vale a dire la corresponsione dei mezzi atti a soddisfare i bisogni essenziali necessari alla persona per condurre una vita dignitosa (ad es. vitto, alloggio, vestiario, cure mediche, trasporto), trova anch’essa fondamento, al pari del diritto al mantenimento del coniuge e dei figli, nella solidarietà familiare, peraltro in un’accezione, quanto all’individuazione dei soggetti obbligati ex lege, di famiglia più estesa di quella nucleare cui è dedicato il libro primo del codice (rilevando rapporti di parentela, affinità, coniugio, unione civile, convivenza di fatto), ma essa può sorgere anche tra estranei (si pensi quella a carico del donatario a favore del donante). Presupposti del diritto agli alimenti sono lo stato di bisogno del soggetto richiedente e l’impossibilità dello stesso di provvedere da solo a superare tale stato; rileva poi, come criterio per determinarne la misura concreta, anche la capacità economica dell’obbligato di provvedere alle necessità del bisognoso (riferita, quanto al donatario, anche al valore della donazione ricevuta). Si deve quindi tener conto (ai sensi del 2 comma dell’art. 438 c.c.) dei bisogni specifici del richiedente e delle condizioni economiche dell’obbligato (prevedendosi, conseguentemente, che vi siano più soggetti tenuti all’adempimento del dovere). La misura degli alimenti che il creditore può pretendere, non fissata dal legislatore in modo fisso, non dovrebbe superare, in generale, quanto sia necessario per la vita dell’alimentando (tenuto conto dei bisogni non solo materiali ma anche civili), avuto anche riguardo alla sua posizione sociale (vale a dire ai bisogni essenziali che si manifestino in concreto in relazione anche alla personalità ed alle abitudini pregresse), senza sperperi o sregolatezza, mentre è limitata allo “stretto necessario” quando l’obbligazione sorge tra fratelli e la prestazione deve comprendere le spese per l’educazione e l’istruzione se l’alimentato è minorenne. In ogni caso, la valutazione deve essere operata in concreto e personalizzata.
Secondo Cass. n. 21572/2006: “Il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche della impossibilità di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di un’attività lavorativa, sicchè, ove l’alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica o l’impossibilità, per circostanze a lui non imputabile, di trovarsi un’occupazione confacente alle proprie attitudini e alle proprie condizioni sociali, la relativa domanda deve essere rigettata” (conf. a Cass. n. 1099/1990; successivamente conf. Cass. n. 3334/2007, Cass. n. 20509/2010; Cass. n. 9415/2017; Cass.n. 10419/2018). Lo stato di bisogno deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell’alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, compresi i redditi ricavabili dal godimento di beni immobili in proprietà o in usufrutto, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie (Cass.n. 25248/2013).
Il diritto agli alimenti sussiste tuttavia anche se l’alimentando versi in stato di bisogno per propria colpa, essendo prevista dalla legge solo che gli alimenti siano ridotti in caso di condotta disordinatamente colpevole dell’alimentando (Cass.n. 2066/1967). Quanto al modo di somministrazione è prevista la possibilità, per l’obbligato, di scegliere di somministrare gli alimenti, accogliendo e mantenendo in casa propria colui che ne ha diritto (art. 443 c.c., comma 1).
Si è osservato che l’obbligazione alimentare si differenzi dall’obbligazione tipica civile per alcuni caratteri peculiari della sua specifica regolamentazione, dettata dall’art. 433 c.c. e ss., che si spiegano in relazione alla sua funzione: un regolamento di interessi rivolto alla realizzazione dei bisogni esistenziali di un soggetto privo dei mezzi necessari per provvedervi.
Ancora, la prestazione alimentare prescinde dallo stato soggettivo del creditore, salva la possibilità (art. 440 c.c., comma 1) di riduzione (non di esclusione) degli alimenti, in considerazione della condotta disordinata o riprovevole dell’alimentato. L’art. 448 bis c.c. (introdotto dalla Riforma della filiazione con L. n. 219 del 2012) contempla invece la perdita del diritto agli alimenti, a favore dei figli (e i loro discendenti), che vengono quindi esonerati dall’obbligazione alimentare, in caso di pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 330 c.c..
In ambito successorio, in sede di separazione personale, nasce poi, a favore del coniuge cui sia addebitabile la stessa e che versi in stato di bisogno, un’obbligazione di natura anche alimentare nelle forme di un assegno vitalizio (art. 548 c.c.). L’art. 9 bis L.div. prevede poi, in presenza di determinati presupposti, quali la titolarità dell’assegno di divorzio e lo stato di bisogno, la possibilità di attribuire, dopo il decesso dell’obbligato, un assegno periodico a carico dell’eredità, tenuto conto dell’importo dell’assegno post-coniugale, dell’entità del bisogno, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche. Ai sensi dell’art. 440 c.c., la sentenza è sempre subordinata alla clausola rebus sic stantibus e quindi, venendo meno uno dei presupposti del credito alimentare, se ne potrà chiedere la riduzione o la cessazione (ovvero l’aumento in caso di peggioramento delle condizioni economiche). Secondo Cass. n. 1231/1967, “La possibilità che, per una causa qualsiasi, lo stato di bisogno dell’alimentando si manifesti o si aggravi da un momento all’altro, modificandosi la precedente situazione di fatto, importa, da una parte, che nell’obbligazione alimentare deve ritenersi insito il carattere di prestazione rebus sic stantibus, suscettibile, come tale, di adeguamenti e modifiche, e, dall’altra, che, nello stabilire se il diritto a tale prestazione sussista o non e, nell’affermativa, in quale misura questa debba essere eseguita, il giudice ben può tener conto di tutti i mutamenti verificatisi rispetto alla situazione di fatto in precedenza considerata, non esclusi quelli eventualmente prodottisi nel corso del giudizio” (conf. Cass. n. 1577/2019, stante l’inequivoco tenore dell’art. 440 c.c.).
Il fatto di un coobbligato alla prestazione di alimenti che abbia effettuato la prestazione, oltre che per la propria quota, anche per quella di altro coobbligato di pari grado, senza mai richiedere il concorso di quest’ultimo, non può qualificarsi adempimento di un’obbligazione naturale, in quanto la norma dell’art. 441 c.c., che espressamente stabilisce l’obbligo di concorso alla prestazione degli alimenti nel caso di concorso di più obbligati, ha natura cogente, mentre, al contrario, l’obbligazione naturale è un dovere originariamente non giuridico, che acquista efficacia giuridica mediante l’adempimento, cosicchè risulta configurabile invece, una gestione di affari ad opera di uno dei coobbligati alla prestazione alimentare, perchè l’affare e in parte proprio ed in parte altrui (Cass. n. 3901/1968), cfr. anche Cass. n. 4883/1988, ove si è ribadito che il regresso può essere esercitato senza necessità di previa diffida ad adempiere, non operando l’art. 445 c.c., disposizione dettata nei soli rapporti con creditore della prestazione alimentare).
Quanto alla decorrenza, l’art. 445 c.c., prescrive, per le obbligazioni alimentari legali (non quelle da negozio giuridico, Cass. n. 3525/1968, la cui decorrenza è fissata in via pattizia) che gli alimenti siano dovuti dalla domanda ovvero dalla costituzione in mora del debitore, cui deve però seguire entro sei mesi la domanda giudiziale (Cass. 4011/1999: “Il principio secondo cui l’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento decorre (in applicazione della regola fissata per gli alimenti dall’art. 445 c.c.) dalla data della presentazione della domanda da parte dell’avente diritto riguarda soltanto il profilo dell’an debeatur della domanda stessa, e non interferisce, pertanto, sull’esigenza di determinare il quantum tenendo conto dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi, nè sulla legittimità della fissazione di misure e decorrenze differenziate dalle diverse date in cui i mutamenti si siano verificati“).
Più problematica è l’indagine circa il momento di nascita del diritto agli alimenti.
Questa Corte ha parlato di sentenza “determinativa” dell’assegno alimentare (Cass. n. 1996/1967), evidenziandone la distinzione rispetto alla sentenza “costitutiva” (attribuendo quindi al termine “sentenza determinativa” il significato di “sentenza dichiarativa“), in quanto con essa si determina l’entità dell’assegno alimentare ma “il giudice riconosce un diritto già esistente nell’ordinamento” e il giudicato rispetta la clausola rebus sic stantibus, stante la naturale esposizione della sentenza al mutamento delle circostanze di fatto direttamente incidenti sulla fattispecie regolata. Nello stesso senso, Cass. n. 19057/2006: “In caso di revisione dell’assegno di divorzio, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9, il giudice può stabilire che il nuovo importo dello stesso decorra dalla data della domanda di revisione, e non da quella della decisione su di essa, in analogia con quanto dispone l’art. 445 c.c., per le pronunce in tema di alimenti, al pari delle quali quelle ex art. 9 cit. hanno natura non costitutiva, ma determinativa dell’entità della somministrazione di denaro connessa a uno “status” (di coniuge divorziato) del quale la parte è già titolare, e in applicazione del principio generale secondo il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio” e Cass. n. 113/2003 “In caso di revisione dell’assegno di divorzio, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9, il giudice può stabilire che il nuovo importo dello stesso decorra dalla data della domanda di revisione, e non da quella della decisione su di essa, in analogia con quanto dispone l’art. 445 c.c., per le pronunce in tema di alimenti, al pari delle quali quelle ex art. 9 cit. hanno natura non costitutiva – (“a differenza della sentenza di divorzio che ha effetto costitutivo del diritto all’assegno, in quanto attribuisce lo status che ne costituisce il presupposto”) -, ma determinativa dell’entità della somministrazione di denaro connessa a uno “status” (di coniuge divorziato) del quale la parte è già titolare, e in applicazione del principio generale secondo il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio“.
La prima affermazione (preesistenza del diritto agli alimenti già al momento in cui si verificano i presupposti) è contestata da una parte della dottrina che individua nella decisione del giudice che riconosce il diritto agli alimenti una pronuncia propriamente costitutiva, affermando l’irrilevanza dell’astratta esistenza dei requisiti richiesti dalla legge, tratta dalla stessa disposizione dell’art. 445 c.c., secondo cui la decorrenza è fissata nel momento della domanda o, al più, della costituzione in mora. La sentenza che accerta, in concreto, lo stato di bisogno e l’incapacità dell’alimentando di provvedere da sè al proprio sostentamento costituisce in senso proprio il credito alimentare, con decorrenza ex tunc dalla domanda giudiziale (o dalla costituzione in mora nei limiti previsti), al pari di quanto fa la pattuizione negoziale dalla data della stipulazione dell’accordo o dal giorno dettato dalle parti come termine iniziale per la somministrazione. A tale soluzione non contrasterebbe l’affermata retroattività, perchè, se è vero che gli effetti delle sentenze costitutive sono di norma irretroattivi, esistono però ipotesi dove l’anticipazione degli effetti ad un momento anteriore al passaggio in giudicato si ricollega ad una concreta scelta legislativa (ad es. art. 290 c.c.). La retroattività degli effetti della sentenza trova giustificazione nella necessità, avuta presente dal legislatore, di non far gravare sull’attore bisognoso il pregiudizio economico derivante dalla durata del processo, in caso di esito per lui vittorioso.
L’art. 446 contempla la possibilità per il Presidente del Tribunale, finchè non siano determinati definitivamente modo e misura degli alimenti, di ordinare, in via provvisoria, previo accertamento sommario, un assegno, ponendolo, in caso di più obbligati, a carico di uno di essi, salvo il regresso verso gli altri. Secondo Cass. n. 1040/1977, l’assegno provvisorio ha una funzione non cautelare “in senso proprio“, ma solo “anticipatoria degli effetti della sentenza“, mirando esclusivamente a tutelare le esigenze dell’alimentando in corso di causa. Cass. n. 1152/1956 (in relazione ad assegno alimentare, somministrato in forma di somma di denaro periodica, in materia di separazione personale tra coniugi) ha affermato che, laddove la sentenza attribuisca all’alimentato un assegno inferiore a quello fissato in via provvisoria, lo stesso non è tenuto a restituire la somma percepita in eccedenza, essendo il principio di retroattività della sentenza (dalla domanda) applicabile “solo in senso favorevole all’alimentato”, in quanto l’opzione contraria contrasterebbe con la funzione propria degli alimenti, di assicurare all’avente diritto il necessario sostentamento, oltre a non essere percorribile in forza della consumazione del quantum corrisposto (in senso conforme Cass.n. 2411/1980).
Da rilevare che, in ordine alla durata dell’assegno provvisorio, non è prevista una disposizione analoga a quella dell’art. 189 disp. att. c.p.c., in relazione ai provvedimenti presidenziali temporanei ed urgenti, nei giudizi di separazione personale (e divorzio), che ne prescrive la sopravvivenza in caso di estinzione del giudizio.
Stante la natura strettamente personale del diritto, l’art. 447 c.c., prevede che il credito alimentare non possa essere ceduto, intendendosi evitare che l’alimentando si spogli in maniera definitiva del diritto stesso, e, al comma 2, che l’obbligato non possa opporre all’altra parte la compensazione con un suo credito (a prescindere dalla sua natura) del debito alimentare, neppure quando si tratta di prestazioni arretrate, così da escludere sia il venir meno della somministrazione dei mezzi indispensabili di sostentamento sia il ritardo dell’adempimento. Analoghe ragioni di tutela del creditore si traggono dagli artt. 545 e 671 c.p.c., che riguardano l’impignorabilità (non assoluta, essendo pignorabili i crediti a loro volta alimentari, a condizione dell’autorizzazione del giudice) ed insequestrabilità dei crediti alimentari.
Si ritiene, in dottrina, pur in assenza di una previsione normativa e con differenti prospettazioni e distinguo, che, come corollario dell’incedibilità e del carattere strettamente personale del diritto, il credito alimentare non possa formare oggetto di rinuncia, transazione, arbitrato e compromesso, anche se vengono operate, da alcuni autori, distinzioni tra prestazioni arretrate e prestazioni future.
5. Stato della giurisprudenza di legittimità.
In materia di assegno di mantenimento in favore del coniuge separato o in favore dei figli, minori o maggiorenni non autosufficienti economicamente, o di assegno divorzile, di ripetibilità o meno degli importi versati dal coniuge, per effetto sia di provvedimenti provvisori successivamente modificati con la sentenza sia di riforma della sentenza di primo grado, si registra, in effetti, un non pieno “collimare” delle soluzioni proposte, spesso dovuto, tuttavia, anche alle caratteristiche delle fattispecie concrete che rilevavano in giudizio.
5.1. Secondo alcune pronunce che si sono essenzialmente occupate del rapporto tra provvedimenti provvisori presidenziali e sentenza, la sentenza che rivede in diminuzione o che esclude l’assegno corrisposto in base al provvedimento presidenziale o a quello, successivo, del giudice istruttore, non può disporre per il passato; non può, in altri termini, avere efficacia retroattiva, potendo disporre solo per l’avvenire (ex nunc). Tale affermazione viene giustificata adducendo una serie di considerazioni:
a) poichè l’assegno provvisorio tiene luogo del mantenimento, deve ritenersi che la sua corresponsione sia servita alle esigenze della vita del beneficiario;
b) la natura cautelare dell’ordinanza presidenziale (ed anche quelle, eventuali e successive, del giudice istruttore), la cui funzione tipica è segnata dalla finalità di apprestare in favore del beneficiario un mezzo di effettiva attuazione della volontà della legge, assicurando il necessario sostentamento al beneficiario, fino a che non intervenga una pronuncia definitiva;
c) la disciplina peculiare dettata dall’art. 189 disp. att. c.p.c., secondo cui tale provvedimento conserva la sua efficacia fino al passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la separazione, salvo che intervenga un nuovo provvedimento modificativo, ed anche nel caso di estinzione del processo.
Tale orientamento si trova espresso in una serie di pronunce:
– Cass. n. 2428/1962 (“Nelle cause di separazione personale fra coniugi il provvedimento presidenziale di fissazione di un assegno di mantenimento a favore della moglie, emesso in via provvisoria ai sensi dell’art. 708 c.p.c., conserva la sua efficacia nel caso che il tribunale, con sentenza non ancora passata in giudicato, abbia respinto nel merito la istanza di separazione personale. Il provvedimento presidenziale di fissazione dell’assegno di mantenimento a favore della moglie ha per fine di assicurare a questa i mezzi di sostentamento, fino a quando non intervenga sentenza di separazione. Pertanto, il provvedimento, che ha carattere temporaneo, conserva la sua efficacia finché non intervenga una causa, diretta o indiretta, che ne impedisca l’applicazione (ad esempio, se sia adottato un nuovo provvedimento da parte del Presidente (art. 189 disp. att. cod. proc. civ.) ovvero se il giudice istruttore, nel corso del giudizio (art. 708 c.p.c.) modifichi quantitativamente la misura dell’assegno fissato dal Presidente, ovvero se analoga modifica quantitativa venga apportata dalla sentenza che accoglie l’istanza di separazione personale). Peraltro, ciò non avviene nel caso di sentenza di rigetto dell’istanza di separazione personale, ancora soggetta ad impugnazione, perchè soltanto al momento in cui la sentenza acquista efficacia di giudicato i coniugi sono tenuti a riprendere la convivenza interrotta e solo, quindi, da tale momento l’assegno diviene privo di causa. La sentenza di rigetto, pronunciata dal tribunale ed impugnata, non può obbligare i coniugi a riprendere la convivenza in attesa della pronuncia sulla impugnazione; perciò, non può non conservare efficacia l’ordinanza del Presidente, con cui si autorizzano i coniugi a vivere temporaneamente separati, e, in relazione a tale provvedimento, non può non conservare efficacia l’altro provvedimento, strettamente collegato al primo, col quale viene stabilito un assegno alimentare a favore della moglie“);
– Cass. 2791/1976 (“la riduzione giudiziale dell’assegno di mantenimento dovuto al coniuge separato, pronunciata per il peggioramento delle condizioni economiche dell’obbligato, ha efficacia dal momento in cui diviene efficace la sentenza, e non dal momento della domanda, dovendo ritenersi che gli assegni corrisposti nel corso del processo siano serviti alle esigenze di vita del creditore, il quale non era tenuto ad accantonarne una parte in vista dell’eventuale riduzione“);
– Cass. n. 1607 del 1977, che ha negato che la moglie, per colpa della quale sia stata pronunciata la separazione, e nei cui confronti sia stato negato l’assegno alimentare, per difetto dello stato di bisogno, sia obbligata a restituire al marito le somme dallo stesso ricevute, a titolo di assegno provvisorio di mantenimento in pendenza di giudizio, salva l’eventuale configurabilità di una responsabilità processuale aggravata della moglie stessa, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 2 (in motivazione, si ricollega l’irripetibilità delle somme riscosse, sotto il profilo processuale, alla natura provvisoria e strumentale del provvedimento presidenziale di fissazione dell’assegno di mantenimento ex art. 708 c.p.c., emesso allo scopo di assicurare al coniuge i mezzi di sostentamento fino a quando non intervenga una sentenza di separazione passata in giudicato, nonchè al disposto dell’art. 189 disp. att. c.p.c., secondo cui gi effetti del provvedimento presidenziale si conservano sino all’emissione della sentenza definitiva, ed al fatto che solo dalla data della sentenza che pronuncia la separazione per colpa della moglie l’obbligazione di mantenimento può trasformarsi, ricorrendone i presupposti in quella meramente alimentare);
– Cass. n. 2411 del 1980 (“La sentenza di separazione tra coniugi che determini l’assegno dovuto da un coniuge all’altro in misura inferiore a quella già stabilita dal Presidente del tribunale e dal giudice istruttore, non può stabilire una decorrenza anteriore alla stessa sentenza“);
– Cass. n. 2864/1984;
– Cass. n. 5384/1990 (“la riduzione giudiziale dell’assegno di mantenimento dovuto al coniuge separato disposta per il peggioramento delle condizioni economiche dell’obbligato ha efficacia dal momento in cui diviene efficace la sentenza, e non da quello della domanda, dovendo ritenersi che gli assegni corrisposti nel corso del processo siano serviti alle esigenze di vita del creditore, che non era tenuto ad accantonarne una parte in previsione dell’eventuale riduzione“);
– Cass. n. 5384/1990 (“In tema di separazione personale tra i coniugi, la riduzione dell’assegno di mantenimento fissato dal Presidente del tribunale, disposta per il peggioramento delle condizioni economiche dell’obbligato, ha efficacia dal momento in cui diviene efficace la sentenza, e non da quello della domanda, atteso che l’assegno provvisorio è ontologicamente destinato ad assicurare i mezzi adeguati al sostentamento del beneficiario, il quale non è tenuto ad accantonarne una parte in previsione dell’eventuale riduzione“), chiarendosi, in motivazione, che l’orientamento già espresso dalla Corte sull’irretroattività della riduzione giudiziale dell’assegno di mantenimento si fonda sia sul rilievo che l’assegno provvisorio “è ontologicamente destinato ad assicurare al beneficiario i mezzi adeguati al suo sostentamento, secondo le quotidiane esigenze di vita“, sia sull’argomento “di carattere processuale, offerto dalla natura lato sensu cautelare, e quindi provvisoria e strumentale, del provvedimento presidenziale di attribuzione dell’assegno ai sensi dell’art. 708 c.p.c., la funzione tipica del quale è segnata dalla finalità di apprestare in favore del beneficiario un mezzo di effettiva attuazione della volontà della legge“, cosicchè tale provvedimento “conserva la sua efficacia fino al passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la separazione, salvo che intervenga un nuovo provvedimento modificativo, ed anche nel caso di estinzione del processo (art. 189 disp. att. c.p.c.)“;
– Cass. n. 9728/1991, ove si è affermato, sotto l’aspetto processuale, che il provvedimento presidenziale ex art. 708 c.p.c., ha natura cautelare, come testimonia l’art. 189 disp. att. c.p.c., che, “nel disporre che esso conserva i suoi effetti anche in caso di estinzione del processo, implicitamente stabilisce che tali effetti possono essere modificati solo da un nuovo provvedimento di carattere sostanziale e definitivo“, essendo preminente l’interesse pubblico “alla conservazione dello “status quo” (diritto al mantenimento, fino all’eventuale esclusione di tale diritto od al suo affievolimento in un diritto meramente alimentare, che può derivare solo dal giudicato)“, e, sotto il profilo sostanziale, “l’assegno provvisorio di separazione tiene luogo del mantenimento cui il coniuge abbiente sarebbe, comunque, obbligato in costanza della convivenza (art. 143 c.p.c.)“, cosicchè gli effetti della decisione che esclude il diritto del coniuge al mantenimento ovvero ne riduce la misura “non possono comportare la ripetibilità delle (maggiori) somme a quel titolo sino a quel momento corrispostegli e che si presumono consumate per il suo sostentamento, a meno che non si dimostrino, dal coniuge che si ritenga danneggiato da tale corresponsione, gli estremi della eventuale responsabilità, ex art. 96 c.p.c., comma 2, da parte del richiedente il provvedimento cautelare, in eccedenza alle sue esigenze“;
– Cass. n. 3363/1993 (“L’assegno a favore del minore, fissato in via temporanea nella fase presidenziale del procedimento di separazione personale dei coniugi – ed eventualmente modificato dal giudice istruttore o dal collegio nel corso del giudizio – è diretto al soddisfacimento delle esigenze di mantenimento del minore durante il procedimento di separazione. Pertanto, è esclusa la ripetibilità, anche in parte, delle somme erogate prima della pronuncia definitiva sul punto, dovendosi presumersi che il genitore affidatario le abbia utilizzate tutte per il mantenimento del minore, come era suo dovere“);
– Cass. n. 3415/1994, in cui si fa riferimento sempre all’art. 189 disp. att. c.p.c., ed alla conservazione degli effetti del provvedimento presidenziale pure nel caso di estinzione del processo, da cui deriva implicitamente che essi possono essere modificati solo da un provvedimento di carattere sostanziale e definitivo;
– Cass. 8977/1997 (“In tema di modifica delle condizioni della separazione, quando l’assegno di mantenimento risulti concordato in un verbale di separazione consensuale omologato, la riduzione giudiziale dell’assegno dovuto al coniuge separato ha efficacia non dalla domanda di revisione, ma dalla pronuncia del corrispondente provvedimento provvisorio o dal momento in cui diviene efficace quello definitivo“, esclusa la retroattività della disposta riduzione giudiziale dell’assegno di mantenimento, concordato in sede di separazione consensuale omologata, “perchè ciò costringerebbe il beneficiario ad accantonare una parte imprecisata dello stesso, per effetto della sola proposizione di una domanda di riduzione“, con richiamo anche al disposto dell’art. 189 disp. att. c.p.c., secondo cui l’assegno provvisorio conserva i suoi effetti anche nel caso di estinzione del processo e quindi può essere modificato solo da un nuovo provvedimento di carattere sostanziale e definitivo, nonchè con la considerazione che “con riguardo al contrapposto interesse del coniuge debitore,… quest’ultimo, nel caso di domanda di riduzione dell’assegno concordato in sede di separazione consensuale, ai sensi dell’art. 711, u.c.” potrebbe “chiedere ed ottenere un provvedimento provvisorio esecutivo – e, quindi, anticipare con efficacia immediata gli effetti della riduzione dell’assegno stesso, senza attendere la conclusione del giudizio“);
– Cass. n. 4198/1998 (“In tema di assegno di mantenimento nella separazione personale dei coniugi, le eventuali maggiori somme percepite dal coniuge, in virtù di provvedimenti provvisori, non sono ripetibili, considerato che l’assegno provvisorio è ontologicamente destinato ad assicurare i mezzi adeguati al sostentamento del beneficiario, il quale non è tenuto ad accantonarne una parte in previsione dell’eventuale riduzione“);
– Cass., Sez. I, n. 11029/1999, in un caso in cui al provvedimento presidenziale di attribuzione di un assegno di mantenimento era seguita la sentenza di primo grado passata in giudicato che escludeva il diritto al mantenimento, ha affermato che, intervenuta la sentenza di merito, il provvedimento presidenziale, che ha natura cautelare, diviene inefficace, con la conseguenza che nessuna azione esecutiva può essere intrapresa dal coniuge già beneficiario dell’assegno provvisorio una volta che sia intervenuta la sentenza di merito che abbia escluso il diritto al mantenimento in capo al coniuge istante e che abbia caducato il titolo sulla base del quale il coniuge pretenda di avviare l’azione esecutiva.
Corollario della non retroattività della riduzione o dell’esclusione dell’assegno di mantenimento è la non ripetibilità delle maggiori somme corrisposte dal coniuge abbiente sulla base di un titolo giudiziale valido ed efficace ratione temporis, somme che si presumono consumate per il sostentamento del coniuge debole.
In linea con tale orientamento, si possono anche indicare altre pronunce più recenti:
Cass., sez. I, n. 11863/2004, di fronte all’impugnazione di una sentenza di appello che in un processo di divorzio aveva aumentato l’assegno divorzile a favore dell’ex coniuge e della figlia minore con effetto retroattivo ed aveva disposto la revoca dell’assegno a favore di due figli maggiorenni che ben prima della sentenza di appello erano divenuti economicamente autosufficienti, ha affermato che il diritto del coniuge di ottenere l’assegno in favore del figlio maggiorenne convivente non autosufficiente economicamente può essere affievolito o escluso solo con una pronuncia passata in giudicato, sicchè le maggiori somme medio tempore corrisposte sono irripetibili, mentre se non sono state versate non sono più esigibili sulla base della sentenza di riduzione o esclusione dell’assegno;
Cass., sez. I, n. 13593/2006, ha ribadito la natura cautelare del provvedimento presidenziale, rintracciabile alla luce dell’art. 189 disp. att. c.p.c., che escluderebbe che le maggiori somme corrisposte rispetto all’assegno determinato con la sentenza di merito o quelle corrisposte fino all’esclusione del mantenimento disposta con la sentenza possano essere oggetto di ripetizione, e che solo con il passaggio in giudicato della sentenza che nega il diritto di mantenimento si determina la caducazione degli effetti del provvedimento ex art. 708 c.p.c.;
Cass., sez. I, n. 15186/2015, per la quale la sentenza di appello che riduce l’assegno di mantenimento non può avere decorrenza retroattiva.
Anche Cass. n. 18538/2013 fa richiamo alle disposizione di cui agli artt. 708 e 709 c.p.c. per la decorrenza della decisione di separazione in punto di assegno e di effetto ex nunc e non ex tunc della revoca dell’obbligo di corrispondere un contributo al coniuge per il mantenimento delle figlie, di fatto non versato: “In tema di mantenimento dei figli minori, l’assegno perequativo disposto dal giudice nella sentenza di separazione decorre dalla data della decisione e non dalla data della proposizione della domanda, trattandosi di una pronuncia determinativa che non può operare per il passato, per il quale continuano a valere le determinazioni provvisorie di cui agli artt. 708 e 709 c.p.c.“.
Un limite alla irripetibilità delle maggiori somme versate è stato quindi individuato dal giudice di legittimità nell’art. 96 c.p.c., comma 2: se, nel chiedere il provvedimento provvisorio e urgente di natura cautelare, il coniuge debole ha agito senza la normale prudenza, le somme versate in eccesso devono essere restituite al coniuge abbiente; l’elemento soggettivo del coniuge debole nella richiesta dell’assegno, dunque, recuperato attraverso un’applicazione analogica dell’art. 96 c.p.c., condizionerebbe la ripetibilità dell’assegno portato dai provvedimenti interinali o comunque suscettibili di revisione (sentenza di primo grado), o dei maggiori importi in tali provvedimenti determinati.
5.2. Sempre in un’ottica di retroattività dell’assegno definitivo solo a favore del beneficiario, si è sostenuta la possibilità che il provvedimento definitivo (sentenza) disponga anche per il passato, con effetto retroattivo (ex tunc), non per affermare, tuttavia, la generale ripetibilità degli importi o dei maggiori importi sanciti dai provvedimenti interinali o non definitivi (sentenza di primo grado), ma solo per determinare la caducazione del titolo esecutivo in forza del quale il coniuge (o ex coniuge, nel divorzio) creditore pretenda dal coniuge (o ex coniuge) già debitore il versamento dei maggiori importi (o dell’intero importo) contenuti nel provvedimento interinale caducato o nella sentenza riformata.
Quindi la retroattività può operare solo a favore del beneficiario dell’assegno. Il tutto in relazione al ritenuto carattere propriamente “alimentare” dell’assegno.
In tal senso, Cass. n. 1152/1956, che richiama Cass. n. 1631/1943, secondo cui “l’assegno alimentare definitivo, attribuito dalla sentenza, che dichiara la separazione personale, in misura inferiore a quella dell’assegno provvisorio, non retroagisce al momento della domanda giudiziale“, in quanto, si legge in motivazione, malgrado il generale effetto sostitutivo della sentenza definitiva, l’efficacia ex tunc dell’assegno definitivo, dal momento della domanda giudiziale, si giustifica, secondo “razionalità giuridica“, solo quando esso sia stato liquidato, in sentenza, in misura superiore a quella dell’assegno provvisorio, integrante acconto del dovuto, e la maggiorazione non sia dipesa da un fatto nuovo verificatosi nelle more del giudizio, mentre nel caso di fissazione in via definitiva dell’assegno in misura minore di quella stabilita provvisoriamente, dato il suo carattere alimentare, l’alimentando “non potrebbe ragionevolmente essere tenuto a rimborsare una parte di ciò che egli, in buona fede, spese per la propria alimentazione, a ciò autorizzato da un provvedimento del giudice“, perchè ciò contrasterebbe con la funzione propria del diritto agli alimenti. L’orientamento favorevole all’applicazione, in punto anche di ripetibilità, all’obbligazione di mantenimento della disciplina propria di quella alimentare risultava peraltro pacifico già negli anni ’50 (Cass. n. 2646/1952; Cass. n. 1558/1955; Cass. n. 2587/1959, Cass. n. 2001/1959).
Cass., sez. I, n. 9641/1996 ha ammesso la possibilità che il provvedimento di reclamo (in sede di revisione delle condizioni) o di appello (in sede di cognizione ordinaria) possa avere effetto retroattivo (riconoscendo nel caso di specie una minor somma mensile per il mantenimento dei figli minori rispetto a quanto attribuito dal decreto di primo grado), considerato che, di regola, il provvedimento del giudice d’appello si sostituisce a quello del giudice di primo grado, con effetto – in linea di principio – dal giorno della domanda, ma ha affermato che tale effetto retroattivo debba in ogni caso conciliarsi con i caratteri della impignorabilità, della non compensabilità e “della irripetibilità” dell’assegno di mantenimento “desumibili dall’art. 447 c.c., e art. 545 c.p.c.“, propri dell’assegno alimentare, “ricomprendente anche gli assegni di mantenimento dei figli“.
Ne consegue, secondo la riferita impostazione, che, se, per il passato, il coniuge obbligato abbia versato un assegno periodico maggiore di quello riconosciuto (appunto retroattivamente) con il provvedimento di secondo grado (reclamo o appello), egli comunque non potrà ripeterne la differenza nè compensare il relativo credito con debiti verso il coniuge (o ex coniuge) debole, fermo restando, però, che se non abbia adempiuto per il passato all’obbligo di versamento, egli non potrà essere obbligato a corrispondere più di quanto disposto retroattivamente dal giudice che ha riformato il provvedimento di primo grado, nonostante che al tempo in cui si era verificato l’inadempimento era vigente l’obbligo di corrispondere l’assegno in misura maggiore.
Deve, peraltro, evidenziarsi che, nella specie, il ricorso per cassazione aveva unicamente ad oggetto l’assegno di mantenimento dei figli, espressamente qualificato dalla Corte d’appello come “alimentare“, che in sede di reclamo era stato modificato in un importo onnicomprensivo di Lire 700.000 (mentre in primo grado era stato fissato in Lire 500.000 oltre le spese straordinarie), con decorrenza dalla data già fissata in primo grado.
Quindi l’irripetibilità, quale ulteriore carattere del diritto, strettamente personale, agli alimenti, pur non espressamente previsto dal legislatore, è individuata in via interpretativa.
Il principio si ritrova anche in:
– Cass. n. 15164/2003 (ove si ribadisce che, pur essendo vero che, in forza dell’art. 336 c.p.c., ora vigente, la riforma estende immediatamente i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata, essendo stato eliminato il riferimento al passaggio in giudicato della sentenza, con la conseguente attribuzione al giudice di appello di disporre le restituzioni anche di ufficio, “la irripetibilità degli assegni per i figli (liquidati e percepiti nel corso del giudizio di modifica delle condizioni di separazione)” e in generale (ex art. 447 c.c., e art. 545 c.p.c.) delle prestazioni alimentari indebitamente percepite in base a sentenza di primo grado poi riformata va desunto, in generale, dall’art. 447 c.c., e art. 545 c.p.c., nonchè, sulla base di quanto stabilito dall’art. 189 disp. att. c.p.c., per le prestazioni percepite a titolo di assegno di separazione ex art. 708 c.p.c., trattandosi di disposizione “applicabile per analogia in modo espansivo, quale espressione di un generale principio di intangibilità delle prestazioni pecuniarie percepite, senza dolo o colpa grave, in base a provvedimenti giurisdizionali attinenti al diritto di famiglia e diretti ad assicurare i mezzi economici per fare fronte alle esigenze della vita dei percipienti, così da essere normalmente consumate per adempiere a tale loro destinazione“);
– Cass. n. 11863/2004 (“Il contributo per mantenere il figlio maggiorenne convivente, non in grado di procurarsi autonomi mezzi di sostentamento, che il coniuge – divorziato o separato – ha diritto ad ottenere, iure proprio, dall’altro coniuge, è destinato, fino all’esclusione di esso, o alla riduzione dell’ammontare, con decisione passata in giudicato, ad assicurare detto sostentamento del figlio beneficiario, per cui dalla eventuale decisione di revoca o riduzione non può derivare la ripetibilità di somme già percepite dal coniuge avente diritto, non avendo egli l’obbligo di accantonarle in previsione dell’eventuale revoca o riduzione del corrispondente assegno, riconosciuto con provvedimenti giudiziali, ancorchè non definitivi; peraltro, i suddetti provvedimenti ove caducati per effetto della definitiva decisione passata in giudicato, non legittimano l’esecuzione coattiva per ottenere l’assegno o la parte di esso non pagato, per il periodo in cui il provvedimento che lo aveva riconosciuto era ancora efficace“);
– Cass. n. 28987/2008 (“Il carattere sostanzialmente alimentare dell’assegno di mantenimento a favore del figlio maggiorenne, in regime di separazione, comporta che la normale retroattività della statuizione giudiziale di riduzione al momento della domanda vada contemperata con i principi d’irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità di dette prestazioni, con la conseguenza che la parte che abbia già ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni previste dalla sentenza di separazione non può essere costretta a restituirle, nè può vedersi opporre in compensazione, per qualsivoglia ragione di credito, quanto ricevuto a tale titolo, mentre ove il soggetto obbligato non abbia ancora corrisposto le somme dovute, per tutti i periodi pregressi, tali prestazioni non sono più dovute in base al provvedimento di modificazione delle condizioni di separazione” e, in motivazione, si legge che “i principi d’irrepetibilità, impignorabilità e non compensabilità delle prestazioni alimentari” sono “desumibili dall’art. 447 c.c., e art. 545 c.p.c., nel senso che la parte che abbia già ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni previste dalla sentenza di separazione non può essere costretta a restituirle, nè può vedersi opporre in compensazione, per qualsivoglia ragione di credito, quanto ricevuto a tale titolo, mentre ove il soggetto obbligato non abbia ancora corrisposto, per tutti i periodi pregressi, tali prestazioni, non più dovute in base alla sentenza di modificazione delle condizioni di separazione, non sarà più tenuto a corrisponderle, con la conseguenza che contro di lui non potrà agirsi esecutivamente“).
Nello stesso senso anche Cass. n. 21675/2012 (che, tuttavia, ribadisce, in un obiter, il principio di irripetibilità delle somme versate a titolo di mantenimento dei figli in forza di provvedimento provvisorio revocato, ma afferma che esso si applica ai figli comuni alla coppia non per quelli esclusivi di uno dei coniugi) e Cass. n. 15186/2015.
Si deve inoltre rammentare che la richiesta di alimenti è stata costantemente ritenuta da questa Corte, nelle situazioni di crisi dell’unione coniugale, un minus rispetto alla richiesta di mantenimento:
– Cass. n. 2128/1994 (“Nel procedimento per la separazione personale dei coniugi la richiesta di alimenti costituisce un minus necessariamente ricompreso in quella di mantenimento e pertanto il riconoscimento al coniuge separato di un assegno alimentare in luogo del richiesto assegno di mantenimento non comporta vizio di extrapetizione, così come la domanda di alimenti avanzata per la prima volta in secondo grado non comporta violazione del divieto di domande nuove in appello”);
– Cass. n. 5677/1996 (“Nel procedimento di separazione personale dei coniugi, la richiesta di alimenti costituisce un “minus” necessariamente ricompreso in quella di mantenimento. Pertanto non costituisce domanda nuova vietata in appello quella di alimenti, quando in primo grado sia stato domandato l’assegno di mantenimento“);
– Cass., Sez. I, n. 5381/1997 ha ribadito che la richiesta di assegno alimentare è un minus rispetto a quella di mantenimento, sicchè la richiesta di assegno alimentare proposta solo con l’appello non integra la violazione del divieto di ius novorum, ferma restando la necessità di una domanda di parte, non potendo il giudice riqualificare d’ufficio la domanda di assegno di mantenimento in domanda di assegno alimentare;
– Cass., sez. I, n. 4198 del 1998, in una fattispecie di separazione giudiziale con addebito al coniuge debole, ha affermato l’esistenza di un rapporto di sostanziale continenza tra la richiesta di assegno di mantenimento e la richiesta di un assegno alimentare, essendo quest’ultima un minus necessariamente ricompreso nella richiesta di mantenimento, statuendo che l’assegno alimentare disposto in sentenza deve stabilire, oltre che la misura, anche la decorrenza necessariamente retroattiva (conformemente, peraltro, a quanto previsto dall’art. 445 c.c.), e che le eventuali maggiori somme pagate dal coniuge obbligato per il passato rispetto a quelle determinate con la sentenza non sono oggetto di ripetizione, “considerato che l’assegno provvisorio è ontologicamente destinato ad assicurare i mezzi adeguati al sostentamento del beneficiario, il quale non è tenuto ad accantonarne una parte in previsione dell’eventuale riduzione“.; conf., Cass., sez. I, n. 10718/2013, e Cass., sez. VI-I, n. 27695/2017.
L’ordinanza di Cass., sez. VI-I, n. 13609/2016, pur ponendosi nel tradizionale solco della irripetibilità, impignorabilità, incompensabilità dell’assegno di mantenimento, in quanto di natura sostanzialmente alimentare, nella fattispecie versato medio tempore all’ex coniuge per il mantenimento del figlio maggiorenne non autosufficiente prima che il provvedimento giudiziale di modifica delle condizioni disponesse per la sua cessazione, lascia intravedere, nell’adesione alla proposta del relatore, una tendenza a ritenere ammissibile la ripetizione nel caso in cui la corresponsione dell’assegno fosse divenuta in tutto o in parte indebita in seguito ad una stabile collocazione del figlio nel mondo del lavoro confacente alle sue ragionevoli aspettative e foriera di una sostanziale e definitiva autonomia economica, che il Collegio aveva ritenuto non raggiunta nella fattispecie portata al suo giudizio.
L’ordinanza di Cass., sez. I, n. 23569/2016 ha ritenuto non compensabile l’assegno di mantenimento a carico del coniuge legalmente separato da erogare in favore dei suoi due figli, per il carattere sostanzialmente alimentare dell’assegno di mantenimento a beneficio dei figli.
L’ordinanza di Cass., sez. VI-I, n. 25166/2017 ha ribadito che la riduzione dell’assegno in favore del coniuge e dei figli decorre dal momento della pronuncia giudiziale che ne modifica la misura, salva la non ripetibilità della maggior somma versata medio tempore.
5.3. Sempre in aderenza con la funzione normalmente “anche” alimentare dell’assegno separativo e divorzile, si ammette in linea di principio la retroattività della sentenza che determina in diminuzione l’assegno, e con essa la ripetibilità delle somme pagate in eccesso dal coniuge debitore, ma la si esclude nel caso in cui l’assegno, provvisoriamente attribuito al coniuge debole, e successivamente ridotto, per la sua consistenza quantitativa, abbia comunque i connotati dell’assegno alimentare o sostanzialmente alimentare. Si è ritenuto quindi di procedere ad una valutazione “in concreto” dell’entità dell’assegno ai fini della verifica della sua natura alimentare, che si ritiene non possa essere sempre affermata.
In un caso in cui il giudice del rinvio, nel rideterminare un assegno divorzile, aveva disposto la restituzione della maggior somma versata fino a quel momento all’ex coniuge, Cass., sez. I, n. 13060/2002 premessa la differenza tra l’assegno di separazione e quello divorzile, ha affermato che non sempre quest’ultimo soddisfa mere esigenze “di mantenimento e di carattere alimentare“, pur non potendo essere questa funzione “da escludere in ogni caso“. Dalla distinzione tra assegno di mantenimento separativo ed assegno divorzile e sul presupposto che il secondo possa essere, in genere, di misura ben più elevata del primo, la sentenza in rassegna ha implicitamente assunto la regola della ripetibilità delle maggiori somme medio tempore versate all’ex coniuge, a meno che queste non superino il limite delle necessità assistenziali e di mantenimento del soggetto richiedente, nel qual caso tali somme sono irripetibili.
Anche in Cass. n. 10291/2004 si trovava affermato che “qualora non sussistano i presupposti per il riconoscimento del diritto alla percezione dell’assegno divorzile (per non avere nella fattispecie concreta quest’ultimo mai svolto funzioni di carattere alimentare), le somme corrisposte al coniuge più debole, in base ad una pronuncia poi rivelatasi “ab initio” errata, debbono essere restituite, trovando la loro erogazione esclusivo fondamento in un titolo originato dalla infondata domanda del coniuge “debole”“. In motivazione, si specificava che i principi espressi in Cass. n. 13060/2002 non erano applicabili nella specie “posto che, pur essendo l’assegno “de quo” di non elevata entità, lo stesso non ha mai svolto funzioni di carattere alimentare, come accertato dalla Corte territoriale, con l’impugnata sentenza, in quanto la Spa no disponeva fin dall’inizio del giudizio di mezzi sufficienti a garantirle un elevato tenore di vita, sicchè l’assegno stesso corrispostole in unica soluzione, dall’ex marito, non poteva che essere impiegato per fini diversi da quelli alimentari“: le somme percepite dovevano essere pertanto restituite, trovando la loro erogazione esclusivo fondamento in un titolo originato dalla infondata domanda dal coniuge “debole” e caducato fin dall’origine, a seguito dalla pronunzia della Corte d’appello, anche perchè “esclusa l’inadeguatezza dei redditi, in base a sentenza, ogni legame fra gli ex coniugi viene meno e la percezione di somme non dovute si configura come indebito, ex art. 2033 c.c., sottoposto alle regole proprie di tale istituto“.
La irripetibilità delle maggiori somme corrisposte per il mantenimento del coniuge se queste “per la loro non elevata entità – Euro 350,00 mensili -, siano destinate comunque ad assicurare il diritto al mantenimento del coniuge fino alla riduzione o esclusione dell’assegno con sentenza passata in giudicato” è stata ribadita da Cass., sez. I, n. 6864/2009, fondata sulla presunzione che il carattere alimentare dell’assegno fa sì che le maggiori somme versate medio tempore siano state comunque consumate per fini di sostentamento dal coniuge debole.
Nel caso di un divorzio caratterizzato da importi “milionari“, Cass., sez. I, n. 21926/2019, in una fattispecie in cui la Corte di Appello, su impugnazione dell’ex coniuge obbligato, condannato in primo grado a pagare mensilmente, a decorrere dalla domanda di scioglimento del matrimonio, un milione e quattrocentomila Euro in favore dell’ex moglie, aveva escluso del tutto l’obbligo della corresponsione dell’assegno divorzile a far data dal mese successivo a quello della pubblicazione della sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale, ha, innanzitutto, ammesso che la sentenza di esclusione dell’assegno di divorzio possa dichiararne la non debenza con effetto retroattivo, a far data dal tempo successivo alla pubblicazione della sentenza di scioglimento del vincolo, passata in giudicato, in applicazione (speculare) dell’art. 4, comma 13, L.div.. L’ex moglie aveva tentato di argomentare, in primo luogo, che i provvedimenti sull’assegno adottati in sede presidenziale avrebbero dovuto essere considerati ultra-attivi: secondo la Corte, quell’effetto ricorre soltanto quando “gli esiti del processo sono diversi dalla decisione di merito sull’esistenza o negazione del diritto“.
In secondo luogo, ha dichiarato che il principio generale della irripetibilità, incompensabilità e impignorabilità delle somme erogate a titolo di mantenimento separativo o divorzile non interferiva, nel caso di specie, con la decorrenza retroattiva dell’esclusione dell’obbligo di mantenimento, sia perchè quest’ultima è da ritenersi autonoma rispetto ai detti principi, trattandosi semmai di condizioni impeditive dell’esercizio del diritto alla restituzione dell’indebito operanti in una fase separata autonoma e successiva a quella relativa alla nascita ed alla decorrenza ex lege dell’efficacia della pronuncia di accertamento negativo del credito, il cui regime giuridico rimane del tutto inalterato, sia perchè questi ultimi troverebbero applicazione solo se le obbligazioni abbiano per loro natura ed entità carattere sostanzialmente alimentare, “non rilevando come criterio discretivo assoluto, la destinazione al consumo delle somme erogate“, poichè, in relazione alla contribuzione esclusivamente rivolta in favore dell’ex coniuge divorziato (e non in funzione dei bisogni dei figli), “la natura e funzione alimentare dell’assegno, alla luce degli orientamenti esaminati, deve essere verificata in concreto, tenendo conto in particolare della destinazione effettiva alle esigenze di vita dell’altro ex coniuge, in relazione all’entità delle somme erogate e della condizione economico-patrimoniale dell’avente diritto“. Trattandosi di un assegno divorzile di rilevantissimo importo (un milione e quattrocentomila Euro al mese), se ne è esclusa radicalmente la natura anche lato sensu alimentare e, di conseguenza, l’attribuzione ad esso dei summenzionati caratteri (tra cui, la irripetibilità).
La ripetibilità è stata ammessa anche in Cass., Sez. I, n. 28646/2021, secondo cui “quando sia stato disposto un assegno divorzile dal giudice di primo grado, ma questa decisione sia stata revocata dal giudice d’appello in conseguenza dell’accertamento dell’insussistenza originaria dei presupposti per la sua attribuzione, l’ex coniuge che ne abbia beneficiato è tenuto alla restituzione di quanto indebitamente ricevuto, a far data da quando ha iniziato a percepire gli emolumenti, oltre agli interessi legali dai rispettivi pagamenti e fino all’effettivo soddisfo, perchè in caso di somme indebitamente versate in forza di una sentenza provvisoriamente esecutiva successivamente riformata, non si applica la disciplina della ripetizione dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 c.c., spettando all’interessato il diritto ad essere reintegrato dall'”accipiens” dell’intera diminuzione patrimoniale subita, a prescindere dal suo stato soggettivo di buona o mala fede“.
Deve rilevarsi che, nella specie, è stata confermata una sentenza di appello emessa in sede di rinvio, ragione questa per cui il giudice del rinvio si era dovuto attenere ai principi di diritto espressi dalla Corte di cassazione, in primis – quanto all’accertamento demandatogli circa la spettanza, o non, dell’assegno divorzile – al principio già reso da Cass. n. 11504 del 2017, poi in parte confutato, per effetto di una diversa interpretazione dell’art. 5 L.div., dalle Sezioni Unite con la sentenza successiva n. 18287/2018; inoltre la questione della ripetibilità di quanto di corrisposto a titolo di assegno divorzile ove, successivamente, se ne accerti la non debenza ab origine, era nella specie coperta da giudicato interno, non essendo stata impugnata dalla parte interessata la condanna restitutoria ma solo contestata, in via incidentale, dall’altra parte (beneficiaria della ripetizione) la decorrenza del capitale e degli interessi (che la Corte d’appello aveva fissato nella data di pubblicazione dell’ordinanza di questa Corte che aveva dato luogo al giudizio di rinvio, anzichè dalla data dei pagamenti).
5.4. Essenzialmente con riferimento ai procedimenti di modifica attivati dal coniuge (o ex coniuge) debitore, a fronte della intervenuta conquista della indipendenza economica dei figli maggiorenni, il cui assegno di mantenimento è stato versato nelle mani dell’altro coniuge, si è poi ammessa la retroattività della modifica in diminuzione o dell’esclusione dell’assegno precedentemente versato, valorizzando lo stato soggettivo di “mala fede” del coniuge percipiente (che conosceva o avrebbe dovuto conoscere il “rischio restitutorio“), derivante dal versamento o dal preteso versamento di un assegno divenuto sostanzialmente “senza causa“, ed ammettendo anche che la retroattività si estenda fino al tempo della raggiunta indipendenza economica dei figli maggiorenni, anche se precedente al tempo di proposizione della domanda di modifica o di cessazione dell’assegno.
Secondo Cass., sez. I, n. 11489/2014, in una fattispecie in cui l’ex marito chiedeva la restituzione di quanto versato all’ex moglie per il contributo al mantenimento di due sue figlie maggiorenni divenute economicamente sufficienti, a far data dall’inizio del procedimento di revisione dell’assegno sfociato nel provvedimento che lo esonerava dal contributo, “l’irripetibilità, l’impignorabilità e la non compensabilità delle prestazioni alimentari non operano indiscriminatamente in virtù di una teorica assimilabilità dell’assegno di mantenimento per i figli maggiorenni alle prestazioni alimentari, ma implicano che in concreto gli importi riscossi per questo titolo abbiano assunto o abbiano potuto assumere analoga funzione alimentare, cosa che non può evincersi nel caso in cui la loro corresponsione comporti un beneficio finale a favore di chi sia già divenuto economicamente autonomo ed in cui l’accertamento di tale sopravvenuta circostanza estintiva dell’obbligo di mantenimento di un genitore sia giudizialmente controverso nel procedimento di revisione pendente nei confronti dell’altro coniuge abilitato a riscuotere la contribuzione e per il quale tale procedura comporta anche la conoscenza del correlato rischio restitutorio delle somme percepite dalla domanda introduttiva, se accolta“.
In altro giudizio, in cui un ex marito, tenuto alla corresponsione nelle mani della ex moglie di un assegno mensile a favore delle due figlie maggiorenni non economicamente autosufficienti, si era opposto ad un precetto di pagamento per gli assegni insoluti a far data dagli anni in cui le figlie si erano sposate (1994 e 1998), a fronte di un “tardivo” procedimento di modifica delle condizioni, attivato solo nell’ottobre 2006, conclusosi positivamente per il ricorrente nel maggio 2007, Cass., sez. I, n. 3659/2020 ha affermato che “in caso di modifica giudiziale delle condizioni economiche del regime post-coniugale, intervenuta in ragione della raggiunta indipendenza economica dei figli, il genitore obbligato può esercitare l’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c. anche con riferimento alle somme corrisposte in epoca antecedente alla domanda di revisione, allorchè la causa giustificativa del pagamento sia già venuta meno, atteso che la detta azione ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa“, precisandosi che, benchè l’ex marito debitore si fosse attivato tardi per la modifica giudiziale delle condizioni di divorzio, il suo obbligo doveva ritenersi già cessato allorquando le figlie, contraendo matrimonio, raggiunsero l’indipendenza economica, in quanto “l’irripetibilità delle somme versate dal genitore obbligato all’ex coniuge si giustifica solo ove gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, che non ricorre ove ne abbiano beneficiato figli maggiorenni ormai indipendenti economicamente in un periodo in cui era noto il rischio restitutorio“.
5.5. Un ultimo orientamento ha, invece, evidenziato la differenza, sul piano ontologico, tra assegno di mantenimento ed assegno alimentare:
– Cass. n. 6519/1996, Sez. III, nell’ambito di un’opposizione all’esecuzione promossa in relazione a pignoramento presso il terzo di somme dovute dal coniuge separato, “il credito dell’assegno di mantenimento attribuito dal giudice al coniuge separato senza addebito di responsabilità, ai sensi dell’art. 156 c.c., avendo la sua fonte legale nel diritto all’assistenza materiale inerente al vincolo coniugale e non nella incapacità della persona che versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento, non rientra tra i crediti alimentari per i quali, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1246 c.c. comma 1, n. 5, e art. 447 c.c., non opera la compensazione legale” (la Corte ha ripreso peraltro differenze strutturali già evidenziate in Cass. n. 3033/1980); Cass., sez. III, n. 9686/2020 (“con l’opposizione ex art. 615 c.p.c., il debitore esecutato può opporre in compensazione al creditore procedente un controcredito certo (cioè, definitivamente verificato giudizialmente o incontestato) oppure un credito illiquido di importo certamente superiore (la cui entità possa essere accertata, senza dilazioni nella procedura esecutiva, nel merito del giudizio di opposizione) anche nell’ipotesi di espropriazione forzata promossa per il credito inerente al mantenimento del coniuge separato, non trovando applicazione, in difetto di un “credito alimentare”, l’art. 447 c.c., comma 2“), con conseguente ammissione della compensazione tra il debito del coniuge separato ed un controcredito da lui vantato, escludendosi d’altronde che in sede di opposizione all’esecuzione il giudice possa scindere, intervenendo sul titolo esecutivo, la parte di credito azionata in executivis di funzione strettamente alimentare e quella, esorbitante rispetto a tale funzione, oggetto di possibile estinzione mediante compensazione.
Nella sentenza n. 9686/2020 (nell’ambito di un giudizio, di opposizione all’esecuzione avviata dal coniuge beneficiario di assegno di mantenimento da separazione, anche per i figli, promosso dal coniuge esecutato, il quale aveva eccepito la compensazione di tale credito con un proprio controcredito), si è rilevato che, mentre l’assegno percepito a titolo di contributo dei figli, minorenni o maggiorenni, ha sicuramente natura “alimentare“, con conseguente sua impignorabilità e non compensabilità se non per controcrediti alimentari, l’assegno di mantenimento del coniuge separato o divorzile si caratterizza “per vincoli solidaristici chiaramente più ampi di quelli rapportati a primarie esigenze di sopravvivenza“, e, non essendo possibile, al fine di perimetrare l’eccepita compensazione, una quota alimentare dello stesso, non potendo il titolo esecutivo formato in altra sede giurisdizionale essere modificato dal giudice dell’esecuzione e neppure dal giudice dell’opposizione all’esecuzione (in base ad una valutazione casistica e con effetti pregiudizievoli alla ragionevole durata del processo esecutivo, in quanto si tratterebbe non di determinare l’entità di un credito certo ed illiquido ma di pronta liquidazione, quanto di scomporre e scindere “la struttura stessa del credito azionato rivalutandone, necessariamente, i presupposti intrinseci“); di conseguenza si è esclusa la compensazione anche in coerenza con “l’indiscussa tassatività delle ipotesi d’impignorabilità precipitato della deroga al principio di cui all’art. 2740 c.c., (Cass., 17/10/2018, n. 26042) – e correlato divieto di compensazione (art. 1246 c.c., n. 3)“.
Da rilevare poi che, in un caso in cui una moglie separata, in sede di opposizione a precetto notificatole in base ad un titolo giudiziale, oppose in compensazione il credito, dalla stessa vantato, per alcuni assegni mensili di mantenimento arretrati dovuti dal marito in favore di lei e delle figlie, Cass., VI-III, n. 11689/2018 ne ha escluso la compensabilità, in ragione della ratio del credito vantato dalle figlie e della non liquidità del credito, non essendo chiaro quale parte dell’assegno arretrato fosse dovuto alla moglie e quale parte alle figlie. Con riguardo, invece, all’assegno divorzile anche una giurisprudenza formatasi prima della Riforma del 1987 ne escludeva la natura alimentare, pur riconoscendo all’assegno stessa una natura “latamente assistenziale” (Cass. n. 7358/1994, ove in motivazione si chiariva che “La legge sullo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio non prevede, infatti, la permanenza di alcun obbligo di mantenimento, o anche meramente alimentare, a carico dell’ex coniuge, ma dispone solo la somministrazione eventuale di un assegno, di natura composita, che ha la diversa funzione di consentire al coniuge economicamente più debole, il quale non sia in grado di acquisire una piena autonomia economica a seguito della cessazione del rapporto coniugale, di permanere potenzialmente nella medesima situazione economica di cui godeva in costanza di matrimonio”, affermandosi che di conseguenza “con lo scioglimento del matrimonio o con la cessazione dei suoi effetti civili, l’obbligazione alimentare sorge in primo luogo, direttamente, a carico dei figli dell’alimentando“)
6. La Corte Costituzionale, in tema di prestazione alimentare.
Va poi rammentato che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 17 del 2000, intervenendo sulla legittimità costituzionale dell’art. 2751 c.c., n. 4, nella parte in cui escludono il privilegio generale sui mobili del debitore (riferito al credito di alimenti) anche al credito da mantenimento del coniuge separato o divorziato, ha, di fatto, nel ritenere l’infondatezza della questione, ricompreso tra i crediti privilegiati di cui all’art. 2751 c.c., n. 4, e art. 2778 c.c., n. 17, i crediti di mantenimento in caso di separazione e i crediti da assegni divorzili, rispondendo entrambi i crediti alla medesima funzione, precisando che il credito da mantenimento del coniuge separato o divorziato ha un contenuto più esteso di quello alimentare in senso stretto.
La Consulta, già con la sentenza n. 1041 del 30/11/1988, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della L. n. 163 del 1969, art. 69, nella parte in cui non consente, entro i limiti stabiliti dal D.P.R. 5 gennaio 1960, n. 180, art. 2, n. 1, (1/3), la pignorabilità per crediti alimentari delle pensioni corrisposte dall’Inps, in quanto, “dinanzi alla esigenza di tutelare i crediti alimentari, non vi è alcuna ragione di concedere ai titolari di pensioni INPS un trattamento privilegiato rispetto a coloro che fruiscono di pensioni dello Stato o di altri enti pubblici“, ovvero fruiscono di assegni corrisposti da casse di previdenza di professionisti, aveva affermato, al par. 2 della pronuncia, respingendo l’eccezione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata, per non avere il credito in base al quale agiva la pignorante (un assegno di mantenimento attribuitole quale coniuge separata) natura alimentare, che “l’assegno di mantenimento, come peraltro è ius receptum, comprende anche, nella sua maggior ampiezza, l’assegno alimentare quando – e la controversia in esame versa in tale ipotesi il coniuge separato incolpevole si trovi in stato di bisogno e nell’impossibilità di svolgere attività lavorativa“.
Sempre la Corte Costituzionale, nella successiva sentenza n. 506 del 4/12/2002, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 128, (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), convertito, con modificazioni, nella L. 6 aprile 1936, n. 1155, nella parte in cui esclude la pignorabilità per ogni credito dell’intero ammontare di pensioni, assegni ed indennità erogati dall’INPS, “anzichè prevedere l’impignorabilità, con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola parte della pensione, assegno o indennità necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilità nei limiti del quinto della residua parte“, ha affermato che l’art. 38 Cost., comma 2, sancendo il diritto dei lavoratori, in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria, a che siano “preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita“, si ispira a criteri di solidarietà sociale e “di pubblico interesse a che venga garantita la corresponsione di un minimum“, il cui ammontare è ovviamente riservato all’apprezzamento del legislatore, e che il presidio costituzionale (art. 38, comma 2) del diritto dei pensionati “a godere di “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita“, dovendo essere coniugato con i principi della responsabilità patrimoniale e con i diritti dei creditori, “non è tale da comportare, quale suo ineludibile corollario, l’impignorabilità, in linea di principio, della pensione, ma soltanto l’impignorabilità assoluta di quella parte di essa che vale, appunto, ad assicurare al pensionato quei “mezzi adeguati alle esigenze di vita” che la Costituzione impone gli siano garantiti, ispirandosi ad un criterio di solidarietà sociale: e, pertanto, ad un criterio che, da un lato, sancisce un dovere dello Stato e, dall’altro, legittimamente impone un sacrificio (ma nei limiti funzionali allo scopo) a tutti i consociati (e segnatamente ai creditori); quindi la Consulta ha statuito che, pur dichiarata l’incostituzionalità della disposizione di legge che prevedeva l’impignorabilità generalizzata, tranne per alcuni crediti qualificati, dell’intero importo dell’assegno pensionistico, dovesse essere enucleato all’interno dello stesso assegno una parte corrispondente al c.d. minimo vitale, che, per la sia natura assistenziale, deve essere mantenuto al riparo da azioni dei creditori.
7. Le conclusioni del Procuratore Generale.
Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del quinto motivo di ricorso (logicamente subordinato al rigetto degli altri motivi), osservando che:
a) “la tradizionale affermazione relativa alla irripetibilità dell’assegno alimentare versato e, di poi, riconosciuto non dovuto (o In sede di conferma della statuizione provvisoria di cui all’art. 446 c.c., o in grado di appello) non trova alcun fondamento normativo” e, anzi, è in contrasto con i più basilari principi processuali, considerando che il diritto alla ripetizione dell’indebito ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza, originaria o sopravvenuta, del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa (Cass.n. 18266/2018), cosicchè non vi sono ragioni per escludere che l’assegno propriamente alimentare giudizialmente riconosciuto come non dovuto, ma concretamente versato nelle more del processo dal soggetto originariamente ritenuto obbligato, non possa formare oggetto di ripetizione di indebito da parte del solvens;
b) invero, l’irripetibilità dell’assegno alimentare viene tradizionalmente ricondotta agli artt. 447 c.c. e 545 c.p.c. ma la prima norma concerne solo l’incedibilità del diritto agli alimenti e il divieto di opporre in compensazione controcrediti dell’obbligato verso l’alimentando, mentre la seconda norma attiene ai limiti di pignorabilità dell’assegno, previsioni queste del tutto coerenti con il carattere personalissimo del diritto agli alimenti;
c) “all’accertamento giudiziale della insussistenza del diritto agli alimenti e dell’infondatezza della relativa domanda – per assenza dello stato di bisogno lamentato o per il difetto del legame fra obbligato e alimentando che tale provvidenza giustifica o, ancora, per la precarietà delle condizioni economiche dell’obbligato –” consegue il carattere oggettivamente indebito dei versamenti effettuati dall’obbligato in esecuzione di un precedente provvedimento interinale e il relativo accertamento non può che operare ex nunc, sin dal momento della domanda, con tutte le conseguenze che ne derivano sia in tema di debenza dell’assegno sia in tema di ripetizione di somme erogate in assenza del diritto dell’accipiens;
d) la scelta opposta finisce per premiare “l’obbligato rimasto inadempiente al provvedimento provvisorio, il quale nulla si vedrebbe costretto a pagare, con effetto ex tunc, mentre l’obbligato rispettoso del provvedimento interinale, non potendo ripetere il versato, patirebbe un pregiudizio economico pari alle somme delle quali egli è pur stato riconosciuto non essere debitore“;
e) a diversa conclusione non potrebbe giungersi nemmeno invocando l’inesistenza di un obbligo del beneficiario “di accantonare le somme ricevute, in vista di una eventuale riduzione od eliminazione della provvidenza ricevuta“, atteso che “l’obbligo di restituzione di quanto ingiustamente percepito… non postula un preventivo obbligo di accantonamento cautelativo“, ovvero la natura cautelare del provvedimento di assegnazione interinale dell’assegno, non potendosi fare riferimento all’art. 189 disp. att. c.p.c. sulla ultrattività del provvedimento presidenziale di cui 708 c.p.c., prevista per il solo caso di estinzione del processo di separazione in coerenza con la previsione di cui all’art. 669 octies c.p.c., comma 6, in tema di provvedimenti cautelari idonei ad anticipare la decisione di merito, mentre il successivo riconoscimento dell’infondatezza del provvedimento provvisorio dovrebbe, in omaggio all’art. 669 novies c.p.c., comma 3, comportarne l’inefficacia e condurre alle disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente, tra cui rientra la ripetizione di quanto indebitamente pagato e percepito (art. 669 novies c.p.c., comma 2), ovvero il riconoscimento del diritto alla ripetizione solo per il caso di temerarietà della richiesta del coniuge, ex art. 96 c.p.c., comma 2, posto che il principio della ripetibilità dell’indebito oggettivo non è ancorato dall’art. 2033 c.c., allo stato di buona fede dell’accipiens (se non con riferimento a frutti e interessi) ovvero ancora sulla base di considerazioni solidaristiche o equitative, improntate alla necessità di tutelare lo stato di bisogno dell’alimentando, insussistenti una volta negati i presupposti dell’assegno o ritenuto l’assegno originariamente stabilito sproporzionato a tale stato di bisogno o alle condizioni economiche dell’obbligato;
f) tali conclusioni in ordine alla ripetibilità dell’assegno di natura alimentare e, di conseguenza, dell’assegno di mantenimento in ambito familiare non si attagliano al solo caso del rapporto provvedimento interinale-provvedimento definitivo, ma anche al caso della sentenza di primo grado rispetto alle sentenze dei gradi successivi, le quali accertino l’inesistenza dei presupposti del diritto fatto valere e inesattamente riconosciuto in precedenza (o riconosciuto in misura eccessiva);
g) quanto poi alla questione della compensabilità e della pignorabilità dell’assegno di mantenimento (non oggetto di causa ma sollevata nell’ordinanza interlocutoria), laddove sia possibile effettivamente individuare una componente assistenziale o di sostentamento negli assegni in parola, quale che ne sia il loro importo assoluto, “tale aliquota assistenziale, stante la sua natura assimilabile a quella prevista dall’art. 438 c.c., si ritiene debba soggiacere ai medesimi limiti di compensabilità e pignorabilità previsti per l’assegno alimentare, non essendovi ragione alcuna di differenziare le rispettive tutele” e, in assenza di specifiche indicazioni nella sentenza che riconosce il diritto a tali assegni (indicazioni peraltro rare nella pratica), sarà “compito del giudice del merito – segnatamente, del giudice dell’esecuzione, ex art. 545 c.p.c., comma 9, – individuare il minimo vitale (per impiegare le parole di Corte Cost. 506/2002, con riferimento ai trattamenti pensionistici) dell’assegno di mantenimento o dell’assegno divorzile da considerare impignorabile e, come tale, non compensabile, ex art. 1246 c.c., n. 3)“.
In ordine ai rapporti tra provvedimenti provvisori di natura cautelare anticipatoria e sentenza di merito, giova rammentare che il rito cautelare contiene una disposizione, l’art. 669 novies c.p.c., secondo la quale i provvedimenti cautelari perdono la loro efficacia se con sentenza, anche non passata in giudicato, sia dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso (Cass. n. 13292/1999: “In base all’art. 669 novies c.p.c. la declaratoria di inesistenza del diritto cautelato comporta l’inefficacia automatica del provvedimento cautelare di modo che la pronunzia del giudice sul punto ha mera funzione dichiarativa“; Cass. n. 17028/2008; Cass. SS.UU. n. 12103/2012: “La misura cautelare del sequestro perde la sua efficacia in conseguenza della dichiarazione di estinzione del correlato giudizio di merito, senza che a tal fine sia necessario che la pronunzia sia divenuta inoppugnabile, dovendosi, pertanto, assumere la stessa a presupposto dei provvedimenti ripristinatori previsti dall’art. 669 novies c.p.c., comma 2“).
La norma dovrà essere applicata, secondo il PG, anche nell’ipotesi in cui, accertati i presupposti che portano alla separazione personale dei coniugi o allo scioglimento del vincolo coniugale, il Tribunale ritenga di escludere il diritto al mantenimento di uno dei coniugi, provvisoriamente riconosciuto esistente nel corso dell’udienza presidenziale, ovvero di ridurre l’assegno di mantenimento con conseguente parziale dichiarazione di inefficacia, e quindi riduzione di quanto disposto dai provvedimenti presidenziali. In tutti questi casi, la sentenza che dichiari, in tutto o in parte, inefficace la misura provvisoria dovrà anche disporre le opportune misure restitutorie, in forza dello specifico disposto dell’art. 669 novies c.p.c., che impone al giudice di dare le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente.
Seguendo la disciplina del c.d. nuovo rito cautelare, la causa di inefficacia travolge, quindi, normalmente il provvedimento cautelare con effetto ex tunc. 8. La soluzione della questione della ripetibilità, a composizione delle diverse posizioni sinora espresse.
8.1. L’esame della norma speciale dettata dall’art. 189 disp. att. c.p.c..
Occorre, anzitutto, esaminare i rapporti tra provvedimenti provvisori presidenziali e sentenza definitiva (la cui retroattività dalla domanda, quanto alla decorrenza dell’obbligo di versamento dell’assegno, viene riconosciuta con orientamento ormai consolidato, in riferimento all’assegno in favore del coniuge separato o dei figli, sia in applicazione del principio per il quale un diritto non può restare pregiudicato dal tempo necessario per farlo valere in giudizio sia con applicazione estesa della disposizione dettata per l’assegno alimentare, ai sensi dell’art. 445 c.c., mentre in relazione a quello divorzile, in particolare, essa è prevista, dalla L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 13, previa specifica motivazione da parte del giudice, presupponendo, di regola, tale assegno la definitiva acquisizione da parte del coniuge dello status di divorziato), in relazione alla esecutività ed alla c.d. ultrattività degli effetti, derivante dal disposto dell’art. 189 disp. att. c.p.c., (“L’ordinanza con la quale il presidente del tribunale o il giudice istruttore dà i provvedimenti di cui all’art. 708 del codice costituisce titolo esecutivo. Essa conserva la sua efficacia anche dopo l’estinzione del processo finchè non sia sostituita con altro provvedimento emesso dal presidente o dal giudice istruttore a seguito di nuova presentazione del ricorso per separazione personale dei coniugi“), che opera anche in ambito di divorzio per effetto dell’espresso richiamo normativo dell’art. 4, L. D..
Invero, il primo orientamento giurisprudenziale sopra descritto ha argomentato la ritenuta irretroattività, sempre, della sentenza che riveda in diminuzione o che escluda l’assegno corrisposto in base al provvedimento presidenziale o a quello, successivo, del giudice istruttore, essenzialmente sulla base di ragioni processuali, correlate alla natura cautelare dei provvedimenti presidenziali ed alla particolare disciplina all’uopo dettata dall’art. 189 disp. att. c.p.c..
Nella rivisitazione, che sembra ormai necessaria di tale orientamento, incidono indubbiamente alcune modifiche processuali via via succedutesi:
a) con la L. n. 74 del 1987, artt. 8 e 23, di modifica della L. n. 898 del 1970, si è previsto che, nel procedimento di divorzio come in quello di separazione, “per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva“, anticipandosi la scelta poi operata dal legislatore in via generale nel nuovo testo dell’art. 282 c.p.c., per effetto della L.353/1990, a decorrere dal 1 gennaio 1993;
b) l’introduzione del c.d. “nuovo rito cautelare“, di cui agli artt. 669 bis – 669 quaterdecies, sempre per effetto della L. n. 353 del 1990, a decorrere dal 1 gennaio 1993;
c) la modifica dell’art. 336 c.p.c. (sempre a seguito della Riforma di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353) (“La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata. La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata“), che ha sostituito il comma 2 della disposizione;
d) la L. n. 80 del 2005, che ha previsto, all’art. 709 c.p.c., che “I provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente con l’ordinanza di cui all’art. 708, comma 3, possono essere revocati o modificati dal giudice istruttore“, mentre, in precedenza, l’art. 708, comma 3, prevedeva che “Se si verificano mutamenti nelle circostanze, l’ordinanza del presidente può essere revocata o modificata dal giudice istruttore a norma dell’art. 177“;
e) la L.54/2006, che ha introdotto la reclamabilità dei provvedimenti presidenziali ex art. 708 c.p.c. (“Contro i provvedimenti di cui al comma 3 si può proporre reclamo con ricorso alla Corte d’appello che si pronuncia in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione del provvedimento“).
Deve essere, senz’altro, confermata la natura cautelare, nella più vasta accezione ormai comprensiva anche dei provvedimenti anticipatori della decisione definitiva, dei provvedimenti presidenziali in esame: il Presidente del Tribunale regola, in via provvisoria, l’assetto dei rapporti tra coniugi e tra questi ultimi e i figli, anticipando gli effetti della pronuncia di merito, cercando di prevedere, con cognizione sommaria, il contenuto della suddetta decisione definitiva, sotto il profilo della disciplina dei rapporti tra i coniugi e tra questi e i figli.
Si tratta, tuttavia, di una misura peculiare “con funzione cautelare“, in relazione alla quale non tutte le disposizioni dettate dal nuovo rito cautelare, in vigore dal 1993, sono operanti, in considerazione di alcune sue caratteristiche, occorrendo tenere conto, quindi, di quanto dispone l’art. 669 quaterdecies c.p.c., circa l’applicazione delle relative disposizioni solo “in quanto compatibili”.
Caratteri generali dei provvedimenti cautelari sono la provvisorietà e la strumentalità rispetto alla sentenza di merito: quando il processo prosegue e interviene la pronuncia di primo grado di merito, i provvedimenti presidenziali vengono ad essere assorbiti e sostituiti da quello di merito. Questa Corte aveva invero affermato già in un precedente del 1969 (Cass. n. 3840/1969) che “ai sensi dell’art. 708 c.p.c., il divieto di modificare i provvedimenti temporanei emanati dal Presidente del tribunale all’udienza di prima comparizione dei coniugi, concerne soltanto il giudice istruttore e, pertanto, non limita i poteri del collegio in sede di pronunzia definitiva, la quale deve essere emessa, secondo i principi generali, in base alla valutazione di tutti gli elementi emersi e travolge i provvedimenti provvisori“.
E deve rilevarsi che non sia più necessario attendere una pronuncia passata in giudicato, in quanto le statuizioni a contenuto economico, nei procedimenti di separazione e di divorzio, vengono modificate già dalla sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva (per effetto della L.div. n. 898 del 1970, art. 4, come novellata dalla L. n. 74 del 1987, prima della riforma dell’art. 282 c.p.c.).
Ora, specifici caratteri strutturali dei provvedimenti temporanei ed urgenti in esame sono, anzitutto, la possibile ufficiosità della pronuncia e l’ultrattività che consente ai provvedimenti in questione di sopravvivere all’estinzione del processo, ma anche la necessaria previa audizione delle parti.
Il tutto trova giustificazione nell’interesse sotteso a tale disciplina e che deve essere tenuto presente dall’organo investito della decisione temporanea ed urgente: non quello dell’una o dell’altra parte, ma quello di entrambe le parti e quello superiore del nucleo familiare, sia pure in dissoluzione, comprensivo anche dei figli.
Così, con riguardo specifico alla caratteristica dell’ultrattività, si è soltanto voluta garantire una particolare stabilità dei provvedimenti, valutando il legislatore positivamente l’ipotesi dell’eventuale inattività delle parti che, pur nel perdurare della crisi coniugale, decidano di non proseguire il giudizio ed accettino l’ordinanza presidenziale di regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali, sulla quale non erano riusciti a raggiungere un accordo, quale unica e futura regolamentazione dei loro rapporti. Laddove il processo venga lasciato estinguere e non venga proposto un nuovo ricorso per l’inizio di un nuovo processo, l’ordinanza presidenziale godrà di una funzione autonoma, con una sua stabilità relativa, finchè esse non vengano modificati in un nuovo giudizio di separazione, instaurabile in ogni tempo. Si deve osservare poi che, per il combinato disposto degli artt. 669 octies e 669 novies c.p.c., la regola generale secondo cui, se successivamente al suo inizio il procedimento di merito si estingue, il provvedimento cautelare perde la sua efficacia, non opera per i provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700, e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito.
L’art. 669 novies c.p.c., dispone che i provvedimenti cautelari perdono la loro efficacia se con sentenza, anche non passata in giudicato, sia dichiarato inesistente, anche in parte, il diritto a cautela del quale era stato concesso. La sentenza che dichiari in tutto o in parte inefficace la misura provvisoria dovrà quindi anche disporre le opportune misure restitutorie, in forza dello specifico disposto dell’art. 669 novies c.p.c., che impone al giudice di dare le disposizioni necessarie per ripristinare la situazione precedente. Seguendo la disciplina del nuovo rito cautelare la causa di inefficacia del diritto, nel merito, travolge quindi, il provvedimento cautelare con effetto ex tunc. Non sembra possibile ritenere che tale disposizione non sia compatibile con la disposizione di cui all’art. 189 disp. att. c.p.c., che si limita a contemplare l’ultrattività dei provvedimenti presidenziali ex art. 708 c.p.c., entro precisi limiti, non in assoluto, per l’ipotesi in cui il procedimento di separazione si estingua.
Peraltro, nell’ammettere la retroattività per effetto della sentenza che dichiari in tutto o in parte il diritto al mantenimento, non si tratterebbe necessariamente di sancire l’obbligo di restituzione di quanto percepito a titolo strettamente alimentare, ma di restituire somme di denaro versate sulla base di un supposto ed inesistente diritto al mantenimento, a fronte di un accertamento a cognizione piena. E la stessa giurisprudenza indicata nel primo orientamento riteneva, invece, comunque pacifica la retroattività degli effetti della sentenza per il diverso e simmetrico caso di successivo riconoscimento di un diritto al mantenimento ritenuto inesistente, o solo parzialmente esistente, in sede presidenziale, potendo il coniuge con effetti retroattivi pretendere la differenza tra quanto già percepito e la maggior somma stabilita con la sentenza che definisce il giudizio (Cass. 7458/1990).
Deve, in ultimo, rilevarsi che, nel D.Lgs. n. 149 del 2022, di Riforma del processo civile, recante attuazione della legge delega n. 206 del 26 novembre 2021, si è previsto, all’art. 473.22, nel Titolo IV bis dedicato alle norme per il procedimento – unificato – in materia di persone, minorenni e famiglie, che il giudice, all’udienza di comparizione delle parti, se la conciliazione non riesce, adotta i provvedimenti necessari ed urgenti che ritiene opportuni nell’interesse delle parti “nei limiti delle domande da queste proposte” e, quando pone a carico delle parti l’obbligo di versare un contributo economico, determina “la data di decorrenza del provvedimento, con facoltà di farla retroagire fino alla data della domanda“; l’ordinanza costituisce titolo esecutivo e titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale e conserva la sua efficacia “anche dopo l’estinzione del processo, finchè non sia sostituita con altro provvedimento“.
8.2. La natura o meno alimentare o “para-alimentare” o con finalità anche assistenziale della prestazione di mantenimento, nella separazione e divorzio.
Pur nella comune riconduzione al concetto di solidarietà familiare (ad eccezione del rapporto donatario/donante), sussistono indubbie differenze strutturali e funzionali tra gli alimenti, secondo la modalità di somministrazione periodica di somma di denaro, e l’assegno di mantenimento del coniuge separato e di divorzio (al di fuori dell’ipotesi di corresponsione in unica soluzione):
a) il diritto al mantenimento del coniuge separato, cui non sia addebitabile la separazione, presuppone la mancanza di mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacità concreta lavorativa del richiedente, nonchè le condizioni economiche dell’obbligato;
b) l’assegno divorzile ha natura composita, in pari misura, assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno dei coniugi non gli assicuri l’autosufficienza economica) e riequilibratrice o meglio perequativo-compensativa (quale riconoscimento dovuto, laddove le situazioni economico-patrimoniali dei due coniugi, pur versando entrambi in condizione di autosufficienza, siano squilibrate, per il contributo dato alla realizzazione della vita familiare, con rinunce ad occasioni reddituali attuali o potenziali e conseguente sacrificio economico);
c) presupposti del diritto agli alimenti sono lo stato di bisogno del soggetto richiedente e l’impossibilità dello stesso di provvedere da solo a superare tale stato, rilevando, come criterio per determinarne la misura concreta, anche la capacità economica dell’obbligato di provvedere alle necessità del bisognoso (riferita, quanto al donatario, anche al valore della donazione ricevuta).
Solo il diritto agli alimenti richiede tra i presupposti costitutivi uno stato di totale assenza di mezzi di sostentamento e, di regola, tende ad appagare le più elementari e basilari esigenze di vita quali il vitto, l’alloggio, il trasporto e le cure mediche, ma anche bisogni “civili“, quali l’istruzione, avuto anche riguardo alla sua posizione sociale (vale a dire ai bisogni essenziali che si manifestino in concreto in relazione anche alla personalità ed alle abitudini pregresse), senza sperperi o sregolatezza, mentre è limitata allo “stretto necessario” quando l’obbligazione sorge tra fratelli e la prestazione deve comprendere le spese per l’educazione e l’istruzione se l’alimentato è minorenne.
Tuttavia, costituisce acquisizione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte quella secondo cui, nonostante la sostanziale diversità delle condizioni che legittimano le due domande, la richiesta di alimenti non costituisce una domanda nuova, ma un minus necessariamente ricompreso nella più ampia richiesta di mantenimento (Cass. n. 4702/1978; Cass. n. 51/1981, Cass. n. 5698/1988; Cass. n. 2128/1994; Cass. n. 5677/1996; Cass. n. 5381/1997; Cass. n. 4198/1998; Cass. n. 1761/2008; Cass. n. 10718/2013; Cass. n. 27695/2017).
La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 17 del 2000, ha, di fatto, nel ritenere l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, ricompreso tra i crediti privilegiati di cui all’art. 2751 c.c., n. 4, e art. 2778 c.c., n. 17, i crediti di mantenimento in caso di separazione e i crediti da assegni divorzili, rispondendo entrambi i crediti alla medesima funzione, precisando che il credito da mantenimento del coniuge separato o divorziato ha un contenuto più esteso di quello alimentare in senso stretto.
In sostanza, si è inteso dare rilievo al comune carattere (o meglio alla comune finalità) “assistenziale” delle diverse prestazioni ed al fatto che anche l’assegno di mantenimento del coniuge separato e l’assegno divorzile, nella sua componente propriamente assistenziale, nonchè l’assegno di mantenimento dei figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti economicamente, rispondano, al pari degli alimenti, alla necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, sia pure in un’accezione più ampia e non essendo necessario uno stato di indigenza o bisogno, come negli alimenti.
Il richiamo, nelle situazioni di crisi della famiglia, ai principi costituzionali generali (artt. 2 e 29 Cost.), strumenti più duttili e quindi più efficienti, talvolta, della disciplina positiva, si realizza anche attraverso il riferimento al “principio di solidarietà sociale“, che nel settore della società familiare prende il nome di “solidarietà familiare” o “solidarietà post – familiare“, che deve ispirare i componenti della famiglia a comportamenti di correttezza e di buona fede, finalizzati, pur a fronte della rottura della famiglia, ad un riequilibrio del rapporto di coppia e tra genitori e figli, al fine di evitare tendenzialmente, nei rapporti reciproci, conflittualità ed abusi.
8.3. La verifica della effettiva irripetibilità delle prestazioni alimentari. Possibile giustificazione di una parziale irripetibilità delle prestazioni di mantenimento nelle situazioni di crisi del rapporto di coppia. Limiti.
E’ stato affermato da questa Corte che la retroattività della sentenza, nel rapporto tra sentenza di primo grado e sentenza di appello, nel caso in cui escluda o riduca l’assegno stabilito nella sentenza impugnata, può operare solo a favore del beneficiario dell’assegno, considerato il carattere “latamente alimentare” o la funzione anche alimentare dell’assegno (nel senso della ricomprensione del minus alimentare nella più ampia obbligazione di mantenimento) e la conseguente applicabilità, per analogia, agli assegni separativi o divorzili del trattamento riservato agli alimenti, ragione questa per cui l’effetto retroattivo della sentenza debba in ogni caso conciliarsi con i caratteri della impignorabilità, della non compensabilità e “della irripetibilità” dell’assegno di mantenimento “desumibili dall’art. 447 c.c., e art. 545 c.p.c.“, propri della disciplina dell’assegno alimentare Ora, in effetti, non si rinviene nell’ordinamento una disposizione che, sul piano sostanziale, sancisca la irripetibilità dell’assegno propriamente alimentare provvisoriamente disposto a favore dell’alimentando, atteso che l’art. 447 c.c., si occupa di disciplinare la cessione del credito alimentare e la sua compensazione con un controcredito dell’obbligato, ma non ne sancisce l’irripetibilità, mentre gli artt. 545 e 671 c.p.c., contemplano l’impignorabilità (non assoluta, essendo pignorabili i crediti a loro volta alimentari, a condizione dell’autorizzazione del giudice) e l’insequestrabilità dei crediti alimentari. Le stesse disposizioni specifiche degli artt. 440 e 446 c.c., non escludono la possibilità del ricorso al generale rimedio dell’azione di ripetizione di indebito, nelle ipotesi di riduzione dell’assegno alimentare fissato in via cautelare e provvisoria dal Presidente del Tribunale o di esclusione del diritto con il provvedimento definitivo.
Di conseguenza, non può negarsi l’efficacia caducatoria e ripristinatoria dello status quo ante e dunque sostitutiva della sentenza impugnata propria della sentenza emessa in esito al successivo grado di giudizio, sulla base del semplice riferimento alla disciplina dettata per gli alimenti in senso proprio.
Peraltro, riguardo alla questione che in questa sede interessa, come già esposto in merito al rapporto tra provvedimenti presidenziali e sentenza definitiva che modifichi il contenuto dei primi, non si tratterebbe di sancire l’obbligo di restituzione di quanto percepito a titolo strettamente alimentare, ma di restituire somme di denaro versate sulla base di un supposto ed inesistente diritto al mantenimento, oppure di parziale restituzione di somme di denaro versate sulla base di un supposto e parzialmente inesistente diritto al mantenimento.
In realtà, un temperamento al principio di piena ripetibilità trova giustificazione solo per ragioni equitative, di stampo c.d. “pretorio“.
Invero, l’opinione, pacifica in giurisprudenza, secondo cui la sentenza che escluda o riduca l’assegno alimentare concesso con provvedimento provvisorio o con la sentenza definitiva del grado inferiore del processo non potrebbe, a determinate condizioni, comportare la ripetibilità delle maggiori somme già versate, si giustifica su di un piano “equitativo”, sulla base nei principi costituzionali di solidarietà umana (art. 2 Cost.) e familiare in senso ampio (art. 29 Cost.: la società “naturale” costituita dalla famiglia), e solo nella misura in cui si esoneri il soggetto beneficiario, dal restituire quanto percepito provvisoriamente anche “per finalità alimentare“, sul presupposto che le somme versate in base al titolo provvisorio siano state verosimilmente consumate per far fronte proprio alle essenziali necessità della vita (argomento tratto da art. 438 c.c., comma 2).
Occorre dunque dare il giusto rilievo alle esigenze equitative-solidaristiche, espressione di quella solidarietà che trova sede anche nella peculiare comunità sociale rappresentata dalla famiglia ed anche nelle situazioni di crisi della unione, in un’ottica di temperamento della generale operatività della regola civilistica della ripetizione di indebito (art. 2033 c.c.), nel quadro di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della stessa.
Non si tratta di dettare una regola di “automatica irripetibilità” delle prestazioni rese in esecuzione di obblighi di mantenimento, quanto di operare un necessario bilanciamento tra l’esigenza – palesata nel presente giudizio dal controricorrente – di legalità e prevedibilità delle decisioni e l’esigenza, di stampo solidaristico, di tutela del soggetto che sia stato riconosciuto parte debole nel rapporto.
Ora, ove con la sentenza venga escluso in radice e “ab origine” (non per fatti sopravvenuti) il presupposto del diritto al mantenimento, separativo o divorzile, per la mancanza di uno “stato di bisogno” del soggetto richiedente (inteso, nell’accezione più propria dell’assegno di mantenimento o di divorzio, come mancanza di redditi adeguati), ovvero si addebiti la separazione al coniuge che, nelle more, abbia goduto di un assegno con funzione non meramente alimentare, non vi sono ragioni per escludere l’obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (con conseguente piena ripetibilità).
Per converso, si deve affermare che, invece, non sorge, a favore del coniuge separato o dell’ex coniuge, obbligato o richiesto, il diritto di ripetere le maggiori somme provvisoriamente versate sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione) sia nel caso in cui l’assegno stabilito in sede presidenziale (o nel rapporto tra la sentenza definitiva di un grado di giudizio rispetto a quella, sostitutiva, del grado successivo) venga rimodulato “al ribasso“; il tutto sempre se l’assegno in questione non superi la misura che garantisca al soggetto debole di far fronte alle normali esigenze di vita della persona media, tale che la somma di denaro possa ragionevolmente e verosimilmente ritenersi pressochè tutta consumata, nel periodo per il quale è stata prevista la sua corresponsione.
Ciò si giustifica in considerazione della tutela di quella solidarietà post-familiare, sottesa in tutta la disciplina relativa alla crisi della famiglia, e del fatto che non è in discussione, in tali ipotesi, l’esistenza e la permanenza, in giudizio, di un soggetto in condizioni di debolezza economica.
Si deve infatti ragionevolmente presumere, in rapporto all’entità della somma di denaro litigiosa, che le maggiori somme (attribuite in via provvisoria o in via definitiva con la sentenza di primo grado), versate medio tempore dal richiesto al richiedente, siano state comunque (in atto o in potenza) consumate, proprio per fini di sostentamento, dal coniuge debole.
Si tratta, oltretutto, di una regola anche di esperienza pratica, in quanto il denaro, nell’ambito di cifre di modesta entità, percepito in funzione del necessario sostentamento del coniuge, è da presumere che sia stato speso a quel fine, con conseguente esclusione di ogni, inutile, azione di ripetizione.
L’entità, necessariamente, modesta di tale somma di denaro non può essere determinata in maniera fissa ed astratta, considerato che il legislatore non ha fissato in maniera rigida la misura ed il contenuto neppure della prestazione alimentare in senso proprio, essendosi ritenuta necessaria una valutazione personalizzata e in concreto, la cui determinazione è riservata al giudice di merito, valutate tutte le variabili del caso concreto: la situazione personale e sociale del coniuge debole, le ragionevoli aspettative di tenore di vita ingenerate dal rapporto matrimoniale ovvero di non autosufficienza economica, nonchè il contesto socio-economico e territoriale in cui i coniugi o gli ex coniugi sono inseriti.
In definitiva, si deve affermare il seguente principio di diritto: “In materia di famiglia e di condizioni economiche nel rapporto tra coniugi separati o ex coniugi, per le ipotesi di modifica nel corso del giudizio, con la sentenza definitiva di primo grado o di appello, delle condizioni economiche riguardanti i rapporti tra i coniugi, separati o divorziati, sulla base di una diversa valutazione, per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda), dei fatti già posti a base dei provvedimenti presidenziali, confermati o modificati dal giudice istruttore, occorre distinguere:
a) opera la “condictio indebiti” ovvero la regola generale civile della piena ripetibilità delle prestazioni economiche effettuate, in presenza di una rivalutazione della condizione “del richiedente o avente diritto”, ove si accerti l’insussistenza “ab origine” dei presupposti per l’assegno di mantenimento o divorzile;
b) non opera la “condictio indebiti” e quindi la prestazione è da ritenersi irripetibile, sia se si procede (sotto il profilo dell’an debeatur, al fine di escludere il diritto al contributo e la debenza dell’assegno) ad una rivalutazione, con effetto ex tunc, “delle sole condizioni economiche del soggetto richiesto (o obbligato alla prestazione)”, sia se viene effettuata (sotto il profilo del quantum) una semplice rimodulazione al ribasso, anche sulla base dei soli bisogni del richiedente, purchè sempre in ambito di somme di denaro di entità modesta, alla luce del principio di solidarietà post-familiare e del principio, di esperienza pratica, secondo cui si deve presumere che dette somme di denaro siano state ragionevolmente consumate dal soggetto richiedente, in condizioni di sua accertata debolezza economica;
c) al di fuori delle ipotesi sub b), in presenza di modifica, con effetto ex tunc, dei provvedimenti economici tra coniugi o ex coniugi opera la regola generale della ripetibilità“.
9. Di conseguenza, nella fattispecie in esame, va respinto il quinto motivo di ricorso, denunciante la falsa applicazione degli artt. 156 e 445 c.c., in relazione al capo dell’impugnata decisione che, accogliendo l’appello incidentale del B.B., ha pronunciato la condanna della ricorrente alla ripetizione in favore dell’ex coniuge delle somme percepite a titolo di assegno di mantenimento a seguito dei provvedimenti provvisoriamente adottati dal presidente del tribunale, adottati in primo grado nel giudizio promosso ex art. 710 c.p.c., a decorrere dall’ottobre 2009 (come indicato nell’ordinanza presidenziale del febbraio 2010), assegno fissato nella misura di Euro 500,00 mensili, e, di seguito, dal giudice istruttore, dal dicembre 2010, nella misura di Euro 400,00 mensili, essendosi ritenuto che “sin dalla richiesta di modifica delle condizioni della separazione non sussistessero i presupposti“, per l’assegno di mantenimento a favore della A.A..
L’esame dei restanti motivi, involgenti tra l’altro anche la questione della spettanza o meno alla ricorrente dell’assegno divorzile, deve essere rimesso alla Sezione Prima.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, respinge il quinto motivo di ricorso e rimette gli atti alla Prima sezione civile per l’esame dei restanti motivi.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 27 settembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2022
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 24 novembre 2021, n. 36509, per SS.UU, 08 novembre 2022, n. 32914, in tema di assegno di mantenimento
SS.UU, 08 novembre 2022, n. 32914, in tema di assegno di mantenimento
In tema di assegno divorzile – SS.UU, 24 giugno 2022, n. 20495
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA
FATTI DI CAUSA
1. – Con decreto del (OMISSIS), il Tribunale (OMISSIS) ha respinto il ricorso proposto dall’ex coniuge, volto alla revoca dell’attribuzione di un assegno divorzile di € 2.240,00 mensile in favore della ex moglie.
In sede di reclamo, la Corte di appello di con decreto del (OMISSIS) in parziale riforma, ha ridotto di € 500,00, quindi fissato nella misura di € 1.740,00, il predetto importo, a decorrere dalla pubblicazione del decreto.
Ha ritenuto la corte territoriale che la percezione, da parte della beneficiaria dell’assegno, di una somma rilevante (pari a circa € 400.000,00) integrasse un fatto nuovo, idoneo a modificare in melius le condizioni pregresse, indipendentemente dalla circostanza fatto che una parte della somma sia poi stata donata alle figlie, mentre per il reclamante il fatto nuovo sopravvenuto, del pari idoneo a modificarne in peius la situazione complessiva, è la malattia grave da cui egli è stato colpito, con le relative spese di cura e di viaggio; ha ritenuto assenti, invece, le condizioni per revocare l’assegno, sebbene la richiedente disponesse di una casa con relative pertinenze e nel suo patrimonio fosse entrata un considerevole somma.
2. – Avverso questa decisione proposto ricorso per cassazione, fondato su tre motivi. Si difende con controricorso l’intimata.
Pervenuta alla Sesta Sezione civile-Sottosezione prima, e depositata memoria dal ricorrente, con ordinanza interlocutoria del 20 gennaio 2022, n. 1814 la causa, in ragione del venir meno del medesimo ricorrente in corso del giudizio di legittimità, è stata rimessa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, sulla questione se il decesso del coniuge obbligato al pagamento dell’assegno divorzile determini la cessazione della materia del contendere, in un caso in cui egli abbia intrapreso il giudizio per la revisione dell’obbligo di corrispondere l’assegno, o se tale giudizio debba proseguire da parte dei suoi eredi.
Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
La parte ricorrente ha depositato la memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
La causa è stata posta in decisione all’udienza collegiale del 10 maggio 2022.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – I motivi. Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione degli artt. 5 e 9 I. 1° dicembre 1970, n. 898, in quanto la corte del merito non ha tenuto conto degli insegnamenti di Cass., sez. un., n. 18287 del 2018, non avendo accertato l’inadeguatezza dei mezzi economici della ex coniuge o ha successivamente ereditato importanti cespiti, è divenuta proprietaria dell’abitazione in cui vive e di un magazzino, che essa lascia artatamente vuoto ed inutilizzato e che potrebbe essere utilmente locato con un buon reddito; la stessa donazione di € 200.000,00 alle figlie, di cui la Corte d’appello dà atto, dimostra che l’ex coniuge non ha nessun problema economico ed anzi gode di notevoli disponibilità.
Con il secondo motivo, lamenta la nullità del decreto impugnato, ai sensi dell’art. 132, comma, n. 4, cod. proc. civ., per assoluta mancanza di motivazione circa il quantum della riduzione operata.
Con il terzo motivo, deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 9 I. n. 898 del 1970, con riguardo alla decorrenza della riduzione, arbitrariamente fissata dall’emissione del decreto e non dal deposito del ricorso introduttivo.
2. — La vicenda. La vicenda in esame ha visto la pronuncia di una iniziale sentenza sullo status in data (OMISSIS) con prosecuzione del giudizio ai fini dell’attribuzione dell’assegno divorzile, conclusosi con l’affermazione dell’obbligo, a carico dell’ex marito, di pagare la somma mensile di € 2.240,00 in favore dell’ex moglie, disposto dal Tribunale con la sentenza del 13 giugno 2013, appellata e confermata dal giudice di secondo grado.
Quindi, con ricorso depositato il (OMISSIS) il coniuge onerato ha agito per la revoca dell’assegno, istanza parzialmente accolta in sede di giudizio di reclamo con la riduzione del medesimo ad € 1.740,00.
Intrapreso il giudizio di cassazione e formulata dalla Sezione VI-1 proposta di accoglimento del ricorso per manifesta fondatezza, nel mese di novembre 2021 la ex coniuge controricorrente ha depositato istanza di interruzione del giudizio, in ragione del sopravvenuto venir meno del ricorrente.
Oggetto della rimessione alle Sezioni unite sono, pertanto, le questioni concernenti le sorti del processo in simile evenienza, con riguardo alle figure delle parti del giudizio divorzile o di modifica delle condizioni di esso, alla natura delle sentenze pronunciate, alla successione, all’interruzione ed alla riassunzione della causa.
3. – Il procedimento di divorzio. I commi 12, 13 e 14 dell’art. 4 l. 10 dicembre 1970, n. 898 (art. sostituito dal d.I. 14 marzo 2005, n, 35, conv. in I. 14 maggio 2005 n, 80) prevedono, rispettivamente, che:
a) nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, e che avverso tale sentenza è ammesso solo l’appello immediato; formatosi il giudicato, si applica la previsione di cui all’art. 10, dovendosi trasmettere la sentenza in copia autentica, a cura del cancelliere, all’ufficiale dello stato civile per le annotazioni e le ulteriori incombenze, onde lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio «hanno efficacia, a tutti gli effetti civili, dal giorno dell’annotazione della sentenza»;
b) quando sia stata pronunciata la sentenza non definitiva, il tribunale, emettendo la sentenza sull’an circa l’obbligo di somministrazione dell’assegno, può disporne gli effetti sin dalla domanda;
c) «per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva».
In tal modo, si permette la definizione del giudizio sullo status al più presto, con la formazione del giudicato: onde la sentenza si limita alla statuizione sullo status, come sovente accade per l’esigenza, da un lato, di soddisfare il desiderio della rapida riconquista dello status di soggetto non coniugato (non si parla di status di divorziato «che è uno status inesistente, determinando, piuttosto, la pronuncia di divorzio la riacquisizione dello stato libero»: così, in motivazione, Cass. 23 gennaio 2019, n. 1882), e, dall’altro lato, di permettere, per i profili patrimoniali connessi alla condizione di bisogno di uno dei
coniugi, il più complesso accertamento.
Il legislatore discorre qui di “sentenza non definitiva” nel senso che il giudice non si spoglia dell’intero processo: si tratta peraltro di una sentenza definitiva parziale, in quanto definisce la questione di status.
4. – Il procedimento di revisione dell’assegno. A sua volta, l’art. 9 I. n. 898 del 1970 prevede che, qualora sopravvengano «giustificati motivi», dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, con procedimento in camera di consiglio, può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni sulla misura e sulle modalità dell’assegno.
La domanda di revoca o riduzione dell’assegno divorzile, già disposto in favore dell’altro coniuge, può dunque sopravvenire anche al giudicato, che viene appunto annoverato nella categoria del giudicato rebus sic stantibus, in quanto per definizione soggetto al perdurante adeguamento alle situazioni sopravvenute. Infatti, il titolo esecutivo in materia di famiglia è sì assistito da definitività equiparabile al giudicato, ma si tratta di un giudicato del tutto peculiare (fra le altre, Cass. 2 luglio 2019, n. 17689; Cass. 30 luglio 2015, n. 16173), riguardo al quale i fatti sopravvenuti possono rilevare attraverso un procedimento ad hoc, quale nella specie dettato dell’art. 9 |. n. 898 del 1970 per il divorzio.
Ciò si lega alla stretta interrelazione con una determinata situazione pregressa suscettibile naturaliter di un’evoluzione imponderabile, perché legata alle vicende personali degli ex coniugi, tanto da fondare l’esigenza di un previo formale intervento, devoluto al giudice, sul titolo preesistente nel superiore e pubblicistico interesse della migliore composizione possibile delle esigenze dei componenti della famiglia disciolta.
La speciale procedura di revisione dei provvedimenti sul contributo al mantenimento dell’ex coniuge, di cui all‘art. 9 |. n. 898 del 1970, è volta a rivedere, modificare o neutralizzare l’efficacia propria di titolo esecutivo giudiziale.
Al riguardo, il giudice dovrà compiere la necessaria, complessiva, approfondita e comparativa valutazione tra le situazioni rilevanti di entrambi i coniugi, riferita a molteplici fattori.
La revisione dell’assegno divorzile, di cui alla norma richiamata, postula invero l’accertamento di un sopravvenuto mutamento delle condizioni economiche degli ex coniugi, idoneo a modificare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo dell’assegno, secondo una valutazione
comparativa delle loro condizioni, quale presupposto fattuale – integrante i «giustificati motivi» di cui è parola nell’art. 9 – necessario per procedere al giudizio di revisione dell’assegno, da rendersi, poi, in applicazione dei principî giurisprudenziali attuali (cfr. Cass. 5 giugno 2020, n. 10647; Cass. 20 gennaio 2020, n. 1119; Cass. 5 marzo 2019, n. 6386; Cass. 3 febbraio 2017, n. 2953; Cass. 13 gennaio 2017, n. 787; Cass. 29 dicembre 2011, n. 30033; Cass. 2 maggio 2007, n. 10133; Cass. 25 agosto 2005, n. 17320).
Si deve, dunque, verificare se siano sopravvenuti elementi fattuali, idonei a destabilizzare l’assetto patrimoniale in essere, nel qual caso il giudice di merito dovrà fare applicazione dei nuovi principî, quali emergenti dalle recenti pronunce di questa Corte a Sezioni unite (Cass., sez. un., 11 luglio 2018, n. 18287), per modificarlo e adeguarlo all’attualità.
In tali ipotesi, il ricorrente si propone, dunque, la cessazione o la riduzione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno all’ex coniuge, a decorrere sin dalla domanda di revisione, con la conseguente domanda di restituzione dell’indebito, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ.
5 – Il venir meno di un coniuge nel corso del giudizio di revisione dell’assegno. Posto quanto détto in ordine all’oggetto degli accertamenti giudiziari sulla domanda di revisione, il venir meno di un coniuge – sia egli l’obbligato, sia l’avente titolo all’assegno – non comporta la improseguibilità del giudizio di revisione.
La sentenza sullo status è, in tal caso, ormai definitiva e non più modificabile.
Al contrario, quella sull’assegno è, come visto, rivedibile, in ragione del mutamento delle condizioni e per un «giustificato motivo»: pertanto, il Collegio delle S.U. ha reputato che, venuta meno una delle parti del rapporto di solidarietà post-coniugale, la domanda di accertamento della non debenza dell’assegno dalla data della domanda stessa a quella del decesso prosegua da parte degli eredi dell’obbligato, onde il processo può giungere al suo esito, ai fini dell’accertamento della non debenza e del diritto di credito alla ripetizione dell’indebito per le somme versate sin dalla domanda di revisione, richieste in vita dal coniuge obbligato, di cui gli eredi divengono titolari.
In una situazione come quella di specie, in cui si è verificato il decesso dell’ex coniuge, obbligato ed istante per la revisione del debito, con riguardo alla somma versata ed oggetto di domanda di ripetizione, nel periodo intercorrente dalla domanda di revisione sino al decesso dell’ex coniuge medesimo, è data dunque la possibilità, per gli eredi del de cuius, di pervenire all’accertamento richiesto.
Tale conclusione è indotta dalla considerazione che la perdurante pendenza del solo giudizio sulle domande accessorie può costituire una causa di “scissione” del carattere unitario proprio del giudizio di divorzio, che perverrà così alla pronuncia su di quelle.
Il processo di divorzio ha una finalità e con essa un contenuto compositi, mirando in primo luogo a realizzare il diritto potestativo del coniuge alla elisione dello status matrimoniale, ma con esso, simultaneamente, anche a tutelare una serie di diritti fondamentali relativi alle primarie esigenze della parte eventualmente sul piano economico meno solida, nonché dei figli della coppia.
Riconoscendo e determinando l’assegno di divorzio, il giudice traduce nel linguaggio della corrispettività quanto i coniugi abbiano compiuto, durante la vita comune, nello spirito della gratuità.
Con la sentenza 11 luglio 2018, n. 18287, le Sezioni Unite hanno stabilito che il riconoscimento dell’assegno di divorzio în favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione, sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.
La peculiarità degli accertamenti probatori prescritti per legge sul tema della debenza di un assegno di mantenimento divorzile non impedisce tale conclusione.
L’art. 5, comma 6, |. n. 898 del 1970 tra i parametri sull’an e sul quantum dell’assegno esige lo scrutinio, da parte del tribunale, «delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio», nonché del fatto che il richiedente «non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».
Dal suo canto, l’art. 5, comma 9, I. n. 898 del 1970, dispone che i coniugi «devono presentare all’udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria».
Si tratta di elementi partecipativi al processo, con precisi obblighi di produzione istruttoria relativa al patrimonio personale e comune, con possibilità da parte del tribunale di disporre indagini sui redditi sui patrimoni e sul tenore di vita, che dovranno essere espletati nei confronti degli eredi.
E sui quali la Corte (Cass. 20 febbraio 1017, n. 4292; Cass. 28 gennaio 2011, n. 2098, fra le altre) ritiene che l’esercizio del potere del giudice di disporre, d’ufficio o su istanza di parte, indagini patrimoniali avvalendosi della polizia tributaria costituisca una deroga alle regole generali sull’onere della prova, potere giudiziale il quale non può sopperire alla carenza probatoria della parte onerata, ma vale ad assumere, attraverso uno strumento a questa non consentito, informazioni integrative del “bagaglio istruttorio” già fornito.
Occorre, altresì, chiarire che possono esservi obblighi pecuniari già entrati nel patrimonio dell’avente diritto: si tratta dei c.d. arretrati, i quali, in ipotesi concessi in via provvisoria oppure da una sentenza non passata in giudicato, non siano stati corrisposti dal coniuge obbligato da tale provvedimento e sino al suo decesso, e la cui debenza dunque permane.
Infatti, essi restano acquisiti, quale debito, al patrimonio del dante causa, e, come tali, passano agli eredi: onde l’altro coniuge rimasto in vita ben potrà agire, se sia ne mancato il pagamento, direttamente in executivis nei confronti di essi, giovandosi del medesimo titolo.
Ove, dunque, sussista un simile debito come avente titolo in una sentenza sull’assegno impugnata, il quantum liquidato dal giudice, afferente il periodo tra il momento del giudicato della sentenza sullo status (o la diversa decorrenza stabilita, anche da un provvedimento provvisorio) e quello del decesso è un debito maturato in vita dal de cuius e passa agli eredi, così che avverso i medesimi potrà essere fatto direttamente valere in via esecutiva.
In conclusione, va enunciato il seguente principio di diritto:
«Nel caso di procedimento per la revisione dell’assegno divorzile, ai sensi dell’art. 9, comma 1, |. n. 898 del 1970, il venir meno del coniuge ricorrente nel corso del medesimo non comporta la declaratoria di improseguibilità dello stesso, ma gli eredi subentrano nella posizione del coniuge richiedente la revisione, al fine dell’accertamento della non debenza dell’assegno a decorrere dalla domanda sino al decesso, subentrando altresì essi nell’azione di ripetizione dell’indebito ai sensi dell’art. 2033 cod. civ. per la restituzione delle somme non dovute».
6. – Il caso di specie. Nella specie, l’inapplicabilità dell’istituto dell’interruzione nel giudizio di Cassazione comporta che la causa debba essere decisa con la delibazione dei motivi proposti.
Il primo ed il secondo motivo, miranti nel loro complesso a smentire i presupposti della pronuncia impugnata quanto ai requisiti dell’assegno divorzile, come tale unitariamente scrutinabili, sono fondati, mentre resta assorbito il terzo motivo.
Invero, la decisione impugnata non ha correttamente applicato il disposto dell’art. 5 |. 1° dicembre 1970, n. 898, non avendo affatto motivato in relazione ai presupposti ed agli accertamenti dell’assegno divorzile, come delineati dagli insegnamenti delle Sezioni unite.
Il principio di solidarietà, posto a base del riconoscimento del diritto all’assegno, «impone che l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi ed all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive sia saldamente ancorato alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli endofamiliari»: invero, il «parametro dell’adeguatezza contiene in sé una funzione equilibratrice e non solo assistenziale-alimentare» (Cass., sez. un., 11 luglio 2018, n. 18287, in motiv.).
Nell’indicata finalità deve, in particolare, tenersi conto delle aspettative professionali sacrificate per una funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, non guidata dalla necessità di dare ricomposizione ai tenore di vita endoconiugale, ma dal riconoscimento del ruolo e dei contributo fornito dall’ex coniuge, economicamente più debole, alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi (oltre alla citata Cass., sez. un., n. 18287 del 2018, si vedano Cass. 9 agosto 2019, n. 21234; 23 gennaio 2019, n. 1882; Cass. 28 febbraio 2020, n. 5603, fra le altre).
La corte territoriale non ha richiamato l’orientamento dell’attuale diritto vivente, ma neppure ha valutato gli elementi di fatto e le situazioni pregresse, come invece richiesto dalla norma.
Il decreto impugnato, invero, ha riconosciuto l’attuale diritto all’assegno, senza né motivare sull’eventuale squilibrio patrimoniale, né porlo in relazione con gli altri parametri di legge, in particolare con il contributo fornito alla formazione del patrimonio familiare e di quello personale del coniuge.
Come precisato da questa Corte, il fondamento costituzionale dei criteri indicati dall’art. 5, comma 6, |. n. 898 del 1971, rappresentato dall’art. 29 Cost., impone una valutazione concreta ed attuale della adeguatezza dei mezzi a disposizione dell’ex coniuge e dell’incapacità dello stesso di procurarseli per ragioni obiettive, fondata in primo luogo sulle condizioni economico-patrimoniali delle parti, ma non disgiunta, bensì collegata causalmente con quella degli altri indicatori contenuti nella norma, al fine di accertare se l’eventuale rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi all’atto dello scioglimento del vincolo sia dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell’assunzione di un ruolo trainante endofamiliare.
La predetta valutazione risulta altresì coerente con la funzione assistenziale e, a determinate condizioni, compensativo-perequativa attribuita all’assegno, la quale esclude la possibilità di conferire rilievo al solo squilibrio economico tra le parti o all’elevato livello reddituale del coniuge obbligato, tenuto conto anche del superamento del precedente orientamento giurisprudenziale, che, individuando il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio quale parametro di riferimento ai fini della valutazione dell’adeguatezza dei mezzi economici a disposizione dell’ex coniuge istante, considerava coessenziale alla sua ricostruzione la differenza patrimoniale e reddituale esistente tra le parti.
Ma, nella specie, la corte del merito ha omesso di operare tutti gli accertamenti richiesti. Essa si è limitata ad argomentare circa l’ammissibilità della domanda di revisione, avendo accertato che l’interessata ha percepito un ingente importo, pari a circa € 400.000,00, evento in sé idoneo a rendere ammissibile la domanda di revisione dell’assegno, in una con il peggiorato stato di salute dell’obbligato (per il quale egli è poi deceduto).
Tuttavia, nella decisione di non revocare l’assegno, ma ridurlo di appena € 500,00 (e non “ad € 500,00”, come è stato a volte inteso), dunque lasciando permanere l’obbligo di pagamento della non esigua somma di € 1.740,00 mensili, ha omesso qualsiasi motivazione; e ciò, pur dando parimenti atto che la richiedente dispone di un’abitazione, con le relative pertinenze, e che appunto il suo patrimonio sia accresciuto di una considerevole somma.
Nessun effettivo accertamento essa ha operato circa l’inadeguatezza dei mezzi economici, l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, il contributo dato alla vita familiare, il rilievo sulla attuale situazione della richiedente.
Non solo, pertanto, non viene motivata la riduzione nella misura détta, del tutto apoditticamente disposta, ma la scarna motivazione non dà conto di avere operato nessuna valutazione circa i complessi presupposti dell’assegno.
7.- Il decreto impugnato va dunque cassato, con rinvio alla Corte d’appello di Messina, in diversa composizione, ai fini di un nuovo accertamento. Ad essa si demanda altresì la liquidazione delle spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, accoglie il primo ed il secondo motivo, assorbito il terzo; cassa il decreto impugnato e rinvia la causa innanzi alla Corte d’appello di Messina, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 10 maggio 2022, nella riconvocazione in data 14 giugno 2022.
Allegati:
SS.UU, 24 giugno 2022, n. 20495, in tema di assegno divorzile
In tema di assegno divorzile – SS.UU, 24 giugno 2022, n. 20494
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA
FATTI DI CAUSA
1. – Con sentenza parziale del (OMISSIS) ha pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio tra i due coniugi, rimettendo con separata ordinanza la causa in istruttoria, al fine dell’accertamento del diritto a percepire l’assegno divorzile a carico di uno degli stessi; quindi, a séguito del decesso del marito in data (OMISSIS), con ordinanza dell’(OMISSIS) ha dichiarato l’interruzione del processo, riassunto dalla ex moglie nei confronti degli “eredi”.
Con sentenza del (OMISSIS) il (OMISSIS) ha accertato post mortem il diritto della ex moglie a percepire un assegno divorzile sino al decesso dell’ex coniuge.
2. – La Corte d’appello di (OMISSIS), adìta dalla parte soccombente solo sulla decisione definitiva concernente l’assegno, con sentenza del (OMISSIS) ha respinto l’impugnazione.
La corte territoriale ha ritenuto che l’atto di appello, proposto dagli eredi del marito, abbia omesso di censurare la mancata declaratoria di cessazione della materia del contendere e l’argomentazione del primo giudice, secondo cui il decesso di un coniuge non impedisce l’accertamento della debenza dell’assegno divorzile a quell’epoca, limitandosi il motivo di appello a sostenere la novità della domanda, asseritamente proposta con l’atto di riassunzione di controparte, volta ad ottenere l’affermazione della spettanza dell’assegno divorzile strumentalmente all’ottenimento di una quota della pensione di reversibilità, ai sensi dell’art. 9 l. 19 dicembre 1970, n. 898.
Al contrario, ha ritenuto che la domanda, proposta con l’atto di riassunzione dalla ex moglie contro gli eredi dell’ex coniuge, fosse diretta solo all’accertamento della debenza dell’assegno divorzile limitatamente al periodo dal passaggio in giudicato della sentenza di divorzio a quella del decesso del coniuge obbligato, e che, quindi, tale domanda non fosse nuova, ma ammissibile, laddove tale non sarebbe stata solo quella, non proposta, di ottenere dagli eredi un contributo al mantenimento per il periodo successivo al decesso.
Nel merito, ha affermato la sussistenza dei presupposti per l’assegno divorzile.
3. – Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione, fondato su cinque motivi.
Non svolgono difese gli intimati.
Pervenuta alla Prima Sezione civile, con ordinanza interlocutoria del 29 ottobre 2021, n. 30750 la causa è stata rimessa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite.
Il Procuratore Generale ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso.
La parte ricorrente ha depositato la memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
La causa è stata, quindi, posta in decisione all’udienza collegiale del 10 maggio 2022.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – I motivi. Con il primo motivo, la ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione degli artt. 81, 300 e 303 cod. proc. civ., 5, comma 6, e 9-bis l. 1° dicembre 1970, n. 898, in quanto il decesso del coniuge aveva determinato la cessazione della materia del contendere sin da tale evento, con riguardo a tutte le domande svolte dalla ex moglie: il giudizio non poteva, infatti, essere definito nel merito, in ragione del decesso in corso di causa dell’eventuale obbligato e della intrasmissibilità dell’obbligo agli eredi. Inoltre, il de cuius non aveva nessun debito verso la ex moglie, dal momento che questa riceveva l’assegno mensile direttamente a carico dell’Inps: onde la causa attiene non a debiti maturati e non pagati, ma alla domanda dell’assegno di mantenimento solo quale strumentale all’ottenimento della pensione di reversibilità. La sentenza impugnata è dunque abnorme, in quanto, invece di dichiarare cessata la materia del contendere, ha disposto post mortem la debenza a carico del marito di un assegno di mantenimento, in una causa di riassunzione in cui le parti sono gli eredi, i quali, tuttavia, non ereditano affatto l’obbligo di mantenimento, mai disposto dal giudice con la sua sentenza.
Con il secondo motivo, deduce la violazione o la falsa applicazione degli artt. 183, 303 cod. proc. civ. e 5, comma 6, 9-bis |. n. 898 del 1970, in quanto la domanda proposta con il ricorso in riassunzione era nuova, essendo volta ad ottenere l’accertamento della debenza di un assegno divorzile al solo scopo di acquisire la pensione di reversibilità: in tal caso, la natura della domanda muta, perché essa mira ad ottenere un bene della vita del tutto diverso da quello oggetto dell’originaria domanda verso l’ex coniuge. Posto che la finalità della domanda si concreta in un petitum diverso, ciò la rende nuova ed inammissibile nell’atto di riassunzione, trattandosi di un’azione di mero accertamento circa l’astratta debenza dell’assegno, a quel dichiarato fine: laddove la domanda originaria era di condanna al mantenimento, al fine di costituire i mezzi adeguati alla stessa condizione di vita goduta durante il matrimonio. Ha errato, dunque, la corte territoriale a negare la novità della domanda, per il solo fatto che la domanda era volta al mantenimento non per il periodo successivo, ma per quello anteriore al decesso: tale pretesa non avrebbe potuto comunque rivolgersi agli eredi, non essendo più in vita l’unico legittimato passivo titolare dell’obbligo.
Con il terzo motivo, deduce la violazione o la falsa applicazione delle regole sull’onere della prova, quanto all’accertamento dello stato di bisogno previsto dall’art. 5, comma 6, |. n. 898 del 1970, onere che grava sul richiedente l’assegno.
Con il quarto motivo, la ricorrente deduce ancora la violazione o la falsa applicazione dell’art. 5, comma 6, |. n. 898 del 1970, avendo la corte territoriale omesso ogni giudizio comparativo tra le posizioni economiche e patrimoniali degli ex coniugi.
Con il quinto motivo, censura l’omesso esame di fatto decisivo, consistente nel mancato esame dei documenti prodotti con la memoria depositata nel corso del primo grado di giudizio, concernenti lo stato di salute del marito.
2. – La situazione processuale del caso concreto. La vicenda in esame ha visto la pronuncia di una sentenza sullo status, con prosecuzione del giudizio ai fini dell’attribuzione dell’assegno divorzile, nel corso del quale uno dei coniugi, parti in causa, è venuto meno, prima di ogni decisione al riguardo; dichiarata l’interruzione del giudizio e riassunto il medesimo contro gli eredi, il giudice ha proceduto comunque all’accertamento circa la debenza di un assegno a carico del de cuius.
Oggetto della rimessione alle Sezioni unite sono, pertanto, le questioni concernenti le sorti del processo in simile evenienza, con riguardo alle parti del giudizio divorzile (o del giudizio volto alla modifica dell’entità dell’assegno), alla natura delle sentenze ivi pronunciate ed alla successione nel processo, con i connessi istituti dell’interruzione e della riassunzione della causa.
3. – Il procedimento di divorzio. I commi 12, 13 e 14 dell’art. 41, 1° dicembre 1970, n. 898 (articolo sostituito dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in I. 14 maggio 2005 n, 80) prevedono, rispettivamente, che:
a) nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, e che avverso tale sentenza è ammesso solo l’appello immediato; formatosi il giudicato, si applica la previsione di cui all’art. 10, dovendosi trasmettere la sentenza in copia autentica, a cura del cancelliere, all’ufficiale dello stato civile per le annotazioni e le ulteriori incombenze, onde lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio «hanno efficacia, a tutti gli effetti civili, dal giorno dell’annotazione della sentenza»;
b) quando sia stata pronunciata la sentenza non definitiva, il tribunale, emettendo la sentenza sull’an circa l’obbligo di somministrazione dell’assegno, può disporne gli effetti sin dalla domanda;
c) «per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva».
In tal modo, si permette la definizione del giudizio sullo status al più presto, con la formazione del giudicato: onde il tribunale si limita alla statuizione sullo status, come sovente accade per l’esigenza, da un lato, di soddisfare il desiderio della rapida riconquista dello status di soggetto non coniugato (non si parla di status di divorziato «che è uno status inesistente, determinando, piuttosto, la pronuncia di divorzio la riacquisizione dello stato libero»: Cass. 23 gennaio 2019, n. 1882, in motivazione), e, dall’altro lato, di permettere, per i profili patrimoniali connessi alla condizione di bisogno di uno dei coniugi, il più complesso accertamento.
Il legislatore discorre qui di “sentenza non definitiva” nel senso che il giudice non si spoglia dell’intero processo: si tratta peraltro di una sentenza definitiva parziale, in quanto definisce la questione di status.
4. – La sentenza sul divorzio e la sentenza sull’assegno.
4.1. – La sentenza che «pronuncia» lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, a norma dell’art. 4 I. n. 898 del 1970, è sentenza costitutiva, in quanto produce l’effetto del venir meno del vincolo, con il riacquisto dello stato libero.
Ma il medesimo effetto costitutivo ha anche la sentenza che attribuisce l’assegno divorzile: sì tratta di una pronuncia di accertamento costitutivo, oltre che di condanna, con efficacia ex tunc dal passaggio in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo coniugale (salva l’ordinanza che disponga un assegno in via provvisoria ex art. 4, comma 8, oppure la decorrenza anticipata dalla data della domanda di divorzio sulla base del medesimo art. 4, comma 13: Cass, 17 settembre 2020, n. 19330). Invero, l’assegno di divorzio è attribuito dal giudice (che «dispone l’obbligo», non lo dichiara), il quale valuta sia l’an che il quantum, sulla base dei parametri di legge, come prevede l’art. 5, comma 6, |. n. 898 del 1970.
Il fatto generatore del diritto all’assegno in favore dell’ex coniuge è la sentenza di accertamento costitutivo del giudice che, in presenza di determinati requisiti e interponendo il proprio apprezzamento discrezionale, può concedere o no l’assegno e, in caso positivo, stabilirne l’ammontare, secondo i parametri legali.
L’attribuzione dell’assegno di divorzio avviene all’esito dell’esercizio di un’azione, in cui il processo è elemento costitutivo indispensabile dell’effetto giuridico, non conseguibile per via di autonomia privata: tanto che questa Corte ne ha pacificamente escluso l’equiparabilità con l’ipotesi di assegno liberamente e spontaneamente corrisposto, eventualmente pure ove ne mancassero le condizioni, al fine di fondare il diritto alla pensione di reversibilità (cfr. Cass. 27 novembre 2000, n. 15242; Cass. 5 agosto 2005, n. 16560; Cass. 13 marzo 2006, n. 5422; Cass. 29 settembre 2006, n. 21129; Cass. 24 maggio 2007, n. 12149; Cass. 1° agosto 2008, n. 21002; Cass. 18 novembre 2010, n. 23300; Cass. 9 giugno 2011, n. 12546; Cass. 23 ottobre 2017, n. 25053).
Del pari, al momento della sentenza di divorzio il tribunale adotta gli altri provvedimenti necessari, quale anzitutto le disposizioni concernenti i figli e l’abitazione familiare (art. 6, commi 2, 6, 7 I. n. 898 del 1970).
Le sentenze costitutive e di accertamento, secondo la giurisprudenza di questa Corte, acquistano efficacia solo col passaggio in giudicato, non reputandosi ad esse applicabile l’art. 282 cod. proc. civ. sull’automatica esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado (es. Cass. 30 gennaio 2019, n. 2537; Cass. 20 febbraio 2018, n. 4007; Cass. 8 novembre 2018, n. 28508; Cass. 10 gennaio 2014, n. 406; Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4059; per qualche apertura, v. Cass. 29 luglio 2011, n. 16737), tesi su cui non è ora uopo indagare.
4.2. – In materia di divorzio, occorre ricordare il principio, affermato da questa Corte, secondo cui la regola generale, desumibile dall’art. 4, comma 13, I. n. 898 del 1970, prevede che il diritto a percepire l’assegno attribuito dal giudice decorra dalla formazione del titolo in forza del quale esso è dovuto: vale a dire, dal passaggio in giudicato della sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, in quanto l’assegno di divorzio trae la propria indispensabile premessa proprio nel nuovo status delle parti, rispetto al quale la statuizione di risoluzione del vincolo coniugale spiega effetti costitutivi.
Altro è, poi, che il giudice possa disporne la decorrenza provvisoria, in relazione alle circostanze del caso concreto, anche dalla domanda di divorzio (Cass. 17 settembre 2020, n. 19330, da ultimo).
L’indicata facoltà giudiziale, da motivare specificamente, non costituisce affatto una deroga al principio secondo cui l’assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, decorre dal passaggio in giudicato della relativa statuizione, bensì ne rappresenta un temperamento, col conferire al giudice il potere discrezionale, in relazione alle circostanze del caso concreto, di disporre la decorrenza di esso dalla data della domanda.
5 – Il venir meno di un coniuge in corso di causa e le evenienze processuali prospettabili. Intrapreso il giudizio di divorzio, che sia vòlto anche alla corresponsione di un assegno, nel corso del medesimo possono verificarsi diverse situazioni processuali, derivanti dal venir meno di una delle parti in causa.
Esse sono sintetizzabili nel seguente quadro d’insieme, in cui l’evento che colpisce un coniuge si colloca dopo uno degli indicati momenti:
1) prima della pronuncia di una qualsiasi sentenza;
2) dopo la pronuncia della sentenza costitutiva di divorzio, la quale sia: a) una sentenza parziale sullo status, con prosecuzione della causa per le statuizioni patrimoniali, con due sottoipotesi, in quanto: i) la sentenza parziale sia stata impugnata; ii) la sentenza parziale non sia stata impugnata; b) una sentenza definitiva totale, avendo essa pronunciato sia sullo status, sia in ordine ai profili patrimoniali, dove tre le sottoipotesi: i) la sentenza sia stata impugnata in toto; ii) la sentenza sia stata impugnata solo sulle statuizioni patrimoniali; iii) la sentenza non sia stata impugnata.
Occorre subito convenire che, pur dopo il decesso del coniuge in corso di causa, un interesse di fatto alla prosecuzione del giudizio possa esistere in capo al coniuge aspirante all’assegno divorzile a vari fini, estranei in sé al processo stesso: per conseguire l’assegno periodico a carico dell’eredità ai sensi dell’art. 9-bis I. n. 898 del 1970; per costituirsi il presupposto al fine dell’attribuzione della pensione di reversibilità ex art. 9 I. n. 898 del 1970; oppure quale premessa per la quota dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge ex art. 12-bis |. n. 898 del 1970.
5.1. – La morte di uno dei coniugi, che addirittura preceda l’adozione di qualsiasi sentenza, determina la cessazione della contesa.
Invero, l’art. 149 cod. civ. prevede che il matrimonio civile, al pari degli effetti civili del matrimonio celebrato con rito religioso trascritto, «si scioglie con la morte di uno dei coniugi».
Ove, pertanto, sopravvenga la nuova situazione prima della stessa declaratoria sullo status, diviene inammissibile ogni pretesa, ivi inclusa quella all’assegno divorzile, avente la prima come indefettibile presupposto.
In tal senso hanno statuito plurimi precedenti di questa Corte (fra cui Cass. 11 novembre 2021, n. 33346; Cass. 17 luglio 2009, n. 16801); alla vicenda della mancanza di qualsiasi sentenza di status è equiparata quella dell’evento prima del decorso del termine per impugnare la sentenza di divorzio (Cass. 19 giugno 1996, n. 5664).
5.2. – Occorre esaminare le ipotesi in cui, invece, sia stata pronunciata la sentenza costitutiva di divorzio, dove le possibili evenienze processuali sono diverse, a seconda che la sentenza sia parziale, in quanto pronunciata solo sullo status, o sia definitiva totale, in quanto abbia pronunciato sullo status ed anche sul profilo
patrimoniale dell’attribuzione, o no, dell’assegno.
Le soluzioni convergono, nel caso in cui non sia stata impugnata la statuizione sul divorzio.
Le diverse soluzioni attengono, con gli opportuni adattamenti, anche al caso che la pronuncia sia avvenuta non con sentenza, ma a mezzo del decreto conseguito alla richiesta di modifica delle condizioni, ai sensi dell’art. 9, comma 1, |. n. 898 del 1970, in presenza di giustificati motivi.
5.2.1. – Nell’evenienza che il giudice statuisca solo sullo status e, con separata ordinanza, dia disposizioni per la prosecuzione del giudizio relativamente agli effetti patrimoniali, se la sentenza sullo status è impugnata in via immediata (l’unica impugnazione ammessa ex art. 4, comma 12, secondo periodo), mentre, nelle more, prosegua in primo grado il giudizio sull’assegno, il decesso sopravvenuto impedisce qualsiasi giudicato al riguardo: il processo si concluderà con la declaratoria, da parte del giudice dell’impugnazione, della cessazione della materia del contendere, in conseguenza del venir meno, per ragioni naturali, dello status, ai sensi dell’art. 149 cod. civ.; ed il giudizio relativo all’assegno, ancora in istruttoria, subisce la stessa sorte, non essendovi più la parte contro cui pretendere alcunché. Non vi sono, qui, sostanziali differenze, rispetto al caso indicato al 8 4.1.
Al contrario, la statuizione sul divorzio non impugnata produce l’effetto, scaduti i termini ex artt. 325 ss. cod. proc. civ., della libertà di status in capo ai coniugi: e, se un coniuge viene meno dopo il passaggio in giudicato del capo di sentenza sullo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, questo resta a regolare la situazione, essendo ormai definitivo.
5.2.2. – Se il giudice statuisce sullo status ed, altresì, pronuncia la condanna al pagamento dell’assegno divorzile, definendo quindi il giudizio innanzi a sé, e poi la sentenza sia impugnata in toto, l’impugnazione, da parte del coniuge soccombente, dell’intera decisione impedisce ogni giudicato, restando l’oggetto del processo
interamente controverso. Ove sopravvenga il decesso nel corso di giudizio di impugnazione, nessuno status si è consolidato e nessun diritto all’’assegno può più essere vantato, mancando. l’unico legittimato attivo al riguardo, né una situazione si è consolidata in capo al de cuius prima dell’evento. Il processo si estingue, per cessazione della materia del contendere.
Invero, sopraggiunto il decesso, il processo di impugnazione subisce esiti conformi, per tutti i capi impugnati.
Esso, da un lato, si conclude con la declaratoria della cessazione della materia del contendere sullo status, in conseguenza del venir meno, per ragioni naturali, dello status medesimo, ai sensi dell’art. 149 cod. civ.; dall’altro lato, il giudizio neppure può proseguire, tuttavia, ai fini della determinazione dell’an e del quantum dell’assegno, difettando l’unico legittimato passivo, per ragioni analoghe a quelle sopra illustrate.
All’estremo opposto, sta il caso che la sentenza sullo status e sull’assegno non sia impugnata affatto e siano decorsi i relativi termini: essa passa in giudicato nel suo intero contenuto afferente sia lo status, sia l’assegno, ormai consolidato, quando l’evento concernente il de cuius si verifica.
Infine, può darsi l’’evenienza intermedia in cui la sentenza di divorzio abbia anche attribuito il diritto all’assegno e che solo tale statuizione sia stata impugnata: se la sentenza è impugnata solo sulle statuizioni patrimoniali, la pronuncia sullo status è in giudicato, al momento del venir meno dell’ex coniuge durante il giudizio di impugnazione. Qui, la sorte del giudizio sull’assegno è retta dalle norme e dai principî che seguono.
6. – Il caso di specie: giudicato della sentenza sullo status e venir meno del coniuge nel corso della causa per l’accertamento del diritto all’assegno divorzile.
6.1. – L’odierno thema decidendum attiene all’evenienza détta, in cui la Corte aveva raggiunto un orientamento dominante.
Nel caso di sentenza parziale sullo status non impugnata (cui va assimilato quello della sentenza definitiva totale impugnata solo per i profili patrimoniali), la tesi prevalsa afferma come non possa che attribuirsi natura unitaria e complessa al giudizio divorzile.
La pronuncia della sentenza sullo status è prassi invalsa, allo scopo di permettere un rapido riacquisto dello stato libero; e, però, una volta venuta meno una delle due parti del giudizio, avendo questo ad oggetto una situazione soggettiva personalissima ed intrasmissibile, nulla più resta da accertare circa il primigenio oggetto, ovvero il rapporto coniugale, nemmeno con riguardo ad eventuali domande accessorie, che possono proporsi unicamente verso un coniuge ancora in vita (cfr., per tale ordine di concetti, Cass. 11 novembre 2021, n. 33346; Cass. 2 dicembre 2019, n. 31358; Cass. 20 febbraio 2018, n. 4092; in tema di separazione,
Cass. 12 dicembre 2017, n. 29669; Cass. 8 novembre 2017, n. 26489; Cass. 26 luglio 2013, n. 18130; Cass. 20 novembre 2008, n. 27556; Cass. 27 aprile 2006, n. 9689; Cass. 4 aprile 1997, n. 2944; Cass. 3 febbraio 1990, n. 740; Cass. 18 marzo 1982, n. 1757; Cass. 29 gennaio 1980, n. 661).
Non si tratta, peraltro, di una cessazione della materia del contendere, ma più propriamente di una pronuncia di improseguibilità del giudizio.
Secondo la meno recente tesi, sopraggiunto il decesso, il giudizio potrebbe proseguire ai fini della determinazione dell’an e del quantum dell’assegno, al fine di decidere la questione nei confronti degli eredi (Cass. 11 aprile 2013, n. 8874; Cass. 3 agosto 2007, n. 17041; nello stesso senso, Cass. 24 luglio 2014, n. 16951 e Cass. 13 ottobre 2014, n. 21598, non massimate).
Estranea al tema odierno è, invece, la questione, risolta dalle Sezioni unite con la sentenza del 31 marzo 2021, n. 9004, sull’irrilevanza della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, una volta che sia ormai passata in giudicato la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, onde prosegue l’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile. Qui, infatti, l’unico rapporto processuale si pone tra gli stessi soggetti, in ordine ai quali solo si predica la possibilità di pervenire all’accertamento, innanzi al giudice dello Stato, della debenza di un assegno divorzile. La sentenza si colloca sulla scia del ridimensionamento degli effetti delle sentenze di nullità del matrimonio concordatario nei giudizi di separazione e divorzio, già tracciata dalla Corte (Cass., sez. un., 17 luglio 2014, n. 16379), la quale ritiene la convivenza tra i coniugi protratta per almeno tre anni ostativa, sotto il profilo dell’ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario.
Peraltro, se vale il giudicato sullo status, anche qui il riconoscimento dell’assegno di divorzio dovrà pur sempre passare dalla pronuncia giudiziale, secondo i parametri posti dall’art. 5, comma 6, I. n. 898 del 1970.
6.2. – Nel caso in esame, il Collegio delle S.U. ha reputato che occorra ammettere una prosecuzione del giudizio concernente l’obbligo di corresponsione di un assegno nei confronti degli eredi del preteso obbligato, per l’accertamento della debenza del diritto all’assegno dalla data del passaggio in giudicato della sentenza sullo status a quella del decesso.
La conclusione è indotta dalla considerazione che la perdurante pendenza del solo giudizio sulle domande accessorie può costituire una causa di “scissione” del carattere unitario proprio del giudizio di divorzio, che si protrarrà ai fini di una pronuncia su di quelle in via differita per mere ragioni occasionali.
Il processo di divorzio ha una finalità e con essa un contenuto compositi, mirando in primo luogo a realizzare il diritto potestativo del coniuge alla elisione dello status matrimoniale, ma con esso, simultaneamente, anche a tutelare una serie di diritti fondamentali relativi alle primarie esigenze della parte eventualmente sul piano economico meno solida, nonché dei figli della coppia.
Riconoscendo e determinando l’assegno di divorzio, il giudice traduce nel linguaggio della corrispettività quanto i coniugi abbiano compiuto, durante la vita comune, nello spirito della gratuità.
Con la sentenza 11 luglio 2018, n. 18287, le Sezioni Unite hanno stabilito che il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi’ dell’ex coniuge istante e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione, sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.
La peculiarità degli accertamenti probatori prescritti per legge sul tema della debenza di un assegno di mantenimento divorzile non impedisce tale conclusione.
L’art. 5, comma 6, I. n. 898 del 1970 tra i parametri sull’an e sul quantum dell’assegno esige lo scrutinio, da parte del tribunale, «delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio», nonché del fatto che il richiedente «non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».
Dal suo canto, l’art. 5, comma 9, I. n. 898 del 1970, dispone che i coniugi «devono presentare all’udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria».
Si tratta di elementi partecipativi al processo, con precisi obblighi di produzione istruttoria relativa al patrimonio personale e comune, con possibilità da parte del tribunale di disporre indagini sui redditi sui patrimoni e sul tenore di vita, che dovranno essere espletati nei confronti degli eredi.
E sui quali la Corte (Cass. 20 febbraio 1017, n. 4292; Cass. 28 gennaio 2011, n. 2098, fra le altre) ritiene che l’esercizio del potere del giudice di disporre, d’ufficio 0 su istanza di parte, indagini patrimoniali avvalendosi della polizia tributaria costituisca una deroga alle regole generali sull’onere della prova, potere giudiziale il quale non può sopperire alla carenza probatoria della parte onerata, ma vale ad assumere, attraverso uno strumento a questa non consentito, informazioni integrative del “bagaglio istruttorio” già fornito.
6.3. — Occorre chiarire che possono esservi obblighi pecuniari già entrati nel patrimonio dell’avente diritto: si tratta dei c.d. arretrati, i quali, in ipotesi concessi in via provvisoria oppure da una sentenza non passata in giudicato, non siano stati corrisposti dal coniuge obbligato da tale provvedimento e sino al suo decesso, e la cui debenza dunque permane.
Infatti, essi restano acquisiti, quale debito, al patrimonio del dante causa, e, come tali, passano agli eredi: onde l’altro coniuge rimasto in vita ben potrà agire, se sia ne mancato il pagamento, direttamente in executivis nei confronti di essi, giovandosi del medesimo titolo.
Ove, dunque, sussista un simile debito come avente titolo in una sentenza sull’assegno impugnata, il quantum liquidato dal giudice, afferente il periodo tra il momento del giudicato della sentenza sullo status (o la diversa decorrenza stabilita, anche da un provvedimento provvisorio) e quello del decesso è un debito maturato in vita dal de cuius e passa agli eredi, così che avverso i medesimi potrà essere fatto direttamente valere in via esecutiva.
6.4. — In conclusione, va enunciato il seguente principio di diritto:
«Nel caso di pronuncia parziale di divorzio sullo status, con prosecuzione del giudizio al fine dell’attribuzione dell’assegno divorzile, il venir meno di un coniuge nel corso del medesimo non ne comporta la declaratoria di improseguibilità, ma il giudizio può proseguire nei confronti degli eredi, per giungere all’accertamento della debenza dell’assegno dovuto sino al momento del decesso».
7. — In applicazione di détto principio, il primo ed il secondo motivo sono respinti.
Si rimette alla Sezione prima civile la decisione con riguardo ai rimanenti motivi di ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso; rimette la causa alla Sezione prima civile per l’esame degli altri motivi.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 10 maggio 2022, con riconvocazione in data 14 giugno 2022.
Il Consigliere est.
Il Presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 29 ottobre 2021, n. 30750, per SS.UU, 24 giugno 2022, n. 20494, in tema di assegno divorzile
SS.UU, 24 giugno 2022, n. 20494, in tema di assegno divorzile
In tema di divisione della casa coniugale – SS.UU, 09 giugno 2022, n. 18641
Civile Sent. Sez. U Num. 18641 Anno 2022
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: CARRATO ALDO
Data pubblicazione: 09/06/2022
SENTENZA
sul ricorso 22208-2018 proposto da:
ALBANI ALESSANDRA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GAETANO DONIZETTI 7, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE FRISINA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CATERINA MERCURIO;
– ricorrente –
contro
PATRI FURTO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PRISCIANO 42, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO GALLUZZO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SILVIO GALLUZZO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1969/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 27/03/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/04/2022 dal Consigliere ALDO CARRATO;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale ALBERTO CARDINO, il quale chiede che la Corte rigetti il ricorso;
lette le memorie depositate dai difensori di entrambe parti ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
FATTI DI CAUSA
1. Con atto di citazione notificato il 28 ottobre 2008 il sig. Furio Patri conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma, la sig.ra Alessandra Albani, dalla quale era separato legalmente, per sentir disporre lo scioglimento della comunione legale esistente sull’immobile sito in Roma, v. dei Gandolfi n. 4, int. 13 (costituente casa coniugale), con annesso locale cantina posto al piano seminterrato (il tutto distinto nel N.C.E.U. al foglio 387, p.11a 39 sub 13 l’appartamento, nonché sub 502, la cantina).
La convenuta, affidataria della prole, si costituiva in giudizio opponendosi, in via principale, allo scioglimento della comunione immobiliare ai sensi dell’art. 717 c.c. nonché degli artt. 1111 e 1116 c.c., e, in via subordinata, chiedeva che si procedesse alla divisione del compendio immobiliare previo accertamento del suo valore, che tenesse conto dell’assegnazione in suo favore dello stesso a titolo di casa coniugale, come disposta nel giudizio di separazione giudiziale, nonché considerando la coabitazione con lei delle figlie di minore età, che le erano state affidate.
Con sentenza parziale n. 83/2013 l’adito Tribunale rigettava l’opposizione avverso la domanda di divisione formulata – come detto – in via principale dalla convenuta e, con separata ordinanza, rimetteva la causa sul ruolo per la sua prosecuzione in relazione alla sola domanda di scioglimento della comunione.
All’esito della conseguente istruzione probatoria, nel corso della quale veniva espletata c.t.u. estimativa, lo stesso Tribunale, con sentenza n. 10739/2017, così decideva: – disponeva lo scioglimento della comunione legale fra le parti, attribuendo alla convenuta la proprietà esclusiva dell’anzidetto compendio immobiliare, determinando il conguaglio dovuto dalla stessa in favore dell’attore, con garanzia di ipoteca legale sul medesimo ai sensi dell’art. 2817, comma 2, c.c., nell’importo di euro 522.500,00, dal quale andava detratta la somma relativa ad oneri di condominio e di mutuo gravanti in via esclusiva sul Patri fino all’effettivo riscatto, nonché la somma di euro 6.273,00, oltre interessi legali; – respingeva ogni altra domanda, compensando per intero tra le parti le spese giudiziali, ponendo a carico delle stesse, per metà ciascuna, l’importo del compenso liquidato in favore del c.t.u. .
2. Con atto di citazione notificato il 20 luglio 2017, l’Albani proponeva appello avverso la citata sentenza definitiva di primo grado n. 10739/2017 (nel mentre quella parziale, precedentemente emessa, non veniva impugnata), chiedendone, rinnovando se del caso la c.t.u. per stabilire il valore dell’immobile gravato dal provvedimento di assegnazione quale casa coniugale, la sua riforma in relazione alla rideterminazione del conguaglio da versare all’appellato, con vittoria delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
Si costituiva l’appellato Patri, il quale instava per il rigetto del gravame e, contestualmente, formulava appello incidentale al fine di sentir accertato il valore del deprezzamento dell’immobile per effetto dell’assegnazione della casa coniugale all’appellante in misura inferiore a quanto ritenuto dal c.t.u., con il favore delle spese e la condanna dell’Albani ai sensi dell’art. 96 c.p.c. .
La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 1969/2018 (pubblicata il 27 marzo 2018), rigettava l’appello principale e dichiarava assorbito quello incidentale, condannando l’appellante Albani Elisabetta alla rifusione delle spese del grado.
A sostegno dell’adottata decisione, il giudice di appello riconfermava, in primo luogo, l’attendibilità delle valutazioni compiute dal c.t.u. nel giudizio di prime cure circa la stima del valore venale dell’immobile oggetto di controversia, siccome immune da vizi logico-giuridici, senza che potesse considerarsi idoneamente confutata dalle critiche mosse dal consulente di parte dell’Albani (che l’aveva quantificato nella misura di euro 700.400,00).
Di seguito la Corte laziale condivideva l’impugnata sentenza anche con riferimento al punto della mancata considerazione, ai fini dell’ottenimento di una congrua decurtazione del conguaglio stabilito come dovuto in favore del Patri, del diritto di assegnazione come casa coniugale vantato dall’appellante principale sullo stesso quale coniuge legalmente separato dal marito.
A tal proposito il giudice di secondo grado rilevava la correttezza dell’impugnata sentenza del Tribunale di Roma, con la quale era stato osservato che il già adottato provvedimento di assegnazione come casa coniugale dell’immobile oggetto di divisione giudiziale – all’esito della quale l’Albani aveva conseguito l’intera proprietà dell’immobile costituentene oggetto – non potesse sortire alcuna incidenza sulla determinazione del valore effettivo dello stesso immobile, in quanto tale provvedimento avrebbe potuto avere rilevanza solo nel caso di vendita a terzi che sarebbero potuti rimanere pregiudicati dall’opponibilità del medesimo provvedimento trascritto in favore del coniuge assegnatario. Tale effetto, quindi, non si sarebbe potuto verificare nell’ipotesi in cui l’attribuzione dell’intero compendio immobiliare fosse intervenuta – come si era verificato nel caso di specie – in favore del coniuge assegnatario dello stesso quale casa coniugale, poiché egli si sarebbe avvantaggiato, ai danni dell’altro coniuge, del minor valore derivante dallo stato di occupazione, potendo, in futuro, anche vendere l’immobile beneficiando dell’intero prezzo di mercato (risulta riportato, in merito, il principio di diritto espresso da Cass., Sez. II, n. 17843/2016, già preceduta da Cass., Sez. II, n. 27128/2014).
In altri termini, la Corte di appello sottolineava come il provvedimento di assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi separati legittimasse quest’ultimo ad opporlo ai terzi, non avendo lo stesso alcun rilievo sull’aspetto e sull’assetto dei diritti reali spettanti ai coniugi legalmente separati (per intero o pro-quota), con la conseguenza che, in caso di cessazione della comunione legale o comunque in ipotesi di scioglimento della comunione relativamente al bene in comune (anche se oggetto di assegnazione in via esclusiva ad uno dei coniugi separati), si applicano le regoli ordinarie in materia di divisione di diritti reali.
Pertanto, il giudice di secondo grado concludeva – in consonanza con quello di prime cure – per la convinta adesione al principio secondo cui l’assegnazione del godimento della casa familiare, ai sensi degli artt. 155 e art. 155-quater c.c. (previgenti), ovvero in forza della legge sul divorzio n. 898/1970 (con specifico riferimento al suo art. 6, comma 6), non può essere considerata in occasione della divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi al fine di determinare il valore di mercato del bene qualora lo stesso venga attribuito al coniuge titolare del diritto al godimento quale casa coniugale, atteso che il provvedimento di assegnazione per quest’ultimo titolo viene adottato nell’esclusivo interesse dei figli e non del coniuge affidatario; diversamente, si realizzerebbe un’indebita locupletazione a suo favore, potendo egli, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza alcun vincolo e per il prezzo integrale, in relazione, cioè, al suo valore venale determinato dall’andamento del mercato immobiliare.
3. Avverso l’indicata sentenza di appello n.1969/2018 ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico complesso motivo, l’Albani Alessandra, resistito con controricorso dall’intimato Patri Furio.
Il ricorso è stato, inizialmente, assegnato alla Sesta sezione civile-2, il cui collegio designato, decidendo sulla base della proposta del relatore di manifesta infondatezza formulata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., con ordinanza n. 20804/2019, ha ritenuto che non ricorreva l’ipotesi dell’evidenza decisoria in ordine alla questione centrale posta con il ricorso e cioè se in sede di divisione fra ex coniugi della casa familiare, oggetto di assegnazione in favore di uno di essi in sede di separazione, occorra tenere o meno conto dell’incidenza negativa del diritto sul valore del bene anche quando la divisione si concluda con l’attribuzione dell’intero immobile al coniuge beneficiario della sua destinazione a casa familiare. Pertanto, la causa veniva rimessa alla pubblica udienza.
La Seconda Sezione civile, con ordinanza interlocutoria n. 28871/2021 (pubblicata il 19 ottobre 2021), ravvisando un contrasto giurisprudenziale sulla questione come appena indicata, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite.
Il Primo Presidente ha disposto in conformità, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c.
In prossimità della pubblica udienza fissata dinanzi a queste Sezioni unite i difensori di entrambe le parti hanno anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’articolata censura formulata la ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto di cui all’art. 337-sexies c.c., comma 1, e della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6, comma 6, nonché degli artt. 1116,720 e 726 c.c., oltre che dell’art. 3 Cost..
Con essa la ricorrente ha inteso sostenere che l’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi separati, che non sia di sua proprietà esclusiva, instaura un vincolo (opponibile anche ai terzi per nove anni e, in caso di trascrizione, senza limiti di tempo) che oggettivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non sia eventualmente modificato, sicché nel giudizio di divisione (e, quindi, ai fini della determinazione del valore reale dell’immobile che ne forma l’oggetto) se ne deve tener conto indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro dei coniugi legalmente separati oppure venduto a terzi.
Pertanto, ad avviso della difesa dell’Albani, se non si valorizzasse il deprezzamento che l’assegnazione dell’immobile al coniuge affidatario dei figli oggettivamente produce sul suo relativo valore – e, quindi, sul conguaglio da liquidare in sede di attribuzione della proprietà dell’intero cespite ad uno dei coniugi condividenti – si determinerebbe, al contrario di quanto sostenuto dalla Corte di appello nell’impugnata sentenza, un’indebita locupletazione del coniuge non assegnatario, il quale, in violazione del principio secondo cui il giudizio di divisione mira alla formazione di porzioni corrispondenti alle quote dei condividenti al tempo della comunione, si vedrebbe riconosciuto, in cambio della cessione della sua quota, un conguaglio maggiore della somma che gli verrebbe attribuita nel caso di divisione mediante vendita dell’immobile a terzi. Ha osservato, poi, la stessa difesa della ricorrente che, quand’anche si volesse ritenere che il coniuge assegnatario dell’immobile, in caso di attribuzione unitaria del bene in proprio favore, consegua un vantaggio rispetto all’altro coniuge, tale risultato non dovrebbe considerarsi costituente un quid novi derivante dalla divisione, bensì un elemento riflettente un valore aggiuntivo che esisteva nella sua sfera giuridica già in precedenza, consistente nel diritto di godere del bene in misura superiore e più intensa rispetto all’altro coniuge nell’esclusivo e superiore interesse dei figli, per effetto dell’assegnazione.
2. L’enucleazione del quesito relativo alla questione giuridica oggetto di contrasto rimessa alle Sezioni unite.
La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni unite si può compendiare nei seguenti termini: “se – in sede di divisione di un immobile in comproprietà di due coniugi legalmente separati già destinato a residenza familiare e, per tale ragione, assegnato, in sede di separazione, al coniuge affidatario della prole – occorra tenere conto della diminuzione del valore commerciale del cespite conseguente alla presenza sul medesimo del diritto di godimento del coniuge a cui è stata affidata la prole, pure nel caso in cui la divisione si realizzi mediante attribuzione a quest’ultimo della proprietà dell’intero immobile con conguaglio in favore del comproprietario e, quindi, determinandolo non in rapporto al valore venale dello stesso immobile, bensì in misura ridotta che tenga conto dell’incidenza della permanenza di tale vincolo, opponibile anche ai terzi”.
3. L’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione civile.
La Seconda Sezione, con l’ordinanza interlocutoria n. 28871/2021, ha evidenziato che, effettivamente, sulla questione controversa si sono formati due differenti indirizzi interpretativi all’interno della giurisprudenza di questa Corte (che, peraltro, trovano una sostanziale corrispondenza anche nell’ambito dottrinale, il cui quadro pure si presenta diviso in proposito).
Più in particolare, si è posto in evidenza che – alla stregua di un primo orientamento, condiviso dall’impugnata sentenza – l’assegnazione del godimento della casa familiare in sede di separazione personale o divorzio dei coniugi non dovrebbe essere considerata al fine della determinazione del valore di mercato del bene in sede di divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi e ciò anche quando il bene venga attribuito al coniuge titolare del diritto al godimento sullo stesso, atteso che un tale diritto è attribuito nell’esclusivo interesse dei figli e non del coniuge affidatario sicché, decurtandone il valore dalla stima del cespite, si realizzerebbe un’indebita locupletazione a favore del medesimo coniuge affidatario, potendo egli, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza alcun vincolo e per il prezzo integrale (cfr. Cass. Sez. I, n. 11630/2001, Cass., Sez. II, n. 27128/2014, Cass., Sez. II, n. 17843/2016 e, da ultimo, Cass., Sez. II, n. 33069/2018).
In virtù, invece, di una contrapposta posizione, emersa anche diacronicamente nella giurisprudenza della Seconda Sezione civile (cfr. sentenze n. 20319/2004 e n. 8202/2016), è stato sostenuto che l’esistenza del vincolo derivante dall’assegnazione della casa coniugale e la sua opponibilità ai terzi determinerebbe una oggettiva contrazione del valore della proprietà, che si riflette sulla situazione dominicale del coniuge assegnatario e dei suoi aventi causa, fino a che detto provvedimento non sia modificato, con la conseguenza che nel giudizio di divisione si dovrebbe tener conto della portata di detto provvedimento in termini di incidenza sul valore del bene (anche, dunque, ai fini dei conguagli), e ciò indipendentemente dal fatto che il bene sia attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro coniuge ovvero venduto a terzi.
4. Il contesto normativo di riferimento.
Giova premettere che la vigente disciplina in punto di assegnazione della casa familiare, in sede di separazione tra i coniugi, è mutata con la riforma di cui al D.Lgs. n. 154 del 2013, il quale ha riproposto (mediante il suo art. 55, comma 1), con alcune modifiche, il contenuto dell’art. 155-quater c.c., introducendo l’art. 337-sexies c.c., che detta, al comma 1, per la fase di separazione, i principi cardine dell’assegnazione della casa familiare, nel senso che: « Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’art. 2643».
Per la fase divorzile, invece, della L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 11, sancisce che: «L’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età. In ogni caso ai fini dell’assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole. L’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 c.c.».
Come è agevole desumere, l’assegnazione della casa familiare è, di regola, funzionale a tutelare l’interesse prioritario dei figli alla continuità della vita familiare (per garantire il mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale contesto si sono radicate), onde preservarne l’habitat dai possibili esiti negativi conseguenti alla crisi coniugale, giacché la casa rappresenta il luogo degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime la vita familiare e continua a svolgersi la prosecuzione delle relazioni domestiche.
In sostanza, la casa familiare si identifica nel luogo in cui i figli minori o non ancora autosufficienti costruiscono le loro vite affettive attraverso il rapporto con i genitori nello scorrere relazionale della vita quotidiana, o, meglio, nel luogo protetto dove, in particolare, la prole minorenne potrà elaborare l’esperienza traumatica che può scaturire dalla crisi di coppia.
In proposito, la Corte costituzionale con la sentenza n. 454 del 1989, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 155 c.c., comma 4 (oggi riassorbito nell’art. 337-sexies c.c.) nella parte in cui non prevede(va) la trascrizione del provvedimento giudiziale di assegnazione della abitazione nella casa familiare al coniuge affidatario della prole, ai fini dell’opponibilità ai terzi, ebbe a chiarire che il titolo ad abitare il cespite familiare è strumentale alla conservazione della comunità domestica nel solo interesse della prole (in tal senso v., anche, Cass. SU n. 13603/2004 e, tra le più recenti, Cass. Sez. VI- 1, n. 8580/2014 e Cass. Sez. V, n. 25889/2015).
Ne deriva che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare, prioritariamente destinato al coniuge affidatario dei figli o con essi residente, è destinato a creare un vincolo di destinazione sui generis, collegato all’interesse superiore dei figli, si atteggia – secondo l’opinione maggiormente seguita – a diritto personale di godimento del cespite e viene a caducarsi nel caso di allontanamento del coniuge assegnatario, ossia allo scemare delle ragioni di protezione della prole per raggiunta indipendenza dei figli, ovvero, infine, nel caso in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.
Occorre, però, rimarcare che l’art. 337-sexies c.c., pur mantenendo il criterio della priorità dell’interesse dei figli nella valutazione sottesa al provvedimento di assegnazione, non prevede un obbligo di assegnazione della casa coniugale quale criterio automatico di attribuzione al coniuge affidatario della prole minorenne o non autosufficiente, il cui interesse comunque deve essere valutato per primo e salvo che non ricorrano nel caso concreto situazioni tali da favorire l’altro coniuge. In questo modo la casa familiare si afferma come cespite suscettibile di valutazione economica idoneo ad un eventuale riequilibrio delle condizioni reddituali dei coniugi nell’ambito dell’assegno di mantenimento del coniuge e dei figli e solo in questo ambito.
È stato, in proposito, chiarito (cfr., da ultimo, Cass. Sez. I, n. 20858/2021) che, ai fini della determinazione dell’importo dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge richiedente che ne abbia diritto, deve trovare spazio anche la valutazione del godimento della casa familiare, la cui assegnazione, pur essendo finalizzata alla tutela della prole e dell’interesse della stessa a permanere nell’ambiente domestico, costituisce indubbiamente un’utilità suscettibile di apprezzamento economico, sotto il duplice profilo del risparmio assicurato al coniuge convivente con i figli, rispetto alla spesa che dovrebbe (eventualmente) sostenere per procurarsi un alloggio in locazione, e dell’incidenza del relativo uso sulla disponibilità dell’immobile, con la correlata limitazione della facoltà di godimento e di disposizione spettanti al proprietario.
Come già evidenziato, tale principio, affermatosi già in epoca anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, che ha innovato la disciplina dell’esercizio della responsabilità genitoriale in caso di separazione, scioglimento o annullamento del matrimonio o nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio, ha trovato conferma nell’art. 55 di tale D.Lgs., che ha – come posto in risalto – introdotto l’art. 337-sexies c.c., il quale, nel ribadire il carattere prioritario della valutazione dell’interesse dei figli, ai fini dell’assegnazione del godimento della casa familiare, ha precisato, nel contempo, che di tale godimento il giudice deve tener conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerando l’eventuale titolo di proprietà.
Si è più specificamente puntualizzato, quanto all’assegnazione della casa familiare, che la circostanza che il coniuge assegnatario ne sia comproprietario non esclude la possibilità di tener conto, ai fini della determinazione dell’assegno, dell’incidenza del provvedimento sull’eguale diritto spettante all’altro coniuge, a sua volta comproprietario dell’immobile: infatti, l’esclusività dell’uso del bene da parte del coniuge assegnatario non trova il proprio titolo nella comproprietà del bene, che pur attribuendogli la facoltà di trarre per intero dall’immobile le utilità che lo stesso è in grado di offrire, non gli consentirebbe, ai sensi dell’art. 1102 c.c., di impedire all’altro partecipante di farne parimenti uso secondo il proprio diritto, ma nel provvedimento di assegnazione, che, comportando la sottrazione del bene al godimento dell’altro coniuge, opponibile ai terzi, e limitando conseguentemente anche la facoltà del coniuge non assegnatario di disporre liberamente della propria quota, quantomeno in ragione dell’incidenza dell’uso esclusivo sul valore della stessa, si traduce in un pregiudizio economico, anch’esso valutabile ai fini della liquidazione dell’assegno in favore del coniuge assegnatario della casa coniugale.
Come per tutti i provvedimenti conseguenti alla pronuncia di separazione o di divorzio, anche per l’assegnazione della casa familiare vale il principio generale della modificabilità in ogni tempo per fatti sopravvenuti.
È importante, altresì, sottolineare, da un punto di vista generale, che, in tema di separazione, l’assegnazione della casa coniugale non può costituire una misura assistenziale per il coniuge economicamente più debole, ma postula l’affidamento dei figli minori o la convivenza con i figli maggiorenni non ancora autosufficienti, mentre ogni questione relativa al diritto di proprietà di uno dei coniugi o al diritto di abitazione sull’immobile esula dalla competenza funzionale del giudice della separazione e va proposta con il giudizio di cognizione ordinaria (Cass. Sez. I, n. 18440/2013).
Per quanto direttamente rilevante in questa sede non si può, quindi, prescindere dalla valutazione dei principi generali che caratterizzano la divisione giudiziale nel sistema codicistico, la cui disciplina (che attiene ad un piano distinto) inevitabilmente si interseca – per la risoluzione della questione su cui è insorto il contrasto – con quella, prima sviluppata, relativa agli assetti familiari conseguenti alla separazione o al divorzio tra coniugi con riferimento ai provvedimenti di assegnazione della casa coniugale e di affidamento della prole minorenne o non autosufficiente.
Si osserva, al riguardo, che quando la divisione ha per oggetto un bene immobile sul quale insiste il diritto di assegnazione della casa coniugale, i possibili esiti delle operazioni divisionali sono quelli tipici di una qualsiasi comunione. Se il bene è comodamente divisibile, il giudice è tenuto a formare due porzioni di valore corrispondente alle quote dei condividenti, altrimenti deve procedere secondo le modalità previste dall’art. 720 c.c., con l’attribuzione unitaria (ovvero in favore, in via esclusiva, di uno dei condividenti che lo richieda) o con la vendita agli incanti. Resta fermo che l’attribuzione unitaria e la vendita mediante asta non rappresentano aspetti che esulano dal concetto di divisione, ma ne costituiscono soltanto delle modalità, cioè rimedi per ovviare all’impossibilità di frazionare il bene in tante parti quanti sono i condividenti.
In quanto modalità della divisione, ripartizione in natura, attribuzione unitaria e vendita devono avere un elemento in comune, il quale – pur diversificandosi l’una dall’altra dal punto di vista qualitativo – va ricercato, sotto l’aspetto quantitativo, nella loro idoneità a perpetuare nella sfera dei singoli il valore della quota astratta di comproprietà. L’intera disciplina della divisione e’, dunque, intesa a conservare questa proporzionalità di valori. Ciò pone al centro delle operazioni divisionali la preventiva determinazione del valore venale del bene, ossia il prezzo che si realizzerebbe vendendolo (ai sensi dell’art. 726 c.c.).
Se su di esso insistono vincoli suscettibili di incidere negativamente sul valore venale, il giudice, mediante la preventiva valutazione di un c.t.u., deve di regola tenerne conto, ma ciò non implica che qualsiasi tipo di vincolo determini sempre un’incidenza in peius rispetto al valore di mercato, così come può essere possibile valutare se tale incidenza venga a verificarsi o meno in relazione al modo ed all’esito delle operazioni divisionali, evenienza che – per l’appunto – viene in rilievo qualora l’immobile sia attribuito in proprietà esclusiva al coniuge beneficiario del provvedimento di assegnazione del bene come casa coniugale (in considerazione della rilevanza o meno della sopravvenuta perdita di siffatta destinazione), aspetto che costituisce l’oggetto del contrasto in esame.
5. La natura del diritto di assegnazione della casa coniugale.
Il profilo da ultimo accennato impone di fare qualche osservazione sulla natura giuridica del diritto di assegnazione della casa coniugale.
La tesi che, come anticipato, risulta essere quella più accreditata – e che queste Sezioni unite condividono – lo ricostruisce come diritto di godimento sui generis, ossia originato dal provvedimento di assegnazione e non definibile come diritto reale o semplice vincolo di destinazione (v. Cass., Sez. I, n. 772/2018, che lo considera estraneo alla categoria degli obblighi di mantenimento e collegato all’interesse superiore dei figli a conservare il proprio habitat domestico).
Per quanto riguarda il regime della trascrizione, come è noto, già dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, l’assegnazione della casa nel giudizio di separazione personale era prevista dall’art. 155-quater c.c., comma 4, con riferimento al coniuge a cui i figli venivano affidati, e regolata in funzione all’interesse morale e materiale degli stessi. E’ stata, poi, la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 454 del 1989, a dichiararne l’illegittimità costituzionale nella parte in cui, al citato comma, non si prevedeva la trascrizione del provvedimento giudiziale di assegnazione dell’abitazione nella casa familiare al coniuge affidatario della prole, ai fini dell’opponibilità ai terzi.
In effetti, della L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, opportunamente emendato con la L. n. 74 del 1987, aveva già previsto che l’assegnazione, in quanto trascritta, fosse opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 c.c..
In tal modo, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, deve considerarsi opponibile, anche se non trascritto, al terzo acquirente in data successiva, per nove anni dalla data dell’assegnazione, ovvero, previa trascrizione in data antecedente al titolo, anche oltre i nove anni (Cass. SU n. 11096/2002). La mancata trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa familiare esclude, quindi, l’opponibilità del vincolo, oltre il periodo di nove anni dall’assegnazione, al terzo che abbia successivamente acquistato l’immobile dal coniuge che ne era proprietario, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che il titolo di acquisto del terzo contenga l’indicazione specifica dell’esistenza del diritto del coniuge assegnatario.
Il quadro normativo, secondo lo statuto temporale allora vigente, è stato poi integrato da quello sull’affido condiviso di cui al D.Lgs. n. 54 del 2006.
Il citato art. 155-quater c.c., prima di essere quasi del tutto riprodotto nel contenuto dell’art. 337-sexies c.c., in esito al citato D.Lgs. n. 154 del 2013, prevedeva già che il provvedimento di assegnazione e quello di revoca fossero trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’art. 2643 c.c.. Tale previsione è stata, poi, da ultimo traslata proprio nel comma 1 del citato art. 337-sexies c.c. (inserito – come detto – del D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 55, comma 1, a decorrere dal 7 febbraio 2014), attualmente vigente.
Può dirsi, perciò, superata – in consonanza con la dottrina e la giurisprudenza assolutamente maggioritarie – la diatriba sul carattere assoluto, reale o personale di tale diritto sulla casa coniugale. Infatti, tenendo conto che l’assegnazione della casa familiare costituisce, di norma, la manifestazione di un interesse alla tutela e alla protezione dei figli minori o non autosufficienti a non essere sradicati dall’abituale habitat domestico, la giurisprudenza di questa Corte ritiene preferibile, nella ricostruzione giuridica del vincolo di destinazione conseguente all’assegnazione della casa familiare, l’enucleazione di una posizione riconducibile a quella di una detenzione qualificata giustificata, di regola, dalle priorità familiari di conservazione delle abitudini domestiche in favore della prole, ossia a quella di un diritto di godimento personale atipico.
Per vero, la questione non si atteggia come fine a se stessa perché influenza quella della trascrivibilità del provvedimento e dell’opponibilità ai terzi acquirenti, ossia quella della stabilità del provvedimento rispetto alle pretese dei terzi.
Come è risaputo, la giurisprudenza, in passato, traeva il fondamento della trascrivibilità del provvedimento di assegnazione della casa coniugale nel parallelismo con la locazione ex art. 1599 c.c., e, pertanto, esso risultava opponibile al terzo acquirente anche se non trascritto, per nove anni decorrenti dalla data dell’assegnazione stessa, ovvero anche dopo i nove anni ove il titolo fosse stato in precedenza trascritto di modo che ogni conflitto traesse il suo criterio di risoluzione dall’art. 1599 c.c..
Con la riforma di cui alla novella n. 54 del 2006, l’assegnazione della casa coniugale, in caso di separazione, ha creato – come ritenuto preferibile – in capo all’assegnatario un atipico diritto personale di godimento, trascrivibile e opponibile a terzi ai sensi dell’art. 2643 c.c., rimanendo così reciso ogni richiamo all’art. 1599 c.c., mentre l’assegnazione regolarmente trascritta trova il suo complemento nel principio di priorità di cui all’art. 2644 c.c..
Ne deriva che, secondo detto principio, il provvedimento di assegnazione che sia stato trascritto posteriormente all’iscrizione di ipoteca da parte del terzo acquirente non sarà a lui opponibile e, specularmente, lo sarà quello trascritto prima del titolo su cui si fonda la garanzia reale, secondo il principio prior in tempore, potior in iure, il tutto nel solco della possibile revoca dell’assegnazione, anch’essa trascrivibile a mente dello stesso art. 337-sexies c.c. (cfr. Cass., Sez. III, n. 9990/2019).
Come appena precisato, il diritto di godimento della casa familiare in capo al genitore affidatario è destinato a venire meno qualora egli cessi di abitare stabilmente nel cespite, ovvero conviva o contragga nuovo matrimonio, oltre, naturalmente, nei casi di raggiungimento dell’autonomia da parte dei figli affidati (Cass., Sez. VI-1, n. 3015/2018).
Nelle ipotesi elencate dell’estinzione del diritto di godimento in capo al coniuge assegnatario è escluso che possa essere annoverata anche la morte di costui (Cass. n. 772/2018, cit.), stante il fondamento della norma che è funzionale esclusivamente alla protezione dei figli, dei loro affetti, interessi e consuetudini di vita, indispensabili ad una formazione armonica della loro personalità.
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la possibile revoca dell’assegnazione nei casi previsti dall’art. 337-sexies c.c., sopra citato, ovvero per la raggiunta autonomia dei figli conviventi con l’assegnatario, non è azionabile dal terzo acquirente, il quale avrà a sua disposizione un’azione di accertamento preordinata alla liberazione del cespite (Cass., Sez. I, n. 15367/2015), cui potrebbe conseguire il pagamento dell’indennità per illegittima occupazione previa declaratoria di inefficacia del titolo, con decorrenza dalla data di deposito della sentenza di accertamento.
A queste conclusioni è necessario pervenire perché ogni evento che incida sul regime di separazione, divorzio ed affidamento della prole non determina i suoi effetti in via automatica, ma impone l’intervento giudiziale di modificazione e revisione, con conseguente rivalutazione delle esigenze sottese al provvedimento originario.
6. Il quadro complessivo della portata del contrasto.
Chiariti preliminarmente gli aspetti della natura e della funzione del provvedimento di assegnazione, possono essere così riassunti, alla stregua dell’ordinanza interlocutoria in esame, i due orientamenti della giurisprudenza di questa Corte formatisi sulla questione oggetto di contrasto:
a) secondo un primo orientamento, seguito dall’impugnata sentenza della Corte di appello, il provvedimento di assegnazione della casa familiare non verrebbe ad incidere sul valore di mercato del cespite allorché l’immobile, in sede di divisione, venga attribuito in proprietà al coniuge affidatario della prole, atteso che la finalità perseguita con l’attribuzione di questo diritto atipico di godimento è esclusivamente la tutela dei figli minori o, comunque, non autosufficienti, rispetto alla conservazione del loro habitat familiare.
Da quanto premesso non consegue, secondo questo orientamento, una locupletazione a favore del coniuge destinatario del conguaglio, a cui, invece, si richiama il ricorso de quo, atteso che l’assegnazione della casa familiare è strumentale, in via esclusiva, a preservare i figli dall’esito prevedibile della crisi coniugale costituito dai traumi da cambiamento di abitudini e radicamento ambientale che li interessano.
Di contro, come osservato nell’impugnata sentenza, nel caso in cui l’intero immobile, all’esito della divisione, venisse attribuito per l’intero allo stesso coniuge affidatario, il diritto di godimento di quel cespite non potrebbe che venire meno per confusione, cosicché nessun deprezzamento verrebbe sofferto dall’assegnatario divenuto proprietario esclusivo in conseguenza dello scioglimento della comunione sull’immobile destinato a casa familiare.
b) Secondo l’opposto orientamento, l’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l’immobile non appartenga in via esclusiva, instaura un vincolo oggettivo determinante una decurtazione del valore della proprietà, sia totalitaria che parziaria, di cui è titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane condizionato come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento di assegnazione non sia eventualmente modificato. Pertanto, nel giudizio di divisione occorrerebbe tener conto dell’incidenza dell’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro, ovvero venduto a terzi considerato che anche l’assegnatario subisce la diminuzione patrimoniale del valore del cespite. In tal modo, secondo il ragionamento di questa parte della giurisprudenza, il coniuge assegnatario si troverebbe dal punto di vista patrimoniale nella medesima situazione del coniuge non assegnatario o del terzo, finché il provvedimento di assegnazione non viene modificato e/o revocato.
7. Gli argomenti addotti a sostegno dei due contrapposti orientamenti.
7.1 – Nel senso sub a) del precedente paragrafo si è espressa Sez. I n. 11630 del 2001, la quale ha escluso che del provvedimento di assegnazione si debba tenere conto ai fini della valutazione dell’immobile in comproprietà considerato che esso è fonte di un diritto personale di godimento e non reale il quale e’, comunque, attribuito al coniuge affidatario nel solo interesse dei figli, ma che è destinato a venir meno allorché, sciolta la comunione legale, sia nel giudizio di separazione che in quello divorzile, il coniuge, cui la casa familiare sia stata assegnata, ne chieda l’assegnazione in proprietà, acquisendo, così, anche la quota dell’altro. In tal caso, l’originario diritto di godimento si consuma per effetto dell’acquisizione della proprietà esclusiva del cespite e non se ne deve tenere conto nella valutazione del cespite stesso, il che equivale a dire che il diritto in discorso non ha contenuto patrimoniale.
In senso conforme a questo orientamento si è espressa anche Sez. II n. 27128 del 2014, con cui è stato precisato come, ove si operasse la decurtazione del valore in considerazione del diritto di godimento della casa coniugale, il coniuge non assegnatario verrebbe ingiustificatamente penalizzato con la corresponsione di una somma che non sarebbe rispondente alla metà dell’effettivo valore venale del bene (per il caso di comproprietà al 50%): il che è comprovato dalla considerazione che, qualora intendesse rivenderlo a terzi, l’assegnatario in proprietà esclusiva potrebbe ricavarne l’intero prezzo di mercato, pari al valore venale del bene, senza alcuna diminuzione.
Negli stessi termini si è schierata anche Sez. II n. 17843 del 2016, che pure ha escluso l’incidenza dell’assegnazione sulla valutazione dell’immobile familiare in occasione della divisione dell’immobile in comproprietà tra i coniugi, al fine di determinare il valore di mercato del bene qualora l’immobile venga attribuito al coniuge titolare del diritto al godimento stesso, atteso che tale diritto è attribuito nell’esclusivo interesse dei figli e non del coniuge affidatario; pertanto, diversamente, si realizzerebbe un’indebita locupletazione a suo favore, potendo egli, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza alcun vincolo e per il prezzo integrale.
Conformemente a detto principio si è pronunciata, da ultimo, anche Sez. II n. 33069 del 2018, con la quale è stato affermato che, nello stimare i beni per la formazione delle quote ai fini della divisione, non può non considerarsi, invero, che, in ipotesi di assegnazione in proprietà esclusiva della casa familiare, di cui i coniugi erano comproprietari, al coniuge affidatario dei figli, si riunisce nella stessa persona il diritto di abitare nella casa familiare – che perciò si estingue automaticamente – e il diritto dominicale sull’intero immobile, che rimane privo di vincoli, con la conseguenza che, in sede di valutazione economica del bene “casa familiare” nel giudizio di scioglimento della comunione, il diritto di abitazione conseguente al provvedimento di assegnazione non deve, pertanto, influire in alcun modo sulla determinazione del conguaglio dovuto all’altro coniuge.
7.2 – Nel senso sub b) del precedente paragrafo si è pronunciata Sez. II, n. 20319 del 2004, a tenore della quale il provvedimento di assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l’immobile non appartenga in via esclusiva, crea un vincolo idoneo a deprezzare il valore del diritto dominicale di cui è titolare l’altro coniuge, il quale da quel vincolo rimane astretto, come i suoi aventi causa, fino a quando il provvedimento non venga eventualmente modificato ma che incide sul valore del cespite sia che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro coniuge, sia che venga venduto a terzi in caso di sua infrazionabilità in natura.
Nello stesso senso si è espressa Sez. II, n. 9310 del 2009, con la quale si è sostenuto che l’assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi in sede di separazione o divorzio è atto che, quando sia opponibile ai terzi, incide sul valore di mercato dell’immobile, con la conseguenza che, ove si proceda alla divisione giudiziale del medesimo, di proprietà di entrambi i coniugi, si dovrà tener conto, ai fini della determinazione del prezzo di vendita, dell’esistenza di tale provvedimento di assegnazione, che pregiudica il godimento e l’utilità economica del bene rispetto al terzo acquirente.
In senso conforme si è schierata Sez. II, n. 8202 del 2016, secondo la quale il vincolo sulla casa familiare conseguente al provvedimento di assegnazione determinerebbe una decurtazione del valore della proprietà, sia totalitaria che parziale, di cui tenere conto in sede di divisione indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all’uno o all’altro coniuge ovvero venduto a terzi con la conseguenza che il diritto di abitazione in esito al giudizio di separazione determina una riduzione del valore del bene, analogamente a ciò che si verifica nel caso analogo di diritto vantato da terzi sull’immobile.
E’ importante rimarcare che nessuna delle pronunce relative all’indirizzo giurisprudenziale sub b), appena riportate, affronta specificamente in motivazione il profilo dell’estinzione per confusione (o per fisiologico assorbimento) del diritto personale di godimento da parte del coniuge cui venga attribuito per intero il cespite in sede di divisione, né quello del parametro valutativo temporale in previsione dell’autonomia dei figli, diversamente dagli arresti difformi citati sub a).
8. Orientamenti della dottrina sull’incidenza o meno del provvedimento di assegnazione nel giudizio di scioglimento della comunione immobiliare.
Anche la dottrina si è mostrata divisa nell’affrontare il tema dei rapporti tra provvedimento di assegnazione e valutazione del cespite costituente la casa familiare di cui l’assegnatario chieda, ed ottenga, l’attribuzione per intero in sede di divisione.
Si è da parte dei prevalenti orientamenti teorici sostenuto – sul presupposto che il diritto di godimento sul cespite che l’assegnatario vanta in funzione della tutela della prole viene meno in quanto riassorbito in quello dominicale pieno e che la questione del valore economico del cespite in sede di liquidazione della quota spettante al comproprietario non assegnatario si compone nei rapporti tra i due coniugi e l’immobile – che, in tal caso, l’immobile va considerato come libero. Nell’ipotesi, invece, di vendita all’incanto del cespite, ai sensi dell’art. 720 c.c., nell’ipotesi in cui il bene non sia divisibile e nessuno dei coniugi ne chieda l’attribuzione, il terzo acquista dai coniugi in comunione, tutelati dalla trascrizione del provvedimento di assegnazione, un bene gravato da vincoli che egli è tenuto a rispettare secondo il regime di opponibilità. Da questo punto di vista il prezzo non potrà non tenere conto del pregiudizio della persistente destinazione dell’immobile a casa coniugale, che avrà, perciò, un valore economico quantificabile al ribasso rispetto a quello di mercato. In sintesi, l’eventuale assegnazione al coniuge del cespite in comproprietà incide sul valore venale dell’immobile solo allorché il bene sia venduto ad un terzo o attribuito al coniuge non assegnatario. Nel caso opposto di coincidenza tra attribuzione in sede di divisione e assegnazione il diritto dominicale riassorbe in sé quello atipico di godimento.
Nel senso della non incidenza dell’assegnazione sulla valutazione del cespite si è, in particolare, sottolineato che mentre non è dubitabile che l’assegnazione possa influire sulla valutazione venale dell’immobile rispetto al coniuge non assegnatario, il quale vede compromesso il pieno esercizio delle facoltà dominicali come per il terzo che possa vantare sul cespite un diritto godimento, la situazione giuridica del coniuge assegnatario è ben diversa giacché costui non è il destinatario del vincolo, ma colui che ne beneficia e pertanto, allorché il bene gli sia attribuito per intero in sede divisionale, nulla impedisce che egli possa disporre del bene a valore pieno.
Secondo un diverso indirizzo dogmatico il godimento abitativo accordato dall’assegnazione non sfumerebbe a seguito del conseguimento nel corso del giudizio di divisione dell’intera titolarità del bene assegnato, conservando, per contro, i suoi effetti fino a quando l’unità immobiliare resta asservita alla tutela dei figli e dell’habitat domestico. Detto orientamento afferma, altresì, che l’esistenza (fino a quando non sia revocato) del provvedimento di assegnazione dell’immobile quale casa coniugale, trascritto, si impone all’acquirente (avente causa del coniuge cui è stata assegnata in sede divisionale la proprietà dell’unità immobiliare familiare), di modo che il corrispettivo non potrebbe non risentire di questa limitazione. Per di più, anche se l’assegnatario riuscisse a spuntare un prezzo migliore nella previsione – non deducibile in una formale condizione e slegata da ogni automatismo – di far venir meno il proprio godimento per reintegrare così nella sua pienezza il diritto di proprietà dell’acquirente (ad esempio, cessando di abitare stabilmente nella casa familiare, iniziando una convivenza more uxorio ovvero contraendo un nuovo vincolo matrimoniale), tale eccedenza non costituirebbe una mera plusvalenza, poiché andrebbe a dare copertura economica ai rischi cui espone la decisione potestativa di estinguere il diritto (di godimento) di abitazione, derivanti dalla ridefinizione dei rapporti economici e dei provvedimenti attinenti i figli.
Altro indirizzo scientifico, argomentando dal nuovo testo dell’art. 568 c.p.c., comma 2, che fissa i criteri di determinazione del valore del bene immobile in sede di esecuzione forzata, ove vanno considerati lo stato di possesso nonché i vincoli ed oneri giuridici non eliminabili nel corso del procedimento esecutivo, sostiene che l’assegnazione incide, comunque, sul valore economico del cespite. Un ulteriore elemento di conforto di quest’ultima conclusione è stato rinvenuto nel disposto dell’art. 540 c.c., comma 2, che riconosce al coniuge superstite il diritto di abitazione sulla casa familiare facendo residuare, in capo agli altri eventuali coeredi, la comunione avente ad oggetto la sola nuda proprietà del bene. A tal proposito si osserva, convenendosi sul fatto che il valore capitale di tale situazione giuridica soggettiva vada stralciata dall’asse ereditario prima di procedere alla divisione ereditaria, che non si comprenderebbe perché analogo rilievo economico non debba valere anche per il godimento riconosciuto con il provvedimento di assegnazione della casa coniugale, al di là della non decisiva differenza legata alla sua natura personale.
9. La risoluzione del contrasto e gli argomenti posti a suo fondamento.
Ad avviso di queste Sezioni unite deve essere condiviso l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, nel caso in cui lo scioglimento della comunione immobiliare si attui mediante attribuzione dell’intero al coniuge affidatario della prole, il valore dell’immobile oggetto di divisione non può risentire del diritto di godimento già assegnato allo stesso a titolo di casa coniugale, poiché esso viene ad essere assorbito o a confondersi con la proprietà attribuitagli per intero, con la conseguenza che, ai fini della determinazione del conguaglio in favore dell’altro coniuge, bisognerà porre riferimento, in proporzione alla quota di cui era comproprietario, al valore venale dell’immobile attribuito in proprietà esclusiva all’altro coniuge, risultando, a tal fine, irrilevante la circostanza che nell’immobile stesso continuino a vivere i figli minori o non ancora autosufficienti rimasti affidati allo stesso coniuge divenutone proprietario esclusivo, in quanto il relativo aspetto continua a rientrare nell’ambito dei complessivi e reciproci obblighi di mantenimento della prole da regolamentare nella sede propria, con la eventuale modificazione in proposito dell’assegno di mantenimento.
In primo luogo, deve ritenersi incontestabile la sussistenza di una completa autonomia tra l’istituto dell’assegnazione della casa coniugale e quello della divisione dell’immobile adibito a tale destinazione conseguente allo scioglimento della comunione.
Infatti, è indubbio che il citato provvedimento di assegnazione trova fondamento in presupposti del tutto autonomi dal titolo dominicale che lega i coniugi all’immobile adibito a casa familiare e che, in virtù della sua riconosciuta opponibilità per effetto della trascrizione (già prevista dall’art. 155-quater c.c. e ora dal vigente art. 337-sexies c.c., comma 1), il relativo vincolo continua ad insistere sul bene anche qualora quest’ultimo venga alienato a terzi.
E’, altresì, pacifico che non si intravedono ragioni che possano giustificare il mancato accoglimento della domanda di divisione che abbia ad oggetto anche la casa coniugale gravata da un provvedimento di assegnazione.
In base, quindi, alla disciplina generale in tema di scioglimento della comunione immobiliare, ove trattasi di immobile non divisibile (art. 720 c.c.) e si proceda all’attribuzione dell’intero bene a uno dei comproprietari, scatta quale applicazione della relativa regola generale – il conseguente obbligo di corresponsione a favore dell’altro della quota di conguaglio.
In tal caso, ovvero qualora il bene venga attribuito in proprietà esclusiva al coniuge che già ne godeva come casa coniugale, verrà a prodursi l’effetto della concentrazione in capo allo stesso coniuge di tale diritto di godimento e del diritto dominicale sull’intero immobile, che permane privo di vincoli, con la conseguenza che il primo, già derivante dal provvedimento di assegnazione giudiziale, risulterà assorbito dall’acquisito diritto in proprietà esclusiva dell’immobile stesso, il quale, perciò, ne determinerà l’estinzione (secondo parte della dottrina si tratterebbe di una forma assimilabile a quella di un’estinzione per confusione).
In ragione di ciò, in sede di valutazione economica del bene “casa familiare” ai fini della divisione, il diritto di godimento di esso conseguente al procedimento di assegnazione non potrà avere alcuna incidenza sulla determinazione del conguaglio dovuto all’altro coniuge, in quanto lo stesso – come già rimarcato si atteggia come un atipico diritto personale di godimento (e non un diritto reale) che viene a caducarsi con l’assegnazione della casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge affidatario dei figli, divenendo, in tal caso, la sua persistenza priva di una base logico-giuridica giustificativa, anche in virtù dell’applicazione del principio generale secondo cui nemini res sua servit.
A tal proposito si è precisato che il citato diritto non costituisce un diritto patrimoniale, bensì esclusivamente un diritto familiare a carattere non patrimoniale, che, perciò, incontra il suo naturale limite nella cessazione della sua efficacia nel momento della divisione del bene “casa familiare”, per effetto della quale nella quota di proprietà del coniuge attributario – già titolare di tale diritto – confluisce e si annulla lo stesso diritto di godimento esclusivo.
A ciò deve aggiungersi – come rilevato dal pregresso orientamento giurisprudenziale che si condivide (v. le citate Cass. n. 27128/2014, n. 17843/2016 e n. 33069/2018) – che, ove si operasse la decurtazione del valore in considerazione del già riconosciuto diritto di godimento della “casa familiare”, il coniuge non assegnatario verrebbe ingiustamente penalizzato con la corresponsione di una somma che non sarebbe rispondente alla metà (nell’ipotesi di antecedente comproprietà al 50%) dell’effettivo valore venale del bene. Ciò trova conforto anche nella considerazione che, qualora intendesse rivenderlo a terzi, l’assegnatario della proprietà esclusiva (che decidesse di trasferire altrove la residenza comune con i figli, così rendendo l’immobile libero) potrebbe ricavare l’intero prezzo del mercato, pari al valore venale del bene, senza alcuna diminuzione.
Va, quindi, affermato che l’attribuzione dell’immobile adibito a casa familiare in proprietà esclusiva dell’assegnatario in sede di divisione configura una causa automatica di estinzione (così si esprime testualmente la menzionata Cass. n. 33068/2018) del diritto di godimento con tale destinazione, che comporta il conferimento allo stesso immobile di un valore economico pieno corrispondente a quello venale di mercato.
Pertanto, così come avviene per le altre ipotesi in cui l’estinzione del diritto di abitazione dipende da un fatto giuridico (ad es. la morte del destinatario del provvedimento di assegnazione), anche in tale ipotesi la segnalazione pubblicitaria destinata a certificare l’avvenuta estinzione del vincolo ben potrà essere eseguita sulla scorta di un atto ricognitivo del già titolare del diritto di godimento, divenuto poi esclusivo proprietario dell’immobile (non ritenendosi necessaria in proposito una pronuncia giudiziale, la quale, in ogni caso, non potrebbe che sostanziarsi in una sentenza di accertamento del venir meno degli effetti della trascrizione conseguente alla cessazione del vincolo).
In definitiva, l’immobile attribuito in proprietà esclusiva al coniuge già assegnatario quale casa coniugale non può considerarsi decurtato di alcuna utilità, posto che la qualità di titolare del diritto dominicale e quella di titolare del diritto di godimento vengono a coincidere. Non si configura, in altri termini, alcun diritto altrui che limiti le facoltà di godimento del coniuge attributario dell’intero – e già assegnatario in quanto affidatario della prole – e sia, perciò, idoneo a comportare la diminuzione del valore di mercato del bene.
Appurata in tale ipotesi l’insussistenza di un’incidenza sul valore venale del bene, non si può escludere – pur rimanendo tale aspetto attinente al solo profilo strettamente familiare – che il coniuge, divenuto titolare della proprietà esclusiva sull’intero bene all’esito delle operazioni divisionali, possa eventualmente chiedere l’adeguamento del contributo di mantenimento dei figli all’altro coniuge-genitore, in quanto nella determinazione del relativo assegno, pur venendo meno la componente inerente l’assegnazione della casa familiare, il genitore, non residente con i figli o non affidatario, rimane obbligato a soddisfare pro quota il diritto dei figli (minori o ancora non autosufficienti) a poter usufruire di un’adeguata abitazione (v. Cass., Sez. I, n. 16739/2020).
Infatti, tale obbligo di mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti da parte del genitore non residente con essi deve continuare a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese anche al nuovo assetto abitativo (oltre a quelli, persistenti, di carattere scolastico, sportivo, sanitario e sociale), alla perdurante assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione, secondo uno standard di soddisfacimento correlato a quello economico e sociale della famiglia di modo che si possa conservare, il più possibile, il tenore di vita corrispondente a quello goduto in precedenza.
Peraltro, non può nemmeno escludersi che, a seguito dell’estinzione del vincolo di destinazione a casa familiare (derivante dagli effetti della divisione), si possa convenire tra i coniugi separati (o divorziati), in sede di revisione dei provvedimenti afferenti agli assetti familiari, un affidamento dei figli al coniuge non attributario, all’esito della divisione, dell’immobile già avente detta destinazione, con una correlata nuova regolamentazione della contribuzione per i figli (fino al raggiungimento della loro autosufficienza), in ipotesi anche con esonero dall’assolvimento di tale obbligo per effetto dell’accordo tra gli stessi (ex) coniugi.
Pertanto, riconoscere al coniuge attributario dell’immobile per intero una decurtazione del conguaglio dovuto all’altro coniuge già comproprietario, in virtù del diritto di godimento già riconosciutogli con l’assegnazione, costituirebbe un suo ingiustificato arricchimento, in quanto egli si troverebbe come più volte posto in risalto – ad essere titolare di un bene non gravato da alcun diritto altrui, in virtù della produzione del suddetto effetto estintivo.
Di contro, nell’ipotesi in cui la comunione immobiliare venga sciolta a seguito della divisione giudiziale con l’attribuzione dell’immobile in proprietà esclusiva a favore del coniuge non assegnatario dello stesso quale casa coniugale (e non affidatario della prole), quest’ultimo si troverà in una situazione comparabile a quella del terzo acquirente dell’intero (a seguito di aggiudicazione in esito al procedimento divisionale, con le relative valutazioni del caso ad opera dell’ausiliario tecnico del giudice), ovvero diventerà titolare di un diritto di proprietà il cui valore dovrà essere decurtato dalla limitazione delle facoltà di godimento da correlare all’assegnazione dell’immobile al coniuge affidatario della prole, permanendo il relativo vincolo sullo stesso con i relativi effetti pregiudizievoli derivanti anche dalla sua trascrizione ed opponibilità ai terzi ai sensi dell’art. 2643 c.c..
Da quanto appena posto in risalto deriva, quindi, una soluzione differenziata del valore dell’immobile, a seconda che il medesimo sia assegnato in proprietà esclusiva al coniuge che (per essere residente con i figli o affidatario degli stessi) aveva su di esso il diritto di cui al citato art. 337-sexies c.c., comma 1 (già art. 115-quater c.c.) ovvero, in alternativa, sia trasferito in proprietà per l’intero all’altro coniuge, o venduto ad un terzo, posto che, in questi due ultimi casi, il diritto di godimento in capo all’altro coniuge continua a sussistere.
10. Conclusione.
In definitiva, alla stregua di tutte le argomentazioni complessivamente compiute e risultando il decisum al quale è pervenuta la Corte di appello di Roma nell’impugnata sentenza conforme alla soluzione scelta da queste Sezioni unite per dirimere il contrasto sulla questione, il ricorso dell’ Albani deve essere respinto.
In dipendenza, per l’appunto, del contrasto esistente nella giurisprudenza di questa Corte sulla questione trattata e della complessità dei relativi aspetti giuridici dalla stessa involti, sussistono giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese del presente giudizio.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del presente giudizio.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 12 aprile 2022.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 19 ottobre 2021, n. 28871, per SS.UU, 09 maggio 2022, n. 18641, in tema di divisione della casa coniugale
SS.UU, 09 giugno 2022, n. 18641, in tema di divisione della casa coniugale
In tema di comunione de residuo – SS.UU, 17 maggio 2022, n. 15889
Civile Sent. Sez. U Num. 15889 Anno 2022
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: CRISCUOLO MAURO
Data pubblicazione: 17/05/2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Oggetto
Dott. SPIRITO Angelo – Primo Presidente – DIVISIONE
Dott. MANNA Antonio – Presidente – Ud. 10/05/2022 – CC
Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere – R.G.N. 34818/2019
Dott. FERRO Massimo – Consigliere – Rep.
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. MANCINO Rosanna – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 34818-2019 proposto da:
PIRASTU BARBARINA, elettivamente domiciliata in ROMA PIAZZA SALLUSTIO 9, presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO PALERMO, che la rappresenta e difende, unitamente agli avvocati ANGELO LUMINOSO e ALBERTO LUMINOSO, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
CANNAS PIETRO, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE MAZZINI 11, presso lo studio dell’avvocato ELENA STELLA RICHTER, che lo rappresenta e difende, unitamente all’avvocato CRISTIANO CINCOTTI, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 557/2019 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 25/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/05/2022 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott. ALBERTO CARDINO, il quale chiede che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite voglia rigettare il ricorso, riconoscendo in favore del coniuge non imprenditore un diritto di credito;
Lette le memorie delle parti;
RAGIONI IN FATTO DELLA DECISIONE
Con atto di citazione ritualmente notificato, la Sig.ra Pirastu Barbarina conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Cagliari il Sig. Cannas Piero, con cui aveva contratto matrimonio concordatario il 28 giugno 1974 e con il quale aveva costituito, nel mese di ottobre del 1997, una società denominata s.r.l. SAVEMAIN, avente ad oggetto il commercio di macchine industriali, società della quale era amministratore il suddetto Cannas, titolare di una quota pari al 55% mentre la Pirastu lo era della restante parte. Successivamente all’inizio dell’esercizio dell’attività societaria ed al conseguimento dei corrispondenti utili, i due coniugi acquistarono un’area fabbricabile sulla quale edificare una sede più adeguata ed i locali da destinare ad officine dell’impresa individuale che il Cannas aveva avviato in proprio, con lo scopo principale di provvedere alla manutenzione ed all’assistenza dei mezzi commercializzati dall’anzidetta società. Con successivi sei atti, gli stessi coniugi avevano acquistato plurimi fondi per la superficie complessiva di 18.000 mq e, solo nell’ultimo di tali atti, concluso nel 1988, si dava atto che il relativo immobile era stato acquistato dai coniugi in regime di comunione legale, in quanto negli altri atti, invece, risultava essere unico acquirente ed intestatario il Cannas, mentre l’attrice, pur intervenuta alla stipula, aveva dichiarato che gli immobili oggetto degli acquisti non rientravano nella comunione dei beni in quanto da considerarsi necessari per l’esercizio della professione del Cannas, e ciò in conformità all’art. 179, lett. d), c.c. Sul presupposto dell’assunta erroneità di quest’ultima dichiarazione e dell’applicabilità dell’art. 178 c.c., in luogo del citato art. 179 lett. d), c.c., ed essendo successivamente intervenuta pronuncia di separazione giudiziale con sentenza del Tribunale di Cagliari del 2 maggio 2000 (passata in giudicato), si sarebbe dovuta – ad avviso della Pirastu – ritenere sciolta la comunione legale tra coniugi, con la conseguenza che gli immobili acquistati dal Cannas erano da considerarsi caduti “ipso iure” in comunione, ragion per cui l’attrice dichiarava di vantare il suo diritto di comproprietà sui predetti immobili, nonché su quanto sugli stessi edificato, in ragione del 50%. La stessa Pirastu, sempre ponendo riferimento all’art. 178 c.c., sosteneva di essere altresì comproprietaria, per metà, anche di tutti i beni mobili dell’impresa artigiana del coniuge (ivi compresi gli utili, gli incrementi, le attrezzature nonché di qualsiasi altra posta patrimoniale ancora esistente all’atto dello scioglimento della comunione), oltre che delle quote della citata società ancora intestate al medesimo coniuge (poiché egli aveva sottoscritto tutte le quote di nuova emissione per effetto di un’operazione di abbattimento del capitale sociale e di contestuale ricostituzione). Sulla base di tale premessa in fatto, Pirastu Barbarina citava in giudizio il Cannas Piero chiedendo la divisione di tutti i beni aziendali intestati al convenuto, nonché l’accertamento degli utili percepiti e percipiendi dallo stesso Cannas, oltre che dell’equivalente pecuniario riconducibile agli eventuali beni aziendali che fossero stati alienati dal medesimo convenuto successivamente all’intervenuto scioglimento della comunione legale.
Si costituiva in giudizio Cannas Piero, il quale resisteva alla domanda, invocandone il rigetto ed eccependo, altresì, l’avvenuto acquisto per usucapione di tutti gli immobili dedotti in controversia, compresi quelli aziendali, e delle costruzioni su di essi insistenti. Il Cannas deduceva, inoltre, che ove fosse stata condivisa la prospettazione di quanto dedotto in citazione, occorreva tener conto che l’azienda individuale da lui esercitata, fin dal momento dello scioglimento della comunione legale, presentava un’esposizione per passività ammontante a circa 400 milioni di lire e che, anche sulla proprietà dei beni immobili acquistati, pendeva una posizione debitoria di 100 milioni di lire. Il convenuto, pertanto, chiedeva che l’attrice venisse condannata al pagamento della metà di tutti gli oneri correlati alla realizzazione delle opere edificate sugli immobili di sua proprietà esclusiva, nonché al rimborso a proprio favore di tutti gli oneri che erano derivati dall’esecuzione di quelle opere da parte di soggetti terzi, ai sensi degli art. 934 e 935 c.c. All’udienza di trattazione l’attrice proponeva, in via subordinata rispetto alle domande già indicate nell’atto di citazione, domanda di annullamento o revoca o dichiarazione di nullità ovvero di inefficacia delle dichiarazioni di esclusione dei beni dalla comunione rilasciate dalla stessa attrice nei rogiti di compravendita per dolo, per errore e/o di diritto. Il convenuto eccepiva, a sua volta, la prescrizione di queste ultime azioni ulteriormente avanzate dalla Pirastu, nonché la decadenza dalle stesse.
All’esito dell’istruttoria, l’adito Tribunale di Cagliari, con sentenza non definitiva del 5 novembre 2003, dichiarò che l’attrice era proprietaria del 50% dei beni immobili oggetto del contendere, dovendosi applicare nella fattispecie, il disposto dell’art. 178 c.c., rigettando la domanda riconvenzionale di usucapione formulata dal convenuto, difettandone i relativi presupposti. Con la suddetta sentenza il Tribunale dispose la prosecuzione del giudizio per le conseguenti operazioni divisionali (nel corso della quale furono emesse altre due sentenze non definitive, e precisamente, la n. 2414/2007, con la quale ebbe a rigettare la domanda riconvenzionale del Cannas, ritenendo che gli edifici realizzati sui terreni dallo stesso acquistati fossero divenuti di sua proprietà individuale, in applicazione del principio dell’accessione ex art. 934 c.c., e la n. 2297/2014, con cui il Tribunale si limitò a rilevare la sussistenza del diritto in capo alla Pirastu alla rappresentazione dei frutti e degli utili percepiti e percipiendi dei beni comuni a far data dallo scioglimento della comunione, beni sui quali il Cannas aveva esercitato il possesso esclusivo, con decorrenza dalla data della domanda di divisione). Preso atto che l’attrice aveva rinunciato, in sede di comparsa conclusionale, alle azioni di assegnazione della metà dei beni mobili dell’azienda intestata al Cannas, nonché della metà delle quote della società SAVEMAIN, oltre che alla liquidazione dei frutti e degli utili maturati, percepiti e percepibili dal Cannas per effetto del godimento esclusivo dell’azienda individuale e della citata società, lo stesso Tribunale, con sentenza definitiva n. 1186 del 2017, ritenendo non necessaria l’osservanza delle formalità previste dall’art. 789 c.p.c., dichiarò esecutivo il progetto di divisione approntato dal c.t.u. nella relazione depositata in data 19 ottobre 2015 e, per l’effetto, assegnò all’attrice il complesso artigianale e relative pertinenze sito nel Comune di Monastir, al km 18.300 della s.s. 131, distinto al N.C.E.U. al foglio 22, mappali 2097, sub 1, 2 , 3, 4, 5, comprendente il terreno distinto al foglio 18, mappali 74, 520, 529, 530, 539, 817, 818, 819, 820, 821 e 822, ed il terreno distinto al foglio 22, mappali 242, 243, 244 e 472, con l’obbligo per l’assegnataria di versare al Cannas un conguaglio di euro 38.500,00. Con la sentenza definitiva, il Tribunale regolava anche le complessive spese processuali, ponendo a carico del convenuto anche quelle relative al procedimento cautelare svoltosi in corso di causa. Avverso tutte le sentenze (quelle non definitive e quella definitiva) del Tribunale di Cagliari, proponeva appello Cannas Piero, resistito dall’appellata Pirastu Barbarina, la quale a sua volta avanzava gravame incidentale. Con sentenza n. 557/2019, la Corte di Appello di Cagliari, non definitivamente pronunciando sull’appello principale e su quello incidentale, così statuiva: 1) accoglieva per quanto di ragione l’appello del Cannas e, in parziale riforma della sentenza di primo grado (che confermava con riferimento all’applicazione dell’art. 178 c.c. ed all’esistenza della comunione “de residuo”), dichiarava che, per effetto dello scioglimento dell’anzidetta comunione “de residuo”, la Pirastu Barbarina era titolare di un diritto di credito corrispondente al 50% del valore dei beni (alla stregua di quanto precisato in parte motiva) costituenti l’impresa esercitata a titolo personale dal Cannas durante il matrimonio; 2) disponeva, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio di appello ai fini dell’accertamento in concreto dell’esistenza e dell’entità del credito, nonché dei relativi frutti; 3) rimetteva alla sentenza definitiva la pronuncia sulle complessive spese giudiziali. A fondamento dell’adottata decisione, la Corte cagliaritana respingeva il primo motivo formulato dal Cannas, ravvisandone l’infondatezza, poiché il Tribunale di Cagliari aveva correttamente considerato applicabile l’art. 178 c.c., in virtù del valore negoziale della dichiarazione resa dalla Pirastu negli atti pubblici di acquisto dei terreni. Di conseguenza, i beni da dividere avrebbero dovuto considerarsi inseriti nella realtà produttiva dell’azienda, al cui esercizio erano destinati, ragion per cui l’incremento residuo, del quale la Pirastu avrebbe dovuto beneficiare “pro quota”, doveva tener conto dell’attivo sui beni aziendali da accertarsi alla data in cui si era verificato lo scioglimento della comunione (e quindi al 25 gennaio 2001, corrispondente pacificamente alla data della proposizione della domanda di divisione). Pertanto, ai fini della determinazione dell’entità dei crediti da attribuire in favore dell’attrice (sul presupposto che alla stessa si sarebbe dovuto, quindi, riconoscere solo una ragione di credito e non una situazione di contitolarità reale sui beni risultanti dalla comunione “de residuo”) e dei relativi frutti, la causa veniva rimessa sul ruolo per il suo ulteriore prosieguo istruttorio e la conseguente regolazione finale delle spese processuali. Per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte d’Appello, dopo avere escluso che i beni per cui è causa fossero stati acquisiti per l’esercizio dell’attività di agente di commercio del convenuto, e che quindi potessero farsi rientrare nel novero dei beni personali ex art. 179 c.c., trattandosi al contrario di beni destinati all’esercizio dell’impresa individuale gestita dal Cannas, e nel ribadire che si trattava quindi di beni oggetto della comunione de residuo, sosteneva la conclusione secondo cui l’attrice potesse vantare per gli stessi solo un diritto di credito. Nel dare conto del dibattito che aveva affannato la dottrina occupatasi della questione, e dopo aver ricordato che nel corso degli anni vi era stato l’intervento di alcune pronunce di legittimità, che però non avevano fornito una risposta univoca, la sentenza esponeva gli argomenti che a suo dire portavano a propendere per la tesi della natura obbligatoria del diritto del coniuge non titolare dell’azienda, il cui oggetto era il valore monetario dei beni che costituiscono l’azienda, dedotte le passività. Era, quindi, necessario considerare i beni in quanto inseriti nella realtà produttiva dell’azienda, potendo l’attrice beneficiare dell’incremento residuo, pro quota, e ciò alla data in cui era intervenuto lo scioglimento della comunione legale. Aggiungeva, tuttavia, che nel prosieguo del giudizio la Corte avrebbe dovuto solo procedere all’accertamento del credito vantato dall’attrice, ma senza la possibilità anche di adottare una condanna a suo favore, poiché una domanda siffatta non era mai stata proposta dalla Pirastu. Avverso la suddetta sentenza non definitiva di secondo grado della Corte di appello di Cagliari ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, Pirastu Barbarina. Ha resistito con controricorso l’intimato Cannas Piero. I difensori di entrambe le parti hanno anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. in vista dell’udienza pubblica del 28 settembre 2021. La Seconda Sezione civile con ordinanza interlocutoria n. 28872 del 19 ottobre 2021 ha rimesso il ricorso al Primo Presidente in vista della eventuale rimessione alle Sezioni Unite della questione di massima importanza concernente la natura del diritto vantato dal coniuge non titolare dell’azienda sui beni dell’azienda stessa ex art. 178 c.c. La causa è stata quindi fissata dinanzi alle Sezioni Unite per l’udienza pubblica del 10 maggio 2022. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte ed entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia – con riferimento all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. – la violazione e falsa applicazione degli artt. 177, 178, 179, 186, 191, 194, 718, 725, 726, 727, 728, 729, 1111, 1114, 1115 e 1116 c.c., dovendosi considerare, in difformità dall’impugnata sentenza, che l’esigenza di ripartire tra i coniugi pure i debiti gravanti sui beni destinati all’esercizio dell’impresa avrebbe dovuto considerarsi pienamente salvaguardata, anche riconoscendo al coniuge non imprenditore un diritto reale sugli stessi beni, senza necessità di trasformare il diritto di detto coniuge in un diritto di credito.
La difesa della ricorrente sostiene, in particolare, che l’interpretazione accolta dalla Corte di appello sul significato e sulla portata da attribuirsi all’art. 178 c.c. risulta – in primo luogo – totalmente contrastante con il tenore letterale della stessa norma e – in secondo luogo – condurrebbe a risultati inammissibili, in quanto gravemente pregiudizievoli per il coniuge non imprenditore, il quale è invece il soggetto principale che la legge vuole tutelare mediante l’istituto della comunione legale, anche a seguito dello scioglimento del vincolo coniugale.
A tal proposito, la difesa della Pirastu evidenzia come sulla questione non si sia formato un indirizzo giurisprudenziale di questa Corte propriamente consapevole della sua problematicità, mentre gli orientamenti dottrinali sono del tutto divisi sulla stessa, e le rispettive posizioni si basano su argomenti discutibili e contrapposti.
La necessità di tenere conto dei debiti e delle passività gravanti sui beni facenti parte dell’azienda può essere salvaguardata attribuendo una compartecipazione paritetica al coniuge non imprenditore per i debiti in precedenza contratti dall’imprenditore.
2. Con il secondo motivo (da considerarsi formulato subordinatamente al mancato accoglimento del primo) la ricorrente deduce – in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. – la violazione e falsa applicazione degli artt. 177, 178, 179, 186, 189, 191, 192, 194, 718, 725, 726, 727, 728, 729, 1111, 1113, 1114, 1115, 1116, 2646, 2652, 2653, 2740 e 2741 c.c., sostenendosi che, ove si fosse qualificato il diritto del coniuge dell’imprenditore come diritto di credito, si sarebbe dovuto ritenere che, in caso di scioglimento della comunione “de residuo” ai sensi dell’art. 178 c.c., il coniuge dell’imprenditore avrebbe avuto diritto di prelevare, in relazione all’art. 192, comma 5, c.c., beni ricadenti nella predetta comunione sino a concorrenza del proprio diritto di credito, dovendosi reputare tale norma applicabile anche all’ipotesi della cd. comunione de residuo.
In via ancora più subordinata, si chiede che la Corte dichiari che, al fine di evitare il concorso del credito del coniuge non imprenditore con quello degli altri creditori chirografari del coniuge imprenditore, al primo spetta una causa di prelazione facendo applicazione della previsione di cui all’art. 189 co. 2 c.c., e ciò sul presupposto che i beni della comunione de residuo vanno a comporre una massa separata dal patrimonio del coniuge imprenditore.
Inoltre, per l’ipotesi in cui i beni di cui all’art. 178 c.c. abbiano natura immobiliare, si chiede affermarsi altresì il principio in base al quale al coniuge non imprenditore non sarebbero opponibili le iscrizioni e le trascrizioni intervenute successivamente all’avvenuta trascrizione della domanda di divisione.
3. Con la terza ed ultima doglianza (anch’essa da intendersi avanzata condizionatamente al mancato accoglimento della prima), la ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c.- la violazione e falsa applicazione degli art. 99 e 112 c.p.c., nonché degli articoli 177, 178, 179 e 194 c.c., e congiuntamente – in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) – la nullità del procedimento o della sentenza, sull’asserito presupposto dell’illegittimità della decisione gravata nella parte in cui aveva dichiarato che ogni statuizione successiva all’espletamento della c.t.u. avrebbe potuto limitarsi soltanto all’accertamento del credito ad essa ricorrente spettante, ma non anche alla condanna del Cannas Piero al relativo pagamento.
4. Con ordinanza interlocutoria n. 28872/2021, la Seconda Sezione civile ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza relativa alla natura giuridica della c.d. comunione de residuo, posto che sia in dottrina che in giurisprudenza si contendono il campo la tesi, fatta propria della sentenza impugnata che attribuisce al coniuge non imprenditore un diritto di credito – pari alla metà del valore dell’azienda al momento dello scioglimento della comunione – e quella che invece opta per il riconoscimento di un diritto di compartecipazione alla titolarità dei singoli beni individuali.
L’ordinanza interlocutoria ha, in primo luogo, compiuto una ricognizione della giurisprudenza, non senza sottolineare che i precedenti di legittimità avevano toccato la problematica solo indirettamente e senza una particolare consapevolezza della sua rilevanza.
A favore della tesi della natura creditizia del diritto del coniuge non imprenditore (sostenuta in motivazione da Cass. n. 7060/1986 e Cass. n. 4533/1997), occorrerebbe valorizzare le esigenze sottese all’istituto della comunione de residuo, ovvero quelle del coniuge non imprenditore di vantare una legittima aspettativa sugli incrementi di valore di quei beni, e quelle del coniuge imprenditore di operare liberamente le sue scelte imprenditoriali.
La stessa Corte d’Appello ha però richiamato in motivazione Cass. n. 19567/2008 della Sezione tributaria di questa Corte, la quale, invece, lascerebbe presupporre – ma anche in tal caso senza una presa di posizione del tutto chiara ed approfondita – la preferenza per la natura reale del diritto in questione, essendosi statuito che, in tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato – in regime di comunione legale dei beni – soltanto ad uno dei coniugi, e nel quale siano affluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente, entra a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell’art. 177, primo comma, lett. c), c.c., al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo, evidenziandosi che lo scioglimento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto.
L’ordinanza di rimessione ha, altresì, evidenziato come la questione sia stata oggetto di disamina anche da parte della giurisprudenza di merito (peraltro non recente) che si è però in prevalenza schierata nel senso che la comunione de residuo determina l’insorgenza di un mero diritto di credito e non attribuisce al coniuge non imprenditore alcuna automatica ragione di contitolarità rispetto ai beni aziendali, essendo la sua posizione subordinata al previo soddisfacimento dei creditori dell’impresa.
A tale ultima soluzione, ha poi aderito anche la giurisprudenza delle sezioni penali di questa Corte che, con la sentenza n. 42182/2010, ha reputato legittima la confisca per l’intero del complesso aziendale acquistato in regime di comunione legale dal solo coniuge imprenditore poi condannato, ove l’attività imprenditoriale continui ad essere svolta anche dopo lo scioglimento della comunione, in quanto bene strumentale rientrante nella cosiddetta comunione “de residuo”, precisando in motivazione che al momento dello scioglimento della comunione legale dei beni, al coniuge non imprenditore spetta soltanto un diritto di credito di natura personale pari alla metà del valore dei beni facenti parte della comunione “de residuo”.
L’ordinanza si è altresì premurata di offrire una efficace e esaustiva panoramica dei principali orientamenti della dottrina, che a grosse linee riproducono il contrasto tra la natura reale ed obbligatoria del diritto in esame, con la precisazione, da coloro che aderiscono a tale ultima soluzione, che il diritto sarebbe pari alla differenza tra la metà del valore del patrimonio dell’altro – ovviamente determinato con riferimento ai beni ex art. 177, lett. b) e c), c.c., nonché eventualmente ex art. 178 c.c. – e la metà della propria massa ugualmente destinata alla comunione residuale (valori, questi, che, secondo tale seconda tesi, andrebbero calcolati, oltretutto, una volta dedotti i rispettivi debiti personali).
Sempre a favore della natura creditizia del diritto in oggetto, l’ordinanza ha evidenziato che oggetto della comunione de residuo sono non solo somme di denaro, ma anche beni, sia mobili che immobili (si ponga mente, in particolare, alle fattispecie riconducibili al disposto dell’art. 178 c.c.), così che, affermare l’automatico venire in essere di una situazione di contitolarità reale in capo a tali cespiti sarebbe potenzialmente in grado di creare problemi verosimilmente insormontabili nei rapporti con i terzi, i quali potrebbe non avere consapevolezza dell’esistenza di ragioni che determinano l’assoggettamento a comunione di beni a questa apparentemente sottratti. Né tale conclusione potrebbe essere contraddetta con il richiamo alle espressioni letterali utilizzate dal legislatore, che proprio per la loro ambiguità, non rappresenterebbero un elemento ermeneutico decisivo, potendosi invece trarre la volontà del legislatore di equiparare tale situazione, ancorché obiettivamente diversa da quella della comunione legale, quoad effectum, a quella dei beni in comunione, ma senza però attribuire natura reale al diritto del coniuge.
Inoltre, se per i beni oggetto della comunione residuale non d’impresa (quella, cioè, descritta dall’art. 177, lett. b) e c), c.c.), la natura reale del diritto del coniuge sarebbe in contrasto con la ratio di tale istituto che è diretto a conciliare l’esigenza di garantire a ciascun coniuge la libera disponibilità dei propri frutti e proventi con la necessità di assicurare, in forza del principio solidaristico, ad entrambi i coniugi, e quindi anche al coniuge non diretto produttore del reddito, la partecipazione, sia pure differita, alla ricchezza prodotta durante la convivenza familiare, sarebbe problematico limitare, nella fase successiva allo scioglimento della comunione legale, con l’insorgenza di un vincolo di natura reale, quella libertà di godimento e di disposizione sui frutti e proventi personali assicurata al coniuge percettore sino a quel momento, posto che lo scioglimento della comunione legale dovrebbe, semmai, cristallizzare o addirittura attenuare i vincoli patrimoniali tra i coniugi. Con particolare riguardo ai cespiti descritti dall’art. 178 c.c., la necessità, pur affermata dai sostenitori della tesi della natura reale, di prendere in considerazione, non la metà dell’azienda o degli incrementi, bensì la metà del “saldo attivo del patrimonio aziendale” (o dei suoi incrementi), pone il problema del fatto che il “saldo attivo del patrimonio aziendale” è un’entità astratta che non può riferirsi se non al valore monetario del complesso dei beni che costituiscono l’azienda stessa, dedotte le passività, con l’impossibilità di una reale contitolarità di diritti sui beni in oggetto.
I fautori della tesi della natura reale trovano invece un forte argomento nella formulazione letterale delle norme, dalle quali non sarebbe dato ricavare una esplicita previsione circa la natura creditizia della comunione residuale sciolta, stante anche l’assenza di una specifica previsione nell’art. 192 c.c., che regola i rimborsi e le restituzioni da effettuare allo scioglimento della comunione. Inoltre, non è mancato il richiamo da parte dei sostenitori della tesi della natura reale al vantaggio ermeneutico di unificare le problematiche della natura giuridica e del trattamento normativo della comunione (già) immediata e di quella differita, nella fase successiva allo scioglimento.
5. Come accennato, la dottrina ha visto un significativo contrasto tra le due tesi richiamate, sin dall’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia che ha appunto introdotto l’istituto della comunione legale, con la sua sotto-ipotesi della comunione de residuo, essendo le incertezze favorite da una non perspicua formulazione letterale delle norme e da una scarna disciplina da parte del legislatore, che ha rimesso agli interpreti la risoluzione del dubbio obiettivamente posto dalle previsioni dettate al riguardo.
Peraltro, accertare se si tratti di un diritto reale ovvero di un diritto di credito diviene rilevante anche ad ulteriori fini ed incide non solo per la posizione dei coniugi, ma anche, e forse in maniera ancora più significativa, nei rapporti con i terzi, e soprattutto con i creditori del coniuge imprenditore, e ciò in particolare nel caso in cui la situazione debitoria abbia infine determinato l’insorgenza di una procedura concorsuale.
La dottrina che sostiene la natura reale del diritto del coniuge non imprenditore sui beni ricadenti nel novero della cd. comunione de residuo trae principale argomento dalla lettera della legge che, per le ipotesi di cui all’art. 177 lett. a) e b), prevede che i beni interessati “costituiscono oggetto della comunione”, ed all’art. 178 c.c., (quanto all’azienda gestita solo da un coniuge), prevede che i beni destinati all’esercizio dell’impresa (se costituita dopo il matrimonio) e gli incrementi dell’azienda (costituita anche precedentemente) “si considerano oggetto della comunione”, sempre che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione legale.
La scelta semantica del legislatore risulterebbe poi maggiormente conforme alla struttura ed alla ratio dell’istituto, in quanto se si giustifica un sacrificio per l’interesse del coniuge titolare dei beni de quibus nella permanenza del regime della comunione legale, al fine di assicurare la piena disponibilità dei redditi prodotti e degli incrementi, nonché la libertà nella gestione dei beni aziendali ex art. 178 c.c., tale sacrificio non può protrarsi una volta che venga meno il regime della comunione legale.
La conseguenza è che i beni in questione, senza mai transitare nell’ambito di quelli sottoposti al regime della comunione legale (con le peculiari regole di amministrazione e gestione), ricadono direttamente in comunione ordinaria.
Tale soluzione sarebbe poi confortata, sempre sul piano letterale, dal rilievo che l’art. 192 c.c., pur regolando i rimborsi e le restituzioni da effettuare tra i coniugi al cessare del regime legale patrimoniale della famiglia, nulla prevede quanto ai beni oggetto della comunione de residuo, dal che dovrebbe trarsi l’esclusione dell’esistenza di un diritto di credito, quale conseguenza dell’attualizzazione del diritto del coniuge sui beni oggetto della comunione de residuo.
I beni in esame, da reputarsi beni personali “manente communione” legale, divengono quindi automaticamente beni comuni, il che offrirebbe maggiori garanzie anche al coniuge, che, divenendone comproprietario, eviterebbe il concorso con i creditori dell’altro coniuge, che invece subirebbe, ove si accedesse alla tesi contrapposta.
Tra gli autori favorevoli alla natura reale del diritto del coniuge si segnala anche la posizione di coloro che ribadiscono che si verrebbe a creare una comunione solo in relazione ai beni, ma senza che la stessa implichi anche una partecipazione all’attività di impresa svolta dall’altro coniuge, restando quindi estraneo alla responsabilità per i debiti scaturenti dall’attività imprenditoriale, la cui rilevanza si spiega solo ai fini di determinare il valore netto dei beni aziendali, essendo il diritto reale da calcolare sul valore del patrimonio al netto dei debiti contratti in epoca anteriore allo scioglimento della comunione.
I fautori della tesi del diritto di credito, da commisurare alla metà del netto patrimoniale attivo dell’impresa o degli incrementi di impresa maturati fino al momento dello scioglimento della comunione legale, ma depurati di ogni passività aziendale, ritengono invece non insormontabile la lettera della legge, la quale proprio per l’utilizzo del verbo “considerare” denota come ben potrebbe sottendere una non piena equiparazione del regime di tali beni a quello predisposto invece per quelli immediatamente oggetto della comunione legale.
Sarebbe, infatti, priva di razionalità e comprensibilità una soluzione che imponesse l’insorgere di una comunione su determinati beni proprio al momento del disfacimento della comunione legale.
Si obietta che la caduta in comunione dell’azienda implicherebbe anche il subentro del coniuge non imprenditore nella responsabilità per i debiti contratti in precedenza (e ciò secondo alcuni facendo applicazione dell’art. 2560 c.c., norma reputata suscettibile di estensione anche al caso in esame) esponendolo quindi in potenza ad una responsabilità illimitata, che coinvolgerebbe anche i suoi beni personali, senza che possa opporsi il limite del valore dei beni in comunione de residuo.
Altro argomento speso a favore della natura obbligatoria è quello che complessivamente valorizza le esigenze dell’impresa, sia dal lato del coniuge imprenditore che da quello dei creditori dell’impresa.
Da una parte si sottolinea che il venir meno del regime della comunione legale, pur determinando l’insorgere della comunione de residuo, non implica di per sé il dissolvimento dell’impresa individuale, che quindi ben potrebbe continuare ad essere operativa anche per il periodo successivo.
Se appare legittimo rendere il coniuge non imprenditore partecipe degli eventuali vantaggi ed incrementi prodotti dall’attività dell’altro coniuge, quale contropartita del diverso apporto del primo al regime familiare, la nascita di una comunione ordinaria rischierebbe però di vanificare in toto l’impegno in precedenza profuso dal secondo. Le regole gestorie della comunione poi imporrebbero che ogni scelta relativa ai beni aziendali non possa prescindere dal consenso dell’altro comunista, con il rischio di addivenire alla paralisi dell’attività imprenditoriale, ed inoltre, ove all’esito della divisione, i beni comuni si rivelino non comodamente divisibili, gli stessi, in assenza della previsione di una causa di prelazione a favore del coniuge imprenditore, come invece previsto dall’art. 230 bis c.c. per l’impresa familiare, potrebbero essere anche assegnati al coniuge non imprenditore, ovvero, nel caso in cui nessuno dei condividenti ne faccia richiesta di attribuzione, essere alienati a terzi ex art. 720 c.c., favorendo in tal modo il dissolvimento dell’impresa stessa.
A tali considerazioni si accompagna anche quella secondo cui risulta illogico limitare, nella fase successiva allo scioglimento della comunione legale, con l’asserita creazione di un vincolo legale di natura reale sui beni della comunione de residuo, quella libertà di godimento e di disposizione sui frutti e proventi personali assicurata al coniuge percettore sino a quel momento, e non essendo giustificata una soluzione per la quale a seguito dello scioglimento della comunione legale i vincoli patrimoniali tra i coniugi, dovrebbero essere cristallizzati se non preferibilmente attenuati, e non già incrementati con l’instaurarsi di nuove ipotesi di contitolarità reale.
Non trascurabili risultano anche le esigenze di tutela dei creditori dell’impresa, i quali hanno fatto affidamento, anche in vista della concessione del credito, sulla consistenza dell’azienda ritenuta di proprietà esclusiva dell’imprenditore e che, appena intervenuto lo scioglimento della comunione legale, vedrebbero la garanzia patrimoniale del loro credito ridotta del 50%, in ragione della insorgenza del diritto di comproprietà in favore del coniuge non imprenditore.
Analoga difficoltà si porrebbe anche nel caso in cui lo scioglimento della comunione legale sia determinato dal fallimento del coniuge imprenditore, posto che in tal caso, per effetto della nascita della comunione, nell’attivo fallimentare potrebbe essere inserito solo il 50 % dell’azienda, essendo evidentemente compromessa o fortemente impedita ogni possibilità di permettere la prosecuzione dell’attività in pendenza della procedura, dovendo le scelte da assumere in quest’ultima fare i conti con la concorrente contitolarità e gestione spettante al coniuge non imprenditore.
Altra parte della dottrina ha poi evidenziato che, in relazione al dettato dell’art. 178 c.c., quanto alla comunione de residuo concernente l’azienda gestita da uno solo dei coniugi, vi sarebbe una vera e propria impossibilità materiale di concepire una “comunione reale” con riferimento agli incrementi aziendali, i quali consistono in aumenti di valore dei beni aziendali connessi all’attività d’impresa, all’avviamento o al mutamento delle condizioni di mercato, il che porta a reputare che nella maggior parte dei casi non si tratta di beni materiali ma di valori contabili, risultanti dalla differenza tra il valore dell’azienda al momento dell’instaurarsi della comunione legale ed il suo valore al successivo momento dello scioglimento, e quindi insuscettibili di “contitolarità reale”.
Il richiamo alla peculiare natura delle varie ipotesi per le quali il legislatore ha configurato la comunione de residuo ha poi indotto altra parte della dottrina ad adottare una soluzione intermedia tra quelle sinora esposte, ritenendo che la risposta vari a seconda del bene cui rapportare l’istituto, ovvero distinguendo a seconda della diversa causa di scioglimento della comunione legale.
Infatti, la natura reale del diritto andrebbe affermata solo per i beni ex art. 177 b) e c) c.c. – ed in ogni caso – nonché per i beni ex art. 178 c.c., solo se lo scioglimento della comunione legale avviene perché l’imprenditore è venuto a mancare, definitivamente o provvisoriamente (morte, anche presunta, assenza), dovendosi invece aderire alla tesi del diritto di credito per tutte le altre ipotesi. Una variante di tale tesi è quella che invece reputa che, in vista della sostanziale tutela della libertà imprenditoriale, la soluzione creditizia andrebbe affermata per i beni e gli incrementi aziendali, mentre quella reale per gli utili derivanti dall’attività imprenditoriale e per i frutti e i proventi ex art. 177 b) e c) c.c., essendo tale soluzione maggiormente fedele anche al dettato normativo.
6. La disamina della giurisprudenza denota analoga differenza di vedute, sebbene, come correttamente rilevato nell’ordinanza di rimessione, la risposta che è stata data in un senso ovvero nell’altro, e senza che sia dato riscontrare un percorso diacronico, appare sovente funzionale ad un’immediata risoluzione del caso all’esame, e senza che le censure proposte effettivamente sollecitassero un approfondimento della questione oggetto della rimessione a queste Sezioni Unite.
Una delle prime occasioni in cui questa Corte ebbe a pronunciarsi è costituta da Cass. n. 7060/1986, che, ancorché a livello di obiter, essendo chiamata a pronunciarsi su di una situazione in cui il regime di comunione legale era ancora in atto, ha affermato che “allo scioglimento della comunione, del valore di essi (dei beni in comunione de residuo) si dovrà tener conto in accredito al coniuge non imprenditore”, mostrando in tal modo di propendere per la tesi del diritto di credito.
Tale conclusione, che risulta poi ripresa in maniera consapevole da un risalente precedente di merito (Tribunale Camerino 5 agosto 1988), è stata poi fatta propria in altre successive pronunce del giudice di legittimità. Infatti, ma sempre senza che vi fosse la necessità di risolvere espressamente il contrasto tra le due diverse opzioni illustrate, a favore della tesi del diritto di credito si pone Cass. n. 6876/2013, in cui la Corte ha affermato che, in tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, il credito verso il coniuge socio di una società di persone a favore dell’altro coniuge in comunione “de residuo“, è esigibile al momento della separazione personale, che è causa dello scioglimento della comunione, ed è quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento, consentendosi altrimenti al coniuge-socio di procrastinare “sine die” la liquidazione della società o di annullarne il valore patrimoniale (fa espresso riferimento a tale ultimo precedente anche Cass. n. 4286/2018, richiamata in motivazione nella sentenza qui impugnata, ma al limitato fine di confermare la regola secondo cui “lo stesso concetto di comunione de residuo non può avere riguardo ai beni destinati a confluirvi senza tenere contemporaneamente conto anche delle passività che gravano su quei beni…”, essendo quindi necessario far riferimento alla diversa nozione di patrimonio netto).
Una più motivata adesione alla tesi della natura creditizia del diritto de quo si rinviene, invece, in una decisione delle Sezioni penali di questa Corte (Cass. pen., Sez. 3, n. 42182/2010, Lombardi), che ha affermato la legittimità della confisca per l’intero del complesso aziendale acquistato in regime di comunione legale dal solo coniuge imprenditore poi condannato, anche nel caso in cui l’attività imprenditoriale continuava ad essere svolta dopo lo scioglimento della comunione, in quanto bene strumentale rientrante nella cosiddetta comunione “de residuo“. In questa occasione la Corte ha ritenuto che al momento dello scioglimento della comunione legale dei beni, al coniuge non imprenditore spetti soltanto un diritto di credito di natura personale pari alla metà del valore dei beni facenti parte della comunione “de residuo“, sicché l’effettiva disponibilità, a titolo di proprietà, di detti beni può essere attribuita al coniuge non imprenditore solo se vi sia stata cessazione dell’impresa o se il bene sia stato sottratto alla sua originaria destinazione attraverso la richiesta di divisione dei beni oggetto della comunione, così che in difetto di tali condizioni il bene continua ad essere soggetto a confisca per l’intero.
Tuttavia, come anticipato, non mancano precedenti a sostegno della natura reale del diritto in esame.
Cass. n. 2680/2000, a fronte della rivendica della quota avanzata dalla moglie di un fallito su beni appresi dal curatore, ha ritenuto, ancorché a livello di obiter, che il fallimento di uno dei coniugi in comunione legale “determina la comunione de residuo, sui beni destinati post nuptias all’esercizio dell’impresa, soltanto rispetto ai beni che dovessero residuare dopo la chiusura della procedura”, ed analogo principio è stato ribadito da Cass. n. 7060/2004.
La tesi della contitolarità dei diritti oggetto della comunione de residuo risulta poi sostenuta da Cass. n. 19567/2008, che, pronunciandosi in tema di imposta sulle successioni, ha affermato che il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato, in regime di comunione legale dei beni, soltanto ad uno dei coniugi e nel quale erano affluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente, entrava a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell’art. 177, primo comma, lett. c), c. c., al momento dello scioglimento della stessa (è stato quindi rigettato il ricorso dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza del giudice tributario che aveva ritenuto che l’imposta di successione fosse stata illegittimamente liquidata e corrisposta sull’intero asse ereditario mentre le attività relative ai conti correnti e titoli dovevano essere tassati al cinquanta per cento).
Ad analoghe conclusioni è pervenuta poi Cass. n. 13760/2015, non massimata, che, in merito all’azione esperita dall’ex coniuge nei confronti dell’erede testamentario e fratello dell’altro coniuge, con cui si chiedeva che venisse accertata la spettanza ai sensi e per gli effetti dell’art. 177, lett. b) e c), c.c. della metà degli importi relativi ai rapporti di credito con un istituto bancario, in quanto facenti parte della comunione de residuo, ancorché la natura di tale comunione non fosse oggetto di specifica censura, ha ricostruito le varie tesi affacciatesi in dottrina ed in giurisprudenza, e, senza prendere espressa posizione, ha richiamato Cass. n. 4393/2011 che aveva sostenuto che, siccome al momento della morte del coniuge si scioglie la comunione legale sui titoli in deposito presso banche ed anche la comunione differita – o de residuo – sui saldi attivi dei depositi in conto corrente, l’attivo ereditario, sul quale determinare l’imposta di successione, è costituito soltanto dal 50% delle disponibilità bancarie, pure se intestate al solo de cuius.
7. Il panorama della dottrina e della giurisprudenza come appena offerto consente di affermare che la questione oggetto dell’ordinanza di rimessione è tra quella maggiormente dibattute ed è priva ancora di una risposta soddisfacente da parte di questa Corte, ancorché siano decorsi oltre quaranta anni dalla novella del 1975, emergendo proprio dalla giurisprudenza segnalata come le soluzioni sinora date siano spesso prive di una adeguata ponderazione e vedano raggiunti esiti evidentemente contrapposti, senza che lo sviluppo cronologico delle decisioni possa far propendere per una evoluzione consapevole della giurisprudenza verso l’una o l’altra soluzione.
7.1 A seguito della novella di cui alla legge n. 151/1975, la comunione legale è divenuto il regime patrimoniale legale dei coniugi (applicabile altresì alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, per effetto dell’art. 1, comma 13, della legge n. 76/2016, ed è accessibile anche ai conviventi di fatto, a determinate condizioni).
La prevalente dottrina ha reputato che la scelta di tale regime risponda alla considerazione della famiglia come consortium omnis vitae, nonché ad una specifica esigenza di tutela del coniuge economicamente e socialmente più “debole”, e ciò in funzione complementare rispetto al sistema degli obblighi nascenti dal matrimonio stesso ed incidenti, direttamente o indirettamente, sul patrimonio dei coniugi.
Se la finalità dell’istituto è quella di garantire l’uguaglianza delle sorti economiche dei coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio, il legislatore ha avuto anche ben presente l’esigenza di assicurare al singolo coniuge un adeguato spazio di autonomia nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali, ed in generale nella gestione dei propri redditi da lavoro come pure dei frutti ricavati dai beni personali.
L’obiettivo era quello di fornire una disciplina che operasse un necessario ed equilibrato bilanciamento fra alcuni principi, tutti di rango costituzionale e, come tali, meritevoli in ugual modo di tutela, quali la tutela della famiglia (art. 29 Cost.), il principio di pari uguaglianza dei cittadini (art. 3 Cost.), la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.), la remunerazione del lavoro (art. 35).
La risposta è stata quindi quella di prevedere accanto ai beni che ricadono in comunione immediata, e che entrano cioè nel patrimonio comune al momento del loro acquisto, una serie di beni che ricadono in comunione de residuo, restando quindi personali durante la vigenza del regime patrimoniale legale, ma che sono attratti alla disciplina della comunione legale nella misura in cui gli stessi siano sussistenti al momento dello scioglimento della comunione (essendovi poi una serie di beni che nascono come personali e restano tali anche una volta cessata la comunione legale).
Affinché possa insorgere il diritto dell’altro coniuge su detti beni è però necessario che gli stessi siano effettivamente e concretamente esistenti nel patrimonio dei coniugi al momento dello scioglimento, di guisa che l’instaurazione di una situazione di comunione de residuo è configurata nel sistema della riforma come evento incerto nell’an, in quanto subordinato alla circostanza della sussistenza del residuum al momento dello scioglimento della comunione legale, ed incerto altresì nel quantum, poiché la contitolarità riguarderebbe esclusivamente quella parte di beni che residuino alla cessazione del regime patrimoniale legale.
L’individuazione dei beni oggetto della cd. comunione de residuo si trae dagli articoli 177 lett. b) e c) e 178 c.c., che però differiscono nella loro formulazione letterale, in quanto mentre l’art. 177 prevede che i beni ivi contemplati «costituiscono oggetto» della comunione, se ed in quanto esistenti all’atto dello scioglimento, nell’art. 178 c.c. i beni destinati all’esercizio dell’impresa costituita da uno dei coniugi dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa, anche costituita precedentemente, «si considerano oggetto».
La disciplina dei beni personali e quella specificamente dettata per i beni oggetto della cd. comunione de residuo testimoniano l’evidente emersione, pur all’interno di un regime ispirato alla tutela di esigenze solidaristiche tra i coniugi, della necessità di attribuire rilevanza anche a legittime aspirazioni individuali, che non potrebbero essere del tutto mortificate, e ciò in quanto il matrimonio presuppone comunque il riconoscimento della persona e della sua sfera di autonomia come valore primario che gli istituti giuridici sono chiamati ad attuare, soprattutto ove l’attività individuale si rivolga all’esercizio dell’attività di impresa o professionale.
7.2 Effettivamente risulta indicativo della volontà di preservare degli spazi di autonomia e di iniziativa, non potendo la sola adozione del regime patrimoniale legale menomare le scelte individuali dei coniugi, il raffronto tra la previsione di cui all’art. 178 e quella di cui all’art. 177 co. 1 lett. d) e dell’ultimo comma dello stesso art. 177, dal quale si ricava che l’elemento risolutivo per distinguere, quanto all’azienda, tra beni destinati a ricadere immediatamente in comunione e quelli invece riservati alla comunione de residuo, è rappresentato dalla gestione comune ovvero individuale dell’azienda.
L’individuazione dei beni oggetto della comunione de residuo testimonia lo sforzo del legislatore di raggiungere un auspicato bilanciamento tra il principio solidaristico, che dovrebbe informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall’altro (artt. 35, 41, 42 Cost.).
Inoltre, e con specifico riferimento ai beni di cui all’art. 178 c.c., si pone anche la finalità di non coinvolgere il coniuge non imprenditore nella posizione di responsabilità illimitata dell’altro, assicurando a quest’ultimo la piena libertà d’azione nell’esercizio della sua attività d’impresa.
Non può, infatti, trascurarsi l’esigenza di garantire il coordinamento tra le novità introdotte dalla riforma del diritto di famiglia ed il preesistente impianto codicistico che nelle sue linee fondamentali è volto a privilegiare l’autonoma e libera disponibilità delle risorse, nonché il principio della circolazione dei valori ed il mantenimento dei livelli di produttività, che non possono soffrire ostacoli eccessivi per effetto della scelta in favore del regime della comunione legale.
E’ evidente come il legislatore abbia inteso garantire, finché dura la comunione legale, al coniuge imprenditore il potere di gestione dell’impresa, investendo a suo piacimento gli utili, e disponendo nel modo più libero dei beni e degli utili aziendali.
Ne deriva che i beni oggetto della comunione de residuo, ed in particolare quelli di cui all’art. 178 c.c., che rilevano nella vicenda in esame, non possano considerarsi comuni, almeno fin tanto che non sia intervenuta una causa di scioglimento del regime legale (e non rilevando a tal fine la sola cessazione della destinazione dei beni all’impresa ovvero il venir meno della qualità di imprenditore in capo al coniuge), ancorché parte della dottrina, al fine di evitare confusione con i beni personali di cui all’art. 179 c.c., preferisca adottare la dizione di beni “propri”, di esclusiva titolarità del coniuge percettore.
7.3 Ritiene il Collegio che le considerazioni che precedono, dalle quali è dato ricavare come le esigenze solidaristiche familiari siano state in parte reputate recessive a fronte dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale, inducano a prediligere la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, tra l’altro garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, quanto all’impresa, in capo all’altro coniuge, nelle ipotesi previste dall’art. 178 c.c., evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, consentendo in tal modo la sopravvivenza dell’impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.
Depongono a favore di tale conclusione gli inconvenienti che la diversa tesi della natura reale del diritto presenta, come già evidenziato nell’illustrazione delle posizioni della dottrina.
L’insorgenza di una comunione anche sui beni mobili ed immobili confluiti nell’azienda, con la contitolarità che ne discende pone evidenti problemi nei rapporti con i terzi che abbiano avuto rapporti con l’impresa individuale del coniuge, i quali vedrebbero dal momento dello scioglimento della comunione legale, i beni non più appartenenti per l’intero all’imprenditore, ma in comunione con l’altro coniuge, con la conseguente dimidiazione della garanzia patrimoniale dai medesimi offerta, effetto questo che potrebbe anche scoraggiare i creditori dal continuare a riporre fiducia nella gestione successiva allo scioglimento della comunione legale.
Inoltre, proprio la situazione di contitolarità sui beni oggetto della comunione de residuo imporrebbe, nella loro successiva gestione, il rispetto delle regole dettate per i beni comuni, con il concreto rischio di paralisi nell’esercizio dell’attività di impresa, anche laddove si reputi che la qualità di imprenditore resti sempre in capo al solo coniuge che l’aveva prima dello scioglimento del regime della comunione legale.
Ancora, appare priva di intrinseca razionalità la conclusione che si ricollega alla tesi che afferma la natura “reale” del rapporto, per cui si avrebbe un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio quando e, anzi addirittura, proprio “perché” si sono prodotte vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione.
Né va trascurato il fatto che il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una menomazione dell’autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento, con il rischio che la conflittualità tra coniugi, che spesso caratterizza alcune delle fattispecie che determinano le cessazione del regime patrimoniale legale, possa riverberarsi anche nella gestione e nelle scelte che afferiscano ai beni aziendali caduti nella comunione de residuo.
Il carattere poi ordinario della comunione che verrebbe in tal modo a determinarsi, oltre ad incidere sulle regole gestionali della stessa, porrebbe il problema dei potenziali esiti esiziali per la stessa sopravvivenza dell’impresa, posto che, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge già imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe chiederne l’attribuzione il coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire alla alienazione a terzi.
Non trascurabile appare poi la scarsa razionalità che implica sempre la natura reale del diritto in esame, nel caso di morte del coniuge non imprenditore, che determinando del pari lo scioglimento della comunione legale, verrebbe a creare la comunione sui beni di cui all’art. 178 c.c. tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro coniuge, che ben potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare ristretto (si pensi all’ipotesi in cui dal matrimonio non siano nati figli, con la successione dei fratelli del de cuius, o l’individuazione di eredi terzi rispetto alla famiglia, nei limiti della disponibile).
D’altronde non appare facilmente conciliabile con la natura reale del diritto la previsione secondo cui cadano in comunione anche gli incrementi, che per la loro connotazione, in parte anche immateriale (si pensi alla componente spesso rilevantissima dell’avviamento), mal si prestano a configurare una comunione in senso reale sui medesimi.
Peraltro gli stessi fautori della tesi della natura reale del diritto ritengono in maggioranza che la comunione non insorga automaticamente sull’azienda o sugli incrementi, bensì sul “saldo attivo del patrimonio aziendale” (o dei suoi incrementi, nozione questa che sfugge alla costituzione di una contitolarità, presupponendo un calcolo di carattere economico), affermazione questa che per essere resa coerente con la premessa da cui si parte implicherebbe che delle passività debba essere chiamato a risponderne anche il coniuge non imprenditore. Il “saldo attivo del patrimonio aziendale” è però un’entità astratta che non può riferirsi se non al valore monetario del complesso dei beni che costituiscono l’azienda stessa, dedotte le passività, premessa questa che implica l’impossibilità di una reale contitolarità di diritti sui beni in oggetto, dovendosi invece propendere per la soluzione che attribuisce al coniuge non titolare del diritto reale una (eventuale, una volta effettuati i dovuti calcoli) pretesa di carattere creditorio.
Il potenziale attentato che la tesi della natura reale è in grado di arrecare alla stessa sopravvivenza dell’impresa del coniuge denota altresì come siffatta opzione ermeneutica si ponga in controtendenza con l’esigenza, fortemente sostenuta a livello sovranazionale, ed in particolare unionale, di approntare validi strumenti, anche dal punto di vista legislativo, per assicurare la sopravvivenza delle imprese a fronte di vicende potenzialmente destabilizzanti, come appunto testimoniato dalla scelta legislativa, in vista dell’evento morte dell’imprenditore, compiuta con la previsione del cd. patto di famiglia (artt. 768 bis e ss., introdotti dalla legge n. 55/2006).
7.4 Non ignora la Corte come il principale e più solido argomento addotto dalla tesi favorevole alla natura reale de quo sia quello legato alla formulazione letterale degli artt. 177 e 178 c.c., ma proprio la circostanza che in quest’ultima norma il legislatore abbia utilizzato il verbo “considerare”, piuttosto che “essere”, denota un’ambiguità semantica che, ancor più che essere sintomatica di un’incertezza, potrebbe essere invece ricondotta ad una precisa volontà di sottoporre la comunione de residuo, e specialmente quella di impresa, ad un regime normativo diverso da quello ordinario che invece, pur con le dovute differenze quanto al potere di gestione e disposizione, connota i beni destinati a ricadere immediatamente in comunione legale.
La soluzione che la Corte intende qui affermare, e cioè la natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, proprio in ragione della segnalata non univocità del testo normativo, appare altresì rispettosa del principio più volte riaffermato (cfr. Cass. S.U. n. 8230/2019) secondo cui il fondamentale canone di cui all’art. 12, co 1, delle Preleggi, impone all’interprete di attribuire alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione, costituendo la lettera della norma, infatti, un limite invalicabile dell’interpretazione, che è uno strumento percettivo e recettivo e non anche correttivo o sostitutivo della voluntas legis. In tal senso si veda anche Cass. S.U. n. 24413/2021, secondo cui “l’attività interpretativa, quindi, non può superare i limiti di tolleranza ed elasticità dell’enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento ad opera della giurisprudenza” (conf. Cass. S.U. n. 2061/2021).
Così come del pari non si rivela insormontabile il richiamo alla mancata disciplina all’interno dell’art. 192 c.c. tra i rimborsi e le restituzioni dovuti tra coniugi al diritto di credito spettante al coniuge non imprenditore, potendosi obiettare che in realtà l’omissione si giustifica per la esaustività della disciplina della comunione de residuo nelle norme appositamente dettate.
Così come parimenti priva di solidità risulta l’obiezione secondo cui l‘attribuzione di un mero credito pecuniario vanificherebbe l’aspettativa del coniuge non imprenditore alla partecipazione all’ulteriore aumento di valore dei beni aziendali intervenuto dopo lo scioglimento della comunione legale, potendosi agevolmente opporre a tale deduzione il rilievo per cui, proseguendo la gestione dell’impresa da parte del coniuge che già lo faceva prima, non è giustificabile alcuna aspettativa del coniuge non imprenditore, essendo venute meno, con la cessazione del regime della comunione legale, quelle esigenze solidaristiche che erano a fondamento della pretesa di compartecipazione alle fortune del coniuge imprenditore.
8. Ad avviso della Corte la questione oggetto dell’ordinanza di rimessione deve quindi essere decisa optando per la tesi della natura creditizia del diritto nascente dalla comunione de residuo, riconoscendo un diritto di compartecipazione sul piano appunto creditizio, pari alla metà dell’ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività.
Va quindi affermato il seguente principio di diritto: “Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”.
In applicazione del principio ora enunciato deve quindi pervenirsi al rigetto del primo motivo di ricorso, avendo la sentenza impugnata deciso in maniera conforme, optando appunto per la tesi della natura creditizia del diritto della ricorrente.
9. La risoluzione nei suesposti termini della questione oggetto di rimessione implica poi l’infondatezza anche delle censure mosse, in via subordinata al mancato accoglimento del primo motivo, nel secondo motivo di ricorso.
Infatti, quanto alla pretesa della ricorrente di soddisfare il proprio credito mediante prelevamenti, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 192 c.c., l’impossibilità di addivenire a tale soluzione scaturisce dal rilievo che la norma invocata presuppone appunto che vi siano dei beni comuni, ma intesi nell’accezione reale, quale contitolarità effettiva, avuto quindi evidentemente riguardo ai beni già ricadenti in comunione in costanza di matrimonio. L’avere però negato, quanto ai beni di cui all’art. 178 c.c., l’esistenza di una comunione effettiva e reale tra i coniugi preclude quindi la possibilità di poter effettuare prelievi nel senso sollecitato dalla ricorrente.
9.1 Quanto alla diversa doglianza con la quale si lamenta che la tesi fatta propria dalla Corte d’Appello imporrebbe il concorso del coniuge non imprenditore con i creditori chirografari del coniuge imprenditore, divenuti tali anche in epoca successiva, e con la prevalenza dei creditori privilegiati, ritiene la Corte che la medesima sia del pari priva di fondamento.
La tesi della ricorrente, oltre che fondarsi su di una petizione di principio che, come sopra illustrato non trova riscontro univoco nelle norme in esame (e cioè la prevalenza da assegnare alla tutela del coniuge non imprenditore rispetto alla tutela dell’iniziativa economica dello stesso imprenditore e della posizione dei creditori di quest’ultimo), aspira, più che ad una soluzione interpretativa, ad un intervento ortopedico ed additivo del testo normativo, che è invero precluso al giudice.
L’affermazione della natura obbligatoria del diritto spettante al coniuge non imprenditore implica come conseguenza il rischio che tale credito possa subire il concorso con i creditori, anche successivi, dell’altro coniuge, non potendosi attribuire al credito in esame un carattere privilegiato, al di fuori delle ipotesi tassative previste per legge, come appunto precisato dall’art. 2741 c.c. (cfr. Cass. n. 2/1971).
Né appare possibile invocare la legittima causa di prelazione di cui al comma 2 dell’art. 189 c.c., atteso che in tal caso la norma si riferisce alla garanzia offerta dai beni per i quali sia sorta una comunione reale, e non è quindi suscettibile di applicazione alla diversa ipotesi della comunione de residuo che attribuisce invece al coniuge solo un diritto di credito.
D’altronde le eventuali e condivisibili esigenze del coniuge non imprenditore di non vedere frustrato il proprio diritto di credito per effetto della prosecuzione dell’attività dell’altro coniuge, con l’assunzione di ulteriori debiti in grado di vanificare la soddisfazione del proprio diritto, ben potrebbero trovare adeguata tutela mediante la proposizione delle più opportune iniziative anche cautelari, come la richiesta di sequestro conservativo, al ricorrerne dei presupposti.
9.2 Parimenti priva di fondamento è la terza sollecitazione contenuta nel motivo in esame, essendo la trascrizione della domanda giudiziale di divisione incompatibile con la natura obbligatoria del diritto riconosciuto al coniuge non imprenditore, che però potrebbe trovare adeguata tutela, sempre nel caso in cui per la prosecuzione dell’attività da parte dell’altro coniuge insorga il fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, mediante la richiesta di sequestro conservativo e la trascrizione del provvedimento favorevole ex art. 679 c.p.c., ovvero reagendo con gli strumenti di conservazione della garanzia patrimoniale a fronte di eventuali atti dispositivi pregiudizievoli
10. Ritiene la Corte che sia invece meritevole di accoglimento il terzo motivo di ricorso.
La sentenza gravata, prendendo le mosse dalla natura creditizia del diritto spettante alla ricorrente, e rilevando che era stata proposta però una domanda di divisione, ha ritenuto che non fosse possibile, all’esito del giudizio, addivenire anche ad una condanna del convenuto al pagamento della somma spettante, e che il prosieguo del giudizio dovesse essere limitato al solo accertamento dell’entità del credito.
Ritengono le Sezioni Unite che la conclusione sia frutto di un approccio eccessivamente formalistico del giudice di merito e che la soluzione adottata non tenga conto del diverso principio secondo cui il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto a uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti, ma deve aver riguardo al contenuto della pretesa fatta valere in giudizio e può considerare, come implicita, un’istanza non espressa ma connessa al “petitum” ed alla “causa petendi” (così ex multis Cass. n. 7322/2019; Cass. n. 118/2016).
Sebbene la ricorrente con la domanda introduttiva del giudizio avesse richiesto l’attribuzione della quota in natura asseritamente spettantele sui beni oggetto della comunione de residuo, partendo dal presupposto, rivelatosi erroneo, della natura reale della comunione in questione, ha comunque manifestato in maniera univoca l’intento di conseguire, seppur in natura e quale conseguenza della opzione interpretativa alla quale aveva aderito, il concreto soddisfacimento del proprio diritto, che ben si sarebbe potuto concretare – pur aderendo alla natura reale – anche in un diritto di credito, ove per ipotesi non fosse stato possibile addivenire alla divisione in natura, tramutandosi il diritto della condividente nel conguaglio dovuto dall’altro comunista ovvero nella quota parte del prezzo ricavato dalla vendita, in relazione alle due ipotesi contemplate dall’art. 720 c.c.
Né può essere trascurato il dettato dell’art. 195 co. 2 c.p.c. che dispone che il decreto del giudice istruttorie di approvazione delle operazioni di divisione costituisce titolo esecutivo, riconoscendo quindi che la domanda di divisione ben possa sorreggere anche una richiesta di condanna.
L’erronea individuazione della disciplina concernente la comunione de residuo non consente però di escludere che la volontà della ricorrente, una volta ricondotto il diritto azionato ad una pretesa creditoria, anziché di carattere reale, fosse proprio quella di conseguire, all’esito del giudizio, l’attribuzione di quanto le compete per effetto della previsione di cui all’art. 178 c.c.
Va, quindi, censurato l’approccio eccessivamente formalistico del giudice di appello, ed in accoglimento del motivo in esame, la sentenza impugnata deve quindi essere cassata in parte qua, con rinvio alla Corte d’Appello di Cagliari, che nel prosieguo del giudizio dovrà altresì condannare il convenuto al pagamento di quanto eventualmente dovuto alla ricorrente, una volta esaurite le ulteriori attività istruttorie.
11. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo nei limiti di cui in motivazione e, rigettati i primi due motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte d’Appello di Cagliari, cui rimette anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità;
Così deciso, in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 maggio 2022.
L’Estensore
Il Presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 19 ottobre 2021, n. 28872, per SS.UU, 17 maggio 2022, n. 15889, in tema di comunione de residuo
SS.UU, 17 maggio 2022, n. 15889, in tema di comunione de residuo
In tema di assegnazione della casa coniugale – SS.UU, 26 luglio 2002, n. 11096
SS.UU, 26 luglio 2002, n. 11096, in tema di assegnazione della casa coniugale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi si Sigg.ri Magistrati:
Dott. Nicola MARVULLI – Primo Presidente –
Dott. Alfio FINOCCHIARO – Presidente di sezione –
Dott. Angelo GRIECO – Presidente di sezione –
Dott. Erminio RAVAGNANI – Consigliere –
Dott. Alessandro CRISCUOLO – Consigliere –
Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI – Rel. Consigliere –
Dott. Roberto Michele TRIOLA – Consigliere –
Dott. Giulio GRAZIADEI – Consigliere –
Dott. Federico ROSELLI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GELSOMINI LIBERATA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DELLA GIULIANA 38, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI DI BATTISTA, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso;
-ricorrente-
contro
SANASI MARIA G., MAZZUOLI GINO, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CAMILLO SABATINI 150, presso lo studio dell’avvocato ANNIBALE FALATO, rappresentati e difesi dall’avvocato LUIGI ESPOSITO, giusta delega in calce al controricorso;
-controricorrenti-
nonché contro
BERNARDINI LUCIANO;
-intimato-
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 19-22 aprile 1993 Maria Giovanna Sanasi e Gino Mazzuoli hanno convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma i coniugi Liberata Gelsomini e Luciano Bernardini, deducendo di aver acquistato con atto del 22 dicembre 1992 dal Bernardini l’appartamento sito in Pomezia, via Confalonieri n. 29, scala A, piano 5, interno 20, occupato dalla moglie in forza di assegnazione della casa familiare disposta nel giudizio di separazione personale, e chiedendo la condanna della Gelsomini al rilascio dell’immobile e della predetta in solido con il coniuge al pagamento di una indennità di occupazione ed al risarcimento del danno. La Gelsomini, costituitasi in giudizio, ha dedotto che gli attori al momento dell’acquisto erano pienamente consapevoli del suo diritto al godimento dell’immobile sulla base del provvedimento presidenziale di assegnazione, successivamente confermato nella sentenza del Tribunale, in via riconvenzionale ha proposto azione revocatoria, ai sensi dell’art. 2901 c.c., in relazione all’atto di compravendita posto a fondamento della pretesa avversaria.
Si è costituito anche il Bernardini, che ha resistito alla domanda proposta nei suoi confronti deducendo di aver preventivamente informato gli acquirenti della disposta assegnazione dell’unità immobiliare alla moglie.
Con sentenza del 5 luglio – 7 ottobre 1995 il Tribunale, in accoglimento della domanda, ha condannato la Gelsomini all’immediato rilascio dell’immobile; ha condannato altresì il Bernardini al pagamento in favore degli attori della somma di L. 2.000,000, con gli interessi legali, in relazione al periodo di occupazione dal gennaio all’aprile 1993; ha condannato entrambi i convenuti in solido al pagamento della somma di L. 7.000.000, con gli interessi legali dalla domanda, a titolo di indennità di occupazione per il periodo successivo.
La Gelsomini ha proposto appello avverso tale pronuncia; il Bernardini ha proposto appello incidentale.
Con sentenza del 5 febbraio – 8 luglio 1998 la Corte di Appello di Roma ha rigettato l’impugnazione principale ed in parziale accoglimento di quella incidentale ha revocato la condanna del Bernardini al pagamento della somma posta a suo carico per l’occupazione nel periodo dal gennaio all’aprile 1993.
Ha osservato in motivazione la Corte di merito che il provvedimento di assegnazione della casa familiare al coniuge non titolare di diritti sulla stessa non attribuisce al beneficiario alcun diritto reale e non è idoneo a paralizzare l’azione di rivendica esercitata dall’acquirente del bene. Ha rilevato altresì che l’azione revocatoria spiegata dalla Gelsomini non valeva a travolgere l’atto di disposizione compiuto dal “dominus”, e conseguentemente non era idonea ad incidere sul diritto degli aventi causa sul bene acquisito. Ha affermato infine che la circostanza che il Bernardini aveva reso edotti gli acquirenti della occupazione dell’immobile da parte della moglie escludeva un suo obbligo risarcitorio con riferimento ai primi mesi successivi alla vendita.
Avverso tale sentenza la Gelsomini ha proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi. La Sanasi ed il Mazzuoli hanno resistito con controricorso. Il Bernardini ha resistito a sua volta con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale affidato ad un unico motivo.
Con il primo motivo del proprio ricorso, denunciando violazione degli artt. 11 della legge 6 marzo 1987 n. 74 e 155 c.c., come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 454 del 1989, violazione dell’art. 112 c.p.c., omessa pronuncia su punto decisivo della controversia, la Gelsomini ha dedotto l’errore della sentenza impugnata per aver ritenuto inopponibile, in difetto di trascrizione, il provvedimento di assegnazione della casa familiare ai terzi acquirenti, non considerando che nella specie detta trascrizione era mancata non per fatto imputabile all’assegnataria, ma per il rifiuto del conservatore dei registri immobiliari di procedervi; che comunque gli acquirenti erano a conoscenza dell’occupazione dell’immobile e del relativo titolo; che in ogni caso, pur in assenza di trascrizione, la normativa richiamata consente l’opponibilità ai terzi nei limiti del novennio ove il diritto di proprietà sia stato acquisito successivamente al provvedimento di assegnazione.
Con ordinanza del 29 settembre – 2 novembre 2000 la prima sezione civile di questa Corte, cui i ricorsi erano stati assegnati, disposta la riunione degli stessi, ha rimesso gli atti al Primo Presidente perché valutasse l’opportunità della assegnazione a queste Sezioni Unite, ai fini della soluzione della questione proposta nel primo motivo del ricorso principale, tenuto conto del contrasto formatosi nella giurisprudenza di legittimità circa la opponibilità nei limiti del novennio ai terzi acquirenti della casa familiare di proprietà di un coniuge del provvedimento di assegnazione all’altro coniuge emesso nel giudizio di separazione personale e non trascritto, nonché della particolare rilevanza della questione stessa.
I ricorsi riuniti sono stati quindi assegnati a queste Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374 c.p.c. La difesa della Gelsomini ha infine depositato memoria.
Motivi della decisione
Queste Sezioni Unite sono state investite della composizione del contrasto formatosi tra le sentenze n. 10977 del 1996 e n. 7680 del 1997 da un lato e la sentenza n. 4529 del 1999 dall’altro: nelle prime due pronunce si è affermato che l’onere della trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa familiare di cui all’art. 155 c.c., ai fini della sua opponibilità ai successivi acquirenti, riguarda, in analogia con la normativa vigente in materia di scioglimento del matrimonio ed ai sensi dell’art. 1599 c.c., la sola assegnazione ultranovennale, salva restando l’opponibilità del provvedimento non trascritto nei limiti del novennio; con la pronuncia da ultimo richiamata si è al contrario sostenuto che la previsione di opponibilità della locazione di immobili al terzo acquirente nel limite temporale suindicato in difetto di trascrizione, contenuta nell’art. 1599 c.c., costituisce disposizione eccezionale non estensibile in via analogica ad altri istituti. e segnatamente all’assegnazione della casa familiare, trattandosi di fattispecie non riconducibile né analoga alla locazione, e che d’altro canto la genericità del richiamo all’art. 1599 c.c. contenuto nell’art. 6 comma 6 della legge sul divorzio – applicabile anche in materia di separazione personale, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 454 del 1989 – non consente di estendere all’istituto in discorso la disciplina relativa alle locazioni. Il richiamato contrasto esprime due divergenti letture dell’art. 6 n. 6 della legge n. 898 del 1970, nel testo riformato dall’art. 11 della legge n. 74 del 1987, rese possibili dalla formulazione della norma in termini ambigui ed intrinsecamente contraddittori, con il duplice riferimento sia alle regole della trascrizione che alla disciplina della locazione.
Ed invero il dato letterale fornisce indicazioni tali da elidersi a vicenda, e quindi da prestarsi alla individuazione di due opposti precetti: ove il richiamo contenuto nella disposizione in esame all’art. 1599 c.c. si intenda riferito all’intero testo della norma richiamata, dovrà ritenersi opponibile al terzo acquirente, ai sensi del primo comma del citato art. 1599 c.c., nei limiti del novennio, anche il provvedimento non trascritto intervenuto anteriormente alla vendita; ove invece si ritenga, valorizzando l’inciso “in quanto trascritta”, che il legislatore ha inteso indefettibilmente imporre un onere di trascrizione, senza distinguere tra durata infra ed ultranovennale, l’assegnazione sarà da considerare opponibile ai terzi solo se trascritta. È peraltro evidente che la lettura della norma nel senso per primo indicato vale a rendere l’espressione “in quanto trascritta” del tutto pleonastica, mentre la seconda opzione interpretativa finisce con il privare di ogni significato il richiamo all’art. 1599 c.c., fino a renderlo incomprensibile. Appare pertanto necessario un impegno interpretativo che utilizzando canoni ermeneutici diversi da quello letterale e richiamando l’evolversi della disciplina dell’assegnazione della casa familiare sia sotto il profilo della sua ammissibilità che sotto quello del suo regime nei confronti dei terzi, esaminando altresì i lavori preparatori, valorizzando le finalità dell’istituto ed applicando criteri di ordine logico sistematico consenta di individuare quale delle due possibili letture rispecchi l’effettiva volontà del legislatore del 1987, secondo il disposto dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al c.c.
Ed è appunto il richiamo all’evoluzione normativa al riguardo, nel suo svolgersi parallelo nell’ambito della separazione e del divorzio, segnato dal sovrapporsi di parziali interventi riformatori e di pronunce della Corte Costituzionale, che impone una prospettiva sistematica come via obbligata ai fini di una corretta soluzione interpretativa.
Come è noto, il testo originario degli artt. 155 e 156 c.c. non prevedeva, tra i provvedimenti da adottare a tutela del coniuge e della prole, l’assegnazione della casa familiare, e la giurisprudenza era generalmente orientata a negare la configurabilità del diritto del coniuge non proprietario e non titolare del rapporto di locazione ad occupare l’alloggio dopo la separazione, sul rilievo che in assenza di una specifica disposizione di legge che autorizzasse il giudice ad un tale tipo di intervento il coniuge titolare del diritto reale o personale non poteva essere privato del godimento del bene di sua proprietà né obbligato a mettere l’immobile locato a disposizione dell’altro.
Soltanto il legislatore della riforma del diritto di famiglia introdusse, al quarto comma dell’art. 155 c.c., il principio secondo il quale “l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli”, senza tuttavia darsi carico della questione della opponibilità ai terzi del provvedimento di assegnazione. Un’analoga previsione non era peraltro contenuta nella legge sul divorzio n. 898 del 1970, che al terzo comma dell’art. 6 si limitava a disporre che “l’affidamento e i provvedimenti riguardanti i figli avranno come esclusivo riferimento l’interesse morale e materiale degli stessi”. Tale disarmonia del sistema dette luogo nella giurisprudenza di questa Suprema Corte a contrastanti orientamenti circa l’attribuibilità dell’abitazione anche nel giudizio per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, in applicazione dell’art. 155 comma 4 c.c., per effetto del rinvio operato dall’art. 12 della legge n. 898 del 1970. Con la successiva legge n. 392 del 1978 sulla disciplina delle locazioni di immobili urbani fu accordato uno strumento di tutela all’assegnatario nell’ipotesi di abitazione condotta in locazione, con la previsione all’art. 6 comma 2 – che peraltro recepiva un principio in qualche misura già espresso nell’art. 2 bis del decreto legge 19 giugno 1974 n. 236, introdotto con la legge di conversione 12 agosto 1974 n. 351, in materia di locazione di immobili urbani soggetti a regime vincolistico – della successione per legge del coniuge assegnatario nella titolarità del contratto di locazione, sia nel caso di separazione che in quello di divorzio. Tale norma andava peraltro coordinata con la disposizione generale in materia di locazione di cui all’art. 1599 c.c., ai sensi del quale il contratto di locazione è opponibile al terzo acquirente se ha data certa anteriore all’alienazione della cosa nei limiti di un novennio dall’inizio della locazione, ed anche oltre se il contratto è stato trascritto, secondo la prescrizione dell’art. 2643 n. 8 c.c.
Dal riferito quadro normativo emergeva una evidente disparità di trattamento del coniuge assegnatario di unità abitativa di proprietà dell’altro coniuge rispetto al coniuge assegnatario di immobile locato, ritenendosi generalmente in giurisprudenza che la disciplina in tema di locazioni non fosse analogicamente applicabile nelle ipotesi innanzi considerate (v. Cass. 1985 n. 5082), e che anzi il diritto di abitazione si estinguesse con la vendita a terzi dell’immobile (così Cass. 1986 n. 624). Ne derivava altresì una posizione di forte tutela del terzo acquirente dal coniuge proprietario, anche se l’acquisto fosse stato successivo al provvedimento di assegnazione e l’alienante avesse informato l’altro contraente della condizione giuridica del bene con idonea dichiarazione inserita nell’atto di compravendita.
A fronte dell’iniquità di tali soluzioni si sviluppò in dottrina un vivace dibattito in ordine alla natura giuridica dell’assegnazione ed alle conseguenti implicazioni in tema di efficacia del provvedimento giudiziale nei rapporti tra i coniugi e nei confronti dei terzi. Alcuni Autori ritennero che il diritto sul bene assegnato si configurasse come un diritto reale di abitazione, in quanto tale tutelabile erga omnes, così da risolvere in radice il problema della opponibilità ai terzi attraverso il richiamo alle regole generali in tema di trascrizione dei diritti reali. Tale inquadramento fu peraltro disatteso da altri Autori e dalla giurisprudenza, sul rilievo che i modi di costituzione dei diritti reali sono tassativamente previsti dalla legge e che non può costituirsi per provvedimento del giudice, non consentendolo il combinato disposto degli artt. 1026 e 978 c.c., un diritto reale di abitazione, peraltro condizionato, nella sua esistenza, da criteri preferenziali e di mera possibilità e, nella sua durata, da circostanze accidentali, e quindi connotato in termini tali da renderlo incompatibile con gli schemi delle situazioni giuridiche reali (così Cass. 1985 n. 5082, cit.; v. altresì sul punto 1980 n. 3934; 1978 n. 3344). Nella molteplicità delle posizioni dottrinali, orientate ora per la configurabilità di un comodato dalla durata determinata per relationem, con riferimento al venir meno delle condizioni fattuali inducenti all’assegnazione, e quindi fortemente mutilato dei propri profili distintivi, come quello relativo all’obbligo di restituzione nei casi di cui agli artt. 1804 comma 3 e 1809 comma 2 c.c., ora per la ravvisabilità di una locazione costituita per effetto di un provvedimento giudiziale, pur mancante dell’elemento essenziale del corrispettivo per l’utilizzazione dell’immobile, ora per la individuazione di un diritto personale sui generis, ora per un diritto personale di godimento a titolo di mantenimento dovuto ai figli ed al coniuge separato, ora infine per un diritto personale di godimento variamente segnato da tratti di atipicità, la giurisprudenza di questa Suprema Corte si espresse per la qualificazione della fattispecie quale diritto personale di godimento, del quale non mancò di evidenziare la atipicità, e, su tale posizione è tuttora attestata (Cass. 1999 n. 529; 1997 n. 7680; 1993 n. 11508; 1992 n. 13126; 1992 n. 11424; 1992 n. 4016; 1991 n. 6348; 1988 n. 4420).
Il legislatore del 1987 offrì una soluzione al dibattito, quanto meno con riguardo alle sue implicazioni pratiche, con la disposizione dell’art. 11, sostitutiva dell’art. 6 della legge n. 898 del 1970, che al comma 6 non solo estese al caso di divorzio l’assegnabilità della casa coniugale – così risolvendo definitivamente la controversa questione della applicabilità dell’art. 155 comma 4 c.c. allo scioglimento del matrimonio, che peraltro quasi contestualmente trovava soluzione a livello interpretativo con la sentenza di queste Sezioni Unite n. 4089 del 1987 – ma dettò anche – dandosi carico del diffuso orientamento giurisprudenziale circa la inopponibilità ai terzi, sulla base della normativa vigente, della situazione giuridica del coniuge assegnatario – uno strumento di tutela all’assegnatario stesso nelle ipotesi di alienazione a terzi dell’immobile da parte dell’altro coniuge proprietario, disponendo che detta assegnazione, “in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art 1599 c.c.” Le perduranti incertezze circa l’applicabilità del principio innovativo introdotto nella novella alle ipotesi di assegnazione della casa coniugale nelle cause di separazione indussero a sollecitare l’intervento della Corte Costituzionale, che con la nota pronuncia n. 454 del 1989 dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 155 comma 4 c.c. nella parte in cui non prevedeva la trascrizione del provvedimento di assegnazione al coniuge separato affidatario della prole ai fini dell’opponibilità ai terzi, ritenendo del tutto ingiustificata la difforme disciplina dettata dalla norma denunziata e da quella di cui all’art. 6 comma 6 della legge n. 74 del 1987, “ispirate all’eadem ratio dell’esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole”, rispetto al quale è strumentale il diritto del coniuge alla abitazione, e quindi ravvisando la violazione del principio di uguaglianza nella diversità di trattamento riservata ad una situazione assolutamente identica.
L’intervento additivo del giudice della legittimità delle leggi, se consenti di realizzare la fondamentale esigenza di omogeneità di disciplina tra i due regimi, non valse tuttavia a dissipare le incertezze in ordine alla effettiva portata del richiamo all’art. 1599 c.c. contenuto nell’art. 6 comma 6 della legge sul divorzio. Ed invero la mancanza di ogni riferimento, in quella pronuncia a tale disposizione, e per converso il passaggio argomentativo con il quale si richiamava la opponibilità “mediante trascrizione” al terzo acquirente, indussero alcuni commentatori a ritenere che nella prospettiva del giudice della legittimità delle leggi la pubblicità costituisse l’unico sistema per la soluzione dei conflitti tra coniuge beneficiario del provvedimento e terzi acquirenti, con esclusione di ogni altro criterio di selezione, come quello della priorità temporale, tra titolari di diversi diritti.
A tale lettura si oppose convincentemente da altri che l’intervento della Corte di legittimità andava inteso come diretto unicamente ad eliminare la discriminazione tra la tutela del coniuge affidatario separato e quella accordata al divorziato, e non a controllare la legittimità della specifica disciplina dettata dall’art. 6 n. 6 della legge sul divorzio, così che nessun elemento a favore dell’una o dell’altra scelta interpretativa era possibile desumere da detta pronuncia. Con l’ordinanza dell’anno successivo n. 20, di manifesta inammissibilità della medesima questione di costituzionalità dell’art. 155 comma 4 c.c. già decisa, la Corte Costituzionale ebbe a fornire una interpretazione autentica della precedente sentenza, all’evidente scopo di apportare un contributo di chiarezza al dibattito in corso, affermando che “appare chiaro, dalla motivazione della sentenza citata, come l’onere di trascrivere il provvedimento d’assegnazione nel caso di separazione, in analogia con la normativa vigente in materia di scioglimento del matrimonio, riguardi, ex art. 1599 del codice civile, la sola assegnazione ultranovennale, ferma restando l’opponibilità del provvedimento in tutte le altre ipotesi”.
La singolarità dello strumento utilizzato dalla Corte Costituzionale per interpretare se stessa, ad integrazione della motivazione della precedente sentenza, nel senso della piena equiparabilità, sotto il profilo della opponibilità ai terzi, del regime della assegnazione a quello della locazione, non consente di attribuire a tale pronuncia un valore vincolante – come ha puntualmente rilevato la sentenza n. 4529 del 1999 che ha determinato il contrasto giurisprudenziale in esame – risolvendosi essa in una mera “proposta esegetica” – secondo una efficace definizione dottrinaria – inidonea a risolvere definitivamente la questione. Significativi elementi ai fini della soluzione del problema interpretativo in oggetto sono peraltro offerti dallo svolgimento del dibattito parlamentare in sede di approvazione della legge n. 74 del 1987. Risulta invero dai lavori preparatori che nella discussione in Senato, ad un primo emendamento tendente ad applicare integralmente, con l’espressione “l’assegnazione è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 c.c.”, il regime previsto dalla norma richiamata, al dichiarato fine di “omologare la posizione del genitore affidatario dei figli a quella di un qualunque conduttore”, avuto riguardo alla tutela già apprestata all’assegnatario dalla legge n. 392 del 1978 nei confronti del terzo proprietario locatore, fu aggiunto con un subemendamento l’inciso “in quanto trascritta”: detto inserimento fu determinato dall’enunciato proposito di dissipare ogni dubbio – che la previsione contenuta nel primo comma dell’art. 1599 c.c. di una opponibilità limitata al novennio in assenza di trascrizione poteva in qualche misura alimentare, in un sistema improntato al principio di tassatività – circa la trascrivibilità del provvedimento giudiziale.
Precisa finalità del subemendamento fu pertanto quella di aggiungere un elemento di certezza ad una disposizione già diretta, nella sua precedente formulazione, a rendere applicabile la disciplina prevista per le locazioni nel suo complesso (ivi compresi gli artt. 2643 n. 8 e n. 14 e 2644 c.c.), apprestando una specifica tutela alla posizione dell’assegnatario, anche in considerazione della peculiarità del diritto in discorso e della indeterminatezza della sua durata, e non già quella di creare ulteriori ostacoli all’opponibilità del provvedimento. E se pure è vero che l’intervento chiarificatore ha finito con il rendere più confuso il precetto e più ardua l’interpretazione della norma, è tuttavia altrettanto vero che una lettura di essa che ravvisasse l’indefettibilità della trascrizione si porrebbe in netta antitesi con le enunciate finalità del legislatore della riforma. Soccorrono ancora nell’impegno ermeneutico in discorso esigenze di ordine sistematico, atteso che a fronte del disposto di cui al secondo comma dell’art. 6 della legge n. 392 del 1978, il quale – come innanzi ricordato – prevede per il caso di separazione o di divorzio che succeda nel contratto di locazione al conduttore l’altro coniuge, se il giudice gli abbia riconosciuto il diritto di abitare nella casa familiare, sarebbe del tutto incongrua una opzione interpretativa che attribuisse un trattamento deteriore all’assegnatario nell’ipotesi in cui il coniuge estromesso sia titolare di un diritto reale.
Soccorre altresì la funzione dell’istituto, che secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale costituisce una misura di tutela esclusiva della prole, diretta ad evitare ai figli minorenni o anche maggiorenni tuttora economicamente dipendenti non per propria colpa l’ulteriore trauma di un allontanamento dall’abituale ambiente di vita e di aggregazione di sentimenti. Va al riguardo ricordato che questa Suprema Corte ha da tempo affermato – sin dall’ormai remota sentenza a sezioni unite n. 2494 del 1982 – che l’art. 155 comma 4 c.c., prevedendo una pronuncia costitutiva derogatrice del principio generale secondo il quale il debitore risponde delle obbligazioni presenti e future con tutti i suoi beni, costituisce norma di carattere eccezionale dettata nell’esclusivo interesse della prole, diretta ad attribuire ai figli una certezza ed una prospettiva di stabilità in un momento di precario equilibrio familiare, onde non è applicabile al coniuge che non sia affidatario o che non conviva con figli maggiorenni non autosufficienti, e che d’altro canto detto coniuge non può invocare l’assegnazione, ove avente diritto al mantenimento, in forza dell’art. 156 c.c., non conferendo tale disposizione il potere al giudice di imporre al coniuge obbligato di provvedervi in forma specifica (v., ex plurimis, con specifico riferimento all’assegnazione della casa familiare nell’ipotesi di separazione personale, Cass. 2000 n. 9073; 1998 n. 4727; 1997 n. 7770; 1997 n. 6557; 1996 n. 2235; 1996 n. 652; 1995 n. 3251; 1994 n. 8426; 1994 n. 2574; 1993 n. 4108; 1991 n. 5125; 1990 n. 11787; 1990 n. 6774; 1990 n. 5384; 1990 n. 901).
L’esposto indirizzo interpretativo è seguito da questa Corte anche in materia di divorzio, nonostante la parallela disposizione dettata nell’art. 6 della relativa legge imponga al giudice un più articolato apprezzamento, disponendo che “in ogni caso” il giudice valuti le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorisca il coniuge più debole: come si è rilevato nella nota sentenza a sezioni unite n. 11297 del 1995, detta legge non ha modificato le condizioni ed i limiti del potere del giudice, né la natura e la funzione dell’istituto dell’assegnazione disciplinato dall’art. 155 comma 4 c.c., secondo le elaborazioni offerte nel richiamato orientamento giurisprudenziale, così che l’affidamento di figli minori o la convivenza con figli maggiorenni, ma non autonomi, costituisce elemento necessario, anche se non più sufficiente, per ottenere l’assegnazione della casa familiare. Tale è peraltro la configurazione sottesa alla richiamata sentenza n. 454 del 1989 della Corte Costituzionale, la quale ha definito il titolo ad abitare per il coniuge come “strumentale alla conservazione della comunità domestica e giustificato esclusivamente dall’interesse morale e materiale della prole affidatagli”.
Ed anche la successiva sentenza n. 166 del 1998 della Corte Costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 155 comma 4 c.c. nella parte in cui non prevede, in ipotesi di cessazione della convivenza di fatto, la possibilità di assegnare in godimento la casa familiare al genitore naturale affidatario del minore o convivente con prole maggiorenne non economicamente autosufficiente, ha ribadito che “la tutela dell’interesse della prole rappresenta la ratio in forza della quale il legislatore …… ha introdotto il criterio preferenziale, ancorché non assoluto, indicato dal comma 4 dell’art. 155 del c.c.” Ed è proprio il convincimento ormai maturato nell’esperienza giurisprudenziale che detta misura non integri una componente delle obbligazioni patrimoniali conseguenti alla separazione o al divorzio, ma svolga una essenziale funzione di tutela dei figli, che consente di ritenere del tutto superate alcune posizioni della giurisprudenza pregressa, che sulla ricostruzione dell’istituto in chiave di modalità attuativa dell’obbligo di mantenimento fondava l’affermazione di inopponibilità al terzo, e di inscrivere l’assegnazione della casa, come è stato efficacemente affermato in dottrina, nell’ambito del “regime primario” della famiglia. In questo quadro complessivo di riferimento diventa agevole, superando le ambiguità del tenore letterale dell’art. 6 comma 6 della legge sul divorzio in termini di coerenza sistematica, ravvisare ne richiamo all’art. 1599 c.c. in esso contenuto la precisa volontà del legislatore di assimilare ai meri fini della trascrizione il diritto dell’assegnatario a quello del conduttore, così attribuendo all’istituto un quoziente di opponibilità ai terzi, anche a prescindere dalla trascrizione: peraltro la limitazione di detta assimilazione al solo piano degli effetti nei confronti dei terzi vale a rendere non rilevanti ai fini in discorso le insopprimibili differenze – che appaiono particolarmente valorizzate nella sentenza n. 4529 del 1999 – in ordine alla natura, alla funzione ed alla durata tra assegnazione e locazione.
Ciò vale a dire che il legislatore della riforma, operando un bilanciamento, secondo valori etici e criteri socio economici, tra l’interesse del gruppo familiare residuo, e specificamente dei figli minorenni o anche maggiorenni tuttora non autosufficienti, a conservare l’habitat domestico, e quello di natura patrimoniale di tutela dell’affidamento del terzo, oltre quello più generale ad una rapida e sicura circolazione dei beni, ha ravvisato come elemento di composizione tra le diverse istanze in conflitto la limitazione nel tempo, in difetto di trascrizione, dell’opponibilità ai terzi del provvedimento di assegnazione. In particolare, l’esigenza di assicurare l’effettività del godimento dell’assegnatario, dando attuazione concreta ad una pronunzia diretta ad incidere – secondo le argomentazioni innanzi svolte – non solo o non tanto sul bene attribuito, ma sulla qualità della vita e sulla serenità dei soggetti deboli del nucleo familiare in crisi, ha chiaramente indirizzato la scelta legislativa ad una tutela avanzata della posizione di detti soggetti rispetto alle contrapposte esigenze innanzi richiamate, accordando al coniuge assegnatario un titolo legittimante comunque opponibile al terzo successivo acquirente, senza soluzione di continuità dal momento dell’emissione del provvedimento, così da porlo al riparo da iniziative dell’altro coniuge proprietario idonee a frustrare anche immediatamente la statuizione del giudice.
Secondo tale linea ricostruttiva anche l’espressione “in quanto trascritto” finisce per assumere un preciso significato ed una duplice funzione, in quanto, a fronte del principio di tipicità degli atti trascrivibili, e tenuto anche conto del richiamato orientamento giurisprudenziale – già diritto vivente – che inquadrava l’assegnazione della casa familiare tra i diritti personali di godimento, riflette la volontà del legislatore di riconoscere al relativo provvedimento la natura di titolo idoneo alla trascrizione, così configurando una nuova tipologia di atti trascrivibili, ed al tempo stesso vale a confermare che l’opponibilità dell’assegnazione nei confronti del terzo acquirente non è solo quella infranovennale, ma anche quella di durata maggiore, ove vi sia trascrizione, finché perduri l’efficacia della pronunzia giudiziale (va al riguardo rilevato che tipologie di atti soggetti a trascrizione con efficacia indeterminata nel tempo sono già previste ai n. 10 e 11 dell’art. 2643 c.
c.). In conclusione, in accoglimento del primo motivo di ricorso, deve affermarsi che ai sensi dell’art. 6 comma 6 della legge n. 74 del 1987 il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare (in quanto avente per definizione data certa) è opponibile al terzo acquirente in data successiva anche se non trascritto, per nove anni decorrenti dalla data dell’assegnazione, ovvero anche dopo i nove anni ove il titolo sia stato in precedenza trascritto.
La causa va quindi rimessa alla prima sezione civile per l’esame del secondo motivo del ricorso principale e del ricorso incidentale.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a sezioni unite, accoglie il primo motivo del ricorso principale e rimette gli atti alla prima sezione civile per l’esame degli altri motivi.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio delle sezioni unite civili il 7 giugno 2002.
Depositata in cancelleria il 26 luglio 2022.
Allegati:
SS.UU, 26 luglio 2002, n. 11096, in tema di assegnazione della casa coniugale