In tema di sospensione feriale dei termini – SS.UU, 13 maggio 2024, n. 12946
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sig.ri Magistrati:
Oggetto
SEPARAZIONE DIVORZIO –
oscuramento
R.G.N. 28091/2021
Cron.
Rep.
Ud. 30/01/2024
PU
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 28091-2021 proposto da:
T. D., rappresentata e difesa dagli avvocati ROBERTO BOCCHINI e GIANLUCA BIANCAMANO;
-ricorrente –
contro
M. L. rappresentato e difeso dall’avvocato SABRINA VARRICCHIO;
-controricorrente –
avverso il DECRETO della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositato il 23/06/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2024 dal Consigliere FRANCESCO TERRUSI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Luisa De Renzis, che ha concluso perché il ricorso sia dichiarato ammissibile; in subordine, perché sia disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea;
udito l’Avvocato Roberto Bocchini.
Fatti di causa
M. L. ha chiesto, ai sensi dell’art. 9 legge div., di essere esonerato dall’obbligo di versare all’ex coniuge T. D. l’assegno di mantenimento delle figlie, S. e L. , stabilito nel giudizio di divorzio in 5.000,00 EUR.
Il tribunale di Napoli ha respinto il ricorso osservando che le giovani, per quanto maggiorenni e laureate, erano ancora in una condizione di permanenza temporanea fuori sede, con conseguente conservazione della legittimazione della madre a ricevere l’assegno.
La decisione è stata riformata dalla corte d’appello di Napoli perché la mancanza di convivenza delle figlie con la madre aveva costituito una condizione determinativa del venir meno della di lei legittimazione a chiedere e ottenere, iure proprio, l’assegno.
Specificamente la corte d’appello ha ritenuto che l’età delle figlie, i percorsi intrapresi in conformità degli studi e le esperienze lavorative e professionali successivamente svolte fossero tali da sostenere la conclusione della possibilità di accesso ad altre esperienze lavorative qualificanti, in linea con le prospettive di ognuna, del contesto familiare e dell’ambiente socioeconomico nel quale esse erano inserite; sicché la residenza di entrambe a Milano doveva essere considerata come oramai non più temporanea. Era quindi venuto meno il presupposto della convivenza delle figlie con la madre e di conseguenza non poteva ritenersi esistente neppure la legittimazione di quest’ultima a pretendere l’assegno in nome delle stesse, salva rimanendo la loro eventuale iniziativa diretta.
La T. D. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi.
Il M. L. ha resistito con controricorso.
Con ordinanza interlocutoria n. 27514 del 2023 la Prima sezione civile di questa Corte ha chiesto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite sulla pregiudiziale questione relativa alla tempestività del mezzo, perché il ricorso è stato notificato il 26-10-2021 a fronte di decreto a sua volta notificato, per ammissione della stessa parte, il 27-7-2021. Ne deriverebbe la necessità di stabilire se alle liti in materia di mantenimento per i figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti sia applicabile, o meno, la sospensione dei termini processuali prevista dagli artt. 3 della l. n. 742 del 1969 e 92, primo comma, dell’ord. giud.; soluzione condizionata dal significato da annettere alla locuzione “cause civili relative ad alimenti” prevista da tale seconda norma quanto agli affari civili da trattare in periodo feriale, perché sottratti alla sospensione dei termini.
A tal riguardo il collegio rimettente ha ravvisato l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza insorto per effetto di una recente ordinanza della stessa Prima sezione (la n. 18044 del 2023) che, mutando il quadro dei principi fin a ora espressi in modo all’apparenza consolidato, ha stabilito che nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori non è più applicabile la sospensione feriale dei termini processuali; sicché tali cause sarebbero ormai tutte assimilabili a quelle in materia di alimenti, per definizione urgenti e non soggette a pause processuali obbligatorie.
La Prima Presidente ha disposto in conformità.
Le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
I.- In esito alla citata recente decisione n. 18044-23, la Primasezione ha chiesto che fosse riservata alle Sezioni Unite una questione divenuta di particolare importanza per due ordini di ragioni: perché correlata a un tentativo di mutamento di giurisprudenza ritenuto necessario dal tenore della normativa europea asseritamente rilevante (il regolamento CE n. 4 del 2009 del Consiglio in data 18-12-2008); e perché coinvolgente, negli effetti potenziali, un numero indeterminato di controversie familiari.
II.- L’ordinanza n. 18044-23 ha fissato il seguente principio: “intema di obbligazioni alimentari come regolate dall’art. 1, comma 1, del Regolamento CE n. 4/2009 del Consiglio del 18 dicembre 2008 (relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari), a norma dell’art. 83, comma 3, del d. l. n. 18 del 2020, convertito nella l. n. 27 del 2020, che della prima costituisce una derivazione, nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori non è più applicabile la sospensione feriale dei termini processuali, di cui agli artt. 1 e 3 l. n. 742 del 1969; tali cause sono ormai tutte assimilabili a quelle in materia di alimenti, per definizione urgenti e non soggette a pause processuali obbligatorie; ove pertanto si controverta di siffatte obbligazioni, la sospensione dei termini non si applica parimenti ai casi in cui la causa comprenda, in connessione, anche altre questioni familiari o riguardanti i minori, pur se non espressamente contemplate dall’art. 92 del decreto regio n. 12/1941”.
III.- In effetti il principio si pone in discontinuità rispetto a unpanorama giurisprudenziale consolidato in senso opposto, incentrato sull’affermazione per cui al procedimento di revisione del contributo di mantenimento dei figli è applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale in quanto il diritto dei figli al mantenimento da parte dei genitori, anche dopo la separazione o il divorzio, previsto rispettivamente dagli artt. 155 cod. civ. e 6 della l. n. 898 del 1970, non ha natura alimentare (ex artt. 433 e seg. cod. civ.), neppure per assimilazione (Cass. Sez. 1 n. 8417-00, Cass. Sez. 1 n. 8567-91, Cass. Sez. 1 n. 2050-88; e v. pure Cass. Sez. 1 n. 1874-19).
Poiché l’assegno divorzile non si può equiparare all’assegno alimentare, essendo diverse la natura e le finalità proprie dei due tipi di assegno, in nessuna delle controversie concernenti l’assegno divorzile può trovare applicazione – si dice – l’esclusione dalla sospensione dei termini durante il periodo feriale prevista dall’art. 3 della legge n. 742 del 1969, in relazione all’art. 92, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, riguardo alle cause relative agli alimenti. Per dette controversie può escludersi la sospensione soltanto ove consegua, a norma del secondo comma dell’art. 92, il decreto di riconoscimento dell’urgenza della controversia, nel presupposto – previsto dallo stesso primo comma dell’art. 92 da intendersi richiamato dal citato art. 3 – che la ritardata trattazione possa provocare un grave pregiudizio alle parti (v. Cass. Sez. 1 n. 5862-99).
IV.– Occorre dire che nel solco del menzionato orientamento larilevanza della distinzione è stata ribadita anche di recente, in relazione alla normativa emergenziale di contrasto all’epidemia da Covid-19.
A questa normativa ha fatto riferimento anche l’ordinanza n. 18044-23, per giungere (tuttavia) a una conclusione opposta.
Secondo la tesi prevalente, alle cause relative ad alimenti o a obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, considerate rilevanti ai fini dell’eccezione alla sospensione generalizzata dei termini processuali per effetto dell’art. 83, terzo comma, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020, convertito con modificazioni in l. n. 27 del 2020, non possono essere equiparate le cause relative all’assegno divorzile, sempre per l’impossibilità di correlare l’assegno divorzile all’assegno alimentare, stante l’evidente diversità dei fini e della natura dei due assegni (Cass. Sez. 1 n. 5393-23, Cass. Sez. 1 n. 6639-23).
V.- L’ordinanza della Prima sezione n. 18044 del 2023 ha espressoil suo diverso convincimento sulla scorta dei seguenti passaggi argomentativi:
(i)l’art. 83, terzo comma, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020 ai finidell’emergenza pandemica ha distinto – è vero – le due fattispecie (quella delle cause relative agli alimenti, riferibile all’art. 433 e seg. cod. civ., e quella relativa all’obbligazione alimentare), ma le ha poi assoggettate alla medesima disciplina;
(ii)così facendo la norma ha recepito la più ampia accezionecontemplata dall’art. 1, primo comma, del regolamento (CE) n. 4/2009 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari;
(iii)la stessa relazione illustrativa del d.l. n. 18 del 2020 hacorrelato la locuzione “cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio odi affinità” al significato che a essa viene dato nella normativacomunitaria, e in particolare nell’art. 1 del citato regolamento (CE) n. 4/2009;
(iv)quindi, anche ai fini interpretativi delle norme sullasospensione dei termini processuali, la nozione di obbligazioni alimentari, siccome accolta nel diritto della UE, dovrebbe essere intesa nell’accezione “autonoma” declinata dal Considerando n. 11 del suddetto regolamento, con estensione a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, in senso comprensivo dei diversi istituti che coinvolgono le obbligazioni di mantenimento.
Ne deriverebbe la necessità di un mutamento radicale di assetti quanto agli indirizzi giurisprudenziali anteriori, perché “la norma sull’emergenza Covid-19, per il suo chiaro tenore letterale, sottrae entrambe le fattispecie alla sospensione dei termini processuali e stabilisce per le due tipologie di accertamento (concernenti l’alimentare puro e l’alimentare da mantenimento da valere nell’ambito familiare) una trattazione in sede giurisdizionale destinata ad operare anche durante la sospensione feriale e pur in un periodo segnato dalla necessità di contenimento del rischio pandemico”.
La normativa emergenziale costituirebbe – così – un’espressione della discrezionalità del legislatore eurounitario volta a bilanciare gli interessi da tutelare mediante un’innovativa ratio, diretta ad accomunare, seppure ai fini della disciplina della sospensione dei termini processuali, due istituti (l’obbligazione alimentare e l’obbligazione di mantenimento) da sempre oggetto di differente regolamentazione per antica tradizione dommatica.
VI.- L’orientamento sostenuto dalla Prima sezione con l’ordinanzan.18044-23 non può essere condiviso.
A composizione del contrasto va fissato, in coerenza con l’indirizzo tradizionale, il principio per cui ai giudizi o ai procedimenti di revisione delle condizioni di separazione o di divorzio, nei quali si discuta del contributo di mantenimento o dell’assegno divorzile nelle varie forme, resta applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, salvo che non ricorra il decreto di riconoscimento dell’urgenza della controversia (art. 92 ord. giud.) nel presupposto che la sua ritardata trattazione possa provocare grave pregiudizio alle parti.
VII.– È necessario prender le mosse dalla ratio della sospensione feriale, che è strettamente correlata alla tutela giurisdizionale dei diritti.
L’istituto della sospensione dei termini processuali in periodo feriale costituisce un presidio della tutela giurisdizionale dei diritti.
Quando l’azione giudiziaria sia l’unico rimedio funzionale a far valere un diritto che si assuma leso, la sospensione dei termini in periodo feriale, per il tramite della necessità di assicurare riposo agli avvocati, garantisce altresì che non sia menomato il diritto alla tutela giurisdizionale secondo quanto previsto in generale dall’art. 24 cost. (v. tra le varie C. cost. n. 380 del 1992, C. cost. n. 61 del 1990, C. cost. n. 49 del 1990).
In guisa di tale ratio, la l. n. 742 del 1969 ha dettato come regola generale, in relazione all’art. 92 ord. giud., quella della sospensione degli affari civili in periodo feriale, salvo l’elenco tassativo dei casi (eccezionali) nei quali invece una certa tipologia di cause, specificamente indicate, va considerata urgente per definizione, così da risultare sottratta alla medesima regola (v. Cass. Sez. 1 n. 8567-91, Cass. Sez. 1 n. 12964-02).
VIII.- Nell’elenco delle cause alle quali la sospensione non èapplicabile compaiono quelle “relative ad alimenti” (art. 92 ord. giud. come richiamato nell’art. 3 della l. n. 742 del 1969).
Codeste sono però distinte – ontologicamente – dalle cause di separazione o di divorzio nelle quali semplicemente si discuta dell’obbligazione alimentare o dell’assegno di mantenimento o divorzile.
Queste ultime attengono a obbligazioni avvinte dal fine di solidarietà familiare o post-familiare considerato rilevante nella crisi della famiglia. Le relative prestazioni possono certo rispondere alla necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, ma in un’accezione più ampia di (e indiscutibilmente differente da) quella sottesa alla prestazione alimentare strettamente intesa, non essendo necessario lo stato di indigenza o di bisogno al quale allude, invece, l’art. 438 cod. civ.
Simile constatazione distintiva è del tutto ovvia e non è punto messa in discussione dall’ordinanza n. 18044-23.
Essa d’altronde trova riscontro, per i giudizi divorzili o per quelli di cui all’art. 9 della legge div. che qui specificamente interessano, nella funzione polivalente riconosciuta all’assegno nelle sue varie declinazioni:
-natura assistenziale e anche perequativo-compensativa quantoall’ex-coniuge, diretta conseguenza del principio costituzionale di solidarietà, che conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (Cass. Sez. U n. 18287-18);
-concretizzazione, quanto al figlio, del diritto di ricevere daigenitori, sia se minore, sia se maggiorenne ma non economicamente indipendente, l’adempimento degli obblighi di mantenimento, istruzione, educazione e assistenza morale e materiale (artt. 147, artt. 155 e 337-bis e seg. cod. civ.).
Ciò vuol dire che, sempre in rapporto ai figli, al diritto ritenuto preminente fa da contraltare un obbligo che a sua volta si impone come dovere preminente: un dovere che sul genitore grava anche ove l’altro non possa o non voglia adempiere al proprio eguale dovere, nell’essenziale interesse dei figli stessi e onde far fronte comunque e per intero alle loro esigenze con tutte le sostanze patrimoniali e con la propria capacità di lavoro – salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui.
Con riguardo al contributo relativo alla prole, che nella presente causa interessa specificamente, questa constatazione prescinde in toto dal cd. stato di bisogno e – radicata nella giurisprudenza in modo pressoché costante – induce a precisare che l’ammontare del contributo dovuto dal genitore per il mantenimento dei figli, minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, implica semmai l’osservanza del principio di proporzionalità (art. 337-ter cod. civ.); il quale richiede la valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori nella considerazione non delle necessità di mera prestazione alimentare –art. 438 cod. civ. -, bensì delle esigenze attuali del figlio e del tenoredi vita da lui goduto (tra le più recenti Cass. Sez. 1 n. 4811-18; Cass. Sez. 1 n. 19299-20, Cass. Sez. 1 n. 32466-23).
IX.- Per incidens può osservarsi che il riscontro di una distinta eben più articolata funzione di tutte le menzionate prestazioni, rispetto a quella alimentare in senso stretto, è al fondo della recente sottolineatura fatta da queste Sezioni Unite a proposito dell’operare della regola della condictio indebiti.
Per l’assegno di mantenimento nella separazione o per l’assegno divorzile, la condictio è stata riconosciuta come espressione di regola generale ove risulti accertata – nella sentenza di primo o di secondo grado – l’insussistenza ab origine, in capo all’avente diritto, dei presupposti per il versamento del contributo (ancorché riconosciuto in sede presidenziale o dal giudice istruttore in sede di conferma o modifica).
E tuttavia questa stessa regola può essere derogata, si è detto, con conseguente applicazione del principio di irripetibilità, nelle due ipotesi (a) dell’esclusione della debenza del contributo in virtù di una diversa valutazione con effetto ex tunc delle sole condizioni economiche dell’obbligato già esistenti al tempo della pronuncia e (b) della rimodulazione al ribasso di una misura originaria idonea a soddisfare esclusivamente i bisogni essenziali del richiedente, sempre che la modifica avvenga nell’ambito di somme modeste, presumibilmente destinate al consumo da un coniuge, o ex coniuge, in condizioni di debolezza economica (Cass. Sez. U n. 32914-22).
Nel dire questo è stata dalla giurisprudenza valorizzata proprio l’esistenza delle differenze funzionali (e in parte anche strutturali) tra ciò che costituisce oggetto di alimenti (nel presupposto unico e specifico dello stato di bisogno dell’avente diritto e dell’impossibilità di provvedere altrimenti a tale stato) e ciò che invece, in termini compositi, integra la cifra del diritto al mantenimento, sia del coniuge, o dell’ex coniuge, che della prole, e sia nella separazione che nel divorzio.
X.– Ora, da tale excursus ben può dirsi dimostrata la solidamatrice di riferimento della tesi restrittiva a proposito del correlato ambito di applicazione dell’art. 3 della l. n. 742 del 1967 in relazione all’art. 92 ord. giud.
L’esigenza di certezza, che sempre si impone laddove si discuta di garanzie di difesa giurisdizionale, implica che quella matrice sia individuata nel testo di legge in rapporto alla constatata differenza tra le fattispecie, giacché il testo del richiamato art. 92, parlando di cause “relative ad alimenti”, sottende un rinvio alla prestazione alimentare strettamente intesa, quella di cui agli artt. 433 e seg. cod. civ., così che un simile rinvio possa infine ritenersi refrattario a qualunque fraintendimento.
XI.- L’ordinanza n. 18044-23, senza porre in dubbio l’effettivitàdella differenza tra le sottostanti fattispecie, ha ritenuto di individuare un diverso margine valutativo facendo leva su due argomenti: la normativa da Covid-19 e il regolamento (CE) n. 4 del 2009 al quale la prima si sarebbe ispirata.
Nessuno di essi è decisivo.
XII.- Non lo è innanzi tutto quello incentrato sulla normativaemergenziale da Covid-19.
È vero che codesta, ai fini dell’eccezione alla sospensione generalizzata dei termini processuali dopo la modifica dell’art. 83 del d.l. n.18 del 2020 fatta in sede di conversione, ha sostituito (a decorreredal 30-6-2020) l’originaria formulazione, contemplante le “cause relative alla tutela dei minori, ad alimenti”, con la frase “cause relative ai diritti delle persone minorenni, al diritto all’assegno di mantenimento, agli alimenti e all’assegno divorzile”.
Ma non è ravvisabile una concreta incidenza di un simile fatto sull’assetto di principi che concernono la l. n. 742 del 1967.
Nel d.l. n. 18 del 2020 e nella relativa legge di conversione è da rinvenire niente altro che una disciplina temporanea (per la cui ricostruzione può rinviarsi a Cass. Sez. 1 n. 5393-23).
La disciplina è stata indirizzata a stabilire quali fossero, in relazione all’andamento dei contagi e delle misure di distanziamento sociale nelle varie fasi del contrasto alla pandemia, le eccezioni alla regola di sospensione generalizzata dell’attività giudiziaria; regola riguardante i procedimenti e i termini processuali in vista della medesima unica esigenza di contenimento degli effetti della diffusione epidemica.
S’è trattato dunque di una normativa specifica e a termine, non avente altre finalità che la tutela della salute pubblica in un contesto eccezionale e provvisorio – e peraltro cessato prima delle date essenziali che in questa sede interessano (e che – per vero – interessavano anche la fattispecie risolta da Cass. Sez. 1 n. 18044-23) per stabilire la tempestività del ricorso. Una normativa nella quale, oltre tutto, sebbene nell’ampliamento delle fattispecie sottratte alla sospensione generalizzata ex lege lì rilevante, risulta esplicitata la piena consapevolezza del legislatore in ordine alla diversità di ambito tra le cause relative agli alimenti in senso stretto (da un lato) e quelle relative alle prestazioni di mantenimento o alimentari nell’ambito dei giudizi di separazione e divorzio (dall’altro).
La menzionata diversità è stata tenuta da conto al punto da indurre infatti – pur nella logica dell’emergenza – all’estensione dei diritti processuali previsti dall’originaria formulazione dell’art. 83; estensione alla categoria delle prestazioni da assolvere nei giudizi di separazione o di divorzio, attraverso una modifica del testo altrimenti inspiegabile.
L’elemento di specialità insito nella normativa richiamata testimonia che nessun effetto è da attribuire al divenire delle formulazioni dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 per ciò che riguarda l’esegesi degli artt. 3 della l. n. 742 del 1967 e 92 ord. giud. a proposito del diverso operare della regola da tali articoli desumibile.
XIII.- Quanto al regolamento (CE) n. 4 del 2009, si tratta inquesto caso della fissazione in ambito UE delle regole relative alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari.
Anche qui è indubbiamente vero che il regolamento ha adottato una propria nozione di obbligazione alimentare; ed è vero che codesta non è rapportabile a quella sottesa agli artt. 433 e seg. cod. civ.
Ma, per quanto il regolamento già nel Considerando n. 11 (richiamato dall’ordinanza n. 18044-23) abbia enunciato che la nozione di obbligazione alimentare “dovrebbe essere interpretata in maniera autonoma”, vi è che poi nell’art. 1.1 ha precisato che l’ambito di applicazione del testo è quello delle “obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità” solo in rapporto al fine.
Detto altrimenti: il complesso delle previsioni del regolamento, ivi compreso l’ambito delle definizioni, è da intendere circoscritto dal fine del regolamento stesso. E il fine è quello di “istituire specifiche norme procedurali comuni speciali per semplificare e accelerare la composizione delle cause transfrontaliere riguardanti in particolare i crediti alimentari”.
Questa cosa è stata fatta mediante soppressione delle misure intermedie necessarie per permettere il riconoscimento e l’esecuzione nello Stato richiesto di una decisione emessa in un altro Stato membro, e in particolare una decisione riguardante – giustappunto – un credito alimentare (v. i Considerando 4 e 9).
Sicché in tal modo il regolamento citato ha perseguito lo scopo di consentire a un creditore di alimenti – qualunque ne sia il contesto e la fonte di diritto interno – “di ottenere facilmente in uno Stato membro una decisione che sia automaticamente esecutiva in un altro Stato membro senza ulteriori formalità”, così preservando l’obiettivo mediante la creazione di uno strumento comunitario in materia di obbligazioni alimentari teso a raggruppare le disposizioni concernenti i conflitti di giurisdizione, i conflitti di leggi, il riconoscimento e l’esecutività, l’esecuzione, il patrocinio a spese dello Stato nonché la cooperazione tra le autorità centrali (v. il Considerando 10).
XIV.- Solo, quindi, in rapporto a questa specifica funzione sispiega la precisazione alla quale ha alluso l’ordinanza n. 18044 del 2023.
Erroneamente quella precisazione è stata valorizzata in modo assoluto.
L’ambito di applicazione del regolamento deve estendersi “a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità”. E però “al fine di garantire la parità di trattamento tra tutti i creditori di alimenti”, onde preservare gli interessi dei creditori di alimenti e favorire la corretta amministrazione della giustizia all’interno dell’Unione europea, tanto da venir simultaneamente auspicato un adattamento delle stesse norme eurounitarie sulla competenza (pro tempore, il regolamento (CE) n. 44/2001).
Sicché la circostanza che un convenuto abbia la residenza abituale in uno Stato terzo non deve escludere – come ancora si dice nel regolamento n. 4 del 2009 – l’applicazione delle norme comunitarie in materia di competenza, così da non rendere necessario un ulteriore rinvio alle norme in materia di competenza contemplate dal diritto nazionale.
Per questo, e non per altro, nel Considerando n. 11 si rinviene la specificazione che “ai fini del presente regolamento”, la nozione di «obbligazione alimentare» dovrebbe essere interpretata “in maniera autonoma”.
XV.- Ne deriva che le previsioni del citato regolamento (CE) n. 4del 2009 non incidono affatto sulle modalità con le quali le legislazioni dei singoli Stati (e tra queste in particolare la legislazione nazionale italiana) abbiano ritenuto – e ritengano – di disciplinare gli istituti di riferimento sul piano dei presupposti, degli effetti e delle modalità di tutela.
Il regolamento viene in considerazione solo ove si discuta del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni o della competenza in materia di obbligazioni alimentari.
L’ampliamento del concetto di obbligazione alimentare declinato dal regolamento non fuoriesce dai casi in cui sia in discussione il suo ambito specifico di applicazione. Ed è quindi ininfluente rispetto alla disciplina della sospensione dei termini feriali quanto ai giudizi di diritto interno. Ciò anche perché la stessa (sottesa) esigenza di una più celere definizione di tali giudizi è dagli istituti di diritto interno comunque assicurata, stante la possibilità offerta dall’art. 92 ord. giud. di dichiarare urgente – e come tale sottratta alla sospensione feriale – la singola causa quando la ritardata trattazione potrebbe provocare un grave pregiudizio alle parti.
XVI.- Nel caso concreto risulta che il decreto impugnato è statonotificato il 27-7-2021 e che il ricorso per cassazione a sua volta è stato notificato il 26-10-2021 a fronte della sospensione dei termini in periodo feriale.
Deve concludersi che il ricorso medesimo è ammissibile perché tempestivo.
XVII.- Fissato nel senso indicato al superiore punto VI il principiodi diritto volto a comporre il contrasto di giurisprudenza, e stabilito che il ricorso è ammissibile, gli atti possono essere restituiti alla sezione rimettente per l’esame delle censure consegnate ai singoli motivi.
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, dichiara ammissibile il ricorso e rimette gli atti alla Prima sezione civile per l’esame dei singoli motivi.
Dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, addì 30 gennaio 2024.
Il Presidente
Pasquale D’Ascola
Il Consigliere estensore
Francesco Terrusi
Allegati:
SS.UU, 13 maggio 2024, n. 12946, in tema di sospensione feriale dei termini
In tema di fondo patrimoniale – SS.UU, 13 ottobre 2009, n. 21658
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
Fondo
patrimoniale,
convenzione
matrimoniale,
pubblicità
R . G . N . 965 6/200
Cron. 21658
Rep. 6873
Ud. 29/09/2009
PU
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VINCENZO CARBONE – Primo Presidente –
Dott. TORQUATO GEMELLI – Presidente Aggiunto –
Dott. PAOLO VITTORIA – Presidente di Sezione –
Dott. GUIDO VIDIRI – Consigliere –
Dott. MARIO FINOCCHIARO – Consigliere –
Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO – Rel. Consigliere –
Dott. GIUSEPPE SALME’ – Consigliere –
Dott. LUIGI MACIOCE – Consigliere –
Dott. ETTORE BUCCIANTE – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 9656-Z004 proposto da:
FERRARA GIUSEPPE (FRRGPP46A06H431I), SPERANZA ROSA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CRESCENZIO 19, presso lo studio dell’avvocato TORRE GIUSEPPE, rappresentati e difesi dall’avvocato FAUCEGLIA GIUSEPPE, per procura margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
COMUNE DI NOCERA SUPERIORE, in persona del Sindaco pro- tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SARDEGNA 38, presso lo studio dell’avvocato DI GIOVANNI FRANCESCO, rappresentato e difeso dall’avvocato SESSA VINCENZO, per procura a margine del controricorso;
INTESA GESTIONE CREDITI S.P.A. (00169760659), in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CIPRO 46, presso lo studio dell’avvocato NOSCHESE GIOVANNI, rappresentata e difesa dall’avvocato NAPOLI MAURIZIO, per procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 219/2003 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 12/03/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/09/2009 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;
udito l’Avvocato Antonio CAIAFA, per delega dell’avvocato Giuseppe rauceglia;
udito il E.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. AMTOMIO CARTONE, che ha concluso per l’accoglimento, enunciando il principio che la destinazione dei beni immobili al fondo patrimoniale può essere oppo:sta ai terzi se oggetto di trascrizione ai sensi dell’art. 2647 c.c. indipendentemente dalla annotazione a margine dell’atto di matrimonio.
Svolgimento del processo
l coniugi Ferrara Giuseppe e Speranza Rosa convenivano in giudizio la BCI (Banca Commerciale Italiana) per ottenere l’accertamento dell’inefficacia delle iscrizioni ipotecarie accese dall’istituto di credito sui beni costituiti da essi coniugi in fondo patrimoniale con atto del 20/4/1990.
La BCI, costituitasi, chiedeva il rigetto della domanda deducendo che la costituzione del fondo patrimoniale era inopponibile ad essa banca essendo stata annotata a margine dell’atto di matrimonio, ex articolo 162 c.c., in data successiva all’ iscrizione ipotecaria.
Gli attori chiedevano ed ottenevano di chiamare in causa il Comune di Nocera Superiore in quanto responsabile della mancata annotazione pur avendo il notaio rogante notificato l’atto costitutivo del fondo in data 4/5/1990.
Il Comune si costituiva chiedendo il rigetto della domanda proposta nei suoi confronti.
Con senteriza 486/00 l’adito tribunale dì Nocera Inferiore rigettava la domanda nei confronti della BCI poiché l’atto costitutivo del fondo patrimoniale non cura stato annotato a margine dell’atto di matrimonio come prescritto dall’articolo 162 c.c. ed essendo irrilevante la conoscenza dello stesso altrimenti (per effetto delle trascrizioni) conseguita dal terzo. Il tribunale dichiarava poi inammissibile la chiamata in causa del Comune in quanto non richiesta alla prima udienza.
Avverso la detta decisione i coniugi Ferrara-Speranza proponevano appello al quale resistevano la BCI ed il Comune di Nocera Superiore.
Con sentenza 12/3/2003 la corte di appello di Salerno rigettava il gravame osservando per quel che ancora rileva in questa sede: che, con atto notarile del 20/4/1990, Speranza Rosa, con l’assenso del marito, aveva costituito in fondo patrimoniale ex articolo 162 c.c., per far fronte ai bisogni della famiglia, alcuni beni immobili mantenendone la proprietà; che l’atto, trascritto presso la Conservatoria dei RR.II. di Salerno in data 26/4/1990, era stato notificato dal notaio rogante all’ufficio dello stato civile di Nocera Superiore in data 4/5/1990 ed era stato poi annotato a margine dell’atto di matrimonio in data 3/5/1996; che, emessi due decreti ingiuntivi a carico dei coniugi Ferrara-Speranza e a favore della BCI, quest’ultima aveva iscritto ipoteca giudiziale anche sui beni costituiti in fondo patrimoniale; che gli appellanti avevano reiterato la domanda di inefficacia dell’iscrizione ipotecaria sui beni della Speranza costituenti il fondo patrimoniale sostenendo la prevalenza della trascrizione dell’atto di costituzione pur se non annotato a margine dell’atto di matrimonio; che il gravame era infondato alla stregua di un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità e di merito, con il contorto anche della Corte Costituzionale; che tutti i rilievi al riguardo svolti dagli appellanti trovavano puntuale risposta nel detto orientamento giurisprudenziale; che la stipulazione del fondo patrimoniale, essendo una tipica convenzione matrimoniale, doveva essere annotata ex articolo 162 c.c., ad istanza del notaio rogante, a margine dell’atto di matrimonio dei coniugi in favore dei qu‹ili il fondo era stato costituito; che detta convenzione era soggetta al terzo comma del citato articolo che condizionava l’opponibilità ai terzi alla ann‹itazione del relativo contratto a margine dell’atto di matrimonio; che la trascrizione, pure prevista dall’articolo 2647 c.c., per effetto dell’abrogazione dell’ultimo comma di tale articolo, doveva intendersi degradata a mera pubblicità notizia del vincolo inidonea ad assicurare la detta opponibilità derivante solo dall’annotazione a margine dell’atto di matrimonio; che pertanto, avendo la BCI iscritto ipoteca sui beni immobill della Speranza quan‹lo non era stata ancora annotata a margine dell’atto di matrimonio la convinzione costitutiva del fondo patrimoniale, il vincolo di destinazione non era opponibile alla creditrice pur essendo stata trascritta la convenzione nei RR.II. di Salerno; che la domanda di risarcimento non poteva trovare accoglimento alla cuce dei principi di correttezza e buona fede in quanto, non es.sendo la costituzione del fondo patrimoniale opponibile per legge al creditore, l’iscrizione ipotecaria non poteva costituire comportamento valutabile alla stregua dei detti principi; che non potevano essere accolti i motivi ili gravame relativi alla pretesa responsabilità del Comune per la tardiva annotazione della convenzione a margine dell’atto di matrimonio agendo il Sin‹laco, nell’esercizio della funzione di tenuta dei registri dello stato civile, quale organo dello Stato con conseguente legittimazione passiva di questo nella controversia in esame.
La cassazione della sentenza della corte di appello di Salerno è stata chiesta dai coniugi Ferrara-Speranza con ricorso affidato a quattro motivi.
Con il prirrio motivo di ricorso i citati coniugi denunciano violazione degli articoli 167 e 162 c.c., nonché vizi di motivazione, deducendo che la costituzione di fondo patrimoniale in questione riguarda solo immobili di proprietà esclusi a di essa Speranza Rosa e che essi coniugi avevano già in precedenza optato per il regime patrimoniale di separazione dei beni. Pertanto — a prescindere dalle impostazioni teoriche che escludono dal novero delle convenzioni matrimoniali il negozio costitutivo del fondo patrimoniale – difetta nella specie la natura di “convenzione matrimoniale” trattandosi di atto unilaterale di urio solo dei coniugi relativo a beni di sua esclusiva proprietà.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione degli articoli 2647, 2685, 1 I ‘/5 e 1375, nonché del rapporto tra i primi due articoli con gli articoli 162 e 1ó7 c.c., sostenendo che è errata la ricostruzione operata dalla corte di appello in ordine ai rapporti intercorrenti tra la trascrizione nei registri immobiliari e l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio ai fini dell’opponibilil à ai terzi dell’atto di costituzione di beni immobili in fondo patrimoniale. Ad avviso dei coniugi Ferrara-Speranza “le due forme di pubblicità conserv.ano una natura complementare avendo un diverso campo di applicazione: l”annotazione a margine dell’atto di matrimonio ha ad oggetto il regime patrimoniale diverso da quello della comunione legale oppure la modifica del regime scelto al matrimonio ……….; la trascrizione di cui all’articolo 2647 c.c. è invece necessaria al tìne di rendere opponibile ai terzi l’atto costitutivo del fondo patrimoniale avente ad oggetto beni immobili”. L’annotazione di cui all’articolo 162 c.c. ha quindi la finalità di rendere conoscibili l’esistenza ed il contenuto del fondo patrimoniale, mentre la trascrizione di cui all’articolo 2647 c.c. assolve la funzione dichiarativa generale svolta da tìetto istituto. Inoltre, pur qualificando la pubblicità della iscrizione come mera “pubblicità notizia”, ha errato la corte di appello nel non censurare il comportamento della banca che — conoscendo la finalizzazione del patriinoni‹a alla realizzazione degli interessi della famiglia evincibile dalla trascrizi‹ine dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale – in violazione dei principi di buona fede e correttezza, oltre che di normale prudenza, ha fatto gravare sui beni immobili iscrizione ipotecaria rendendo in tal modo gli stessi inutilizzabili per i bisogni della famiglia. La banca era a conoscenza non solo del vincolo di destinazione sui beni, ma anche della origine del credito azionato non generato per gli interessi della famiglia.
Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’articolo 170 c.c. e vizi di motivazione rilevando che il credito posto a base dei decreti ingiuntivi e della iscrizione ipotecaria è successivo alla costituzione del fondo patrimoniale e riguarda rapporti tra la banca e società ( garantita da obbligazione fideiussoria assunta da essi coniugi ) instaurati per scopi estranei ai bisogni della famiglia, con conseguente impossibilità di agire su beni immobili vincolati ai detti bisogni.
Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’articolo 1 R.D. 9/7/1939 n. 1238, anche in relazione all’articolo 2043 c.c., lamentando l’errore commesso dalla corte di appello nell’aver escluso la legittimazione passiva del Sindaco. Deducono i ricorrenti che nella specie è evidente il cattivo funzionamento dell’intera struttura organizzativa del Comune di Nocera Superiore i cui uffici avevano impiegato circa sei anni ad annotare a margine dell’atto di matrimonio l’atto di costituzione del fondo patrimoniale in questione. Pertanto il Sindaco, pur agendo in veste di ufficiale di Governo quale organo dello Stato, anche nel servizio dello stato civile è titolare di una competenza funzionale propria con obbligo di organizzare i servizl nella maniera più efficiente e in modo tale da non arrecare danni a terzi.
La s.p.a. Intesa Gestione Crediti ( subentrata a seguito di fusione in tutti i rapporti giuridici della Banca Commerciale Italiana ) e il Comune di Nocera Superiore hanno resistito con separati controricorsi.
La seconda sezione civile di questa Corte, con ordinanza 27/10/2008 n. 25857, rilevato che i primi due motivi di ricorso investivano una questione di particolare importanza, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente pet l’assegnazione alle sezioni unite in base alle considerazioni svolte in detta ordinanza.
Il Primo Presidente ha quindi disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
L’ordinanza a seguito della quale la causa è stata assegnata a queste sezioni unite porre la questione se la costituzione del fondo patrimoniale sia o meno una convenzione matrimoniale. L’ordinanza, pur prendendo atto dell’assenza di un contrasto all’interno dell’orientamento giurisprudenziale di questa Corte secondo cui la costituzione del fondo patrimoniale è una convenzione matrimoniale, invita ad una rimeditazione del problema. Osserva l’ordinanza che I’atto con il quale viene costituito il patrimonio familiare non è una convenzione matrimoniale come si rileva dalla constatazione che lo stesso c disciplinato autonomamente nel capo VI Libro 1 del c.c. e menzionato nel primo comma dell’articolo 2647 e.c. Rileva inoltre l’ordinanza che la stessa natura dell’atto in questione “parrebbe escludere la riconducibilità dello stesso alle convenzioni matrimoniali”. Prosegue l’ordinanza che per aderire all’interpretazione fatta propria dalla corte di appello nella sentenza impugnata si dovrebbe accedere “ad una interpretazione estensiva dell’articolo 162 c.c. al fine di ricomprendervi qualsiasi negozio che ponga beni appartenenti a persone coniugate in una condizione giuridica diversa da quella propria del regime patrimoniale legale, con conseguente funzione di pubblicità notizia della trascrizione, in quanto il considerare convenzione m‹itrimoniale un atto unilaterale, in ipotesi posto in essere da un terzo, comporterebbe una interpretazione analogica ( vietata ) e non semplicemente estensiva dell’articolo 162, comma 4º, c.c”. Afferma invece l’ordinanza che l’opponibilità ai terzi dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale, “avente natura dichiarativa”, non può che discendere dalla trascrizione ex articolo 2647 c.c. e non dall’annotazione a margine dell’atto di matrimonio ex quano comma articolo 162 c.c. Diversamente, precisa l’ordinanza, non potrebbe non essere rilevata l’incongruità di un sistema pubblicitario nel quale al terzo acquirente, pur a conoscenza del vincolo gravante sul bene in virtù del controllo nei registri immobiliari, tale vincolo non sarebbe opponibile in quanto non annotato a margine dell’atto di matrimonio.
Devono quindi essere esaminate le seguenti questioni: l) se l’atto di costituzione del tondo patrimoniale di cui all’articolo 167 c.c. sia o meno una convenzione matrimoniale ai fini dell’applicabilità della disposizione dell’articolo 162. quarto comma, c.c.; 2) se, data risposta positiva al quesito che precede, l’opponibilità ai terzi dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale — avente ad oggetto beni immobili — Sia subordinata all’annotazione a margine dell’atto di matrimonio a prescindere dalla trascrizione del medesimo atto imposta dall’articolo 2647 c.c.
Ai detti quesiti la corte di merito ha dato risposta positiva con sentenza che queste sezioni unite devono confermare confermando in tal modo i principi recentemente affermati da questa Corte con la sentenza 25/3/2009 n. 7210 pronunciata dopo la pubblicazione della citata ordinanza delle seconda sezione civile ( richiamata ed esaminata nella detta sentenza ) e con la quale é stato dcciso un ricorso promosso dai coniugi Ferrara-Speranza sulla base degli stessi quattro motivi prospettati con il ricorso in esame relativo ad una analoga fattispecie.
Per quel che riguarda il primo motivo di ricorso va innanzitutto rilevata l’inammissibiliià — puntualmente eccepita dalla società resistente – della censura con la quale i menzionati coniugi prospettano per la prima volta in questa sede di legittimità la tesi secondo cui nella specie sarebbe da esclude- re la sussistenza di una “convenzione matrimoniale” in quanto “nell’atto costitutivo del fondo la presenza dell’altro coniuge sig. Ferarra Giuseppe è richiesta per la sola accettazione”. Deducono in proposito i ricorrenti che il fondo patrimoniale in questione è stato costituito “con atto unilaterale di uno solo dei coniugi e con beni che rientravano nella sua proprietà esclusiva sicché alla costituzione per atto unilaterale non possono applicarsi sic et simpliciter le norme speciali della pubblicità”.
Al riguardo è appena il caso di osservare che la detta censura si basa su una questione — costituzione del fondo patrimoniale in esame da parte di uno solo e di entrambi i coniugi — non prospettata nei giudizi di merito. Della detta questione non si fa infatti alcun cenno nella sentenza impugnata nella quale, anzi, nella esposizione in fatto si dà atto che i coniugi Ferrara- Speranza nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado avevano dedotto di aver costituito, con atto del 20/4/1990, un fondo patrimoniale e, nella parte motiva, si premette che con il detto atto Speranza Rosa “con l’assenso del marito” avev:i costituito il fondo patrimoniale
Sul punto va ribadito il principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità secondo cui nel giudizio di cassazione, a parte le questioni rilevabili di utficio (sulle quali non si sia formato il giudicato), non è consentita la proposizione di doglianze che, modificando la precedente impostazione difensiva, pongano a fondamento delle domande e delle eccezioni titoli diversi da quelli fatti valere nel pregresso giudizio di merito e prospettino comunque questioni fondate su elementi di fatto nuovi e difformi da quelli ivi proposti. I motivi del ricorso per cassazione devono infatti investire, a pena di inammissibilità, statuizioni e problematiche che abbiano formato oggetto del giudizio di appello per cui non possono essere prospettate questioni nuove o nuovi temi di indagine involgenti accertamenti non compiuti perché non richiesti in sede di merito.
Pertanto ove il ricorrente in sede di legittimità proponga una questione non trattata nella sentenza impugnata, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere (nella specie non rispettato non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, otide dar modo alla Corte di càssazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare il merito.
Nella specie tale onere non è stato rispettato: nel ricorso non si afferma che essi coniugi nei giudizi di merito avevano sostenuto l’impossibilità di ravvisare nella specie una “convenzione matrimoniale” per essere stato costituito il fondo patrimoniale con atto unilaterale della sola Speranza.
La riportata tesi esposta dai ricorrenti con la parte non è quindi deducibile in questa sede di legittimità perché introduce per la prima volta un autonomo e diverso sistema difensivo che postula indagini e valutazioni non compiute dal giudice di appello perché non richieste.
Va peraltro aggiunto che nessuna specifica censura risulta essere stata mossa dai ricorrenti con il motivo in esame alla parte della sentenza impugnata con la quale la corte di appello — confermando la decisione del tribunale che aveva rigettato la domanda dei coniugi Ferrara-Speranza “perché l’atto costitutivo del fondo patrimoniale non risultava annotato a margine dell’atto di matrimonio come prescritto dall’articolo 162 c.c.” ( pagina 3 sentenza impugnata ) ha espressamente affermato che “la stipulazione del fondo patrimoriiale” è ai sensi dell’art. 167 c.c. “una tipica convenzione matrimoniale” ( pagina 11 citata sentenza ). La detta parte della sentenza non ha formato oggetto di specifica critica da parte dei ricorrenti con il motivo in esame per cui deve ritenersi avente efficacia di 8’udicato la riportata affermazione della corte di merito secondo cui il negozio costitutivo del fondo patrimoniale ‹’ una convenzione matrimoniale, cosi come ripetutamente e costantemente affermato nella giurisprudenza di legittimità e — implicitamente — dalla Corte Costituzionale nella sentenza 6/4/1995 n. 111 e le cui conclusioni ( come segnalato nell’ordinanza di rimessione ) non sono state condivise “dalla stragrande maggioranza della dottrina” che ne ha evidenziato e lamenJ ato “le incogruenze”.
Non meritevole di accoglimento è anche il secondo motivo dì ricorso con il quale i coniugi Ferrara-Speranza hanno sollevato numerose ed articolate censure tutte analiticamente e dettagliatamente esaminate — e risolte in senso sfavorevole alle tesi dei ricorrenti – da questa Corte con la sopra citata sentenza 7210/2009 con motivazione che queste Sezioni Unite condividono e fanno propria per cui verrà di seguito sinteticamente riportata anche perché conforme ai principi in materia numerose volte affermati nella giurisprudenza di legittimità ( sentenze 8/10/2008 n. 24798; 30/9/1998 n. 24332; 16/11/2007 n. 23745; 5/4/2007 n. 8610; 15/3/2006 n. 5684; 19/11/1999 n. 12864; 1/10/1999 n. 10859; 27/11/1987 n. 8824 ).
La costituzione del fondo patrimoniale di cui all’art. 167 c.c. — compresa tra le convenzioni matrimoniali secondo quanto ritenuto dalla corte di merito con affermazione che non può più essere posta in discussione — è soggetta alle disposizioni dell’art. 162 c.c. circa le forme delle convenzioni medesime, ivi incluso il terzo comma “che ne condiziona l’opponibilità ai terzi all’annotazione del relativo contratto a margine dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo per gli immobili, ai sensi dell’art. 2647 c.c., resta degradata a mera pubblicità-notizia” ( inidonea ad assicurare detta opponibilità ) e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile, che non ammette deroghe o equipollenti, restando irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito altrimenti della costituzione del fondo. Ne consegue che, in mancanza di annotazione del fondo patrimoniale a margine dell’atto di matrimonio, il fondo medesimo non è opponibile ai creditori che come appunto nella specie — abbiano iscritto ipoteca sui beni del fondo essendo irrilevante la trascrizione del fondo nei registri della conservatoria dei beni immobili.
Alle dette conclusioni si perviene essenzialmente sulla base delle seguenti considerazioni.
L’abrogazione ad opera dell’articolo 206 legge 151/1975 del quarto comma del previdente quatto comma dell’articolo 2647 c.c. — che considerava la trascrizi‹ane del vincolo familiare requisito di opponibilità ai terzi – rende evidente l’intento del legislatore di degradate la trascrizione del fondo a pubblicità n‹itizia e di riservare l’opponibilità del vincolo ai terzi all’annotazione di cui all’ultimo comma dell’articolo 162 c.c. L’annotazione a margine dell’atto di matrimonio della data del contratto, del notaio rogante e delle generalità dei contraenti che hanno partecipato alla costituzione del fondo patrimoniale mira a tutelare, ancor più che per il passato, i terzi che pongono in essere rapporti giuridici con i coniugi.
La detta funzione attribuita dalla annotazione ex art. 162 c.c. — consentire al terzo di ottenere una completa conoscenza circa la condizione giuridica dei beni cui il vincolo del fondo si riferisce attraverso la lettura del relativo contratto — e l’eliminazione dell’ultimo comma dell’articolo 2647 c.c. consentono di affermare che la detta annotazione costituisce l’unica formalità pubblicitaria rilevante agli effetti della opponibilità della convenzione ai terzi e che la tras‹:rizione del vincolo ex art. 2647 c.c. è stata degradata al rango di pubblicità-notizia. Il fondo patrimoniale risulta quindi sottoposto ad una doppia forma di pubblicità: annotazione nei registri dello stato civile ( funzione dichiarativa ); trascrizione ( funzione di pubblicità notizia ). Infatti quando la legge non ricollega alla Eascrizione un particolare effetto ben determinato, si ›è• in presenza di una pubblicità notizia. Il legislatore tutte le volte in cui hii voluto attribuire alla pubblicità determinati effetti lo ha detto esplicitamente, mentre laddove non ha detto nulla deve ritenersi trattarsi di pubblicità notizia.
Sono peraltro numerose le disposizioni analoghe all’articolo 2647 c.c. nell’attuale formulazione e mai si è dubitate che esse non ricollegando all’omissione della trascrizione alcuna sanzione specifica – configurino casi di pubblicità-notizia. Vanno ricordate le norme dettate dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089, art. 2, comma 2 e art. 3, comma 2, che riguardano il vincolo di indisponibilità sui beni di interesse culturale; dalla L. 28 gennaio 1977, n. 10, art. 7, comma 5, a proposito dei vincoli sull’edilizia abitativa convenzionata; nonché dalla L. Fall., art. 88, comma 2, a proposito della presa in consegna dei beni del fallito da parte del curatore, art. 166, comma 2 e art. 191, comma 2 della stessa legge.
In definitiva, in base al descritto quadro normativo, il terzo interessato deve non solo ‹.onsultare i registri immobiliari al fine di verificare la situazione relativa a un determinato bene immobile, ma anche verificare se il titolare è coniugato e, in caso positivo, controllare se a margine dell’atto di matrimonio sia stata annotata una convenzione derogatoria.
A conferma di quanto precede va segnalata la sentenza 6 aprile 1995 n. 111 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata , in riferimento agli art. 3 e 29 cost., la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli art. 162 comma ultimo, 2647 e 2915 c.c., nella parte in cui n‹in prevedono che, per i fondi patrimoniali costituiti sui beni immobili a mezzo di convenzione matrimoniale, l’opponibilità ai terzt sia determinata unicamente dalla trascrizione dell’atto sui registri immobiliari, anziché pure dalla annotazione a margine dell’atto di matrimonio. Ha osservato il giudice delle leggi che la necessità di effettuare ricerche sia presso i registri immobiliari, sia presso i registri dello stato civile (questi ultimi meno accessibili e sia pur meno affidabili) costituisce un onere che, sebbene fastidioso, non può dirsi eccessivamente gravoso, non soltanto rispetto al principio di tutela in giudizio, ma anche rispetto all’art. 29 cost., che semmai tutela gli aspetti etico-sociali della famiglia e non è quindi, utilmente invocabile come parametro del contrasto, ed all’art. 3 cost., in quanto una duplice forma di pubblicità (cumulativa, ma a fini ed effetti diversi) per la costituzione dei fondi in parola trova giustificazione nel generale rigore necessario alle deroghe al regime legale e nell’esigenza di contemperare gli interessi contrapposti della conservazione del patrimonio pet i figli fino alla maggiore età dell’ultimo di essi e dell’impedimento di un uso distorto dell’istituto a danno delle garanzie dei creditori.
Consegue da quanto precede che — al contrario di quanto sostenuto dai ricorrenti con il secondo motivo e conformemente a quanto affermato dalla corte di appello nella sentenza impugnata — l’annotazione di cui al quano comma dell’art. 162 e.c. ( norma speciale ) è l’unica forma di pubblicità idonea ad assicurare l’opponibilità della convenzione matrimoniale ai terzi, mentre la trascrizione di cui all’articolo 2647 c.c. ( norma generale ) ha funzione di mera pubblicità-notizia. L’opponibilità ai terzi dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale ( avente ad oggetto beni immobili ) è quindi subordinata all’annotazione a margine dell’atto di matrimonio a prescindere dalla trascrizione del medesimo atto imposta dall’articolo 2647 c.c.
Va infine rilevata l’insussistenza della asserita violazione degli articoli 1175 e 1375 c.c. denunciata dai coniugi Ferrara-Speranza nell’ultima parte del motivo di ricorso in esame con riferimento al comportamento della BCI asseritamene contrario ai principi di correttezza e buona fede.
In via preliminare va segnalato che nella sentenza impugnata non si fa alcuna menzione della acquisita prova della conoscenza da parte dell’istituto bancario della costituzione del fondo patrimoniale sui beni ipotecati.
Peraltro, anche a voler dare per scontata la detta conoscenza da parte della BCI, il comportamento di quest’ultima non si porrebbe in contrasto con i menzionati principi di correttezza e buona fede rientrando nella sua libertà e discrezionalità la scelta dello strumento riconosciuto dall’ordinamento con il quale tutelare le garanzie del proprio credito.
Non va sottaciuto inoltre che alle regole di correttezza e buona fede devono ispirarsi entrambe le parti di un rapporto obbligatorio per cui se una di esse sia inadempiente e persista nel suo inadempimento, l’altra ben e legittimamente può avvalersi di tutti gli strumenti ( nella specie 1’iscrizione ipotecaria sui beni del debitore prevista dagli articoli 2808 c.c. e seguenti ) previsti dall’ordinamento per porre rimedio all’inadempimento ed al conseguente pregiudizio subito dalla parte adempiente.
Dalle considerazione che precedono deriva logicamente l’infondatezza del terzo motivo di ricorso sopra riportato – relativo al1’asserita vlo1azione dell’articolo 170 c.c. — posto che la censura ivi sviluppata presuppone l’opponibilità all’istituto bancario creditore del fondo patrimoniale costituito dai coniugi ricorrenti. Esclusa — per le ragioni sopra esposte — la detta opponibilità, è evidente che ben poteva il detto istituto aggredire i beni dei propri debitori non sottoposti ai vincoli di indisponibilità derivanti dalla disciplina dettata dall’istituto del fondo patrimoniale.
Del pari è infondato il quarto motivo di ricorso — concernente la richiesta risarcitoria nei confronti del Comune di Nocera Superiore – ed al riguardo è sufficiente il richiamo al principio pacifico nella giurispmdenza di questa Corte secondo cui nell’esercizio della funzione di tenuta dei registri dello stato civile, il sindaco assumendo la veste di ufficiale di Governo, agisce quale organo dello Stato in posizione di dipendenza gerarchica anche rispetto agli organi statali centrali (Ministero della giustizia) e locali di grado superiore (Procuratore della Repubblica). Pertanto nelle controversie relative allo svolgimento di tale funzione ( nella specie mancata annotazione nei registri dello stato civile della costituzione di un fondo patrimoniale ) la legittimazione passiva appartiene non al Comune, ma allo Stato ( in tali sensi, tra le tante, sentenze 25/3/2009 n. 7210; 14/2/2000 n. 1599 ).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Sussistono giusti motivi in considerazione, tra l’altro, della natura controversa, della peculiarità, della complessità e della rilevanza delle questioni trattate tanto che il relativo esame è stato sottoposto al vaglio a queste Sezioni Unite che inducono a compensare per intero tra tutte le parti le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e compensa per intero tra tutte le parti le spese del giudizio di cassazione..
Roma 29 settembre 2009
Il consigliere estensore Il presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 27 ottobre 2008, n. 25857, per SS.UU, 13 ottobre 2009, n. 21658, in tema di fondo patrimoniale
SS.UU, 13 ottobre 2009, n. 21658, in tema di fondo patrimoniale
In tema di assegno divorzile – SS.UU, 18 dicembre 2023, n. 35385
Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 26/09/2023) 18/12/2023, n. 35385
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE UNITE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Primo Presidente f.f. –
Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 25113-2020 proposto da:
A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SALARIA 53, presso lo studio dell’avvocato MANUELA MACCARONI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIA CRISTINA MIRABELLI;
– ricorrente –
contro
B.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO LORENZINI 72, presso lo studio dell’avvocato VALERIA FAIOLA, rappresentato e difeso dagli avvocati ALESSANDRA DE VIDO e GIOVANNI CANINO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1581/2020 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 08/06/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2023 dal Consigliere IOFRIDA GIULIA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale CARDINO ALBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Maria Cristina Mirabelli, Alessandra De Vido e Giovanni Canino.
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 1581/2020 pubblicata in data 8/6/2020, – in controversia proposta da B.B. nei confronti di A.A., al fine di sentire dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto tra le parti nel 2003, con conferma delle condizioni di separazione, riguardo alle condizioni economiche dei coniugi e al contributo paterno al mantenimento del figlio della coppia, nato nel 1998, affidato alla madre, – ha parzialmente riformato la decisione di primo grado, che aveva, quanto alle condizioni del divorzio, assegnato la casa coniugale alla A.A. e posto a carico dell’ex marito un assegno divorzile di Euro 1.600,00 mensili ed un contributo al mantenimento del figlio C.C. di Euro 700,00 mensili, oltre il 100% delle spese straordinarie.
In particolare, i giudici d’appello, nel ridurre sia la misura dell’assegno divorzile a favore della A.A. (a Euro 400,00 mensili) sia quella del contributo paterno al mantenimento del figlio (a Euro 400,00 mensili), hanno, anzitutto, rilevato che il reddito attuale del B.B. non poteva essere determinato in Euro 10.000,00 mensili (come ritenuto dal Tribunale) ma, pur dovendo ritenersi maggiore rispetto a quanto dichiarato al fisco, poteva essere stimato, tenuto conto delle spese dallo stesso sostenute, in “almeno 2.500,00 Euro mensili”.
La Corte territoriale ha quindi rilevato che, come emergeva dalla costituzione in appello di detta parte, la A.A., priva di redditi da lavoro, non aveva lavorato, sia prima che dopo le nozze con il B.B., essenzialmente “per l’agiatezza che proveniva dalla sua famiglia d’origine, non per essersi dedicata interamente alla cura del marito e del figlio”; invero, non risultava dagli atti che ella avesse sacrificato aspirazioni personali e si fosse dedicata soltanto alla famiglia, rinunciando ad affermarsi nel mondo del lavoro, considerato che, avuto esclusivamente riguardo al periodo di “durata legale del matrimonio”, dal novembre 2003 al 2010, non anche al periodo anteriore, dal 1996, di convivenza prematrimoniale, “poichè gli obblighi nascono dal matrimonio e non dalla convivenza”, la A.A., all’epoca delle nozze, nel 2003, aveva già lasciato il suo lavoro da tempo e il marito, a fine 2003, aveva cessato il suo lavoro per il cantautore D.D., cosicchè “la necessità di seguire il marito nelle trasferte con D.D.” non poteva aver costituito la ragione o l’unica ragione dell’abbandono del lavoro da commessa.
La Corte ha osservato che, fermo il diritto della A.A. a percepire l’assegno divorzile, ” in mancanza di
tempestiva contestazione dell’an”, la misura fissata dal Tribunale risultava eccessiva e, in considerazione della disponibilità economica attuale dell’ex marito, della breve durata (legale) del matrimonio (sette anni) e del profilo solamente assistenziale dell’assegno (in relazione alla mancanza di reddito attuale della ex moglie), appariva equo determinare l’ importo nella misura di Euro 400,00 mensili; anche il contributo paterno al mantenimento del figlio, maggiorenne ma non autosufficiente, doveva essere ridotto ad Euro 400,00 mensili, in considerazione del reddito del B.B. e del fatto che il medesimo aveva costantemente provveduto a pagare integralmente le spese straordinarie, che, nel caso di uno studente universitario, rappresentano una parte rilevante del mantenimento.
Avverso la suddetta pronuncia, A.A. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 25/9/2020, affidato a tre motivi, nei confronti di B.B. (che ha resistito con controricorso, notificato il 3/11/2020).
Con ordinanza interlocutoria n. 30671/2022, la Prima Sezione civile di questa Corte, ritenuta la questione posta dal ricorso (dai primi due motivi), relativa al rilievo della durata del rapporto di convivenza, anteriore al matrimonio formalizzato, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, “di massima di particolare importanza” a norma dell’art. 374 c.p.c., comma 2, con la conseguente necessità di rimettere la causa alla Prima Presidente di questa Corte, per le valutazioni di sua competenza in ordine alla possibile assegnazione della presente controversia alle Sezioni unite per la sua soluzione.
Con decreto della Prima Presidenza si è disposta la trattazione del procedimento in udienza pubblica, dinanzi alle Sezioni Unite.
Il P.G. ha depositato memoria, concludendo per il rigetto del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. La ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, l’erronea ed omessa valutazione dei fatti e dei documenti di causa e l’omesso apprezzamento della disparità patrimoniale, con particolare riferimento agli emolumenti e alle ricchezze del B.B. e alle condizioni economiche della ricorrente, per avere la Corte distrettuale “rivisitato la valutazione operata dal Tribunale delle condizioni economiche complessive” dell’ex marito (il quale aveva lavorato, durante la convivenza prematrimoniale, per diversi anni per l’artista D.D. e, successivamente alla di lui morte, aveva continuato a gestire, in modo indiretto, i beni ereditari, pervenuti alla di lui madre, cugina del cantautore, ricevendo remunerazioni non dichiarate fiscalmente), trascurando di considerare, nella valutazione del contributo al mènage familiare dato dalla A.A., anche con la messa a disposizione di ricchezze provenienti dalla propria famiglia d’origine, oltre che con il ruolo svolto di casalinga e di madre, il periodo (dal 1996 al 2003), continuativo e stabile, di convivenza prematrimoniale (nell’ambito del quale era nato il figlio, C.C., nel 1998), con una motivazione lacunosa e contra legem; b) con il secondo motivo, sempre ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, stante la totale pretermissione del criterio assistenziale, potenzialmente rilevante ex se, per avere la Corte territoriale considerato preponderante il criterio compensativo, obliterando completamente quello assistenziale, e, in ogni caso, la non corretta interpretazione di quello compensativo, non essendo, a tali fini, necessario che il coniuge economicamente più debole abbia sacrificato “aspettative lavorative”, occorrendo piuttosto che costui abbia dato un fattivo contributo al mènage domestico ed alla formazione del patrimonio comune; c) con il terzo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 898 del 1970, art. 6, in merito alla determinazione del contributo di mantenimento del figlio, per non aver i giudici d’appello correttamente apprezzato le sostanze paterne.
2. Nell’ordinanza interlocutoria n. 30671/2022, a fronte di una motivazione della sentenza impugnata in cui la Corte di appello, nell’escludere la rilevanza del periodo di convivenza prematrimoniale ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, ha fatto riferimento ai criteri indicati nella L. n. 898 del 1970, art. 5, ponendo l’accento, oltre che sulle disponibilità economiche del soggetto onerato, anche sulla “durata legale del matrimonio”, escludendo dal computo il periodo di convivenza more uxorio vissuto dalla coppia prima di legalizzare l’unione (convivenza “necessitata”, in quanto il B.B. era coniugato con altra donna e si trovava quindi nell’ impossibilità di contrarre matrimonio con la A.A.), protrattosi per sette anni e caratterizzato, per quanto dedotto, da una stabilità affettiva oltre che dall’assunzione spontanea di reciproci obblighi di assistenza, ha osservato che “la convivenza prematrimoniale è un fenomeno di costume che è sempre più radicato nei comportamenti della nostra società cui si affianca un accresciuto riconoscimento – nei dati statistici e nella percezione delle persone – dei legami di fatto intesi come formazioni familiari e sociali di tendenziale pari dignità rispetto a quelle matrimoniali”, il che rende meno coerente il mantenimento di una distinzione fra la durata “legale” del matrimonio e quella della convivenza e non del tutto infondata la prospettata possibilità di tener conto anche del periodo di convivenza prematrimoniale, cui sia seguito il vero e proprio matrimonio, successivamente naufragato, ai fini della determinazione dell’assegno.
3. Il controricorrente, con la memoria, evidenzia come dovrebbe essere distinta l’ ipotesi della convivenza prematrimoniale tra persone libere da vincoli coniugali (nella quale non vi sarebbero ostacoli all’estensione della durata legale del matrimonio alla convivenza che l’ha preceduto) da quella, che interessa il presente giudizio, in cui la convivenza prematrimoniale avviene in costanza di altro matrimonio di almeno uno dei soggetti conviventi con un terzo. In detta ipotesi, poichè il precedente matrimonio costituisce un impedimento al matrimonio o a unione di fatto ex L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 36, la convivenza prematrimoniale non potrebbe essere valutata ai fini che qui interessano, in quanto fino alla declaratoria di divorzio “tale periodo è compreso nella durata del matrimonio pendente all’epoca dei fatti”. In ogni caso, anche la legge sulle unioni civili, con riguardo alla cessazione della relazione affettiva di fatto, ha previsto soltanto un diritto dell’ex convivente in stato di bisogno ad un assegno alimentare (art. 1, comma 65) non anche ad un assegno di natura perequativa-compensativa.
4. Il P.G., nel concludere per il rigetto del ricorso e l’ infondatezza del primo motivo, che pone la questione della rilevanza o meno della convivenza prematrimoniale, ai fini dell’applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6 e della verifica della sussistenza del presupposto perequativocompensativo dell’assegno divorzile, utilizza i seguenti argomenti: a) il testuale riferimento che L.Div., art. 5, comma 6, fa alla “durata del matrimonio”, ritenendo non possibile ampliare, in via interpretativa, i presupposti ed i criteri di riconoscimento e determinazione dell’assegno divorzile, in funzione compensativa-perequativa, stabiliti dal legislatore con elencazione necessariamente tassativa, introducendo un presupposto aggiuntivo (la convivenza prematrimoniale), pur precisandosi che la durata del matrimonio “è strettamente parlando, non un presupposto dell’assegno divorzile, bensì un criterio per la sua quantificazione (Cass. 7295/2013; Cass. 6164/2015)”, salvo per i casi dei matrimoni di breve durata; b) la specifica disciplina dettata dal legislatore per l’ ipotesi di cessazione della convivenza di fatto disciplinata dalla L. n. 76 del 2016, in quanto, al comma 65, si stabilisce – salva la possibilità per i conviventi di fatto di disciplinare diversamente gli aspetti patrimoniali del rapporto concludendo un contratto di convivenza, di cui alla L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 50, dove regolamentare anche gli aspetti della ripartizione dei ruoli e delle rispettive contribuzioni, prevedendone anche la rilevanza in funzione di una possibile crisi della convivenza – che all’ex convivente di fatto (secondo il modello descritto dal comma 36), in caso di fine del rapporto, spetta soltanto un assegno di natura puramente alimentare, una volta dimostrati lo stato di bisogno e l’ impossibilità di provvedere al proprio mantenimento (essendosi, invece, previsto l’assegno divorzile c.d. improprio, al comma 25 della stessa legge, per il solo caso dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, costituita in forza del comma 2), ragione questa per cui non vi sarebbe motivo per attribuire diverso rilievo, ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, nel caso in cui la convivenza di fatto sia sfociata nel matrimonio; c) la non conferenza del richiamo a quell’orientamento di questo giudice di legittimità che concerne la ripartizione della pensione di reversibilità, in quanto, in tali casi, il problema agitato, a fronte di un dettato normativo che alla L. div., art. 9, comma 3, parla peraltro di “durata del rapporto”, era soltanto quello della “equa distribuzione di una provvidenza già determinata tra l’ex coniuge e coniuge superstite, aventi diritto entrambi, da risolversi non in base ad un criterio meramente matematico basato sugli anni di matrimoni, ma bensì anche in base a determinati correttivi”, tra i quali è stata considerata dalla giurisprudenza anche la convivenza prematrimoniale, mentre, nel caso di specie, si tratta di “attribuire a una situazione di convivenza di fatto, non considerata dalla legge (se non ai fini sopra citati), rilevanza ai fini della determinazione del quantum dell’assegno divorzile”, cosicchè “la convivenza viene ad assurgere non a criterio di composizione del conflitto tra più aventi diritto alla medesima provvidenza, ma a criterio di insorgenza stessa della misura del diritto e della correlativa obbligazione”; d) neppure pertinente è il richiamo alla L. n. 184 del 1983, art. 6, che consente l’adozione solo alle coppie sposate da almeno tre anni, ma che, ai fini del triennio, al comma 4, prende in considerazione anche una mera convivenza stabile e continuativa prima del matrimonio, per un periodo di tre anni, purchè la coppia, poi, si sposi, trattandosi di disposizione dettata in specifica materia.
5. Risulta utile una ricostruzione del quadro normativo.
La L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, come modificata per effetto della Novella del 1987 n. 74, dispone che “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
Le modifiche più significative rispetto alla precedente versione della norma attengono all’accorpamento di tutti gli indicatori quali “le condizioni dei coniugi”, il “reddito di entrambi” (relativi al criterio assistenziale), ” il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune” (attinente al criterio compensativo) e le “ragioni della decisione” (relative al criterio risarcitorio) nella prima parte della norma, come fattori dei quali il giudice deve “tenere conto” nel disporre l’assegno di divorzio, nonchè la condizione dell’insussistenza di mezzi adeguati e dell’impossibilità di procurarli per ragioni obiettive, in capo all’ex coniuge che richieda l’assegno.
Il testo della norma prevede, innanzitutto, che il giudice tenga (sempre) conto: delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di
entrambi, valutando tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del rapporto. Effettuata questa valutazione, il giudice disporrà l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.
L’art. 5, comma 10, prevede poi che “L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze”.
La L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 3, recita: “3. Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di cui all’art. 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonchè a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze”.
Riguardo, invece, all’ indennità di fine rapporto percepita dal coniuge, la L. n. 898 del 1970, art. 12 bis, prevede: “Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, ad una percentuale dell’ indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’ indennità viene a maturare dopo la sentenza. 2. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’ indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.
Viene anche in rilievo la L. n. 76 del 2016, che si è posta l’obiettivo di riconoscere la convivenza di fatto tra due persone, sia eterosessuali che omosessuali, che non sono sposate e che potranno eventualmente stipulare un contratto di convivenza per regolare le loro questioni patrimoniali.
Il comma 36 dispone che: “si intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.
Tale disposizione rivela come la L. n. 76 non si occupi di regolamentare tutte le ipotesi comunemente ritenute in ambito sociale di “famiglia di fatto” o di “convivenza more uxorio”, in quanto, richiedendo la presenza di dati presupposti, finisce per limitare il suo ambito applicativo.
Il contratto di convivenza può essere redatto in forma di scrittura privata o di atto pubblico che dovrà poi essere registrato da un notaio o da un avvocato e trasmesso al registro anagrafico comunale. I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti del coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario, in caso di malattia o ricovero (comma 38). In particolare, nel caso di morte di uno dei due conviventi che è anche proprietario della casa comune, il superstite ha il diritto di restare a vivere in quella casa per altri due anni o per il periodo della convivenza se superiore a due anni, comunque non oltre i cinque anni. Se nella casa convivono i figli minori o i figli disabili del convivente che sopravvive, lo stesso può rimanere nella casa comune per almeno tre anni (comma 42). Il diritto alla casa viene meno nel caso di una nuova convivenza con un’altra persona, o in caso di matrimonio o unione civile (art. 43).
Per quanto riguarda la convivenza, la L. del 2016, comma 65 dispone poi che, nell’ ipotesi del venir meno della convivenza di fatto, il giudice, su istanza di una delle parti, può stabilire il diritto del convivente di ricevere dall’altro gli alimenti, se ne avesse bisogno e non fosse in grado di provvedere al proprio mantenimento. Gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza.
Infine, la convivenza di fatto non può essere alla base del diritto alla pensione di reversibilità.
In ultimo, va poi ribadito che l’art. 8 Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti umani sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare) e la Corte Edu ha da tempo chiarito che “la vita familiare comprende anche gli interessi materiali” (sentenza Marckx c. Belgio del 13.6.1979). La famiglia è considerata, a livello di normativa e giurisprudenza Europea, sia nella sua versione tradizionale, composta da due membri di sesso diverso uniti in matrimonio, sia nella versione moderna costituita da coppie non unite in matrimonio, ma semplicemente conviventi, siano esse di sesso diverso o dello stesso sesso e la convivenza qualifica il rapporto che lega i famigliari di fatto. Non si esige una disciplina dei differenti modelli familiari identica a quella del matrimonio ma una disciplina non discriminatoria (art. 14 della CEDU) che salvaguardi e rispetti le scelte familiari della persona. 5. Va quindi richiamato lo stato della giurisprudenza di legittimità e della Corte Costituzionale suo temi toccati dalla presente controversia. 5.1. Sull’assegno divorzile, componendo un contrasto tra i due orientamenti formatisi in seguito alla riforma del 1987, le Sezioni Unite (sentenza n. 11490 del 29.11.1990) avevano affermato che “l’assegno periodico di divorzio, nella disciplina introdotta dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 10, modificativo della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, ha carattere esclusivamente assistenziale (di modo che deve essere negato se richiesto solo sulla base di premesse diverse, quale il contributo personale ed economico dato da un coniuge al patrimonio dell’altro), atteso che la sua concessione trova presupposto nell’ inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio. Ove sussista tale presupposto, la liquidazione in concreto dell’assegno deve essere effettuata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), con riguardo al momento della pronuncia di divorzio. A quest’ultimo fine, peraltro, il giudice del merito, purchè ne dia adeguata giustificazione, non è tenuto ad utilizzare tutti i suddetti criteri, anche in relazione alle deduzioni e richieste delle parti, salva restando la valutazione della loro influenza sulla misura dell’assegno stesso (che potrà anche essere escluso sulla base della incidenza negativa di uno o più di essi)”.
Negli anni successivi tale orientamento è rimasto pressochè pacifico sino all’arresto del 2017 (Cass. 10.5.017 n. 11504) che, mantenendo la scissione del giudizio in due fasi logiche, ha mutato il parametro dell’adeguatezza dei mezzi: in particolare è stato affermato che tali mezzi sono “adeguati”, in ossequio al principio di autoresponsabilità, se consentono l'” indipendenza o autosufficienza economica”, indipendentemente dal tenore di vita dovuto durante il matrimonio.
Nel 2018, vi è stato il nuovo intervento delle Sezioni Unite (Sez.Un. n. 11.7.2018 n. 18287), al fine di indicare un percorso interpretativo che tenesse conto dell’esigenza riequilibratrice (sottolineata dalle Sezioni Unite del 1990) e della necessità di «attualizzare il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio anche in relazione agli standards europei», in coerenza con il quadro costituzionale di riferimento, con superamento della distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell’assegno di divorzio, essendosi affermato che il giudice deve accertare l’adeguatezza dei mezzi «attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tener conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto». I criteri di cui all’art.5, comma 6, in esame costituiscono, nel loro complesso, il parametro di riferimento tanto della valutazione relativa all’ an debeatur quanto di quella relativa al quantum debeatur: l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente, prescritto ai fini della prima operazione, deve aver luogo mediante una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti che tenga conto anche del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dello avente diritto, tutto ciò in conformità della funzione non solo assistenziale, ma anche compensativa e perequativa dell’assegno divorzile, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà.
In definitiva è necessario operare una verifica causalmente collegata alla valutazione degli altri indicatori contenuti nella prima parte del citato art. 5, comma 6, proprio al fine di accertare se l’eventuale rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi, all’atto dello scioglimento del vincolo, sia dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione del ruolo svolto all’interno della famiglia, «in relazione alla durata, fattore di cruciale importanza nella valutazione del contributo di ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell’altro coniuge».
Le Sezioni unite del 2018 hanno evidenziato come «l’autoresponsabilità –cui nella sentenza della Prima civile del 2017 si era dato centralerilievo – deve infatti percorrere tutta la storia della vita matrimoniale e non comparire solo al momento della sua fine: dal primo momento di autoresponsabilità della coppia, quando all’inizio del matrimonio (o dell’unione civile) concordano tra loro le scelte fondamentali su come organizzarla e le principali regole che la governeranno; alle varie fasi successive, quando le scelte iniziali vengono più volte ridiscusse ed eventualmente modificate, restando l’autoresponsabilità pur sempre di coppia. Quando poi la relazione di coppia giunge alla fine, l’autoresponsabilità diventa individuale, di ciascuna delle due parti: entrambe sono tenute a procurarsi i mezzi che permettano a ciascuno di vivere in autonomia e con dignità, anche quella più debole economicamente. Ma non si può prescindere da quanto avvenuto prima dando al principio di autoresponsabilità un’importanza decisiva solo in questa fase, ove finisce per essere applicato principalmente a danno della parte più debole».
In relazione al criterio specifico della durata del matrimonio, posto dall’ art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, quale «filtro» attraverso cui vagliare gli altri parametri indicati dalla norma, a fronte di un risalente orientamento secondo cui il criterio della durata del matrimonio poteva implicare l’azzeramento totale dell’assegno in casi eccezionali di brevissima durata del matrimonio (Sez. 1, Sentenza n. 7295 del 22/03/2013 relativa ad un matrimonio nel quale vi erano stati solo dieci giorni di convivenza e in cui erano passati meno di cento giorni tra la celebrazione del matrimonio e la separazione; Cass. 26.3.2015 n.6164), nella sentenza delle Sezioni Unite del 2018, si sonoapprofondite le ragioni in forza delle quali il criterio della «durata del matrimonio» ha la «cruciale importanza» riconosciuta nella pronuncia, precisandosi, come già detto, come la durata del vincolo non assume più rilievo solo ai fini della quantificazione dell’assegno, ma viene in considerazione, unitamente agli altri criteri, anche ai fini dell’accertamento del relativo diritto.
Come ribadito nella successiva sentenza n. 9004/2021 delle stesse Sezioni Unite, «tale accertamento non inerisce all’atto costitutivo del vincolo coniugale, ma allo svolgimento di quest’ultimo nella sua effettività, contrassegnata dalle vicende concretamente affrontate dai coniugi come singoli e dal nucleo familiare nel suo complesso, anche nella loro dimensione economica, la cui valutazione trova fondamento, a livello normativo, nei criteri indicati dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno».
L’arresto del 2018 delle Sezioni Unite ha poi evidenziato come «alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo» (pluralità di modelli familiari tra i quali rientra, pacificamente, anche quello delle unioni civili).
Nella successiva ordinanza del 30 agosto 2019, n. 21926, questa Corte ha ribadito che l’assegno di divorzio ha una funzione assistenziale, ma parimenti anche compensativa e perequativa, come indicato dalle Sezioni Unite, e presuppone l’accertamento di uno squilibrio effettivo e di non modesta entità delle condizioni economiche patrimoniali delle parti, riconducibile in via esclusiva o prevalente alle scelte comuni di conduzione della vita familiare, alla definizione dei ruoli dei componenti della coppia coniugata, al sacrificio delle aspettative lavorative e professionali di uno dei coniugi.
Sul tema della pariordinazione dei criteri di cui all’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, si sofferma poi Cass. 17 febbraio 2021, n. 4215, a mente della quale, posto che l’assegno divorzile svolge una funzione sia assistenziale che perequativa e compensativa, il giudice: a)attribuisce e quantifica l’assegno alla stregua dei parametri pariordinati di cui all’art. 5, 6° comma, prima parte, tenuto conto dei canoni enucleati dalle Sezioni Unite del 2018, prescindendo dal tenore di vita godibile durante il matrimonio; b) procede pertanto ad una complessiva ponderazione «dell’intera storia familiare», in relazione al contesto specifico; in particolare, atteso che l’assegno deve assicurare all’ex coniuge richiedente – anche sotto il profilo della prognosi futura -un livello reddituale adeguato allo specifico contributo dallo stesso fornito alla realizzazione della vita familiare e alla creazione del patrimonio comune e\o personale dell’altro coniuge, accerta previamente non solo se sussista uno squilibrio economico tra le parti, ma anche se esso sia riconducibile alle scelte comuni di conduzione della vita familiare, alla definizione dei ruoli all’interno della coppia e al sacrificio delle aspettative di lavoro di uno dei due; verifica, infine, se siffatto contributo sia stato già in tutto o in parte altrimenti compensato, fermo che, nel patrimonio del coniuge richiedente, l’assegno non devono computarsi anche gli importi dell’assegno di separazione, percepiti dal medesimo in unica soluzione, in forza di azione esecutiva svolta con successo, in ragione dell’inadempimento dell’altro coniuge.
Infine, la sentenza delle Sezioni Unite del 5.11.2021 n. 32198, dopo aver chiarito l’impossibilità di applicare analogicamente l’art. 5, comma 10, della legge sul divorzio (che prevede l’estinzione automatica dell’assegno quando il soggetto richiedente passi a «nuove nozze»), ha affermato che l’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina necessariamente la perdita «automatica» ed integrale del diritto all’assegno in relazione alla sua componente compensativa. Nella suddetta decisione, per quel che rileva ai fini della questione in esame, le Sezioni Unite (al punto 24 e 24.1.) hanno precisato che «la considerazione del contributo dato da ciascun coniuge durante la comunione familiare, in funzione retributivo-compensativa, serve ad evitare, come segnalato da attenta dottrina, equivoci, condizionamento e commistioni rispetto alle successive opzioni esistenziali dell’interessato, assicurandogli, nel reale rispetto della sua dignità, il riconoscimento degli apporti e dei sacrifici personali profusi nello svolgimento della (ormai definitivamente conclusa) esperienza coniugale». Laddove, pertanto, in caso di nuova convivenza si può giustificare il venir meno della componente assistenziale dell’assegno, a diverse conclusioni deve giungersi per la componente compensativa: in presenza del presupposto indefettibile della mancanza di mezzi adeguati ed a fronte della prova del «comprovato emergere di un contributo, dato dal coniuge debole con le sue scelte personali e condivise in favore della famiglia, alle fortune familiari e al patrimonio dell’altro coniuge» (che rimarrebbe ingiustamente sacrificato se si aderisse alla tesi della caducazione integrale del diritto all’assegno), il coniuge beneficiario non perde automaticamente il diritto all’assegno (che potrà essere rimodulato o quantificato, in sede di giudizio per il suo riconoscimento, in funzione della sola componente compensativa). Nella decisione, questa Corte si sofferma sulla questione dell’interferenza tra i vari modelli familiari, per affermare che «l’instaurazione di una nuova convivenza stabile…comporta la formazione di un nuovo progetto di vita con il nuovo compagno o la nuova compagna, dai quali si ha diritto di pretendere, finché permane la convivenza, un impegno dal quale possono derivare contribuzioni economiche che non rilevano più per l’ordinamento solo quali adempimento di una obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo la regolamentazione normativa delle convivenze di fatto, anche l’adempimento di un reciproco e garantito dovere di assistenza morale e materiale».
Le Sezioni Unite hanno sottolineato come la situazione di convivenza non sia «pienamente assimilabile al matrimonio» (né sotto il profilo della, almeno tendenziale, stabilità, né tanto meno sotto il profilo delle tutele che offre al convivente, nella fase fisiologica e soprattutto nella fase patologica del rapporto) e che le situazioni «eterogenee sul piano del diritto positivo» e le diverse regolamentazioni dei due istituti (che non consentono il ricorso all’analogia) giustificano la diversa disciplina e, in particolare, la caducazione del diritto all’assegno di divorzio solo in caso di successivo matrimonio dell’avente diritto, ma non in presenza di una sua stabile convivenza.
Un ultimo richiamo giurisprudenziale (sollecitato anche dalla questione posta dal controricorrente, nel presente giudizio, esposta al par. 3) attiene al riferimento, ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, alla durata del rapporto di coniugio, intesa non come limitata alla durata effettiva della convivenza, con esclusione del periodo di separazione personale tra i coniugi.
Questa Corte ha affermato che i criteri previsti dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, ai fini dell’attribuzione e della quantificazione dell’assegno dovuto all’ex coniuge, devono trovare applicazione in riferimento all’intera durata del vincolo matrimoniale, anzichè a quella effettiva della convivenza, dovendosi in particolare comprendere, nella nozione di contributo fornito da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi, non solo quello offerto nel periodo della convivenza (coniugale), ma anche quello prestato in regime di separazione, soprattutto per quanto riguarda il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli (cfr. Cass., Sez. I, 7/11/1981, n. 5874; 29/05/1978, n. 2684). Il principio , affermato in risalenti pronunce, è stato pacificamente applicato ma ha assunto recentemente particolare rilievo all’indomani dell’arresto delle Sezioni Unite del 2018, in quanto, nel nuovo contesto interpretativo dell’art.5 l.div., la durata del vincolo coniugale non assume più rilievoesclusivamente ai fini della quantificazione dell’assegno, come ritenuto in precedenza, ma viene in considerazione, unitamente agli altri criteri, anche ai fini dell’accertamento del relativo diritto, e ciò può quindi giustificarne l’esclusione, ove, per la sua brevità, non abbia consentito la prestazione di un significativo contributo o il sacrificio di apprezzabili aspettative professionali da parte del richiedente: anche in passato, d’altronde, la precoce interruzione della convivenza veniva ritenuta idonea a giustificare l’azzeramento dell’importo dell’assegno, nei casi eccezionali in cui avesse impedito l’instaurazione di una comunione materiale e spirituale tra i coniugi, e quindi il consolidamento di un comune tenore di vita (cfr. Cass., n. 6164/2015; Cass.n. 7295/2013; Cass., n. 8233/2000).
5.2.Riguardo ai temi della violazione dei doveri del matrimonio e della conseguente responsabilità civile nell’ambito dei rapporti coniugali e familiari nonché del rapporto tra convivenza e matrimonio, con riferimento agli obblighi gravanti sui coniugi, questa Corte, nella sentenza n. 9801 del 2005 (così massimata: «Il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo da un lato ritenersi che diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare (e ciò considerato che la famiglia è luogo di incontro e di vita comune nel quale la personalità di ogni individuo si esprime, si sviluppa e si realizza attraverso l’instaurazione di reciproche relazioni di affetto e di solidarietà, non già sede di compressione e di mortificazione di diritti irrinunciabili); e dovendo dall’altro lato escludersi che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio – se ed in quanto posta in essere attraverso condotte che, per la loro intrinseca gravità, si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona – riceva la propria sanzione, in nome di una presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di famiglia, esclusivamente nelle misure tipiche previste da tale branca del diritto (quali la separazione e il divorzio, l’addebito della separazione, la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare), dovendosi invece predicare una strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente, concorrente rilevanza di un dato comportamento sia ai fini della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni di natura patrimoniale, sia (e sempre che ricorrano le sopra dette caratteristiche di gravità) quale fatto generatore di responsabilità aquiliana. E siccome l’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro – pur in mancanza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva di tale vincolo – un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarietà, sostanziantesi anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente alle proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto, è configurabile un danno ingiusto risarcibile allorché l’omessa informazione, in violazione dell’obbligo di lealtà, da parte del marito, prima delle nozze, della propria incapacità coeundi a causa di una malformazione, da lui pienamente conosciuta, induca la donna a contrarre un matrimonio che, ove informata, ella avrebbe rifiutato, così ledendo quest’ultima nel suo diritto alla sessualità, in sè e nella sua proiezione verso la procreazione, che costituisce una dimensione fondamentale della persona ed una delle finalità del matrimonio»), ha, in particolare, affermato, in una fattispecie nella quale il futuro coniuge aveva celato all’altro una patologia che impediva lo svolgimento di una normale vita coniugale, che «l’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro – pur in mancanza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva della costituzione di tale vincolo – un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarietà». Nella decisione si è evidenziato come «nel sistema delineato dal legislatore del 1975, il modello di famiglia-istituzione, al quale il codice civile del 1942 era rimasto ancorato, è stato superato da quello di famiglia – comunità, i cui interessi non si pongono su un piano sovraordinato, ma si identificano con quelli solidali dei suoi componenti. La famiglia si configura ora come il luogo di incontro e di vita comune dei suoi membri, tra i quali si stabiliscono relazioni di affetto e di solidarietà riferibili a ciascuno di essi».
Pertanto, si è chiarito che, sin dalla convivenza, sfociata poi nel matrimonio, le parti sono tenute all’adempimento degli obblighi di solidarietà morale e materiale, propri del matrimonio.
5.3.In relazione alla ripartizione tra ex coniuge e coniuge superstite della pensione di reversibilità, ai sensi del terzo comma dell’art.9 l.di., questa Corte a Sezioni Unite (Cass. n. 22434/2018) muovendo dall’interpretazione che della normativa in esame ha dato la Corte cost. nella sentenza n. 419 del 1999 (con la quale, confutandosi la soluzione interpretativa offerta dalle Sezioni unite con la sentenza n. 159/1998, secondo cui occorreva dare rilievo al solo criterio della «durata legale» del matrimonio, senza che potesse essere adottato alcun altro elemento di valutazione, neppure in funzione meramente correttiva del risultato matematico conseguito, si è affermato che il giudice deve prendere in considerazione «la condizione economica degli aventi diritto» in funzione equilibratrice), ha rinvenuto il presupposto per l’attribuzione del trattamento di reversibilità, a favore del coniuge divorziato, nel venir meno del sostegno economico apportato in vita dall’ex coniuge scomparso e la sua finalità nel sopperire a tale perdita economica, così identificando la «titolarità» dell’assegno nella fruizione attuale, da parte del coniuge divorziato, di una somma periodicamente versata dall’ex coniuge come contributo al suo mantenimento (così Cass. Sez.Un. n. 22434 del 2018, in motivazione).
Va ricordato che la Corte cost. nella sentenza del 1999, n. 419, ha ritenuto infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, terzo comma, I. n. 898 del 1970, nella parte in cui prevede esclusivamente la durata del «rapporto» matrimoniale, quale criterio di ripartizione della pensione di reversibilità tra divorziato e coniuge superstite, in riferimento agli art. 3 e 38 Cost, rilevando che, avendo il legislatore inteso assicurare «all’ex coniuge, al quale sia stato attribuito l’assegno di divorzio, la continuità del sostegno economico correlato al permanere di un effetto della solidarietà familiare, mediante la reversibilità della pensione che trae origine da un rapporto previdenziale anteriore al divorzio, o di una quota di tale pensione qualora esista un coniuge superstite che abbia anch’esso diritto alla reversibilità», «in presenza di più aventi diritto alla pensione di reversibilità (il coniuge superstite e l’ex coniuge), la ripartizione del suo ammontare tra di essi non può avvenire escludendo che si possa tenere conto, quale possibile correttivo, delle finalità e dei particolari requisiti che, in questo caso, sono alla base del diritto alla reversibilità. Ciò che, appunto, il criterio esclusivamente matematico della proporzione con la durata del rapporto matrimoniale non consente di fare. Difatti una volta attribuito rilievo, quale condizione per aver titolo alla pensione di reversibilità, alla titolarità dell’assegno, sarebbe incoerente e non risponderebbe al canone della ragionevolezza, né, per altro verso, alla duplice finalità solidaristica propria di tale trattamento pensionistico, l’esclusione della possibilità di attribuire un qualsiasi rilievo alle ragioni di esso perché il tribunale ne possa tenere in qualche modo conto dovendo stabilire la ripartizione della pensione di reversibilità».
La Consulta ha espressamente chiarito che, all’espressione scelta dal legislatore nella norma in esame, ai fini del riparto della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge («tenendo conto») « non può essere tuttavia attribuito un significato diverso da quello letterale: il giudice deve “tenere conto” dell’elemento temporale, la cui valutazione non può in nessun caso mancare; anzi a tale elemento può essere riconosciuto valore preponderante e il più delle volte decisivo, ma non sino a divenire esclusivo nell’apprezzamento del giudice, la cui valutazione non si riduce ad un mero calcolo aritmetico. Una conferma del significato relativo della espressione «tenendo conto» si trova nel sistema della stessa legge, che altre volte usa la medesima espressione per riferirsi a circostanze da considerare quali elementi rimessi alla ponderazione del giudice; e ciò proprio per definire i rapporti patrimoniali derivanti dalla pronuncia di divorzio (cfr. art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970)». Peraltro, non si comprenderebbe (aderendo all’orientamento secondo cui la legge avrebbe dettato un criterio rigido automatico) la scelta del legislatore di investire il tribunale per una statuizione priva di ogni elemento valutativo, potendo la ripartizione secondo quel criterio automatico essere effettuata direttamente dall’ente che eroga la pensione e, del resto, «quando il legislatore ha inteso stabilire in modo rigido e automatico i criteri per la determinazione di prestazioni patrimoniali dovute all’ex coniuge, ha usato una diversa espressione testuale, direttamente significativa della percentuale di ripartizione e del periodo da considerare; ciò che avviene, ad esempio, per l’indennità di fine rapporto, ripartita tra il coniuge e l’ex coniuge in una percentuale determinata ed in proporzione agli anni in cui il rapporto di lavoro che vi dà titolo è coinciso con il matrimonio (art. 12-bis della legge n. 898 del 1970)» (cfr. al riguardo Cass. 4867/2006: « Ai fini della determinazione della quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74), all’ex coniuge, il legislatore si è ancorato ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad un elemento incerto e precario come la cessazione della convivenza, escludendo, pertanto, anche qualsiasi rilevanza della convivenza di fatto che abbia preceduto le nuove nozze del coniuge divorziato titolare del trattamento di fine rapporto»; conf. Cass. 1348/2012 ).
Con riferimento all’art.12 bis l.div., la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 23/1991 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma (il giudice remittente aveva evidenziato che la disposizione attribuiva all’ ex-coniuge – ove l’intervallo tra separazione e divorzio sia lungo – una percentuale dell’indennità, pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto è coinciso col matrimonio, sproporzionata al suo effettivo contributo alla conduzione della famiglia), sottolineando come la durata del matrimonio è un parametro cui è attribuito rilievo centrale nella legge sul divorzio, quale modificata dalla Novella del 1987, quanto alla quota di indennità di fine rapporto, all’assegno divorzile e per la ripartizione della pensione di reversibilità, e che era del tutto ragionevole che il legislatore, una volta fatta la scelta di attribuire la quota dell’indennità in una percentuale predeterminata, si fosse ancorato « ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza».
L’orientamento è stato ribadito da Corte Cost. 14 novembre 2000, n. 491, la quale, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, terzo comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 « nella parte in cui, ai fini della determinazione delle quote anzidette, non esclude dal computo della durata del rapporto matrimoniale il periodo di separazione personale e non include il periodo di convivenza more uxorio precedente la celebrazione del secondo matrimonio», ha rilevato che, quanto al primo profilo, costituendo « la separazione, in conformità alla sua natura ed alle sue origini storiche, una semplice fase del rapporto coniugale», non può certo ritenersi manifestamente irragionevole una disciplina che accomuna convivenza coniugale e stato di separazione e, quanto al secondo aspetto problematico, che «la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio rappresenta, poi, un punto fermo di tutta la giurisprudenza costituzionale in materia ed è basata sull’ovvia constatazione che la prima è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della seconda», sottolineando che eventuali riflessi negativi del criterio della durata del matrimonio «possano e debbano» essere superati mediante l’applicazione di altri e differenti criteri concorrenti, e in primis di quello relativo allo stato di bisogno degli aventi titolo alla pensione di reversibilità, realizzandosi in tal modo la giusta esigenza, richiamata dal rimettente, di tutelare tra le due posizioni confliggenti quella del soggetto economicamente più debole (sentenza n. 419 del 1999).
La stessa Corte Costituzionale, anche nella pronuncia n. 461/2000, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, secondo e terzo comma, della legge 1° dicembre 1970, n.898, nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra isoggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità, ha evidenziato che, pur vero che la distinta considerazione costituzionale della convivenza more uxorio e del rapporto coniugale non escluda «la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’invocato art. 3 della Costituzione (sentenza n. 8 del 1996)», la mancata inclusione del convivente fra i soggetti beneficiari del trattamento di reversibilità trova una sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che tale pensione si ricollega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico che qui per definizione manca, essendo, diversamente dal rapporto coniugale, «la convivenza more uxorio fondata esclusivamente sulla affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti e si caratterizza per l’inesistenza di quei diritti e doveri reciproci, sia personali che patrimoniali, che nascono dal matrimonio», con conseguente diversità delle situazioni poste a raffronto e, quindi, la non illegittimità di una differenziata disciplina delle stesse.
E la giurisprudenza di legittimità ha fatto costante applicazione del criterio enunciato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 419 del 20 ottobre 1999, secondo cui il trattamento di reversibilità svolge una funzione solidaristica diretta alla continuazione della funzione di sostegno economico, assolta a favore dell’ex coniuge e del coniuge convivente, durante la vita del dante causa, rispettivamente con il pagamento dell’assegno di divorzio e con la condivisione dei rispettivi beni economici da parte dei coniugi conviventi (Cass., 21 settembre 2012, n. 16093; Cass., 7 dicembre 2011, n. 26358; Cass., 9 maggio 2007, n. 10638).
Presupposto per l’attribuzione della pensione di reversibilità è stato, dunque, ritenuto il venire meno del sostegno economico che veniva apportato in vita dal coniuge o ex coniuge scomparso: la sua finalità è quella di sovvenire a tale perdita economica, all’esito di una valutazione effettuata dal giudice, in concreto, che tenga conto della durata temporale del rapporto, delle condizioni economiche dei coniugi, dell’entità del contributo economico del coniuge deceduto e di qualsiasi altro criterio utilizzabile per la quantificazione dell’assegno di mantenimento.
Questa Corte ha, in particolare, affermato che la ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della «durata» dei matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza «more uxorio» non una semplice valenza «correttiva» dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale (Cass., 5268/2020, che si rifà, peraltro, ad un precedente del 2011, Cass. 26358, così massimato: «La ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza “more uxorio” non una semplice valenza “correttiva” dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale», in controversia in cui si contrapponeva, ai fini del riparto della pensione di reversibilità, un matrimonio trentennale, tenuto conto dell’epoca del divorzio, dell’ex coniuge titolare di assegno divorzile e un matrimonio durato pochi mesi del coniuge superstite, ma che era stato preceduto da una lunga convivenza more uxorio ).
In altre pronunce, si è affermato che, ai fini della ripartizione del trattamento di reversibilità, vanno considerati pure l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge, le condizioni economiche dei due aventi diritto e la durata delle rispettive «convivenze prematrimoniali», senza mai confondere, però, la durata delle convivenza con quella del matrimonio, cui si riferisce il criterio legale, né individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso ( Cass. 282/2001, secondo cui «la esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge, può essere assunta dal giudice come elemento della sua valutazione complessiva, ma solo in relazione al suddetto fine perequativo, e non quale indice di per sè giustificativo del computo del relativo periodo ai fini della ripartizione della pensione»; Cass. 4867/2006; Cass., n. 16093/2012; Cass., n.10391/2012: « La ripartizione del trattamento di reversibilità fra ex coniuge e coniuge superstite, va fatta “tenendo conto della durata del rapporto” cioè sulla base del criterio temporale, che, tuttavia, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 419 del 1999, per quanto necessario e preponderante, non è però esclusivo, comprendendo la possibilità di applicare correttivi di carattere equitativo applicati con discrezionalità; fra tali correttivi è compresa la durata dell’eventuale convivenza prematrimoniale del coniuge superstite e dell’entità dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge, senza mai confondere, però, la durata della prima con quella del matrimonio, cui si riferisce il criterio legale, nè individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso», precisandosi, in motivazione, che il criterio temporale, per quanto necessario e preponderante, non sia però esclusivo e che la valutazione del giudice «comprende la possibilità di applicare correttivi ispirati all’equità, così evitando l’attribuzione, da un canto, al coniuge superstite di una quota di pensione del tutto inadeguata alle più elementari esigenze di vita e, dall’altro, all’ex coniuge di una quota di pensione del tutto sproporzionata all’assegno in precedenza goduto»). Così pure in Cass.8623/2020 si ribadisce che « La ripartizione del trattamento di reversibilità, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, deve essere effettuata ponderando, con prudente apprezzamento, in armonia con la finalità solidaristica dell’istituto, il criterio principale della durata dei rispettivi matrimoni, con quelli correttivi, eventualmente presenti, della durata della convivenza prematrimoniale, delle condizioni economiche, dell’entità dell’assegno divorzile» (cfr. anche Cass. 11520/2020, secondo cui « In tema di ripartizione delle quote della pensione di reversibilità tra l’ex coniuge divorziato e quello già convivente e superstite, la considerazione tra gli altri indicatori, della durata delle rispettive convivenze prematrimoniali non comporta che vi debba essere una un’equiparazione tra la convivenza vissuta nel corso di uno stabile legame affettivo e quella condotta nel corso del matrimonio»).
Non tutti tali elementi, peraltro, devono necessariamente concorrere né essere valutati in egual misura, rientrando nell’ambito del prudente apprezzamento del giudice di merito la determinazione della loro rilevanza in concreto (Cass., n. 6272/2004; Cass., n. 26358/2011; Cass., n. 22399/2020; Cass. 14383/2021; Cass. 41960/2021).
6.Venendo quindi alla soluzione della questione di massima diparticolare importanza, il primo motivo di ricorso, con il quale si prospetta che la Corte d’appello abbia trascurato di considerare, quanto al contributo dato al nucleo familiare dalla ex moglie, anche con la messa a disposizione di ricchezze provenienti dalla propria famiglia d’origine, oltre che attraverso il ruolo svolto di casalinga e madre, il periodo (nella specie settennale, dal 1996 al 2003) continuativo e stabile di convivenza prematrimoniale (nell’ambito del quale era nato il figlio, , nel 1998), con una motivazione lacunosa e contra legem, deve essere accolto.
La ricorrente si duole dell’omessa considerazione da parte della Corte d’appello del periodo settennale (dal 1996 al 2003) di convivenza prematrimoniale, nel quale era nato anche il figlio della coppia, intesa come una fase della vita della coppia che ha preceduto senza interruzioni il matrimonio, evidenziando come non vi sarebbero differenze tra il comportamento dei coniugi nella fase prematrimoniale e in quella coniugale, soprattutto con riguardo alle scelte comuni di organizzazione della vita familiare e riparto dei rispettivi ruoli.
6.1.Indubbiamente, permane, nel nostro ordinamento, una differenza fondamentale tra matrimonio e convivenza, anche dopo la disciplina della legge n. 76 del 2016, fondata sulla differenza dei modelli, dato che il matrimonio e, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono ai modelli c.d. «istituzionali», mentre la convivenza di fatto, al contrario, è un modello «familiare non a struttura istituzionale».
Tuttavia, convivenza e matrimonio sono comunque modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale, anche a seguito della cessazione dell’unione istituzionale e dell’unione di fatto.
6.2. Ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile, il criterio individuato dalle Sezioni Unite del 2018, di natura composita ed elastica, risulta decisivo per affrontare anche il tema relativo ai rapporti tra convivenza e matrimonio, atteso che, come chiarito proprio nella citata sentenza n. 18287, «alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo» (cfr. in argomento anche Cass. 32198/2021).
I presupposti dell’assegno divorzile, quali individuati dall’art.5 l.898/1970, come interpretato dalle Sezioni unite nella sentenza n.18287/2018, costituiscono, nel loro complesso, il parametro di riferimento tanto della valutazione relativa all’ an debeatur quanto di quella relativa al quantum debeatur: l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente, prescritto ai fini della prima operazione, deve aver luogo mediante complessiva ponderazione dell’intera storia familiare, in relazione al contesto specifico, e una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, che tenga conto anche del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dello avente diritto, tutto ciò in conformità della funzione non solo assistenziale, ma anche compensativa e perequativa dell’assegno divorzile, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà.
L’interpretazione dell’art. 5, comma 6, alla luce dell’art. 29 della Costituzione – e al modello costituzionale del matrimonio «fondato sui principi di eguaglianza, pari dignità dei coniugi, libertà di scelta, reversibilità della decisione ed autoresponsabilità» – porta ad una «valutazione concreta ed effettiva dell’adeguatezza dei mezzi e dell’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive fondata in primo luogo sulle condizioni economico-patrimoniali delle parti», insieme agli altri indicatori contenuti nella prima parte dell’art. 5, comma 6, proprio al fine di accertare se l’eventuale rilevante disparità della situazione economico patrimoniale sia dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti, in funzione dell’assunzione di un ruolo trainante della famiglia.
Il criterio della durata del matrimonio risulta, come anche evidenziato dalle sezioni Unite nel 2018, «cruciale», con riferimento ai seguenti aspetti: a) la valutazione del contributo che ciascun coniuge, per tutto il periodo in cui l’unione matrimoniale era ancora esistente, ha dato alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell’altro coniuge; b) in relazione all’età del coniuge richiedente e alla conformazione del mercato del lavoro, per considerare le effettive potenzialità professionali e reddituali valutazioni alla fine della relazione matrimoniale. Ne consegue che la durata del matrimonio non assume più rilievo esclusivamente ai fini della quantificazione dell’assegno, come ritenuto in precedenza (anche nei precedenti del 2013/2015 richiamati dal PG), venendo in considerazione tale parametro, unitamente agli altri criteri, anche ai fini dell’accertamento dell’an del relativo diritto all’assegno divorzile.
6.3. Vero che la legge sul divorzio, n. 898 del 1970 (così come, peraltro, la legge n. 76 del 2016), anche in ragione del fatto che al momento in cui la stessa è stata promulgata la convivenza prematrimoniale non così era diffusa socialmente, non si occupa delle ipotesi in cui la coppia passi da una condizione di convivenza al matrimonio.
Tuttavia, la convivenza prematrimoniale è ormai un fenomeno di costume sempre più radicato nei comportamenti della nostra società cui si affianca «un accresciuto riconoscimento – nei dati statistici e nella percezione delle persone – dei legami di fatto intesi come formazioni familiari e sociali di tendenziale pari dignità rispetto a quelle matrimoniali» (così ord. interlocutoria n. 30671).
E costantemente si ripresenta, soprattutto nella materia del diritto di famiglia, l’esigenza che la giurisprudenza si faccia carico dell’evoluzione del costume sociale nella interpretazione della nozione di «famiglia», concetto caratterizzato da una commistione intrinseca di «fatto e diritto», e nell’interpretazione dei vari modelli familiari.
In generale, poi, tra i canoni che orientano l’interpretazione della legge deve annoverarsi anche quello dell’interpretazione storico – evolutiva, «che si aggiunge ai canoni letterale, teleologico e sistematico e, nutrendosi anche del diritto positivo successivo alla disciplina regolatrice della fattispecie, getta sulla stessa una luce retrospettiva capace di disvelarne significati e orientamenti anche differenti da quelli precedentemente individuati» (Cass. Sez Un. 24413/2021, ove si sono anche efficacemente rimarcati i limiti di tolleranza ed elasticità dell’enunciato normativo, che l’attività interpretativa non può superare).
6.4. Non può quindi, all’esito dell’attuale definizione dei presupposti dell’assegno divorzile, escludersi che una convivenza prematrimoniale, laddove protrattasi nel tempo (nella specie, sette anni), abbia «consolidato» una divisione dei ruoli domestici capace di creare «scompensi» destinati a proiettarsi sul futuro matrimonio e sul divorzio che dovesse seguire.
Proprio la scelta della coppia di dare stabilità ulteriore all’unione di fatto attraverso il matrimonio, che rappresenta il fatto generatore della disciplina dell’assegno divorzile, vale a «colorare» e a rendere giuridicamente rilevante quel modello di vita, la convivenza di fatto o more uxorio, adottato nel passato, nel periodo precendente al matrimonio.
Non si tratta, quindi, di introdurre una, non consentita, «anticipazione» dell’insorgenza dei fatti costitutivi dell’assegno divorzile, in quanto essi si collocano soltanto dopo il matrimonio, che rappresenta, per l’appunto, il fatto generatore dell’assegno divorzile, ma di consentire che il giudice, nella verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno al coniuge economicamente più debole, nell’ambito della solidarietà post coniugale, tenga conto anche delle scelte compiute dalla stessa coppia durante la convivenza prematrimoniale, quando emerga una relazione di continuità tra la fase «di fatto» di quella medesima unione, nella quale proprio quelle scelte siano state fatte, e la fase «giuridica» del vincolo matrimoniale. In dottrina, si è sottolineato come i sacrifici professionali e reddituali compiuti da uno dei coniugi, d’accordo con l’altro, nell’interesse della famiglia «non dipendono dall’esistenza tra le parti di un vincolo matrimoniale, ma dalla configurabilità di una vita familiare, tutelata dall’art. 8 CEDU» e, pertanto, dei sacrifici e delle rinunce compiute nel periodo di convivenza precedente al matrimonio o all’unione civile si debba tenere conto nella determinazione dell’assegno di divorzio.
6.5. Non appare decisivo ad escludere il rilievo, ai fini patrimoniali che qui interessano, del periodo di convivenza prematrimoniale, il riferimento alla disciplina dettata dal legislatore nella legge n. 76/2016 (alla mancata previsione di un assegno del tipo di cui all’art.5 l.div. in caso di cessazione della convivenza, salvo quanto pattuito in un eventuale contratto di convivenza), in quanto, nel caso in esame, si tratta di attribuire specifico peso a quel progetto di vita familiare, già attuato in una comunione di vita, di fatto, che si è poi «trasfuso» in un matrimonio.
In ogni caso, tale normativa non è applicabile nella diversa ipotesi in cui la convivenza di fatto non sia cessata, ma sia sfociata nel matrimonio, non trattandosi, in tal caso, di disciplinare gli effetti di un rapporto ormai risoltosi, ma di prendere atto della prosecuzione dello stesso, nel vincolo coniugale, e delle scelte compiute da ciascuno dei conviventi in funzione della costituzione del nucleo familiare, poi formalizzata attraverso il matrimonio, ai fini della disciplina degli effetti della successiva cessazione di quest’ultimo.
Peraltro, in dottrina, si è osservato che, al contrario, proprio il 65° comma della legge del 2016 assume rilievo nel caso che qui interessa, in quanto se la previsione (di un contributo di tipo alimentare alla cessazione della convivenza) dovesse essere intesa come comprensiva anche della ipotesi di una «convivenza che termini in un matrimonio», la stessa risulterebbe inutile, essendo già previsto l’obbligo alimentare tra i coniugi ai sensi dell’art.433 c.c., cosicché da essa si può solo trarre l’indicazione che «anche quella prematrimoniale, come ogni convivenza, è foriera di una solidarietà post – rapporto parametrata alla sua durata».
Non dirimente poi, ai fini che qui interessano, il richiamo alla scelta fatta dal legislatore del 2016 di rimettere all’autonomia delle parti la disciplina dei rapporti patrimoniali reativi alla loro vita in comune, attraverso la sottoscrizione di un contratto di convivenza (art.1, comma 50), considerato che comunque è ivi previsto che il contratto stesso, che ha regolamentato il periodo di convivenza, si risolva con il matrimonio o l’unione civile tra i conviventi o tra un convivente e un’altra persona (art.1 , comma 59).
6.6. Può essere allora anche valorizzato, oltre al principio affermato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 9801 del 2005 (relativo all’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio che si riflette sui rapporti tra le parti anche nella fase, di convivenza, precedente il matrimonio) e al rilievo dato alla convivenza come fonte di diritto ed obblighi nella sentenza n. 32198/2021, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che tiene conto della convivenza prematrimoniale nel giudizio sulla ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge divorziato e il coniuge superstite, al fine di non penalizzare quest’ultimo nei casi nei quali la più lunga durata del primo matrimonio rispetto a quello del secondo sia stata in concreto compensata dal lungo periodo di convivenza precedente al secondo matrimonio.
Non è dirimente il differente riferimento alla «durata del rapporto», presente nel comma 3 dell’art.9 l.div. , rispetto all’espressione «durata del matrimonio», utilizzata dal comma 6 dell’art.5, in quanto le due espressioni si possono sovrapporre, inerendo entrambe le fattispecie al tema del matrimonio inteso come «rapporto» non come atto/vincolo. 6.7.Quanto poi all’argomento speso dal controricorrente, secondo cui dovrebbe essere distinta l’ipotesi della convivenza prematrimoniale tra persone libere da vincoli coniugali (nella quale non vi sarebbero ostacoli all’estensione della durata legale del matrimonio alla convivenza che l’ha preceduto) da quella, che interessa il presente giudizio, in cui la convivenza prematrimoniale avviene in costanza di altro matrimonio di almeno uno dei soggetti conviventi con un terzo, cosicché, poiché il precedente matrimonio costituisce un impedimento al matrimonio o a unione di fatto ex l.76/2016, art.1, comma 36, la convivenza prematrimoniale non potrebbe essere valutata ai fini che qui interessano, è un «non problema».
Anche le Sezioni Unite del 2021 nella sentenza n. 32198, ammettendo la persistenza della componente compensativa dell’assegno divorzile anche successivamente all’instaurazione di una nuova convivenza da parte del beneficiario, hanno reso possibile la configurabilità di una situazione nella quale la stessa persona si trovi a contribuire con il proprio lavoro domestico a due nuclei familiari diversi che presentano parziali punti di contatto.
Orbene, la possibile assunzione di più doveri di solidarietà post-coniugale nasce dalla instaurazione di più nuclei familiari nel tempo non dalla soluzione data alla questione, oggetto del primo motivo di ricorso, della rilevanza o meno del contributo prestato a favore del nucleo familiare in un momento precedente al matrimonio.
Si tratta, al più, di un ostacolo di fatto ma non di tipo giuridico.
Anzi, il rilievo convivenza prematrimoniale ai fini assegno divorzile (per la componente perequativa-compensativa) riguarda, in particolar modo, le convivenze prematrimoniali consolidatesi in un successivo matrimonio tra soggetti che non potevano, come nel caso, sposarsi prima per l’esistenza di impedimento legale ( divieto di contrarre nuove nozze per uno almeno dei due).
In tali casi, la scelta della coppia di contrarre matrimonio non può che essere intesa come volonta’ specifica di consolidare il progetto di vita familiare gia’ attuato, anch’esso caratterizzato da una stabilità affettiva e dall’assunzione di reciproci obblighi di assistenza, con conseguente assunzione piena dei doveri di solidarieta’ post coniugale anche per la fase di convivenza prematrimoniale.
I sacrifici compiuti nella predetta fase assumono un significato preciso e rilevante proprio in quanto ad essa è seguito il matrimonio.
E il rigore della dimostrazione vale ad impedire l’abuso.
Invero, si porrà, semmai, un problema di allegazione e prova dell’effettività del contributo endofamiliare dato alla formazione del patrimonio comune o individuale, durante l’unitaria storia familiare, da parte del coniuge risultato poi economicamente più debole, per inadeguatezza dei mezzi e impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, al momento dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.
6.8. In definitiva, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi, in ragione di un progetto di vita comune, a una convivenza prematrimoniale della coppia, vertendosi, al più, in «fasi di un’unica storia dello stesso nucleo familiare» [si è parlato, in dottrina (a) di una convivenza che si distingue da tutte le altre, in quanto «scrutata retrospettivamente essa quasi muta sostanza e partecipa della natura del matrimonio che l’ha seguita» ovvero (b) del fatto che, nell’ipotesi in cui le nozze siano state precedute da una significativa convivenza prematrimoniale, «la decisione di sposarsi includa anche la volontà di compensare (nel caso di futuro divorzio) i sacrifici effettuati in attuazione di un indirizzo comune già concordato ed attuato per un significativo periodo precedente alle nozze» ovvero ancora della circostanza (c) che « le parti, contraendo un’unione formalizzata, hanno dimostrato la volontà non soltanto di impegnarsi reciprocamente per il futuro, ma anche di dare continuità alla vita familiare pregressa, inglobandone l’organizzazione all’interno delle condizioni di vita del matrimonio o dell’unione civile»], va computato, ai fini dell’assegno divorzile, il periodo della convivenza prematrimoniale solo ai fini della verifica dell’esistenza di scelte condivise dalla coppia durante la convivenza prematrimoniale, che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare sacrifici o rinunce alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio.
Ovviamente, resta necessaria una previa allegazione e prova rigorosa, giovando ribadire che: a) la convivenza prematrimoniale rileverà, ai fini patrimoniali che interessano, ove poi consolidatasi nel matrimonio, se assuma «i connotati di stabilità e continuità», essendo necessario che i conviventi abbiano elaborato « un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio)», dal quale inevitabilmente discendono anche reciproche contribuzioni economiche; b) l’assegno divorzile, nella sua componente compensativa, presuppone un rigoroso accertamento del nesso causale tra l’accertata sperequazione fra i mezzi economici dei coniugi e il «contributo fornito dal richiedente medesimo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali», in quanto solo un rigoroso accertamento del fatto che lo squilibrio, presente al momento del divorzio fra la situazione reddituale e patrimoniale delle parti, sia l’effetto del sacrificio da parte del coniuge più debole a favore delle esigenze familiari può, invece, giustificare il riconoscimento di un assegno perequativo, tendente a colmare tale squilibrio, mentre in assenza della prova di questo nesso causale, l’assegno può essere solo eventualmente giustificato da una esigenza assistenziale, la quale tuttavia consente il riconoscimento dell’assegno solo se il coniuge più debole non ha i mezzi sufficienti per un’esistenza dignitosa e versi in situazione di oggettiva impossibilità di procurarseli; c) sarà necessario verificare poi l’effettivo nesso tra le scelte compiute nella fase di convivenza prematrimoniale e quelle compiute nel matrimonio.
6.9. Nella fattispecie in esame, la Corte d’appello, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile dovuto dall’ex marito alla ricorrente, non ha effettivamente considerato, nella valutazione del contributo al ménage familiare dato dalla , anche con il ruolo svolto di casalinga e di madre, per come allegato, il periodo (dal 1996 al 2003), continuativo e stabile, di convivenza prematrimoniale (nell’ambito del quale era nato anche un figlio della coppia), avendo incentrato il giudizio, oltre che sulle disponibilità economiche del soggetto onerato, solo sulla «durata legale del matrimonio».
Deve essere quindi enunciato il seguente principio di diritto: « Ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi dell’art. 5, comma 6, l.n. 898/1970, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre cheassistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase «di fatto» di quella medesima unione e la fase «giuridica» del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio».
7.Il secondo motivo del ricorso resta assorbito per effettodell’accoglimento del primo motivo, involgendo comunque un’asserita erronea valutazione anche della funzione compensativa dell’assegno divorzile.
8.Il terzo motivo, in punto di non corretta determinazione delcontributo paterno al mantenimento del figlio, maggiorenne, non autosufficiente economicamente, è inammissibile per difetto di specificità.
Si desume, invero, in maniera del tutto generica, che la somma riconosciuta (€ 400,00 mensili oltre il 100% delle spese straordinarie a carico del padre) sarebbe «sottodimensionata» rispetto alle esigenze del figlio.
La censura involge, peraltro, una rivalutazione fattuale puramente di merito.
9.Per quanto sopra esposto, in accoglimento del primo motivo diricorso, assorbito il secondo e inammissibile il terzo, va cassata la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Bologna.
In considerazione della natura e novità delle questioni di diritto trattate, vanno integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte a Sezioni Unite accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo e inammissibile il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione; dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Conclusione
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 26 settembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2023
Allegati:
Ordinanza interlocutoria,18 ottobre 2022, n. 30671, per SS.UU, 18 dicembre 2023, n. 35385, in tema di assegno divorzile
SS.UU, 18 dicembre 2023, n. 35385, in tema di assegno divorzile
In tema di unione civile – SS.UU, 27 dicembre 2023, n. 35969
avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste n. 336/20, depositata il 22 luglio 2020.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 settembre 2023 dal Consigliere Guido Mercolino;
uditi gli Avv. Maria Antonia Pili e Anna D’Agostino;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alberto CARDINO, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del secondo e del terzo motivo del ricorso principale, con l’assorbimento degli altri motivi e del ricorso incidentale.
FATTI DI CAUSA
1. G. M. convenne in giudizio C. L., chiedendo lo scioglimento dell’unione civile con la stessa costituita il 17 dicembre 2016, con la esclusione dell’obbligo di corrispondere un assegno alla convenuta, avuto riguardo all’autosufficienza economica della stessa.
Si costituì la C. L. , e non si oppose allo scioglimento dell’unione, chiedendo in via riconvenzionale il riconoscimento dell’assegno, in considerazione dello squilibrio patrimoniale e reddituale esistente con l’attrice e dell’oggettivo peggioramento delle sue condizioni economiche.
1.1. All’esito della comparizione delle parti, il Presidente del Tribunale di Pordenone, con ordinanza del 13 marzo 2019, riconobbe alla C. L. un assegno provvisorio di euro 350,00 mensili, confermato dalla Corte d’appello di Trieste con ordinanza del 17 luglio 2019, a seguito del reclamo proposto dalla G. M.
1.2. Il Tribunale di Pordenone, dopo aver pronunciato lo scioglimento dell’unione con sentenza non definitiva del 13 giugno 2019, riconobbe alla C. L., con sentenza definitiva del 29 gennaio 2020, un assegno di euro 550,00 mensili, richiamando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di assegno divorzile ed attribuendo rilievo assorbente alla funzione compensativa-risarcitoria, consistente nell’indennizzare l’avente diritto per la perdita di chances determinata dalla rinuncia a migliori opportunità di lavoro, in funzione dell’unità e dello svolgimento della vita familiare.
2. L’impugnazione proposta dalla G.M. avverso la sentenza definitiva è stata accolta dalla Corte d’appello di Trieste, che con sentenza del 22 luglio 2020 ha rigettato la domanda di riconoscimento dell’assegno proposta dalla C. L. e la domanda di restituzione delle somme corrisposte dalla G. M. nel corso del giudizio.
A fondamento della decisione, la Corte ha dichiarato innanzitutto utilizzabile tutta la documentazione depositata dalla convenuta nel giudizio di primo grado, ritenendone legittima la produzione, a tutela del diritto di difesa, in considerazione della mancata concessione dei termini di cui all’art. 183, sesto comma, cod. proc. civ. da parte del giudice istruttore.
Nel merito, ha reputato irrilevante il pregiudizio economico asseritamente subìto dalla C. L. per effetto della scelta di privilegiare il legame affettivo con la compagna e del conseguente trasferimento della sua residenza da Mira (VE), dove viveva con i genitori, a Pordenone, dove aveva intrapreso la convivenza con la G. M., nonché delle dimissioni rassegnate dal lavoro svolto a Venezia presso la [ omissis ] trattandosi di eventi verificatisi in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76, non avente efficacia retroattiva. Ha ritenuto comunque non provato il predetto pregiudizio, osservando che l’accettazione da parte della C. L. dell’incarico di assistente tecnico a tempo determinato presso l’Istituto superiore [ omissis ] le aveva consentito di migliorare la sua posizione in graduatoria ai fini dell’assunzione a tempo indeterminato, avvenuta il 1° settembre 2018, quando il lavoro interinale da lei precedentemente svolto a Venezia era già terminato, ed ella percepiva soltanto l’indennità di disoccupazione. Precisato che le dimissioni erano state rassegnate il 27 ottobre 2015, mentre il predetto lavoro era destinato a cessare il 31 dicembre 2015, ha escluso che, a seguito della cessione del ramo di azienda da parte della [ omissis ] alla [ omissis ], la C. L. avesse la possibilità di essere assunta a tempo indeterminato, poiché ella non era mai stata dipendente della società cedente, ma aveva prestato lavoro presso la stessa in virtù di un contratto di somministrazione di lavoro concluso con [ omissis ] e il contratto di cessione prevedeva il trasferimento dei soli rapporti di lavoro intrattenuti dalla società cedente con i propri dipendenti. Ha ritenuto altresì irrilevante la spesa sopportata dalla convenuta per il pagamento del canone di locazione di un alloggio, non essendo la stessa riconducibile alla scelta della coppia di convivere a Pordenone, ma trattandosi di un costo che ella avrebbe dovuto comunque sopportare in conseguenza dell’abbandono della casa dei genitori.
La Corte ha escluso infine il diritto della G. M. alla restituzione delle somme versate a titolo di assegno liquidato dall’ordinanza presidenziale e dalla sentenza di primo grado, non essendo stato provato che le stesse fossero state utilizzate dalla C. L. per finalità diverse dalla soddisfazione delle sue esigenze di vita quotidiana.
3. Avverso la predetta sentenza la C. L. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrati anche con memoria. La G. M. ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale, articolato in due motivi, ed anch’esso illustrato con memoria, al quale la C. L. ha resistito a sua volta con controricorso.
Con ordinanza del 27 gennaio 2003, la Prima Sezione civile, investita della decisione della controversia, ha disposto la trasmissione degli atti alla Prima Presidente, che ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite, ai fini della risoluzione di una questione di massima di particolare importanza, avente ad oggetto la possibilità di valutare, ai fini del riconoscimento dell’assegno di cui all’art. 5, sesto comma, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nel caso di unione civile costituita ai sensi dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016 e della quale sia stato pronunciato lo scioglimento, i fatti intercorsi tra le parti anteriormente all’instaurazione dell’unione civile.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 101, secondo comma, e 183, quarto e sesto comma, cod. proc. civ., osservando che, nel ritenere non provata la perdita di chances, in virtù della mancata dimostrazione della sussistenza di un rapporto di lavoro diretto con la [ omissis ] e della conseguente possibilità dell’assunzione a tempo indeterminato da parte della [ omissis ], la Corte territoriale ha conferito rilievo a una questione di fatto mai sollevata dalle parti né rilevata dal Tribunale, senza stimolare preventivamente il contraddittorio al riguardo. Premesso che il predetto pregiudizio era stato ritenuto provato dal Tribunale, il quale aveva negato la concessione dei termini di cui all’art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., in tal modo impedendole di dedurre mezzi istruttori, sostiene di aver ottenuto dalla [ omissis ] una dichiarazione, dalla quale si evince che in occasione della cessione del ramo di azienda tutti i dipendenti assunti direttamente o tramite agenzia di lavoro interinale erano stati convocati per un colloquio individuale, ai fini dell’inserimento nell’organico dell’azienda, cui essa ricorrente aveva rinunciato per motivi personali e logistici.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016, dell’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 e dell’art. 11, primo comma, disp. prel. cod.civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto irrilevanti, ai fini del riconoscimento dell’assegno, gli eventi verificatisi in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 76 cit., senza considerare che gli elementi comprovanti la perdita di chances da lei subìta costituivano meri presupposti di fatto, valutabili indipendentemente dalla loro collocazione temporale.
3. Con il terzo motivo, la ricorrente insiste sulla violazione e la falsa applicazione dell’art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016 e dell’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970, affermando che, nell’escludere la rilevanza dei predetti eventi, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della circostanza che, anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 76 cit., era preclusa alle coppie dello stesso sesso la possibilità di costituire un’unione avente effetti legali. Premesso che la predetta esclusione si pone in contrasto con l’art. 3 Cost. e con l’art. 21 della CDFUE, comportando una disparità di trattamento rispetto alle coppie di sesso diverso, sostiene che una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della medesima legge impone di conferire rilievo anche alle scelte operate dai contraenti nel periodo anteriore, qualora le stesse producano effetti sull’applicazione delle nuove norme. Aggiunge che nella specie la costituzione dell’unione civile aveva rappresentato la formalizzazione di un rapporto già connotato da stabilità affettiva, convivenza ed assistenza reciproca, fin dal momento in cui essa ricorrente si era trasferita a Pordenone presso la G. M., abbandonando i rapporti affettivi, sociali e lavorativi precedentemente intrattenuti.
4. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rilevando che, nel negare il riconoscimento dell’assegno, la Corte d’appello non ha tenuto conto della funzione non solo compensativa-risarcitoria, ma anche assistenziale dello stesso, avendo omesso di valutare lo squilibrio reddituale e patrimoniale esistente tra le parti e l’inidoneità del suo reddito a garantirle una vita dignitosa. Sostiene in particolare che la sentenza impugnata non ha tenuto conto dei costi che essa ricorrente ha dovuto sopportare per effetto della cessazione della convivenza con la G. M., avendo dovuto affrontare, a causa della mancanza di un’abitazione, la spesa per il reperimento di un alloggio a Pordenone, laddove, prima dell’instaurazione della convivenza, poteva fruire dell’abitazione messa a sua disposizione dai genitori in Mira.
5. Con il primo motivo del ricorso incidentale, la controricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 116 e 132 c.p.c. e degli artt. 2033 e 2034 cod.civ., osservando che, nell’escludere la ripetibilità delle somme da lei versate in esecuzione dell’ordinanza presidenziale e della sentenza di primo grado, la Corte territoriale è incorsa in contraddizione, avendo per un verso negato l’inadeguatezza delle risorse economiche di cui disponeva la C. L. e per altro verso ritenuto non provato che le somme versate fossero state destinate a fini diversi dalla soddisfazione delle sue esigenze di vita quotidiana.
6. Con il secondo motivo, la controricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver disposto la compensazione delle spese processuali, in considerazione della novità della questione trattata, senza tenere conto della coincidenza della stessa con quelle ordinariamente esaminate nei giudizi aventi ad oggetto lo scioglimento del matrimonio, della tendenziale parificazione tra la disciplina dettata per le unioni omosessuali e quella prevista per le unioni eterosessuali e dell’identità dei principi applicati.
7. Il primo motivo del ricorso principale, con cui si fa valere la violazione del principio del contraddittorio, in relazione alla mancata concessione della possibilità di controdedurre in ordine all’insussistenza del pregiudizio derivante dalla perdita di chances, è infondato.
Nell’affermare la mancanza dei presupposti per l’assunzione a tempo indeterminato della ricorrente da parte della [ omissis ] , cessionaria del ramo di azienda della [ omissis ] , la Corte d’appello non ha affatto rilevato d’ufficio una questione non sollevata dalle parti e idonea a modificare il quadro fattuale della controversia, ma si è limitata a dare atto di una circostanza emergente dalla documentazione prodotta dalla stessa ricorrente (la natura meramente indiretta del rapporto intercorrente tra la [ omissis ] e la C. L., che operava alle dipendenze di un’agenzia di lavoro interinale), desumendone l’insussistenza del pregiudizio da quest’ultima lamentato in relazione al trasferimento della sua residenza da Venezia a Pordenone ed alla conseguente risoluzione del rapporto di lavoro intrattenuto con la [ omissis ] . Non può quindi ritenersi configurabile, nel caso in esame, una violazione dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ., la quale, postulando il rilievo d’ufficio di una questione che implichi la valorizzazione di fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto azionato, che avrebbero dovuto essere allegati dalle parti, non può ritenersi sussistente nell’ipotesi in cui, come nella specie, il giudice si sia limitato ad esercitare il proprio prudente apprezzamento in ordine al materiale probatorio acquisito agli atti, accertando che la situazione di fatto risulta diversa da quella prospettata a sostegno delle rispettive domande o eccezioni (cfr. Cass., Sez. VI, 6 novembre 2013, n. 24861).
Nel lamentare la mancata concessione della possibilità di provare la sussistenza dei predetti presupposti, a causa dell’omessa fissazione dei termini di cui all’art. 183 cod. proc. civ. da parte del giudice di primo grado, la ricorrente non considera d’altronde che, a seguito della sentenza non definitiva con cui fu pronunciato lo scioglimento dell’unione civile, il Tribunale fissò un apposito termine per la produzione di documenti, cui la ricorrente provvide in parte tempestivamente, in parte soltanto con la comparsa conclusionale. Poiché, ciò nonostante, la Corte d’appello ha ritenuto ammissibile l’intera documentazione prodotta dalle parti, a tutela del diritto di difesa, deve escludersi che la mancata fissazione dei termini di cui all’art. 183 cod. proc. civ. abbia arrecato alcun pregiudizio alla ricorrente, la cui documentazione, ivi compresa quella tardivamente prodotta, ha costituito interamente oggetto di valutazione da parte della sentenza impugnata.
8. Il secondo ed il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente, in quanto volti a far valere, sotto profili diversi, l’omessa valutazione del periodo di convivenza di fatto anteriore alla costituzione dell’unione civile, sono invece fondati.
Nel disporre la trasmissione degli atti alla Prima Presidente, la Prima Sezione civile ha osservato che le censure proposte con il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale involgono la soluzione della questione, avente carattere prioritario, riguardante la rilevanza, ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno in favore del componente dell’unione civile ai sensi del combinato disposto dell’art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016 e dell’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970, di circostanze fattuali anteriori all’entrata in vigore della legge n. 76 cit., idonee ad incidere sull’assegno divorzile in ragione delle diverse componenti (assistenziale e perequativo-compensativa) assegnate a tale contributo dal diritto vivente consolidatosi a partire dall’intervento nomofilattico delle Sezioni unite (cfr. Cass., Sez. un., 11 luglio 2018, n. 18287). Ha rilevato infatti che, secondo la ricorrente, le scelte da lei compiute anteriormente alla costituzione dell’unione civile per favorire la prosecuzione del rapporto affettivo già instaurato con la controricorrente, in quanto incidenti sulla sua situazione economica, dovrebbero essere tenute in conto ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno, sia perché la posteriorità dell’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 non impedirebbe la valutazione di elementi fattuali pregressi, sia perché un’interpretazione di segno contrario comporterebbe effetti palesemente discriminatori a danno delle coppie omosessuali, alle quali, in epoca anteriore all’entrata in vigore della predetta legge, non era consentito di formalizzare giuridicamente un’unione stabile.
Tale questione, ad avviso del Collegio rimettente, dev’essere inquadrata nella situazione determinatasi a seguito della sentenza della Corte EDU 21 luglio 2015, Oliari c. Italia, la quale affermò che lo Stato italiano aveva violato l’art. 8 della CEDU, per non aver ottemperato all’obbligo positivo di garantire che i ricorrenti disponessero di uno specifico quadro giuridico che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle unioni omosessuali, in tal modo aprendo la strada all’approvazione della legge sulle unioni civili, sollecitata anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 138 d[e]l 2010. Alla stregua di tale contesto, occorre innanzitutto verificare se il rinvio alla disciplina dell’assegno divorzile, contenuto nell’art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016, debba essere inteso nel senso che il legislatore abbia voluto rapportare gli effetti patrimoniali dell’unione unicamente al periodo in cui la stessa si è svolta, deliberatamente tralasciando tutto ciò che ha riguardato il periodo antecedente, pur se caratterizzato dalla preesistenza di una relazione affettiva, oppure nel senso che il legislatore non abbia voluto prendere in considerazione tale aspetto, lasciando all’interprete la valutazione in ordine agli effetti della nuova norma attraverso il rinvio a quella dettata in materia di divorzio. Occorre altresì stabilire se la normativa sopravvenuta consenta di valorizzare i fatti verificatisi prima della sua entrata in vigore, conformemente all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il principio di irretroattività non esclude l’applicabilità della legge ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o venute in essere dopo la sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando gli stessi, ai nuovi fini, debbano essere presi in considerazione in sé stessi, indipendentemente dal collegamento con il fatto che li ha generati. Occorre infine valutare se l’interpretazione che si riterrà di adottare possa produrre un effetto contrario alla protezione offerta dalla CEDU, risolvendosi in una discriminazione a danno dei medesimi soggetti che la nuova legge intende tutelare, attraverso la limitazione dei relativi effetti al periodo successivo alla sua entrata in vigore.
9. Per una corretta impostazione delle questioni sollevate dall’ordinanza interlocutoria, occorre muovere dall’art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016, che nel disciplinare lo scioglimento delle unioni civili dichiara applicabili, in quanto compatibili, gli artt. 4, 5, primo comma, e dal quinto all’undicesimo comma, 8, 9, 9-bis, 10, 12-bis, 12-ter, 12-quater, 12-quinquies e 12-sexies della legge n. 898 del 1970, nonché le disposizioni di cui al Titolo II del libro quarto del codice di procedura civile ed agli artt. 6 e 12 del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162. Tra le norme richiamate, viene in rilievo, nel caso in esame, il sesto comma dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, il quale prevede, in riferimento al divorzio, che «il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».
9.1. Nelle sue conclusioni, il Procuratore generale ha sostenuto che il riferimento alla durata del matrimonio, contenuto nell’art. 5, sesto comma, cit., non può considerarsi idoneo a giustificare l’estensione della valutazione finalizzata al riconoscimento dell’assegno al periodo di convivenza anteriore alla costituzione dell’unione civile, non trattandosi di un presupposto previsto per l’attribuzione dell’assegno divorzile, ma di un criterio incidente esclusivamente sulla sua quantificazione, e rilevante, in particolare, sotto il profilo perequativo-compensativo, nel senso che, al di fuori delle ipotesi in cui la durata del rapporto sia stata talmente breve da impedire l’instaurazione di un’effettiva comunione materiale e spirituale, tale elemento può venire in considerazione esclusivamente ai fini della valutazione del sacrificio delle aspettative professionali di uno dei coniugi, eventualmente derivante da scelte di vita concordate, volte a privilegiare il suo apporto alla vita familiare. Ha aggiunto che un ampliamento in via interpretativa dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile si porrebbe in contrasto non solo con la tassatività della relativa elencazione, ma anche con l’art. 1, comma sessantacinquesimo, della legge n. 76 del 2016, il quale prende in considerazione l’esistenza di una comunione di vita extramatrimoniale ai soli fini del riconoscimento di un assegno temporaneo e di natura meramente alimentare, in favore del convivente di fatto che versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, e con il comma cinquantesimo del medesimo articolo, che rimette ai conviventi di fatto la scelta di disciplinare contrattualmente gli aspetti patrimoniali del rapporto, concordando la ripartizione dei ruoli e le rispettive contribuzioni, anche in funzione di una possibile crisi della convivenza.
9.2. La predetta ricostruzione dei presupposti e dei criteri di liquidazione dell’assegno divorzile non risulta tuttavia pienamente corrispondente al quadro emergente dalla giurisprudenza di legittimità, assegnando alla durata del matrimonio una portata recessiva, quanto meno ai fini dell’attribuzione dello assegno, che non trova riscontro nei principi enunciati dalle più recenti pronunce di queste Sezioni unite.
In proposito, pare opportuno richiamare le considerazioni svolte nella sentenza dell’11 luglio 2018, n. 18287, che, nel comporre il contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità relativamente all’individuazione dei criteri di attribuzione e determinazione dell’assegno divorzile, è pervenuta al superamento non solo dell’orientamento precedentemente consolidatosi, che assegnava al contributo in questione una funzione eminentemente assistenziale, individuandone il presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge istante, da intendersi come insufficienza degli stessi a garantire la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e relegando gli altri parametri previsti dalla prima parte dell’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 al ruolo di semplici criteri per la determinazione del quantum (cfr. per tutte Cass., Sez. un., 29 novembre 1990, n. 11490), ma anche dell’orientamento successivamente manifestatosi, che pur avendo sostituito il pregresso tenore di vita del nucleo familiare con la mancanza di autosufficienza economica dell’istante, quale parametro di riferimento per la valutazione dell’inadeguatezza dei mezzi, aveva confermato che soltanto all’esito di tale valutazione potevano essere presi in considerazione gli altri criteri, in funzione esclusivamente determinativa ed ampliativa del quantum (cfr. Cass., Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504). Nella predetta sentenza, queste Sezioni unite hanno infatti abbandonato la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, in favore di un’interpretazione dell’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 ritenuta più coerente con i principi costituzionali di uguaglianza, pari dignità dei coniugi, libertà di scelta, reversibilità della decisione ed autoresponsabilità: ribadito il carattere intrinsecamente relativo del parametro della inadeguatezza, hanno affermato che l’applicazione della norma richiede una valutazione fondata innanzitutto sulle condizioni economico-patrimoniali delle parti, da collegare causalmente con gli altri indicatori previsti dalla prima parte dell’art. 5, sesto comma, al fine di accertare se l’eventuale squilibrio esistente all’atto dello scioglimento del vincolo dipenda dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti, in funzione dell’assunzione di un ruolo trainante endofamiliare; nell’ambito di tale verifica, è stato riconosciuto un ruolo di cruciale importanza alla durata del rapporto, quale fattore di valutazione del contributo fornito da ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e di quello dell’altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità professionali e reddituali sussistenti al momento della cessazione del vincolo (cfr., nel medesimo senso, Cass., Sez. I, 23 gennaio 2019, n. 1882). Tale fattore è destinato dunque ad operare non soltanto in senso limitativo, escludendo il diritto all’assegno o consentendone la riduzione al di sotto del livello correlato alla valutazione comparativa tra i redditi e le sostanze dei coniugi, ma anche in senso ampliativo, giustificandone il riconoscimento anche a fronte dell’autosufficienza economica dell’istante, ove lo squilibrio economico-patrimoniale rilevabile all’epoca della cessazione del rapporto appaia causalmente riconducibile alle scelte compiute in funzione della costituzione del nucleo familiare e della soddisfazione delle esigenze comuni e di quelle dell’altro coniuge.
Il risalto conferito alla durata del vincolo ed alle scelte compiute dai coniugi, strettamente collegato proprio al riconoscimento della funzione non solo assistenziale, ma anche perequativa-compensativa dell’assegno divorzile, comporta un’indubbia valorizzazione del profilo fattuale del rapporto familiare, che ha trovato seguito in altre pronunce di questa Corte, prima tra tutte quella che, in tema di divorzio, ha affermato che il riconoscimento della efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili, ma prima che sia divenuta definitiva la successiva decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di divorzio, e non ne impedisce pertanto la prosecuzione ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno (cfr. Cass., Sez. un., 31 marzo 2021, n. 9004): premesso infatti che il fondamento giuridico dell’obbligo di corrispondere l’assegno deve essere individuato «nella constatazione dell’intervenuta dissoluzione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi e dell’impossibilità di ricostituirla, nonché della necessità di un riequilibrio tra le condizioni economico-patrimoniali dei coniugi», è stato precisato che «tale accertamento non inerisce allo atto costitutivo del vincolo coniugale, ma allo svolgimento di quest’ultimo nella sua effettività, contrassegnata dalle vicende concretamente affrontate dai coniugi come singoli e dal nucleo familiare nel suo complesso, anche nella loro dimensione economica, la cui valutazione trova fondamento, a livello normativo, nei criteri indicati dall’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970».
La valorizzazione delle concrete modalità di svolgimento della vita familiare comporta indubbiamente un ridimensionamento della rilevanza esclusiva attribuita alla durata legale del matrimonio, quale criterio di selezione delle vicende da prendere in considerazione ai fini del riconoscimento e della quantificazione dell’assegno, aprendo la strada ad una più ampia valutazione dei rapporti intercorsi tra i coniugi, nell’ambito della quale occorre tenere conto delle scelte da questi ultimi compiute in funzione della realizzazione di una comunione materiale e spirituale non solo in costanza di matrimonio, ma anche anteriormente all’instaurazione del vincolo coniugale, ove le stesse appaiano idonee ad incidere sulla concreta ripartizione dei ruoli all’interno della famiglia, nonché, per il carattere duraturo delle loro conseguenze e per il momento in cui si verifica lo scioglimento del matrimonio, a proiettare i loro effetti anche sulla situazione economico-patrimoniale di ciascuno dei coniugi in epoca successiva. Tale allargamento della prospettiva trova d’altronde giustificazione nella constatazione dei mutamenti intervenuti nella realtà sociale, caratterizzata ormai da un’ampia diffusione di forme più o meno stabili di convivenza di fatto, quale esperienza di vita prodromica all’instaurazione del vincolo coniugale, e dalla conseguente anticipazione delle predette scelte al periodo di tempo anteriore alla celebrazione del matrimonio, la quale viene pertanto a conferire, in un numero crescente di casi, un crisma formale ad un’unione familiare già costituitasi e consolidatasi nei fatti, magari anche con la nascita di figli, la cui successiva dissoluzione non consente di trascurare, nella regolazione dei relativi effetti economici, le rinunce ed i sacrifici compiuti dalle parti in vista del perseguimento di obiettivi comuni e l’apporto da ciascuna di esse fornito alla realizzazione delle aspirazioni individuali ed alla formazione e all’accrescimento del patrimonio dell’altra, nonché i benefici che quest’ultima ne ha tratto in termini sia personali che economico-professionali.
9.3. Tale processo di emersione della convivenza di fatto, quale modello familiare non necessariamente alternativo all’unione fondata sul vincolo matrimoniale, ma ad essa variamente collegato, ha trovato riconoscimento anche in una recente pronuncia di queste Sezioni unite che, nell’esaminare gli effetti della costituzione di un nuovo nucleo familiare ai fini della persistenza dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile, in caso di scioglimento di un precedente matrimonio, ha già avuto modo di evidenziare la natura composita della realtà sociale (caratterizzata dalla coesistenza di modelli familiari diversi, la cui pari dignità, fondata sulla Costituzione, è stata ritenuta meritevole di tutela, indipendentemente dall’esistenza di un vincolo coniugale) e la conseguente esigenza di una disciplina più attuale e maggiormente satisfattiva degli interessi coinvolti nella regolamentazione delle ricadute patrimoniali della crisi coniugale (cfr. Cass., Sez. un., 5 novembre 2021, n. 32019). Pur essendo stato confermato che la situazione di convivenza non è pienamente assimilabile al matrimonio, né sotto il profilo della stabilità né sotto quello delle tutele offerte al convivente sia nella fase fisiologica che in quella patologica del rapporto, si è riconosciuto che, in quanto «espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole, cui corrisponde anche un’assunzione di responsabilità» verso il partner e il nucleo familiare, l’instaurazione di una stabile convivenza comporta la formazione di un nuovo progetto di vita con il compagno o la compagna, «dai quali si ha diritto di pretendere, finché permanga la convivenza, un impegno dal quale possono derivare contribuzioni economiche che non rilevano più per l’ordinamento solo quale adempimento di un’obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo la regolamentazione normativa delle convivenze di fatto (come attualmente previsto dall’art. 1, comma trentasettesimo, della legge n. 76 del 2016), anche l’adempimento di un reciproco e garantito dovere di assistenza morale e materiale»: per tale ragione, si è ritenuto che l’instaurazione di una stabile convivenza da parte dell’ex coniuge avente diritto all’assegno divorzile comporti l’estinzione, anche per il futuro, del diritto alla componente assistenziale di tale contributo, anche se il nuovo nucleo familiare di fatto abbia un tenore di vita non paragonabile al precedente, fermo restando il diritto alla componente compensativa, a meno che la stessa non abbia trovato già soddisfazione all’interno del matrimonio, con la scelta del regime patrimoniale o con gli accordi intervenuti al momento del divorzio.
Sotto un diverso profilo, già da tempo la giurisprudenza di legittimità ha preso in considerazione la possibilità di tenere conto della divergenza tra la durata legale del vincolo coniugale e quella della convivenza effettiva (oltre che della parziale sovrapposizione nel tempo tra il rapporto matrimoniale e la costituzione di un nuovo nucleo familiare), ai fini della ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge divorziato ed il coniuge superstite, ai sensi dell’art. 9, terzo comma, della legge n. 898 del 1970: com’è noto, infatti, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 419 del 1999 e dell’ordinanza n. 491 del 2000, con cui fu dichiarata infondata la questione di legittimità della predetta disposizione, nella parte in cui prevedeva, quale criterio di ripartizione, la «durata del rapporto», questa Corte ha ammesso la possibilità di prendere in considerazione ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali il periodo di convivenza prematrimoniale coevo al periodo di separazione che precede il divorzio, ancorché in tale lasso temporale permanga il vincolo coniugale (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. I, 23 luglio 2021, n. 21247; Cass., Sez. lav., 28 aprile 2020, n. 9263; Cass., Sez. VI, 26 febbraio 2020, n. 5268). Muovendo dall’affermazione del Giudice delle leggi, secondo cui la predetta locuzione impone di tenere conto dell’elemento temporale, la cui valutazione non può mai mancare, ma non attribuisce allo stesso una rilevanza esclusiva, tale da ridurre la ripartizione ad un mero calcolo aritmetico, consentendo invece di prendere in considerazione altre circostanze analoghe a quelle da valutare per la definizione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi divorziati, e pur ribadendosi la diversità tra la famiglia di fatto e quella fondata sul matrimonio, si è riconosciuta alla convivenza more uxorio non una semplice valenza correttiva dei risultati derivanti dall’applicazione del predetto criterio, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale.
9.4. Può quindi concludersi che nella giurisprudenza di legittimità risulta già ampiamente presente il riconoscimento dell’unione di fatto quale modello di relazione familiare dalla cui instaurazione scaturiscono a carico dei conviventi obblighi di solidarietà morale e materiale destinati a riflettersi anche su quelli derivanti dal matrimonio, non solo nel senso di determinare l’estinzione o l’affievolimento del diritto all’assegno, in caso di coesistenza dei due rapporti, ma anche nel senso di giustificare una diversa valutazione della durata del vincolo coniugale, ove la costituzione dello stesso abbia fatto seguito, senza soluzione di continuità, ad un periodo di convivenza avente connotati di stabilità tali da consentire di ritenere che il matrimonio abbia rappresentato la formalizzazione di un rapporto già consolidato nella sua effettività.
Quanto poi alla possibilità di estendere gli esiti di tale approccio ermeneutico alle unioni civili, non merita consenso la tesi sostenuta nelle conclusioni del Procuratore generale, secondo cui, nel caso in cui la costituzione dell’unione sia stata preceduta da un periodo di stabile convivenza, l’estensione a quest’ultima della valutazione finalizzata al riconoscimento dell’assegno dovrebbe ritenersi preclusa dal comma sessantacinquesimo dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016, il quale, nel disciplinare la cessazione della convivenza di fatto, limita l’obbligo di solidarietà dell’ex convivente alla corresponsione degli alimenti in favore dell’altro convivente che versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento.
Tale disposizione, dalla quale il Pubblico Ministero ritiene condivisibilmente di poter desumere la volontà del legislatore di escludere qualsiasi equiparazione della convivenza di fatto non solo rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, ma anche rispetto all’unione civile, non è applicabile alla fattispecie in esame, riferendosi a quella, radicalmente diversa, in cui, indipendentemente dalle eventuali intenzioni dei conviventi, la convivenza di fatto si concluda senza che si sia proceduto alla formalizzazione del vincolo: altro è, infatti, il caso in cui il nucleo familiare costituito in via di fatto si dissolva per effetto del venir meno della comunione materiale e spirituale di vita instauratasi tra i conviventi, i quali scelgano di non dare ulteriore seguito alla loro relazione affettiva, altro è quello in cui tale comunione permanga ed anzi si rafforzi, per effetto della scelta consapevole e volontaria dei conviventi di conferire alla loro relazione una veste formale, fonte di conseguenze diverse in caso di successivo scioglimento dell’unione. Come correttamente osservato in dottrina, la convivenza che sfoci nel matrimonio (ma il ragionamento non potrebbe essere diverso in riferimento a quella che conduca alla costituzione di un’unione civile) non può essere considerata come tutte le altre, in quanto, guardandola in modo retrospettivo, partecipa della natura del vincolo che l’ha seguita, la cui assunzione testimonia la volontà delle parti non solo d’impegnarsi reciprocamente per il futuro, a fronte dell’intrinseca precarietà del mero rapporto di fatto, ma anche di dare continuità alla vita familiare pregressa, inglobandone l’organizzazione all’interno delle condizioni di vita del matrimonio o dell’unione civile.
Per analoghe ragioni, deve ritenersi inconferente il richiamo ai commi cinquantesimo e cinquantaduesimo, lett. b), dell’art. 1 cit., che consentono ai conviventi di fatto di disciplinare con un apposito contratto i rapporti di fatto relativi alla loro vita in comune e le modalità di contribuzione alle relative necessità, in relazione alle rispettive sostanze e alla loro capacità di lavoro professionale o casalingo: la mera circostanza che, in mancanza di una regolamentazione estesa anche agli aspetti economico-patrimoniali di una possibile crisi del nucleo familiare, l’accordo raggiunto tra le parti in ordine alla ripartizione dei ruoli all’interno del nucleo familiare ed alle rispettive contribuzioni sia destinato a perdere efficacia in caso di cessazione della convivenza, non consente di ritenere che i predetti profili risultino irrilevanti anche in caso di prosecuzione della stessa sotto la veste formale del matrimonio o dell’unione civile, soprattutto qualora, come accade normalmente, alla formalizzazione del rapporto non abbiano fatto riscontro significativi mutamenti nell’organizzazione familiare e nelle condizioni di vita dei conviventi.
9.5. L’ultimo aspetto della questione sollevata dall’ordinanza interlocutoria riguarda la possibilità di tenere conto, ai fini del riconoscimento dell’assegno in caso di scioglimento dell’unione civile, del periodo di convivenza che ne abbia preceduto la costituzione, ove lo stesso risalga in tutto o in parte ad epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016.
Non può condividersi, in proposito, la tesi sostenuta nella sentenza impugnata, e fatta propria anche dal Procuratore generale, secondo cui, in assenza di una norma transitoria volta ad attribuire efficacia retroattiva alla disciplina introdotta dalla legge n. 76 cit., il riconoscimento della rilevanza del periodo di convivenza anteriore alla sua entrata in vigore comporterebbe una modificazione ex post della normativa previgente, in quanto, implicando l’attribuzione di conseguenze giuridiche ad un fatto che, ai sensi della disciplina in vigore nel momento in cui si è verificato, era considerato neutro ed improduttivo di effetti, si tradurrebbe nell’individuazione di una fonte di obbligazioni all’epoca non prevista, in contrasto con il principio d’irretroattività della legge.
Come si è detto, nel caso in cui la costituzione dell’unione civile sia stata preceduta da un periodo di convivenza di fatto, quest’ultima non può essere riguardata come un segmento a sé stante della vita familiare, distinto da quello successivo alla formalizzazione del vincolo e produttivo di autonome conseguenze giuridiche, costituendo piuttosto espressione di un unico rapporto, iniziato in via di fatto e proseguito senza soluzione di continuità in una veste diversa: il fatto generatore del diritto all’assegno non è pertanto individuabile nella cessazione della convivenza di fatto, mai concretamente verificatasi e comunque inidonea a determinare l’insorgenza del predetto diritto, anche ai sensi della legge n. 76 del 2016, ma nello scioglimento dell’unione civile, che, in quanto intervenuto successivamente all’entrata in vigore della medesima legge, e quindi assoggettato alla disciplina dalla stessa introdotta, giustifica, ai fini del riconoscimento e della liquidazione dell’assegno, una valutazione estesa all’intera durata del rapporto, ivi compreso il periodo di convivenza, anche se svoltosi in tutto o in parte in epoca anteriore, senza che ciò si traduca in un’applicazione retroattiva della nuova disciplina.
Come costantemente affermato da questa Corte, infatti, il principio d’irretroattività della legge comporta che una nuova legge non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita se, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso; tale principio non osta invece all’applicazione della nuova legge ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in sé stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, dimodoché resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore (cfr., tra le altre, Cass., Sez. III, 2 agosto 2016, n. 16039; Cass., Sez. I, 3 luglio 2013, n. 16620; Cass., Sez. lav., 3 marzo 2000, n. 2433).
9.6. Qualora, d’altronde, come nella specie, la controversia abbia ad oggetto lo scioglimento di un’unione civile costituita da persone del medesimo sesso, l’esclusione della possibilità di prendere in considerazione, ai fini del riconoscimento e della liquidazione dell’assegno, il periodo di convivenza che ha preceduto l’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 comporterebbe la frustrazione delle finalità perseguite dalla medesima legge, impedendo di tenere conto delle scelte (spesso determinanti anche per il futuro) compiute dalle parti nella fase iniziale del rapporto, in cui la convivenza ha dovuto necessariamente svolgersi in via di mero fatto per causa ad esse non imputabile, essendo all’epoca preclusa alle coppie omosessuali la possibilità di contrarre un vincolo formale.
In proposito, come correttamente osservato dalla Prima Sezione civile nell’ordinanza interlocutoria, occorre tenere conto anche della genesi della disciplina delle unioni civili, collegata alla sentenza della Corte EDU 21 luglio 2015, Oliari e altri c. Italia, con cui fu accertato che lo Stato italiano aveva violato l’art. 8 della CEDU, sotto il profilo del diritto al rispetto della vita privata e familiare, per non avere ancora provveduto all’emanazione di una normativa diretta ad attribuire un riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali attraverso la previsione di forme di unione civile o di unione registrata. Richiamata la propria giurisprudenza, secondo cui le coppie omosessuali hanno la stessa capacità d’instaurare una relazione stabile di quelle eterosessuali e si trovano in una situazione simile per quanto riguarda l’esigenza di riconoscimento giuridico e tutela della loro relazione, la Corte osservò che l’impossibilità di accedere ad un quadro giuridico come quello delle unioni civili o delle unioni registrate impediva alle stesse di ottenere il riconoscimento del loro status e la tutela di alcuni diritti, ritenendo insufficiente, a tal fine, la mera possibilità di disciplinare alcuni aspetti della convivenza mediante accordi contrattuali privati; pur riconoscendo che, in assenza di un accordo tra gli Stati membri, il legislatore nazionale gode di un certo margine di discrezionalità nella determinazione dell’esatto status conferito da mezzi di riconoscimento alternativi e dei diritti e gli obblighi che ne scaturiscono, ritenne che il Governo italiano avesse ecceduto tale margine, non avendo tenuto conto della diffusa accettazione delle coppie omosessuali da parte della popolazione italiana e delle sollecitazioni al riconoscimento delle stesse provenienti dalle supreme autorità giudiziarie interne, e non avendo dedotto l’esistenza di un interesse collettivo prevalente rispetto a quello dei ricorrenti. Tali principi hanno trovato conferma nella successiva sentenza del 14 dicembre 2017, Orlandi e altri c. Italia, con cui, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016, la Corte EDU ha dichiarato che lo Stato italiano aveva violato l’art. 8 della CEDU, sotto il profilo del rispetto del diritto alla vita familiare, per aver rifiutato, nel periodo anteriore all’entrata in vigore della disciplina delle unioni civili, la trascrizione del vincolo coniugale contratto all’estero da coppie omosessuali, anche in forma diversa dal matrimonio: premesso che la nuova disciplina, consentendo alle persone che abbiano contratto matrimonio, unione civile o altra corrispondente unione all’estero di ottenere la trascrizione del vincolo in Italia, sembra offrire più o meno la stessa tutela del matrimonio in ordine alle esigenze fondamentali di una coppia che ha una relazione stabile e seria, la Corte ha ritenuto che il rifiuto di trascrivere il matrimonio sotto qualsiasi forma avesse lasciato i ricorrenti in una situazione di vuoto giuridico, impedendo agli stessi di ottenere il riconoscimento formale dell’esistenza giuridica della loro unione ed ostacolandoli nella vita quotidiana, senza che a giustificazione di tale situazione fosse stata addotta la sussistenza di interessi collettivi prevalenti.
Le considerazioni svolte a sostegno delle predette decisioni trovano peraltro ampio riscontro nella giurisprudenza precedente e successiva della Corte EDU, la quale, dopo aver affermato che la nozione di «famiglia» di cui all’art. 8 della CEDU non è limitata alle sole relazioni fondate sul matrimonio, ma si estende anche ai legami familiari di fatto, in cui le parti convivono al di fuori del matrimonio (ovvero senza essere coniugate) (cfr. sent. 18/12/1986, Johnston e altri c. Irlanda; 3 aprile 2012, Van der Heijden c. Paesi Bassi), ha chiarito che in tale nozione deve ritenersi compresa anche una coppia omosessuale che vive una relazione stabile (cfr. sent. 7/11/2013, Vallianatos e altri c. Grecia; 19/02/2013, X e altri c. Austria; 24/06/2010, Schalk e Kopf c. Austria), la quale si trova in una situazione sostanzialmente analoga a quella di una coppia eterosessuale, per quanto riguarda la necessità di un riconoscimento formale e di una tutela della relazione (cfr. sent. 13/07/2021, Fedotova e altri c. Russia); precisato inoltre che gli Stati membri hanno l’obbligo positivo di garantire il rispetto dei diritti previsti dall’art. 8, anche nei rapporti tra privati (cfr. sent. 5/09/2017, Bărbulescu c. Romania), è stata riconosciuta agli stessi, ai sensi dell’art. 14 della CEDU, in combinato disposto con l’art. 8, la facoltà di limitare l’accesso al matrimonio alle sole coppie eterosessuali (cfr. 24/06/2010, Schalk e Kopf c. Austria; 9/06/2016, Chapin e Charpentier c. Francia), affermandosi tuttavia che l’intenzione di creare una vita familiare può, in casi eccezionali, rientrare nell’ambito della tutela assicurata dall’art. 8, specialmente nel caso in cui il fatto che la vita familiare non sia ancora pienamente instaurata non sia imputabile al ricorrente (cfr. sent. 22/06/2004, Pini e altri c. Romania; 30/07/2016, Taddeucci e McCall c. Italia).
Nella prospettiva emergente dalle predette pronunce, improntata all’osservanza degli obblighi positivi che scaturiscono dal rispetto del diritto alla vita familiare, negare rilevanza alla convivenza di fatto tra persone del medesimo sesso, successivamente sfociata nella costituzione di un’unione civile, per il solo fatto che la relazione ha avuto inizio in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016, si tradurrebbe inevitabilmente in una violazione dell’art. 8 della CEDU, oltre che in un’ingiustificata discriminazione a danno delle coppie omosessuali, il cui proposito di contrarre un vincolo formale non ha potuto concretizzarsi se non a seguito dell’introduzione della disciplina delle unioni civili, a causa della precedente mancanza di un quadro giuridico idoneo ad assicurare il riconoscimento del relativo status e dei diritti ad esso collegati.
9.7. In conclusione, la questione sollevata dall’ordinanza interlocutoria può essere risolta mediante l’enunciazione del seguente principio di diritto:
«In caso di scioglimento dell’unione civile, la durata del rapporto, prevista dall’art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970, richiamato dall’art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016, quale criterio di valutazione dei presupposti necessari per il riconoscimento del diritto all’assegno in favore della parte che non disponga di mezzi adeguati e non sia in grado di procurarseli, si estende anche al periodo di convivenza di fatto che abbia preceduto la formalizzazione dell’unione, ancorché lo stesso si sia svolto in tutto o in parte in epoca anteriore all’entrata in vigore della ln. 76 cit.».
Alla stregua di tale principio, non può condividersi la sentenza impugnata, nella parte in cui ha escluso la possibilità di tenere conto, ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno in favore della ricorrente, della perdita di chances da quest’ultima asseritamente subìta a causa del trasferimento da Venezia a Pordenone e delle scelte professionali compiute in funzione dell’instaurazione del rapporto familiare con la controricorrente, in quanto risalenti all’epoca in cui fu intrapresa la convivenza di fatto con quest’ultima, anteriore sia alla costituzione dell’unione civile che all’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016, non avente portata retroattiva e, ad avviso della Corte territoriale, non recante una disciplina specifica della fattispecie.
10. La sentenza impugnata va pertanto cassata, in accoglimento del secondo e del terzo motivo del ricorso principale, con il rinvio della causa alla Corte d’appello di Trieste, la quale dovrà procedere, in diversa composizione, ad un nuovo accertamento dei presupposti necessari per il riconoscimento dell’assegno, da valutarsi in relazione alla diversa prospettiva temporale segnata dall’estensione della durata del rapporto al periodo di convivenza che ha preceduto la costituzione dell’unione civile.
Restano conseguentemente assorbiti il quarto motivo, avente ad oggetto l’accertamento dei presupposti necessari per il riconoscimento dell’assegno, ed il ricorso incidentale, riguardante la ripetizione delle somme corrisposte nel corso del giudizio ed il regolamento delle spese processuali.
Il giudice di rinvio provvederà anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
Allegati:
SS.UU, 27 dicembre 2023, n. 35969, in tema di unione civile
In tema di comodato di casa familiare – SS.UU, 29 settembre 2014, n. 20448
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f.
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente Sezione
Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione
Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere
Dott. DI AMATO Sergio – Consigliere
Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere
Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere
Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere
Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 39/2008 proposto da:
V.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAVIA 42, presso lo studio dell’avvocato GIOFFREDA ERNESTO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOFFREDA ALESSANDRO, per delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro VE.MA.LU.
– intimata –
avverso la sentenza n. 793/2006 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 20/11/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/05/2014 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo del ricorso per quanto di ragione e rigetto degli altri.
Svolgimento del processo
1) V.G. con citazione del 1 dicembre 1999 ha agito nei confronti del proprio figlio C. e della di lui moglie Ve.Ma.Lu. per ottenere il rilascio dell’immobile concesso in comodato al figlio nel 1992, in occasione del matrimonio.
La sola Ve. ha resistito, opponendo che in sede di separazione coniugale il 23 dicembre 1999 ella, quale affidataria del figlio P., nato nel (OMISSIS), aveva ottenuto l’assegnazione della casa familiare; che pertanto aveva titolo per il godimento dell’immobile.
La domanda è stata respinta dal tribunale di Nardò con sentenza 27 marzo 2003.
La Corte di appello di Bari con sentenza 20 novembre 2006 ha rigettato il gravame interposto dal V.. Si è espressamente adeguata al precedente costituito da SU 13603/04 in tema di comodato di casa familiare, affermando la sussistenza nella specie dei presupposti fissati dalla giurisprudenza.
L’attore ha proposto tempestivo ricorso per cassazione, notificato il 20 dicembre 2007 al difensore domiciliatario dell’appellata.
La intimata non ha svolto attività difensiva.
Con ordinanza n. 15113/13, la Terza Sezione, auspicando un ripensamento dell’orientamento giurisprudenziale affermatosi nel 2004, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che ha assegnato la causa alle Sezioni Unite della Corte.
Motivi della decisione
2.1) Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1809 e 1810 c.c., art. 155 c.c., e vizi di motivazione.
In via principale invoca i principi desumibili da Cass. 3179/07 e afferma che il comodato di immobile destinato a casa familiare, ove pattuito senza determinazione di tempo, comporta l’obbligo del comodatario di restituire il bene non appena il comodante lo richieda.
Deduce che nel caso regolato dalle Sezioni Unite del 2004 era configurabile un vincolo di destinazione dell’immobile alle esigenze abitative familiari, insussistente nel caso di specie, in cui le parti hanno convenuto la concessione in godimento dell’alloggio “quale sistemazione temporanea provvisoria e precaria per i giovani coniugi“.
A tal fine rileva che trattasi di una villetta sita in zona di villeggiatura; che la convenuta era già a quel tempo comproprietaria di una residenza estiva della propria famiglia di origine posta nel medesimo comune; che attualmente la propria figlia, coniugata con tre bambini, risiede in altro alloggio concesso al ricorrente dallo Iacp, ente che avrebbe richiesto a qual titolo sussista tale occupazione da parte di famiglia non assegnataria.
Lamenta che la Corte di appello non abbia valutato tali circostanze, pur rilevanti a suo avviso quale bisogno ex art. 1809 c.c., per ritenere sussistente un comodato precario.
Con più “quesiti di diritto” formulati ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., chiede alla Corte di stabilire che, in caso di comodato c.d. precario di abitazione destinata a casa familiare, il comodatario è tenuto al rilascio a semplice richiesta del comodante.
In subordine, domanda alla Corte di Cassazione di ribadire che l’effettiva destinazione a casa familiare voluta dal comodante è desumibile solo da una specifica verifica in punto di fatto; che la verifica della comune intenzione delle parti sarebbe stata omessa; che nella specie il bene era stato concesso in godimento solo al fine di una temporanea sistemazione.
2.2) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1803, 1809 e 1810 c.c., con riferimento agli artt. 147 e 155 c.c., e art. 42 Cost., e vizi di motivazione.
Parte ricorrente si duole che la sentenza impugnata abbia ravvisato un contratto con determinazione implicita del termine ex art. 1809 c.c., ancorando la scadenza al raggiungimento della indipendenza dei figli conviventi con l’assegnatario.
2.2.1) Sostiene che, tutt’al più, nel caso di specie la volontà delle parti era di condizionare la concessione in comodato al raggiungimento della condizione di autosufficienza economica dei coniugi, condizione ormai raggiunta dalla convenuta, o alla sopravvenuta necessità per il comodante di rientrare in possesso dell’immobile.
2.2.2) Far coincidere la scadenza del comodato con il raggiungimento della indipendenza dei figli del comodatario potrebbe comportare, secondo il ricorso, il rischio che la beneficiaria ostacoli le inclinazioni del figlio, per “conservare quanto è più possibile” la casa concessa in comodato.
2.2.3) Con altri tre quesiti mira a far accertare quanto dedotto nei due sottoparagrafi precedenti e a far dichiarare che il comodato con scadenza coincidente con il raggiungimento della indipendenza economica dei figli conviventi con l’assegnatario viola il precetto costituzionale di “tutela della proprietà privata“.
2.3) Il terzo motivo lamenta violazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione alla ammissibilità – negata dalla Corte territoriale – della deduzione in appello di una situazione di bisogno di natura familiare, sopravvenuta dopo la introduzione della causa.
3) La Terza Sezione si fa interprete di alcune osservazioni e suggestioni critiche che in sede dottrinale sono state esposte all’indomani di Cass. SU 13603/04 e che contrastano i commenti favorevoli al provvedimento. Auspica la rimeditazione dell’orientamento adottato dalle Sezioni Unite nel 2004 e pone una serie di quesiti che trascendono la soluzione della vicenda processuale e mirano a una “sistemazione” dell’istituto.
Alla sezione rimettente sembra opportuno che sia stabilito quando e come insorga il vincolo di destinazione a casa familiare; quale sia il momento di cessazione di esso; quale sia il regime di opponibilità e come sia connotata la posizione giuridica del coniuge e dei figli del comodatario iniziale.
3.1) In particolare l’ordinanza critica la sentenza 13603/04 per avere affermato che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare “attribuisce un diritto personale di godimento, variamente segnato da tratti di atipicità“: tale affermazione sarebbe incongrua qualora riferita a una posizione giuridica di natura reale, preesistente in capo ad uno o a entrambi i coniugi.
Più pertinente è il rilievo secondo cui sarebbe stato stabilito che in caso di comodato pattuito a tempo indeterminato, il comodante sarebbe tenuto a consentire la continuazione del godimento fino al sopraggiungere di un bisogno ex art. 1809 c.c..
Ciò appare incongruo ai giudici rimettenti qualora il comodato sia stato pattuito in attesa di altra soluzione abitativa, eventualmente già in corso di predisposizione. E incertezze vengono palesate con riguardo al comodato precario concesso al figlio che, unendosi in matrimonio, destini successivamente l’alloggio a residenza della neo costituita famiglia.
3.2) Il cuore della critica risiede tuttavia nell’osservazione secondo la quale le Sezioni Unite del 2004 hanno determinato ciò che avevano detto di voler evitare, cioè una sostanziale espropriazione delle facoltà del comodante.
Ciò deriverebbe dall’aver escluso la recedibilità ad nutum ex art. 1810 c.c., senza neppure distinguere a seconda che il proprietario sia genitore del beneficiario o un terzo estraneo.
A differenza del coniuge proprietario, tenuto a rispettare la solidarietà post coniugale in ragione della tutela costituzionale dell’istituto familiare, i terzi non dovrebbero essere costretti a subire una situazione “destinata a durare indefinitamente nel tempo“.
Inoltre la soluzione prescelta giungerebbe a negare la configurabilità del precario di casa familiare, con l’effetto di “scoraggiare” il diffuso istituto del comodato quale soluzione ai problemi abitativi delle giovani coppie. E costituirebbe un modo per attribuire al coniuge assegnatario diritti poziori rispetto a quelli vantati dall’originario comodatario.
Viene quindi sollecitato un diverso contemperamento tra le contrapposte esigenze del concedente e del comodatario assegnatario della casa coniugale.
4) Nel precedente pronunciamento (Cass. civ., sez. un., 21-07-2004, n. 13603) è stato stabilito, come si legge nell’enunciazione finale del principio di diritto, che nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perchè sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura ed il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determina una concentrazione, nella persona dell’assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809 c.c..
A questo principio si è attenuta successivamente la giurisprudenza della Corte Suprema, la quale, muovendo dalle premesse fissate dalle Sezioni Unite, ha ribadito che la specificità della destinazione, impressa per effetto della concorde volontà delle parti, è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà e dall’incertezza, che caratterizzano il comodato cosiddetto precario, e che legittimano la cessazione “ad nutum” del rapporto su iniziativa del comodante, con la conseguenza che questi, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato, è tenuto a consentirne la continuazione anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno (3072/06; 13260/06; 16559/08 in Riv. not, 2008; Cass. 19939/08, in Foro it., 2008, I, 3552; Cass. 18619/10 in Giur. it., 2011, 1279; Cass. 4917/11 i n Riv. giur. Ed., 2011, I, 890; Cass. 13592/11 i n Contratti, 2011, 1103; Cass. 16769/12; 14177/12; v. anche implicitamente Cass. 9253/05).
E’ stato altresì riaffermato che il vincolo di destinazione appare idoneo a conferire all’uso, cui la cosa deve essere destinata, il carattere di elemento idoneo ad individuare il termine implicito della durata del rapporto, rientrando tale ipotesi nella previsione dell’art. 1809 c.c., comma 1.
Se ne è tratta la conseguenza che, una volta cessata la convivenza ed in mancanza di un provvedimento giudiziale di assegnazione del bene, questo deve essere restituito al comodante, essendo venuto meno lo scopo cui il contratto era finalizzato (Cass. 2103/12).
4.1) In contrasto, a quanto sembra inconsapevole, con l’orientamento invalso dal 2004, si è posta una sola pronuncia recente, Cass. 15986/10, la quale, senza nulla aggiungere, si è esplicitamente rifatta a un precedente del 1997 per sancire la irrilevanza della destinazione a casa familiare di un immobile, con relativa configurabilità di un comodato precario, soggetto a recesso ad nutum.
Non è invece in contrasto con l’orientamento delle Sezioni Unite Cass. 3179/07, invocata da parte ricorrente, perchè, pur prestandosi a d un’equivoca interpretazione a causa della sua stringata motivazione, ha in sostanza ribadito i principi esposti dalle Sezioni Unite.
Nel caso del 2007, relativo ad immobile concesso in comodato da un’azienda al suo amministratore unico, il giudice di merito aveva ravvisato la stipulazione di un comodato precario. Aveva pertanto ordinato al comodatario il rilascio, appena richiesto dal comodante, senza tener conto “delle regole sull’assegnazione della casa coniugale a coniuge affidatario di figli minori“. La Corte di Cassazione, pur conscia che il ed precario non è in linea di principio compatibile con la destinazione a casa familiare, ha confermato questa decisione, che si differenzia dal caso regolato dalle Sezioni Unite, e da quello odierno, perchè l’indagine di merito aveva configurato un contratto stipulato tra le parti come contratto di comodato immobiliare senza determinazione di durata ai sensi dell’art. 1810 c.c., e non come contratto soggetto alla disciplina dell’art. 1809 c.c.. Ed infatti la sentenza del 2007 ha fatto espresso riferimento a SU 13603/04 e ha ripetuto che il provvedimento di assegnazione di un immobile destinato a casa familiare non modifica nè la natura nè il titolo di godimento dell’immobile.
4.1.1) Perchè l’assegnatario possa opporre al comodante, che chieda il rilascio dell’immobile, l’esistenza di un provvedimento di assegnazione della casa familiare, è necessario che tra le parti (cioè almeno con uno dei coniugi, salva la concentrazione del rapporto in capo all’assegnatario, ancorchè diverso) sia stato in precedenza costituito un contratto di comodato che abbia contemplato la destinazione del bene quale casa familiare senza altri limiti o pattuizioni.
In relazione a questa destinazione, se non sia stata fissata espressamente una data di scadenza, il termine è desumibile dall’uso per il quale la cosa è stata consegnata e quindi dalla destinazione a casa familiare, applicandosi in questo caso le regole che disciplinano questo istituto.
5) Si giunge così al nucleo della questione posta, da dirimere confermando la soluzione adottata a suo tempo, con le precisazioni che seguiranno.
Un’esigenza di puntualizzazione si pone in relazione alla individuazione del regime contrattuale.
A questo proposito si impone un primo chiarimento.
Tralasciando opinioni minoritarie, si può dire che il codice civile disciplina due “forme” del comodato, quello propriamente detto, regolato dagli artt. 1803 e 1809 e il c.d. precario, al quale si riferisce l’art. 1810 c.c., sotto la rubrica “comodato senza determinazione di durata”.
E’ solo nel caso di cui all’art. 1810 c.c., connotato dalla mancata pattuizione di un termine e dalla impossibilità di desumerlo dall’uso cui doveva essere destinata la cosa, che è consentito di richiedere ad nutum il rilascio al comodatario.
L’art. 1809 c.c., concerne invece il comodato sorto con la consegna della cosa per un tempo determinato o per un uso che consente di stabilire la scadenza contrattuale. Esso è caratterizzato dalla facoltà del comodante di esigere la restituzione immediata solo in caso di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno (art. 1809 c.c., comma 2).
E’ a questo tipo contrattuale che va ricondotto il comodato di immobile che sia stato pattuito per la destinazione di esso a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario, da intendersi in tal caso “anche nelle sue potenzialità di espansione“.
Trattasi infatti di contratto sorto per un uso determinato e dunque, come è stato osservato, per un tempo determinabile per relationem, che può essere cioè individuato in considerazione della destinazione a casa familiare contrattualmente prevista, indipendentemente dall’insorgere di una crisi coniugale.
E’ grazie a questo inquadramento che risulta senza difficoltà applicabile il disposto dell’art. 1809 comma secondo, norma che riequilibra la posizione del comodante ed esclude distorsioni della disciplina negoziale.
5.1) Si può osservare che nella sentenza 13603/04, l’ipotesi di comodato di casa familiare è stata inquadrata nello “schema del comodato a termine indeterminato“.
Questa definizione non riconduce però il rapporto negoziale qui descritto al contratto senza determinazione di durata, cioè al precario cui all’art. 1810 c.c., avendo essa riguardo alla configurazione di un termine non prefissato, ma desumibile dall’uso convenuto; ipotesi ben distinta da quella in cui le parti abbiano stabilito un termine finale di godimento del bene, come può accadere sia quando venga fissata una data di scadenza, sia, si deve ora aggiungere esemplificativamente, qualora il comodante abbia ceduto l’alloggio ad un comodatario (p. es. un figlio) stabilendo che possa abitarvi fino al matrimonio di altro figlio/a, o fino alla conclusione dei lavori di costruzione e restauro d i casa di proprietà, o fino all’acquisto di un immobile analogo.
In ogni caso, si disse, in cui il contratto prevede espressamente ed univocamente un termine finale, si configura senz’altro un contratto a tempo determinato.
5.1.1) E’ stata la dottrina, proprio in relazione al comodato di immobile ad uso abitativo, ad avvertire l’opportunità di descrivere un comodato “a tempo indeterminato“, ma lo ha subito riconosciuto concettualmente come diverso dal comodato senza determinazione di durata.
Sebbene inizialmente sia stato proposto di desumere la disciplina applicabile da quella di cui all’art. 1810 c.c., l’evolversi degli studi ha fatto maggiormente riflettere sul “comodato di lunga durata“, caratterizzato da una scadenza non predeterminata e non di rado volta a superare la stessa vita del comodante, con il sopravvenire per via ereditaria del diritto di proprietà in capo al titolare del diritto di godimento attribuito gratuitamente al congiunto.
A questo comodato, chiaramente connesso con le finalità solidaristiche che sono state tratteggiate dall’intervento del 2004 delle Sezioni Unite, mal si attaglia la natura instabile della situazione negoziale di cui all’art. 1810 c.c..
Ed è invece implicita nella previsione di destinazione dell’immobile a d abitazione familiare la determinazione della durata della concessione, che va rapportata a tale uso, come colto d a Cass. 2627/06, postasi lucidamente nella sequela di Cass. 13603/04.
Dunque l’espressione contenuta nella sentenza del 2004, nata dall’obbiettiva difficoltà di descrivere un comodato a durata indefinita e comunque non determinata con scadenza fissa, ancorchè determinabile per relationem, va intesa nel senso di ricondurre la fattispecie al contratto in cui il termine risulta dall’uso cui la cosa è stata destinata.
Restano così non accoglibili i suggerimenti dottrinali, pur indiscutibilmente utili alla riflessione, volti a mitigare con l’utilizzo dell’art. 1183 c.c., comma 2, la eventuale applicabilità al comodato di lunga durata della disciplina del precario.
Sono per opposto verso non condivisibili quelle voci che auspicano una ancora maggiore tutela dei soggetti deboli, attraverso la configurazione di un contratto atipico di scopo che imponga al comodante di rispettare la destinazione a casa familiare indipendentemente dalle circostanze sopravvenute.
6) L’inquadramento qui precisato offre il destro per ribadire che le preoccupazioni dell’ordinanza di rimessione possono essere superate con una attenta lettura e una prudente applicazione della sentenza del 2004.
Quest’ultima, prevenendo le obiezioni, ha esplicitato che non intendeva affermare che, ogniqualvolta un immobile venga concesso in comodato con destinazione abitativa, si debba immancabilmente riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorchè disgregata.
Ha infatti in primo luogo (si veda pag. 11) invitato i giudici di merito a valutare la sussistenza della pattuizione di un termine finale di godimento del bene, che potrebbe emergere dalle motivazioni espresse nel momento in cui è stato concesso il bene e che impedirebbe di protrarre oltre l’occupazione.
In secondo luogo, ha precisato che la concessione per destinazione a casa familiare implica una scrupolosa verifica della intenzione delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti.
Ciò significa che il comodatario, o il coniuge separato con cui sia convivente la prole minorenne o non autosufficiente, che opponga alla richiesta di rilascio la esistenza di un comodato di casa familiare con scadenza non prefissata, ha l’onere di provare, anche mediante le inferenze probatorie desumibili da ogni utile fatto secondario allegato e dimostrato, che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento.
La prova potrebbe risultare più difficile qualora la concessione sia avvenuta in favore di comodatario non coniugato nè prossimo alle nozze, dovendosi in tal caso dimostrare che dopo l’insorgere della nuova situazione familiare il comodato sia stato confermato e mantenuto per soddisfare gli accresciuti bisogni connessi all’uso familiare e non solo personale.
Trattasi sempre di un mero problema di prova, risolvibile grazie al prudente apprezzamento del giudice di merito in relazione agli elementi (epoca dell’insorgenza della nuova situazione, comportamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc.) che sono sottoponili al suo giudizio.
Spetta invece a chi invoca la cessazione del comodato per il raggiungimento del termine prefissato, dimostrare il relativo presupposto.
6.1) Se così è, risulta vano prospettare l’iniquità di uno sviluppo contrattuale che è stato voluto dalle parti. Nè si potrà dire, come sembra sotteso anche nel ricorso e nella memoria conclusiva, che il comodante intende sempre che la concessione in comodato è precaria e soggetta a risoluzione ad nutum.
Si è visto prima che un comodato immobiliare precario o a termine più breve può, in relazione ai rapporti tra le parti e alle finalità (rapporti di lavoro, solidarietà emergenziale) essere configurabile.
Non di questo si discute qui, ma della ipotesi in cui il comodante concede al figlio, o a persona che egli intende beneficiare, un’abitazione da destinare a casa familiare, senza porre i n alcun modo limiti temporali. Ed in questi casi, al di là delle nozioni giuridiche possedute dal comodante, di cui tuttavia vanno indagate le intenzioni obbietti va mente risultanti, rilevano la innegabile stabilità della destinazione abitativa, la finalità solidaristica che fa venire in risalto i bisogni della prole del comodatario, in definitiva la stessa causa del negozio, che è quella di attribuire il godimento di un bene, cioè di realizzare l’interesse del comodatario.
6.1.1) E ‘ stato scritto che questo interesse permea e orienta il rapporto contrattuale di comodato.
Questa affermazione si concretizza nell’assecondare la attuazione dell’iniziale programma negoziale e non nell’interpretare l’istituto al fine di facilitare reazioni ritorsive alle vicende esistenziali del beneficiario.
E’ comprensibile che la novità recata dalla parziale dissoluzione del nucleo familiare (che nella sua composizione residua continua ad occupare l’abitazione familiare, mantenendone la destinazione) porti ad interrogarsi sulla ragionevolezza del permanere della destinazione, nonostante l’intendimento sopravvenuto di ritrattare la concessione.
La risposta, per tutte le ragioni manifestate qui e da SU 13603/04, non può che essere nel segno di rispettare il potere di disposizione del bene, quale esercitato al sorgere del contratto.
Se il contratto ancorava la durata del comodato alla famiglia del comodatario, corrisponde a diritto che esso perduri fino al venir meno delle esigenze della famiglia.
E’ nell’art. 337 bis c.c. e segg., (dopo la modifica di cui D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154; già art. 155 c.c. e segg.) e nella giurisprudenza di legittimità che trova attuazione il disposto normativo circa la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari legittimanti l’assegnazione della casa familiare e quindi il perdurare della fattispecie contrattualmente disegnata.
E’ appena il caso di rilevare che la questione relativa ai limiti di opponibilità del comodato al terzo acquirente, sulla quale l’ordinanza di rimessione sollecita un intervento delle Sezioni Unite, è del tutto estranea al tema del decidere (cfr sub 3.1. primo capoverso).
6.1.2) Giova a questo punto precisare che proprio la giurisprudenza conduce ad escludere, al contrario di quanto ventilato in ricorso, che trovino immeritata tutela di comportamenti ostruzionistici dei beneficiari dell’alloggio, finalizzati a protrarre indebitamente il godimento della casa familiare.
Proprio recentissimamente la Prima Sezione della Corte ha avuto modo di riepilogare efficacemente (Cass. 18076/14) i principi che si sono andati affermando circa i limiti dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne. Questi, è stato osservato, in forza dei doveri di autoresponsabilità che su di lui incombono, non può pretendere la protrazione dell’obbligo oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perchè “l’obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione“.
6.2) Su altro versante la soluzione prescelta da Cass. 13603/04 è da confermare, richiamando all’attenzione la portata della facoltà di recedere ex art. 1809 cpv. c.c., forse sin qui non ben compresa.
Si è detto che l’opportunità di cui all’art. 1809 c.c., è stata evocata dalle Sezioni Unite per conseguire un compromesso tra opposte tesi, ma non è così.
Si tratta invece di piana applicazione del tipo contrattuale al quale è stato ricondotto il comodato di casa familiare, riconosciuto estraneo al “precario” ex art. 1810 e invece disciplinato dall’art. 1809 c.c..
Questa disposizione rivela che il comodato a tempo determinato, soprattutto se con le connotazioni della lunga durata di cui ci si è occupati supra, nasce nella convinzione della piena stabilità del rapporto, anche tenendo conto della possibilità di risolverlo motivatamente in caso di bisogno.
Questa eventualità è una componente intrinseca del tipo contrattuale e costituisce insieme espressione di un potere e di un limite del comodante, da questi accettato nel momento in cui concede il bene per un uso potenzialmente di lunghissima durata e di fondamentale importanza per il beneficiario.
Con l’implicazione che il comodante, contrariamente a quanto ipotizzato da una risalente dottrina, ritiene di poter rispettare il contratto per tutto il tempo di durata prevedibile.
A fronte di questa scelta, che fa ritenere che il comodante non prevedesse di volere o dovere alienare il bene, non può trovare tutela la sua intenzione, verosimilmente ritorsiva, di rimuovere l’occupante rimastone beneficiario.
Trova invece tutela il sopravvenire di un urgente e impreveduto bisogno. La giurisprudenza, significativamente, non ha dovuto occuparsi spesso di questa disposizione.
Si conviene generalmente tuttavia, in dottrina e nei precedenti noti (Cass. 1132/87; 2502/63), che la portata di questo bisogno non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto, quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e urgente.
L’urgenza è qui da intendersi come imminenza, restando quindi esclusa la rilevanza di un bisogno non attuale, non concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile. Ovviamente il bisogno deve essere serio, non voluttuario, nè capriccioso o artificiosamente indotto. Pertanto non solo la necessità di uso diretto, ma anche il sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica, che obbiettivamente giustifichi la restituzione del bene anche ai fini della vendita o di una redditizia locazione del bene immobile, consente di porre fine al comodato anche se la destinazione sia quella di casa familiare.
E’ da notare soltanto che, essendo in gioco valori della persona, ed in particolare le esigenze di tutela della prole, questa destinazione, con più intensità di ogni altra, giustifica massima attenzione in quel controllo di proporzionalità e adeguatezza, sempre dovuto in materia contrattuale, che il giudice deve compiere quando valuta il bisogno fatto valere con la domanda di restituzione e lo compara al contrapposto interesse del comodatario.
7) Alla luce dei principi che sono stati qui puntualizzati il ricorso non merita accoglimento.
I quesiti e le censure motivazionali esposti con il primo motivo sono infatti resistiti dal coerente e logico accertamento reso dalla Corte di appello. Essa ha ravvisato la concessione del godimento del bene “nella specifica prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare“. Ha congruamente giustificato questa ricostruzione sulla base della stessa prospettazione contenuta in citazione, che ha riconnesso la concessione in comodato al matrimonio del figlio e dunque alle esigenze del nucleo familiare in formazione.
Le deduzioni contrapposte in ricorso per tratteggiare una concessione temporanea e provvisoria sono rimaste mere contrapposizioni di una diversa lettura della vicenda negoziale, non essendo state indicate in ricorso risultanze trascurate o malvalutate dai giudici di merito che giustifichino la censura.
E’ anzi da notare che in sentenza risulta la lunga durata del comodato già al momento della crisi coniugale, manifestatasi con ricorso per separazione del 1999, sette anni dopo la celebrazione del matrimonio (ottobre 1992).
7.1) Altrettanto deve dirsi con riguardo al secondo profilo del secondo motivo di ricorso (sesto quesito) che postula, senza offrire elementi decisivi idonei a ribaltare la decisione di appello, che la scadenza del comodato di casa familiare sia stata fissata dalle parti al raggiungimento della indipendenza ed autonomia dei comodatari.
7.2) Le argomentazioni esposte nella parte generale della motivazione valgono a smentire il secondo motivo nella parte in cui deduce che costituirebbe una espropriazione delle facoltà del proprietario far coincidere la fine del comodato di casa familiare con il termine implicito costituito dal raggiungimento dell’indipendenza economica dei figli del comodatario separato e con lui conviventi. E sono state già smentite anche le censure portate alla tesi sancita dalle Sezioni Unite prefigurando che possano essere per tal via favoriti comportamenti ostruzionistici, volti a impedire che il figlio della coppia si renda autonomo e autosufficiente.
7.3) Quanto al terzo motivo, appare ineccepibile la decisione della Corte di appello, che ha dichiarato inammissibile la domanda nuova formulata “con le memorie depositate in sede di giudizio di appello“.
Alla richiesta di rilascio del bene in relazione alla cessazione del comodato, è stata infatti sostituita tardivamente la pretesa di rilascio ex art. 1809 c.c., comma 2, che si fonda su presupposti di fatto e di diritto completamente diversi.
8) Il ricorso è rigettato.
Non v’è luogo per pronunciare sulle spese, atteso che l’intimata occupante l’immobile, unica oppostasi alla domanda, non ha svolto in questa sede attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere generalità ed atti identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 27 maggio 2014.
Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2014.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 17 giugno 2013, n. 15113, per SS.UU, 29 settembre 2014, n. 20448, in tema di comodato di casa familiare
SS.UU, 29 settembre 2014, n. 20448, in tema di comodato di casa familiare
In tema di ricorso per cassazione – SS.UU, 25 luglio 2023, n. 22423
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
– ricorrente –
FATTI DI CAUSA
1.- – già imputato in procedimento penale per abusi sessuali e per questa ragione sospeso dall’esercizio della responsabilità genitoriale – ha introdotto, dinanzi al Tribunale di Napoli, un giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio con la signora , nel quale ha chiesto di riprendere gli incontri con la figlia minore (nata nel 2008) in ambiente protetto e di affidarla eventualmente a una struttura territoriale per il recupero psicologico del rapporto con le figure genitoriali, nonché di poter riprendere gli incontri periodici con lei in ambiente protetto.
2.- si è opposta non alla pronuncia sullo status ma alle altre domande, in considerazione della sopravvenuta sospensione del padre dalla responsabilità genitoriale, in conseguenza dell’apertura del procedimento penale nei suoi confronti.
3.- Nel corso del giudizio, essendo intervenuta sentenza penale di assoluzione , il tribunale, con ordinanza del 19 luglio 2019, lo ha autorizzato a riprendere gli incontri con la figlia e, con successiva ordinanza del 20 settembre 2019, lo ha reintegrato nel pieno esercizio della responsabilità genitoriale, disponendo contestualmente l’esperimento di una consulenza tecnica d’ufficio, al fine di individuare le opportune misure di sostegno alla genitorialità con l’ausilio dei servizi sociali; con ordinanza in data 15 ottobre 2021, sulla scorta delle risultanze della consulenza e delle istanze formulate dalla curatrice della minore, il tribunale ha ritenuto che le condotte della signora fossero contrarie al principio di bigenitorialità, l’ha sospesa dall’esercizio della responsabilità genitoriale e l’ha condannata al risarcimento del danno, ex art. 709-ter, comma 2, n. 3, c.p.c., in favore dell’ex coniuge, padre della minore; peraltro, ha anche ravvisato la “impossibilità oggettiva” di di esercitare in via esclusiva la responsabilità genitoriale e, di conseguenza, ha disposto l’affido provvisorio della minore ai servizi sociali, ha sospeso gli incontri del padre con la figlia, ha ordinato ai servizi sociali di relazionare anche sull’esito ulteriore del percorso di sostegno alla genitorialità e ha trasmesso gli atti al giudice tutelare per la nomina di un tutore.
4.- Avverso la citata ordinanza ha proposto ricorso straordinario per cassazione affidato a cinque motivi.
5.- Preliminarmente, a sostegno dell’ammissibilità dell’impugnazione, la ricorrente ha invocato l’arresto n. 32359 del 2018 con cui le Sezioni Unite hanno ritenuto esperibile il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., avverso i provvedimenti cd. de potestate adottati dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330, 336 e 336 c.c., in quanto incidenti su diritti di natura personalissima e di primario rango costituzionale, con attitudine al giudicato rebus sic stantibus.
6.- Nel merito, la ricorrente ha formulato cinque motivi di ricorso riassumibili nei seguenti termini:
con il primo motivo la ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 336-bis c.c., per avere il tribunale adottato nei confronti della ricorrente il provvedimento di sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, senza avere preventivamente proceduto all’ascolto della minore;
con il secondo motivo ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 333 c.c., carenza e contraddittorietà della motivazione, nonché omesso esame di fatti decisivi, per avere l’impugnata ordinanza omesso di valutare l’incidenza delle condotte paterne sul fallimento del progetto di riavvicinamento intrapreso dai genitori verso la minore;
con il terzo e quarto la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 709-ter c.p.c., carenza e contraddittorietà della motivazione, nonché omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, per avere il giudice di primo grado pronunciato la condanna al risarcimento in carenza dei relativi presupposti e omesso di indicare i parametri adoperati nella determinazione del quantum debeatur;
con il quinto motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 2712 c.c., per avere il Tribunale partenopeo dichiarato inammissibile la produzione in giudizio delle registrazioni audio depositate dalla stessa .
7.- e , quest’ultima essendo tutore provvisorio della minore, hanno resistito con separati controricorsi.
8.- La Prima sezione civile di questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 30457 del 2022, ha investito le Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza riguardante la possibilità di ascrivere alle ordinanze cd. de potestate ‒ adottate in via provvisoria dal tribunale ordinario, ai sensi dell’art. 333 c.c., nell’ambito di un giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio ‒ i connotati della decisorietà e della definitività, intesa come attitudine al giudicato anche rebus sic stantibus, ai fini dell’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione di cui all’art. 111, comma 7, Cost.
9.- Le parti hanno depositato memorie in vista della discussione della causa in udienza pubblica.
10.- Il Procuratore Generale ha presentato requisitoria nella quale ha concluso sollecitando una risposta in termini positivi alla questione posta dall’ordinanza interlocutoria e chiedendo di rigettare il ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Preliminarmente si deve dare conto che le parti controricorrenti hanno riferito nelle memorie che, pochi mesi dopo la pronuncia dell’ordinanza interlocutoria, l’ordinanza impugnata è stata revocata dal Tribunale di Napoli, che ha reintegrato la nel pieno esercizio della responsabilità genitoriale. Tale circostanza, dimostrando la sopravvenuta cessazione della materia del contendere, non è idonea a far venir meno la rilevanza (e a precludere lo scrutinio) della questione, riguardante l’ammissibilità del mezzo di ricorso straordinario, ex art. 111, comma 7, Cost., sulla quale il collegio rimettente ha investito le Sezioni Unite, precludendo soltanto – qualora il suddetto mezzo fosse ritenuto ammissibile – l’esame dei motivi di ricorso.
2.- Il Collegio rimettente ha rilevato che provvedimenti come quello impugnato, sinteticamente denominati de potestate, sebbene abbiano natura meramente provvisoria e siano, dunque, destinati ad essere assorbiti dalla decisione finale, si connotano per una peculiare “decisorietà di fatto”, nella misura in cui risultano potenzialmente idonei non soltanto ad esplicare i loro effetti per un notevole arco temporale, ma anche ad incidere, con potenziale irreparabile pregiudizio, su diritti soggettivi di natura personalissima e di primario rango costituzionale del minore. L’ordinanza interlocutoria, evidenziando l’assoluta rilevanza degli interessi coinvolti, sollecita una rimeditazione dell’orientamento consolidato (si citano Cass. sez. I n. 24638/2021 e, su provvedimenti del giudice minorile, sez. I n. 28724/2020 e n. 33609/2021) che esclude l’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost., avverso i provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale emessi nel corso del giudizio promosso ex art. 337-bis c.c., sul presupposto che si tratterebbe di provvedimenti aventi carattere meramente interlocutorio e provvisorio, sprovvisti dell’attitudine al giudicato, anche rebus sic stantibus, e del connotato della definitività, in quanto suscettibili di essere modificati o revocati in ogni tempo, anche in assenza di sopravvenienze, dallo stesso giudice che li ha adottati.
3.- Il Procuratore Generale ha argomentato la proposta di rispondere in senso positivo al quesito formulato nell’ordinanza interlocutoria, osservando che “i provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale, anche se adottati in via provvisoria, sono idonei a produrre, sin da subito e per un arco di tempo rilevante, pregiudizi non sempre riparabili nelle relazioni familiari del minore e ad incidere quindi su diritti personalissimi di rango costituzionale dello stesso, dovendosi ritenere esperibile il rimedio del ricorso straordinario. Nella medesima direzione ‒ prosegue il Procuratore Generale ‒ si rivolgono gli interventi normativi introdotti con la cosiddetta ‘riforma Cartabia’, la quale ha stabilito la ricorribilità per Cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., dei provvedimenti di reclamo limitativi della responsabilità genitoriale. Nonostante tale disposizione debba essere applicata unicamente ai procedimenti instaurati successivamente alla data del 28 febbraio 2023, le norme applicabili ratione temporis… devono essere interpretate nel senso di ammettere il rimedio del ricorso per cassazione, al fine di salvaguardare i diritti fondamentali del minore”.
4.- Queste Sezioni Unite ritengono di fare alcune puntualizzazioni preliminari.
4.1.- In primo luogo, la questione della esperibilità del mezzo straordinario di ricorso per cassazione, ex art. 111 comma 7 Cost., dev’essere riferita ai provvedimenti denominati de potestate, pronunciati – come nel caso di specie – nel corso di giudizi di separazione o scioglimento (o cessazione degli effettivi civili) del matrimonio, quando sussista la competenza del tribunale ordinario, ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c., nel testo più volte modificato (anche dalla recente riforma introdotta dalla legge 10 ottobre 2022, n. 149).
4.2.- In secondo luogo, il Collegio ritiene di non ritornare sull’orientamento delle Sezioni Unite (v. sentenza n. 32359 del 2018) seguito da alcune pronunce (tra le quali Cass., sez. VI n. 1668/2020, sez. I n. 82 e 9691/2022) che ha ammesso la proponibilità del ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., avverso il decreto della corte di appello che, in sede di reclamo, conferma, revoca o modifica i provvedimenti de potestate emessi dal tribunale per i minorenni ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., ritenuti assistiti in tale ambito dal giudicato rebus sic stantibus. Invero, benché non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello stare decisis, essa costituisce, tuttavia, un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente nell’ordinamento, stando alla quale non è consentito discostarsi da un’interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione della nomofilachia, senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative; in particolare, in tema di norme processuali, per le quali l’esigenza di un adeguato grado di certezza si manifesta con maggiore evidenza, ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse interpretazioni, deve preferirsi quella sulla cui base si sia formata una iniziale tendenza applicativa nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. SU n. 13620/2012).
4.3.- In terzo luogo, la recente riforma (d.lgs. n. 149 del 2022) – che ha introdotto (nel titolo IV-bis del cod. proc. civ.) un nuovo rito unificato per tutti “i procedimenti relativi allo stato delle persone, ai minorenni e alle famiglie attribuiti alla competenza del tribunale ordinario, del giudice tutelare e del tribunale per i minorenni, salvo che la legge disponga diversamente e con esclusione dei procedimenti volti alla dichiarazione di adottabilità, dei procedimenti di adozione di minori di età e dei procedimenti attribuiti alla competenza delle sezioni specializzate in materia di immigrazione […]” (art. 473-bis c.p.c.) – non è applicabile ratione temporis nella controversia in esame (per espressa disposizione dell’art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 149 del 2022, come modificato dalla legge n. 197 del 2022, che prevede l’applicazione delle disposizioni anteriormente vigenti ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023) e non è possibile anticiparne l’applicazione traendo da essa spunti interpretativi per orientare in senso convergente l’interpretazione della legge previgente. Una simile operazione non potrebbe essere compiuta quando lo jus superveniens (come nel caso dell’art. 473-bis.24, comma 5, c.p.c. che ammette il “ricorso per cassazione ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione” avverso numerosi provvedimenti temporanei, anche in corso di causa, purché reclamati, limitativi e anche conformativi dell’esercizio della responsabilità genitoriale) sia innovativo rispetto al diritto vigente (e vivente), nella specie formatosi su una disposizione costituzionale, qual è l’art. 111, comma 7, ritenuta immediatamente precettiva e interpretata dalle Sezioni Unite nei termini di cui si dirà, non essendo dato al giudice un simile potere di incidere sugli effetti applicativi della legge (cfr. SU n. 4135/2019, p. 21).
5.- Alla questione posta nell’ordinanza interlocutoria, nei termini precisati (sub 4.1), deve darsi risposta negativa.
6.- Questa Corte ha da tempo chiarito (con la nota sentenza delle Sezioni Unite n. 2953 del 1953), e poi ripetutamente ribadito, che un provvedimento, ancorché emesso in forma di ordinanza o di decreto, assume carattere decisorio quando pronuncia o, comunque, incide su diritti soggettivi con efficacia di giudicato, con la conseguenza che per essere impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., il provvedimento giudiziario deve avere i caratteri della decisorietà nei termini sopra esposti nonché della definitività, in quanto non altrimenti impugnabile o comunque revocabile e modificabile (SU n.1914/2014; cfr. Corte cost. n. 89/2021, p. 7.2). E’ affermazione ancora attuale quella secondo cui “le due condizioni devono coesistere, in quanto è irrilevante la decisorietà se il provvedimento è sempre modificabile e revocabile tanto per una nuova e diversa valutazione delle circostanze precedenti, quanto per il sopravvenire di nuove circostanze nonché per motivi di legittimità” (SU n. 6220/1986 con riferimento a provvedimenti camerali emessi dal tribunale per i minorenni, ex artt. 317-bis e 330 ss. c.c.). In altri termini, il contenuto decisorio integrativo della prima condizione deve essere espressione di un potere giurisdizionale esercitato con carattere vincolante rispetto all’oggetto della pronuncia, in modo da garantirne l’immodificabilità da parte del giudice che ha pronunciato e l’efficacia del giudicato ex art. 2909 c.c.
7.- Non può dubitarsi che i provvedimenti emessi nel corso dei giudizi di separazione e divorzio siano temporanei e non definitivi, in quanto destinati ad essere assorbiti (espressamente o implicitamente) dalla sentenza, la quale è suscettibile di impugnazione nei modi ordinari, vale a dire tramite appello e poi ricorso ordinario per cassazione, ex art. 360 c.p.c. Il tribunale che li ha emessi, a prescindere dal rito adottato, non si spoglia della (e non vede esaurirsi la) potestas decdendi, ben potendo ritornare sulle decisioni precedentemente assunte (mai suscettibili di pregiudicare la decisione della causa, art. 279, comma 4, c.p.c.) sia nel corso del giudizio sia nella sentenza, rivalutando diversamente i fatti preesistenti o valutando fatti e motivi sopravvenuti.
8.- Non si verifica il fenomeno della consumazione dell’azione che sorregge il giudicato (anche rebus sic stantibus), e ciò è coerente sia con l’orientamento che esclude la proponibilità del ricorso straordinario ex art. 111, comma 7, Cost. avverso i provvedimenti presidenziali (pur reclamabili) ex art. 708 c.p.c. e quelli modificativi successivamente assunti nel corso del grado di giudizio (cfr. Cass., sez. I, n. 7266/2022, n. 12177/2011 e, nel senso della ricorribilità per cassazione limitatamente alla statuizione sulle spese, n. 9344 del 2023), sia con i principi generali del diritto pubblico, secondo i quali con la revoca si ha un rinnovato esercizio degli stessi poteri, e per gli stessi scopi normativi, che consentirono l’originaria emanazione degli atti revocabili.
9.- Argomenti favorevoli all’ammissibilità del mezzo di ricorso straordinario avverso i provvedimenti assunti in corso di causa, genericamente denominabili de potestate, in quanto negativamente incidenti sulla responsabilità genitoriale o ad essi strumentali o conseguenziali, non possono trarsi dall’orientamento (cfr. SU n. 32359/2018 cit.) che, dando continuità al revirement giurisprudenziale iniziato nell’anno 2016 (cfr. sez. I n. 1743, 1746 e 23633 e, poi, n. 19780/2018), ha attribuito ai provvedimenti emessi dal tribunale per i minorenni, ex artt. 330 e 333 c.c., l’attitudine al giudicato rebus sic stantibus in quanto (ritenuti) revocabili e modificabili solo in presenza di fatti sopravvenuti.
10.- A tal fine le citate sentenze del 2016 – valorizzando la già ricordata competenza del tribunale ordinario a pronunciarsi per attrazione (ex lege n. 219 del 2012, modificativa dell’art. 38 disp. att. c.c.) nell’ambito dei giudizi di separazione e divorzio (ex 337-bis c.c.) sui provvedimenti sospensivi, ablativi e reintegrativi della potestà genitoriale, altrimenti di competenza del tribunale per i minorenni – ritennero irragionevole considerare “definitive” in termini di attitudine al giudicato rebus sic stantibus le “sentenze” del tribunale ordinario relative ai figli nei giudizi di separazione e divorzio e “non definitive” le analoghe statuizioni ex artt. 330 ss. c.c. assunte dal tribunale per i minorenni, al fine di ammettere il ricorso straordinario per cassazione.
11.- Ora, sorvolando sul fatto che le menzionate “sentenze” del tribunale ordinario sono suscettibili di impugnazione ordinaria mediante appello e poi ricorso ordinario per cassazione, senza necessità di indagare sulla loro decisorietà e definitività (in termini di giudicato rebus sic stantibus), al nuovo orientamento era del tutto estranea la possibilità di considerare impugnabili con ricorso straordinario per cassazione i provvedimenti (ex art. 330 ss. c.c.) temporanei e non definitivi, quali sono quelli assunti in corso di causa dal tribunale ordinario, quando competente ex art. 38 disp. att. c.c. (infatti le sentenze n. 1743 e 1746 del 2016 dichiararono inammissibili i ricorsi avverso provvedimenti reclamati emessi da giudici minorili nell’ambito della procedura di decadenza di un genitore, affermando che si trattava “di una vicenda processale in primo grado non conclusa”).
12.- Un ulteriore argomento a sostegno della soluzione negativa qui condivisa ‒ ancor più solido se si considera che si tratta, nella specie, di provvedimenti assunti in corso di causa ‒ è dato dal regime di piena revocabilità e modificabilità dei provvedimenti camerali assunti, ex artt. 330 ss. (in part. 333, comma 2, e 336, comma 1) c.c. e 742 c.p.c., nel rispetto di tutte le garanzie processuali coerenti con la natura contenziosa della controversia, in mancanza di indicazioni normative volte a limitare l’ambito delle valutazioni che il giudice deve compiere nell’esercizio dello jus poenitendi (salvo quanto si dirà sub 19 a proposito della recente riforma).
13.- E’ ancora attuale il pensiero delle Sezioni Unite secondo cui “è vero che, fino alla revoca, i provvedimenti hanno una certa stabilità…. ma non si tratta della stabilità del giudicato. Questa è ritenuta dalla legge incongrua, con riguardo agli interessi tutelati, che esigono un continuo ed attento adeguamento del provvedimento alla realtà mutevole del minore… senza che si possa distinguere tra fatti già valutati e fatti sopravvenuti, perché la realtà della persona del minore è basata su un continuum di esperienze, dove il passato si salda al presente, nella prospettiva della futura maturazione (non per niente si parla di età evolutiva), per cui la valutazione deve essere complessiva e non soggetta allo sbarramento formale del giudicato” (SU n. 6220/1986; in senso conforme SU n. 11026/2003, quest’ultima condivisa da pronunce successive fino a Cass., sez. I, n. 2816/2022).
14.- E’ significativo che la Corte EDU, giudicando sul ricorso proposto da un padre che lamentava la violazione del diritto di visita del figlio minore a causa dell’opposizione della madre, abbia implicitamente ritenuto che la possibilità di ottenere la revoca e modifica del provvedimento giudiziario impugnato sia circostanza rilevante al fine di escludere la condizione (che integra il connotato della definitività secondo il diritto nazionale) del mancato esaurimento delle vie di ricorso interne che è prevista per la ricevibilità del ricorso da parte della Corte stessa (R.B. E M. c. Italia, n. 41382/19, 22 aprile 2021, § 44 ss.).
15.- L’ordinanza interlocutoria sollecita una rivisitazione dell’orientamento (cfr. Cass., sez. I, n. 24638/2021, n. 614/2022) che esclude la proponibilità del mezzo straordinario avverso provvedimenti temporanei emessi in materia minorile dal tribunale ordinario in corso di causa, assumendo che non vi sarebbe “possibilità alcuna di sottoporli ad una verifica giudiziaria” e che comunque “la loro revisione [sarebbe] destinata ad intervenire a distanza di tempo”. Da qui la proposta di interpretare il requisito della decisorietà, richiesto ai fini dell’ammissibilità del ricorso straordinario ex art. 111, comma 7, Cost., nel senso di “decisorietà di fatto”, sul presupposto che potrebbe “determinarsi, per lo stesso fluire del tempo, una perdita definitiva o un pregiudizio irreparabile” a diritti personalissimi e fondamentali, quali sono quelli dei minori.
16.- Questa impostazione non è condivisibile.
17.- Si è già detto che si tratta di provvedimenti revocabili e modificabili in ogni tempo, insuscettibili di giudicato rebus sic stantibus (nel qual caso la revoca e modifica sarebbe condizionata alla sopravvenienza di fatti nuovi). Le difficoltà pratiche implicitamente paventate di ottenere la modifica o revoca (che, peraltro, vi è stata nel caso in esame), riguardando l’organizzazione degli uffici giudiziari e la professionalità dei magistrati addetti alla trattazione del contenzioso in materia minorile, non possono giustificare la rivisitazione delle condizioni di accesso diretto al giudizio di legittimità in una direzione ampliativa che non sarebbe poi agevole contenere ratione materiae, anche in considerazione delle oggettive difficoltà di discernere ‒ tra i molteplici ed eterogenei provvedimenti annoverabili nel genus di quelli (che hanno assunto o potrebbero assumere la denominazione) de potestate ‒ quali siano suscettibili di ricorso straordinario diretto e quali non lo siano.
18.- La nozione di definitività va intesa in senso processuale, come attitudine del provvedimento a divenire immodificabile, cioè ad assumere i caratteri del giudicato quantomeno rebus sic stantibus, consentendo al giudice di tornare sul provvedimento emesso, valutando solo le nuove circostanze sopravvenute e sottraendogli il potere di rivalutare i fatti già esaminati o preesistenti ma ignorati. Tuttavia, a provvedimenti temporanei, come nella specie, revocabili e modificabili in corso di causa dallo stesso giudice che li ha emessi – quand’anche in ipotesi reclamati – non è possibile attribuire la forza del giudicato, in mancanza di indicazioni normative che limitino l’ambito delle doglianze di parte e il quomodo dello jus poenitendi del giudice. Non è possibile pensare – nell’ottica del preminente interesse del minore – che il tribunale sia vincolato alla propria precedente decisione, anche se si convinca dell’errore commesso nella scelta delle misure adottate o semplicemente dell’opportunità di modificarle, rivalutando i fatti passati anche in mancanza (o alla luce) di fatti nuovi.
19.- Sono quindi condivisibili le indicazioni di una autorevole dottrina che, dopo la recente riforma, suggerisce di interpretare estensivamente il nuovo art. 473-bis.23 c.p.c. che prevede la modifica dei provvedimenti “temporanei e urgenti” “in presenza di fatti sopravvenuti o nuovi accertamenti istruttori” da parte del collegio o del giudice delegato, cioè di giudici di merito che, a contatto con le parti e a conoscenza dei fatti, sono in condizione di adottare le misure più idonee a fronteggiare le situazioni di crisi familiare nell’interesse preminente dei minori.
20.- Neppure potrebbe ammettersi il ricorso straordinario limitatamente alle questioni di diritto trattate nei motivi di ricorso per un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, non si potrebbe condizionare la qualifica del provvedimento (cioè l’indagine sulla sua decisorietà e definitività) al tipo di motivo sollevato con il ricorso, perché la qualifica è un dato anteriore che condiziona la stessa ammissibilità del ricorso. In secondo luogo, la predetta tesi – se volta a contenere l’ambito delle censure proponibili con il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti diversi dalle sentenze – ha perso di attualità una volta che, con la riforma del 2006 (d.lgs. n. 40 del 2006, cfr. art. 360, comma 4, c.p.c.), il ricorso straordinario è proponibile per tutti i motivi di cui al primo comma dell’art. 360 c.p.c.
21.- In realtà, ritenere che un provvedimento giurisdizionale sia suscettibile di conseguire l’efficacia del giudicato e cioè di diventare definitivo in base agli indici rivelatori della sua decisorietà (o al grado di decisorietà o incisività) su diritti soggettivi o status è una petizione di principio.
22.- Se i provvedimenti diversi dalle sentenze sono suscettibili di ricorso straordinario per cassazione, ex art. 111, comma 7, Cost., a condizione che siano definitivi (oltre che decisori), il connotato della definitività non può dipendere dalla natura dell’interesse sottostante o dalla gravità della incidenza su di esso del provvedimento o dei vizi dedotti, profili questi, sul piano teorico, incompatibili con la definizione degli ambiti di competenza degli organi giurisdizionali (e della stessa Corte di cassazione) e, sul piano fattuale, forieri di incertezze, in quanto affidati a valutazioni contingenti e soggettive (ad esempio, facendo impropriamente coincidere la nozione processuale di definitività con la “tendenziale stabilità” del provvedimento, cfr. Cass., sez. I, n. 6802/2023 in procedimento ex art. 337-ter, comma 3, c.c.).
23.- La tesi che si mostra disponibile a misurare l’ammissibilità del ricorso straordinario, ex art. 111, comma 7, Cost., in relazione al tipo di violazione e pregiudizio prospettati in concreto (in tal senso parrebbe Cass. sez. I n. 4796/2022), non può giovarsi del nuovo art. 391-quarter c.p.c. che, infatti, ha apprestato un diverso rimedio, nell’ottica della tutela dei diritti di fonte convenzionale Cedu, introducendo una ipotesi speciale di revocazione in vicende processuali in cui la Corte EDU ha accertato che decisioni passate in giudicato hanno pregiudicato un diritto di stato della persona, a condizione che l’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte stessa non sia idonea a compensare le conseguenze della violazione.
24.- Inoltre, non si dovrebbe prescindere ‒ per quanto si è poc’anzi osservato ‒ da una esatta identificazione e caratterizzazione dei provvedimenti in termini contenutistici, ai fini del giudizio sulla loro impugnabilità ex art. 111, comma 7, Cost., operazione non agevole. In mancanza di indicazioni al riguardo nell’ordinanza interlocutoria, si potrebbe ritenere che rientrino nel novero di tali provvedimenti tutti quelli astrattamente suscettibili di essere denominati come de potestate, espressione tuttavia vaga e sfuggente, in quanto riferibile a provvedimenti temporanei di varia tipologia: a quelli (provvisoriamente) limitativi (es. di sospensione), ablativi (es. di decadenza) e reintegrativi della responsabilità genitoriale (art. 330 ss. c.c.), ma anche a provvedimenti con funzione strumentale e accessoria, innominati ed eterogenei (tra i quali quelli “convenienti” secondo l’espressione dell’art. 333 c.c.), assunti dal giudice in presenza di inadeguatezze genitoriali o di condotte pregiudizievoli per i figli o di conflitti familiari non risolubili altrimenti. Si pensi, tra i tanti provvedimenti che potrebbero configurarsi nella pratica, a quelli che dispongono la sospensione o la limitazione degli (o varie forme di vigilanza sugli) incontri tra i genitori e il figlio, l’allontanamento del genitore dalla residenza familiare, il collocamento provvisorio del minore in strutture di recupero, la previsione di misure di sostegno psicologico e monitoraggio da parte dei servizi sociali per favorire il percorso di recupero delle competenze genitoriali e l’armonico sviluppo delle relazioni con i figli, ecc., ma si pensi anche ai provvedimenti meramente conformativi delle modalità concrete di esercizio della responsabilità genitoriale e di affidamento della prole, ex artt. 337-bis ss. c.c. (cfr., a titolo esemplificativo, Cass. n. 1568/2022 nel senso della non ricorribilità ex art. 111 Cost. in un caso di autorizzazione del genitore ad iscrivere il minore presso una scuola straniera e, in senso opposto, Cass. n. 6802/2023 in tema di frequenza dell’ora di religione).
25.- In conclusione, si deve enunciare il seguente principio: i provvedimenti cd. de potestate adottati dal tribunale ordinario, quando competente ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c., nel corso dei giudizi aventi ad oggetto la separazione e lo scioglimento (o cessazione degli effettivi civili) del matrimonio, nel sistema normativo antecedente alla riforma di cui al d.lgs. n. 149 del 2022 (cfr. art. 473-bis.24, commi 2 e 5, c.p.c.), non sono impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, della Costituzione, trattandosi di provvedimenti temporanei incidenti su diritti soggettivi (in tal senso decisori) ma non definitivi, in quanto privi di attitudine al giudicato seppur rebus sic stantibus, essendo destinati ad essere assorbiti nella sentenza conclusiva del grado di giudizio e, comunque, revocabili e modificabili in ogni tempo per una nuova e diversa valutazione delle circostanze di fatto preesistenti o per il sopravvenire di nuove circostanze.
26.- Pertanto, il ricorso è inammissibile, anche nella parte in cui censura la condanna al risarcimento del danno irrogata alla ricorrente e a favore di , ex art. 709-ter, comma 2, c.p.c., avendo questa Corte ammesso la ricorribilità per cassazione di analoghi provvedimenti risarcitori e sanzionatori all’esito della fase del reclamo (cfr. Cass. sez. I n. 16980/2018, n. 4176/2014, n. 18977/2013) che, nella specie, non v’è stata (sono invece privi dei connotati di decisorietà e definitività i provvedimenti, meramente esortativi e non decisori, di ammonimento di uno dei genitori: in tal senso, condivisibilmente, Cass. sez. I n. 22100/2022, n. 4176/2014 cit.).
27.- Le spese devono essere compensate, in considerazione della complessità della questione esaminata.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e compensa le spese.
Dispone che, ai sensi dell’art. 52 d.lgs. n. 196 del 2003 e succ. mod., in caso di diffusione della presente sentenza, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Roma, 11 luglio 2023
Il cons. rel.
ANTONIO P. LAMORGESE
Il Presidente
GUIDO RAIMONDI
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 17 ottobre 2022, n. 30457, per SS.UU, 25 luglio 2023, n. 22423, in tema di ricorso per cassazione
SS.UU, 25 luglio 2023, n. 22423, in tema di ricorso per cassazione
In tema di rilascio del passaporto – SS.UU, 24 luglio 2023, n. 22048
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sig.ri Magistrati:
Oggetto
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
contro
Fatti di causa
ha proposto reclamo contro il decreto col quale il giudice tutelare presso il Tribunale di Brescia, in data 21-9-2018, ha autorizzato il rilascio del passaporto in favore del marito .
Sulla premessa che dal matrimonio erano nati quattro figli, tre dei quali ancora a quel momento minorenni ( , e , rispettivamente di classe 2005, 2011 e 2013), e che era pendente il giudizio di separazione coniugale nel cui ambito ella aveva chiesto l’affidamento in via esclusiva dei figli minori, ha denunziato che il marito, allontanatosi da casa, non aveva più contribuito alle spese di mantenimento dei figli stessi. Ha prospettando il pericolo che egli potesse portare con sé i minori fuori dall’Italia e comunque sottrarsi definitivamente agli obblighi di mantenimento.
Il Tribunale di Brescia, dopo aver precisato che la domanda era da intendere circoscritta alla revoca dell’autorizzazione al rilascio del passaporto per il solo marito (poiché il giudice tutelare non si era pronunciato sul rilascio del passaporto per i figli), ha rigettato il reclamo per mancanza di prove circa l’attuale condizione lavorativa del coniuge e la dedotta sua inadempienza agli obblighi di mantenimento dei figli, o in ogni caso di un più generale disinteresse del medesimo alle esigenze economiche della prole.
Ha quindi ritenuto che “comparando gli interessi giuridici sottesi alle posizioni dei coniugi” il diritto del marito al rilascio del passaporto, espressione della fondamentale libertà di movimento, non potesse considerarsi “recessivo a fronte di mero timore muliebre, di per sé insufficiente a motivare un legittimo dissenso”.
Avverso il decreto del tribunale la sig.ra ha proposto ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost., sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria.
L’intimato non ha svolto difese.
La causa, inizialmente avviata alla trattazione camerale dinanzi alla Sesta sezione civile, è stata rimessa in pubblica udienza dinanzi alla Prima sezione con ordinanza interlocutoria n. 34984 del 2021.
La Prima sezione l’ha rimessa a sua volta al Primo presidente con ordinanza interlocutoria n. 30478 del 2022 per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ravvisando una questione di massima di particolare importanza quanto alla possibilità o meno di assoggettare il provvedimento, in casi simili, al ricorso straordinario per cassazione.
Il Primo presidente ha disposto in conformità.
Ragioni della decisione
I. – I motivi di ricorso sono i seguenti:
(i) violazione e falsa applicazione della legge n. 1185 del 1967 per avere il tribunale mancato di svolgere un’effettiva comparazione tra il reale interesse dei minori e le effettive esigenze di movimento del padre;
(ii) violazione e falsa applicazione della legge medesima in conseguenza dell’inversione dell’onere probatorio quanto ai presupposti dell’autorizzazione, onere da considerare a carico del genitore tenuto ad adempiere agli obblighi di mantenimento della prole;
(iii) omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, per avere il tribunale fondato la decisione unicamente su talune delle risultanze senza approfondirne altre, così inficiando l’iter motivazionale;
(iv) violazione del principio della domanda e della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, giacché solo la domanda principale era stata esaminata, e non anche le subordinate tese alla possibilità di limitare il diniego del passaporto fino alla definizione del giudizio di separazione, a meno di idonee garanzie.
II. – L’ordinanza interlocutoria ha sottoposto la questione di massima di particolare importanza relativa alla natura del provvedimento emesso in sede di rilascio del passaporto, per gli effetti sulla possibilità di impugnativa, ai sensi dell’art. 111 cost., del decreto assunto a conclusione del reclamo. Ciò nella concorrenza dei requisiti della “decisorietà” e della “definitività”.
Al riguardo ha rimarcato che l’autorizzazione al rilascio del passaporto nel caso di mancato assenso dell’altro genitore trova la sua disciplina nella legge 21 novembre 1967, n. 1185, art. 3, lett. b, ed è finalizzata a garantire l’assolvimento, da parte del genitore, degli obblighi verso i figli, così come precisato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 464 del 1997. Questa sentenza – è bene rammentare – ha dichiarato l’incostituzionalità, per violazione degli artt. 3 e 16 cost., del ripetuto art. 3, lett. b), nella parte in cui non esclude la necessità dell’autorizzazione del giudice tutelare al rilascio del passaporto quando il genitore naturale richiedente abbia l’assenso dell’altro genitore con lui convivente ed esercente congiuntamente la potestà genitoriale che dimori nel territorio della Repubblica.
Quanto al provvedimento emesso in sede di reclamo all’esito della procedura avviata ai sensi dell’art. 3 sopra citato – provvedimento da considerare certamente definitivo dal momento che contro lo stesso non sono previsti ulteriori mezzi di impugnazione – la Prima sezione ha rilevato la necessità di un maggiore approfondimento del requisito della decisorietà.
A questo fine ha opinato doversi verificare se l’autorizzazione al rilascio del passaporto in effetti “rappresenti una valutazione su una forma gestoria espressa dal giudice tutelare nell’interesse dei figli, come tale non ricorribile” (rectius, non suscettibile di radicare un ricorso per cassazione contro il provvedimento emesso a conclusione del reclamo), o piuttosto “un provvedimento con cui si valuta la concreta compatibilità dell’espatrio del genitore con l’interesse del minore”.
Ha inoltre segnalato l’eventualità di introdurre un concetto più elastico – quale quello di decisorietà di fatto – quanto allo specifico provvedimento giurisdizionale in esame, perché rispetto ai minori i diritti soggettivi, pur garantiti dalle modifiche introdotte dagli artt. 315 e seg. cod. civ., possono subire una perdita definitiva o un pregiudizio irreparabile per lo stesso fluire del tempo, specie laddove si tratti di minori che si avviano al conseguimento della maggiore età.
Richiamato l’insegnamento di cui alla sentenza n. 20443 del 2020 di queste Sezioni Unite – che ai fini della giurisdizione, in rapporto all’ambito riservato al giudice amministrativo, ha messo in risalto il diverso spessore della cognizione del giudice tutelare, sempre tenuto a valutare la rispondenza del mancato consenso del genitore all’interesse dei minori e il carattere non pretestuoso del diniego, nonché la concreta compatibilità dell’espatrio del genitore con l’interesse del minore stesso -, e ricordato che una tale attività di ponderazione postula comunque un’istruttoria condotta nel pieno rispetto dei principi del contraddittorio, di proporzionalità, di temporaneità e di non automatismo della misura restrittiva, secondo quanto espresso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con sent. 2-12-2014, in causa Battista c. Italia (parimenti citata dalle Sezioni Unite), la Prima sezione ha concluso ipotizzando che la questione sottesa, della natura del provvedimento emesso dal giudice tutelare in sede di rilascio del passaporto, conduca a intravedere – nel caso di diniego degli interessi dei minori – una forma di decisorietà di fatto, compromissoria dei loro diritti a causa del tempo occorrente per riproporre le medesime questioni e ottenere un diverso provvedimento satisfattivo; e che quindi presenti i caratteri della “questione di massima di particolare importanza”, tale da imporre un intervento delle Sezioni Unite sul profilo della possibilità di tutela offerta dal ricorso straordinario di cui all’art. 111 Cost.
III. – La questione rimessa alle Sezioni Unite ha per oggetto l’interrogativo se sia o meno consentito il ricorso straordinario per cassazione contro il decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo avverso il provvedimento adottato dal giudice tutelare all’esito della procedura avviata ai sensi dell’art. 3, lett. b), della l. n. 1185 del 1967.
IV. – Il quadro normativo sul quale si innesta la tematica è il seguente.
L’art. 3, lett. b), della l. n. 1185 del 1967, nel testo che rileva in causa, conseguente dapprima alla declaratoria di incostituzionalità di quello originario più restrittivo (C. cost. n. 464 del 1997), poi alla l. n. 3 del 2003 e, quindi, ulteriormente, al d.l. n. 273 del 2005 nel testo integrato in sede di conversione (l. n. 51 del 2006), è formulato (per la parte che interessa) in questo modo:
– “Non possono ottenere il passaporto:
a) (..);
b) “i genitori che, avendo prole minore, non ottengano l’autorizzazione del giudice tutelare; l’autorizzazione non è necessaria quando il richiedente avvia l’assenso dell’altro genitore, o quando sia titolare esclusivo della potestà sul figlio ovvero, ai soli fini del rilascio del passaporto di servizio, quando sia militare impiegato in missioni militari internazionali”.
L’art. 4 del medesimo testo indica i provvedimenti in questione come appartenenti alla volontaria giurisdizione:
– “I provvedimenti di volontaria giurisdizione previsti dal precedente articolo sono emessi, nei confronti dei cittadini residenti all’estero, dal capo dell’ufficio consolare di prima categoria nella cui giurisdizione territoriale risiedono, ai sensi dell’articolo 35 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 200.”.
A fronte del rilascio del passaporto in presenza delle condizioni di legge, il successivo art. 12 (sempre nel testo pro tempore vigente) disciplina la fattispecie del ritiro:
– “Il passaporto è ritirato, a cura di una delle autorità indicate all’articolo 5, quando sopravvengono circostanze che ai sensi della presente legge ne avrebbero legittimato il diniego. Il passaporto è altresì ritirato quando il titolare si trovi all’estero e, ad istanza degli aventi diritto, non sia in grado di offrire la prova dell’adempimento degli obblighi alimentari che derivano da pronuncia della autorità giudiziaria o che riguardino i discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro, gli ascendenti e il coniuge non legalmente separato. Il passaporto può essere infine ritirato quando il titolare del passaporto sia un minore e venga accertato che abitualmente svolge all’estero attività immorali o vi presti lavoro in industrie pericolose o nocive alla salute. Il passaporto ritirato viene restituito al titolare a sua richiesta non appena vengano meno i motivi del ritiro”.
Il testo della citata legge del 1967 è stato da ultimo ulteriormente modificato dal recente d.l. 13 giugno 2023, n. 69, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi derivanti da atti dell’Unione europea e da procedure di infrazione e pre-infrazione pendenti nei confronti dello Stato italiano”.
L’art. 20 in particolare ha soppresso l’anteriore lett. b) dell’art. 3 sostituendola nel seguente modo:
– “b) coloro nei confronti dei quali sia stata emessa l’inibitoria prevista dall’articolo 3-bis”.
Sempre il citato d.l. ha ulteriormente modificato il testo della l. n. 1185 del 1967.
Da un lato ha inserito, dopo l’art. 3, il seguente art. 3-bis:
– “1. Il giudice, nel rispetto del principio di proporzionalità e avuto riguardo alla normativa unionale e internazionale sulla cooperazione giudiziaria in tema di responsabilità genitoriale, obbligazioni alimentari e sottrazione internazionale di minori, può inibire il rilascio del passaporto al genitore avente prole minore, quando vi è concreto e attuale pericolo che a causa del trasferimento all’estero questo possa sottrarsi all’adempimento dei suoi obblighi verso i figli. Il giudice stabilisce la durata dell’inibitoria, che non può superare due anni.
2. La domanda di inibitoria si propone con ricorso al tribunale ordinario del luogo in cui il minore ha la residenza abituale. Quando è pendente tra le stesse parti uno dei procedimenti di cui all’articolo 473 -bis del codice di procedura civile, la domanda si propone al giudice che procede. Se il minore è residente all’estero, la domanda si propone al tribunale del luogo di ultima residenza in Italia o al tribunale nel cui circondario si trova il suo comune di iscrizione AIRE.
3. Il ricorso può essere proposto dal pubblico ministero o dall’altro genitore o da colui che esercita la responsabilità genitoriale. Il giudice procede in camera di consiglio ai sensi degli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile e con il provvedimento che definisce il giudizio provvede sulle spese del procedimento. Copia del provvedimento che inibisce il rilascio del passaporto è trasmessa, a cura della cancelleria, al Ministero dell’interno-Dipartimento della pubblica sicurezza, all’autorità individuata a norma dell’articolo 5 e al comune di residenza dell’interessato.”.
Dall’altro ha modificato (in coerenza) i riferimenti dell’art. 4, primo comma, previa sostituzione delle parole “dal precedente articolo” con le parole “dall’articolo 3”.
Infine, quanto al ritiro del passaporto, il d.l. citato ha modificato pure il secondo comma dell’art. 12, nel seguente modo:
– “Il passaporto è altresì ritirato quando il titolare si trovi all’estero e, ad istanza degli aventi diritto, non sia in grado di offrire la prova dell’adempimento degli obblighi alimentari, di mantenimento, di assegno divorzile o di assegno conseguente allo scioglimento dell’unione civile che derivano da pronuncia della autorità giudiziaria o che riguardino i discendenti di età minore ovvero portatori di handicap grave o inabili al lavoro, gli ascendenti e il coniuge non legalmente separato”.
V. – E’ appena il caso di osservare che le recentissime norme citate da ultimo non sono direttamente applicabili ai procedimenti come quello in esame, instaurati prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 69 del 2023.
Questi rimangono soggetti al testo previgente degli artt. 3 e 4 della l. n. 1185 del 1967.
Possiedono tuttavia, quelle recentissime norme, un indubbio significato sul versante ermeneutico, per la soluzione di questioni qualificatorie anche relative alle norme anteriori, perché sono state adottate (come emerge dal preambolo del testo) in considerazione della duplice necessità: (a) di ridurre, in considerazione del “numero complessivo delle procedure di infrazione avviate dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica italiana” (superiore alla media degli altri Stati membri della UE con essa comparabili), “il numero di dette procedure, nonché per evitare l’applicazione di sanzioni pecuniarie ai sensi dell’articolo 260, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)”, e (b) di “prevenire l’apertura di nuove procedure di infrazione o l’aggravamento di quelle esistenti”.
Questo ha d’altronde giustificato, sempre in base al preambolo, l’apprezzamento delle situazioni di “straordinaria necessità ed urgenza” attraverso “l’immediato adeguamento dell’ordinamento nazionale agli atti normativi dell’Unione europea e alle sentenze della Corte di giustizia”.
Tenuto conto di ciò non può affermarsi che (soprattutto) la scelta del legislatore, di mantenere fermo il modello camerale per tali tipologie di procedimenti ma di disciplinarne la struttura (poi) in modo consono alla funzione di decidere su interessi tra loro potenzialmente confliggenti, sia priva di rilievo in rapporto alla qualificazione giuridica.
Il problema qualificatorio già metodologicamente dovrebbe precedere qualunque trattazione di un istituto giuridico. Ma è chiaro che si pone con particolare forza in rapporto alla presente fattispecie e alle norme qui applicabili, per la necessità di stabilire se l’analisi della struttura e dei fini del procedimento, da esse stesse declinato con pochissimi riferimenti, possa consentire di mantenere inalterata la formula – alla quale unicamente si è affidato fin qui l’orientamento giurisprudenziale dominante – della volontaria giurisdizione.
Tra le previsioni introdotte dal menzionato d.l. è di particolare rilievo, per i risvolti interpretativi, il riferimento del primo comma dell’art. 3-bis al presupposto integrato dal concreto e attuale pericolo che a causa del trasferimento all’estero il genitore richiedente possa sottrarsi all’adempimento dei suoi obblighi verso i figli. E’ tale d’altronde il presupposto che emerge, come tra un momento si dirà, anche dallo stato della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale.
In prospettiva di un esame funzionale assolve a una funzione chiarificatrice la previsione volta a specificare che il provvedimento, che definisce il giudizio secondo le norme del procedimento camerale, provvede infine sulle spese. Anche simile previsione sottende difatti l’esistenza di un conflitto intersoggettivo, per la necessità di assicurare, quanto al procedimento in questione, il contraddittorio tecnico tra parti contrapposte.
VI. – L’analisi del dato giurisprudenziale va posta accanto al dato normativo.
Può così osservarsi che l’orientamento di questa Corte, formatosi sul testo anteriore della l. n. 1185 del 1967, è consolidato.
Ma lo è per una ragione specifica.
Si assume che, quando difetti l’assenso dell’altro genitore, non è ravvisabile il carattere di definitività e decisorietà nel provvedimento emesso dal tribunale in esito al reclamo avverso il decreto del giudice tutelare che abbia concesso o negato l’autorizzazione al rilascio del passaporto perché si tratta di un provvedimento di volontaria giurisdizione, come espressamente enunciato nell’art. 4 della citata legge n. 1185 del 1967: un provvedimento rivolto, cioè, non a dirimere in via definitiva un conflitto tra diritti soggettivi (dei genitori del minore, in rappresentanza di questi), ma a valutare la corrispondenza del mancato assenso di uno di loro all’interesse del figlio; e dunque espressivo di una forma gestoria dell’interesse del minore medesimo.
Nella volontaria giurisdizione discorrere di definitività non ha senso, perché il provvedimento è sempre rivedibile anche mediante una rivalutazione (ab ovo) dei suoi fondamenti di opportunità.
A sua volta la decisorietà è da sempre negata ai provvedimenti di volontaria giurisdizione proprio perché con tali provvedimenti non si decide su posizioni di diritto soggettivo in funzione di definizione di controversie ma si assumono semplici misure, diverse per contenuto (normalmente integrate da pareri, dispense, nomine, autorizzazioni, omologazioni, assensi e via dicendo) e tuttavia sempre finalizzate alla cura di situazioni monosoggettive.
Il provvedimento in esame viene dalla giurisprudenza dominante annoverato tra quelli di volontaria giurisdizione.
E quindi per esso, ancorché adottato in sede di reclamo, si reputa non ammissibile il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 cost. (tra le recenti Cass. Sez. 1 n. 11771-10, Cass. Sez. 1 n. 2696-13, Cass. Sez. 6-1 n. 21667-15, Cass. Sez. 1 n. 4799-22).
VII. – Va nondimeno preso atto di alcuni dati rappresentativi dell’evoluzione dell’ordinamento in senso distonico rispetto al margine qualificante di tale opzione.
Le forme della giurisdizione volontaria rispondono al modello camerale di decisione.
E tuttavia il modello camerale è stato nel tempo variamente impiegato dal legislatore anche per la tutela dichiarativa dei diritti.
A sua volta il concetto di decisorietà – tradizionalmente imperniato sulla idoneità del provvedimento al giudicato in ordine alla situazione soggettiva coinvolta, quale che sia la forma del provvedimento stesso, purché codesto sia altresì definitivo, vale a dire insuscettibile di distinta impugnazione e non destinato a essere assorbito in un provvedimento ulteriore a sua volta impugnabile – ha conosciuto una ulteriore evoluzione in chiave di compatibilità costituzionale.
Ai fini della garanzia costituzionale di cui all’art. 111 Cost. quel concetto è stato affinato in senso relativo, così da renderlo coerente con le caratteristiche del modello processuale di volta in volta prescelto dal legislatore per la tutela dei diritti.
La garanzia costituzionale di cui all’art. 111 Cost. mira a contrastare il pericolo di applicazioni non uniformi della legge con provvedimenti suscettibili di passare in giudicato, cioè con provvedimenti tipici ed esclusivi della giurisdizione contenziosa, mediante i quali “il giudice, per realizzare la volontà di legge nel caso concreto, riconosce o attribuisce un diritto soggettivo, oggetto di contestazione, anche solo eventuale, nel contraddittorio delle parti”. Così in vero si espresse (in motivazione) una lontana ma sempre condivisibile decisione di questa Corte (Cass. Sez. 1 n. 824 del 1971), aprendo la via al nesso tra i requisiti all’uopo rilevanti: l’attitudine del provvedimento a incidere su diritti soggettivi con quella particolare efficacia che corrisponde al giudicato e che è oggetto tipico della giurisdizione contenziosa, e di farlo nel contesto di una controversia tra parti contrapposte chiamate a misurarsi in contraddittorio tra loro.
Non può negarsi che questo tipo di provvedimenti, tipici della giurisdizione contenziosa, siano stati in periodo recente sempre più spesso surrogati (nella forma) dall’utilizzazione del modello camerale di definizione del giudizio concluso da un decreto.
Tale constatazione ha indotto queste Sezioni Unite a confermare l’esistenza della caratteristica della decisorietà in distinte fattispecie non allineate al modello ordinario del processo, fino a indurre alla tesi che “la decisorietà, dunque, consiste nell’attitudine del provvedimento del giudice non solo ad incidere su diritti soggettivi delle parti, ma ad incidervi con la particolare efficacia del giudicato (nel che risiede appunto la differenza tra il semplice “incidere” e il “decidere” (..) “: il quale giudicato è un “effetto tipico della giurisdizione contenziosa”.
Tale non è quella che si realizza (necessariamente) nel processo (ordinario o speciale) di cognizione, quanto piuttosto quella “che si esprime su una controversia, anche solo potenziale, fra parti contrapposte, chiamate (..) a confrontarsi in contraddittorio nel processo” (v. Cass. Sez. U n. 26989-16 e Cass. Sez. U n. 27073-16, rispettivamente relative ai decreti conclusivi dei giudizi di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti e della proposta di concordato preventivo).
VIII. – Occorre aggiungere che sui riferiti principi oggi si registra una sostanziale continuità di interpretazioni, con la specificazione che se invece il provvedimento al quale il processo è preordinato non costituisce espressione del potere-dovere del giudice di decidere controversie tra parti contrapposte, in cui ciascuna tende all’accertamento di un proprio diritto soggettivo nei confronti dell’altra, esso non può avere contenuto sostanziale di sentenza, né carattere decisorio, finanche ove non sia suscettibile di alcuna forma di impugnazione.
Di massima si tratta di provvedimenti ritenuti sempre revocabili per motivi sia sopravvenuti che preesistenti.
In altri casi si tratta di provvedimenti relativi sì alla tutela del diritto soggettivo, ma non definitivi.
Indicativamente possono essere citate a guisa di esempio:
– Cass. Sez. U n. 3073-03 (quanto ai provvedimenti resi in tema di omologazione, iscrizione e pubblicazione di deliberazioni assembleari di società, secondo le previsioni degli artt. 2411 e 2436 cod. civ. nella disciplina anteriore all’entrata in vigore delle norme di semplificazione dettate dall’art. 32 della legge 24 novembre 2000, n. 340);
– Cass. Sez. U n. 11026-03 (quanto ai provvedimenti, ritenuti emessi in sede di volontaria giurisdizione, che limitino o escludano la potestà dei genitori naturali ai sensi dell’art. 317-bis cod. civ., che pronuncino la decadenza dalla potestà sui figli o la reintegrazione in essa, ai sensi degli artt. 330 e 332 cod. civ., che dettino disposizioni per ovviare ad una condotta dei genitori pregiudizievole ai figli, ai sensi dell’art. 333 cod. civ., o che dispongano l’affidamento contemplato dall’art. 4, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184);
– e ben vero nella stessa materia già Cass. Sez. U n. 6220-86, Cass. Sez. U n. 1026-95, Cass. Sez. U n. 3387-98;
– e poi ancora Cass. Sez. U n. 1914-16 (in relazione all’ordinanza di inammissibilità dell’appello resa ex art. 348-ter cod. proc. civ., ritenuta ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., solo per i vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale, perché quanto alla tutela del diritto soggettivo essa non è definitiva – e quindi neppure decisoria – essendo previsto il ricorso contro la sentenza di primo grado).
IX. – Sempre su base evolutiva non può esser taciuta infine la tendenza giurisprudenziale a relativizzare il concetto stesso di attitudine al giudicato mediante la via del giudicato cd. allo stato degli atti.
In particolare deve tenersi conto della precisazione più recentemente fatta da queste Sezioni Unite a proposito dei provvedimenti de potestate emessi dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 333 cod. civ.
In quel caso si è detto che i provvedimenti possiedono attitudine al giudicato rebus sic stantibus in quanto non sono revocabili o modificabili salva la sopravvenienza di fatti nuovi.
E quindi si è affermato che il decreto della corte d’appello che, in sede di reclamo, conferma, revoca o modifica i predetti provvedimenti, è impugnabile mediante ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 cost. (Cass. Sez. U n. 32359-18, cui adde conf. Cass. Sez. 6-1 n. 1668-20, Cass. Sez. 1 n. 17177-20, Cass. Sez. 1 n. 9691-22).
Se si tiene a mente ciò che all’inizio si è detto a proposito del sempre più consistente margine di utilizzazione del modello camerale in sede legislativa, pure oltre l’ambito viceversa fisiologico della giurisdizione (sostanzialmente) volontaria, che presuppone un modello destinato alla mera cura di interessi, l’orientamento così integrato non equivale a un ribaltamento totale, perché l’enunciato è stato giustificato con la considerazione che si ha a che fare con provvedimenti tesi per loro stessa natura a dirimere conflitti tra posizioni soggettive diverse in correlazione con la ristrutturazione del procedimento discendente dalla l. n. 154 del 2013; la quale ha per l’appunto tradotto il procedimento alla stregua di un modello dialettico pur sempre contenzioso (art. 336, secondo comma, cod. civ.), caratterizzato in particolar modo dalla previsione (art. 336, quarto comma, cod. civ.) dell’onere del patrocinio di un difensore per ciascuna delle parti coinvolte e destinato a culminare in un provvedimento (non provvisorio ma) conclusivo.
In ciò si giustifica la puntualizzazione della citata sentenza n. 32359 del 2018 – questa sì in effetti generalizzabile – circa il non essere di per sé la previsione del procedimento camerale (art. 38 att. cod. civ.) univoca per escludere l’idoneità alla formazione di un giudicato dei provvedimenti emessi al suo esito.
Si giustifica proprio perché il riferimento è al giudicato compatibile con le fattispecie provvedimentali conclusive di questo tipo di procedimenti: il giudicato rebus sic stantibus.
X. – La fattispecie in esame concerne il procedimento di cui alla l. n. 1185 del 1967.
La caratteristica essenziale di questa fattispecie è costituita dalla strutturazione certamente definitiva del provvedimento che conclude il reclamo.
Tale è anche la conclusione implicitamente divisata dal precedente del 2018 quanto ai provvedimenti de potestate assunti dal tribunale per i minorenni; e quella conclusione era negata – di contro – in molte delle anteriori decisioni appena sopra richiamate (nel solco soprattutto di Cass. Sez. U n. 6220-86).
Ne segue che la giurisprudenza è progredita pure da questo punto di vista.
Ma anche a volerne prescindere, è un fatto che una eguale negazione del dato di partenza non può minimamente predicarsi nel distinto frangente che qui rileva, nel senso che in questo caso si discorre di un decreto camerale indiscutibilmente definitivo.
Il reclamo ex lege n. 1185 del 1967 si risolve in un provvedimento non impugnabile né destinato a essere assorbito in una decisione “altra”, a sua volta impugnabile.
Ed è evidente la definitività perché l’autorizzazione al rilascio del passaporto, una volta data, trova il contrappeso nella sola fattispecie del ritiro, nelle condizioni peraltro di cui all’art. 12: vale a dire quando “sopravvengono circostanze” (id est, intervengono circostanze nuove) che ne avrebbero legittimato il diniego.
A sua volta, se negata a motivo dell’inadempienza del richiedente agli obblighi di legge, l’autorizzazione può essere simmetricamente rilasciata solo dinanzi alla sopravvenienza di nuove circostanze integrata dalla prova dell’adempimento di quegli obblighi.
Che quindi si tratti di provvedimento definitivo non è dubitabile.
L’autorizzazione, data o negata in sede di reclamo, non è invero destinata a essere assorbita in un provvedimento diverso a sua volta impugnabile.
XI. – Ai fini della garanzia di cui all’art. 111 cost. il nodo si sposta, allora, sull’esame del requisito di decisorietà.
In questa prospettiva il passaggio dall’attitudine al giudicato all’attitudine alla stabilizzazione degli effetti sulla situazione giuridica tutelata (nel che si traduce la clausola rebus sic stantibus) diventa centrale.
Solo una tal stabilizzazione può integrare il dato della decisorietà in unione col dispiegarsi della forma camerale, perché codesta è l’unica caratteristica sostenibile nell’alveo della garanzia costituzionale dell’art. 111 cost. per questo tipo di processi.
Come accennato, al modello camerale il legislatore è solito ricorrere, oggi sempre di più, come forma alternativa di realizzazione della legge quando l’obiettivo da perseguire è la rapidità della decisione, anche se riferita al riconoscimento e all’attribuzione di diritti soggettivi.
E difatti l’essenza della giurisdizione (in senso proprio) è da individuare al di là della forma, perché l’essenza – come efficacemente è stato detto – manifesta lo scopo, e lo scopo non è altro che l’aspetto dinamico dell’effetto rispetto al contenuto del provvedimento, come mezzo di realizzazione.
Questa sintesi tiene conto di entrambi i profili che rilevano, quello strutturale e quello funzionale, e consente di ribadire che ai fini specifici interessa solo che il provvedimento terminale aspiri a dichiarare (o ad accertare) il diritto nel caso concreto, per risolvere imperativamente un conflitto di interessi.
In ciò è il fondamento della giurisdizione contenziosa qualunque sia il modello formale prescelto, perché per ravvisare l’effetto dichiarativo deve aversi riguardo al contenuto della pronuncia in rapporto all’oggetto del processo, e il legislatore è sempre libero di stabilire che si pervenga all’accertamento e alla tutela del diritto soggettivo con un procedimento in camera di consiglio. L’art. 111 cost. vieta infatti di sottrarre al sindacato di legittimità i provvedimenti a contenuto decisorio, ma non impone di impiegare la forma del processo di cognizione per l’accertamento del diritto.
Nei diversi casi in cui il diritto risulti oggetto di contestazione nel contraddittorio delle parti, le forme del processo camerale vengono adoperate per la tutela dichiarativa e il provvedimento finisce con l’assumere in ogni caso una funzione contenziosa.
Questa cosa massimamente accade quando oggetto della decisione siano i diritti o gli status e quando il provvedimento a essi relativo conduca a una sorta di giudicato tale da non poter essere modificato che per fatti o situazioni sopravvenute, così da stabilizzarsi – altrimenti – allo stato degli atti.
Una siffatta possibilità di impiego alternativo del concetto è stata d’altronde legittimata da queste stesse Sezioni Unite fin da quando esse si sono occupate dei decreti emessi in camera di consiglio dalla corte d’appello a seguito di reclamo avverso i provvedimenti emanati dal tribunale sull’istanza di revisione delle disposizioni accessorie alla separazione; decreti che, in quanto incidenti su diritti soggettivi delle parti, nonché caratterizzati “da stabilità temporanea”, che li rende idonei “ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus”, sono stati appunto ritenuti impugnabili col ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost. (v. Cass. Sez. U n. 22238-09).
XII. – Riannodando sinteticamente il discorso sui riferiti punti, può quindi affermarsi che:
(a) l’art. 111, settimo comma, Cost. è garanzia del diritto di chi sia (stato) parte di un procedimento da svolgere in contraddittorio con una parte contrapposta, in funzione dichiarativa di un proprio diritto soggettivo;
(b) da ciò resta integrata la garanzia costituzionale del ricorso per cassazione in ordine al provvedimento conclusivo di quel procedimento, qualunque ne sia la forma, secondo il concetto di decisorietà;
(c) nelle fattispecie procedimentali soggette al modello camerale, la caratteristica di decisorietà, cui si collega la garanzia costituzionale del ricorso per cassazione per violazione di legge, parimenti attinge la natura sostanziale del provvedimento ove questo sia destinato a decidere su posizioni soggettive contrapposte, ed è integrata dal caso che si tratti di provvedimenti suscettibili di stabilizzazione perché per loro natura non provvisori e non suscettibili di assorbimento in decisioni “altre”: provvedimenti modificabili – sì – ma solo in forza del sopravvenire di circostanze nuove e diverse, secondo i canoni del giudicato cd. allo stato degli atti o, come anche suol dirsi, del giudicato rebus sic stantibus.
XIII. – Coi superiori principi vanno a questo punto comparate le caratteristiche del decreto che decide il reclamo ai sensi dell’art. 3 della l. n. 1185 del 1967.
Come detto all’inizio, la verifica deve essere svolta in rapporto al testo che rileva in causa: che è quello previgente rispetto al d.l. n. 69 del 2023.
Ma è ovvio che il menzionato intervento normativo non è totalmente ininfluente.
Esso difatti costituisce sintomo di una ben definita linea di tendenza del legislatore nazionale a coonestare sul piano del procedimento – onde prevenire possibili infrazioni al diritto comunitario – l’ambito funzionale e il connotato contenutistico del decreto autorizzativo previsto dalla ripetuta l. n. 1185 del 1967, che risulti emesso a conclusione di un reclamo.
XIV. – Si è anticipato che la consolidata giurisprudenza di questa Corte ascrive il provvedimento in questione – in senso formale – all’ambito della volontaria giurisdizione, per l’indicazione contenuta nell’art. 4 della citata legge.
Quello della volontaria giurisdizione è un ambito non contemplato dall’art. 111, settimo comma, Cost., per la già vista fondamentale ragione che la giurisdizione volontaria si distingue dalla giurisdizione contenziosa, non essendo rivolta alla tutela dichiarativa su diritti.
Questa puntualizzazione generale continua ad avere una sua validità, ma alla condizione che l’appartenenza di un provvedimento alla giurisdizione volontaria sia effettiva anche dal punto di vista concreto e sostanziale – vale a dire al di là della forma.
Non serve allargare il discorso sul profilo definitorio, per la nota e mai sopita disputa dottrinale sull’essenza (amministrativa, giurisdizionale o mista) della categoria alla quale ci si riferisce.
L’elemento fondamentale è dato dal riconoscimento della funzione del giudice, perché come da gran tempo si dice (anche in dottrina) nella giurisdizione volontaria la funzione del giudice non è quella di risolvere in posizione di terzietà un conflitto tra posizioni soggettive diverse (nel che si sostanzia la tutela dichiarativa su diritti), ma semplicemente quello di curare interessi. E la semplice cura di interessi è incompatibile con una qualunque attività propriamente decisoria, perché (come ancora efficacemente è stato sottolineato) ne difetterebbero finanche i presupposti di base, come quello (assolutamente pregiudiziale) di imparzialità dell’organo competente.
Reputano le Sezioni Unite che l’orientamento fin qui dominante, incentrato sull’appartenenza alla giurisdizione volontaria del provvedimento che decide il reclamo avverso il decreto del giudice tutelare di autorizzazione al rilascio del passaporto a favore di genitore di figli minori, non può esser mantenuto.
Più ancora che l’inconveniente pratico messo in risalto dall’ordinanza interlocutoria – inconveniente certo esistente e niente affatto marginale, per la possibilità della eventuale perdita definitiva e del pregiudizio irretrattabile del diritto del minore per lo stesso fluire del tempo, ove l’opposizione dell’altro genitore sia motivata dalle inadempienze del richiedente – risolutive appaiono le indicazioni provenienti dalla Corte costituzionale, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e infine dalla stessa Corte di giustizia della UE; le quali tutte convergono verso la conclusione opposta, e cioè che il procedimento serve alla tutela di diritti in senso proprio.
XV. – La tipologia di situazioni giuridiche incise dall’autorizzazione al rilascio del passaporto è agevolmente definibile in base alle precisazioni fatte innanzi tutto dalla Corte costituzionale.
Al fondo del diritto di ottenere il rilascio del passaporto l’art. 16 Cost. pone un chiaro riferimento alla salvezza degli eventuali obblighi di legge: “ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge”.
La Corte costituzionale ha affermato che la regola generale a cui si ispira la legge n. 1185 del 1967 in tema di rilascio del passaporto al genitore di prole minore è quella della necessaria autorizzazione del giudice tutelare “a garanzia dell’assolvimento, da parte del genitore, dei suoi obblighi verso i figli” (C. cost. n. 464 del 1997).
XVI. – Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto che la ratio ispiratrice della legge 1185 del 1967 è quella di “garantire l’assolvimento da parte del genitore dei suoi obblighi verso i figli” (sent. 2-12-2014, in causa Battista c. Italia, citata dall’ordinanza interlocutoria), e ha specificato che la stessa libertà di circolazione può essere compressa, ai sensi dell’art. 2, par. 3, del 4° Protocollo addizionale della Cedu, nei casi espressamente previsti dalla legge interna di uno Stato per uno dei motivi elencati nella disposizione convenzionale.
Da questo punto di vista è stato detto più volte che il Protocollo non osta a che l’esercizio del diritto di una persona di lasciare il Paese sia subordinato al rispetto di requisiti formali quali l’ottenimento di un documento di viaggio valido (il passaporto) o di un visto o del consenso dei genitori o della decisione del tribunale che autorizza il viaggio di un minore (cfr. la sent. 30-3-2017, causa Iovita c. Romania, e la sent. 12-2-2015, causa Lolova c. Bulgaria).
Quel che rileva, per la legge italiana, quale base legale di ingerenza del giudice tutelare, è quindi che la misura si prefigga di garantire “gli interessi dei figli del ricorrente e di perseguire per principio un obiettivo legittimo di tutela dei diritti altrui”: in particolare dei diritti dei figli “che devono ricevere l’assegno alimentare”, salva rimanendo l’assicurazione di proporzionalità della restrizione imposta, da perseguirsi evitando, secondo le circostanze, che la stessa sia automaticamente mantenuta “per molto tempo” (così ancora la sent. 2-12-2014, causa Battista c. Italia, da cui i virgolettati).
Dire che la restrizione non può essere “automaticamente” mantenuta a tempo indefinito vuol dire che la stessa è modificabile. Ma lo è solo perché si impone sempre il riscontro della persistenza del suo fondamento nel tempo, in base a fatti o a circostanze sopravvenuti.
XVII. – In un’ottica similare lo strumento dettato dalla legge n. 1185 del 1967 è ritenuto infine compatibile con l’art. 45 della Carta dei diritti fondamentali della UE e all’art. 21 del TFUE.
La Corte di giustizia della UE anche recentemente ha ribadito che una misura nazionale idonea a ostacolare l’esercizio della libera circolazione delle persone può essere giustificata ove sia conforme (e solo se conforme) ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta (v. C. giust. 14-12-2021, in causa C-490/2020).
Ciò determina che il giudice tutelare, prima, e il tribunale in sede di reclamo poi, possano autorizzare o negare il rilascio del passaporto al genitore di prole minore valutando e decidendo se la limitazione del diritto alla libertà di circolazione del genitore suddetto sia essa stessa necessaria in ragione della preminente salvaguardia dei diritti dei minori.
In buona sostanza:
– il provvedimento serve alla funzione, che è quella di evitare che il genitore, espatriando, si sottragga ai propri doveri verso i figli minori;
– implica una decisione su diritti contrapposti;
– resta legittimato dal fatto che l’eventuale decisione negativa non rimanga automaticamente in vigore a tempo indeterminato, proprio perché la stessa potrebbe diventare sproporzionata in ragione del mutamento di quelle circostanze che all’inizio l’avevano giustificata.
XVIII. – Sulla base di tali considerazioni è allora possibile formulare la seguente complessiva risposta alla questione di massima indicata dall’ordinanza interlocutoria:
(i) la qualificazione del decreto che decide sul reclamo relativamente al rilascio del passaporto nei confronti di genitore di prole minore non è e non può essere quella di un semplice provvedimento di volontaria giurisdizione;
(ii) non può esserlo perché al fondo non c’è la semplice cura degli interessi in gioco, ma la vera definizione di un conflitto intersoggettivo nel profilo che inerisce alla tutela del diritto del minore a ricevere dai genitori l’adempimento degli obblighi di mantenimento, istruzione, educazione e assistenza anche morale (art. 147 cod. civ.) in contrapposizione col diritto del genitore di munirsi del titolo che gli consenta di esercitare la libertà garantita (salvi gli obblighi di legge) dall’art. 16 Cost.;
(iii) da ciò è integrata la natura sostanzialmente contenziosa del procedimento oppositorio del reclamo, procedimento il quale – al di là dell’essere stato prescelto il più duttile e sollecito modello camerale di definizione – deve considerarsi strutturato in coerenza col profilo contenutistico e funzionale;
(iv) questa caratteristica – oggi esplicitamente recepita dalla novellazione di cui al d.l. n. 69 del 2023 – imprime al decreto finale quella valenza decisoria che è insita nella natura contenziosa del procedimento teso a contestare il presupposto del rilascio dell’autorizzazione; difatti gliela imprime in un ambito evidente di definitività, perché un’autorizzazione del genere o è concessa o non lo è, e una volta seguita dall’espatrio ha raggiunto anche il suo fine pratico; sicché il provvedimento di autorizzazione, che sia adottato o confermato in sede di reclamo, è definitivo, non essendo altrimenti impugnabile né destinato a essere assorbito in un provvedimento distinto a sua volta impugnabile;
(v) la duplice valenza legittima l’assoggettamento del decreto al ricorso straordinario secondo l’uniforme soluzione alla quale è stata ancorata – nel periodo più recente – la nozione di decisorietà in modo compatibile col dispiegarsi della tutela camerale; in vero questaesta è l’unica conclusione sostenibile nell’alveo della garanzia costituzionale dell’art. 111, settimo comma, Cost., rimanendo la decisorietà integrata dall’attitudine del decreto, così esitato, a un giudicato allo stato degli atti.
XIX. – Il ricorso per cassazione è quindi nel caso concreto ammissibile.
XX. – Il ricorso è anche fondato in relazione ai primi due motivi, con assorbimento degli altri.
Il tribunale ha reso la decisione affermando che niente era stato prodotto dalla reclamante a riprova dell’attuale condizione lavorativa dell’obbligato e della dedotta sua inadempienza agli obblighi di mantenimento dei figli, né di un più generale suo disinteresse alle esigenze economiche della prole. Ha ravvisato una contraddizione in quanto dichiarato dalla moglie a proposito dell’inadempimento degli obblighi del marito verso la prole, perché l’inadempimento sarebbe stato indicato dapprima come esistente in coincidenza col momento dell’allontanamento da casa (a seguito di denuncia sporta nel 2015) e poi come riferibile a un periodo di circa due mesi anteriori alle sommarie informazioni rese alla questura (2018). Ha concluso nel senso che comparando gli interessi sottesi alle posizioni dei coniugi il diritto del marito al rilascio del passaporto non potesse considerarsi recessivo “a fronte di mero timore muliebre”, essendo codesto timore insufficiente a motivare un legittimo dissenso.
XXI. – La motivazione è completamente deficitaria e integra un chiarissimo errore di diritto.
La decisione richiesta a riguardo dell’autorizzazione concretizza un giudizio di affidabilità del genitore di prole minore in ordine all’adempimento dei suoi obblighi, perché serve a evitare che il genitore, espatriando, si sottragga ai doveri verso i figli.
E’ insito nella citata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che non altri che sul genitore gravi l’onere di dimostrare, in caso di avversa contestazione, di essere adempiente e affidabile.
Difatti l’ingerenza giurisdizionale si spiega con la garanzia degli interessi dei figli minori del richiedente l’autorizzazione (v. anche sent. 17-12-2019, in causa Torresi c. Italia), e tali interessi sono preminenti perché i figli devono poter ricevere quanto è stabilito, non solo in termini economici, di riflesso al coacervo dei loro diritti (artt. 147 cod. civ. e 30 Cost.).
Del resto, il giudice ha il potere di revocare la già concessa autorizzazione, ritirando (art. 12 della legge cit.) il passaporto.
Il passaporto è ritirato “quando sopravvengono circostanze che ai sensi della presente legge ne avrebbero legittimato il diniego” e anche (in base al testo vigente pro tempore) “quando il titolare si trovi all’estero e, ad istanza degli aventi diritto, non sia in grado di offrire la prova dell’adempimento degli obblighi alimentari che derivano da pronuncia dell’autorità giudiziaria o che riguardino i discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro, gli ascendenti e il coniuge non legalmente separato”.
E’ agevole desumere che la regola al fondo della disciplina di legge è esattamente inversa a quella ritenuta dal tribunale di Brescia.
Viene dalla legge esplicitamente attribuito al titolare del passaporto che si trovi all’estero l’onere di fornire la prova dell’avvenuto adempimento degli obblighi alimentari nei confronti dei figli minori, giacché la conseguenza del mancato assolvimento è il ritiro del passaporto.
Ecco così delineati gli oneri rispettivi: agli aventi diritto (e per essi all’altro genitore) non spetta altro che l’allegazione dell’altrui inadempimento, sia opponendosi al rilascio dell’autorizzazione, sia facendo istanza ex art. 12 una volta che l’autorizzazione sia stata rilasciata; mentre è assegnato sempre all’obbligato l’onere di dimostrare, anche se abbia già ottenuto il passaporto, il rispetto dei doveri derivanti dalla qualità di genitore.
Il tribunale ha errato nel pretendere che fosse la reclamante a dover assolvere all’onere dimostrativo della “dedotta attuale inadempienza paterna agli obblighi di mantenimento dei figli o, comunque, di un più generale disinteresse (..) alle esigenze economiche della prole”. E ha errato anche nel dire che la comparazione degli interessi giuridici sottesi alle posizioni dei coniugi esprimesse un dato di preminenza del diritto del marito al rilascio del passaporto in funzione della sua “libertà di movimento”.
Una tale motivazione, evasiva e apodittica, non concretizza in fatto alcuna effettiva comparazione dei livelli di interesse, giacché la “libertà di movimento” del genitore di prole minore (per ripetere la formula impiegata dal giudice a quo) presuppone, in caso di opposizione, la previa dimostrazione dell’assolvimento degli obblighi di legge verso la medesima prole.
XXII. – Il ricorso va dunque accolto in relazione ai primi due motivi.
Gli altri sono assorbiti.
Il decreto deve essere cassato con rinvio al medesimo tribunale che, in diversa composizione, rinnoverà l’esame uniformandosi ai principi esposti.
Il tribunale provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede legittimità.
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, accoglie i primi due motivi di ricorso, assorbiti gli altri, cassa il provvedimento e rinvia al tribunale di Brescia anche per le spese del giudizio di cassazione.
Dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, addì 11 luglio 2023.
Il Presidente
Il Consigliere estensore
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 17 ottobre 2022, n. 30478, per SS.UU, 24 luglio 2023, n. 22048, in tema di rilascio del passaporto
SS.UU, 24 luglio 2023, n. 22048, in tema di rilascio del passaporto
In tema di protezione dei minori – SS.UU, 26 giugno 2023, n. 18199
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
FILIAZIONE
MINORI
Ud. 20/06/2023 –
U.P.cam.
R.G.N. 23918/2021
Rep.
SENTENZA
sul ricorso 23918-2021 proposto da:
E.Y. , rappresentata e difesa dall’avvocato ELISABETTA RENIER;
– ricorrente –
contro
R.S. , rappresentato e difeso dall’avvocato LAURA COSSAR;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza n. 2860/20214 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 21/06/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2023 dal Consigliere ENRICO SCODITTI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale LUISA DE RENZIS, il quale chiede che le Sezioni Unite rigettino il ricorso ed affermino il principio di diritto esposto nella parte motiva della requisitoria.
Fatti di causa
1. E.Y. propose innanzi alla Corte d’appello di Bologna domanda di accertamento dei requisiti di riconoscimento della sentenza del 13 giugno 2019, emessa sulla base del ricorso presentato in data 29 settembre 2018 dal Tribunale di Butirskiy – Città di Mosca (Federazione Russa), e mediante cui erano stati affidati i due figli nati nel corso della sua relazione con R.S. , entrambi minorenni, alla madre, determinando la residenza presso quest’ultima e fissando l’orario di visite per il padre. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda.
2. Con sentenza di data 21 giugno 2021 la Corte d’appello adita rigettò la domanda.
Osservò la corte territoriale, premesso che la norma regolante la giurisdizione in Italia era quella della residenza abituale del minore, come previsto dall’art. 8 Reg. CEE n. 2201/2003, che ostava al riconoscimento della sentenza la carenza del presupposto di cui all’art. 64 lett. a) l. n. 218 del 1995 («il giudice che l’ha pronunciata poteva conoscere della causa secondo i princìpi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano»), ed in particolare la circostanza che la Federazione Russa non costituiva lo Stato di residenza abituale dei minori. Osservò in particolare che, all’epoca di proposizione del ricorso (29 settembre 2018), i minori erano residenti abitualmente in Italia, avendo sempre abitato a C. (ove avevano anche la residenza anagrafica) dalla nascita, e trovandosi nella Federazione Russa solo da un paio di mesi per le vacanze estive. Aggiunse che, dovendosi identificare il criterio della residenza abituale del minore nella dimora stabile, non precaria, costituente il luogo dei più radicati legami affettivi e dei principali e reali interessi, non poteva tale luogo essere identificato all’interno della Federazione Russa, in luogo dell’Italia, ove invece i minori fino al settembre 2018 erano cresciuti con i genitori. Osservò inoltre che i due mesi trascorsi nella Federazione Russa non potevano costituire un tempo apprezzabile per considerare radicata in quello Stato l’abituale residenza.
Aggiunse che, se era vero che il padre non aveva eccepito innanzi al Tribunale della Federazione Russa il difetto di giurisdizione, ciò nondimeno trovava applicazione il principio di diritto di cui a Cass. Sez. U. n. 28 ottobre 2015, n. 21946, secondo cui «in tema di riconoscimento di sentenze straniere, ai sensi della L. n. 218 del 1995, i vizi (tra cui il difetto di competenza giurisdizionale, secondo i principi propri dell’ordinamento italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. a) che, se tempestivamente dedotti avanti al giudice straniero, avrebbero inficiato il giudizio, non possono essere fatti valere, per la prima volta, davanti al giudice italiano». Osservò quindi che se il S. avesse eccepito il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria della Federazione Russa, invocando la norma di cui all’art. 8 del Regolamento CE n. 2201/03, «avrebbe visto respinta la sua eccezione, perché l’A.G. della Federazione Russa non era tenuta ad applicare il Reg. CE».
3. Ha proposto ricorso per cassazione E.Y. sulla base di quattro motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. E’ stata depositata memoria di parte.
4. Con ordinanza interlocutoria n. 34969 del 28 novembre 2022 la Prima Sezione Civile ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per l’eventuale sua assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 3, affinché le stesse stabilissero «se, nell’ambito di un giudizio di riconoscimento, in Italia, dell’efficacia di una sentenza straniera, la parte ivi convenuta, che si sia ritualmente costituita nel giudizio svoltosi innanzi al giudice a quo senza sollevare, in quella sede, alcuna eccezione circa la carenza della “competenza giurisdizionale” di quest’ultimo, possa ancora formulare una siffatta eccezione innanzi al giudice della invocata delibazione oppure se la stessa possa essere sollevata di ufficio da quest’ultimo». Il ricorso è stato quindi assegnato a queste Sezioni Unite.
5. Si dà preliminarmente atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in camera di consiglio, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, ai sensi dell’art. 8, comma 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, che ha prorogato fino alla data del 30 giugno 2023 l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 221, comma 8, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, e di cui all’articolo 23, commi 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, e 9-bis, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.
6. Il Procuratore Generale ha presentato le conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso. E’ stata presentata memoria dalla ricorrente.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 42 l. n. 218 del 1995, che rinvia ai principi della Convenzione dell’Aja del 5 Ottobre 1961 sulla competenza delle autorità e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori, e dell’art. 64 lett. a) della medesima legge. Lamenta la ricorrente che la corte territoriale ha ritenuto che il giudice della Federazione Russa non fosse competente a decidere della causa in base ai principi sulla competenza giurisdizionale dell’ordinamento italiano, tra i quali principi però non possono non rientrare anche quelli dettati dalla L. n. 218 del 1995, art. 42 e della Convenzione dell’Aja, e che nella specie è stato violato l’art. 5 della Convenzione dell’Aja del 1996 in base al quale, in caso di lecito trasferimento della residenza abituale di un minore, sono competenti giurisdizionalmente le Autorità del nuovo Stato di residenza, per cui sulla base del lecito trasferimento doveva intendersi come residenza abituale dei minori non quella anagrafica, ma quella corrispondente alla residenza di fatto nella Federazione Russa. Aggiunge che erroneamente è stato richiamato il Regolamento CE 2201/03 inapplicabile al caso di specie.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 116 c.p.c. e dell’art. 2699 c.c.. Osserva la ricorrente che la Corte d’appello ha omesso la valutazione di elementi probatori documentali in atti, ed in particolare gli elementi di prova documentali presenti nelle sentenze della Federazione Russa, parificabili agli atti redatti da un pubblico ufficiale e deponenti nel senso della residenza stabile dei minori in quel Paese o comunque suscettibile di diventare tale, e ha in ogni caso omesso la valutazione di ogni elemento presente in atti necessario a confermare che la residenza dei minori in Russia aveva carattere di abitualità.
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 64 lett. a) l. n. 218 del 1995. Osserva la ricorrente, con riferimento al rilievo che se il S. avesse eccepito il difetto di giurisdizione della Federazione Russa invocando l’art. 8 Regolamento CE cd. Bruxelles II bis, avrebbe vista respinta la sua eccezione in quanto la Federazione Russa non era obbligata ad applicare il predetto Regolamento europeo, che il medesimo S. ben avrebbe potuto contestare la giurisdizione della Federazione Russa ai sensi della Convenzione dell’Aja del 1996, da applicare per la determinazione della giurisdizione in materia di affidamento di minori ai sensi della L. n. 216 del 1995, ed alla quale la Federazione Russa era tenuta ad uniformarsi per averla ratificata. Aggiunge che non avendo egli opposto tale eccezione, che sarebbe stata decisa in base alle disposizioni della Convenzione medesima, risultava evidente che lo stesso fosse decaduto definitivamente da ogni eccezione in merito alla giurisdizione, anche ai sensi delle norme italiane di diritto internazionale privato.
4. Con il quarto motivo si denuncia violazione della l. n. 766 del 1985 (“Ratifica ed esecuzione della convenzione tra la Repubblica italiana e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche sull’assistenza giudiziaria in materia civile”, firmata a Roma il 25 gennaio 1979), per avere la corte ignorato e disapplicato i dispositivi della predetta Convenzione che riconoscono la facoltà ai cittadini delle Parti contraenti di adire liberamente le autorità giurisdizionali di ciascuna parte e l’efficacia delle decisioni giurisdizionali delle parti contraenti. Precisa che in particolare sono stati disapplicati gli artt. 1, 19 e 24 della medesima Convenzione.
5. Nell’ordinanza interlocutoria, dopo avere premesso che la inapplicabilità del Reg. CE n. 2201/03 nei confronti della Federazione Russa non avrebbe escluso la necessità di verificare l’esito della suddetta eccezione alla stregua della disciplina sancita dalla Convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 – ratificata dall’Italia con la L. 18 giugno 2015, n. 101 – cui ha aderito anche la Russia, viene revocato in dubbio il principio di diritto reso da Cass. Sez. U. n. 21946 del 2015 sul presupposto sia dell’art. 11 della l. n. 218 del 2015, secondo cui il difetto di giurisdizione può essere rilevato, in qualunque stato e grado del processo, soltanto dal convenuto costituito che non abbia espressamente accettato la giurisdizione italiana (mentre il giudice può rilevare d’ufficio il proprio difetto di giurisdizione se il convenuto è contumace), che dell’art. 4 della medesima legge, secondo cui il convenuto costituitosi in giudizio, qualora non proponga l’eccezione di difetto di giurisdizione nella propria comparsa di risposta, accetta, anche implicitamente, la giurisdizione italiana, decadendo dalla possibilità di contestarla in seguito. Il Collegio remittente mostra di non condividere l’opzione della corte territoriale di non conferire rilevanza alla costituzione dell’odierno intimato innanzi all’autorità giudiziaria straniera senza sollevare l’eccezione di giurisdizione alla luce del principio di diritto sopra richiamato, perché è il giudice a quo ad essere investito dei poteri di accertamento della pretesa fatta valere, per cui in quella sede processuale debbono essere valutate tutte le questioni di merito, ma anche di rito, preliminari o pregiudiziali, che attengono alla proponibilità e fondatezza della domanda giudiziale, mentre al Collegio della delibazione spetta la verifica del rispetto di principi fondamentali quali, ad esempio, il contraddittorio, la difesa e l’ordine pubblico, ma anche, sempre ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. a), proprio la competenza giurisdizionale del giudice a quo secondo, però, le norme interne.
Ne consegue, per il Collegio remittente, che era inibito alla Corte d’appello di valutare il profilo della giurisdizione sulla base di un’eccezione che poteva essere proposta dalla parte ritualmente costituitasi, non potendosi far dipendere la possibilità di sollevare, di fronte al giudice italiano, l’eccezione di difetto di competenza giurisdizionale del giudice straniero dal fatto che, davanti a quest’ultimo, il medesimo potere processuale non avrebbe potuto essere esercitato efficacemente per l’inidoneità dell’eccezione ad «inficiare il giudizio», così obbligando il giudice ad quem ad una verifica sull’ipotetico esito dell’eccezione, e dovendosi invece considerare il fatto che la questione non era stata sollevata nel giudizio a quo dalla parte diligente che pur astrattamente avrebbe potuto farlo, con conseguente automatica preclusione nel giudizio ad quem.
6. I motivi, da trattare congiuntamente in quanto connessi, sono infondati, conformemente alle conclusioni del Pubblico Ministero.
6.1. Deve essere premesso un chiarimento preliminare in ordine al principio di diritto da cui prende le mosse l’ordinanza interlocutoria.
Al riguardo va subito detto che Cass. Sez. U. n. 21946 del 2015 non ha fatto applicazione del detto principio. Quest’ultimo, nei termini richiamati dall’ordinanza di rimessione, era stato formulato ed invocato dai ricorrenti in quel giudizio richiamando Cass. 29 maggio 2003, n. 8588. A quest’ultima pronuncia hanno fatto riferimento le Sezioni Unite, tratteggiando il principio nei termini seguenti: «in tema di riconoscimento di sentenze straniere, ai sensi della L. n. 218 del 1995, i vizi (tra cui il difetto di competenza giurisdizionale, secondo i principi propri dell’ordinamento italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. a) che, se tempestivamente dedotti avanti al giudice straniero, avrebbero inficiato il giudizio, non possono essere fatti valere, per la prima volta, davanti al giudice italiano». Non applicando il principio, le Sezioni Unite hanno escluso che l’eccezione di difetto di giurisdizione fosse stata sollevata tardivamente dai ricorrenti, rimasti contumaci dinanzi al giudice statunitense, e che per la prima volta in sede di riconoscimento della sentenza in Italia avevano sollevato l’eccezione di difetto di competenza giurisdizionale del detto giudice, secondo i principi propri del diritto italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. a).
In particolare, il Collegio osservò che «anche là dove i convenuti (la Repubblica Islamica dell’Iran e il Ministero dell’informazione e della sicurezza dell’Iran) avessero partecipato al giudizio dinanzi alla Corte distrettuale per il Distretto della Columbia, il difetto di giurisdizione del giudice statunitense non avrebbe potuto essere utilmente eccepito, in quanto l’immunità dalla giurisdizione dello Stato iraniano sarebbe stata rifiutata da quel giudice in ragione delle disposizioni di una normativa speciale di diritto interno del 1996, cioè la legge sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri (Foreign Sovereign Immunities Act – FSIA), che prevede sì una presunzione di immunità a favore degli Stati stranieri, ma con una eccezione (art. 1605 (a)(7)), applicabile retroattivamente, per le domande di danni materiali introdotte da cittadini americani vittime di atti di terrorismo commessi ai loro danni con il supporto di agenti di Stati, incluso l’Iran, indicati ufficialmente dagli Stati Uniti come sponsor del terrorismo».
Il principio di diritto, come si è detto, risale a Cass. n. 8588 del 2003, nell’ambito di un giudizio di riconoscimento di sentenza sempre statunitense e della quale è opportuno qui richiamare la motivazione, afferente alla ritenuta inammissibilità del motivo in scrutinio.
«Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 64 della Legge 218-95 nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, lamentando che la Corte d’Appello abbia riconosciuto la sentenza straniera, senza considerare che:
– il giudice che l’ha pronunciata non poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano (art. 64 lett. a), avendo detta causa riguardato una responsabilità per fatto illecito (“frode ed istigazione fraudolenta”) che, in base all’art. 64 della legge in esame, è regolata dalla legge dello Stato in cui si è verificato l’evento ovvero il fatto che ha causato il danno, con la conseguenza che, essendo i fatti avvenuti in Italia, in relazione all’acquisto ed alla gestione un’azienda di abbigliamento di Positano, competente doveva ritenersi il giudice italiano;
– l’atto introduttivo del giudizio svoltosi avanti alla Corte americana non era stato portato a conoscenza del convenuto secondo la legge del luogo in cui si era svolto il processo, essendo stato notificato anch’esso in Positano alla via Boscariello ed inoltre il termine a comparire di venti giorni concesso per la sua costituzione avanti alla Corte Federale dello Stato di New York non poteva consentirgli, quale cittadino italiano residente oltre oceano, di esercitare il proprio diritto di difesa.
Anche tale censura è inammissibile, non potendo i rilevati vizi che avrebbero inficiato il giudizio avanti al giudice straniero essere dedotti per la prima volta in questa sede, senza che mai in precedenza, nè avanti al giudice statunitense (nonostante la notifica dell’atto di citazione fosse avvenuta a mani proprie) né avanti alla Corte d’Appello, fossero stati fatti valere. Ciò vale indubbiamente sia per la competenza giurisdizionale di cui all’art. 64 lett. a) della Legge 218-95, tenuto conto, oltre tutto, della sua derogabilità prevista dall’art. 4 della stessa legge, sia per la notifica dell’atto introduttivo di quel giudizio (avvenuta peraltro a mani proprie, come si è già evidenziato) e sia ai fini della valutazione della congruità del termine a comparire assegnato al convenuto, che richiede di volta in volta uno specifico esame in relazione alle particolari circostanze del caso concreto».
Si ricava dalla motivazione in primo luogo che i vizi, inficianti il giudizio innanzi al giudice straniero e non dedotti in quella sede, dei quali viene rilevata l’impossibilità di dedurli con il ricorso per cassazione, sono due: l’incompetenza giurisdizionale e l’irritualità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio. L’impossibilità di dedurli in sede di legittimità riguarda quindi entrambi i vizi ed essi vengono ai fini della decisione unitariamente considerati, e non singolarmente valutati. In secondo luogo, l’inammissibilità della censura discende dalla mancata deduzione del vizio non solo innanzi al giudice straniero, ma anche innanzi alla Corte d’appello, per cui la novità rilevava anche quale proposizione dell’eccezione per la prima volta in sede di legittimità.
Alla luce di tali considerazioni va detto che il principio di diritto in discorso non è mai stato originariamente enunciato come tale, ma è stato dedotto estrapolandolo da un’articolata motivazione di inammissibilità del motivo di ricorso nella sentenza n. 8588 del 2003, inammissibilità basata essenzialmente su due rationes decidendi, congiuntamente rilevanti ai fini della ritenuta inammissibilità. Del principio è stata invocata l’applicazione da parte dei ricorrenti nel giudizio innanzi alle Sezioni Unite e queste si sono limitate a negarne l’applicabilità. Non vi è dunque allo stato un principio di diritto che possa dirsi enunciato dalle Sezioni Unite, nel senso indicato nell’ordinanza di rimessione, né tanto meno un principio che possa assurgere alla dignità prevista dal secondo comma dell’art. 374 cod. proc. civ.
6.2. Ciò chiarito in ordine alla premessa da cui ha preso le mosse l’ordinanza interlocutoria, va detto che, avuto riguardo all’epoca di introduzione del giudizio innanzi al giudice straniero (29 settembre 2018), trova applicazione nel caso di specie la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1996 (“Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori”), cui deve intendersi rinvii l’art. 42 della legge n. 218 del 1995 quale normativa succeduta alla Convenzione del 5 ottobre 1961 (così in motivazione Cass. 12 settembre 2019, n. 22828), in quanto disciplina internazionale ratificata non solo dallo Stato italiano con legge 18 giugno 2015 n. 101, ma anche dalla Federazione Russa. Già la norma generale di cui all’art. 2 della legge n. 218 prevede che «le disposizioni della presente legge non pregiudicano l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l’Italia», ma è soprattutto l’art. 42 a venire in gioco, in base al quale «la protezione dei minori è in ogni caso regolata dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, sulla competenza delle autorità e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori, resa esecutiva con la legge 24 ottobre 1980, n. 742». Nel senso che il caso di specie ricada nella disciplina della detta Convenzione sono anche le conclusioni del Pubblico Ministero.
Per ciò che concerne il riconoscimento della sentenza straniera l’art. 23 della Convenzione, premesso il riconoscimento di pieno diritto della misura adottata dalla autorità di uno Stato contraente negli altri Stati contraenti, prevede, fra le condizioni ostative del riconoscimento, che la misura sia stata adottata da un’autorità la cui competenza non era fondata in base alle disposizioni convenzionali sulla competenza, ed in particolare l’art. 5 della medesima Convenzione, secondo cui «le autorità, sia giudiziarie che amministrative, dello Stato contraente di residenza abituale del minore sono competenti ad adottare misure tendenti alla protezione della sua persona o dei suoi beni».
L’art. 24 prevede poi che «senza pregiudizio dell’art. 23, paragrafo primo, ogni persona interessata può chiedere alle autorità competenti di uno Stato contraente che si pronuncino sul riconoscimento o il mancato riconoscimento di una misura adottata in un altro Stato contraente. La procedura è regolata dalla legge dello Stato richiesto». Si intende da tale disposizione convenzionale che la legge dello Stato richiesto per il riconoscimento trova applicazione limitatamente alle norme che disciplinano la procedura, mentre, per quanto riguarda i presupposti del riconoscimento, trova applicazione la disciplina convenzionale. Quest’ultima non prevede, contrariamente all’art. 64 l. n. 218 del 1998, requisiti costitutivi di efficacia (l’art. 64 è formulato nei termini che si ha riconoscimento quando ricorrano i presupposti contemplati dalla norma), ma contempla il riconoscimento di pieno diritto della sentenza straniera, salvo la ricorrenza di condizioni ostative, ed in particolare, per quanto qui rileva, quella secondo cui la misura giurisdizionale non è stata adottata dalla autorità giudiziaria dello Stato contraente di residenza abituale del minore. La fattispecie resta così regolata, in funzione di disciplina sostanziale del riconoscimento, dall’art. 23 della Convenzione, mentre trova applicazione la legge italiana soltanto per ciò che riguarda la procedura, in particolare, in base alla legge applicabile ratione temporis, il rito sommario di cognizione (a decorrere dal 28 febbraio 2023, il rito è quello semplificato di cognizione), con competenza della corte d’appello del luogo di attuazione del provvedimento straniero (art. 30 d. lgs. n. 150 del 2011, cui rinvia l’art. 67, comma 1-bis, della legge n. 218).
6.3. Con il primo motivo di ricorso si invoca l’applicazione della Convenzione dell’Aja, ma allo scopo di fare applicazione dell’art. 5 della disciplina convenzionale, ed in particolare il secondo paragrafo, il quale prevede che, fatta salva l’ipotesi del trasferimento illecito, «in caso di trasferimento della residenza abituale del minore in un altro Stato contraente, sono competenti le autorità dello Stato di nuova abituale residenza». La censura è inammissibile perché muove da un presupposto di fatto non accertato dal giudice del merito, e cioè che la residenza abituale del minore fosse stata trasferita nella Federazione Russa. Il giudizio di fatto del giudice del merito, in quanto tale non sindacabile nella presente sede alla luce dei noti limiti del controllo di legittimità, è stato nel senso che non vi è stato trasferimento della residenza abituale non potendosi considerare tale il periodo di permanenza di due mesi per le vacanze estive. Tale giudizio di fatto resta fermo nella presente sede di legittimità perché, benché l’art. 25 preveda che «l’autorità dello Stato richiesto è vincolata dalle constatazioni di fatto sulle quali l’autorità dello Stato che ha adottato la misura ha fondato la propria competenza», la ricorrente non ha impugnato l’ordinanza della corte territoriale sotto il profilo della violazione dell’art. 25 della Convenzione.
Alla stregua quindi dell’accertamento di fatto del giudice del merito deve concludersi nel senso che il riconoscimento alla sentenza straniera deve essere negato per essere stata emessa da autorità priva di competenza ai sensi dell’art. 23, paragrafo 2 lett. a), della Convenzione, in quanto non appartenente allo Stato contraente di residenza abituale dei minori.
Inammissibile è anche la censura sollevata con il secondo motivo, essenzialmente per violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., sotto il profilo dell’omessa valutazione della prova, omissione che, secondo l’assunto della ricorrente, avrebbe determinato pure una violazione dell’art. 2699 cod. civ. perché le prove pretermesse sarebbero le sentenze della Federazione Russa. Al riguardo è sufficiente rammentare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ed anche di queste Sezioni Unite, in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867). E’ stato anche da ultimo affermato che il potere del giudice di valutazione della prova non è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione dell’art. 116 c.p.c., quale apprezzamento riferito ad un astratto e generale parametro non prudente della prova, posto che l’utilizzo del pronome “suo” è estrinsecazione dello specifico prudente apprezzamento del giudice della causa, a garanzia dell’autonomia del giudizio in ordine ai fatti relativi, salvo il limite che “la legge disponga altrimenti” (Cass. 17 novembre 2021, n. 34786).
Conformemente a quanto osservato dal Procuratore Generale, il terzo motivo, su cui verte la questione per cui è intervenuta l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, non è fondato. L’ordinanza interlocutoria richiama la problematica dell’integrazione del requisito di cui all’art. 64 lett. a) della legge n. 218 con l’art. 4, comma 1, quanto alla sussistenza della giurisdizione del giudice italiano, per ipotesi mancante in base all’art. 3, per effetto della mancata sollevazione dell’eccezione di difetto della giurisdizione nel primo atto difensivo. Ne seguirebbe che fra i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento giuridico vi sarebbe anche la regola enunciata dall’art. 4, comma 1. Di qui, alla stregua del ragionamento dell’ordinanza di rimessione, l’inoperatività del criterio dell’esito che avrebbe avuto la sollevazione dell’eccezione innanzi al giudice straniero, su cui invece si è basata la corte territoriale richiamando Cass. Sez. U. n. 21946 del 2015. Come osservato dal Procuratore Generale, l’articolazione normativa derivante dalla legge n. 218 cede il passo al criterio della residenza abituale del minore contemplato dalla Convenzione. Lo scrutinio del terzo motivo non può non sfociare nei termini dell’infondatezza proprio perché la fattispecie, sotto il profilo delle condizioni sostanziali di riconoscimento della sentenza straniera, è disciplinata dalla Convenzione e non dall’art. 64 della legge n. 218, trovando applicazione la legge italiana, come si è detto, solo limitatamente alla procedura, in forza di quanto previsto dalla medesima Convenzione.
La sentenza della corte territoriale, nella misura in cui assume quale paradigma decisionale la consumazione del potere di eccepire l’incompetenza giurisdizionale per mancata sollevazione della relativa eccezione innanzi al giudice straniero, sia pure ravvisando l’assenza del presupposto di applicabilità di quel paradigma, è erroneamente motivata in diritto, benché sia conforme a diritto sul punto il dispositivo, e quindi la motivazione va corretta nel senso qui indicato ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 384 cod. proc. civ..
Infine, quanto al quarto motivo, con cui si denuncia la violazione della legge n. 766 del 1985 (“Ratifica ed esecuzione della convenzione tra la Repubblica italiana e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche sull’assistenza giudiziaria in materia civile”, firmata a Roma il 25 gennaio 1979), e segnatamente degli artt. 1, 19 e 24 della medesima Convenzione, come esattamente osservato dal Procuratore Generale, la normativa richiamata non disciplina il riparto di giurisdizione, ma si limita a riconoscere il diritto dei cittadini di ciascuno Stato firmatario di adire gli uffici giudiziari dell’altro, a condizione che, in base ai criteri di collegamento previsti dalle norme di volta in volta applicabili, l’autorità giudiziaria adita sia munita di giurisdizione in ordine alla controversia (si vedano in motivazione Cass. Sez. U. 19 ottobre 2022, n. 30903 e 12 aprile 2022, n. 21351). Il criterio di collegamento della giurisdizione previsto dalla Convenzione del 1996 è, come si è visto, quello della residenza abituale del minore, che il giudice del merito ha accertato essere nel territorio dello Stato italiano.
6.4. Va, in conclusione, enunciato il seguente principio di diritto: “ove, in base all’art. 42 legge n. 218 del 1995, trovi applicazione la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1996, le condizioni sostanziali di riconoscimento delle misure di protezione dei minori disposte dalla giurisdizione straniera risultano fissate dall’art. 23 della detta Convenzione, e non dall’art. 64 legge n. 218 del 1995, mentre il procedimento del riconoscimento innanzi al giudice italiano resta disciplinato, come previsto dall’art. 24 della medesima Convenzione, dalla legge italiana”.
6.5. I profili di novità evocati dalla controversia, anche avuto riguardo alla questione interpretativa posta dalla decisione impugnata che ha sollecitato l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, costituiscono ragione di compensazione delle spese processuali
Poiché il ricorso viene disatteso, vi sono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 – quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso;
dispone la compensazione delle spese processuali.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del d.lgs. n. 196 del 2003.
Così deciso in Roma il giorno 20 giugno 2023
Il consigliere estensore
Dott. Enrico Scoditti
Il Presidente
Dott. Guido Raimondi
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 28 novembre 2022, n. 34969, per SS.UU, 26 giugno 2023, n. 18199, in tema di protezione dei minori
SS.UU, 26 giugno 2023, n. 18199, in tema di protezione dei minori
In tema di filiazione – SS.UU, 22 marzo 2023, n. 8268
SS.UU, 22 marzo 2023, n. 8268, in tema di filiazione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA
sul ricorso 8291-2022 proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE;
– ricorrente –
contro
RICORSO NON NOTIFICATO AD ALCUNO;
avverso la sentenza n. 14782-2018 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 17/07/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2023 dal Consigliere GIULIA IOFRIDA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale LUISA DE RENZIS, che si riporta, come da memoria già depositata.
Svolgimento del processo
La Procura generale della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 363, comma 1, c.p.c., ha chiesto, con atto depositato il 5/4/2022, l’enunciazione, nell’interesse della legge, del seguente principio di diritto: “Il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c.”.
I fatti di causa dai quali prende le mosse la richiesta della Procura generale sono i seguenti.
A.A., B.B. e C.C., premesso di risultare figli di D.D. e E.E., entrambi deceduti, hanno adito il Tribunale di Roma, nel 2016, chiedendo l’accertamento giudiziale di paternità di F.F..
A sostegno della domanda proposta, gli attori hanno dedotto:
a) di avere appreso che la madre, D.D., aveva intrattenuto una relazione con F.F., proprietario terriero alle cui dipendenze avevano lavorato i coniugi B.B.;
b) che da questa relazione erano nati nove dei dodici figli della donna, tra i quali i tre attori;
c) che questi ultimi non erano stati cresciuti e mantenuti dal presunto padre e avevano vissuto in condizioni di grave indigenza, mentre i figli del F.F., nati nel matrimonio, avevano beneficiato delle elevate consistenze reddituali e patrimoniali del padre;
d) che, sin dal 2010, essi avevano promosso un’azione giudiziale per il disconoscimento della paternità di E.E., marito della madre e, all’esito del giudizio, recepite le conclusioni formulate nella C.T.U. avente ad oggetto indagini ematologiche ed immunogenetiche sul DNA, era stata esclusa l’esistenza del legame di filiazione tra gli attori e lo B.B., ma la sentenza era stata impugnata da parte di uno dei fratelli degli attori, in qualità di erede dello B.B.;
e) nel giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità, si erano costituiti G.G., H.H. ed I.I., eredi del F.F., eccependo, preliminarmente, l’inammissibilità dell’azione proposta, stante la pendenza, dinanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro, del giudizio avente ad oggetto il disconoscimento di paternità e risultando pertanto, allo stato, gli attori figli di E.E., marito della madre;
f) nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale di Roma, gli attori hanno chiesto la sospensione del giudizio in attesa della definizione del processo pendente dinanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro;
g) con sentenza n. 14782/2018, depositata il 17.7.2018, il Tribunale di Roma, rilevato che il procedimento di disconoscimento di paternità azionato dagli attori non era stato ancora definito, essendo pendente appello, accogliendo l’eccezione spiegata dai convenuti e rigettata l’istanza di sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c., essendosi ritenuto che l’art. 295 c.p.c. è una norma di stretta interpretazione (cfr., SS.UU, 10027/2012) e che tra i due giudizi non può dirsi sussistente un rapporto di stretta pregiudizialità, teso ad evitare che si realizzi un contrasto di giudicati, ha dichiarato inammissibile la domanda, richiamato il consolidato orientamento espresso dallo stesso Tribunale di Roma (sentenze del 24.4.2015 e del 19.1.2017), nonchè del giudice di legittimità (Cass. n. 8190/1998 e, da ultimo, Cass. n. 12167/2005 e Cass. n. 487/2014), in forza del quale non è ammesso il riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova (principio sancito dall’art. 253 c.c.), in quanto “presupposto perchè possa essere esperita l’azione di accertamento giudiziale di paternità è l’assenza di uno stato di figlio formalmente accertato”, e condannato gli attori al pagamento delle spese di lite;
h) la predetta sentenza, non impugnata, è passata in giudicato.
La Procura generale, ritenute pertanto sussistenti le condizioni di non ricorribilità per cassazione e di non impugnabilità della decisione giudiziale, previste dall’art. 363, comma 1, c.p.c. per farsi luogo alla richiesta di enunciazione di principio di diritto nell’interesse della legge, ha declinato la questione di diritto nelle seguenti correlate domande:
I) “il giudizio finalizzato ad accertare la paternità al di fuori del matrimonio può essere proposto anche se la paternità del marito non è ancora stata disconosciuta giudizialmente con pronuncia passata in giudicato?”;
II) “il processo di accertamento giudiziale di paternità biologica può essere proposto e sospeso ex art. 295 c.p.c., sulla base di un nesso di pregiudizialità tecnico-giuridica, in attesa della definizione del giudizio di disconoscimento della paternità?”.
Premesso che la questione affrontata dal Tribunale di Roma è stata oggetto di decisione di merito contrastanti che, a loro volta, riflettono l’orientamento non univoco della dottrina, la Procura generale – richiamata anche l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità – ha osservato come la Suprema Corte, nell’ordinanza n. 17392 del 2018, ha chiarito che tra l’azione di disconoscimento della paternità e quella di dichiarazione giudiziale di altra paternità sussiste un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico, con conseguente possibilità di sospensione, ex art. 295 c.p.c..
Nella richiesta ai sensi dell’art. 363 c.p.c., viene altresì evidenziato come appaia necessario che la Corte di Cassazione “affermi e consolidi un principio di diritto compatibile con la piena tutela dei diritti dei soggetti coinvolti, evitando così che una tesi troppo formalistica, e soprattutto poco adeguata al contesto normativo di riferimento, costringa le parti a dover attendere il tempo – non breve, è noto – del giudizio di disconoscimento e di incardinare ex novo un’azione già proposta (quella di accertamento giudiziale della paternità), laddove l’istituto della sospensione ex art. 295 c.p.c. possa soccorrere e conservare gli effetti dell’azione già incardinata, contestualmente o separatamente al giudizio di disconoscimento”.
Si osserva inoltre che, nell’ambito della giurisprudenza di merito, come emblematicamente emerge dalla decisione del tribunale di Roma, ancora “persiste una tendenza ad effettuare confusione nel coordinamento tra i due giudizi, dichiarando l’inammissibilità dell’azione di accertamento giudiziale della paternità nella pendenza dell’azione di disconoscimento, tralasciando di considerare che, di fronte ad un’azione ricostruttiva della filiazione, sia pure promossa prematuramente, la pronuncia di inammissibilità costringe le parti alla nuova proposizione della domanda, ad effettuare nuove spese, a dilatare i tempi del giudizio”, mentre la tesi giuridica che predilige “l’aspetto per così dire sanante o conservativo dell’azione già intrapresa (facendo leva sull’istituto della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c.) è quella che bene accorda i due istituti, meglio tutela i diritti delle parti e rispetta il principio (di valenza generale) di necessaria economia processuale quale strumento di fondamentale importanza per la deflazione dei contenziosi”.
A ciò non osta la formulazione dell’art. 253 c.c. e nemmeno il testo dell’art. 269 c.c. perchè il diverso status filiationis preclude la dichiarazione (l’accertamento) della filiazione al di fuori del matrimonio ma non “la richiesta (la domanda) di una siffatta dichiarazione”.
Si evidenzia, inoltre, nella richiesta, come si possa anche ipotizzare “una frontiera processuale” non incompatibile con il quadro normativo, che, come previsto dall’art. 276, comma 2, c.c. ammette a partecipare al giudizio “chiunque vi abbia interesse”, vale a dire la possibilità che i giudizi di cui si tratta possano essere introdotti cumulativamente, con unico atto introduttivo, dal soggetto che vanti la legittimazione per entrambi i giudizi (ad es. il figlio), anche ammettendo l’ipotesi che il presunto padre naturale possa prendere parte al giudizio di disconoscimento della paternità del marito, non trovando tale ipotesi di introduzione cumulativa ostacolo nel comma 1 dell’art. 247 c.c. poichè il fatto che il figlio, la madre ed il marito siano “parti necessarie del giudizio non comporta che queste siano le uniche parti del giudizio”.
In ordine alle vicende sopravvenute rispetto al deposito della richiesta del P.G., deve rilevarsi, anzitutto, che la Corte Costituzionale, investita, con ordinanza dell’11/3/2021 della Corte d’appello di Salerno (richiamata nella richiesta del P.G. dell’aprile 2022), con sentenza n. 177 del 14/7/2022, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 269, comma 1, c.c. sollevata – in riferimento alla Cost., artt. 2, 3, 24, 29, 30, 111 e 117, comma 1, in riferimento all’art. 8 CEDU, agli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo e dell’art. 24, par. 2, CDFUE – nella parte in cui non consente la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità alle condizioni richieste per il riconoscimento, non permettendo dunque di pronunciare una sentenza dichiarativa della genitorialità prima che sia demolito lo stato attribuito al figlio o, quantomeno, di addivenire ad una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità condizionata all’esito del giudizio demolitivo dello stato di filiazione goduto dal figlio.
Deve, inoltre, essere rilevato che uno dei due attori, C.C., ha proposto ricorso dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, ravvisando una violazione dell’art. 8 della CEDU, in ragione del fatto che l’ordinamento giuridico italiano (artt. 253 e 269 c.c.) non consente l’introduzione di una domanda di riconoscimento della paternità biologica prima della previa rimozione del diverso status (il cui procedimento, ad avviso della ricorrente, ha comunque una durata eccessiva): più precisamente, la ricorrente, dell’età di 68 anni, lamentando, da un lato, l’impossibilità di avviare un’azione per il riconoscimento della paternità nei confronti del padre biologico (in ragione della previsione che subordina l’accertamento di altra paternità al passaggio in giudicato della sentenza relativa al disconoscimento di altra paternità) e, dall’altro, l’eccessiva lunghezza del procedimento di paternità protrattosi, nel caso di specie, per oltre dodici anni.
I giudici di Strasburgo, con sentenza del 6/12/2022, all’esito della camera di consiglio del 15/11/2022, ritenuto il ricorso ricevibile e respinte le eccezioni formulate dal Governo italiano, hanno affermato che:
a) i fatti relativi al procedimento di paternità rientrano incontestabilmente nell’ambito di applicazione dell’art. 8 della Convenzione, che riconosce il diritto di ogni individuo a conoscere le proprie origini e a farle stabilire legalmente, che la “vita privata” può includere aspetti dell’identità non solo fisica, ma anche sociale dell’individuo e che il diritto a conoscere le proprie origini ed a vederle accertate non può essere pregiudicato per il raggiungimento della maggiore età già al momento della proposizione del procedimento interno;
b) trovandosi la ricorrente da dodici anni “nell’incertezza della sua identità personale”, in quanto le è impossibile proporre un’azione per l’accertamento della paternità, poichè la sentenza di disconoscimento di paternità non è ancora definitiva (pendendo ancora, “secondo le ultime informazioni ricevute” dalla Corte, il giudizio di disconoscimento in cassazione), cosicchè lo svolgimento del procedimento deve ritenersi interferire in modo sproporzionato con il diritto al rispetto della propria vita privata, la suddetta violazione dell’art. 8 della Cedu sussiste, atteso che le autorità italiane sono venute meno al loro obbligo positivo di garantire alla ricorrente il diritto al rispetto della sua vita privata, con conseguente, in applicazione dell’art. 41 della Convenzione, condanna dello Stato italiano al risarcimento, a titolo di danno morale, della somma di Euro 10.000,00 ed al pagamento delle spese.
In merito alla compatibilità del sistema italiano – che prevede che il disconoscimento di paternità sia pregiudiziale rispetto all’accertamento di altra paternità – con l’art. 8 della Cedu, tenuto conto del margine di discrezionalità dello Stato, la Corte Edu ha affermato, in motivazione, che, nell’ambito di un siffatto sistema, devono essere difesi gli interessi della persona che intende determinare la propria filiazione e che tale obiettivo non si realizza quando il procedimento dura diversi anni, peraltro senza possibilità di misure volte ad accelerare il procedimento, e impedisce la proposizione di un’azione di accertamento di paternità; si è richiamata nella sentenza, in un’ottica di dialogo tra le Corti, la decisione della Corte Costituzionale n. 177 del 2022, nella parte in cui è stato sottolineato come il sistema vigente, che richiede la previa demolizione in via giudiziale dello status, costituisce, in effetti, un onere gravoso a carico del figlio che intenda far accertare la propria identità biologica, e rischia di risolversi, oltre che in una violazione del principio di ragionevole durata del processo (Cost., art. 111, comma 2), in un ostacolo “all’esercizio del diritto di azione garantito dalla Cost., art. 24, e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica” (sentenza n. 50 del 2006) (par. 7).
La Corte Edu ha, altresì, ricordato come la Corte Costituzionale avesse ammonito il legislatore ad intervenire per disciplinare le questioni relative all’accertamento della verità biologica, senza limitare in modo sproporzionato altri diritti costituzionali, e ha espressamente affermato di condividere la seconda criticità ravvisata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 177 del 2022, relativa al rischio per il figlio di rimanere privo di status: quello oramai demolito e quello che potrebbe non palesarsi all’esito del successivo giudizio.
Deve ancora aggiungersi, in relazione all’esito del giudizio di disconoscimento della paternità, che la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro n. 1649/2019, pubblicata il 23/8/2019 – con la quale era stato respinto il gravame proposto da L.L. (uno dei fratelli degli attori) avverso decisione del Tribunale di Catanzaro del 2015, che, dichiarato inammissibile l’intervento in giudizio dei figli dell’asserito padre biologico, F.F., nelle more del giudizio deceduto, aveva accertato che C.C., A.A. e B.B. non erano figli di E.E., – è stata confermata da questa Corte di Cassazione, con ordinanza n. 32628/2022, pubblicata il 4/11/22 (dopo che il giudizio era stato, con ordinanza interlocutoria del 15/9/21, rinviato a Nuovo Ruolo in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite sul contrasto insorto, all’interno della Corte, in merito al carattere della nullità della consulenza tecnica d’ufficio, oggetto di doglianza in un motivo del ricorso, in caso di allargamento dell’indagine oltre i limiti stabiliti dal giudice, contrasto definito con la sentenza delle Sezioni unite n. 3086/2022), essendosi respinto il ricorso per cassazione proposto.
E’ stata formulata istanza di discussione orale. In prossimità dell’udienza pubblica del 7 febbraio 2023, il pubblico ministero ha depositato note illustrative, chiedendo l’accoglimento del principio di diritto sopra trascritto e che la Corte valuti l’opportunità di definire la questione giuridica con una pronuncia ancora più ampia al fine di ipotizzare, in alcuni casi, la possibilità che i giudizi siano introdotti in via cumulativa.
Motivi della decisione
1. La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite attiene all’accertamento dei rapporti tra l’azione di disconoscimento della paternità (azione con cui si contesta lo status di figlio) e quella di dichiarazione giudiziale di genitorialità (azione che tende a conseguire lo status di figlio), con specifico riferimento ai profili processuali, in relazione a decisione resa dal Tribunale di Roma nel 2018, passata in giudicato, di inammissibilità della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, non essendo stata ancora definita la causa, pendente, di demolizione del pregresso status.
1.1. La richiesta è ammissibile, ai sensi dell’art. 363 c.p.c..
Questa Corte, con riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 363, comma 3, c.p.c. – come novellato dal D.Lgs. n. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 4 – ha affermato (Cass. 27187/2007) che “se le parti non possono, nel loro interesse e sulla base della normativa vigente, investire la Corte di cassazione di questioni di particolare importanza in rapporto a provvedimenti giurisdizionali non impugnabili, e il P.G. presso la stessa Corte non chieda l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge, le Sezioni Unite della Corte – chiamate comunque a pronunciarsi su tali questioni su disposizione del Primo Presidente – dichiarata l’inammissibilità del ricorso, possono esercitare d’ufficio il potere discrezionale di formulare il principio di diritto concretamente applicabile. Tale potere, espressione della funzione di nomofilachia, comporta che – in relazione a questioni la cui particolare importanza sia desumibile non solo dal punto di vista normativo, ma anche da elementi di fatto – la Corte di cassazione possa eccezionalmente pronunciare una regola di giudizio che, sebbene non influente nella concreta vicenda processuale, serva tuttavia come criterio di decisione di casi analoghi o simili”.
La richiesta del P.G. di enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge si configura non come mezzo di impugnazione, ma “come procedimento autonomo, originato da un’iniziativa diretta a consentire il controllo sulla corretta osservanza ed uniforme applicazione della legge, con riferimento non solo all’ipotesi di mancata proposizione del ricorso per cassazione, ma anche a quelle di provvedimenti non impugnabili o non ricorribili per cassazione, in quanto privi di natura decisoria, con la conseguenza che l’iniziativa del P.G., che si concreta in una mera richiesta e non già in un ricorso, non dev’essere notificata alle parti, prive di legittimazione a partecipare al procedimento” (cfr., SS.UU, 13332/2010; conf.., SS.UU, 23469/2016 e SS.UU, 19427/2021).
Si tratta di un procedimento del tutto peculiare, in cui non è prevista la instaurazione di un vero e proprio contraddittorio, con la notifica della richiesta del Procuratore generale alle parti o ad eventuali controinteressati, i quali sono privi di legittimazione a partecipare al procedimento, non essendo configurabile in capo agli stessi un interesse giuridicamente rilevante ad intervenire in un processo destinato a concludersi con una pronuncia che, per espresso dettato legislativo, non spiega efficacia nei loro confronti (art. 363, ult. comma, c.p.c..: “La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”; cfr. SS.UU, 13332/2010).
Nella sentenza n. 404/2011, si è poi ritenuta inammissibile la richiesta ex art. 363 c.p.c. del P.G., sul rilievo della sua astrattezza nello specifico, rilevandosi che il principio di diritto richiesto “anche se non è in grado di incidere sulla fattispecie concreta, non può tuttavia prescinderne; tale ricorso, pertanto, pur non avendo natura impugnatoria, non può assumere carattere preventivo o esplorativo, dovendo il P.G. attivarsi soltanto in caso di pronuncia contraria alla legge, per denunciarne l’errore e chiedere alla Corte di ristabilire l’ordine del sistema, chiarendo l’esatta portata e il reale significato della normativa di riferimento”.
Il procedimento, promosso in seguito alla richiesta del Procuratore generale e disciplinato dal comma 10 dell’art. 363 c.p.c., richiede la ricorrenza dei seguenti presupposti processuali (v. SS.UU, 18 novembre 2016, n. 23469; SS.UU, 1946/2017):
a) l’avvenuta pronuncia di uno specifico provvedimento giurisdizionale non impugnato o non impugnabile nè ricorribile per cassazione;
b) l’illegittimità del provvedimento stesso (o, in caso di pluralità di provvedimenti divergenti, di almeno uno di essi), quale indefettibile momento di collegamento ad una controversia concreta;
c) un interesse della legge, quale interesse generale o trascendente quello delle parti, all’affermazione di un principio di diritto per l’importanza di una sua formulazione espressa.
La Riforma di cui al D.Lgs. n. 10 ottobre 2022, n. 149 non ha inciso sulla disposizione in esame. Orbene, i requisiti sopra indicati ricorrono tutti nel caso in esame.
Invero, il Procuratore generale specifica di avere formulato la richiesta, non in via astratta o esplorativa, ma con riferimento ad un ben preciso e pertinente caso della vita venuto all’esame del Tribunale di Roma e risolo con declaratoria di inammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità dei sigg.ri A.A., passata in giudicato, e nella richiesta della Procura, con denuncia dell’errore e istanza a questa Corte di ristabilire l’ordine del sistema, si è evidenziata l’esistenza, non solo presso tale ufficio giudiziario ma anche presso altri tribunali d’Italia, di un orientamento opposto a quello seguito da questa Corte nella sentenza n. 17392/2018, il che rende apprezzabile la sussistenza di un interesse ad una pronuncia che, “prescindendo completamente dalla tutela dello ius litigatoris, si sostanzia nella stessa enunciazione del principio di diritto richiesta alla Corte, finalizzata alla stabilizzazione della giurisprudenza” (SS.UU,13332/2010).
Il tutto anche tenuto conto delle implicazioni Eurounitarie nella materia conseguenti alla violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, CEDU.
2. La richiesta del Procuratore Generale è fondata, per le ragioni che seguono.
2.1. In generale, sui diversi modi di accertamento della filiazione.
Nonostante la riforma della filiazione, attuata con L. 10.12.2012 n. 219 e con il D.lgs. 28.12.2013 n. 154, abbia riconosciuto la parità giuridica di tutti i figli (art. 315 c.c.), ispirandosi all’obiettivo di “eliminare ogni discriminazione tra i figli (…) nel rispetto della Costituzione , art. 30“ (della L. 10 dicembre 2012, n. 219, art. 2, comma 1) – così tutelando la condizione giuridica del figlio indipendentemente dal vincolo esistente tra i genitori, in linea con le indicazioni della Costituzione e dei principi affermati dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo – è stata mantenuta, per quanto riguarda l’attribuzione dello stato di figlio, la distinzione tra filiazione all’interno e al di fuori del matrimonio.
Nel primo caso – situazione disciplinata dagli artt. 231, 232 e 234 c.c. – il matrimonio determina l’attribuzione automatica dello stato dei figli dei coniugi, in forza di una presunzione di paternità, secondo la quale “il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio” o del possesso di stato (art. 237 c.c.).
L’art. 231 c.c., che rimane norma cardine del sistema, continua ad essere rubricato come “paternità del marito” e stabilisce che “il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”.
I presupposti per l’applicazione di tale norma sono il matrimonio dei genitori, la maternità della moglie, la nascita o il concepimento in costanza di matrimonio e la paternità del marito.
Tali risultanze possono essere contestate solo con azioni di stato tipiche: l’azione di disconoscimento della paternità, l’azione di contestazione e l’azione di reclamo dello stato di figlio (quest’ultima, ove sia presente un titolo che attesti uno status difforme può essere fatta valere solo dopo aver rimosso quel titolo con la relativa azione, come previsto dall’art. 239, c. 4, c.c.).
In caso di filiazione fuori dal matrimonio, in assenza di meccanismi presuntivi, il figlio acquista il corrispondente titolo allo stato attraverso il riconoscimento da parte dei genitori (artt. 250 e ss. c.c.) o la dichiarazione giudiziale (art. 269 c.c.).
Le azioni di stato esperibili in questo caso sono la dichiarazione giudiziale di genitorialità e l’impugnativa del riconoscimento.
2.2. Riguardo all’azione di disconoscimento della paternità, deve osservarsi che tale azione, diretta a superare lo stato di figlio “legittimo” (dizione questa ormai superata alla luce della Riforma della filiazione del 2013) allo stesso attribuito per effetto delle presunzioni di legge, negando specificamente la paternità di colui che dal titolo risulta padre, presuppone la nascita del figlio e l’attribuzione in capo a quest’ultimo dello stato di figlio legittimo.
Lo stato di figlio legittimo era, nel sistema originario, dotato invero di elevate garanzie di certezza e stabilità, atteso che poteva essere disconosciuto solo in casi limitati (previsti dall’art. 235 c.c.), ad iniziativa di soggetti tassativamente indicati (il marito, la madre ed il figlio e, in seguito alle modifiche di cui alla l. n. 184 del 1983, art. 81, anche un curatore speciale su istanza del figlio minore che abbia compiuto 16 anni o dal pubblico ministero per i minori infrasedicenni) ed entro i termini di cui all’art. 244 c.c.
Prima della riforma, la Corte Costituzionale aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 244 c.c., nella parte in cui, regolando il termine di decadenza annuale per l’esercizio dell’azione, non aveva previsto che esso potesse decorrere anche dalla scoperta dell’adulterio (sentenza n. 134 del 1985) nonchè dalla conoscenza dell’impotenza (sentenza n. 170 del 1999). La giurisprudenza costituzionale aveva rilevato, in proposito: “l’irragionevole esclusione del diritto del padre di agire per il disconoscimento, nel caso di scoperta dell’adulterio oltre un anno dopo la nascita del figlio, poichè l’azione sarebbe inutiliter data” (sentenza n. 134 del 1985), così come aveva contestato la ragionevolezza di una previsione che negava l’azione a chi “non (era) stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima” (sentenza n. 170 del 1999).
Ancora la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 50 del 2006, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 274 c.c., osservando come il giudizio di ammissibilità previsto dalla citata norma – non più giustificato alla luce degli sviluppi normativi del diritto di famiglia e del progresso della scienza nei mezzi di ricerca della verifica della paternità – si risolva in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dalla Cost., art. 24, e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica.
Con la sentenza n. 266 del 2006, il giudice delle leggi aveva, poi, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 235 c.c., nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento, condizionava l’esame delle prove tecniche sulla non paternità alla previa dimostrazione di fatti ulteriori: nello specifico, alla prova dell’adulterio.
La sentenza n. 266 del 2006 rilevava, infatti, che “(i)l subordinare (…) l’accesso alle prove tecniche, che, da sole, consentono di affermare se il figlio è nato o meno da colui che è considerato il padre legittimo, alla previa prova dell’adulterio è, da una parte, irragionevole, attesa l’irrilevanza di quest’ultima prova al fine dell’accoglimento, nel merito, della domanda proposta; e, dall’altra, si risolve in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dalla v, art. 24”.
Con la novella introdotta dal D.Lgs. n. 154 del 2013, abrogato l’art. 235 c.c., la disciplina dell’azione di disconoscimento è ora contenuta negli artt. 243 bis c.c. e ss.: all’eliminazione del filtro di previa ammissibilità, si affiancano l’ampliamento dei soggetti legittimati attivi, la previsione dell’imprescrittibilità dell’azione rispetto al figlio, la decadenza quinquennale prevista a carico della madre e del padre che si trovava, al tempo della nascita nel luogo in cui la stessa è avvenuta e la generale previsione in forza della quale “chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre” (con l’eliminazione dell’originario impianto casistico contenuto nell’art. 235 c.c.).
Questa Corte ha quindi precisato che il quadro normativo (Cost., artt. 30, 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali della UE, e 244 c.c.) e giurisprudenziale attuale non comporta la prevalenza del “favor veritatis” sul “favor minoris”, ma impone un bilanciamento fra il diritto all’identità personale legato all’affermazione della verità biologica – anche in considerazione delle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dell’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini – e l’interesse alla certezza degli “status” ed alla stabilità dei rapporti familiari, nell’ambito di una sempre maggiore considerazione del diritto all’identità personale, non necessariamente correlato alla verità biologica ma ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno di una famiglia, specie quando trattasi di un minore infraquattordicenne (Cass. n. 27140/2021; cfr. anche, in tema di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, Cass. n. 4791/2020).
2.3. L’azione di dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità è volta all’accertamento della genitorialità biologica, anche in contrasto con quella legittima, in presenza di figli nati al di fuori del matrimonio.
La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito le caratteristiche dell’azione in esame sottolineando come “il favor veritatis, nell’azione giudiziale di paternità e maternità, sorregge un nucleo di diritti inviolabili della persona umana, quali quello alla genitorialità e ad uno dei profili costitutivi della propria identità personale del quale il richiedente è stato privato per effetto del mancato riconoscimento” (Cass. n. 17773 del 2013).
Nell’originaria disciplina della famiglia e della filiazione, in ossequio al favor legitimitatis, erano previsti limiti molto rigorosi all’accertamento di quella che veniva definita la paternità naturale: l’art. 269 c.c. indicava le ipotesi in cui l’azione era esperibile, l’art. 273 c.c. fissava un termine biennale di decadenza, l’art. 274 c.c. prevedeva un filtro di ammissibilità dell’azione, mentre l’art. 278 c.c. vietava le indagini sulla paternità e maternità, nei casi in cui il riconoscimento era vietato, anche oltre i limiti degli allora vigenti artt. 251-253 c.c..
Malgrado l’eliminazione della tassatività delle ipotesi in cui l’azione era esperibile, la previsione della possibilità di fornire la prova della genitorialità con ogni mezzo, l’indicazione dell’imprescrittibilità dell’azione del figlio e l’abrogazione dell’art. 275 c.c., introdotte dalla riforma del 1975, permanevano delle criticità che, prima della riforma degli anni 2012 e 2013, sono state rimosse solo grazie agli interventi della Corte Costituzionale.
Vanno qui richiamate, in particolare, le sentenze n. 341 del 1990 (che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 274 c.c., nella parte in cui, nell’ipotesi di minore infrasedicenne, non prevedeva che l’azione promossa dal genitore esercente la potestà fosse ammessa solo quando ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del figlio), n. 494 del 2002 (che, incidendo sull’art. 278 c.c., ha consentito l’accertamento per via giudiziaria dello status filiationis dei figli incestuosi), n. 50 del 2006 (che ha dichiarato illegittimo il filtro di ammissibilità dell’art. 274 c.c.), n. 266 del 2006, la quale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con la Cost., art. 24, l’art. 235, comma 1, n. 3, c.c., nella parte in cui ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità subordina l’esame delle prove tecniche, da cui risulta “che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre”, alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.
Si è così sancito il definitivo abbandono della presunzione (assoluta) per cui l’interesse del minore coincide e si soddisfa di per sè con l’acquisizione dello status corrispondente a verità, richiedendosi una valutazione in concreto del predetto interesse, con particolare riferimento “ai benefici dell’ampliamento della sfera affettiva, sociale ed economica del minore” (aspetto, quello relativo all’interesse del minore nell’attribuzione dello status, sul quale, in ragione dei fatti oggetto della richiesta della Procura generale, non ci si soffermerà in questa sede).
Con specifico riferimento all’azione in esame, la riforma della filiazione del 2012-2013 non ha dunque introdotto particolari novità, ad eccezione della previsione della legittimazione passiva in caso di azione proposta dopo la morte del genitore (art. 276 c.c.). Tuttavia, il sistema binario di necessaria preventiva demolizione dello stato di filiazione ai fini dell’esperimento dell’azione di accertamento giudiziale di genitorialità, confermato nella Riforma, risulta mitigato, come osservato in dottrina, dalle modifiche apportate alla disciplina dell’azione di disconoscimento della paternità, le quali hanno fortemente inciso – rendendola più immediata – sulla conseguibilità dello status filiationis veridico da parte di chi goda dello stato di figlio nato nel matrimonio: si pensi all’abrogazione dei presupposti tassativi di cui all’art. 235 c.c., abrogato, e all’attuale formulazione dell’art. 243, comma 2, c.c., secondo cui, sul piano probatorio, il marito è ammesso a provare che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, o ogni altro fatto tendente ad escludere la paternità.
La riforma si è poi mossa, per quanto attiene all’azione in esame, nell’ottica di un rafforzamento dei poteri del figlio (attraverso la previsione dell’imprescrittibilità dell’azione di disconoscimento prevista dall’art. 270 c.c., anche nell’esigenza di assimilazione di tale azione a quella di impugnazione del riconoscimento) e della limitazione del ruolo degli altri soggetti interessati alla vicenda della filiazione (art. 273 c.c.).
Il processo di omogenizzazione della disciplina delle due azioni, di impugnazione del riconoscimento e di disconoscimento, ha condotto all’introduzione di termini prescrizionali, salva l’imprescrittibilità riguardo al figlio, per l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità (art. 263, comma 3, c.c.), in particolare prevedendosi che l’azione non possa essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento (ma la Corte Costituzionale, con sentenza del 12 maggio – 25 giugno 2021, n. 133, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della richiamata disposizione nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità), e di un analogo termine decadenziale per l’azione di disconoscimento di cinque anni dalla nascita (art. 244, ultimo comma, c.c.) per l’esperimento dell’azione di stato per i legittimati diversi dal figlio. Il tutto, in una funzione di contenimento della accresciuta potenziale precarietà del rapporto genitoriale, dovuta anche alle sempre più evolute tecniche di accertamento dei legami biologici, anche a distanza di anni, ed allo scopo di proteggere il minore dai pregiudizi derivanti dalla recisione di legami affettivi e relazionali nel frattempo consolidatisi.
2.4. E’ impossibile, nel nostro ordinamento, far valere lo stato di figlio prima di aver rimosso il titolo cui risulta uno status contrastante.
L’art. 269, comma 1, c.c. pone la regola (comune al riconoscimento, ex art. 253 c.c. e all’azione di reclamo dello stato di figlio legittimo, ex art. 239, comma 4, c.c.) in forza della quale la paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate soltanto “nei casi i cui il riconoscimento è ammesso” e l’art. 253 c.c. prescrive che tale atto non è ammesso quando si ponga “in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova”.
Ne deriva che sia l’accertamento giudiziale positivo della filiazione fuori dal matrimonio sia l’atto di riconoscimento negoziale non possono intervenire quando si pongano “in contrasto” con lo stato di figlio preesistente (art. 253 c.c.), allo scopo di impedire una sovrapposizione di stati di filiazione tra loro in contrasto, stante il carattere unico ed indivisibile dello status.
Questa Corte ha più volte precisato che “la condizione di “figlio legittimo” è ostativa all’accoglimento della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità da parte di colui che assume di essere il padre biologico, atteso che deve, prima, essere rimosso lo stato di “figlio legittimo”, con accertamento efficace erga omnes (Cass. n. 27560/2021) e che la rimozione dell’impedimento, costituito ad un diverso stato di figlio, decorre solo dal passaggio in giudicato dell’azione di disconoscimento (Cass. n. 15990/2013).
Nel nostro ordinamento non è infatti ammesso il c.d. “riconoscimento di rottura” che, in certi sistemi giuridici, estingue autonomamente, senza l’intervento del giudice, il titolo di figlio legittimo o figlio naturale riconosciuto.
Presupposto dell’accertamento giudiziale della filiazione fuori dal matrimonio (così come per il riconoscimento) è, dunque, la demolizione dello stato di figlio preesistente.
Atteso che tale stato è provato da un titolo, nell’attuale sistema, è richiesto il passaggio in giudicato della sentenza che conclude il giudizio demolitivo dello stato preesistente: giudicato sul disconoscimento della paternità (art. 243 bis c.c. e ss., per quel che rileva in questa sede), sulla contestazione dello stato di figlio (art. 240 c.c.) o sull’impugnazione del riconoscimento (art. 263 c.c.).
Come precisato anche da parte della dottrina, il riconoscimento inammissibile ex art. 253 c.c., non è da ritenersi nullo, ma inefficace (atteso che il titolo vigente gli si oppone ab externo), con la conseguenza che, come affermato da tempo da questa Corte (Cass. n. 10838/1997; Cass. n. 2782/1978), il riconoscimento, originariamente inefficace per contrasto con lo stato di figlio nato nel matrimonio, diviene efficace ex tunc, ove sia accolta l’azione di disconoscimento della paternità.
2.5. E’ utile fare richiamo ai recentissimi interventi del 2022 della Corte Costituzionale e della Corte EDU, nonchè ad alcuni cenni di diritto comparato.
Sulla scelta di garantire il carattere unico e indivisibile dello status, si è recentemente pronunciata la Corte Costituzionale (sentenza n. 177 del luglio 2022), chiamata ad intervenire su questione di legittimità costituzionale dell’art. 269 c.c., in rapporto all’art. 253 c.c., sollevata dalla Corte di appello di Salerno, affermando che la scelta di richiedere la previa demolizione in via giudiziale dello status, anzichè una sua rimozione automatica per effetto del successivo accertamento di un’identità contrastante, ha una duplice spiegazione:
a) anzitutto, l’esigenza di “evitare un’instabilità e un’incertezza dello status” dal quale si diramano plurimi effetti, in campo pubblicistico e privatistico, atteso che “lo status è comprovato da un titolo, dotato di funzione certativa erga omnes, in quanto fondato su presunzioni legali o sull’atto di riconoscimento”, precisandosi che “quando non erano ancora disponibili le cosiddette prove scientifiche (in specie, i test genetici), non si sarebbe giustificata una sua caducazione solo in quanto contraddetto dall’accertamento di un diverso e confliggente status, all’esito di un giudizio che si avvaleva di mezzi di prova connotati da un tasso di affidabilità limitato (di regola, presunzioni e testimonianze)”, ragione questa, prosegue il Giudice delle leggi, oggi “fortemente incrinata dall’evoluzione della scienza, che ha reso disponibili prove capaci di offrire un grado elevatissimo di affidabilità nel dimostrare la sussistenza o insussistenza di un vincolo biologico (in proposito, Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 6 ottobre 2021, n. 27140)”, con la conseguenza che, rispetto al passato, in cui lo status, comprovato dal titolo, si caratterizzava per una notevole resistenza, “attualmente i nuovi accertamenti disponibili potrebbero suggerire soluzioni differenti, come, per l’appunto, la caducazione dello status antecedente, con il relativo titolo, quale effetto di un nuovo accertamento con esso incompatibile”;
b) l’esigenza della previa azione demolitiva risiede, ad avviso della Corte Costituzionale, anche nel fine di dovere “assicurare a chi è già titolare dello status di genitore di essere parte, e dunque di avere una congrua tutela sostanziale e processuale, nel giudizio che può incidere sul suo legame familiare”, rilevandosi come un intervento sull’art. 269 c.c. che escludesse la necessità dell’azione demolitiva dovrebbe garantire, in altro modo, un’adeguata protezione a chi è titolare del precedente status, il quale è propriamente parte solo nel giudizio in cui è contestato lo status preesistente.
Alla luce delle predette considerazioni, la Corte costituzionale ha concluso che, nonostante si tratti di una disposizione “non priva di criticità sotto il profilo costituzionale”, “per rimuovere il vulnus lamentato dal giudice a quo, eliminando la condizione del giudizio demolitivo del precedente status, sarebbe necessaria – alla luce dell’evoluzione delle tecniche di accertamento della filiazione – una riforma di sistema idonea a farsi carico di molteplici profili” e della complessità degli interessi, di rango costituzionale, coinvolti, ad esempio dovendosi disporre, nel giudizio intrapreso per l’accertamento della nuova identità, l’intervento necessario del genitore che vanta, sulla base del preesistente titolo, un legame familiare, e conseguentemente, rientrando nei compiti del legislatore procedere ad una “revisione organica della materia in esame” (revisione già da tempo auspicata da Corte Cost. n. 100 del 2022, ma cfr. anche sentenze n. 143, n. 100 e n. 22 del 2022, n. 151, n. 32 e n. 33 del 2021; n. 80 e n. 47 del 2020, n. 23 del 2013) e stante il carattere generico del petitum, ha dichiarato inammissibile la questione prospettata in via principale.
E’ stata poi dichiarata inammissibile anche la questione di illegittimità costituzionale sollevata dai giudici remittenti in via subordinata, in ordine alla possibilità di addivenire d una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità condizionata sospensivamente all’esito del giudizio demolitivo, la cui necessità non veniva, in questo caso, messa in discussione, in quanto l’intervento additivo richiesto avrebbe condotto ad una eccessiva manipolazione del sistema, invertendo radicalmente l’ordine di proposizione delle due azioni fissato dal codice, peraltro in una materia, quella processuale, riservata al legislatore.
La Corte, nel dichiararne l’inammissibilità, evidenzia come la introduzione nel sistema di una “sentenza condizionata” si ponga in contrasto con il “principio di discrezionalità del legislatore nella disciplina della materia processuale, salvo che la stessa palesi una “manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute”.
Riguardo alle implicazioni processuali che derivano dal collegamento dell’art. 269 e dell’art. 253 c.c., si è dato conto che vi è stata un’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, che appare avviata verso una configurazione della necessaria rimozione del pregresso status non più come presupposto processuale dell’azione di dichiarazione giudiziale della paternità (o maternità) che rende inammissibili o improponibile la domanda (Cass. n. 8190/1998), ma come questione pregiudiziale in senso tecnico-giuridico, non ostativa alla proposizione della domanda ma solo al suo accoglimento, il che renderebbe necessaria una sospensione del giudizio pregiudicato in attesa della definizione del giudizio pregiudiziale (Cass. n. 17392/2018), rilevandosi che tale soluzione ermeneutica della sospensione ex art. 295 c.p.c. del giudizio e art. 269 c.p.c. non sarebbe applicabile nel giudizio a quo, nel quale non era stato neppure ancora avviato il processo relativo al disconoscimento di paternità, e comunque essa è idonea solo a “temperare” non anche a sanare l’asserito vulnus ai principi costituzionali. In particolare, si è evidenziato che “se è vero che l’esistenza di un nesso di pregiudizialità tecnica tra i due giudizi consente la loro proposizione cumulativa (art. 103 c.p.c.) o la loro riunione per connessione (art. 274 c.p.c.), si tratta di facoltà non sempre esperibili: nello specifico, la riunione dipende dallo stadio di avanzamento dei due giudizi”.
La declaratoria di inammissibilità non ha comunque impedito alla Corte di precisare le criticità del sistema vigente, che richiede la previa demolizione in via giudiziale dello status. In particolare, la Corte ha sottolineato come “la necessità di un giudizio articolato in più gradi, che si concluda con una sentenza passata in giudicato demolitiva del precedente status, costituisce, in effetti, un onere gravoso a carico del figlio che intenda far accertare la propria identità biologica, e rischia di risolversi, oltre che in una violazione del principio di ragionevole durata del processo (Cost., art. 111, comma 2), in un ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dalla Cost., art. 24, e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica” (par. 7).
Una seconda criticità risiede, ad avviso della Corte, nel rischio per il figlio “di rimanere privo di status: quello oramai demolito e quello che potrebbe non palesarsi all’esito del successivo giudizio; rischio particolarmente grave quando riguardasse un minore, il cui interesse ai legami familiari merita – com’è noto – particolare tutela (si vedano le sentenze di questa Corte n. 127 del 2020 e n. 272 del 2017 e, in una prospettiva analoga, le pronunce della Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza n. 27140 del 2021 e sentenza 22 dicembre 2016, n. 26767)” (par. 7).
Si è dunque evidenziato come sia tempo di rivedere in termini semplificanti il rapporto tra demolizione e accertamento dello stato, in quanto il sistema duale, se prima dell’avvento delle prove genetiche era funzionale al raggiungimento della certezza in ordine alla non veridicità dello stato di filiazione in essere, ora è divenuto inattuale stante il carattere di preminenza del risultato dell’esame genetico, idoneo a provare o negare la genitorialità con un grado di sostanziale certezza. La Corte EDU, nella sentenza del 6/12/2022 sopra citata, ha fatto, come già rilevato, ampio richiamo alla pronuncia della Consulta n. 177/2022.
L’Ufficio del Massimario e del Ruolo di questa Corte ha evidenziato, nella Relazione redatta ai fini del presente procedimento, che la regola in forza della quale il riconoscimento non è efficace sino a quando sussiste la paternità di un altro uomo è comune a molti ordinamenti Europei (Francia, Germania, Spagna).
In Austria, invece, è stata adottata una soluzione diversa, consentendosi l’accertamento dello stato di filiazione anche in contrasto con uno stato preesistente, con previsione di un meccanismo di caducazione dello status precedente.
La paternità del marito della madre può essere annullata da un riconoscimento “di rottura” da parte di un altro uomo, con una procedura di c.d. “scambio di paternità” (p. 150 ABGB: il figlio può agire per la dichiarazione di paternità anche in presenza di uno stato preesistente incompatibile e, in caso di successo, essa è di per sè in grado di provocare la caducazione dello stato incompatibile e dunque di fatto una scambio di paternità) e attraverso l’accertamento del “difetto di paternità del marito della madre”. In particolare, per il riconoscimento della paternità “di rottura”, il p. 147 ABGB dispone che la paternità di un uomo già stabilita (in forza di un matrimonio o di un provvedimento del tribunale) può essere rimossa e tale riconoscimento diventa efficace solo a seguito del consenso del figlio (che, se minorenne, deve essere accompagnata dall’indicazione da parte della madre del nome dell’uomo che ha effettuato il riconoscimento quale padre del nato) prestato in forma pubblica. In Austria, Germania, Olanda, Spagna e in Portogallo, inoltre, le due azioni possono essere promosse nello stesso processo.
2.6. In ordine ai profili processuali relativi al rapporto tra azione di disconoscimento di una e di accertamento di altra paternità, occorre, anzitutto, chiarire se la rimozione dello status di figlio costituisca un presupposto processuale della domanda o una questione pregiudiziale in senso tecnico-giuridico.
All’esito della pronuncia di incostituzionalità della preventiva delibazione che connotava il giudizio avente ad oggetto la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità, ai sensi dell’art. 274 c.c. (sentenza della Corte Cost. n. 50 del 2006), non appare più predicabile l’assunto secondo cui la rimozione del preesistente status di figlio costituirebbe un “presupposto processuale della domanda”.
Questo giudice di legittimità, prima della suddetta declaratoria di incostituzionalità di tale disposizione, aveva ritenuto che tra i motivi di improponibilità della domanda (che potevano, da soli, risolvere la lite, portando ad una declaratoria di inammissibilità) fosse ricompresa la richiesta di riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio “legittimo” (Cass. n. 7447/1993; Cass. n. 7644/1995; Cass. n. 8190/1998) o legittimato, proprio ragionando sulla previgente formulazione dell’art. 274 c.c. (ormai abrogata).
Nel precedente del 1998 (richiamato dal Tribunale di Roma nella sentenza del 2018 attinente alla vicenda che ha dato luogo alla richiesta della P.G. in esame) si affermava che “il giudizio instaurato per la dichiarazione della paternità o maternità naturale ha inizio con l’accertamento della previa ammissibilità della relativa domanda (art. 274 c.c.), e prevede una prima fase procedimentale (collegata, senza soluzione di continuità sul piano processuale, a quella, eventuale e successiva, che conduce alla pronuncia sullo stato della persona) in cui il giudice adito è tenuto ad esaminare, con pienezza di cognizione, le questioni preliminari non soltanto di rito, ma anche di merito, e, tra esse, la esistenza di motivi di improponibilità della domanda che possano già, “ex se”, risolvere immediatamente la controversia, con la conseguenza che l’azione predetta va dichiarata inammissibile se proposta in presenza della situazione prevista dal precedente art. 253 c.c. (richiesta di riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo o legittimato)”.
Con riferimento alla seconda questione, si possono ripercorrere le risposte della giurisprudenza di legittimità e di merito alla qualificazione del rapporto tra le due azioni in esame.
Un primo orientamento, più risalente nel tempo e più volte invocato a sostegno della tesi ermeneutica sostenuta nella sentenza del Tribunale di Roma (che, si rammenta, ha dichiarato inammissibile la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità), si è formato con riferimento a fattispecie diverse rispetto a quella in esame.
Deve anzitutto rammentarsi che, già nella sentenza n. 14315 del 2001, questa Corte aveva affermato che il padre naturale non è legittimato neppure ad intervenire in appello in un giudizio di disconoscimento della paternità, essendo tale legittimazione riconosciuta a chi potrebbe proporre opposizione ai sensi dell’art. 404 c.p.c., rimedio esperibile solo da chi faccia valere un diritto autonomo e incompatibile col rapporto giuridico accertato o costituito dalla sentenza opposta, e quindi solo a favore di chi sia pregiudicato in un suo diritto.
Il principio è stato ribadito in Cass. n. 1784/2012 (“nel giudizio per il disconoscimento della paternità, non è ammissibile l’intervento di colui che è indicato come padre naturale, non potendo la controversia sul relativo riconoscimento avere ingresso sino a quando la presunzione legale di legittimità della filiazione non sia venuta meno con il vittorioso esperimento dell’azione di disconoscimento”).
Orbene, con sentenza del 9 giugno 2005 n. 12167, questa Corte ha affermato che colui verso cui sia stata proposta l’azione di accertamento della paternità non è titolato a contrastare, con l’opposizione di terzo semplice, la pronuncia con cui è stata accolta l’azione di disconoscimento della paternità legittima proposta, verso altro soggetto, da colui che si affermi suo figlio (nella specie, (Omissis) aveva appreso dalla madre di essere figlio di (Omissis) e non del marito della stessa, (Omissis), aveva proposto ricorso, il Giudice aveva dichiarato ammissibile l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti di (Omissis) ed il Tribunale aveva dichiarato che egli non era figlio di (Omissis); tanto premesso, l’attore aveva poi chiesto che venisse dichiarata ammissibile l’azione per la dichiarazione della paternità nei confronti di P.G., il quale costituendosi, aveva contestato la fondatezza della domanda e chiesto la sospensione del giudizio, ex art. 295 c.p.c., fino alla definizione di quello di opposizione di terzo, da lui introdotto ai sensi dell’art. 404 c.p.c. avverso la sentenza con cui il Tribunale aveva disconosciuto la paternità di (Omissis); nel caso esaminato, pertanto, l’esclusione del nesso di pregiudizialità è stata argomentata da questa Corte, in forza del rilievo per cui la paternità legittima non può essere nè messa in discussione nè difesa da colui che è indicato come padre naturale, atteso che, quando si deduce che l’esito positivo dell’azione di disconoscimento di paternità si riverbera sull’azione di riconoscimento della paternità promossa nei suoi confronti, egli in realtà si limita a far valere un “pregiudizio di mero fatto”, laddove il rimedio contemplato dall’art. 404 c.p.c. presuppone, in capo all’opponente, un diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata).
Il predetto principio è stato ribadito anche nella sentenza n. 430 del 16 gennaio 2012, per affermare che nè colui che sia indicato come padre naturale, nè i suoi eredi, sono legittimati passivi nel giudizio di disconoscimento della paternità e che la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento è opponibile nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio ed anche in Cass. n. 12211/2012; ad analoghe conclusioni, giunge anche la successiva sentenza n. 487 del 13 gennaio 2014 (relativa, ancora, ad un’opposizione di terzo proposta dall’asserito padre naturale avverso una sentenza che aveva accolto la domanda di disconoscimento della paternità), nella quale si è dichiarata manifestamente infondata, in relazione alla Cost., artt. 24, 29 e 30, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 244 c.c., 395, n. 1, e 404 c.p.c., nella parte in cui limitano la proponibilità dell’opposizione di terzo o l’intervento del soggetto indicato come padre naturale, o dei suoi eredi, nel giudizio di disconoscimento di paternità, promosso da colui che solo all’esito del positivo esperimento di tale azione potrà chiedere il riconoscimento di paternità, precisandosi come l’insussistenza del nesso di pregiudizialità tra i due giudizi discenda anche dal fatto che “nè colui che sia indicato come padre naturale, nè i suoi eredi, sono legittimati passivi nel giudizio di disconoscimento della paternità e la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento è opponibile nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio”.
La posizione del padre naturale rispetto al giudizio demolitorio dello status si trova riaffermata in Cass. n. 20953/2018 (relativamente a giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 c.c.), Cass. n. 18601/2021, Cass. n. 27560/2021 (ove si chiarisce che il padre biologico, non legittimato a promuovere il giudizio di disconoscimento della paternità, nè potendo intervenire in tale giudizio o promuovere l’opposizione di terzo contro la decisione ivi assunta – in qualità di “altro genitore”, può comunque chiedere, ai sensi dell’art. 244, comma 6, c.c., la nomina di un curatore speciale, che eserciti la relativa azione, nell’interesse del presunto figlio infraquattordicenne).
Il secondo orientamento, fatto proprio da questa Corte nella richiamata (in sede di richiesta ex art. 363 c.p.c.) ordinanza n. 17392 del 3 luglio 2018, si pronuncia sulla specifica questione (diversa da quella esaminata dalle pronunce appena richiamate) dell’influenza che l’accoglimento della domanda di disconoscimento è idonea a spiegare sul giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità, avendo proprio riguardo alla condizione posta dall’art. 269, comma 1, c.c., adottando una soluzione interpretativa già affermata, come sopra rammentato, dalla Corte con riferimento al riconoscimento (invero, già con sentenza n. 10838 del 5.11.1997, si era, infatti, affermato che un riconoscimento originariamente improduttivo di effetti giuridici, in quanto in contrasto con lo stato di figlio legittimo del riconosciuto, diventa efficace ex tunc a seguito del vittorioso esperimento dell’azione di disconoscimento della paternità), nel senso di uno stemperamento della rigidità del sistema binario demolitivo-accertativo.
Nel caso portato all’attenzione della Corte, l’attrice aveva convenuto in giudizio gli eredi di (Omissis), defunto, chiedendo di accertare che costui era suo padre. Con successivo atto, la stessa aveva poi evocato in giudizio la propria madre e le altre figlie di (Omissis) affinchè venisse disconosciuta la paternità di quest’ultimo. Il Tribunale di Torino, ex art. 295 c.p.c., aveva disposto la sospensione del giudizio. Contro tale provvedimento alcuni eredi di (Omissis) avevano proposto regolamento di competenza, evidenziando come il disconoscimento della paternità non avrebbe potuto costituire l’antecedente logico-giuridico dell’accertamento della paternità, che doveva essere dichiarato inammissibile.
Questa Corte, dopo aver precisato che i principi affermati dalle richiamate sentenze n. 12167 del 2005 e n. 487 del 2014 avevano scrutinato il nesso tra i due giudizi da angolazioni diverse rispetto a quella rilevante nel caso di specie, ha richiamato il disposto dell’art. 253 c.c. (“in nessun caso è ammesso un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova”), per sottolineare come l’accertamento contenuto in una sentenza che accoglie l’azione di disconoscimento di paternità ha efficacia ultra partes e retroattiva travolgendo, con effetti ex tunc, lo stato fino a quel momento goduto dal figlio (come già più volte affermato da Cass. n. 2782 del 1978; Cass. n. 10838 del 1997; Cass., n. 430 del 2012) e, dunque, “non può non riverberarsi sul giudizio di accertamento pendente determinando, nel caso di vittorioso esperimento dell’azione di disconoscimento, il definitivo venir meno di quella condizione (di figlio legittimo) che era originariamente ostativa all’accoglimento della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità”. Tanto premesso, prosegue la Corte, non sembra contestabile che l’accertamento con cui viene rimosso (o mantenuto) lo stato di figlio legittimo sia “pregiudiziale rispetto a quello con cui è rivendicata altra paternità”.
Viene ravvisato, pertanto, un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico che giustifica la sospensione, così da evitare pronunce contrastanti (ove, in particolare, la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità venisse, in ipotesi, accolta, laddove, per effetto del rigetto dell’azione di disconoscimento, non potrebbe esserlo).
In termini più ampi, questa Corte osserva altresì che la tesi della inammissibilità del giudizio ex art. 269 c.c., pendente quello demolitivo, porterebbe all’irragionevole risultato di condurre ad una pronuncia di inammissibilità anche nell’ipotesi in cui “successivamente all’introduzione di quel giudizio, ma prima della pronuncia che lo definisca, la res iudicata in questione si sia formata”. Ancora con riferimento al rapporto di pregiudizialità, questa Corte sottolinea come non costituisca ostacolo alla pronuncia ex art. 295 c.p.c. il fatto che il giudizio pregiudicante intercorra tra soggetti diversi. In particolare si sottolinea come il rapporto di pregiudizialità viene escluso tra causa pendenti tra soggetti diversi allo scopo di evitare che la parte rimasta estranea ad uno di essi possa eccepire l’inopponibilità, nei propri confronti, della relativa decisione, ma tale eventualità è da escludere nel rapporto tra disconoscimento della paternità ed accertamento di altra paternità atteso che la sentenza resa in esito al giudizio di disconoscimento ha efficacia erga omnes.
Il principio affermato nella sentenza del 2018 è stato poi ribadito nella successiva ordinanza n. 19956 del 13 luglio 2021 (nella quale la Corte ha altresì precisato come, nel giudizio di accertamento della paternità di un minore nato in costanza di matrimonio, promosso a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che ha accolto la domanda di disconoscimento della paternità del marito della madre, l’eccezione di tardività di quest’ultima azione, formulata dal presunto padre, debba ritenersi inammissibile perchè la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento della paternità assume autorità di cosa giudicata erga omnes, opponibile anche al presunto padre, anche se non ha partecipato al relativo giudizio).
Secondo una dottrina, che ha condiviso l’indirizzo espresso dal giudice di legittimità, proprio i termini utilizzati nell’art. 269 c.c. orientano nel senso fatto proprio dalla Cassazione: la norma, infatti, afferma come il diverso status filiationis preclude la dichiarazione (vale a dire la sentenza che accerta) della filiazione al di fuori del matrimonio e non la richiesta (cioè la domanda) di tale dichiarazione.
Lo stesso autore ha evidenziato, altresì, come la soluzione suggerita dalla Corte presenti vantaggi anche in termini di economia processuale (atteso che, di fronte ad un’azione ricostruttiva della filiazione proposta prima della demolizione dello status preesistente, non costringe le parti ed il giudice ad un’immediata pronuncia di inammissibilità) e di ragionevole durata del processo.
Ad avviso di questa parte della dottrina, inoltre, la tesi in esame presenterebbe una valenza rivoluzionaria, consentendo al padre naturale di prendere parte al giudizio di disconoscimento.
2.7. La giurisprudenza di merito registra, parimenti, due orientamenti contrastanti:
a) in forza del primo orientamento, parte della giurisprudenza ha dichiarato inammissibili le domande volte ad ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità, ove proposte nel medesimo giudizio avente ad oggetto il disconoscimento della paternità (Trib. Roma 19.1.2017 n. 914, chiamata a pronunciarsi sulla domanda di disconoscimento proposta dall’uomo che aveva effettuato al momento della nascita il riconoscimento – e che, solo molti anni dopo, aveva scoperto non essere il padre – nei confronti di colei che risultava sua figlia, ha dichiarato improcedibile la domanda riconvenzionale spiegata da quest’ultima, avente ad oggetto la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti del padre biologico, evocato in giudizio dall’attore; le medesime argomentazioni sono contenute nella successiva sentenza del Tribunale di Roma n. 14782 del 17.7.2018 – dalla quale ha preso le mosse la presente richiesta della Procura generale – che, chiamata a pronunciarsi rispetto ad una domanda di disconoscimento pendente in grado di appello, ha escluso la possibilità di disporre la sospensione ex art. 295 c.p.c., in forza dei principi affermati dalla Suprema Corte in merito alla diversa fattispecie relativa all’opposizione di terzo proposta dall’asserito padre naturale avverso una sentenza che aveva accolto la domanda di disconoscimento della paternità, nelle pronunce sopra esaminate; in conformità, Tribunale di Bari, nella sentenza n. 1038 del 25.2.2016, relativa ad un giudizio nel quale erano state contestualmente proposte la domanda di disconoscimento di paternità, in via principale, e quella di dichiarazione giudiziale di altra paternità, in via riconvenzionale, ed il Tribunale di Nola, nella sentenza n. 1971 del 26.9.2019, nella quale, pur condivisi i principi affermati dalla Suprema Corte nell’ordinanza n. 17392 del 2018, con riferimento alla sospensione ex art. 295 c.p.c., il Tribunale si limita ad osservare come, in assenza di contestualità processuale delle due azioni, non possa farsi applicazione di detta norma);
b) un secondo orientamento si è espresso, al contrario, in modo favorevole alla contestuale proposizione della domanda di disconoscimento della paternità e di dichiarazione giudiziale di altra paternità, ritenendo ammissibile un provvedimento di separazione delle cause e conseguente sospensione ex art. 295 c.p.c., (Tribunale di Crotone, sentenza n. 633 del 18.5.2019, chiamato a decidere sulla domanda formulata dal curatore speciale nell’interesse di un minore avente ad oggetto entrambe le domande, disconoscimento e dichiarazione giudiziale di altra paternità, ha ritenuto sussistente un rapporto di pregiudizialità di una controversia rispetto all’altra e, previa separazione delle domande, ha disposto la sospensione del giudizio relativo alla domanda ex art. 269 c.p.c.; anche il Tribunale di Modena, nella sentenza n. 282 del 1.3.2019, ha richiamato i principi affermati dalla Corte nell’ordinanza n. 17392/2018, espressamente condividendoli, salvo poi concludere per una declaratoria di inammissibilità della domanda di accertamento giudiziale di paternità atteso che, nel caso di specie, la parte non aveva proposto alcuna domanda, nè nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Modena, nè in altro giudizio, volta ad accertare il difetto di veridicità del riconoscimento di paternità effettuato da altri).
2.8. Venendo quindi alla questione centrale relativa al nesso di pregiudizialità tecnico giuridica tra i due procedimenti e alla possibilità di sospensione ex art. 295 c.p.c., la richiesta della Procura Generale prospetta i seguenti aspetti problematici: se il giudizio di disconoscimento possa ritenersi pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità e se, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applichi l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c..
In ordine al concetto di pregiudizialità (in ambito civilistico), cui fa riferimento quello di dipendenza enunciato dall’art. 295 c.p.c. e che presuppone l’analisi del rapporto di possibile interferenza fra decisioni, la pregiudizialità si risolve, pertanto, in una relazione che lega due questioni e si qualifica come rapporto di antecedenza logica.
Il nesso sostanziale di pregiudizialità si manifesta, in primo luogo, nella dipendenza logica di una controversia rispetto all’altra, all’interno di uno stesso rapporto giuridico (a titolo di esempio, la giurisprudenza della Suprema Corte ha qualificato in termini di pregiudizialità logica il rapporto tra eccezione di inadempimento e volontà della parte di avvalersi della clausola risolutiva espressa, Cass. n. 21115 del 16/09/2013 e più di recente, negli stessi termini, Cass. n. 27692 del 12/10/2021) e, in secondo luogo, nella dipendenza tecnica, che intercorre tra rapporti giuridici diversi ed è tale per cui l’esistenza di uno dipende dall’esistenza o inesistenza dell’altro (questa Corte, nell’ordinanza n. 3936 del 18/02/2008, ha ravvisato un rapporto di pregiudizialità tecnica tra una domanda di restituzione di somme, proposta dalla parte nell’asserita veste di erede testamentario universale, e quella spiegata dal terzo al quale le somme erano state versate, volta ad ottenere la nullità o l’annullamento del testamento; cfr. anche Cass. 15353/2010, ove, chiarendosi che “la sospensione ex art. 295 c.p.c. presuppone l’esistenza di un nesso di pregiudizialità sostanziale, ossia una relazione tra rapporti giuridici sostanziali distinti ed autonomi (dedotti in via autonoma in due diversi giudizi), uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell’altro (dipendente), in modo tale che la decisione sul primo rapporto si riflette necessariamente, condizionandola, sulla decisione del secondo”, si è escluso che un giudizio di appello dovesse essere sospeso, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., per effetto della proposizione di un’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c.).
In sostanza, quando si verta in ipotesi di rapporti giuridici distinti ed autonomi, la pregiudizialità tecnico-giuridica consiste in una relazione tra rapporti giuridici sostanziali, uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell’altro (dipendente) in modo tale che la decisione sul primo rapporto si riflette necessariamente, condizionandola, sulla decisione del secondo.
Queste Sezioni Unite hanno ribadito di recente (Cass. n. 21763/2021) che “il concetto di dipendenza fra decisioni può presupporre a sua volta l’esistenza di un rapporto di dipendenza fra le cause e, in tale accezione, il nesso di pregiudizialità è posto in collegamento con la disposizione generale contenuta nell’art. 34 c.p.c., che regola, tra le norme dedicate alle modificazioni della competenza per ragioni di connessione, l’istituto degli accertamenti incidentali, generalmente considerato come espressione di una ratio omologa a quella dell’art. 295 c.p.c.”.
Pertanto, al termine pregiudizialità, attesa l’identità delle situazioni disciplinate dagli artt. 34 e 295 c.p.c. (diverse, quanto agli effetti, ma analoghe quanto ai presupposti), può attribuirsi il comune scopo di eliminare il rischio di giudicati contrastanti.
In merito al fatto che, nel caso in esame, il giudizio pregiudicante intercorre tra soggetti diversi, si può rilevare che, come già sottolineato nell’ordinanza n. 17392 del 2018, avendo la sentenza resa in esito al giudizio di disconoscimento efficacia erga omnes, non può ravvisarsi la possibilità che la parta rimasta estranea ad uno dei due giudizi possa eccepire l’inopponibilità nei propri confronti. Inoltre, non essendo consentito un accertamento in via incidentale su una questione di stato della persona, per evitare il conflitto di giudicati, non può neanche invocarsi la possibilità del giudice di evitare la sospensione ex art. 295 c.p.c. facendo ricorso al potere di conoscere incidenter tantum delle questioni pregiudiziali, allo stesso riconosciuto dall’art. 34 c.p.c.. In effetti, la sospensione necessaria prevista dall’art. 295 c.p.c. stabilisce che “il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.
La novella del 1990 ha portato dottrina e giurisprudenza ad un’interpretazione fortemente restrittiva delle ipotesi di sospensione necessaria, anche in ossequio al principio di economia processuale declinato nella prospettiva della ragionevole durata del processo (artt. 6 CEDU e Cost., 111, comma 2) e di effettività della tutela giurisdizionale (Cost., art. 24).
Tale interpretazione è stata fatta propria da queste Sezioni Unite che, nella pronuncia n. 10027 del 2012, hanno affermato che l’istituto processuale della sospensione necessaria è costruito sui seguenti tre presupposti:
1) “la rilevazione del rapporto di dipendenza che si effettua ponendo a raffronto gli elementi fondanti delle due cause, quella pregiudicante e quella in tesi pregiudicata”;
2) “la conseguente necessità che i fatti siano conosciuti e giudicati, secondo diritto, nello stesso modo”;
3) “lo stato di incertezza in cui il giudizio su quei fatti versa, perchè controversi tra le parti”.
La sospensione prevista dall’art. 295 c.p.c. presuppone, quindi, ad avviso della Corte, le seguenti condizioni: che sussista un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra due situazioni sostanziali; che queste ultime siano entrambe dedotte in giudizio; che non si realizzi o in virtù dell’art. 34 c.p.c. o per effetto degli artt. 40 e 274 c.p.c. la simultaneità del processo.
Più di recente, queste Sezioni Unite (Cass. n. 21763/2021), investite in merito alla questione di massima di particolare importanza relativa al rapporto tra la sospensione necessaria e facoltativa, ha condiviso l’orientamento espresso nel 2012 (sebbene con alcuni distinguo ritenuti necessari allo scopo di raggiungere l’obiettivo di “un’equilibrata efficienza dell’amministrazione della giustizia nel suo complesso”), ulteriormente precisando che “in tema di sospensione del giudizio per pregiudizialità necessaria, salvi i casi in cui essa sia imposta da una disposizione normativa specifica che richieda di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità tecnica e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non può ritenersi obbligatoria ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (e, se disposta, può essere proposta subito istanza di prosecuzione ex art. 297 c.p.c.), ma può essere adottata, in via facoltativa, ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c., applicandosi, nel caso del sopravvenuto verificarsi di un conflitto tra giudicati, il disposto dell’art. 336, comma 2, c.p.c.”.
Ora, nel caso in esame, trattandosi di accertamenti relativi allo stato delle persone, non è possibile una pronuncia incidentale (ex art. 34 c.p.c.) ed è la legge a richiedere espressamente di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante (come risulta dal combinato disposto degli artt. 253 e 269 c.c., così come interpretati dalla costante giurisprudenza di legittimità sopra richiamata).
Risulta, pertanto, che – a fronte della contemporanea pendenza di un procedimento di disconoscimento di paternità e di un altro procedimento volto alla dichiarazione giudiziale di altra paternità – stando all’interpretazione fornita da queste Sezioni Unite, non può escludersi la necessità di una sospensione obbligatoria ex art. 295 c.p.c..
Ovviamente, come anche rilevato dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n. 177/2022, l’affermazione, nell’interesse della legge ai sensi dell’art. 363 c.p.c., del principio di diritto proposto non risolve tutte le criticità ma opera solo un temperamento.
Infatti, il principio, laddove ricorre all’istituto della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., a fronte di una pregiudizialità tecnico-giuridica, non stravolge l’attuale assetto normativo “duale” sopra descritto, ribadendo anzi la necessità di far risolvere, con efficacia di giudicato, la questione sullo status pregresso, sollevata con specifica domanda, prima di decidere l’altra, di carattere dipendente, inerente alla domanda di accertamento della filiazione fuori dal matrimonio.
La richiesta non risulta meramente astratta, in quanto nel giudizio definito dal Tribunale di Roma nel 2018, si era proprio negata la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. del giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità in attesa della definizione del pendente giudizio di disconoscimento.
Potrebbe, peraltro, verificarsi l’ipotesi (come nella controversia pendente dinanzi alla Corte d’appello di Salerno che ha ritenuto di investire la Corte Costituzionale, nel 2021) in cui il previo giudizio di disconoscimento non sia stato neppure avviato al momento della proposizione dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità. E pertanto la Consulta, nella sentenza n. 177/2022, ha ritenuto necessario un intervento organico e di sistema del legislatore.
2.9. I limiti posti dall’art. 363 c.p.c. nell’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge (cfr., SS.UU, 404/2011), in rapporto alla necessità che esso non trascenda la valutazione delle violazioni di legge contenute nel provvedimento concretamente assunto, non più ricorribile in cassazione nè altrimenti impugnabile, e abbia stretta attinenza con le questioni oggetto di tale provvedimento, avendo la funzione di evitare, in proiezione futura, il consolidamento di una enunciazione di diritto errata e di fornire la regola preferibile, per l’eventualità in cui si ripresenti un caso in cui quella enunciazione del principio di dirotto sia conferente, inducono queste Sezioni Unite a non estendere la portata del principio di diritto che si va ad affermare, nel senso prospettato dalla stessa Procura Generale in sede di memoria e di discussione orale, in relazione anche alla possibilità di instaurazione in via cumulativa dell’azione volta alla rimozione dello status di figlio e di quella volta all’accertamento di altra paternità: invero, la fattispecie concreta che ha dato origine alla richiesta ai sensi dell’art. 363 c.p.c. ha riguardato due giudizi promossi non contestualmente ma separatamente e pendenti anche in grado diverso.
Va, tuttavia, evidenziato che, proprio in ragione dell’affermato nesso di pregiudizialità tra le due azioni, ostativo, finchè il disconoscimento della paternità non sia accertato con sentenza passata in giudicato, non alla proposizione dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità ma solo al suo accoglimento, la possibilità che i due procedimenti, quello demolitorio dello status e quello ricostruttivo, possano svolgersi contestualmente non può essere esclusa, in linea di principio, ed anzi consentirebbe di superare le criticità messe in luce da ultimo dalla Corte costituzionale nella richiamata pronuncia n. 177 del 2022.
Invero, per prevenire il conflitto di giudicati, derivante da decisioni tra loro incompatibili, le cause connesse per pregiudizialità dovrebbero essere, di regola, trattate e decise congiuntamente, attraverso il cumulo in un unico processo (c.d. simultaneus processus).
E il legislatore della recente Riforma di cui al D.Lgs. n. 149/2022 ha colto l’occasione, nel ridefinire il procedimento “in materia di persone, minorenni e famiglie”, per affermare una regola che risponde a tale esigenza di celerità e concentrazione delle tutele in ambito di liti nell’ambito della famiglia, nell’attuale art. 479 bis.49 c.p.c.: “(Cumulo di domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio). Negli atti introduttivi del procedimento di separazione personale le parti possono proporre anche domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e le domande a questa connesse. Le domande così proposte sono procedibili decorso il termine a tal fine previsto dalla legge, e previo passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la separazione personale. Se il giudizio di separazione e quello di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio sono proposti tra le stesse parti davanti a giudici diversi, si applica l’art. 40.
In presenza di figli minori, la rimessione avviene in favore del giudice individuato ai sensi dell’art. 473-bis.11, comma 1. Se i procedimenti di cui al comma 2 pendono davanti allo stesso giudice, si applica l’art. 274. La sentenza emessa all’esito dei procedimenti di cui al presente articolo contiene autonomi capi per le diverse domande e determina la decorrenza dei diversi contributi economici eventualmente previsti”.
Orbene, la proposizione della domanda di disconoscimento e di quella di dichiarazione giudiziale mediante un unico atto introduttivo, già riconosciuta da parte della giurisprudenza di merito, è stata commentata con favore da parte della dottrina che ha evidenziato come l’evidente connessione per pregiudizialità-dipendenza possa portare alla riunione (rispettivamente ai sensi dell’art. 40 c.p.c. o dell’art. 274 c.p.c., a seconda che pendano davanti a giudici diversi o davanti al medesimo giudice) o alla sospensione ex art. 295 c.p.c., nel caso in cui i due procedimenti non possano venire riuniti (quando, come nel caso di specie, uno dei due procedimenti penda in un grado diverso dall’altro).
Vi sono indubbiamente riflessi, in caso di contestuale svolgimento delle due azioni, in merito, soprattutto, alla possibilità del padre biologico di partecipare anche all’azione di disconoscimento. Vero che non è consentito al padre biologico di un minore generato nel matrimonio contestare la paternità attribuita al marito della madre, ai sensi dell’art. 231 c.c., nè autonomamente promuovere l’azione di disconoscimento, ex art. 243 c.p.c. consentita solo al marito, alla madre ed al figlio, mentre è consentito a “chiunque vi abbia interesse” (compreso, quindi, il padre naturale) di contestare lo stato di figlio nato fuori dal matrimonio, impugnando il riconoscimento per difetto di veridicità.
Trattasi di una scelta legislativa (e la questione di legittimità costituzionale di tale esclusione della legittimazione attiva è stata dichiarata inammissibile, in quanto coinvolgente la discrezionalità del legislatore, da Corte Cost. n. 429/1991), ancora dettata a tutela della famiglia che ha base nel matrimonio, che è stata ritenuta “discutibile” dalla dottrina, in rapporto all’unità dello status filiationis come disegnata dal D.Lgs. n. 154 del 2013.
Questa Corte ha da tempo affermato che il padre biologico, interessato a contestare la paternità legittima, non è legittimato al promovimento dell’azione di disconoscimento della paternità (riservato dall’art. 244 c.c. esclusivamente alla madre, al marito, al figlio o, in caso di minore età, al curatore speciale su istanza del figlio che abbia compiuto 14 anni o su istanza del pubblico ministero, se di età inferiore), nè ad intervenire nel relativo procedimento nè a proporre opposizione di terzo avverso la sentenza che ha deciso sul disconoscimento (Cass. n. 4035/1995; Cass. n. 487/2014 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 244 c.c., 395, n. 1, e 404 c.p.c., nella parte in cui limitano la proponibilità dell’opposizione di terzo o l’intervento del soggetto indicato come padre naturale, o dei suoi eredi, nel giudizio di disconoscimento di paternità, promosso da colui che solo all’esito del positivo esperimento di tale azione potrà chiedere il riconoscimento di paternità, ritenendo che il pregiudizio fatto valere sia di mero fatto; nello stesso senso anche Cass. n. 13638 del 2013; Cass. n. 18601/2021).
Con riferimento al minore infraquattordicenne, tuttavia, questa Corte, come già rilevato sopra, ha interpretato la norma richiamata riconoscendo comunque al padre biologico il diritto di chiedere al giudice la nomina di un curatore speciale per promuovere l’azione di disconoscimento (Cass. n. 4020/2017; Cass. n. 27560/2017).
In dottrina, si è poi osservato che la partecipazione del presunto padre naturale al giudizio di disconoscimento, oltre che semplificare il quadro probatorio dal quale ricavare la verità, non sarebbe neppure idonea a creare “qualche imbarazzo nella compagine familiare fondata sul matrimonio”, in quanto il quieto vivere familiare già sarebbe stato scardinato per effetto della stessa proposizione della domanda di disconoscimento, che il presunto padre naturale non può autonomamente promuovere.
In ordine alla compatibilità con l’art. 8 della CEDU, i giudici di Strasburgo hanno affermato che l’impossibilità “assoluta” per un uomo che afferma di essere il padre biologico di cercare di stabilire la propria paternità, per il solo motivo che un altro uomo ha già riconosciuto il bambino, integra una violazione dell’art. 8.
Nella sentenza Rózanski v. Poland, app.55339/00, la Corte ha dichiarato che il fatto che le autorità disponessero di un potere discrezionale nel decidere se avviare o meno un procedimento di contestazione di un riconoscimento di paternità non era di per sè criticabile. Tuttavia, la mancanza di accesso diretto a una procedura attraverso la quale il richiedente potesse cercare di stabilire la paternità, l’assenza nel diritto interno di orientamenti su come dovrebbe essere esercitato il potere discrezionale delle autorità di contestare un riconoscimento di paternità e il modo superficiale in cui sono state esaminate le domande del richiedente di contestare il riconoscimento da parte di un altro uomo, ha portato la Corte a constatare una violazione dell’art. 8.
Con sentenza del 13.10.2020, la Corte Edu, nel caso Koychev c. Bulgaria, app.32495/15, si è pronunciata sulla violazione dell’art. 8 CEDU, da parte della legge bulgara, nella parte in cui la medesima non consente a colui che affermi di essere il padre biologico del minore, di contestare il riconoscimento della paternità effettuato da un altro uomo (nella specie, il marito della madre in virtù di un matrimonio contratto alcuni anni dopo la nascita del minore).
La vicenda sulla quale la Corte si è pronunciata riguarda il ricorso del sig. Koychev, il quale, tra il 2003 e il 2005 ha avuto una relazione dalla quale è nato un bambino nel 2006 (riconosciuto solo nel 2013). La madre si è opposta al riconoscimento e solo in seguito il ricorrente è stato informato che il minore era stato riconosciuto dal nuovo compagno della madre. Nel 2014 l’azione di riconoscimento promossa dal ricorrente è stata dichiarata inammissibile dal Tribunale. Il sig. Koychev, ha, dunque agito contro il riconoscimento del nuovo compagno della madre, allegando che non era il padre biologico del bambino. Sia in primo grado che in appello è stata pronunciata l’inammissibilità della domanda, poichè, secondo la legge bulgara, solo la madre e il figlio possono ricorrere contro la dichiarazione di riconoscimento di paternità. Nel 2015, la Corte di Cassazione ha confermato l’inammissibilità rilevando che il ricorrente avrebbe dovuto rivolgersi al pubblico ministero o alla direzione territoriale dei servizi sociali, i quali avrebbero potuto promuovere azione di annullamento del riconoscimento di paternità.
A differenza della legge bulgara, nel nostro ordinamento, è, peraltro, consentito a “chiunque vi abbia interesse”, compreso, quindi, il padre naturale, di contestare lo stato di figlio nato fuori dal matrimonio.
E’ stato osservato che, ove si trattasse di contestare la paternità di un figlio nato nel matrimonio, atteso che il padre biologico non può contestare la paternità attribuita al marito della madre ai sensi dell’art. 231 c.c. nè con l’azione di disconoscimento della paternità nè con quella di contestazione dello stato di figlio, si giungerebbe al punto di negare al padre naturale il diritto di ottenere l’accertamento della sua paternità, con possibile violazione dell’art. 8 CEDU.
Tale conclusione, come visto, può essere temperata, nel caso di minori infraquattordicenni, attraverso il riconoscimento al padre naturale della possibilità di sollecitare la nomina di un curatore speciale per promuovere l’azione di disconoscimento (Cass. 27560/2021).
In ordine alla posizione del presunto padre naturale nel giudizio, cumulato o riunito, di disconoscimento, va, inoltre, richiamato il principio secondo cui la riunione di cause connesse lascia inalterata l’autonomia dei giudizi per tutto quanto concerne la posizione assunta dalle parti in ciascuno di essi, con la conseguenza che gli atti e le statuizioni riferiti ad un processo non si ripercuotono sull’altro processo sol perchè questo è stato riunito al primo (Cass. 15383/2011; Cass. 5434/2021) ed il principio di autonomia dei giudizi è suscettibile di temperamento solo al fine di evitare un inutile aggravio degli oneri processuali e purchè non ne risulti vulnerato il diritto di difesa. Si può poi aggiungere, sulla possibile contestualità delle due azioni, che questa Corte ha già ritenuto ammissibile una domanda di regresso e di rimborso delle somme anticipate da un genitore per il mantenimento del figlio nato fuori dal matrimonio, nell’ambito del giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale.
Nella sentenza n. 17914 del 2010 si è affermato che “in materia di mantenimento del figlio naturale, la domanda di rimborso delle somme anticipate da un genitore può essere proposta nel giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale, mentre l’esecuzione del titolo e la conseguente decorrenza della prescrizione del diritto a contenuto patrimoniale richiedono la preventiva definitività della sentenza di accertamento dello “status“” (conf. Cass. 21364/2018).
Quindi, con riguardo alla proponibilità dell’azione di regresso, da parte del genitore che aveva provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio, unitamente alla domanda di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, questa Corte ha già ammesso l’esercizio della prima azione, prima del passaggio in giudicato della sentenza di dichiarazione giudiziale della paternità (che produce gli stessi effetti, del riconoscimento, con decorrenza dalla nascita del figlio), anche se l’esecuzione del titolo e la conseguente decorrenza della prescrizione del diritto a contenuto patrimoniale richiedono la preventiva definitività della sentenza di accertamento dello status.
In conclusione, proprio in ragione del nesso di pregiudizialità affermato, non si può escludere la possibilità, in alcuni casi, del simultaneus processus (che rappresenta in genere la soluzione da privilegiare rispetto a quella della sospensione ex art. 295 c.p.c. che rappresenta sempre un’extrema ratio) tra azione di disconoscimento (o di impugnazione del riconoscimento o di contestazione dello status di figlio) ed azione di dichiarazione giudiziale di paternità, che potrebbero nascere separatamente e venire riunite (ex art. 40 c.p.c., se pendano davanti a giudici diversi, o ex art. 274 c.p.c., se pendano dinanzi allo steso ufficio giudiziario) ovvero essere cumulativamente promosse in unico atto introduttivo da parte del soggetto legittimato ad entrambe le azioni (ad es. il figlio e la madre), salva ovviamente la possibilità ex art. 103 c.p.c., comma 2, per il giudice del merito di disporre la separazione dei giudizi, nei casi di difficile gestione del processo cumulativo (laddove ad es. i soggetti direttamente coinvolti dal lato genitoriale siano ancora in vita). Il tutto, nel rispetto della cronologia e della pregiudizialità degli accertamenti riguardanti il disconoscimento della paternità ed attraverso una necessaria e rigorosa scansione (utilizzando il vigente meccanismo della “calendarizzazione”) dei tempi procedurali e dell’attività istruttoria relativa all’azione pregiudicante, da esperire necessariamente in via prioritaria.
Il raccordo tra i due istituti e la possibilità di introduzione cumulativa delle due azioni, salva sempre la discrezionalità del giudice di merito nel governo della trattazione del processo, in ragione di variabili organizzative oltre che processuali, potrebbe rispondere all’esigenza, valorizzata dalla Corte EDU nella decisione citata del 2022, di assicurare la più sollecita definizione dello status e di concretizzare nella sua effettività il diritto del figlio all’acquisizione del nuovo status.
Rimane comunque ferma la necessità, in difetto di un intervento del legislatore e tenuto conto di quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 177/22 (rammentandosi che, sul punto dell’ammissibilità di una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità condizionata sospensivamente all’esito del giudizio demolitivo, la Consulta ha rilevato che essa attiene alla materia processuale, la cui disciplina è riservata in primis al legislatore), di attendere il passaggio in giudicato della sentenza, parziale, di disconoscimento, prima di potere esaminare la domanda, dipendente, di dichiarazione giudiziale di paternità.
3. Si può quindi concludere che l’analisi, attuale, degli artt. 253 e 269 c.c. deve essere condotta alla luce dei principi costituzionali, artt. 2, Cost., 29 e 30, in particolare) e sovranazionali (in particolare, l’art. 8 della CEDU, implicante, oltre ad obblighi negativi delle autorità pubbliche, anche obblighi positivi inerenti all’effettivo rispetto della vita privata).
L’onere particolarmente gravoso a carico del figlio (come qualificato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 177 del 2022) – che richiede la necessità di un giudizio articolato in più gradi che si concluda con una sentenza passata in giudicato demolitiva del precedente stato – ed il rischio che lo stesso rimanga “privo di status”, in assenza di un intervento del legislatore (cui spetta, come affermato dalla Corte costituzionale, il compito di realizzare un “intervento di sistema” che “possa tenere conto di tutti gli interessi coinvolti, senza comprimere in maniera sproporzionata diritti di rango costituzionale”), possono essere comunque, in parte, temperati attraverso il riconoscimento della possibilità di sospendere il giudizio relativo all’attribuzione del nuovo status, non essendo ancora definito con sentenza passata in giudicato quello sulla rimozione dello status preesistente.
Ove, infatti, non si consentisse tale sospensione e si propendesse per una declaratoria di inammissibilità – come ha fatto il Tribunale di Roma nel caso concreto richiamato dalla Procura Generale -, si correrebbe il rischio di violare il principio della ragionevole durata del processo nonchè di realizzare un ostacolo all’esercizio del diritto – garantito dalla Cost., artt. 6 Cedu e 24 – di agire a tutela del diritto fondamentale allo status e all’identità biologica, protetto anche ai sensi dell’art. 8 Cedu.
Conclusivamente, deve essere affermato, nell’interesse della legge, affinchè possa orientare la giurisprudenza, il seguente principio di diritto: “Il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c.”.
P.Q.M.
La Corte enuncia nell’interesse della legge, a norma dell’art. 363 c.p.c., comma 1, il seguente principio di diritto: “Il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c.”.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 7 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2023
Allegati:
SS.UU, 22 marzo 2023, n. 8268, in tema di filiazione
In tema di maternità surrogata – SS.UU, 08 maggio 2019, n. 12193
Civile Sent. Sez. U Num. 12193 Anno 2019
Presidente: MAMMONE GIOVANNI
Relatore: MERCOLINO GUIDO
Data pubblicazione: 08/05/2019
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 10101/2017 R.G. proposto da PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI TRENTO;
– ricorrente –
e
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., e SINDACO DI TRENTO, in qualità di ufficiale di governo, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– ricorrenti e intimati –
contro
[ M.D. ] e [ R.R. ] proprio e nella qualità di genitori esercenti la responsabilità nei confronti dei minori [ M.C. ] e [ M.A. ] rappresentati e difesi dagli Avv. Giulia Perin e Alexander Schuster, con domicilio eletto presso lo studio della prima in Roma, via Piemonte, n. 117;
– controricorrenti –
avverso l’ordinanza della Corte d’appello di Trento depositata il 23 febbraio 2017.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 6 novembre 2018 dal Consigliere Guido Mercolino;
uditi l’Avv. Alexander Schuster e l’Avvocato dello Stato Wally Ferrante;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Federico SORRENTINO, che ha concluso in via principale per la dichiarazione della legittimazione a ricorrere del Procuratore generale, del Ministero dello interno e del Sindaco, con raccoglimento del quarto motivo del ricorso incidentale, e per la dichiarazione d’inammissibilità del secondo motivo del ricorso principale e del primo motivo del ricorso incidentale, con il rigetto del secondo e del terzo motivo del ricorso incidentale, e l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso principale e del quinto motivo del ricorso incidentale; in subordine, per l’ipotesi d’inammissibilità di entrambi i ricorsi, ha chiesto l’enunciazione del principio di diritto ai sensi dell’art. 363 cod. proc.
FATTI DI CAUSA
1. [ L.M. ] e [ R.R. ], in proprio e nella qualità di genitori esercenti la responsabilità nei confronti dei minori [ C.A. ] [ M. ] proposero ricorso alla Corte d’appello di Trento, per sentir riconoscere, ai sensi dell’art. 67 della legge 31 maggio 1995, n. 218, l’efficacia nell’ordinamento interno del provvedimento emesso il 12 gennaio 2011 dalla Superior Court of Justice dell’Ontario (Canada), con cui era stato accertato il rapporto di genitorialità tra il [ R. ] ed i minori, e per sentirne ordinare la trascrizione negli atti di nascita di questi ultimi da parte dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento.
Premesso di aver contratto matrimonio il 2 dicembre 2008 in Canada, i ricorrenti esposero che i minori, nati in quel Paese il 23 aprile 2010, erano stati generati mediante procreazione medicalmente assistita, a seguito del reperimento di una donatrice di ovociti e di un’altra donna disposta a sostenere la gravidanza; riferirono che, dopo un primo provvedimento giudiziale, regolarmente trascritto in Italia, con cui il Giudice canadese aveva riconosciuto che la gestante non era genitrice dei minori e che l’unico genitore era il [ M. ], l’ufficiale di stato civile, con atto del 31 maggio 2016, aveva rifiutato di trascrivere quello oggetto della domanda, con cui era stata riconosciuta la cogenitorialità del [ R. ] disposto l’emendamento degli atti di nascita; precisato inoltre che la loro unione era produttiva di effetti nell’ordinamento italiano ai sensi dell’art. 1, comma 28, lett. b), della legge 20 maggio 2016, n. 76 e che i minori erano cittadini sia italiani che canadesi, aggiunsero di aver assunto entrambi il ruolo di padre fin dalla nascita dei bambini e di essere stati riconosciuti come tali non solo dai figli, ma anche nella cerchia degli amici, familiari e colleghi.
Si costituì il Procuratore generale della Repubblica, ed eccepì l’incompetenza della Corte, ai sensi dell’art. 95 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, chiedendo in ogni caso il rigetto della domanda, per contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento adottato dal Giudice canadese.
Nel giudizio, spiegò intervento il Ministero dell’interno, a difesa del provvedimento emesso dal Sindaco di Trento in qualità di ufficiale di governo, affermando anch’esso che, in assenza di una relazione biologica tra il [ R. ] ed i minori, il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento emesso dal Giudice canadese si poneva in contrasto con l’ordine pubblico.
1.1. Con ordinanza del 23 febbraio 2017, la Corte d’appello di Trento ha accolto la domanda.
Premesso che il procedimento ha ad oggetto esclusivamente il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento emesso dal Giudice straniero, rispetto al quale la richiesta di trascrizione non costituisce un’autonoma domanda, idonea ad introdurre un giudizio di opposizione al rifiuto dell’ufficiale di stato civile, la Corte ha escluso da un lato la propria incompetenza, dallo altro la legittimazione all’intervento del Sindaco e del Ministero, osservando che il primo non rivestiva la qualità di parte, nonostante la notificazione del ricorso, mentre il secondo non poteva considerarsi portatore di un interesse attuale all’intervento, né in relazione alla regolare tenuta dei registri dello stato civile, tenuto conto dell’oggetto dell’accertamento da compiere, né in qualità di organo sovraordinato al Sindaco, né in relazione ad ipotetiche future pretese risarcitorie per danni da attività provvedimentale illegittima. Ha affermato che l’unico interesse pubblico rilevante nel caso in esame, costituito dall’esigenza di evitare l’ingresso nell’ordinamento di provvedimenti contrari all’ordine pubblico, doveva considerarsi tutelato dall’intervento del Procuratore generale, non richiesto in via generale nelle cause di riconoscimento dell’efficacia di sentenze straniere, ma legittimato dalle norme del codice di rito che prevedono la partecipazione del Pubblico Ministero a specifiche tipologie di controversie, come quelle in materia di stato delle persone.
Precisato poi che nel caso di specie l’unico requisito in contestazione ai fini del riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero era costituito dalla compatibilità con l’ordine pubblico internazionale, la Corte ha richiamato la più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui il contenuto di tale nozione va desunto esclusivamente dai principi supremi e/o fondamentali della Carta costituzionale, ovverosia da quelli che non potrebbero essere sovvertiti dal legislatore ordinario, restando escluso il contrasto con l’ordine pubblico in caso di difformità della norma straniera da norme del diritto nazionale con cui il legislatore abbia esercitato la propria discrezionalità in una determinata materia, con la conseguenza che, ai fini della relativa valutazione, il giudice deve verificare se l’atto straniero contrasti con l’esigenza di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla CEDU. Ciò posto, ha ritenuto che nella specie dovesse attribuirsi rilievo alla tutela dell’interesse superiore del minore, articolato in diverse situazioni giuridiche che hanno trovato riconoscimento sia nell’ordinamento internazionale che in quello interno, ed individuabile in particolare nel diritto del minore alla conservazione dello status di figlio riconosciutogli in un atto validamente formato in un altro Stato, come conseguenza diretta del favor filiationis emergente dagli artt. 13, comma terzo, e 33, commi primo e secondo, della legge n. 218 del 1995 ed implicitamente riconosciuto dall’art. 8, par. 1, della Convenzione di New York sui
diritti del fanciullo. Ha osservato infatti che il mancato riconoscimento del predetto status avrebbe determinato un evidente pregiudizio per i minori, precludendo il riconoscimento in Italia di tutti i diritti che ne derivavano nei confronti del [ R. ], indipendentemente dalla possibilità di farli valere nei confronti dell’altro genitore, impedendo al [ R. ] di assumere la responsabilità genitoriale nei loro confronti, e privando di rilievo giuridico nel nostro ordinamento l’identità familiare ed i legami familiari legittimamente acquisiti in Canada.
Pur rilevando che, a differenza di quella canadese, la disciplina vigente in Italia non consente il ricorso alla maternità surrogata, in quanto la legge 19 febbraio 2004, n. 40 limita alle coppie di sesso diverso la possibilità di accedere alla procreazione medicalmente assistita, prevedendo sanzioni amministrative in caso di ricorso alle relative pratiche da parte di coppie composte da soggetti dello stesso sesso e sanzioni penali per chi in qualsiasi forma realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o embrioni, mentre la legge 20 maggio 2016, n. 76 esclude l’applicabilità alle unioni civili delle disposizioni della legge 4 maggio 1983, n. 184, la Corte ha ritenuto che ciò non costituisse un ostacolo al riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento interno del provvedimento canadese che aveva accertato il rapporto di filiazione tra il [ R. ] e i due minori generati attraverso la maternità surrogata. Premesso infatti che, in presenza di questioni che pongano delicati interrogativi di ordine etico in ordine ai quali non vi sia consenso su scala europea, la Corte EDU ha riconosciuto al legislatore statale un ampio margine di apprezzamento, confermato anche dalla Corte costituzionale in occasione della dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma terzo, della legge n. 40 del 2004, la Corte ha affermato che la disciplina positiva della procreazione medicalmente assistita non costituisce espressione di principi fondamentali costituzionalmente obbligati, ma il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela degl’interessi fondamentali coinvolti in tale materia. Ha aggiunto che le conseguenze della violazione dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 non possono ricadere su chi è nato, il quale ha il diritto fondamentale alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero, non rappresentando un ostacolo l’insussistenza di un legame genetico tra i minori ed il [ R. ], dal momento che nel nostro ordinamento non esiste un modello di genitorialità fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato: ha evidenziato in proposito l’importanza assunta a livello normativo dal concetto di responsabilità genitoriale, che si manifesta nella consapevole decisione di allevare ed accudire il nato, la favorevole considerazione accordata dall’ordinamento al progetto di formazione di una famiglia anche attraverso l’istituto dell’adozione, e la possibile assenza di una relazione biologica con uno dei genitori nel caso di ricorso a tecniche di fecondazione eterologa consentite dalla legge. Ha rilevato che l’assenza di un legame biologico con il minore non riveste portata determinante neppure nella giurisprudenza della Corte EDU relativa all’art. 8 della CEDU, la quale, anche nei casi in cui ha escluso la configurabilità di una vita familiare, ha attribuito rilievo preminente alla breve durata della relazione ed alla precarietà del legame giuridico con i genitori, derivante dalla condotta di questi ultimi, contraria al diritto italiano. Ha infine escluso che nella specie l’interesse dei minori possa trovare una tutela più adeguata attraverso un’adozione disposta ai sensi dell’art. 44, lett. b), della legge n. 184 del 1983, non essendo pacifica l’ammissibilità del ricorso a tale forma di adozione da parte delle coppie omosessuali.
2. Avverso la predetta ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione il Pubblico Ministero, per due motivi, nonché il Ministero dell’interno ed il Sindaco di Trento, in qualità di ufficiale di governo, per cinque motivi, illustrati anche con memoria. Il [ M. ] [ ed il [ R. ] hanno resistito con controricorso, anch’essi illustrato con memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo d’impugnazione, il Pubblico Ministero denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 16 e 65 della legge n. 218 del 1995 e dell’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, censurando l’ordinanza impugnata per aver riconosciuto efficacia nell’ordinamento interno ad un provvedimento contrario all’ordine pubblico, in quanto avente ad oggetto l’accertamento di un rapporto genitoriale con persone del medesimo sesso, sulla base di norme straniere scelte dagli stessi ricorrenti e sul presupposto indimostrato della rispondenza di tale situazione all’interesse dei minori. Precisato che la questione non ha ad oggetto l’equiparazione di una paternità non biologica a quella biologica, ma l’ammissibilità di un rapporto genitoriale di coppia in capo a persone dello stesso sesso, sostiene che la riduttiva nozione di ordine pubblico accolta dall’ordinanza impugnata si pone in contrasto con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la stessa va desunta non solo dai valori consacrati nelle norme costituzionali, ma anche dagli altri principi e regole che, pur non trovando collocazione nella Carta fondamentale, informano l’intero ordinamento, in quanto immanenti ai più importanti istituti giuridici ed emergenti dal complesso delle norme inderogabili che caratterizzano l’atteggiamento eticogiuridico dell’ordinamento in un determinato momento storico. In quanto difforme da tali principi, l’ordinanza impugnata intacca la sovranità statale, consentendo l’ingresso nell’ordinamento di istituti apertamente contrastanti con i principi che informano un intero settore di rapporti in un determinato momento storico, la cui individuazione compete al legislatore ordinario, nel rispetto della Costituzione: la nozione di genitori da quest’ultima emergente non può infatti considerarsi gender neutral, trovando specificazione nei concetti di paternità e maternità risultanti dagli artt. 30, ultimo comma, e 31 e nell’istituto del matrimonio previsto dall’art. 29, che postula l’unione tra persone di sesso diverso; la bigenitorialità fondata sulla diversità di genere costituisce inoltre il presupposto dell’intera disciplina civilistica dei rapporti di famiglia e delle successioni, nonché di quella della procreazione medicaimente assistita, consentita soltanto a coppie di sesso diverso.
2. Con il secondo motivo, il Pubblico Ministero deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la nullità dell’ordinanza impugnata, per violazione dell’art. 111 Cost. e degli artt. 132, quarto comma, e 134 cod. proc. civ., osservando che il provvedimento è sorretto da una motivazione meramente apparente, in quanto priva dell’esposizione delle ragioni giuridiche a sostegno dell’affermata compatibilità con l’ordine pubblico di un rapporto di filiazione con doppia paternità e di un rapporto genitoriale di coppia fra persone dello stesso sesso. Premesso che la relativa verifica è
sottratta alla disponibilità delle parti, dovendo aver luogo d’ufficio, contesta la pertinenza delle argomentazioni svolte nell’ordinanza, rilevando che le stesse riguardano esclusivamente l’ammissibilità di un rapporto genitoriale privo di collegamento biologico, che non era stata mai posta in discussione, risultando positivamente prevista e disciplinata dalle norme in materia di adozione. Aggiunge che l’assenza di considerazioni riguardanti la compatibilità con l’ordine pubblico è resa ancor più grave, nella specie, dalla totale carenza di motivazione del provvedimento straniero, che rappresenta di per sé stessa una causa ostativa al riconoscimento dell’efficacia dello stesso nell’ordinamento interno. Afferma infine che, nel conferire rilievo decisivo all’esistenza di un progetto di genitorialità dei ricorrenti, la Corte territoriale si è limitata ad un enunciato meramente assertivo, senza indicare gli elementi da quali ha tratto il relativo convincimento.
3. Con il primo motivo del loro ricorso, il Ministero ed il Sindaco lamentano il difetto assoluto di giurisdizione, sostenendo che, nel riconoscere efficacia ad un provvedimento straniero che prevede la trascrizione nei registri dello stato civile di una doppia paternità, in assenza di una norma interna
che lo consenta, l’ordinanza impugnata ha ecceduto i limiti della giurisdizione, invadendo la sfera di discrezionalità politica riservata al legislatore. Premesso che l’estensione di una serie di diritti alle coppie omosessuali, in prospettiva antidiscriminatoria, non comporta necessariamente un’equiparazione perfetta e completa sotto ogni profilo, soprattutto in materia familiare, osservano che, in tema di filiazione, l’ordinamento appresta, indipendentemente dalla discendenza biologica, strumenti normativi idonei all’istituzione di un rapporto di responsabilità di tipo genitoriale, la cui previsione segna tuttavia anche il limite all’equiparazione delle diverse situazioni socio-personali. Tale limite risulta superato dall’ordinanza impugnata, la quale costituisce espressione di un’attività di produzione normativa estranea alla competenza della Corte territoriale, anche con riguardo al richiamo della giurisprudenza della Corte EDU, non applicabile direttamente dal giudice nazionale, e comunque inidonea a giustificare una completa equiparazione delle coppie omosessuali in relazione ad ogni aspetto del diritto di famiglia.
4. Con il secondo motivo, il Ministero ed il Sindaco denunciano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 2 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, osservando che, nell’individuare l’oggetto del procedimento esclusivamente nel riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero, l’ordinanza impugnata non ha tenuto conto della ragion d’essere del giudizio, costituita dal rifiuto dell’ufficiale di stato civile di procedere alla trascrizione del provvedimento emesso dal Giudice canadese, e delle conclusioni formulate dai ricorrenti, in cui questi ultimi chiedevano espressamente di ordinarne la trascrizione negli atti di nascita dei minori. La Corte territoriale ha omesso di rilevare la contraddittorietà della condotta processuale degl’istanti, i quali, pur richiamando le norme in materia di trascrizione, non hanno seguito la procedura dalle stesse prevista, rimessa alla competenza del tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale dev’essere eseguito l’adempimento richiesto.
5. Con il terzo motivo, il Ministero ed il Sindaco deducono, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., rilevando che l’ordinanza impugnata ha omesso di pronunciare in ordine all’eccezione d’inammissibilità del ricorso proposto dal [ R. ],da essi sollevata in relazione al difetto di legittimazione del ricorrente, non investito del potere di rappresentanza dei minori, in quanto non titolare della responsabilità genitoriale sugli stessi, secondo l’ordinamento italiano.
6. Con il quarto motivo, il Ministero ed il Sindaco lamentano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione degli artt. 101 e 702-bis cod. proc. civ. e dell’art. 67 della legge n. 218 del 1995, censurando l’ordinanza impugnata nella parte in cui ha escluso la loro legittimazione, senza tener conto della vicenda da cui trae origine il procedimento, contrassegnata dal rifiuto dell’ufficiale di stato civile di procedere alla trascrizione del provvedimento straniero, e della richiesta di trascrizione espressamente formulata nel ricorso introduttivo, nonché della natura contenziosa del procedimento disciplinato dall’art. 67 cit., assoggettato alle forme del rito sommario di cognizione ed avente necessariamente come controparte il soggetto che si oppone alla richiesta di trascrizione. Tale soggetto non è identificabile nel Pubblico Ministero, legittimato esclusivamente ad intervenire nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone, ai sensi dell’art. 70, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., ma nel Sindaco, al quale spetta, in qualità di ufficiale dello stato civile, la corretta tenuta dei relativi registri, e per esso nel Ministero, al quale fa capo il Sindaco nell’esercizio delle funzioni di ufficiale di governo.
7. Con il quinto motivo, il Ministero ed il Sindaco denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 16 e 65 della legge n. 218 del 1995, dell’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000 e degli artt. 5 e 12, commi secondo e sesto, della legge n. 40 del 2004, osservando che, nell’escludere il contrasto tra il provvedimento emesso dal Giudice canadese e l’ordine pubblico, l’ordinanza impugnata ha fornito un’interpretazione eccessivamente estensiva di tale nozione, il cui accoglimento finirebbe per svuotare di ogni significato gli artt. 16 e 65 cit., che la pongono come limite all’ingresso di provvedimenti stranieri contrastanti con quell’insieme di principi e valori ritenuti fondamentali nel nostro ordinamento, al punto da essere considerati parte integrante e imprescindibile del sostrato giuridico nazionale. Nel richiamare i principi enunciati dalla più recente giurisprudenza di legittimità, la Corte territoriale ha trascurato la precisazione, da quest’ultima emergente, secondo cui, in quanto posto a salvaguardia della coerenza interna dell’ordinamento nazionale, l’ordine pubblico non è riducibile ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri dell’ordinamento interno, purché fondamentali ed irrinunciabili. Tra gli stessi va senz’altro incluso il principio, chiaramente desumibile dalle norme inderogabili in materia di filiazione, che postula, quale requisito imprescindibile per il riconoscimento del relativo rapporto, la differenza di sesso tra i genitori, avendo quest’ultima influito significativamente su tutta la legislazione nazionale introdotta nel tempo, ivi compresa quella concernente le diverse tecniche di fecondazione assistita; tale principio è rimasto inalterato anche a seguito della dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma terzo, della legge n. 40 del 2004, che nulla ha mutato con riguardo ai requisiti prescritti per l’accesso alle predette tecniche, non essendo venute meno le sanzioni comminate per l’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie composte da soggetti dello stesso sesso e per la surrogazione di maternità. Ad avviso dei ricorrenti, non può dunque dubitarsi della contrarietà all’ordine pubblico della trascrizione di un atto di nascita che preveda una duplice paternità, la cui ammissibilità non può essere desunta né dalle pronunce della Corte EDU che, ai fini dell’adozione, hanno sancito la piena equiparazione delle coppie omosessuali alla famiglia tradizionale, né dalla recente pronuncia di legittimità che ha disposto la trascrizione di una duplice maternità, dal momento che le prime hanno ad oggetto esclusivamente il rapporto di genitorialità civile, mentre la seconda, oltre a riferirsi ad un caso diverso da quello in esame, ha conferito rilievo non già alle esigenze di genitorialità della coppia, ma all’interesse esclusivo del minore, non invocabile utilmente nel caso in esame, in quanto i minori sono già in possesso della cittadinanza italiana e risultano già figli del padre biologico. Quanto alla legge n. 76 del 2016, la stessa, nel dettare tra l’altro la disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, applicabile anche alle coppie che abbiano contratto matrimonio all’estero, ha ampiamente esteso a queste ultime i diritti e i doveri derivanti dal matrimonio, ma ha escluso l’operatività delle disposizioni della legge n. 184 del 1983, ferme restando quelle già ritenute applicabili in materia di adozione, in tal modo segnando il punto di equilibrio cui l’ordinamento è giunto nel bilanciamento tra i vari istituti del diritto familiare, dal quale non può prescindersi nella valutazione della conformità all’ordine pubblico dei provvedimenti giudiziali stranieri; tale disciplina impedisce di estendere alle coppie formate da persone dello stesso sesso le norme sulla filiazione e la responsabilità genitoriale, ai fini delle quali assume rilievo decisivo il rapporto di discendenza genetica, quale fatto oggettivo accertabile in sede giudiziale, indipendentemente dall’aspetto volitivo-negoziale; ciò comporta l’esclusività della posizione giuridica di padre, la quale va tenuta distinta dal concetto di genitonalità, intesa come relazione affettivo-familiare con il minore e come responsabilità e capacità di cura degli interessi dello stesso, che può trovare realizzazione anche attraverso altri istituti previsti dall’ordinamento.
8. Con ordinanza del 22 febbraio 2018, la Prima Sezione civile di questa Corte ha disatteso le eccezioni d’improcedibilità delle impugnazioni, sollevate dalla difesa dei ricorrenti in relazione al mancato deposito della copia notificata del provvedimento impugnato, dando atto dell’avvenuta effettuazione di tale adempimento da parte del Ministero, con efficacia anche nei confronti del Pubblico Ministero.
Rilevato inoltre che i controricorrenti hanno contestato l’ammissibilità di entrambi i ricorsi, per difetto di legittimazione dei ricorrenti, sostenendo che il Sindaco non ha mai assunto formalmente la qualità di parte del giudizio di merito, in quanto il ricorso introduttivo gli è stato notificato soltanto a titolo di litis denuntiatio, mentre il Pubblico Ministero ha rivestito la mera posizione d’interventore, essendo privo del potere di proporre l’azione, ha affermato che la risoluzione della prima questione implica la definizione della nozione d’interessato, ai sensi dell’art. 67 della legge n. 218 del 1995, in relazione all’oggetto del giudizio, costituito non solo dal riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento straniero di volontaria giurisdizione, ma anche dalla richiesta di ordinarne la trascrizione negli atti dello stato civile, rispetto alla quale difficilmente può escludersi la legittimazione del Sindaco, in qualità di ufficiale di stato civile. Ha ritenuto poi di dover sollevare d’ufficio la questione concernente la legittimazione del Ministro dell’interno, portatore, in qualità di titolare della funzione amministrativa esercitata dal Sindaco in materia di tenuta dei registri anagrafici, di uno specifico interesse all’uniforme tenuta di tali registri, osservando invece, relativamente alla legittimazione del Pubblico Ministero, che, nonostante l’indubbio interesse ad evitare che possano trovare ingresso nel nostro ordinamento giuridico provvedimenti contrari all’ordine pubblico riguardanti lo stato delle persone, in tale materia egli non è titolare del potere d’impugnazione, limitato alle cause previste dall’art. 72, terzo e quarto comma, cod. proc. civ. ed a quelle che egli stesso avrebbe potuto proporre. Premesso tuttavia che, ai sensi dell’art. 73 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, il Pubblico Ministero ha azione diretta per far osservare le leggi di ordine pubblico, ha rilevato che la questione di legittimazione s’intreccia nella specie con quella che costituisce oggetto dei ricorsi, evidenziando la diversità delle nozioni di ordine pubblico emergenti da recenti pronunce di legittimità.
Precisato infine che la denuncia dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni del legislatore comporta obbligatoriamente la rimessione della causa alle Sezioni Unite, la Prima Sezione ha ritenuto che tale provvedimento sia imposto nella specie anche dalla complessità e dalla rilevanza delle censure proposte con i motivi di ricorso, il cui esame implica, per l’attinenza a delicatissimi profili di diritto, la risoluzione di questioni di massima di particolare importanza.
9. Rigettata pertanto l’eccezione d’improcedibilità delle impugnazioni, la prima questione da esaminare concerne l’ammissibilità di entrambi i ricorsi, contestata dai controricorrenti sotto il profilo della legittimazione all’impugnazione, a loro avviso non spettante né al Sindaco, in quanto non evocato formalmente in giudizio e non costituitosi nella precedente fase processuale, né al Pubblico Ministero, in quanto convenuto in qualità di parte necessaria del giudizio di merito, ma privo del potere d’impugnare la relativa sentenza.
Tale questione è strettamente collegata a quella della legitimatio ad causam del Sindaco e del Ministero dell’interno, dagli stessi riproposta con il quarto motivo del loro ricorso, nel senso che la mancata citazione del primo, cui l’atto introduttivo del giudizio sarebbe stato notificato a mero titolo di litis denuntiatio, in tanto potrebbe considerarsi idonea ad escluderne la legittimazione all’impugnazione, in quanto, come affermato dalla sentenza impugnata, egli non avesse titolo a partecipare al giudizio: in caso contrario, la mancanza della vocatio in jus si risolverebbe in un mero vizio del ricorso introduttivo, la cui notificazione dovrebbe essere considerata sufficiente a far assumere al Sindaco la qualità di parte, legittimata ad impugnare la sentenza, in quanto risultata soccombente nel merito. Com’è noto, infatti, la legittimazione a proporre l’impugnazione o a resistervi spetta a chi abbia rivestito formalmente la posizione di parte nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, e dev’essere desunta da quest’ultima, intesa sia nella parte dispositiva che in quella motiva, indipendentemente dalla correttezza di tale individuazione e dalla sua corrispondenza alle risultanze processuali, nonché dalla titolarità (attiva o passiva) del rapporto sostanziale controverso (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. V, 30/05/2017, n. 13584; Cass., Sez. VI, 2/10/
2014, n. 20789; 29/07/2014, n. 17234; Cass., Sez. III, 14/07/2006, n. 16100).
9.1. La legittimazione a contraddire del Sindaco e del Ministero è stata esclusa dalla Corte di merito sulla base di tre distinte ragioni, fondate rispettivamente sull’oggetto della domanda, identificato non già nella trascrizione del provvedimento straniero, ma nel riconoscimento della sua efficacia nell’ordinamento italiano, sulla non configurabilità nel presente giudizio di un interesse alla regolare tenuta dei registri dello stato civile, e sull’estraneità alla materia del contendere di pretese risarcitorie per danni cagionati da attività provvedimentale illegittima.
La tesi secondo cui, in quanto avente carattere meramente accessorio e consequenziale rispetto alla domanda di riconoscimento, e quindi inidonea ad introdurre un procedimento di rettificazione ai sensi dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, la richiesta di trascrizione del provvedimento risulterebbe insufficiente a giustificare la legittimazione del Sindaco, in qualità di ufficiale di stato civile, è stata disattesa da una recente pronuncia di legittimità, che in tema di riconoscimento dell’efficacia di una sentenza straniera di adozione ha ravvisato proprio nel rifiuto opposto dal Sindaco alla richiesta di trascrizione (anche in quel caso riproposta con il ricorso introduttivo del giudizio) quella «contestazione» che l’art. 67 della legge n. 218 del 1995 richiede ai fini dell’insorgenza della controversia: premesso infatti che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’espressione «chiunque vi abbia interesse», con cui la predetta disposizione individua i soggetti legittimati a ricorrere alla corte d’appello, non si riferisce esclusivamente alle parti del processo che ha dato luogo alla sentenza da eseguire, tale pronuncia ha affermato, richiamando anche l’ordinanza interlocutoria emessa nel presente giudizio, che in presenza del predetto rifiuto la nozione di «interessato» al riconoscimento del provvedimento straniero difficilmente potrebbe condurre a negare la qualità di parte del Sindaco come ufficiale di stato civile (cfr. Cass., Sez. I, 31/05/2018, n. 14007).
Il rilievo in tal modo conferito al rifiuto di trascrizione ed alla riproposizione della relativa richiesta nel procedimento di riconoscimento impone un approfondimento del rapporto intercorrente tra quest’ultimo ed il procedimento previsto dall’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000 per la rettificazione degli atti di stato civile nel caso in cui, come nella specie, la richiesta di trascrizione trovi fondamento in una sentenza o un provvedimento giurisdizionale straniero del quale il richiedente intenda far valere l’efficacia nel nostro ordinamento. Non appare necessario, in questa sede, soffermarsi sulle differenze strutturali tra i due istituti, già evidenziate dalla dottrina in riferimento al procedimento di delibazione disciplinato dagli artt. 796 e ss. cod. proc. civ. ed a quello di rettificazione previsto dal r.d. 9 luglio 1939, n. 1238, poi sostituiti da quelli in esame, e ribadite anche in relazione a questi ultimi, soprattutto con riguardo al tipo di giurisdizione (contenziosa o volontaria) di cui ciascuno di essi costituisce espressione ed ai limiti entro i quali le relative decisioni sono destinate a spiegare efficacia di giudicato. Giova piuttosto sottolineare la diversa funzione dei due rimedi, il primo dei quali è volto a risolvere contestazioni in ordine all’efficacia di provvedimenti giurisdizionali stranieri o a consentirne l’esecuzione nel nostro ordinamento, laddove il secondo mira ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e quella risultante dai registri dello stato civile, a causa di un vizio comunque originatosi nel procedimento di formazione dei relativi atti (cfr. Cass., Sez. I, 2/10/ 2009, n. 21094; 27/03/1996, n. 2776; 30/10/1990, n. 10519). La più ampia portata del procedimento di delibazione, riguardante sentenze e provvedimenti di qualsiasi genere e finalizzato alla produzione di effetti non limitati alla trascrizione nei registri dello stato civile, aveva indotto, in passato, parte della dottrina ad affermarne la prevalenza su quello di rettificazione, e ciò in coerenza con il sistema previsto dal codice di rito, che subordinava in via generale alla pronuncia di delibazione la possibilità di far valere nel nostro ordinamento i provvedimenti stranieri; tale opinione, che ha trovato seguito anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 218 del 1995, non può essere ritenuta più condivisibile, alla luce del radicale mutamento di prospettiva da quest’ultima determinato: in quanto imperniato sul principio del riconoscimento automatico (art. 64), applicabile anche ai provvedimenti in materia di stato e capacità delle persone (art. 65) ed a quelli di volontaria giurisdizione (art. 66), il regime da essa introdotto rende infatti superfluo, almeno in prima battuta, il ricorso al procedimento previsto dall’art. 67, consentendo di procedere direttamente alla trascrizione nei registri dello stato civile, e rimettendo quindi all’ufficiale di stato civile la verifica dei requisiti prescritti dalla legge. Soltanto nel caso in cui tale verifica abbia esito negativo, ovvero nel caso in cui l’efficacia del provvedimento straniero debba essere fatta valere anche ad altri fini, si rende necessaria la procedura di riconoscimento, la cui applicabilità non può ritenersi esclusa dalla possibilità di proporre opposizione ai sensi dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, configurandosi
quest’ultima come un rimedio concorrente, ma avente una portata più limitata rispetto a quella del procedimento di cui all’art. 67 della legge n. 218 del 1995: la funzione della rettificazione resta infatti strettamente collegata con quella pubblicitaria propria dei registri dello stato civile e con la natura meramente dichiarativa delle annotazioni ivi riportate, aventi l’efficacia probatoria privilegiata prevista dall’art. 451 cod. civ., ma non costitutive dello status cui i fatti da esse risultanti si riferiscono; esula pertanto dal suo ambito applicativo l’ipotesi in cui, come nella specie, il predetto stato emerga dal provvedimento straniero, la cui trascrivibilità nei registri dello stato civile venga contestata non già per un vizio di carattere formale, ma per l’insussistenza dei requisiti di carattere sostanziale cui gli artt. 64-66 della legge n. 218 del 1995 subordinano l’ingresso nel nostro ordinamento. Tale contestazione, investendo la stessa possibilità di ottenere il riconoscimento dello status accertato o costituito dal provvedimento straniero, dà luogo ad una controversia di stato, per la cui risoluzione, com’è noto, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente escluso l’applicabilità del procedimento di rettificazione, in virtù dell’osservazione che tale questione deve essere necessariamente risolta nel contraddittorio delle parti, in un giudizio contenzioso avente ad oggetto per l’appunto lo status (cfr. Cass., Sez. I, 21/12/1998, n. 12746; 27/03/1996, n. 2776; 26/01/1993, n. 951).
Se ciò è vero, peraltro, deve riconoscersi per un verso che la richiesta di trascrizione, non proponibile nelle forme previste dall’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, può ben essere avanzata contestualmente alla domanda di riconoscimento, rispetto alla quale non riveste carattere meramente accesso rio e consequenziale, per altro verso che la proposizione di tale domanda esige l’instaurazione del contraddittorio nei confronti dell’organo il cui rifiuto di trascrivere il provvedimento straniero ha dato origine alla controversia, non potendosi negare a quest’ultimo la qualifica di «interessato», nel senso previsto dall’art. 67 della legge n. 218 del 1995, non spettante esclusivamente ai soggetti che hanno assunto la veste di parti nel giudizio in cui il provvedimento è stato pronunciato, ma anche a quelli direttamente coinvolti nella sua attuazione (cfr. Cass., Sez. I, 8/01/2013, n. 220). L’ordine di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile non è infatti configurabile come una mera conseguenza della pronunzia di riconoscimento, la cui funzione non si esaurisce nell’attribuzione degli effetti specificamente previsti dall’art. 451 cod. civ., ma investe l’efficacia del provvedimento straniero in tutti i suoi aspetti; esso si inserisce nel petitum della domanda come oggetto dotato di una propria autonomia concettuale e giuridica, essendo volto a rimuovere l’ostacolo frapposto dall’organo competente, al quale, come destinatario del provvedimento richiesto dall’istante, va pertanto riconosciuta la posizione di legittimo contraddittore nel relativo procedimento.
9.2. Nell’esercizio delle funzioni di ufficiale dello stato civile, il Sindaco agisce poi, ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 1, in qualità di ufficiale del governo, e quindi non già come organo di vertice e legale rappresentante dell’Amministrazione comunale, bensì come organo periferico della Amministrazione statale, dalla quale dipende ed alla quale sono pertanto imputabili gli atti da lui compiuti nella predetta veste, nonchè la responsabilità per i danni dagli stessi cagionati (cfr. Cass., Sez. I, 25/03/2009, n. 7210; Cass., Sez. III, 6/08/2004, n. 15199; 14/02/2000, n. 1599). Com’è noto, la competenza in materia di tenuta dei registri dello stato civile, già spettante al Ministero della giustizia, ai sensi del R.D. n. 1238 del 1939, art. 13, è stata in seguito trasferita al Ministero dell’interno, al quale il D.P.R. n. 396 del 2000, art. 9 attribuisce il potere di impartire istruzioni agli ufficiali dello stato civile, nonchè la vigilanza sui relativi uffici, da esercitarsi attraverso il prefetto: pur non essendo certo che questi poteri costituiscano espressione di un rapporto di gerarchia in senso proprio, tale da consentire al Ministero di annullare gli atti compiuti dagli ufficiali di stato civile (cfr. le contrastanti pronunce del Giudice amministrativo: Cons. Stato, Sez. III, 1/12/2016, n. 5047; 4/11/2015, n. 5043; 26/10/2015, nn. 4897 e 4899), è pacifico che le predette istruzioni rivestono carattere vincolante per questi ultimi, ai quali è espressamente imposto l’obbligo di uniformarvisi, e ciò al fine di assicurare il regolare svolgimento del servizio e l’unità d’indirizzo nell’interpretazione di disposizioni dalla cui applicazione discendono effetti determinanti per la tutela dei diritti sia personali che patrimoniali. La circostanza che la corretta ed uniforme applicazione delle predette disposizioni risponda ad un’esigenza obiettiva dell’ordinamento, nel cui perseguimento l’Amministrazione non agisce in qualità di parte, non consente quindi di escludere la configurabilità di un autonomo interesse, concreto ed attuale, tale da legittimare l’intervento del Ministero nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero e la correlata richiesta di trascrizione, indipendentemente dalla proposizione, contestuale o paventata, di una domanda di risarcimento dei danni cagionati dal rifiuto dell’ufficiale di stato civile.
9.3. In quanto collegato alla funzione amministrativa specificamente esercitata dal Ministero, il predetto interesse non coincide con quello che legittima la partecipazione al giudizio del Pubblico Ministero, riconducibile invece alla natura del rapporto controverso ed all’indisponibilità delle situazioni giuridiche fatte valere, da cui deriva l’esigenza di garantire che, pur nel rispetto del principio dispositivo, gli strumenti processuali apprestati per la tutela delle predette situazioni operino in funzione della puntuale applicazione della legge.
Correttamente, nella specie, l’ordinanza impugnata ha confermato la legittimazione del Pubblico Ministero ad intervenire nel giudizio dinanzi a sè, avuto riguardo alla natura della questione sollevata dagl’istanti, che, in quanto avente ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento straniero attributivo di uno status, è qualificabile, come si è detto, come controversia di stato, con la conseguente applicabilità dell’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3, che attribuisce all’organo in questione la qualità di parte necessaria nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone, prescrivendone l’intervento a pena di nullità rilevabile d’ufficio. Il riferimento alla predetta disposizione implica tuttavia l’esclusione del potere di impugnare la decisione emessa dalla Corte d’appello, non essendo la controversia annoverabile nè tra quelle per le quali la legge riconosce al Pubblico Ministero il potere di azione nè tra quelle matrimoniali, e non trovando pertanto applicazione nè il comma 1 dell’art. 72 c.p.c., che in riferimento alla prima categoria di controversie attribuisce al predetto organo, in caso d’intervento, gli stessi poteri che competono alle parti, nè il terzo ed il comma 4 del medesimo articolo, che in riferimento al secondo gruppo di controversie attribuiscono al Pubblico Ministero il potere d’impugnazione.
Non può condividersi, in proposito, la tesi sostenuta dal Procuratore generale, secondo cui la legittimazione all’impugnazione del Pubblico Ministero, apparentemente esclusa dalle norme citate, potrebbe essere ricavata dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, comma 2, che, riconoscendo al Procuratore della Repubblica la facoltà di promuovere in ogni tempo il procedimento di rettificazione, contemplerebbe proprio quel potere di azione dalla cui titolarità il comma 1 dell’art. 72 c.p.c. fa dipendere il potere d’impugnazione, ovvero dal L. n. 218 del 1995, artt. 64 – 66, che, subordinando il riconoscimento dell’efficacia dei provvedimenti stranieri alla condizione che gli stessi non risultino contrari all’ordine pubblico, lascerebbero spazio all’iniziativa del Pubblico Ministero, cui il R.D. n. 12 del 1941, art. 73 attribuisce l’azione diretta per far osservare le leggi di ordine pubblico. L’esclusione della possibilità di avvalersi del procedimento di cui al D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95 per la risoluzione di controversie di stato, e la conseguente necessità di promuovere la procedura di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 67 per ottenere la dichiarazione di efficacia del provvedimento straniero, anche ai fini della trascrizione nei registri dello stato civile, impediscono infatti di estendere il potere di iniziativa riconosciuto al Pubblico Ministero ai fini della rettificazione oltre l’ambito in riferimento al quale è specificamente previsto, ostandovi la natura stessa della controversia, intrinsecamente disomogenea rispetto a quelle che possono dar luogo al procedimento di rettificazione, ed il chiaro dettato dell’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3, che in riferimento alle controversie di stato si limita ad attribuire al Pubblico Ministero un potere d’intervento. E’ proprio la predetta disomogeneità a spiegare l’asimmetria del sistema segnalata dal Procuratore generale, e consistente nell’attribuzione al Pubblico Ministero di un potere d’iniziativa (e quindi d’impugnazione) limitato a controversie che, pur coinvolgendo l’interesse pubblico alla corretta applicazione della legge in una materia delicata come quella riguardante la formazione e la registrazione degli atti di stato civile, rivestono una portata più circoscritta rispetto a quelle riguardanti direttamente lo stato delle persone. In realtà, il potere di azione previsto dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, comma 2, costituisce un retaggio del sistema previgente, in cui gli uffici dello stato civile facevano capo al Ministero della giustizia e il R.D. n. 1238 del 1939, art. 182 attribuiva al Pubblico Ministero, posto alle dipendenze del Ministro, la vigilanza sul regolare svolgimento del servizio e sulla tenuta dei relativi registri; il suo mantenimento da parte della nuova disciplina appare coerente con la natura non contenziosa del procedimento di rettificazione, la cui instaurazione costituirebbe altrimenti appannaggio esclusivo degl’interessati, ma non risulta sufficiente a giustificarne l’estensione ad un procedimento contenzioso qual è quello di riconoscimento, che ha come controparte, secondo la formula adottata dalla L. n. 218 del 1995, art. 67, “chiunque vi abbia interesse”, ivi compresi, come si è detto, l’ufficiale di stato civile ed il Ministero dell’interno. Il richiamo all’art. 73
dell’ord. giud. non tiene invece conto dell’anteriorità di tale disposizione rispetto alla disciplina introdotta dal codice civile (art. 2907) e dal codice di procedura civile (art. 69), che concordemente limitano l’iniziativa del Pubblico Ministero in materia civile ai soli casi stabiliti dalla legge, in tal modo delineando un sistema ispirato a canoni di rigida tipizzazione, nell’ambito del quale risulta assente qualsiasi riferimento all’osservanza delle “leggi d’ordine pubblico”; tale sistema trova il suo completamento negli artt. 70-72 del codice di rito, che distinguono puntualmente le ipotesi in cui al predetto organo spetta il potere di azione da quelle in cui è titolare di un mero potere d’intervento, includendo nella seconda categoria le controversie di stato, e limitando espressamente alle prime la legittimazione all’impugnazione. L’assoggettamento della fattispecie a disposizioni di ordine pubblico costituirebbe d’altronde un criterio di applicazione tutt’altro che agevole ai fini dell’individuazione del potere di azione del Pubblico Ministero, avuto riguardo alle difficoltà che s’incontrano nella definizione della stessa nozione di “ordine pubblico”, e nella conseguente delimitazione di tale categoria di disposizioni, il riferimento alla quale risulterebbe foriero di non poche incertezze, in un settore in cui appare invece primaria l’esigenza di garantire la corretta ed uniforme applicazione della legge; significativa, in proposito, è la circostanza che, proprio in tema di controversie di stato, la giurisprudenza di legittimità abbia più volte escluso la possibilità d’individuare nel carattere imperativo della disciplina applicabile il fondamento di un interesse tale da legittimare l’esercizio dell’azione da parte del Pubblico Ministero, affermando che l’iniziativa spetta ai soli soggetti privati che abbiano un interesse individuale qualificato (concreto, attuale e legittimo) sul piano del diritto sostanziale, di carattere patrimoniale o morale, all’essere o al non essere dello status, del rapporto o dell’atto dedotto in giudizio, e concludendo quindi che, in mancanza di una deroga esplicita, trova applicazione la regola generale prevista dall’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3 (cfr. Cass., Sez. I, 16/03/1994, n. 2515; 18/10/1989, n. 4201).
Quanto infine alla possibilità, prospettata in via alternativa dal Procuratore generale, di desumere il potere d’impugnazione del Pubblico Ministero dalla mera partecipazione alla precedente fase processuale, configurabile come intervento adesivo volontario, e quindi idonea a giustificare la proposizione dell’impugnazione indipendentemente dal ricorso all’art. 72 c.p.c., è appena il caso di evidenziare la portata esaustiva della disciplina dettata da tale disposizione, che, nel limitare il potere d’impugnazione del Pubblico Ministero che abbia spiegato intervento nel giudizio alle cause che avrebbe potuto proporre, ovverosia alle ipotesi di cui all’art. 70, comma 1, n. 1, ed alle cause matrimoniali, escluse quelle di separazione dei coniugi, non introduce, relativamente alle altre ipotesi, alcuna distinzione tra quelle in cui l’intervento ha carattere obbligatorio, essendo prescritto a pena di nullità rilevabile d’ufficio, e quelle in cui l’intervento ha carattere facoltativo, in quanto fondato su una valutazione del pubblico interesse rimessa allo stesso Pubblico Ministero.
9.4. La prima questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite dunque essere risolta con l’enunciazione dei seguenti principi di diritto:
«Il rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero ed un cittadino italiano, se non determinato da vizi formali, dà luogo ad una controversia di stato, da risolversi mediante il procedimento disciplinato dall’art. 67 della legge n.218 del 1995, in contraddittorio con il Sindaco, in qualità di ufficiale dello dello stato civile, ed eventualmente con il Ministero dell’interno, legittimato a spiegare intervento nel giudizio, in qualità di titolare della competenza in materia di tenuta dei registri dello stato civile, nonchè ad impugnare la relativa decisione».
«Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero ed un cittadino italiano, il Pubblico Ministero riveste la qualità di litisconsorte necessario, ai sensi dello art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3, ma è privo della legittimazione ad impugnare la relativa decisione, non essendo titolare del potere di azione, neppure ai fini dell’osservanza delle leggi di ordine pubblico».
In applicazione dei predetti principi, il ricorso del Pubblico Ministero va dichiarato inammissibile, mentre risulta ammissibile quello proposto dal Sindaco e dal Ministero dello interno, del quale vanno altresì accolti il secondo ed il quarto motivo.
10. Va altresì accolto il terzo motivo del predetto ricorso, concernente la legittimazione del [ R. ] ad agire anche nella veste di legale rappresentante dei minori, dal momento che, indipendentemente dal conflitto d’interessi con i rappresentati, eventualmente configurabile in relazione all’oggetto della domanda, la sussistenza del potere rappresentativo nella specie doveva ritenersi subordinata proprio al riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero, dal quale dipendeva la possibilità di attribuire rilievo allo status filiationis anche nell’ambito dell’ordinamento italiano.
11. Con riguardo alle altre censure, occorre innanzitutto escludere che, come sostengono i ricorrenti, attraverso il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento emesso dal Giudice canadese, ed in particolare mediante l’affermazione della conformità all’ordine pubblico dell’accertamento di un rapporto di filiazione non fondato su un legame biologico, l’ordinanza impugnata sia incorsa nel vizio di eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore. A tale fattispecie, com’è noto, questa Corte ha attribuito un rilievo eminentemente teorico, ritenendola configurabile soltanto qualora il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa estranea alla sua competenza. Essa non è ravvisabile nel caso in esame, avendo la Corte d’appello giustificato la propria decisione attraverso il richiamo a una pluralità di indici normativi, collegati tra loro ed interpretati alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte EDU, dai quali ha tratto la convinzione che il modello di genitorialità cui s’ispira il nostro ordinamento nell’attuale momento storico non possa più considerarsi fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato, ma debba tener conto di nuove fattispecie contrassegnate dalla costituzione di un legame familiare con quest’ultimo, in conseguenza della consapevole assunzione da parte del primo della responsabilità di allevarlo ed accudirlo, nel quadro di un progetto di vita della coppia costituita con il genitore biologico.
In quanto ancorato alla disciplina vigente, sia pure interpretata secondo criteri evolutivi, il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla decisione risulta immune dal vizio lamentato, la cui individuazione presupporrebbe d’altronde la possibilità di distinguere, nell’ambito del predetto iter, l’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice da quella interpretativa a lui normalmente affidata: operazione, questa, piuttosto disagevole, in quanto, come la Corte ha già avuto modo di rilevare, l’interpretazione non svolge una funzione meramente euristica, ma si sostanzia nell’enunciazione della regula juris applicabile al caso concreto, con profili innegabilmente creativi. E’ proprio alla luce di tale considerazione che va ribadita la portata eminentemente astratta e teorica dell’eccesso di potere, certamente non configurabile quando, come nella specie, il giudice si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la predetta regola attraverso la ricostruzione della voluntas legis, anche se la stessa non sia stata desunta dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dal loro coordinamento sistematico, in quanto tale operazione non può tradursi nella violazione dei limiti esterni della giurisdizione, ma può dar luogo, al più, ad un error in iudicando (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068).
12. Nell’escludere la contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento con cui il Giudice canadese ha riconosciuto a [ C.A.M. ] ed [ A. ], già dichiarati figli di [ L.M. ], il medesimo status nei confronti di [ R.R. ], con il quale i minori non hanno alcun legame biologico, l’ordinanza impugnata ha richiamato una recente pronuncia di legittimità, che identifica la predetta nozione con il “complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati ad un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria” (cfr. Cass., Sez. I, 30/09/2016, n. 19599). Premesso che, a differenza di quanto previsto dalla legge canadese, che ammette il ricorso alla maternità surrogata, purchè a titolo gratuito, la disciplina della procreazione medicalmente assistita vigente nel nostro ordinamento non lo consente, la Corte di merito ha ritenuto che il divieto posto dalla L. n. 40 del 2004 non precluda il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero con cui è stato accertato il rapporto di filiazione tra i minori generati attraverso la suddetta pratica ed il genitore intenzionale, trattandosi di disposizioni che non costituiscono espressione di principi vincolanti per il legislatore ordinario, ma dell’ampio margine di apprezzamento di cui quest’ultimo gode nella regolamentazione di una materia in ordine alla quale non vi è consenso a livello Europeo, per i delicati interrogativi di ordine etico che la stessa suscita. Precisato inoltre che il nostro ordinamento non prevede un modello di genitorialità fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato, ha conferito rilievo da un lato all’interesse superiore dei minori, identificato nel diritto a conservare lo status di figli loro riconosciuto dall’atto validamente formato all’estero, dall’altro alla consapevole decisione di accudirli ed allevarli, nell’ambito del progetto familiare avviato con l’altro genitore.
12.1. Il richiamo ai principi fondamentali che caratterizzano l’ordinamento interno nell’attuale momento storico, quale parametro di riferimento della valutazione prescritta ai fini del riconoscimento, costituisce espressione dell’orientamento da tempo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità, che, abbandonando la precedente concezione difensiva dell’ordine pubblico quale limite all’ingresso nel nostro ordinamento di norme ed atti provenienti da altri sistemi e ritenuti contrastanti con i valori sottesi alla vigente normativa interna, ha attribuito alla predetta nozione una diversa funzione, eminentemente promozionale, che circoscrive l’ambito del giudizio di compatibilità ai valori tutelati dalle norme fondamentali, ponendo in risalto il collegamento degli stessi con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale, dei quali mira a favorire la diffusione, congiuntamente all’armonizzazione tra gli ordinamenti.
In passato, la giurisprudenza di legittimità si era infatti uniformata ad una nozione di ordine pubblico fortemente orientata alla salvaguardia dell’identità e della coerenza interna dell’ordinamento, nonchè alla difesa delle concezioni morali e politiche che ne costituivano il fondamento, definendolo come il complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico e dei principi inderogabili immanenti ai più importanti istituti giuridici (cfr. Cass., Sez. I, 12/03/1984, n. 1680; 14/04/1980, n. 2414; 5/12/1969, n. 3881): pur distinguendo concettualmente tra ordine pubblico internazionale, riferibile ai soli rapporti caratterizzati da profili transnazionali e preclusivo del richiamo alla legge straniera applicabile in base ai criteri stabiliti dalle norme di diritto internazionale privato, ed ordine pubblico interno, attinente invece alla libera esplicazione dell’autonomia privata nei rapporti tra soggetti appartenenti al medesimo ordinamento (cfr. Cass., Sez. lav., 25/05/1985, n. 3209; Cass., Sez. I, 3/05/1984, n. 2682; Cass., Sez. 2, 19/02/1970, n. 389), il predetto indirizzo faceva sostanzialmente coincidere le due nozioni, ravvisando nella prima null’altro che un aspetto della seconda, fino ad affermare esplicitamente che essa non doveva essere intesa in senso astratto ed universale, ma andava riferita all’ordinamento giuridico nazionale ed ai suoi più elevati interessi, dei quali era volta ad assicurare il rispetto (cfr. Cass., Sez. I, 9/01/1976, n. 44; 14/04/1972, n. 1266; 24/04/1962, n. 818). Tale orientamento, estendendo il parametro di riferimento della valutazione prescritta ai fini della delibazione ai principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano, finiva tuttavia per lasciare ben poco spazio all’efficacia dei provvedimenti stranieri, la cui attuazione nel territorio dello Stato risultava in definitiva subordinata alla condizione che la disciplina dagli stessi applicata non differisse, almeno nelle linee essenziali, da quella dettata dall’ordinamento interno.
L’apertura di quest’ultimo al diritto sovranazionale ed il recepimento dei principi introdotti dalle convenzioni internazionali cui il nostro Paese ha prestato adesione, oltre ad influire sull’interpretazione della normativa interna, ha peraltro determinato una modificazione del concetto di ordine pubblico internazionale, caratterizzato, nelle formulazioni più recenti, da un sempre più marcato riferimento ai valori giuridici condivisi dalla comunità internazionale ed alla tutela dei diritti fondamentali, al quale fa inevitabilmente riscontro un affievolimento dell’attenzione verso quei profili della disciplina interna che, pur previsti da norme imperative, non rispondono ai predetti canoni. Emblematica di tale evoluzione è l’affermazione di ordine generale secondo cui i principi di ordine pubblico vanno individuati in quelli fondamentali della nostra Costituzione o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, o che informano l’intero ordinamento in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale (cfr. Cass., Sez. lav., 26/05/2008, n. 13547; 23/02/2006, n. 4040; 26/11/2004, n. 22332). Significativa è anche la precisazione, conforme alle critiche mosse al precedente orientamento, che l’ordine pubblico internazionale non è identificabile con quello interno, perchè altrimenti le norme di conflitto sarebbero operanti solo ove conducessero all’applicazione di norme materiali aventi contenuto simile a quelle italiane, con la conseguenza che resterebbe cancellata la diversità tra sistemi giuridici e diverrebbero sostanzialmente inutili le stesse regole del diritto internazionale privato (cfr. Cass., Sez. lav., 4/05/2007, n. 10215). La conclusione che se ne trae è che non vi è coincidenza tra le norme inderogabili dell’ordinamento italiano ed i principi di ordine pubblico rilevanti come limitazione all’applicazione di leggi straniere, dal momento che questi ultimi non vanno enucleati soltanto dal quadro normativo interno, ma devono essere ricavati da esigenze (comuni ai diversi ordinamenti statali) di garanzia e tutela dei diritti fondamentali, o da valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale (cfr. Cass., Sez. III, 22/08/2013, n. 19405; Cass., Sez. lav., 19/ 07/2007, n. 16017).
In tale mutato contesto s’inserisce anche il precedente richiamato dalla ordinanza impugnata, avente ad oggetto il riconoscimento dell’atto straniero di nascita di un minore generato da due donne, una delle quali aveva fornito l’ovulo necessario al concepimento mediante procreazione medicalmente assistita, mentre l’altra lo aveva partorito: tale pronuncia, nel ribadire la nozione di ordine pubblico dianzi riportata, si pone in rapporto di continuità con il nuovo orientamento, affermando a chiare lettere che «il legame, pur sempre necessario con l’ordinamento nazionale, è da intendersi limitato ai principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione, ma anche, laddove compatibili con essa, dai trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo»; essa precisa che «un contrasto con l’ordine pubblico non è ravvisabile per il solo fatto che la norma straniera sia difforme contenutisticamente da una o più disposizioni del diritto nazionale, perché il parametro di riferimento non è costituito (o non è costituito più) dalle norme con le quali il legislatore ordinario eserciti (o abbia esercitato) la propria discrezionalità in una determinata materia, ma esclusivamente dai principi fondamentali vincolanti per lo stesso legislatore ordinario», e conclude pertanto che «il giudice, al quale è affidato il compito di verificare preventivamente la compatibilità della norma straniera con tali principi, dovrà negare il contrasto con l’ordine pubblico in presenza di una mera incompatibilità (temporanea) della norma straniera con la legislazione nazionale vigente, quando questa rappresenti una delle possibili modalità di espressione della discrezionalità del legislatore ordinario in un determinato momento storico» (cfr. Cass., Sez. I, 30/09/2016, n. 19599, cit.). Nella medesima ottica, una successiva pronuncia, riguardante la rettifica dell’atto di nascita di un minore generato da due donne mediante il ricorso alla fecondazione assistita, ha affermato che la contrarietà dell’atto estero all’ordine pubblico internazionale dev’essere valutata alla stregua non solo dei principi della nostra Costituzione, ma anche, tra l’altro, di quelli consacrati nella Dichiarazione ONU dei Diritti dell’Uomo, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nei Trattati Fondativi e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché, con particolare riferimento alla posizione del minore e al suo interesse, tenendo conto della Dichiarazione ONU dei diritti del Fanciullo, della Convenzione ONU dei Diritti del Fanciullo e della Convenzione Europea di Strasburgo sui diritti processuali del minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878).
Il risalto in tal modo conferito ai principi consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ai quali viene attribuita una portata complementare a quella dei principi sanciti dalla nostra Costituzione, non trova smentita nella recente sentenza emessa da questa Corte a Sezioni Unite e richiamata nell’ordinanza di rimessione (cfr. Cass., Sez. Un., 5/07/2017, n. 16601), la quale, nell’escludere la sussistenza di un’incompatibilità ontologica tra l’istituto dei danni punitivi e l’ordinamento italiano, non ha affatto inteso rimettere in discussione il predetto orientamento, ma si è limitata a richiamare l’attenzione sui principi fondanti del nostro ordinamento, con i quali il giudice investito della domanda di riconoscimento è pur sempre tenuto a confrontarsi. A fronte degli effetti sovente innovativi della mediazione esercitata dalle carte sovranazionali ai fini dell’ingresso di istituti provenienti da altri ordinamenti, essa ha ribadito l’essenzialità del controllo sui principi essenziali della lex fori in materie presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della repubblica, affermando che «Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancor vivo: privato di venature egoistiche, che davano loro “fiato corto”, ma reso più complesso dall’intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca». Ha quindi chiarito che la sentenza straniera applicativa di un istituto non regolato dall’ordinamento nazionale, quand’anche non ostacolata dalla disciplina europea, deve misurarsi «con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale»; nel contempo, ha precisato che la valutazione di compatibilità con l’ordine pubblico non può essere limitata alla ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri ed istituti italiani, ma deve estendersi alla verifica dell’eventuale contrasto tra l’istituto di cui si chiede il riconoscimento e l’intreccio di valori e norme rilevanti ai fini della delibazione.
12.2. Viene in tal modo evidenziato un profilo importante della valutazione compatibilità, rimasto forse in ombra nelle enunciazioni di principio delle precedenti decisioni, ma dalle stesse tenuto ben presente nell’esame delle fattispecie concrete, ovverosia la rilevanza della normativa ordinaria, quale strumento di attuazione dei valori consacrati nella Costituzione, e la conseguente necessità di tener conto, nell’individuazione dei principi di ordine pubblico, del modo in cui i predetti valori si sono concretamente incarnati nella disciplina dei singoli istituti. Significativo, in proposito, risulta l’ampio excursus dedicato dalla prima delle sentenze richiamate alle norme di legge ordinaria che conferiscono rilievo all’interesse superiore del minore ed a quelle che disciplinano l’acquisto dello status di figlio e la procreazione medicalmente assistita. Così come va sottolineata l’attenzione costantemente prestata, in tema di riconoscimento dell’efficacia dei provvedimenti stranieri, all’opera di sintesi e ricomposizione attraverso la quale la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità sono pervenute all’estrapolazione dei principi fondamentali, sulla base non solo dei solenni enunciati della Costituzione e delle Convenzioni e Dichiarazioni internazionali, ma anche dell’interpretazione della legge ordinaria, che dà forma a quel diritto vivente dalla cui valutazione non può prescindersi nella ricostruzione dell’ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico. Caratteristica essenziale della nozione di ordine pubblico è infatti la relatività e mutevolezza nel tempo del suo contenuto, soggetto a modificazioni in dipendenza dell’evoluzione dei rapporti politici, economici e sociali, e quindi inevitabilmente destinato ad essere influenzato dalla disciplina ordinaria degl’istituti giuridici e dalla sua interpretazione, che di quella evoluzione costituiscono espressione, e che contribuiscono a loro volta a tenere vivi e ad arricchire di significati i principi fondamentali dell’ordinamento.
Il segnalato processo di armonizzazione tra gli ordinamenti, di cui costituisce espressione il riferimento ai valori giuridici condivisi dalla comunità internazionale, non esige d’altronde la realizzazione di un’assoluta uniformità nella disciplina delle singole materie, spettando alla discrezionalità del legislatore l’individuazione degli strumenti più opportuni per dare attuazione a quei valori, compatibilmente con i principi ispiratori del diritto interno, senza che ciò consenta di declassare automaticamente a mera normativa di dettaglio le disposizioni a tal fine adottate. In tal senso depongono anche gli artt. 64 e ss. della legge n. 218 del 1995, i quali, nel disciplinare l’ingresso nel nostro ordinamento di atti e provvedimenti formati all’estero, non prevedono affatto il recepimento degl’istituti ivi applicati, così come sono disciplinati dagli ordinamenti di provenienza, ma si limitano a consentire la produzione dei relativi effetti, nella misura in cui gli stessi risultino compatibili con la delineata nozione di ordine pubblico.
12.3. La seconda questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite può quindi essere risolta con l’enunciazione del seguente principio di diritto:
«In tema di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, richiesta dagli artt. 64 e ss. della legge n. 218 del 1995, dev’essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione delle nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico».
13. Tale profilo non ha costituito oggetto di adeguato apprezzamento da parte dell’ordinanza impugnata, la quale si è limitata a far proprie le enunciazioni di principio della sentenza n. 19599 del 2016, ritenendole suscettibili di automatica trasposizione alla fattispecie da essa esaminata, senza tener conto delle profonde differenze intercorrenti tra la stessa e quella presa in considerazione dal precedente di legittimità, ed omettendo conseguentemente di valutare il diverso modo di atteggiarsi dei principi richiamati, alla stregua della disciplina ordinaria specificamente applicabile.
La domanda proposta nel presente giudizio ha infatti ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento emesso all’estero, che ha attribuito ai minori lo status di figli di uno dei due istanti, con il quale essi non hanno alcun rapporto biologico, essendo stati generati mediante gameti forniti dall’altro, già dichiarato loro genitore con un precedente provvedimento regolarmente trascritto in Italia, con la cooperazione di due donne, una delle quali ha donato gli ovociti, mentre l’altra, in virtù di un accordo validamente stipulato ai sensi della legge straniera, ha portato avanti la gravidanza, rinunciando preventivamente a qualsiasi diritto nei confronti dei minori.
Il giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza richiamata aveva invece ad oggetto la trascrizione nei registri dello stato civile italiano di un atto di nascita formato all’estero e riguardante un minore generato da due donne, a ciascuna delle quali egli risultava legato da un rapporto biologico, in quanto una di esse lo aveva partorito, mentre l’altra aveva fornito gli ovuli necessari per il concepimento mediante procreazione medicalmente assistita.
Le due fattispecie hanno in comune il fatto che il concepimento e la nascita del minore hanno avuto luogo in attuazione di un progetto genitoriale maturato nell’ambito di una coppia omosessuale, con l’apporto genetico di uno solo dei partner, differenziandosi invece per il numero di terzi estranei (due, anziché uno) che hanno cooperato al predetto scopo, e soprattutto per il contributo fornito da uno di essi, che risulta però determinante ai fini della individuazione della disciplina applicabile.
Come rilevato da questa Corte, la tecnica fecondativa esaminata dalla precedente sentenza è assimilabile per un verso alla fecondazione eterologa, alla quale è accomunata dalla necessità dell’apporto genetico di un terzo donatore del gamete per la realizzazione del progetto genitoriale proprio di una coppia che, essendo dello stesso sesso, si trovi in una situazione analoga a quella di una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilità o infertilità assoluta e irreversibile, per altro verso alla fecondazione omologa, con la quale condivide il contributo genetico fornito da un partner all’altro nell’ambito della stessa coppia. La fattispecie non è pertanto riconducibile alla surrogazione di maternità, in quanto priva della caratteristica essenziale di tale figura, costituita dal fatto che una donna presta il proprio corpo (ed eventualmente gli ovuli necessari al concepimento) al solo fine di aiutare un’altra persona o una coppia sterile a realizzare il proprio desiderio di avere un figlio, assumendo l’obbligo di provvedere alla gestazione ed al parto per conto della stessa, ed impegnandosi a consegnarle il nascituro. E’ per tale motivo che la predetta sentenza ha potuto agevolmente escludere l’applicabilità dell’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, che vieta «la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità», comminando una sanzione penale per «chiunque, in qualsiasi forma», la «realizza, organizza o pubblicizza»; nel contempo, essa ha evidenziato la minore portata del divieto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, imposto dall’art. 5 alle coppie dello stesso sesso, osservando che, ai sensi del comma secondo dell’art. 12, lo stesso è presidiato esclusivamente da una sanzione amministrativa; ed ha dato atto della diversità della fattispecie anche dalla fecondazione eterologa, dalla quale si distingue per il fatto che l’ovulo è fornito dal partner della gestante, ritenendo quindi non pertinente il richiamo all’art. 9, comma terzo, della medesima legge, che, in caso di violazione del divieto di cui all’art. 4, comma terzo, preclude al donatore di gameti l’acquisizione di qualsiasi relazione giuridica parentale con il nato e la possibilità di far valere nei confronti dello stesso alcun diritto o assumere alcun obbligo.
La fattispecie che costituisce oggetto del presente giudizio è invece annoverabile a pieno titolo tra le ipotesi di maternità surrogata, caratterizzandosi proprio per l’accordo intervenuto con una donna estranea alla coppia genitoriale, che ha provveduto alla gestazione ed al parto, rinunciando tuttavia ad ogni diritto nei confronti dei nati: essa non è pertanto assimilabile in alcun modo a quella esaminata dal precedente citato, e neppure a quella che ha costituito oggetto della successiva sentenza n. 14878 del 2017, riguardante la rettifica dell’atto di nascita di un minore, formato all’estero e già trascritto in Italia, a seguito della modifica apportata dall’ufficiale di stato civile straniero, che aveva indicato il nato come figlio non solo della donna che lo aveva partorito, ma anche di un’altra donna, con essa coniugata, con cui il minore non aveva alcun legame biologico; nell’escludere la contrarietà della rettifica all’ordine pubblico, quest’ultima sentenza ha infatti equiparato la fattispecie alla fecondazione eterologa, ricordando da un lato che il divieto del ricorso a tale pratica è venuto parzialmente meno per effetto della sentenza n. 162 del 2014, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo la L. n. 40 del 2004, art. 4, comma 3, e richiamando dall’altro i principi enunciati dalla sentenza n. 19599 del 2016. Tale ragionamento non è tuttavia suscettibile di estensione al caso in esame, il cui unico punto di contatto con la fecondazione eterologa è rappresentato dall’estraneità alla coppia di uno dei soggetti che hanno fornito i gameti necessari per il concepimento, dal momento che la gestazione ed il parto non hanno avuto luogo nell’ambito della coppia, ma con la cooperazione di un quarto soggetto.
13.1. In quanto manifestatosi nelle forme tipiche della surrogazione di maternità, l’intervento di quest’ultimo rende la vicenda assimilabile a quella presa in considerazione da una più risalente sentenza, con cui questa Corte, nel pronunciare in ordine allo stato di adottabilità di un minore nato all’estero mediante il ricorso alla predetta pratica, ha ritenuto contrastante con l’ordine pubblico il riconoscimento dell’efficacia dell’atto di nascita formato all’estero, in cui erano indicati come genitori due coniugi italiani, i quali si erano avvalsi della maternità surrogata senza fornire alcun apporto biologico (cfr. Cass., Sez, I, 11/11/2014, n. 24001). Nel ribadire che l’ordine pubblico internazionale è «il limite che l’ordinamento nazionale pone all’ingresso di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna», e dunque «non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, purché fondamentali e (perciò) irrinunciabili», tale sentenza ha ritenuto pacifica l’applicabilità del divieto della surrogazione di maternità risultante dall’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, osservando che tale disposizione è certamente di ordine pubblico, come suggerisce già la previsione della sanzione penale, posta di regola a presidio di beni fondamentali; ha precisato che «vengono qui in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto, perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato»; ed ha escluso che tale divieto si ponga in contrasto con l’interesse superiore del minore, tutelato dall’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, ritenendolo espressione di una scelta non irragionevole, compiuta dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità, e volta a far sì «che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando […] all’istituto dell’adozione, realizzata con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale, piuttosto che al semplice accordo delle parti, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico».
Rispetto alla fattispecie presa in considerazione dalla predetta sentenza, quella esaminata dall’ordinanza impugnata si distingue soltanto per il fatto che la surrogazione di maternità non si è realizzata mediante gameti interamente forniti da soggetti estranei alla coppia, ma con il contributo genetico di uno dei componenti della stessa; nella specie, tuttavia, l’assenza di un legame genetico tra i minori e l’altro partner è stata ritenuta inidonea ad impedire il riconoscimento del rapporto genitoriale accertato con il provvedimento del Giudice canadese, in virtù dell’affermazione che il modello di genitorialità cui s’ispira il nostro ordinamento non è fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore ed il nato. Per giungere a tale conclusione, la Corte di merito ha escluso innanzitutto la possibilità di considerare l’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004 come una norma di ordine pubblico, negando che la disciplina della procreazione medicalmente assistita costituisca espressione di principi fondamentali e costituzionalmente obbligati, non modificabili ad opera del legislatore ordinario, e ravvisandovi piuttosto «il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela dei differenti interessi fondamentali che vengono in considerazione nella materia»; ha conseguentemente ritenuto che la predetta disciplina non possa prevalere sull’interesse superiore dei minori, identificato in quello alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito allo estero, che risulterebbe pregiudicato dall’impossibilità di far valere i relativi diritti nei confronti del genitore intenzionale, nonché dalla mancata assunzione dei corrispondenti obblighi da parte di quest’ultimo.
13.2. Nella parte in cui esclude che il divieto della surrogazione di maternità costituisca un principio di ordine pubblico, il ragionamento seguito dalla Corte territoriale si pone in evidente contrasto con l’orientamento precedentemente riportato della giurisprudenza di legittimità, che assegna a tale disposizione una funzione essenziale di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, trascurando altresì le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza costituzionale, che vi ravvisa il risultato di un bilanciamento d’interessi attuato dallo stesso legislatore.
Com’è noto, infatti, la Corte costituzionale ha da tempo riconosciuto nella legge n. 40 del 2004 una legge «costituzionalmente necessaria», osservando che essa rappresenta la prima legislazione organica relativa ad un delicato settore che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un livello minimo di tutela legislativa (cfr. Corte Cost., sent. n. 45 del 2005; v. anche sent. n. 151 del 2009); pur escludendo che detta legge abbia un contenuto costituzionalmente vincolato, ha affermato che le questioni da essa affrontate toccano temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio delle contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore (cfr. Corte Cost., sent. n. 347 del 1998). Premesso che “la determinazione di avere o meno un figlio, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali”, e precisato che “il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerato dall’ordinamento giuridico, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione”, la Corte da un lato ha riconosciuto che “il dato della provenienza genetica non costituisce un requisito imprescindibile della famiglia”, dall’altro ha tenuto però a chiarire che “la libertà e la volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori e di formare una famiglia, nel senso sopra precisato, di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti” (cfr. Corte Cost., sent. n. 162 del 2014). Tra questi limiti va indubbiamente annoverato il divieto della surrogazione di maternità, al quale dev’essere riconosciuta una rilevanza del tutto particolare, tenuto conto della speciale considerazione di cui la predetta pratica costituisce oggetto nell’ambito della L. n. 40: quest’ultima, infatti, nel consentire il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ivi comprese (a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014) quelle di tipo eterologo, nei casi di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, nonchè (per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 2015) nel caso di coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui alla L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 6, comma 1, lett. b), distingue nettamente tra le predette tecniche e la surrogazione di maternità, subordinando l’utilizzazione delle prime al concorso di determinate condizioni e vietando in ogni caso il ricorso alla seconda, nonchè prevedendo sanzioni di diversa gravità (rispettivamente amministrative e penali) per la violazione delle relative disposizioni. Tale diversità di regime giuridico è stata evidenziata anche dal Giudice delle leggi, che nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge in esame, nella parte in cui vietava il ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo anche nel caso in cui fosse stata diagnosticata una patologia tale da causare sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, ha tenuto a precisare che tale pronuncia non investiva in alcun modo il divieto posto dall’art. 12, comma 6 (cfr. sent. n. 162 del 2014).
Il senso di detto limite è stato chiarito dalla stessa Corte costituzionale, la quale, nel dichiarare infondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, Cost. ed all’art. 8 della CEDU, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minore per difetto di veridicità possa essere accolta solo quando sia rispondente all’interesse dello stesso, ha posto nuovamente in risalto il ruolo svolto dal divieto di cui all’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004 ai fini della regolamentazione degl’interessi coinvolti nelle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Premesso che, nonostante l’accentuato favor dimostrato dall’ordinamento per la conformità dello status di figlio alla realtà della procreazione, l’accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo non costituisce un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento con gli altri interessi coinvolti, in particolare con l’interesse del minore alla conservazione dello status filiationis, e dato atto che in caso di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita il legislatore ha attribuito la prevalenza proprio a quest’ultimo interesse, dichiarando inammissibile il disconoscimento di paternità, la Corte ha rilevato che, a fianco dei casi in cui il bilanciamento è demandato al giudice, «vi sono casi nei quali la valutazione comparativa tra gli interessi è fatta direttamente dalla legge, come accade con il divieto di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa», mentre «in altri il legislatore impone, allo opposto, l’imprescindibile presa d’atto della verità con divieti come quello della maternità surrogata», confermando inoltre che in quest’ultimo caso l’interesse alla verità riveste natura anche pubblica, in quanto correlato ad una pratica che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, e per tale motivo è vietata dalla legge (cfr. Corte cost., sent. n. 272 del 2017).
Non può pertanto condividersi il ragionamento seguito dalla Corte di merito, nella parte in cui, pur riconoscendo nella disposizione di cui all’art. 12, sesto comma, della legge n. 40 del 2004 il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela dei differenti interessi fondamentali che vengono in considerazione nella materia, ha preteso di sostituire la propria valutazione a quella compiuta in via generale dal legislatore, attribuendo la prevalenza all’interesse dei minori alla conservazione dello status filiationis, nonostante la pacifica insussistenza di un rapporto biologico con il genitore intenzionale. Non risulta pertinente, in proposito, il richiamo all’affermazione, contenuta nella citata sentenza n. 19599 del 2016, secondo cui le conseguenze della violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004, imputabili agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia, non possono ricadere su chi è nato, il quale ha il diritto fondamentale, che dev’essere tutelato, alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero: tale interesse, come si è visto, è destinato ad affievolirsi in caso di ricorso alla surrogazione di maternità, il cui divieto, nell’ottica fatta propria dal Giudice delle leggi, viene a configurarsi come l’anello necessario di congiunzione tra la disciplina della procreazione medicalmente assistita e quella generale della filiazione, segnando il limite oltre il quale cessa di agire il principio di autoresponsabilità fondato sul consenso prestato alla predetta pratica, e torna ad operare il favor veritatis, che giustifica la prevalenza dell’identità genetica e biologica. Tale prevalenza, d’altronde, non si traduce necessariamente nella cancellazione dell’interesse del minore, la cui tutela, come precisato dalla Corte costituzionale, impone di prescindere dalla rigida alternativa vero o falso, tenendo conto di variabili più complesse, tra le quali assume particolare rilievo, nella specie, la presenza di strumenti legali idonei a consentire la costituzione di un legame giuridico con il genitore intenzionale, che, pur diverso da quello previsto dall’art. 8 della legge n. 40 del 2004, garantisca al minore una adeguata tutela (cfr. Corte cost., sent. n. 272 del 2017); in proposito, va richiamato soprattutto l’orientamento di questa Corte in tema di adozione in casi particolari, che, proprio facendo leva sull’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura, individua nell’art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983 una clausola di chiusura del sistema, volta a consentire il ricorso a tale strumento tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità della relazione affettiva ed educativa, all’unica condizione della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo», da intendersi non già come impossibilità di fatto, derivante da una situazione di abbandono del minore, bensì come impossibilità di diritto di procedere all’affidamento preadottivo (cfr. Cass., Sez. I, 22/06/2016, n. 12962).
13.3. Tali conclusioni non si pongono affatto in contrasto con i principi sanciti dalle convenzioni internazionali in materia di protezione dei diritti dell’infanzia, cui lo Stato italiano ha prestato adesione, ratificandole e rendendole esecutive nell’ordinamento interno, né con le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza formatasi al riguardo, e richiamata nell’ordinanza impugnata.
E’ pur vero, infatti, che le predette fonti assicurano la più ampia tutela al minore, riconoscendo allo stesso il diritto alla protezione ed alle cure necessarie per il suo benessere, impegnando gli Stati a preservarne l’identità ed a rispettarne le relazioni familiari, ed individuando, quale criterio preminente da adottare in tutte le decisioni che lo riguardino, il suo interesse superiore, nonché promuovendo la concessione delle garanzie procedurali necessarie ad agevolare l’esercizio dei suoi diritti (cfr. in particolare gli artt. 3, 8 e 9 della Convenzione di New York cit.; gli artt. 1 e 6 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con legge 20 marzo 2003, n. 77; gli artt. 8, 9, 10, 22, 23, 28 e 33 della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all’Aia il 19 ottobre 1996 e ratificata con legge 18 giugno 2015, n. 101; l’art. 24 della Carta di Nizza). Ciò non significa tuttavia che la tutela del predetto interesse non possa costituire oggetto di contemperamento con quella di altri valori considerati essenziali ed irrinunciabili dall’ordinamento, la cui considerazione può ben incidere sull’individuazione delle modalità più opportune da adottare per la sua realizzazione, soprattutto in materie sensibili come quella in esame, che interrogano profondamente la coscienza individuale e collettiva, ponendo questioni delicate e complesse, suscettibili di soluzioni differenziate. D’altronde, proprio in tema di riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione tra il minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore intenzionale, la Corte EDU ha da tempo affermato che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento sia ai fini della decisione di autorizzare o meno la predetta pratica che con riguardo alla determinazione
degli effetti da ricollegarvi sul piano giuridico, dando atto che è in gioco un aspetto essenziale dell’identità degli individui, ma rilevando che in ordine a tali questioni non vi è consenso a livello internazionale, e ritenendo comunque legittime le finalità di tutela del minore e della gestante, perseguite attraverso l’imposizione del divieto in questione. Pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, essa ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie, ravvisando soltanto una violazione del diritto al rispetto della vita privata, in relazione alla lesione dell’identità personale eventualmente derivante dalla coincidenza di uno dei genitori d’intenzione con il genitore biologico del minore (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia). Le predette violazioni non sono pertanto configurabili nel caso in cui, come nella specie, non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale né l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status finiliationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore. Nel caso esaminato da questa Corte nella sentenza n. 24001 del 2014, e riproposto dinanzi ad essa, la Corte EDU ha d’altronde escluso entrambe le violazioni, negando per un verso la configurabilità di una vita familiare, in considerazione dell’assenza di qualsiasi legame genetico o biologico tra il minore ed entrambi i genitori e della breve durata della relazione con gli stessi, e ritenendo per altro verso legittima l’ingerenza nella vita privata, concretizzatasi nell’interruzione dei rapporti con i genitori e nella dichiarazione dello stato di adottabilità, alla luce dell’illegalità della condotta tenuta dai genitori, che avevano condotto il minore in Italia senza rispettare la disciplina dell’adozione, e della conseguente precarietà della relazione in tal modo instauratasi (cfr. Corte EDU, sent. 24/01/2017, Paradiso e Campanelli c. Italia). Anche nella giurisprudenza della Corte EDU, la sussistenza di un legame genetico o biologico con il minore rappresenta dunque il limite oltre il quale è rimessa alla discrezionalità del legislatore statale l’individuazione degli strumenti più adeguati per conferire rilievo giuridico al rapporto genitoriale, compatibilmente con gli altri interessi coinvolti nella vicenda, e fermo restando l’obbligo di assicurare una tutela comparabile a quella ordinariamente ricollegabile allo status filiationis: esigenza, questa, che nell’ordinamento interno può ritenersi soddisfatta anche dal già menzionato istituto dell’adozione in casi particolari, per effetto delle disposizioni della legge n. 184 del 1983, che parificano la posizione del figlio adottivo allo stato di figlio nato dal matrimonio.
13.4. L’ultima questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite può dunque essere risolta mediante l’enunciazione del seguente principio di diritto:
«Il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dall’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983».
14. In applicazione dei predetti principi, va pertanto accolto anche il quinto motivo del ricorso proposto dal Ministero e dal Sindaco, con la conseguente cassazione dell’ordinanza impugnata, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., con il rigetto della domanda di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero.
L’incertezza delle questioni trattate, inerenti ad una materia che ha costituito oggetto di un dibattito dottrinale e giurisprudenziale assai vivace e tuttora in evoluzione, giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi del giudizio.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Trento; rigetta il primo motivo del ricorso proposto dal Ministero dell’interno e dal Sindaco di Trento; accoglie il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo; cassa l’ordinanza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa integralmente le spese processuali.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi di [ R.M. ] [ R.R. ] [ C.M. ] [ A.M. ] riportati nella sentenza.
Così deciso in Roma il 6/11/2018
Allegati:
SS.UU, 08 maggio 2019, n. 12193, in tema di maternità surrogata