In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20678
Civile Ord. Sez. U Num. 20678 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 17/07/2023
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25395/2022 R.G. proposto da:
A.T.I. COSTRUZIONI NICODEMO N. E FIGLI S.N.C. E CO.GE.NI. DI NICODEMO VITO & NICOLA S.N.C., COSTRUZIONI NICODEMO N. & FIGLI – S.N.C., “CO.GE.NI” DI NICODEMO VITO & NICOLA – S.N.C., rappresentati e difesi dall’avvocato FRASSO ROMOLO, che li rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
COMUNE DI SAN CIPRIANO PICENTINO, rappresentato e difeso dagli avvocati LENTINI LORENZO, FERRENTINO FELICIANA
-controricorrente-
per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio pendente davanti al Tribunale ordinario di Salerno, iscritto al RG N. 8924/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/05/2023 dal Consigliere Antonio Scarpa;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Mauro Vitiello, che ha chiesto di dichiarare la giurisdizione del giudice amministrativo;
letta la memoria ex artt. 380-ter e 380-bis.1. c.p.c. depositata dalle ricorrenti.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con citazione del 23 giugno 2020, le società Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., nonché l’A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., hanno convenuto il Comune di San Cipriano Picentino dinanzi al Tribunale di Salerno, domandando in via principale di dichiarare risolta per inadempimento del Comune di San Cipriano Picentino la convenzione n. 651/2002 del 30 ottobre 2002, stipulata a norma dell’art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, avente ad oggetto la realizzazione di 74 alloggi di edilizia residenziale pubblica in aree localizzate a norma dell’art. 51 della medesima legge citata, con impegno dell’A.T.I. di procedere per conto del Comune agli espropri per l‘acquisizione delle aree necessarie e la cessione del diritto di superficie al medesimo soggetto attuatore del programma.
Le attrici, nel domandare la risoluzione della indicata convenzione e di ogni altro rapporto contrattuale instaurato con il Comune, chiedevano altresì di disapplicare la delibera comunale n. 6 del 25 febbraio 2008, che aveva “travolto gli atti amministrativi inerenti la realizzazione del programmato intervento”. In citazione si spiegava che il Comune di San Cipriano Picentino si era determinato con tale delibera a revocare la convenzione del 2002 e la localizzazione dell’area destinata alla realizzazione del programma edilizio alla luce delle contestazioni della Regione Campania sulla possibile decadenza dal contributo di finanziamento correlata alla modifica della ragione sociale del soggetto attuatore, determinatasi con la costituzione dell’A.T.I. Costruzioni Nicodemo Nicola e figli S.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito & Nicola S.n.c. Società Consortile a r.l. e la corrispondente “voltura della convenzione” approvata il 5 maggio 2005. Era poi tuttavia intervenuta la “nota chiarificatrice della Regione Campania” del 22 maggio 2008, con la quale veniva specificato che permanesse il finanziamento regionale in capo alla A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & figli s.n.c. – CO.GE.NI. s.n.c., purché la stessa restasse titolare dell’area ad essa assegnata dal Comune di S. Cipriano Picentino. Le attrici chiedevano dunque, risolta la convenzione e disapplicata la delibera comunale n. 6 del 25 febbraio 2008, di accertare il loro diritto a conseguire la somma di € 1.096.041,05, oltre accessori, pari al prezzo d’acquisto dell’area inizialmente destinata all’attuazione del programma di edilizia residenziale pubblica, essendo venuta meno la causa del pagamento. Sempre in via principale, le attrici domandavano il risarcimento dei danni e di dichiarare la “invalidità della convenzione e dell’intero rapporto contrattuale”.
Facevano seguito domande in via subordinata volte alla restituzione dei terreni, al pagamento dell’indennizzo per la diminuzione del valore degli immobili dipendente dal mutamento di destinazione degli stessi, al trasferimento in proprietà degli stessi, all’accertamento del legittimo affidamento insorto in capo alle attrici; in via ulteriormente subordinata si agiva per la ripetizione dell’indebito oggettivo “e/o” l’arricchimento indebito conseguito dal Comune.
2. In sede di costituzione davanti all’adito Tribunale di Salerno, il Comune di San Cipriano Picentino ha evidenziato che con le delibere comunali nn. 5 e 6 del 2008 erano state revocate, rispettivamente, la variante al P.U.C. per la localizzazione del programma costruttivo oggetto di causa, ai sensi dell’art. 51 legge n. 865 del 1971, disposta nel 2001 per la realizzazione dei 74 alloggi di E.R.P., e poi la delibera n. 45/2001, dichiarando l’inefficacia della convenzione rep. 651/2002. Più di recente, con delibera di Giunta del 9 febbraio 2016 è poi stato approvato un nuovo Piano Strutturale e Programmatico del PUC, in forza del quale l’area controversa non riveste più natura edificabile. La difesa del Comune convenuto ha anche evidenziato che l’ATI concessionaria aveva impugnato davanti al T.A.R. di Salerno sia le delibere n. 5/2008 e n. 6/2008 di revoca della localizzazione e di inefficacia della convenzione del 2002, sia la delibera consiliare n. 2/2008 di adozione del PUC, giudizi andati perenti dopo il diniego della sospensiva, dal che discenderebbe la definitiva inefficacia ed invalidità della convenzione rep 651/2002. Anche l’approvazione del PUC recante la diversa destinazione urbanistica dell’area era stata impugnata con esito negativo davanti al T.A.R. Salerno. Il Comune di San Cipriano Picentino ha pertanto eccepito il difetto di giurisdizione dell’adito Tribunale, trattandosi di controversia riservata alla cognizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133 comma 1 lett. a) n. 2 c.p.a.
3. Con ordinanza del 16 gennaio 2022 il Tribunale di Salerno, ritenuta l’eccezione di difetto di giurisdizione “prima facie, non destituita di fondamento”, ha rinviato la causa per le conclusioni all’udienza del 9 novembre 2022.
4. Le società Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., nonché l’A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c. hanno proposto con atto notificato il 27 ottobre 2022 regolamento di giurisdizione, deducendo che la causa ha un contenuto meramente patrimoniale, non pone in discussione alcun esercizio di potere discrezionale della P.A., inerendo ad una fase addirittura successiva a quella dell’esecuzione della convenzione, e solleva piuttosto profili risarcitori e restitutori. In altri termini, secondo le ricorrenti, “la vicenda di cui trattasi involge profili prettamente civilistici inerenti la risoluzione della convenzione rep. n. 651/02 del 30.10.2002, stipulata col Comune di San Cipriano Picentino, sia per inadempimento della P.A., sia per sopravvenuta carenza della causa in concreto, che per sopravvenuto illegittimo arricchimento della P.A.”, rientranti, perciò, nella giurisdizione del giudice ordinario.
5. Il Comune di San Cipriano Picentino replica che, “trattandosi di concessione di beni pubblici, le controversie che hanno ad oggetto questioni di risoluzione, risarcimento danni ovvero restitutorie afferenti il rapporto convenzionale (come quelle in esame relative ad asserite violazione degli obblighi contrattuali) rientrano nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo anche in assenza di atti/provvedimenti della PA, indipendentemente dalla natura delle posizioni giuridiche dedotte ai sensi dell’art. 133 co 1 lett. b) D. Lgs. 104/2010”. Ad identica conclusione il controricorrente perviene osservando che “la convenzione di localizzazione e realizzazione di un intervento di ERP ai sensi dell’art. 28 L. 1150/1942 e dell’art. 35 L 865/1971, prima di tutto, rientra nel modulo delle convenzioni urbanistiche in quanto concernente l’uso del territorio e l’esercizio delle connesse funzioni pubblicistiche, con conseguente giurisdizione esclusiva del GA ai sensi dell’art. 133 co. 1 lett. f) cpa. La convenzione ex art. 35 L 865/1971, ancora, risponde al paradigma degli accordi amministrativi di cui all’artt. 11 L. 241/1990; le relative controversie comprese quelle sulla esecuzione/inadempimento degli obblighi contrattuali (come quella per cui è causa) sono riservate alla giurisdizione esclusiva del GA ai sensi dell’art. 133 co. 1 lett. b) cpa”.
6. Il ricorso per regolamento di giurisdizione è ammissibile, in quanto proposto prima che il giudice di primo grado abbia definito il giudizio dinanzi a sé, ancorché dagli stessi soggetti che hanno instaurato il giudizio di merito, sussistendo, in ragione dell’eccezione del convenuto, un interesse concreto ed immediato alla risoluzione della questione da parte delle Sezioni Unite, in via definitiva ed immodificabile (arg. da Cass. Sez. Unite n. 15122 del 2022).
7. La statuizione cui sono chiamate queste Sezioni Unite, al fine di individuare il giudice fornito di potere giurisdizionale in relazione alla concreta controversia, comporta l’esame diretto degli atti e delle risultanze processuali, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari per la soluzione della questione.
La decisione sulla giurisdizione è peraltro determinata dall’oggetto della domanda espressamente proposta in via principale (come di regola in ipotesi di proposizione di plurime domande legate da nesso di subordinazione: ex multis, Cass. Sez. Unite, n. 21165 del 2021).
8. La domanda proposta in via principale nella citazione del 23 giugno 2020 notificata al Comune di San Cipriano Picentino dalla Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c., dalla CO.GE.NI di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c. e dall’A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., è volta alla dichiarazione di risoluzione per inadempimento, o per carenza sopravvenuta della causa contrattuale, della convenzione n. 651/2002 del 30 ottobre 2002, stipulata a norma dell’art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, avente ad oggetto la realizzazione di 74 alloggi di edilizia residenziale pubblica in aree localizzate a norma dell’art. 51 della medesima legge citata.
L’esposizione dei fatti e degli elementi costituenti le ragioni di diritto contenuta nella citazione introduttiva individua l’inadempimento del Comune nell’aver “travolto l’intero rapporto contrattuale …
sull’erroneo presupposto della nota regionale prot. 0401075 del 04.05.2007, assolutamente superata da quella prot. n. 2008.0439688 del 22.05.2008” e così “negato la realizzazione dell’intervento edilizio … opponendo il rilievo di una presunta decadenza del finanziamento regionale – per cambio ragione sociale”. L’inadempimento addebitabile dalle attrici al Comune convenuto sarebbe consistito in plurime condotte, quali, in particolare: a) le delibere comunali n. 5 e n. 6 del 25 febbraio 2008, che avevano l’una revocato la variante del PRG adottata nel 2000 per la localizzazione del programma di edilizia residenziale pubblica ex art. 51, legge n. 865 del 1971, inerente alla realizzazione dei 74 alloggi in località Filetta, l’altra dichiarato la sopravvenuta inefficacia ed invalidità della concessione del diritto di superficie di cui all’atto 651/02 del 30 ottobre 2002, nonché del successivo atto aggiuntivo n. 727/05 del 5 maggio 2005; b) aver violato, con la sopravvenuta destinazione urbanistica a “zona E”, l’art. 3 della convenzione, che obbligava il Comune a non assoggettare le aree oggetto di intervento, da acquisire mediante espropriazione per pubblica utilità, a limitazioni ed a diritti a favore di terzi incompatibili con il diritto di superficie concesso”; c) aver violato l’art. 18 della convenzione, che non prevedeva fra le ipotesi di decadenza della cessione in diritto di superficie, la decadenza dal finanziamento regionale; d) non aver proceduto al rilascio del permesso di costruire.
Tali condotte del Comune di San Cipriano Picentino avrebbero altrimenti comunque provocato il venir meno della causa contrattuale.
9. La controversia in esame attiene, dunque, all’adempimento degli obblighi derivanti per l’ente concedente e per il soggetto richiedente da una convenzione stipulata ai sensi della normativa che regola le espropriazioni e la successiva assegnazione delle aree da destinare ad edilizia economica e popolare (già contenuta nell’art. 10 della legge n. 167 del 1962, poi sostituito dall’art. 35 della legge n. 865 del 1971), in base alla localizzazione dei programmi costruttivi stabilita dall’amministrazione comunale (art. 51 della legge n. 865 del 1971), e consistente nella concessione del diritto di superficie per la costruzione degli alloggi e dei relativi servizi.
Le attrici invocano l’estinzione della convenzione stipulata con l’amministrazione comunale, e quindi la ripetizione dei pagamenti eseguiti, sul presupposto del determinante accertamento della illegittimità delle manifestazioni di volontà con le quali il Comune di San Cipriano Picentino è intervenuto sull’oggetto delle aree concesse in diritto di superficie, avendo dapprima impedito, con le delibere n. 5 e n. 6 del 25 febbraio 2008, la iniziale localizzazione del programma di edilizia residenziale pubblica, il quale avrebbe consentito alla concessionaria la realizzazione dei 74 alloggi in località Filetta, e poi immutato la destinazione urbanistica delle medesime aree, così frustrando la realizzabilità del contratto 651/02 del 30 ottobre 2002.
10. E’ stato precisato dalla giurisprudenza di questa Corte (essenzialmente Sez. Unite, sentenza n. 7573 del 2009; si vedano però anche le sentenze n. 20419 del 2016 e n. 5423 del 2021) che la convenzione per la concessione del diritto di superficie ai sensi dell’art. 35 della legge n. 965 del 1971 non costituisce un atto autonomo rispetto alla deliberazione comunale con la quale l’ente manifesta la volontà di concedere l’area e detta le relative condizioni, ma viene, con essa, ad integrare una fattispecie complessa di concessione amministrativa, di tal che si costituisce, tra concedente e concessionario, un rapporto unitario. Tale convenzione, stipulata ai sensi della normativa sull’edilizia economica e popolare, ha quindi natura di contratto di diritto pubblico che, accessivo alle determinazioni autoritative della P.A., dà vita, dunque, a una concessione amministrativa complessa.
11. Sussiste, pertanto, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ex art. 113, lettera a) n. 2, c.p.c., in tema di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo, essendo messa in discussione, sia pure in forma di domanda di risoluzione dell’accordo per inadempimento della p.a. e di condanna della stessa al risarcimento dei danni, la legittimità di deliberazioni comunali incidenti sul contenuto della concessione e della convenzione che vi accede (si vedano anche Sez. Unite, ordinanza n. 11713 del 2023; sentenza n. 12186 del 2007; ordinanze n. 5923 del 2011; n. 732 del 2005).
In particolare, le delibere dell’amministrazione comunale di San Cipriano Picentino n. 5 e n. 6 del 25 febbraio 2008, cui le ricorrenti riconducono la causa della mancata esecuzione della convenzione 651/02 del 30 ottobre 2002, concernono la formazione dei piani di zona per gli interventi di edilizia residenziale pubblica e la procedura di localizzazione ex art. 51 della legge n. 865 del 1971, il potere di adottare varianti rispetto al piano adottato nel 2000 (cfr. Sez. Unite, sentenza n. 1314 del 1990), la potestà del Comune di sciogliere l’accordo sostitutivo del provvedimento in materia di edilizia residenziale per sopravvenuti motivi di pubblico interesse o esigenze urbanistiche, o di revocare la convenzione per violazione degli obblighi ivi stabiliti con detta convenzione, ovvero comunque atti di esercizio di poteri autoritativi da parte dell’ente destinati a realizzare la finalità pubblicistica cui è diretta l’assegnazione in superficie delle aree vincolate alla costruzione degli alloggi.
11. Va quindi dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, dinanzi al quale le parti devono essere rimesse anche per la liquidazione delle spese del giudizio di regolamento.
P.Q.M.
La Corte dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo, dinanzi al quale rimette le parti anche per la liquidazione delle spese del regolamento preventivo di giurisdizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20678, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20473
Civile Ord. Sez. U Num. 20473 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO
Data pubblicazione: 17/07/2023
ORDINANZA
sul ricorso 24540-2022 proposto da:
COMUNE DI MOZZATE, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati ADRIANO PILIA e MARCO LUIGI DI TOLLE;
– ricorrente –
contro
PAPA COSTRUZIONI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EMANUELE FILIBERTO 233, presso lo studio dell’avvocato RITA TIBERI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCA INGROSSO;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 4206/2021 del TRIBUNALE di COMO.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/05/2023 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale CORRADO MISTRI, il quale chiede che la Corte di cassazione dichiari la giurisdizione del Giudice amministrativo.
Fatti di causa
Dopo la sottoscrizione, nel marzo 2003, del piano di zona per l’edilizia economica e popolare (p.e.e.p.) tra il Comune di Mozzate e la Regione Lombardia, il comune pubblicò un bando per l’assegnazione di 25 lotti di terreno a prezzi concordati.
Uno dei lotti, denominato “Brera”, venne assegnato alla Papa Costruzioni s.r.l. con delibera del 9 giugno 2007.
In data 5-3-2008 venne stipulato tra le parti l’atto di vendita dell’area sita in località “Brera”, lotto 6, al prezzo di 552.910,17, di cui 315.158,79 EUR quale corrispettivo del terreno e il resto per oneri di urbanizzazione.
All’atto di compravendita venne allegata la “convenzione area PEEP di via Brera”.
A fronte di pagamenti da eseguire in dodici rate costanti, come da prospetto allegato al contratto, la società dopo le prime quattro rate rimase inadempiente.
Il comune ha chiesto e ottenuto un decreto ingiuntivo per il pagamento del residuo.
La società ha proposto opposizione dinanzi al Tribunale di Como, chiedendo accertarsi la nullità del decreto per difetto di legittimazione attiva del comune, per l’insussistenza dei presupposti di legge e per l’altrui inadempimento agli obblighi contrattuali sottoscritti.
Nel corso del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo il tribunale ha rilevato d’ufficio che in base all’articolo 133, lett. a), n. 2, del d.lgs. n. 104 del 2010 (cod. proc. amm.) la giurisdizione sarebbe spettata al giudice amministrativo.
Il comune di Mozzate ha proposto un ricorso per regolamento preventivo, sostenendo che invece la giurisdizione debba essere del giudice ordinario, perché col ricorso per decreto ingiuntivo era stato semplicemente azionato il residuo credito vantato nei riguardi della società in forza del contratto di vendita dell’immobile.
Tale pretesa – si dice – aveva trovato la sua base negoziale nella convenzione, allegata al contratto, stipulata ai sensi dell’art. 35 della l. n. 865/71 per la concessione e regolamentazione del diritto di proprietà dell’area di edilizia economica e popolare; e nella sede di opposizione non erano state poste in discussione né la quantificazione del corrispettivo, né l’individuazione del soggetto debitore, né erano state avanzate contestazioni relative al rapporto di concessione.
Per cui in definitiva in ordine al richiesto corrispettivo non sarebbe giunta in esame alcuna attività dell’ente riconducibile al potere discrezionale.
La società ha replicato con apposita memoria.
Le parti hanno depositato ulteriori memorie.
Ragioni della decisione
I. – Non è in discussione il principio per cui la decisione sulla giurisdizione, secondo l’art. 386 cod. proc. civ., è determinata dall’oggetto della domanda.
Rileva in tal senso il petitum sostanziale, che si identifica sia in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, sia e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio e individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione (ex aliis Cass. Sez. U n. 20350-18, Cass. Sez. U n. 12378-08; più di recente Cass. Sez. U n. 13702-22, Cass. Sez. U n. 7735-23).
II. – Dalla lettura degli atti – che la Corte in questi casi è chiamata a fare autonomamente – emerge in modo lineare che la pretesa avanzata in via monitoria dal comune ha trovato causa nel rapporto sorto tra le parti per effetto dell’atto del 5-3-2008 con allegata la “convenzione area PEEP di via Brera”.
Il ricorrente assume che il petitum sostanziale attiene al perimetro della fattispecie negoziale, vale a dire all’adempimento delle obbligazioni derivate dall’atto di vendita. Non risulterebbero presenti, di contro, a suo dire, i tratti del potere autoritativo (discrezionale) della pubblica amministrazione, essendo state veicolate in monitorio semplici pretese di carattere patrimoniale.
III. – Sennonché ogni valutazione a tal riguardo è preclusa dall’ordinanza n. 27768 del 2020 di queste Sezioni Unite resa in fattispecie esattamente speculare tra le stesse parti.
Quell’ordinanza ha qualificato il rapporto scaturente dal contratto del 5-3-2008 come direttamente afferente alla convenzione urbanistica rientrante nel paradigma degli “accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo” (art. , lett. a), n. 2), d.lgs. n. 104 del 2010, cd. cod. proc. amm.).
Si tratta di un aspetto essenziale, perché all’ordinanza richiamata consegue un giudicato preclusivo inter partes sul profilo qualificatorio, anche in considerazione dell’efficacia panprocessuale della statuizione.
Non è dunque più rilevante l’obiezione del comune secondo la quale l’azione coinvolgerebbe, nella specie, unicamente le obbligazioni discendenti dal contratto del 5-3-2008.
IV. – A questo riguardo la Corte reputa opportuno svolgere le seguenti considerazioni esplicative.
La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è configurata dal legislatore nell’ipotesi di cui all’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, quanto alle “controversie in materia di (..) 2) formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo e degli accordi fra pubbliche amministrazioni”.
Con l’espressione “controversie in materia di” la norma allude alle pretese che attengono a (o trovano causa in) accordi integrativi o sostitutivi.
La funzione specificativa o, come anche si dice in grammatica, espansiva della materia – “di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo” – attua il definitivo riconoscimento della cd. amministrazione “per accordi”, che ben vero aveva ricevuto una disciplina di carattere generale già con la legge n. 241/1990 (art. 11) e con la successiva legge n. 15 del 2005.
Occorre difatti puntualizzare che già prima della legge n. 241/1990 era di prassi il ricorso allo strumento dei contratti di diritto pubblico per il perseguimento dei fini sottesi all’azione amministrativa. La caratteristica fondamentale di tale strumento è sempre stata integrata dalla mancanza della parità tra i contraenti, viceversa tipica dei contratti di diritto privato.
Ciò è tanto vero che buona parte della dottrina ha ritenuto (e tuttora ritiene) che codeste tipologie di accordi appartengano al novero dei provvedimenti unilaterali della pubblica amministrazione, ancorché con effetti bilaterali vincolanti sia per il privato che per la pubblica amministrazione stessa.
La particolarità dal punto di vista pratico sarebbe in ciò: che la volontà dell’amministrazione resta in ogni caso, secondo questa tesi, prioritaria in ragione della possibilità di porre nel nulla l’efficacia del contratto in ogni momento, mediante una difforme rivalutazione dell’interesse pubblico.
La tesi opposta – altrettanto rappresentata nel panorama dottrinale – è sempre stata invece caratterizzata nel senso che i contratti di diritto pubblico sono, una volta stipulati, veri e propri negozi, dal momento che non c’è un divieto per le pubbliche amministrazioni di ricorrere agli strumenti negoziali per esercitare il potere pubblicistico.
E quindi, una volta stipulati, ogni aspetto consequenziale deve rimanere attratto dalla disciplina di diritto comune.
V. – L’opposizione tra le due tesi si è perpetuata anche dopo la l. n. 241 del 1990.
La legge n. 241/1990, valorizzando normativamente per la prima volta lo strumento convenzionale per l’imposizione di obblighi agli amministrati mediante acquisizione del loro consenso, ha previsto per l’appunto, da un lato, gli accordi sostitutivi, che hanno la caratteristica di sostituirsi ai provvedimenti amministrativi – e che fino alla legislazione del 2005 potevano concludersi solo nei casi previsti dalla legge – e dall’altro gli accordi integrativi, che hanno come caratteristica quella di definire il contenuto discrezionale di un provvedimento; i quali possono essere stipulati a condizione che ne derivi per entrambe le parti un’utilità maggiore di quella che le stesse avrebbero conseguito dalla mera adozione del provvedimento stesso.
Per siffatte categorie di accordi la tesi prevalente è ancora oggi nel senso della connotazione quali atti di natura pubblicistica, espressione di un potere determinato dal fatto che (i) la volontà della pubblica amministrazione non è posta sullo stesso piano di quella del privato, (ii) i principi in materia di contratti e di obbligazioni si applicano in via residuale in quanto compatibili con la disciplina speciale di tali accordi, (iii) l’adozione è regolata dalle norme sul procedimento amministrativo, (iv) gli accordi sono sottoposti agli stessi controlli del procedimento amministrativo, (v) il potere di recesso è sempre assicurato alla pubblica amministrazione, sebbene con (ovvia) necessità di riconoscimento di un indennizzo all’altro contraente.
VI. – Non è il caso di riprodurre gli argomenti – certamente di non poco rilievo – spesi della concezione opposta per assegnare ai contratti, una volta stipulati, natura privatistica quanto a disciplina e rimedi.
Non è il caso perché la tesi della natura pubblicistica degli accordi in questione (siano essi sostitutivi o integrativi) è parsa in certa qual misura confortata (anche se forse solo in parte) dalla l. n. 15 del 2005 – che ha eliminato dal testo dell’art. 11 della l. n. 241 del 1990 dell’inciso “nei casi previsti dalla legge” e che ha introdotto (al comma 4-bis) la necessità della determinazione preliminare a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa.
Soprattutto tale tesi ha trovato un’eco pressoché definitiva nella sentenza n. 179 del 2016 della Corte costituzionale.
Questa sentenza, affrontando il tema dell’ambito di applicazione della giurisdizione esclusiva in materia di accordi per ciò che attiene alle controversie instaurate (come quella qui in esame) dalla stessa pubblica amministrazione, ha affermato che l’applicabilità della giurisdizione esclusiva anche a tali controversie non è in contrasto con gli art. 103 e 113 cost. sostanzialmente per due ragioni:
– perché l’art. 103 cost., laddove prevede la giurisdizione esclusiva “in particolari materie indicate dalla legge”, ne identifica (peraltro secondo costante giurisprudenza) i criteri di legittimazione in funzione delle materie prescelte nelle quali vi sia esercizio, ancorché in via indiretta o mediata, di un potere pubblico (v. C. cost. n. 204 del 2004 e C. cost. n. 191 del 2006);
– perché il coinvolgimento di situazioni giuridiche di diritto soggettivo e di interesse legittimo, in stretta connessione, è normalmente evidenziata, a proposito delle convenzioni urbanistiche, dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice, atteso il collegamento funzionale delle convenzioni urbanistiche al procedimento di rilascio dei titoli abilitativi edilizi, dei quali esse condizionano l’adozione e integrano il contenuto (v. già Cass. Sez. U n. n. 584-14 e C. st. n. 7057-09).
Donde la conclusione che, “in quanto inserite nell’ambito del procedimento amministrativo, le convenzioni e gli atti d’obbligo stipulati tra pubblica amministrazione e privati costituiscono pur sempre espressione di un potere discrezionale della stessa pubblica amministrazione”, al punto da non avere quindi una “specifica autonomia” (così C. cost. n. 179-16 cit.).
Può quindi considerarsi pacifico il fondamento di tali ipotesi di giurisdizione esclusiva, il quale resta individuato nell’esercizio, ancorché in via indiretta o mediata, del potere pubblico.
VII. – La richiamata ordinanza n. 27768 del 2020 di questa Corte si pone, seppure implicitamente, nel solco di quanto esposto.
In consonanza con altri precedenti (v. per es. Cass. Sez. U n. 13701-18) quell’ordinanza ha in generale rilevato che, anche dopo le modifiche apportate dalla l. n. 15 del 2005 all’art. 11 l. n. 241 del 1990, spetta al giudice amministrativo la cognizione delle controversie relative “agli accordi integrativi del contenuto di provvedimenti amministrativi in materia concessoria”, poiché, come precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 179 del 2016, tali accordi costituiscono pur sempre espressione del potere discrezionale della P.A., anche se esercitato in via indiretta o mediata, e devono essere assoggettati al sindacato del giudice a cui appartiene la cognizione sull’esercizio di tale potere.
Giova dire che la linea di tendenza tesa a identificare nella convenzione un atto di esercizio della potestà pubblica non è stata contraddetta neppure quando si è osservato che è possibile devolvere in arbitrato la pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo – provvedimento identificabile, appunto, nell’omessa sottoscrizione di un nuovo schema di convenzione urbanistica -, ove la condotta della pubblica amministrazione si assuma difforme dai canoni di correttezza e buona fede (v. Cass. Sez. U n. 12428-21).
VIII. – La portata del principio affermato dall’ordinanza n. 27768-20 si estende alla controversia in esame.
Non può affermarsi che la presente causa coinvolga elementi essenziali distintivi tali da indurre, come dice il comune ricorrente, a una soluzione diversa.
Dalla motivazione dell’ordinanza n. 27768 del 2020 si evince che anche allora la stessa convenzione qui rilevante aveva rappresentato, per il tramite del contratto, il titolo dell’azione monitoria (quella volta della società Papa Costruzioni).
Si comprende, cioè, che la pretesa nei confronti del comune di Mozzate aveva trovato base sempre nel rapporto sorto tra le parti con “la convenzione area PEEP di via Brera del 5 marzo 2008″; mentre con atto pubblico successivo (del 22 maggio 2009) era stata sottoscritta – tra il comune di Mozzate, la Mozzate Patrimonio e la Papa Costruzioni s.r.l. – un’altra convenzione “relativa agli interventi di edilizia abitativa convenzionata di cui al comparto Brera”, con cui la società Mozzate Patrimonio si era sostituita al comune quale soggetto proprietario e gestore degli alloggi da edificare e si era impegnata ad acquistare gli stessi e ad accollarsi il mutuo acceso dall’impresa.
L’avere l’ordinanza richiamata stabilito che “l’oggetto del giudizio si risolve(va) dunque nell’interpretazione di tali due convenzioni e nel conseguente accertamento dei diritti e degli obblighi che dalle stesse sorgono” rifluisce anche nell’odierna fattispecie, perché l’ordinanza ha premesso che l’atto del 5-3-2008 era da qualificare esso stesso come rappresentativo della convenzione urbanistica, così da rientrare nel paradigma degli “accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo” di cui all’art. 133, lett. a), n. 2), del cod. proc. amm.
Si era trattato cioè di uno strumento negoziale attraverso il quale il comune, nell’esercizio della propria potestà di governo del territorio, aveva concretamente attribuito la destinazione a edilizia residenziale pubblica al terreno di cui la società Papa era contestualmente divenuta proprietaria.
IX. – Tale unitaria qualificazione non è più suscettibile di esser messa in discussione come effetto del giudicato esterno.
La conseguenza è che la controversia, sebbene involgente il medesimo rapporto per iniziativa, questa volta, della parte pubblica (v. sempre C. cost. n. 179-16), resta da annoverare nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo.
Sussiste infatti la giurisdizione esclusiva di quel giudice quanto agli accordi integrativi del contenuto di provvedimenti amministrativi di natura concessoria, i quali, costituendo anche essi espressione – dopo le modifiche apportate dalla L. n. 15 del 2005, art. 7 alla L. n. 241 del 1990, art. 11, – di un potere discrezionale della P.A., sono assoggettati al sindacato del giudice a cui appartiene la cognizione sull’esercizio di tale potere (v. anche Cass. Sez. U n. 13701-18 e da ultimo Cass. Sez. U n. 11713-23).
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo dinanzi al quale rimette le parti anche per le spese del regolamento.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili,
Allegati:
SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20473, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19103
Civile Sent. Sez. U Num. 19103 Anno 2023
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: IOFRIDA GIULIA
Data pubblicazione: 06/07/2023
SENTENZA
sul ricorso 25533-2020 proposto da:
FUCCILO MARISA, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA PAGANICA, 13, presso lo studio dell’avvocato FABIO FRANCARIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALFONSO CELOTTO;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI POTENZA, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SISTINA 121, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNA CORRIAS LUCENTE, rappresentato e difeso dall’avvocato ORAZIO ABBAMONTE;
– controricorrente –
nonchè contro
TRAFICANTE DONATO, DI CIOMMO GERARDO, LOPES RAFFAELE, elettivamente domiciliati in Roma, Via Giovanni Pierluigi da Palestrina n. 19, presso lo studio dell’avvocato Olga Guglielmucci, rappresentati e difesi dall’avvocato Donato Traficante;
-controricorrenti –
avverso la sentenza n. 3040/2020 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 13/05/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/06/2023 dal Consigliere GIULIA IOFRIDA;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale STEFANO VISONA’ che, riportandosi alle conclusioni scritte, ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Fabio Francario e Donato Traficante.
FATTI DI CAUSA
Il Consiglio di Stato, con sentenza n.3040/2020, pubblicata il 13/5/2020, ha respinto il gravame proposto dall’avv. Marisa Fuccilo avverso sentenza del TAR Basilicata n.331/2019, con la quale, nel giudizio promosso dall’avvocato medesimo, nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza e dei componenti avvocati del COA territoriale che le aveva irrogato, nel procedimento disciplinare aperto nei suoi riguardi, in data 3/7/2014 , la sanzione della radiazione, per sentirne ottenere la condanna al risarcimento del danno, ha respinto il ricorso per difetto dell’essenziale presupposto dell’accertamento dell’illegittimità del provvedimento di radiazione.
In particolare, risulta dalla sentenza impugnata e dagli atti, che il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Melfi (COA) comminava all’ avv. Marisa Fuccilo la sanzione disciplinare della radiazione, confermata a seguito di ricorso dell’interessata al Consiglio Nazionale Forense, per avere trattenuto indebitamente la somma di € 98.496,39, destinata alla sua cliente sig.ra Carmela Pace, versandole la minor somma di € 103.957,00, a fronte della somma di € 197.953,39 percepita dalla compagnia di assicurazione in forza di una sentenza del Tribunale di Bari, all’esito di una causa per risarcimento danni promossa dal padre, nelle more deceduto.
Il ricorso per cassazione proposto dall’interessata in quattro motivi, avverso sentenza del Consiglio Nazionale Forense del 2016 (che aveva confermato la sanzione disciplinare), veniva accolto, con sentenza di questa Corte a Sezioni Unte n. 16694 del 6/7/2017, in relazione al quarto motivo di ricorso, implicante vizio motivazionale ex art.360 n. 5 c.p.c., sulla congruità della motivazione circa la scelta della sanzione della radiazione applicata dal COA territoriale (in quanto la Fuccilo: «a) ha trattenuto presso di se ingenti somme di pertinenza della cliente, omettendo di restituirle alla cliente che ne faceva richiesta; b) si è impegnata di fronte al Consiglio dell’ordine in sede disciplinare alla restituzione (quantomeno parziale) di quanto percepito, senza poi adempiere, invocando una malattia (della durata di 10 giorni) ed iniziando invece in pari tempo una causa di accertamento sull’effettiva debenza della somma avanti il tribunale di Bari; c) ha investito le somme in un buono di risparmio a se intestato, sottoponendole un vincolo di indisponibilità sino al 25/4/2016, allorché l’esponente, resasi conto che non vi sarebbe stata spontanea restituzione, ha minacciato un’azione cautelare a propria tutela; d) ha moltiplicato le iniziative giudiziarie al fine di paralizzare le richieste dell’esponente»; così attuando «un sistematico disegno volto ad eludere il proprio obbligo di restituzione, in piena violazione, anzi tradendo il rapporto fiduciario con la cliente»). Queste Sezioni Unite hanno rilevato che il CNF aveva omesso di valutare, ai fini della considerazione della gravità della condotta, la sussistenza o meno dell’appropriazione indebita aggravata, anche in considerazione della circostanza che la professionista non è stata sottoposta a procedimento penale per i fatti contestati in sede disciplinare, non essendosi valutato, nella scelta della sanzione, il pignoramento della somma in contestazione presso terzi, reso possibile dal mancato occultamento della somma da parte dell’avv. Fuccilo, la quale aveva dichiarato dove si trovava il denaro. La sentenza impugnata venne quindi cassata con rinvio, rilevandosi che i suddetti fatti storici avrebbero dovuto essere esaminati dal CNF ai fini della scelta della sanzione disciplinare da comminare.
La Fuccilo veniva reiscritta nell’albo degli avvocati di Potenza, con decorrenza dal 14/7/2017.
All’esito della pronuncia della Corte di cassazione, nessuna delle parti ha riassunto il giudizio in sede di rinvio con sua conseguente estinzione ai sensi dell’articolo 393 c.p.c.
Spirato il termine per la riassunzione, la Fuccilo ha introdotto, con ricorso del 1° marzo 2018, davanti al TAR per la Basilicata, un giudizio, nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza – succeduto ex lege all’Ordine degli Avvocati di Melfi – notificando il ricorso anche agli avvocati Traficante, Lopes e Di Ciommo, individuati come controinteressati in quanto già componenti dell’Ordine degli Avvocati di Melfi -, per il risarcimento dei danni patiti a causa dell’ingiusto provvedimento di radiazione, danni quantificati in € 412.500.00.
Il Tribunale ha respinto «nel merito» il ricorso, prescindendo dall’esame delle eccezioni preliminari di inammissibilità (anche per tardività) dell’azione risarcitoria «del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amminstrativa», sollevate dai controricorrenti, rilevando che: a) ai sensi dell’art.30 c.p.a., la domanda di condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa presuppone l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento che si assume lesivo, vale a dire il provvedimento di radiazione, e, nella specie, in disparte ogni valutazione circa la sussistenza degli altri requisiti prescritti dall’art.2043 c.cc., difetta tale essenziale presupposto; b) la mancata riassunzione del giudizio all’esito della sentenza n. 16694/2017 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha determinato l’estinzione del processo relativo all’impugnazione del provvedimento di radiazione, con caducazione della sola decisione, di natura giurisdizionale, del CNF n. 327/2016, di rigetto del ricorso avverso il provvedimento disciplinare, che invece, essendo una mera determinazione amministrativa, non risulta essere stato travolto; c) di nessun rilievo l’avvenuta reiscrizione della ricorrente nell’albo professionale, avvenuta in ragione della pronuncia cassatoria e della «pendenza del giudizio di rinvio dinanzi al CNF», prima della maturazione della fattispecie di estinzione processuale, cosicché da essa non può trarsi alcun riconoscimento della illegittimità dell’avversata radiazione; d) non è consentito al giudice amministrativo adito, neppure incidenter tantum ai soli fini risarcitori, conoscere dell’illegittimità del provvedimento disciplinare, «considerata l’assoluta carenza di giurisdizione del giudice amministrativo nella materia disciplinare degli avvocati (cfr., artt.50, comma 3, e 54 n. 2 Regio D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art.61 l. 31 dicembre 2012, n. 247)»
Il Consiglio di Stato, nel confermare il rigetto del ricorso della Fuccilo, ha osservato, in particolare, che: a) in primo luogo, andava condivisa la valutazione del TAR secondo cui il provvedimento di radiazione non poteva dirsi «travolto dall’estinzione del relativo processo impugnatorio instaurato davanti al CNF» (pag. 5 della sentenza impugnata), con sua conseguente perdurante efficacia; il Consiglio di Stato, nel fare proprio tale giudizio, ha rilevato che la ricorrente si era limitata ad affermare che «la sentenza del CNF “assorbe e sostituisce nel merito la precedente pronuncia amministrativa”» e ha sottolineato come la sentenza delle Sezioni Unite si fosse limitata a cassare con rinvio la sentenza del CNF che aveva rigettato l’impugnazione del provvedimento di radiazione, il che «implicava un nuovo giudizio (subordinato a impulso di parte) su una determinazione ancora vitale ed efficace»; b) in secondo luogo, a fronte della deduzione, da parte dell’appellante circa il fatto, asseritamente omesso dal TAR, che le Sezioni Unite nel 2017 avessero «escluso la possibilità di comminare la sanzione massima della radiazione», nella specie, non era intervenuta (richiamato il disposto del comma 5 dell’art.30 c.p.a., secondo cui «5. Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza») alcuna pronuncia di «annullamento del provvedimento di radiazione», non essendo stato il giudizio riassunto dinanzi al CNF; c) il giudice amministrativo, non avendo giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati, non potrebbe – «come correttamente evidenziato in prime cure con statuizione non oggetto di specifica contestazione»- conoscere della legittimità del menzionato provvedimento di radiazione, nemmeno in via incidentale; d) nessuna valenza univoca di riconoscimento dell’illegittimità della radiazione poteva attribuirsi alla temporanea reiscrizione dell’interessata all’Albo professionale (peraltro, dopo l’estinzione del giudizio, il Consiglio dell’ordine ha revocato, nel 2020, la reiscrizione previamente disposta).
Avverso la suddetta pronuncia, Marisa Fuccilo propone ricorso per cassazione, notificato il 12/10/2020, affidato a unico motivo, nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza (che resiste con controricorso, notificato il 21/11/2020) e degli avvocati Donato Traficante, Gerardo Di Ciommo e Raffaele Lopes (che resistono con controricorso notificato il 19/11/2020).
Il P.G., in vista dell’adunanza camerale del 12/7/2022, ha depositato conclusioni scritte, chiedendo, in accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata; il P.G. ha osservato che non meriterebbero accoglimento le eccezioni sollevate dai controricorrenti Traficante, Di Ciommo e Lopes, di decadenza per non essere stata l’azione promossa entro centoventi gg dalla conoscenza del provvedimento amministrativo, ex art.30 c.p.a., in quanto la sentenza impugnata ha respinto la domanda risarcitoria in base all’affermazione «in astratto della carenza di giurisdizione», e dal CNF, di inammissibilità della domanda, ha osservato che la sentenza del Consiglio di Stato, sindacabile ai sensi dell’art.111, comma 8, Cost., in quanto, nella specie, vi sarebbe stato un diniego di giurisdizione, sull’assunto della pregiudizialità dell’annullamento del provvedimento amministrativo ai fini dell’esperimento della tutela risarcitoria, pregiudizialità invece esclusa da questa Corte a Sezioni Unite con la sentenza n. 13659/2006, stante l’autonomia della domanda risarcitoria rispetto all’annullamento dell’atto, principio codificato dall’art.30 c.p.a., d.lgs. 104/2010.
La ricorrente ha depositato due memorie, nel novembre 2021 e nel luglio 2022.
Con ordinanza interlocutoria n. 3599/2023, resa all’esito dell’adunanza del 12/7/2022 , questa Corte, alla luce del complesso delle questioni involte dal ricorso, ha ritenuto opportuna la rimessione della causa alla pubblica udienza, poi fissata per il 20/6/2023. La ricorrente ha depositato istanza di discussione orale.
Il P.G. ha depositato in data 29/5/23 nuova memoria, concludendo per il rigetto del ricorso.
La ricorrente ed i controricorrenti Traficante, Lopes e Di Ciommo hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1.La ricorrente lamenta, con unico articolato motivo, la violazione, ex at.360 n. 1 .p.c., degli artt.111comma 8 , Cost. e 110 c.p.a., per rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo adito.
Con un primo profilo di doglianza, la ricorrente argomenta che il Consiglio di Stato avrebbe errato nel non rilevare che le Sezioni Unite avevano ritenuto illegittimo il provvedimento di radiazione, in tal modo violando l’articolo 393 c.p.c., laddove dispone che «la sentenza della Corte di cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che si è instaurato con la riproposizione della domanda».
Sotto ulteriore profilo, la Fuccilo sostiene che, nella specie, ricorrerebbe una ipotesi di «arretramento dalla giurisdizione», per avere il Consiglio di Stato sostanzialmente negato, in via assoluta, la tutela giurisdizionale alla ricorrente, rifiutando di esercitare la giurisdizione sulla domanda risarcitoria, in difetto di previo annullamento dell’atto amministrativo, e il correlato potere di disapplicazione, e così riproposto «la teorizzazione della necessaria pregiudizialità dell’annullamento rispetto all’azione risarcitoria, della quale viene quindi nuovamente negata l’autonomia» (pag. 9, § 2, del ricorso). La ricorrente invoca il principio, affermato da queste Sezioni Unite con le ordinanze nn. 13659 e 13660 del 2006, e ripreso da Sez.Un. n. 30254/2008, secondo cui «Il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione, e la sua decisione, a norma dell’art. 362, primo comma, cod. proc. civ., si presta a cassazione da parte delle Sezioni Unite quale giudice del riparto della giurisdizione, se l’esame del merito della domanda autonoma di risarcimento del danno è rifiutato per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l’annullamento dell’atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti».
La ricorrente, nella memoria da ultimo depositata, si sofferma (in replica alle conclusioni da ultimo formulate dal PG) sulla sussistenza di un interesse legittimo leso, quale posizione giuridica soggettiva che può essere fatta valere dal professionista di fronte ai Consigli Distrettuali, enti pubblici non economici le cui decisioni hanno natura amministrativa, rispetto al corretto esercizio dei relativi poteri, e della giurisdizione del giudice amministrativo, essendosi lamentato, con la proposta azione risarcitoria, l’illegittimo esercizio del potere disciplinare (per avere, in particolare, omesso di considerare fatti di primaria rilevanza, quali stigmatizzati da questa Corte nella sentenza n. 16694/2017, nonché dato per presupposto, erroneamente, un fatto inesistente, quale quello dell’appropriazione indebita cui soltanto poteva ricollegarsi la grave sanzione disciplinare irrogata); in sostanza, essendosi lamentata la sproprorzione della grave sanzione inflitta al professionista, si è fatta questione non della liceità della condotta di quest’ultimo ma di cattivo esercizio del potere, rientrante nella discrezionalità amministrativa, disciplinare, con giurisdizione conseguente del giudice amministrativo. La ricorrente rileva, peraltro, che sulla questione della giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria si è formato il giudicato interno (non avendo il TAR Potenza negato la propria giurisdizione e non essendo stata la sentenza di primo grado impugnata in punto di giurisdizione. Quindi la ricorrente censura la statuizione del Consiglio di Stato per essere stata negata la tutela per mancata previa dichiarazione di illegittimità del provvedimento disciplinare da parte del Giudice speciale (CNF), malgrado il superamento del principio della c.d. pregiudiziale amministrativa.
Assume la Fuccilo, facendo espresso richiamo alle sentenze n. 49/2011 e n. 160/2019 della Corte Costituzionale (citata nella ordinanza interlocutoria n. 3599/2023), che, malgrado non vi sia un’analoga previsione che, come accade per la giustizia sportiva, radichi la controversia nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, deve comunque essere «garantita una protezione giurisdizionale da parte del Giudice comune, che seppure non demolitoria sia quantomeno risarcitoria» e «qualunque sia il giudice individuato …quale avente giurisdizione sulla domanda risarcitoria conseguente all’adozione di un provvedimento disciplinare adottato nei confronti di un avvocato, questi potrà e dovrà eventualmente conoscere in via incidentale della legittimità dell’atto disciplinare, seppure ai soli fini risarcitori», equivalendo la tesi contraria a privare surrettiziamente il soggetto leso anche della residua tutela risarcitoria.
In via subordinata si chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale delle norme che radicano la giurisdizione speciale del CNF, per violazione del fondamentale diritto di difesa e del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt.24,103,11 e 113 Cost.).
1.2.I controricorrenti Traficante, Lopes e Di Ciommo, anche in memoria, premesso di essere stati evocati in giudizio dinanzi al giudice amministrativo, soltanto in qualità di controinteressati, non essendo stata svolta nei loro riguardi alcuna domanda risarcitoria, ribadiscono che la questione della giurisdizione sulla domanda risarcitoria è ormai coperta dal giudicato interno, con conseguente inammissibilità di un controllo sul punto da parte delle Sezioni Unite, trattandosi di sindacato sui limiti interni della giurisdizione, pur dichiarando di aderire a quanto esposto, da ultimo, dal P.G., ai soli fini di chiarimento in funzione nomofilattica, circa la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla domanda risarcitoria avanzata dall’avvocato in relazione al danno derivante da provvedimento disciplinare emesso nei suoi confronti. Gli stessi ribadiscono che non vi è stato un erroneo rifiuto della giurisdizione da parte del giudice amministrativo e che la sentenza, comunque, sarebbe inutiliter data, a causa delle preclusioni maturate, oggetto di specifiche eccezioni.
1.3. Il PG, nella memoria del maggio 2023 ed all’udienza pubblica, ha concluso per il rigetto del ricorso, rilevando che: a) il Consiglio di Stato, senza declinare la propria giurisdizione secondo le regole di riparto, ha ritenuto la propria carenza assoluta di giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati; b) in mancanza di previsione normativa derogatoria, il giudice munito della giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno derivante da procedimento disciplinare emesso nei confronti di un avvocato è il giudice ordinario (che ha il potere di sindacare e disapplicare l’atto amministrativo presupposto in ragione dell’art.5 l.20 marzo 1865 all.E, senza limiti determinati dall’inoppugnabilità) e con riferimento a provvedimenti disciplinari degli avvocati ovvero in materia di risarcimento danni derivanti dal provvedimento disciplinare che si assume illegittimo non è riconosciuto alcun potere giurisdizionale esclusivo in capo al giudice amministrativo; c) il giudice amministrativo privo di potere demolitorio, spettante al CO e al CNF, è, di conseguenza, privo del potere di cognizione incidentale di cui all’art.8 c.p.a.; d) non sussiste il vizio denunciato, ex art.111, comma 8, Cost., in ragione dell’effettiva carenza di giurisdizione del giudice amministrativo nella materia disciplinare degli avvocati e non è sindacabile l’errore in cui è incorso il Consiglio di Stato, per avere ritenuto implicitamente la propria giurisdizione e dichiarato la carenza assoluta di giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati.
2. E’ utile un breve richiamo al contenuto della sentenza n. 16694/2017 e dell’ordinanza interlocutoria n. 3599/2023 di questa Corte.
Risulta dalla sentenza n. 16694/2017, che ha cassato la sentenza del CNF, dando luogo potenzialmente ad un giudizio di rinvio dinanzi a quest’ultimo, giudizio poi non sollecitato da alcuna delle parti, che questa Corte riteneva fondata la denuncia di un vizio motivazionale contenuta nel ricorso per cassazione avverso la sentenza del CNF, in punto di omessa valutazione di fatti decisivi nella valutazione della gravità della condotta contestata all’avvocatessa e della congruità della sanzione irrogata.
Come rilevato da questa Corte nell’ordinanza interlocutoria n. 3599/2023, anzitutto, il giudice amministrativo non ha declinato la giurisdizione di tale giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria dedotta in giudizio, avendo, al contrario, rigettando tale domanda anche nei confronti degli avvocati Traficante, Lopes e Di Ciommo, implicitamente ritenuto la propria giurisdizione non solo sulla domanda risarcitoria rivolta nei confronti del Consiglio dell’Ordine ma anche su quella rivolta nei confronti delle menzionate persone fisiche; sul punto, peraltro, è calato il giudicato interno, non essendo stata la sentenza del TAR appellata in punto di giurisdizione (tra le tante, da ultimo, Cass. SSUU 21972/2021); il giudice amministrativo, pur ritenendosi munito di giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno da provvedimento disciplinare asseritamente illegittimo, si legge nell’ordinanza interlocutoria resa nel presente giudizio di legittimità, ha respinto tale domanda sull’assunto di non poter accertare «in via incidentale la sussistenza dei presupposti per procedere all’annullamento della sanzione, a prescindere dal giudizio del CNF, atteso che … nella materia disciplinare degli avvocati v’è assoluta carenza di giurisdizione del giudice amministrativo» (pag. 7 della sentenza impugnata).
Alla base del rigetto della domanda della Fuccilo da parte del Consiglio di Stato, in sostanza, non vi sarebbe l’assunto che la condanna al risarcimento del danno derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa postulerebbe, in termini generali, la previa caducazione del provvedimento asseritamente lesivo, bensì il rilievo che, nello specifico caso in cui l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa si sia sostanziato nell’emanazione di un provvedimento disciplinare a carico di un avvocato, la condanna risarcitoria, non preceduta dall’annullamento del provvedimento illegittimo, sarebbe preclusa dal rilievo che la giurisdizione sulla legittimità di tale provvedimento compete al CNF e non al giudice amministrativo.
Questa Corte, nell’ordinanza interlocutoria del 2023, ha quindi rammentato che la giurisdizione sui provvedimenti disciplinari relativi agli avvocati (che sono provvedimenti amministrativi e non pronunce giurisdizionali, cfr. SSUU n. 20843/3007, SSUU n. 11564/2011) appartiene per legge al CNF, giudice speciale istituito con l’art. 21 del D.Lgs. luogotenenziale 23 novembre 1944, n. 382, tuttora operante, giusta la previsione della VI disposizione transitoria della Costituzione (cfr., tra le tante, Cass. SSUU n. 9097/2005 e, da ultimo, Cass. SSUU n. 9545/2021) e che le sentenze del CNF sono impugnabili soltanto per cassazione, davanti alle Sezioni Unite Civili, occorrendo, nella specie, approfondire «la questione se, ed in quali limiti, il principio che la tutela risarcitoria per i danni causati da provvedimenti illegittimi può essere offerta indipendentemente dal previo annullamento del provvedimento asseritamente lesivo operi anche nelle materie, quali la disciplina degli avvocati, in cui l’impugnativa del provvedimento amministrativo sia sottratta alla giurisdizione del giudice amministrativo, per essere demandata dalla legge ad altro giudice (nella specie, il giudice speciale CNF)».
Si possono ipotizzare, secondo l’estensore della ordinanza interlocutoria, diverse ipotesi ricostruttive: a) il giudice amministrativo, avendo giurisdizione sulla tutela risarcitoria ma non su quella demolitoria, non può accordare la tutela risarcitoria se non previo annullamento del provvedimento disciplinare asseritamente lesivo; b) ovvero ritenere che, come sostenuto dalla difesa dell’odierna ricorrente, la carenza di giurisdizione del giudice amministrativo sulla tutela demolitoria non impedisca a tale giudice di conoscere della legittimità del provvedimento disciplinare asseritamente lesivo ai soli fini della pronuncia sulla domanda risarcitoria, sia se si riconosca, come sostenuto dal Consiglio di Stato nella sentenza impugnata, natura incidentale alla cognizione sulla legittimità del provvedimento disciplinare da parte del giudice della domanda risarcitoria (con possibile richiamo all’art.8 c.p.a.), sia se si riconosca a tale cognizione natura principale, potendo essere evocati i principi – di portata evidentemente generale – espressi dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 49 del 2011 e 160 del 2019, in tema di rapporti tra giudice statale e giudice sportivo, secondo cui «il giudice amministrativo può comunque conoscere delle questioni disciplinari che riguardano diritti soggettivi o interessi legittimi, poiché l’esplicita riserva a favore della giustizia sportiva, se esclude il giudizio di annullamento, non intacca tuttavia la facoltà di chi ritenga di essere stato leso nelle sue posizioni soggettive, ivi comprese quelle di interesse legittimo, di agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno. A tali fini non opera infatti la riserva a favore della giustizia sportiva, davanti alla quale del resto la pretesa risarcitoria non potrebbe essere fatta valere» (così C. Cost. n. 160/2019, § 3.2.2., che ha enunciato tale principio in un contesto normativo che – con l’articolo 3 del decreto-legge 19 agosto 2003 n. 220, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280 – attribuisce al giudice amministrativo ogni controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo, eccezion fatta per le controversie, attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario, sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti).
A tale ultimo riguardo, si può rilevare che, sul tema, sono intervenute anche le Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno in più occasioni affermato che «In tema di sanzioni disciplinari sportive, vi è difetto assoluto di giurisdizione sulle controversie riguardanti i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni, riservate, a tutela dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, agli organi di giustizia sportiva che le società, le associazioni, gli affiliati e i tesserati hanno l’onere di adire ai sensi del d.l. n. 220 del 2003 , conv. in legge n. 280 del 2003 , anche ove si invochi la tutela in forma specifica della rimozione della sanzione disciplinare, ferma restando la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ex art. 133, comma 1, lett. z), c.p.a., in ordine alla tutela risarcitoria per equivalente, non operando in tal caso alcuna riserva a favore della giustizia sportiva e potendo il giudice amministrativo conoscere in via incidentale e indiretta delle sanzioni disciplinari, ove lesive di situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento statale» (Cass., Sez. Un., n. 33536/2018; sul punto anche, Cass. , Sez. Un. , n. 32358/2018; Cass. Sez.Un. n. 12149/2021).
Va rilevato, però, che, nella materia della giustizia sportiva, vi è giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art.133, lett.z), per «le controversie aventi ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservate agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ed escluse quelle inerenti i rapporti patrimoniali tra societa’, associazioni e atleti».
Quindi, nella suddetta materia, ai sensi dell’art.2 l.280/2003 lett.a) e b), le questioni tecniche e disciplinari rimangono nell’ordinamento sportivo e sono soggette alla giurisdizione dei giudici sportivi, mentre il giudice statale amministrativo, in forza della giurisdizione esclusiva riconosciuta, conosce delle controversie che, seppure nascenti da sanzioni disciplinari, incidono sul godimento dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi, quali la domanda di risarcimento del danno per equivalente, ma non ha il potere di statuire sull’annullamento del provvedimento sanzionatorio disciplinare (corte Cost. nn. 49/2011 e 160/2019), potendo soltanto procedere ad un accertamento incidentale dell’illegittimità del provvedimento stesso a fini risarcitori.
Nell’ambito delle sanzioni disciplinari agli avvocati, di cui in questo giudizio si controverte, vi è, invece, un giudice speciale statuale, diverso da quello amministrativo, deputato ad accertare l’illegittimità della sanzione.
Altra questione meritevole di approfondimento da parte di queste Sezioni Unite, in funzione nomofilattica, prospettata nell’ordinanza interlocutoria n. 3599/2023 – pur nel dubbio, palesato, se nel presente giudizio il tema della giurisdizione sulla domanda risarcitoria sia, come si prospetta nell’ordinanza, coperto dal giudicato interno – concerne i criteri di individuazione del giudice munito di giurisdizione sulla domanda di risarcimento dei danni causati da un provvedimento disciplinare, asseritamente illegittimo, adottato nei confronti di un avvocato, in quanto, escluso che la giurisdizione sulla tutela risarcitoria competa al CNF, al quale la legge attribuisce la giurisdizione solo sulla tutela demolitoria, «andrebbe approfondita la questione se la situazione soggettiva lesa da un provvedimento disciplinare illegittimo abbia natura di interesse legittimo o di diritto soggettivo», in quanto, in questo secondo caso, in assenza di una disposizione attributiva di giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo, la giurisdizione potrebbe ritenersi spettante al giudice ordinario (per l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di risarcimento dei danni da provvedimento disciplinare in relazione al quale la tutela demolitoria sia rimessa dalla legge ad altro plesso giurisdizionale, Cass. SSUU n. 1415 del 2004: «La domanda proposta da un lavoratore autoferrotramviere intesa ad ottenere dall’azienda datrice di lavoro il risarcimento dei danni derivanti da una sanzione disciplinare, sul presupposto della illegittimità del relativo provvedimento di irrogazione, è sottratta alla giurisdizione del giudice amministrativo prevista dall’art. 58 r.d. n. 148 del 1931, all. A), ed appartiene alla cognizione del giudice ordinario, posto che in tale ipotesi l’accertamento di illegittimità dell’atto amministrativo è strumentalmente collegato alla tutela di un diritto soggettivo, mentre appartiene al merito della controversia ogni questione concernente la disapplicabilità del medesimo atto in via incidentale»).
3. Deve rilevarsi che, nel presente giudizio, si è formato un giudicato implicito sulla giurisdizione, nell’azione risarcitoria proposta, del giudice amministrativo, secondo le regole di riparto.
Ai sensi dell’art.9 c.p.a. («Il difetto di giurisdizione e’ rilevato in primo grado anche d’ufficio. Nei giudizi di impugnazione é rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione»), la mancata espressa impugnazione di una sentenza, contenente una statuizione, ancorché implicita, sulla giurisdizione, preclude al giudice del gravame di rilevare il difetto di giurisdizione, essendosi sul punto formato il giudicato interno.
Orbene, la decisione sul merito non può che presupporre la verifica positiva della sussistenza della giurisdizione, oggetto di una statuizione implicita.
Nella specie, il giudice amministrativo non ha negato di avere giurisdizione, nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità (non vertendosi in ipotesi di giurisdizione esclusiva) sulla domanda risarcitoria, per lesione di interesse legittimo derivante dal provvedimento disciplinare adottato a carico dell’avvocato ricorrente, avendo respinto la domanda perché ritenuta infondata nel merito, affermando che – dovendo ritenersi l’azione risarcitoria proposta in via autonoma e non in via complementare e contestuale alla tutela impugnatoria dell’atto amministrativo, in difetto di una pronuncia «di annullamento del provvedimento» di radiazione del COA Potenza, essendosi estinto, per effetto della mancata riassunzione del giudizio di rinvio, ex art.393 c.pc., il processo impugnatorio avverso la sola decisione del CNF – il giudice amministrativo non avrebbe potuto, neppure in via incidentale, vagliare l’illegittimità della sanzione disciplinare irrogata, presupposto questo indefettibile della domanda di risarcimento del danno ingiusto, in quanto la giurisdizione è riservata al Consiglio Nazionale Forese quale giudice speciale .
Deve qui rilevarsi che, allorché il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente la propria giurisdizione e le parti abbiano prestato acquiescenza, non contestando la relativa sentenza sotto tale profilo, non è consentito al giudice della successiva fase impugnatoria rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione, in quanto tale questione è ormai coperta dal giudicato implicito, interno (cfr. Cass. Sez.UN. n. 21972/2021; Cass.Sez.Un. n.10359/2021; id.nn.25208 e 5587 del 2020). Rimane, altresì, precluso all’attore, rimasto soccombente nel merito, contestare la giurisdizione di quel giudice che egli stesso ha adito (v.Sez.Un. n.25367 del 2020; id.n. 21260 del 2016);
Sulla decadenza per mancato rispetto del termine di cui all’art.30 c.p.a. e tardività dell’azione risarcitoria, pur eccepita dai controricorrenti, il giudice amministrativo non si è pronunciato.
4. Va ricostruito, quindi, il quadro normativo e giurisprudenziale, sull’azione risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo.
4.1. La giurisdizione generale di legittimità.
La giurisdizione affermata, nel presente giudizio, dal giudice amministrativo, con giudicato implicito, è, non vertendosi, pacificamente, in ipotesi di giurisdizione esclusiva, quella generale di legittimità, di cui all’art.7, comma 4, c.p.a. («Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma»), nell’ambito della quale vengono in rilievo, di regola, le posizioni di interesse legittimo a fronte di fattispecie in cui la pubblica amministrazione agisce in via autoritativa, nell’esercizio di un potere pubblico.
Nei casi di giurisdizione di legittimità, la decisione sugli interessi legittimi può comportare (art.8 c.p.a.) la necessità di una pronuncia, in via incidentale, senza efficacia di giudicato, rispetto a diritti soggettivi, salvo le materie escluse di cui a 2° comma della stessa disposizione (questioni di stato, capacità delle persone ed incidenti di falso).
Nella specie, non si è invocata la tutela demolitoria (volta all’annullamento dell’atto illegittimo viziato per violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere), ma si è esercitata un’azione di condanna (al risarcimento dei danni), in via autonoma.
4.2. L’azione risarcitoria nel processo amministrativo.
La questione della pregiudizialità della domanda di annullamento dell’atto illegittimo rispetto all’azione di risarcimento del danno, già risolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in favore della autonomia delle azioni e della proponibilità della domanda di risarcimento dinanzi al giudice amministrativo anche in difetto di previa domanda di annullamento dell’atto lesivo (Cass. Sez.Un. ord. nn. 13659, 13660 e 13911 del 13.6.2006), è ora disciplinata dal codice del processo amministrativo, all’art. 30.
Tale disposizione regolamenta ormai, in maniera unitaria, l’azione di condanna esperibile nel processo amministrativo (a) a tutela di interessi legittimi e (b) di diritti soggettivi (nei casi di giurisdizione esclusiva).
L’art.30 c.p.a., al comma 1°, stabilisce che «L’azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma». L’art.7, al quarto comma, del pari, prevede che «Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma».
Quindi, l’azione di condanna correlata a diritti soggettivi (c.d. privatistica), nell’ambito della giurisdizione esclusiva, può essere proposta esclusivamente (comma 6, art.30) dinanzi al giudice amministrativo, anche in via autonoma (comma 1, art.30), entro il termine prescrizionale ordinario di dieci anni. Al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva, l’azione di condanna a tutela di diritti soggettivi va invece proposta dinanzi al giudice ordinario.
L’azione di condanna (c.d. pubblicistica) a tutela degli interessi legittimi può essere proposta esclusivamente dinanzi al giudice amministrativo (comma 6, art.30); ove correlata all’emanazione di un provvedimento amministrativo illegittimo può essere proposta o unitamente all’azione di annullamento in via complementare per reintegrare in modo completo l’interesse leso ovvero (questa la novità normativa) in modo autonomo (c.d. azione risarcitoria pura), senza la previa proposizione di un’azione di annullamento.
Il legislatore ha dunque ammesso, in via di principio, l’autonomia della domanda risarcitoria rispetto a quella di annullamento del provvedimento lesivo: al giudice amministrativo può essere richiesto il risarcimento dei danni per lesione a interessi legittimi anche se l’atto amministrativo non sia stato impugnato (comma 3 dell’art.30) e, in tal caso, il giudice amministrativo può conoscere della sua illegittimità, ove essa assuma rilievo ai fini della pronuncia sulla pretesa risarcitoria.
Tuttavia, l’autonomia della domanda risarcitoria, nel caso di lesione di interessi legittimi, è stata temperata dall’introduzione di uno specifico termine di decadenza: a) l’azione (art.30, comma 3, c.p.a.) in via autonoma va proposta entro un termine di 120 giorni dal momento in cui si è verificato «il fatto» ovvero «dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo»; b) se il provvedimento lesivo sia stato invece impugnato, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio (anche dopo la scadenza del termine di 120 giorni), con lo strumento dei motivi aggiunti, o successivamente alla sentenza di annullamento, fino a 120 giorni dal suo passaggio in giudicato (comma 5° art.30 ).
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 94 del 4/5/2017 ha ritenuto infondata la relativa questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla previsione nell’azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi di un termine breve di decadenza, non presente nella disciplina civilistica sul risarcimento dei danni, rilevando che «la previsione del termine di decadenza per l’esercizio dell’azione risarcitoria non può ritenersi il frutto di una scelta viziata da manifesta irragionevolezza, ma costituisce l’espressione di un coerente bilanciamento dell’interesse del danneggiato di vedersi riconosciuta la possibilità di agire anche a prescindere dalla domanda di annullamento (con eliminazione della regola della pregiudizialità), con l’obiettivo, di rilevante interesse pubblico, di pervenire in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria, secondo una logica di stabilità degli effetti giuridici ben conosciuta in rilevanti settori del diritto privato ove le aspirazioni risarcitorie si colleghino al non corretto esercizio del potere, specie nell’ambito di organizzazioni complesse e di esigenze di stabilità degli assetti economici (art. 2377, sesto comma, del codice civile)».
Inoltre, in caso di proposizione in via autonoma, di domanda risarcitoria da lesione di interessi legittimi, entro il termine decadenziale indicato, ai sensi del terzo comma dell’art.30 «nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti». Quindi, in sede di determinazione dell’ammontare del risarcimento, il giudice amministrativo deve escludere quei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’azione di annullamento dell’atto illegittimo ovvero attivando strumenti di tutela cautelare o istanza di autotutela (con richiamo implicito all’art.1227 comma 2 c.c., Cons.St., adunanza Plenaria, n. 3/2011; Cons.St-., VI Sez., 15/6/2015 n. 2906), rilevando l’omessa tempestiva proposizione del ricorso per l’annullamento del provvedimento lesivo non come fatto preclusivo della domanda risarcitoria a solo come condotta che, nell’ambito di una valutazione complessiva del comportamento delle parti in causa, può autorizzare il Giudice ad escludere il risarcimento o a ridurne l’importo, ove si accerti che la tempestiva proposizione del ricorso per l’annullamento dell’atto lesivo avrebbe evitato o limitato i danni.
Al secondo comma del successivo art.34 c.p.a. si dispone che, salvo quanto previsto «dall’art.30, comma 3, il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento di cui all’articolo 29».
L’art. 34, comma 3, attiene poi all’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato a fini risarcitori, quale (primo e fondamentale) elemento costitutivo della responsabilità della p.a. per atto illegittimo, vale a dire – essendo tale responsabilità ricondotta all’illecito aquiliano ex art. 2043 cod. civ.- all’accertamento dell’ingiustizia del danno, ferma restando la necessità di accertare la sussistenza degli altri elementi della fattispecie nell’instaurando giudizio risarcitorio, cosicché, venuto meno l’interesse alla caducazione dell’atto, l’azione di annullamento si converte per legge in azione di accertamento di detta illegittimità (cfr. Cons. Stato, VI, 20 novembre 2017, n. 5324).
In presenza di una domanda risarcitoria, l’art. 34, comma 3, c.p.a. impone, quindi, l’accertamento dell’illegittimità degli atti impugnati, sempre che sussista la condizione di tale azione di accertamento, cioè l’«interesse a fini risarcitori», da vagliarsi, secondo la regola generale dell’art. 100 cod. proc. civ., tenuto conto delle sopravvenienze di fatto e di diritto.
4.3. L’accertamento incidentale a fini risarcitori.
Deve poi rilevarsi che, ai sensi dell’art.8 c.p.a., Cognizione incidentale e questioni pregiudiziali, il giudice amministrativo «nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva conosce, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale 2. Restano riservate all’autorita’ giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacita’ delle persone, salvo che si tratti della capacita’ di stare in giudizio, e la risoluzione dell’incidente di falso.».
La disposizione, che disciplina la cognizione incidentale del giudice amministrativo solo con riguardo alle materia in cui ha giurisdizione non esclusiva, deve essere messa in relazione all’art.7, comma 5, la norma generale che si riferisce invece alle materie di giurisdizione esclusiva («5. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi»).
In sostanza, il giudice amministrativo deve essenzialmente considerarsi titolare del potere di conoscere sia le questioni pregiudiziali sia le questioni principali allo stesso devolute, come rientranti nella sua giurisdizione, pur se le determinazioni relative alle questioni pregiudiziali concernenti diritti non possano assumere efficacia di giudicato, che deve essere limitato alla questione principale. La previsione normativa afferisce più propriamente a quelle ipotesi in cui il giudice amministrativo non sia in grado di conoscere incidenter tantum una questione pregiudiziale, perché riservata ad altro giudice e/o già sottoposta al suo esame, con conseguente necessità per lo stesso di sospensione del processo dinanzi ad esso stesso pendente, ex art.79 c.p.a., processo che sarà proseguito all’esito della definizione giudiziale della pregiudiziale da parte del giudice competente.
Il comma 2 dell’art. 8 (passato indenne al vaglio di costituzionalità, cfr. Corte Cost 11.11.2011 n. 304, ove si è rilevato che il «riservare al giudice civile la risoluzione delle controversie sullo stato e la capacità delle persone, salvo la capacità di stare in giudizio, nonché la risoluzione dell’incidente di falso, in tema di atti muniti di fede privilegiata, risponde, come è noto, alla esigenza di assicurare in talune peculiari materie – rispetto alle quali maggiore è la necessità di una certezza erga omnes e sulle quali possa dunque formarsi anche un giudicato – una sede e un modello processuale unitari: così da evitare, ad un tempo, il rischio di contrastanti pronunce – che minerebbero la fiducia verso determinati atti ovvero in ordine a condizioni e qualità personali di essenziale risalto agli effetti dei rapporti intersoggettivi – e il ricorso a modelli variegati di accertamento, dipendenti dalle specificità dei procedimenti all’interno dei quali simili questioni “pregiudicanti” possono intervenire») elenca le questioni, tra quelle pregiudiziali, che viceversa, devono considerarsi oggetto di esclusiva competenza del giudice ordinario, ossia le questioni «concernenti lo stato e la capacità delle persone», riservando al giudice amministrativo, quale eccezione alla deroga, la valutazione della «capacità di stare in giudizio», e la «risoluzione dell’incidente di falso».
In ordine alle questioni pregiudiziali concernenti gli status e la capacità giuridica o di agire dei privati individui, con la necessità per il giudice amministrativo di sospendere il processo e disporre la conseguente devoluzione della questione al giudice ordinario, si è rilevato, in dottrina, che l’interpretazione debba essere necessariamente rigorosa, evitando di ampliarne l’ambito di applicazione.
Si ha, invero, un’eccezione al principio secondo cui al giudice amministrativo è ammessa la pronuncia incidenter tantum anche su questioni relative a diritti, qualora la loro soluzione si atteggi come pregiudiziale necessaria per la decisione che gli è richiesta (Cons.St., Sez.V, 13.9.1999 n.1052).
In particolare, in merito alla identificazione degli status, in essi sono certamente da ricomprendere quelli di carattere familiare (Cass. n. 21628/2006) e riguardanti la cittadinanza (Cons. Stato, Sez.IV, 22.12.1942), mentre si sono ritenute non sussumibili tra le pregiudiziali di che trattasi altre posizioni di natura politico-sociale, quali ad esempio il diritto di nazionalità o di elettorato attivo e passivo, che non sono considerate questioni di natura eccezionale tali da imporre la sospensione del processo, ai sensi degli artt. 79, comma l, e 79, comma 3, c.p.a. cosicché il giudice amministrativo ha ritenuto che le questioni pregiudiziali sottratte alla sua cogniione sia pure incidentale sono da considerarsi «limitate allo status di famiglia e di cittadinanza» (Cons. Stato, Sez.V, 15.6.2000 n. 3338; Cons.St., Sez.V, 13 settembre 1999, n.1052).
Nella pronuncia Sez.Un. 16959/2018, questa Corte ha cassato una sentenza del Consiglio di Stato (in punto di non trascrivibilità nei registri dello stato civile di matrimoni omosessuali celebrati all’estero) per violazione dell’art.8, comma 2, c.p.a., configurandosi eccesso di potere giurisdizionale e non un mero error in procedendo nell’ipotesi in cui il giudice amministrativo svolga la propria cognizione in via incidentale su una questione che ad esso è sottratta, attenendo allo stato delle persone, espressamente riservata alla giurisdizione ordinaria.
5. Occorre, inoltre, porre l’accento sulla peculiarità del procedimento disciplinare avvocati, nella sua articolazione tra fase amministrativa e fase impugnatoria giurisdizionale dinanzi a CNF.
Le funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli degli ordini territoriali, e il relativo procedimento, hanno natura amministrativa e non giurisdizionale, come affermato, tra le altre, da Cass. Sez. Un. n. 6295/2003, Cass. Sez. Un. n. 9097/2005; Cass. Sez. Un n. 20843/2007, Cass. Sez. Un. n. 23593/2020, Cass. Sez. Un. n. 8777/2021. In particolare, è stato sottolineato (Cass. Sez. Un. n. 10688/2002) che i Consigli locali svolgono i relativi compiti nei confronti dei professionisti che formano l’ordine forense, quindi all’interno del gruppo che essi costituiscono e per la tutela della classe professionale, cosicché la funzione disciplinare che a tali organi compete è, dunque, manifestazione di un potere amministrativo attribuito dalla legge per l’attuazione del rapporto che si instaura con l’appartenenza all’ordine, il quale stabilisce comportamenti conformi ai fini che intende perseguire. Queste Sezioni Unite hanno affermato (Cass. Sez.Un. 16993/2017; conf. Cass. Sez.Un. 19030/2021) che anche l’organo distrettuale di disciplina ha una funzione sicuramente amministrativa, ma di natura «giustiziale», anche se non giurisdizionale, caratterizzata da elementi di terzietà valorizzati sia dal peculiare sistema elettorale, sia dalle specifiche garanzie d’incompatibilità, astensione e ricusazione (art. 3 reg. elett.; art. 6-9 reg. disc.). E’ stato evidenziato come, con la Riforma forense, si sia accentuata «la separazione tra il COA, quale organo di vigilanza deontologica e di esecuzione delle sanzioni, e il CDD, quale organo titolare del potere disciplinare» (sent. n. 16993 cit.).
Invece, il Consiglio nazionale forense, allorché pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale, istituito con d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 382 (art.21) e legittimamente tuttora operante, giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione; la disciplina della funzione giurisdizionale del C.N.F., quale giudice terzo, è coperta dall’art. 108, comma 2, e dall’art. 111, comma 2, Cost. (cfr.: Cass., Sez.Un. n. 16993/2017, in motiv.; Cass. Sez. Un. n. 8777/2021).
Come ribadito da questa Corte «a norma degli artt. 24, 31, 35, 37, 50 e 54 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sono devolute alla giurisdizione del Consiglio nazionale forense tutte le controversie relative alla iscrizione, al rifiuto di iscrizione, nonché alla cancellazione dall’albo professionale degli avvocati, così come quelle relative all’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei medesimi» (Cass. Sez.Un.25831/2007) e «A norma dell’art. 36 della l. n. 247 del 2012 – il quale riproduce, nella sostanza, una disposizione già precedentemente in vigore perché contenuta nel r.d.l. n. 1578 del 1933 – spetta al Consiglio Nazionale Forense la competenza a conoscere dei ricorsi avverso i provvedimenti di iscrizione, di diniego di iscrizione e di cancellazione dall’albo professionale degli avvocati, emessi dai Consigli dell’Ordine degli avvocati, così integrandosi una ipotesi di giurisdizione speciale» (Cass. Sez.Un. 34429/2019; conf. Cass. Sez.Un. 16548/2020).
In ordine al controllo rimesso alle Sezioni Unite di questa Corte sulle decisioni del CNF, si è rilevato (Cass. Sez.Un. 15873/2013; conf. Cass.13168/2021) che «Il codice deontologico forense non ha carattere normativo, essendo costituito da un insieme di regole che gli organi di governo degli avvocati si sono date per attuare i valori caratterizzanti la propria professione e garantire la libertà, la sicurezza e la inviolabilità della difesa, con la conseguenza che la violazione di detto codice rileva in sede giurisdizionale solo quando si colleghi all’incompetenza, all’eccesso di potere o alla violazione di legge, cioè ad una delle ragioni per le quali l’art. 56, terzo comma, del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, consente il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, per censurare unicamente un uso del potere disciplinare da parte degli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce»
La materia del risarcimento del danno non rientra nella giurisdizione del CNF, essendo la competenza di detto organo limitata alla cognizione delle impugnazioni delle deliberazioni dei Consigli territoriali e alla valutazione della loro eventuale illegittimità.
6. Altro tema controverso, nel presente giudizio, è la sorte della sanzione disciplinare per effetto della mancata riassunzione del giudizio di rinvio e della conseguente estinzione del giudizio impugnatorio.
6.1. Risulta, dalla sentenza di queste Sezioni Unite n. 16694/2017, che questa Corte accoglieva un vizio motivazionale del ricorso per cassazione avverso la sentenza del CNF, in punto di omessa valutazione di fatti decisivi nella valutazione della gravità della condotta contestata all’avvocatessa e della congruità della sanzione irrogata.
Il giudizio di rinvio dinanzi al CNF, nella specie, non è stato però riassunto.
6.2. L’art.393 c.p.c. stabilisce che, in ipotesi di cassazione con rinvio, sia la mancata sia la tardiva riassunzione rispetto al termine di cui all’art.392 c.p.c. (entro tre mesi dalla pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione) determinano l’estinzione «dell’intero processo», con conseguente caducazione delle sentenze emesse nel corso dello stesso, permanendo solo l’effetto vincolante del principio di dritto, che non viene meno nell’eventuale nuovo processo instaurato con la riproposizione della domanda.
Questa Corte a Sezioni Unite, con la sentenza n. 17938/2008, ha chiarito che la riassunzione del giudizio disciplinare davanti al Consiglio nazionale forense, a seguito di sentenza di cassazione con rinvio deve essere compiuta secondo il disposto dell’art. 392 cod. proc. civ., su impulso della parte processuale, con la conseguenza che l’eventuale riassunzione disposta d’ufficio dal medesimo Consiglio è inammissibile e non impedisce l’estinzione del processo ai sensi dell’art. 393 cod. proc. civ., in quanto il modello di riferimento procedurale è quello civilistico/dispositivo, in assenza, nell’ambito della legge speciale forense, di una specifica disposizione regolante le modalità di proposizione del giudizio di riassunzione e non essendo consentito riconoscere o attribuire al giudice terzo, in via interpretativa, spazi per iniziative di ufficio, della cui legittimità dovrebbe dubitarsi anche in presenza di una espressa norma di legge.
Sugli effetti dell’estinzione del processo sull’atto (amministrativo) costituente l’oggetto dell’impugnazione, questa Corte ha ribadito in varie occasioni, in ambito di contenzioso tributario (strutturato secondo il modello della natura impugnatoria dell’atto impositivo, di natura amministrativa e non processuale), che «l’estinzione del giudizio comporta la definitività dell’avviso di accertamento impugnato, giacchè quest’ultimo non è un atto processuale, ma l’oggetto dell’impugnazione» (Cass. 5044/2008; Cass. 16689/2013; Cass. 556/2016; Cass. 32276/2018; Cass. 25014/2021; Cass. 7444/2022).
6.3. Orbene, la sanzione della radiazione, comminata dal COA Potenza, del 2014, veniva impugnata in sede giurisdizionale dinanzi al Consiglio Nazionale Forense.
Il processo impugnatorio si è estinto, ex art.393 c.p.c., per effetto della mancata riassunzione del giudizio di rinvio, a seguito di cassazione con rinvio, per difetto di motivazione, della decisione del CNF del 2016 (che aveva ritenuto congrua la sanzione irrogata all’avv.Fuccilo), con sentenza di questa Corte a Sez.Unite n. 16694 del 6/7/2017.
L’estinzione, come affermato dal giudice amministrativo, non ha, nella specie, travolto l’atto amministrativo di irrogazione della sanzione, che era l’oggetto del processo impugnatorio estinto.
Nella materia tributaria, si afferma che l’estinzione del giudizio impugnatorio tributario, all’esito della cassazione con rinvio della sentenza di merito e dell’omessa riassunzione del giudizio, comporta la definitività dell’avviso di accertamento che ne costituisce l’oggetto (Cass.3040/2008 e 8765/2008; Cass. 21143/2015; Cass. 569/2016; Cass. 5223/2019).
Tuttavia, nella specie, la questione della definitività della sanzione discipinare, che costituiva l’oggetto dell’impugnazione dinanzi al CNF, non risulta del tutto decisiva, in quanto non potrebbe per ciò solo ritenersi non esercitabile l’azione risarcitoria proposta in via autonoma, avendo la ricorrente prospettato che la propria domanda non è rivolta a travolgere l’atto amministrativo giustiziale ma a conseguire solo l’asserito danno ingiusto conseguente.
L’unico interesse azionato è qui quello risarcitorio, anche se, in effetti, sull’aspetto della intervenuta caducazione della sanzione disciplinare (all’esito della pronuncia di queste Sezioni Unite del 2017) la difesa della ricorrente si è ripetutamente soffermata, nei gradi di merito, come emerge dagli atti.
7. Tanto chiarito, occorre esaminare il preliminare aspetto della ammissibilità del presente ricorso per cassazione.
7.1. Con atto del 1°/3/2018, l’avv.Fuccilo (a distanza di anni dal provvedimento disciplinare di radiazione, adottato dal COA di Melfi, cui poi è subentrato il COA di Potenza, nel luglio 2014, e dopo oltre sette mesi dalla sentenza n. 16694/2017 di questa Corte di Cassazione di cassazione con rinvio di pregressa decisione del CNF del 13/10/2016) ha promosso, dinanzi al giudice amministrativo, un’azione risarcitoria per sentire condannare il COA Potenza al risarcimento del danno patrimoniale e morale patito a seguito dell’ingiusta radiazione subita.
L’atto è stato notificato ai componenti del COA quali controinteressati.
La domanda è stata, in primo e secondo grado, respinta, nel merito, per difetto del presupposto dell’illecita condotta dell’amministrazione resistente, essendosi rilevato che, non essendo stata annullata la sanzione disciplinare ma solo dichiarato estinto il processo avente ad oggetto l’impugnazione di detto atto, il giudice amministrativo non poteva conoscere neppure incidenter tantum dell’illegittimità dedotta della suddetta sanzione.
Il giudice amministrativo non si è pronunciato sulla preliminare eccezione di decadenza, sollevata dal resistente e dai controinteressati, ritenendola assorbita in ragione dell’infondatezza della domanda risarcitoria nel merito, per difetto del presupposto dell’illegittimità del provvedimento lesivo.
7.2. In punto di ammissibilità del ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione ed alla disciplina del relativo riparto, ai sensi dell’art.111, comma ottavo, Cost. (contestata dai controricorrenti anche dinanzi al giudice amministrativo), va ribadito che il ricorso per cassazione contro le sentenze del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art.111, ult.comma, Cost., è ammesso per soli motivi inerenti alla giurisdizione.
La ricorrente, nei due profili dell’unico motivo, denuncia il vizio di rifiuto o diniego di giurisdizione per avere il Consiglio di Stato sia invocato un «aprioristico diniego di tutela nel caso non vi sia stato il previo annullamento dell’atto» amministrativo sia rifiutato di esercitare il correlato potere di disapplicazione dell’atto asseritamente illegittimo, per «carenza di giurisdizione del giudice amministrativo nella materia disciplinare degli avvocati».
7.3. Secondo l’interpretazione costituzionalmente corretta tra i motivi inerenti alla giurisdizione denunciabili in Cassazione vi sono solamente alcuni casi specifici.
Questa Corte a Sezioni Unite ha affermato (Cass., Sez. Un., 13 maggio 2020, n. 8848; Cass., Sez. Un., 19 aprile 2021, n. 10245; Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2021, n. 30112) che l’eccesso di potere denunciabile con ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione o eccesso di potere giurisdizionale (c.d. sconfinamento o invasione), o di rifiuto di giurisdizione (c.d. arretramento), che si verificano, rispettivamente, quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto «in assoluto» di cognizione giurisdizionale, o di difetto relativo di giurisdizione o diniego di giurisdizione, riscontrabili, rispettivamente, quando detto giudice abbia violato i limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale (c.d. invasione), ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici, giudice ordinario o altro giudice speciale (c.d. autolimitazione).
Il difetto relativo di giurisdizione è funzionale al rispetto degli ambiti di giurisdizione tra i vari plessi giudiziari.
Poiché la nozione di eccesso di potere giurisdizionale non ammette letture estensive, neanche limitatamente ai casi di sentenze abnormi, anomale ovvero caratterizzate da uno stravolgimento radicale delle norme di riferimento, il relativo vizio non è configurabile in relazione a denunciate violazioni di legge sostanziale o processuale riguardanti il modo di esercizio della giurisdizione speciale (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2021, n. 2605).
Si è quindi precisato (Cass. Sez.Un. 13976/2017), in ordine alla distinzione tra casi in cui vi è rifiuto della giurisdizione e quelli in cui si riscontra un semplice cattivo esercizio della giurisdizione per errores in iudicando o in procedendo, non sindacabile dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, che «il cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che provveda perché investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione e, tuttavia, nell’esercitarla, applichi regole di giudizio che lo portino a negare tutela alla situazione giuridica azionata, si risolve soltanto nell’ipotetica commissione di un errore all’interno ad essa e, se tale errore porta a negare tutela alla situazione fatta valere, ciò si risolve in una valutazione di infondatezza della richiesta di tutela, ancorché la statuizione, in quanto proveniente dal giudice di ultimo grado della giurisdizione adìta, comporti che la situazione rimanga priva di tutela giurisdizionale».
Ne deriva che integra il vizio di «rifiuto» dell’esercizio della giurisdizione l’affermazione – contro la regula iuris che attribuisce a quel giudice il potere di dicere ius sulla domanda – che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio è, in astratto, priva di tutela, allorché essa sia corredata dal rilievo della estraneità di tale situazione non solo alla propria giurisdizione ma anche a quella di ogni altro giudice; mentre, ove tale affermazione sia accompagnata dal riconoscimento dell’esistenza dell’altrui giurisdizione, ricorre un’ipotesi di diniego della propria giurisdizione, l’uno e l’altro vizio, peraltro, risultando i soli sindacabili dalla Corte di cassazione ex art. 111, ultimo comma, Cost., diversamente dall’erronea negazione, in concreto, della tutela alla situazione soggettiva azionata (Cass., Sez. Un., 6 giugno 2017, n. 13976).
E’ stato poi ribadito (Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2018, n. 32773; Cass., Sez. Un., 9 aprile 2020, n. 7762) che la negazione «in concreto» di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non implica eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, ottavo comma, Cost., atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione.
Ancora, sempre in tema di sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato per motivi inerenti alla giurisdizione, si è precisato (Cass. Sez.Un. n. 24468/2013) che «è configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo solo nel caso di radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia e non già nel caso di mero dissenso del ricorrente nell’interpretazione della legge» (nella specie, il ricorrente, revocato dalla provvisoria aggiudicazione del servizio di riscossione tributi per sua inaffidabilità desumibile da un precedente rapporto, aveva lamentato che il Consiglio di Stato non si fosse limitato alla mera verifica della sufficienza della motivazione di tale revoca, ma ne aveva operato una vera e propria integrazione, così travalicando i confini della giurisdizione operando apprezzamenti discrezionali riservati alla pubblica amministrazione).
E, in linea, si è affermato che «in tema di sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato, la violazione dei limiti della cognizione incidentale stabiliti dall’art. 8 c.p.a. non configura un eccesso di potere giurisdizionale, ma solo un “error in procedendo”, commesso dal giudice amministrativo all’interno della sua giurisdizione» (Cass. sez.Un. n. 7292/2016).
Da ultimo (Cass. Sez.Un. n. 31023/2019), è stato dichiarato inammissibile un ricorso, con il quale si denunciava, anche in relazione agli artt. 30 e 34 c.p.a., l’erroneo rifiuto del Consiglio di stato di esercitare la giurisdizione in riferimento alla domanda di risarcimento del danno da illegittimità del provvedimento amministrativo per effetto della dichiarata inammissibilità dell’appello (una società, esclusa da una gara, aveva impugnato il provvedimento amministrativo di aggiudicazione provvisoria in favore di una concorrente, chiedendo anche i danni, ma, respinte le domande in primo grado, l’appello era dichiarato inammissibile, essendo intervenuta, nelle more del giudizio, l’aggiudicazione definitiva, con conseguente improcedibilità del ricorso contro il provvedimento di esclusione dalla gara o di aggiudicazione provvisoria, non potendo, secondo il Consiglio di stato, quanto alla connessa domanda risarcitoria, trovare applicazione l’art. 34, comma 3, c.p.a. invocato dall’appellante, poiché tale norma era operante solo se sussistevano le «condizioni per poter esaminare nel merito la domanda»). Si è quindi ritenuto che «le censure mosse alla sentenza impugnata, in quanto investenti la portata applicativa degli artt. 30 e 34 c.p.a., siccome ritenuta dal giudice di appello unitamente all’operare di un certo presupposto processuale reputato connesso all’esercizio dell’azione risarcitoria per esercizio illegittimo della funzione pubblica…, si risolvono nella denuncia di errori inerenti ai limiti interni alla giurisdizione, non sindacabili da questa Corte regolatrice».
Affinché si abbia rifiuto o diniego di giurisdizione, occorre, in definitiva, che una domanda sia stata proposta e che il giudice adito, nel declinare la giurisdizione, ritenga che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio sia «in astratto» priva di tutela ovvero riconosca che, sulla stessa, del tutto erroneamente, la competenza giurisdizionale spetti ad un giudice appartenente ad un diverso plesso, cosicché si è ritenuto non prospettabile tale vizio «quando il ricorrente si lamenti di giudizi che avrebbero dovuto essere promossi innanzi al giudice ordinario ma non lo sono stati, o che avrebbero potuto anche essere incardinati di fronte allo stesso giudice speciale, ma in epoca precedente rispetto alla introduzione di quello definito con la sentenza impugnata» (Cass. Sez. Un. 37552/2021).
7.4.Orbene, il proposto ricorso risulta inammissibile, non risolvendosi la decisione impugnata del Consiglio di Stato in un diniego relativo di giurisdizione, per arretramento o meglio autolimitazione, non essendosi affermato, da parte del giudice adito, che la situazione soggettiva fatta valere, con la pretesa risarcitoria proposta in via autonoma dinanzi al giudice amministrativo (non a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento dell’atto, ai sensi del 5° comma dell’art.30 c.p.a.), è, in assoluto, priva di tutela, ma soltanto che, in concreto, nella, del tutto peculiare, vicenda in esame, a fronte della definitività della sanzione disciplinare, ormai cristallizzatasi, la sua legittimità non poteva essere più esaminata, neppure in via incidentale, ai fini risarcitori, dal giudice amministrativo adito, carente di giurisdizione nella materia disciplinare degli avvocati, riservata al giudice speciale dell’ordine professionale, ossia al Consiglio Nazionale Forense, e ciò alla luce di una certa interpretazione dell’art.30, 2° e 3° comma, e 34, comma terzo, c.p.a..
E siccome il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale è circoscritto al controllo dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo, ovvero all’esistenza dei vizi che attengono all’esercizio della funzione giurisdizionale e non al modo del suo esercizio, cui attengono, invece, gli errori «in iudicando» o «in procedendo», il suddetto sindacato non è esperibile per censurare un’omessa pronuncia di merito, ovvero una declaratoria di inammissibilità di una determinata domanda, ove esse discendano non dal diniego di competenza giurisdizionale, ma dall’applicazione di norme processuali ritenute ostative all’esame della domanda medesima (Cass. Sez.Un. n. 10287/2003).
Vero che l’art.30 c.p.a. ha sancito l’abolizione della pregiudiziale amministrativa, prevedendo la possibilità di promuovere autonomamente l’azione di condanna derivante da un provvedimento amministrativo illegittimo, a prescindere quindi dal previo annullamento di quest’ultimo.
Ma, nella specie, non si affermato, nella sentenza impugnata del Consiglio di Stato, che la presente azione risarcitoria non potesse essere proposta, a prescindere dal previo annullamento dell’atto amministrativo e quindi in difetto di operatività del comma 5 dell’art.30 c.p.a., non essendo intervenuta alcuna sentenza di «annullamento» della sanzione disciplinare, ma che la pretesa risarcitoria difettava della dimostrazione di uno dei requisiti dell’illecito, ex art.2043 c.c., l’illegittimità dell’atto amministrativo, la cui valutazione è rimessa al giudice speciale, il Consiglio nazionale Forense, essendo tale sanzione disciplinare ormai divenuta definitiva.
In relazione propriamente a tale peculiare fattispecie, occorsa in concreto, il giudice amministrativo, il quale non ha declinato la propria giurisdizione sulla situazione soggettiva dedotta con l’azione risarcitoria, qualificata dalla ricorrente come relativa a tutela di interesse legittimo, affermava di non potere conoscere, in via incidentale e indiretta, delle sanzioni disciplinari, ove lesive di situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento statale.
Ed anche l’asserita non corretta, implicita, valutazione da parte del Consiglio di Stato dell’ambito della propria cognizione incidentale di cui all’art. 8 c.p.a. (per essere l’oggetto della cognizione incidentale conosciuto dal giudice amministrativo sempre e soltanto in funzione della esplicazione della giurisdizione sul bene della vita dedotto in giudizio in via principale, oggetto della giurisdizione esercitata) concernerebbe sempre e soltanto una norma del procedimento regolatore del processo amministrativo e non la negazione di una sua giurisdizione.
Non si verte, dunque, in ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale per violazione dei limiti esterni della giurisdizione, con riferimento alle regole del processo amministrativo, in quanto non vi è stato un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego, relativo (per essere la cognizione riservata a giudice speciale), di giustizia, ma soltanto essendo stato dedotto un «dissenso del ricorrente nell’interpretazione della legge» (Cass. sez.Un. 24468/2013), e non è stata negata, in astratto, la giurisdizione in ordine alla domanda risarcitoria sulla base dell’erroneo presupposto che essa appartenesse ad altri giudici e che occorresse comunque e sempre il previo esperimento dell’azione di annullamento dell’atto amministrativo giustiziale, essendosi, invece, respinta la domanda per difetto del presupposto dell’illegittimità della sanzione, in quanto divenuta, in concreto, definitiva e non sindacabile dal giudice adito, sulla base di una certa interpretazione delle norme processuali, che rientrano nel modo di esercizio della giurisdizione speciale amministrativa.
E il sindacato di questa Corte si deve fermare, non vertendosi in controllo dell’osservanza dei limiti esterni della giurisdizione .
9. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso.
Ricorrono giusti motivi, attesa la novità e complessità delle questioni di diritto e tutte le peculiarità della vicenda, anche processuali, per compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, si deve dar atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, dichiara inammissibile il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 20 giugno 2023.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 06 febbraio 2023, n. 3599, per SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19103, in tema di riparto di giurisdizione
SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19103, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di eccesso di potere giurisdizionale – SS.UU, 04 luglio 2023, n. 18880
Civile Ord. Sez. U Num. 18880 Anno 2023
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: IOFRIDA GIULIA
Data pubblicazione: 04/07/2023
ORDINANZA
sul ricorso 8640-2022 proposto da:
SOCIETÀ MARLIN S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 269, presso lo studio dell’avvocato ROMANO VACCARELLA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARCELLO BRESCIA MORRA e LODOVICO VISONE;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI CENTOLA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 92, presso lo studio dell’avvocato LEOPOLDO FIORENTINO, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIA ANNUNZIATA;
– controricorrente –
contro
CAPUANO CLAUDIO, CAPUANO GIULIANO, CIMMINO MARIA, COZZOLINO FRANCESCO, DE MARE ANGELA, DI MATOLA LUISA, IAMONE EMILIA, SIBILLO FABIO, DI COSTANZO NICOLA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 149/2022 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 10/01/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2023 dal Consigliere GIULIA IOFRIDA;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale FULVIO TRONCONE, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 149/2022, pubblicata il 10/1/2022, – nei giudizi riuniti promossi dalla Marlin srl nei confronti del Comune di Centola e di alcuni soggetti privati, al fine di sentire annullare la determinazione n. 18079/2017 del Comune resistente, recante diniego di proroga del termine di ultimazione dei lavori richiesto, nel 2015, dalla Marlin, in relazione al titolo edilizio n. 1005 del 28/10/2010, rilasciato dal suddetto Comune per la ristrutturazione ed il recupero di un villaggio turistico preesistente nella costa cilentana, in località Palinuro, frazione del Comune di Centola, declaratoria di decadenza del permesso di costruire e sospensione dell’ulteriore corso dei lavori, nonché l’ordinanza di demolizione n. 1/2018 in data 9/3/2018, con la quale erano stati contestati alla società una serie di abusi edilizi, in primis il «mutamento della destinazione d’uso di tutte le unità abitative , da strutture turistiche ricettive a rotazione d’uso extra alberghiere assentite a civile abitazione», e la nota prot.n. 6184 del 2/8/2018 del S.U.A.P. Cilento di ordine di sospensione delle attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi con riferimento agli interventi di variante in corso d’opera di cui alla SCIA 4640/2018, – ha confermato la decisione di primo grado, che aveva, per quanto in questa sede interessa, respinto tutti i motivi a sostegno dei tre ricorsi riuniti.
In particolare, i giudici d’appello hanno : a) respinto i motivi di gravame concernenti l’illegittimità del diniego di proroga del termine di ultimazione dei lavori, ribadendo la correttezza della decisione del Comune in ordine alla tardività della presentazione dell’istanza di proroga, ex art.15, commi 2 e 3, DPR 380/2001, allorché il titolo edilizio risultava ormai decaduto per intervenuta scadenza del relativo termine di efficacia, dovendosi escludere che i vari fattori invocati dalla Marlin possano avere avuto un’automatica efficacia sospensiva del termine, con conseguente irrilevanza del riferimento, presente nel provvedimento amministrativo impugnato, ai «giorni di pioggia»; b) respinto anche i motivi concernenti le contestazioni edilizie (incluso il mutamento di destinazione d’uso) e l’ordine di demolizione conseguente, rilevando che l’area di interesse ricade in zona «G5 Zona di insediamento extralberghiero» e, in parte, in zona «G 3 Zona di insediamento extra-alberghiero esistente», rispetto alle quali il Comune di Centola ha previsto esclusivamente interventi di riqualificazione con trasformazione di «preesistenze di modesta specializzazione tipo camping in villaggi turistici, così come definiti dalla legge regionale n. 13/93», e che il decreto dirigenziale della Giunta Regionale Campania n. 10/2013, recante la rimozione del vincolo di destinazione per la struttura turistico-alberghiera de qua, che consentiva il mutamento di destinazione d’uso in residenziale, è stato dichiarato inutiliter data con delibera del consiglio comunale n. 43/2013 (oggetto di impugnazione con altro ricorso respinto dal TAR con decisione non impugnata), cosicché l’unica destinazione dell’area è quella originaria per villaggi turistici e «anche a voler aderire alla tesi della destinazione a casa vacanze, nel caso di specie» si finirebbe per esorbitare dalla univoca destinazione d’uso.
Avverso la suddetta pronuncia, la Società Marlin srl propone ricorso per cassazione, notificato tra il 21/3/2022 e il 29/3/2022, affidato a due motivi, nei confronti di Comune di Centola, Claudio Capuano, Giuliano Capuano, Maria Cimmino, Francesco Cozzolino, Angela De Mare , Luisa Di Matola, Emilia Iamone, Fabio Sibilio e Nicola Di Costanzo (che non svolgono difese).
Il P.G. ha depositato conclusioni scritte, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La ricorrente Marlin lamenta: a) con il primo motivo, la violazione degli artt.111, comma 8°, Cost., 37 c.p.c. e 34, comma 2, c.p.a., per avere il Consiglio di Stato esorbitato dai suoi poteri giurisdizionali ed esercitato quelli dell’Amministrazione attiva; b) con il secondo motivo, la violazione dell’art.118, comma 8°, Cost., in relazione all’art.37 c.p.c. ed al principio di soggezione del giudice alla legge di cui all’art.101, comma 2°, Cost.
Si denuncia che il Consiglio di Stato avrebbe «travalicato i limiti della propria giurisdizione», avendo sostanzialmente effettuato la valutazione di competenza del Comune, ponendo in essere «la tipica funzione di amministrazione attiva».
Invero, a fronte di doglianze volte ad evidenziare (cfr. pag. 5-6 del ricorso) che il T.A.R. Campania aveva sostituito integralmente la motivazione addotta dall’amministrazione in punto di proroga e che era andato oltre i limiti del riscontro della legittimità del provvedimento impugnato, essendosi sostituito all’amministrazione anche sul diverso tema – totalmente estraneo al provvedimento impugnato – di ciò che la legge regionale Campania n. 17/01 consente di realizzare in zona G3 e GS del Comune di Centola, il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile la prima censura, per tardività della deduzione (in quanto veicolata non con il ricorso, ma con successiva memoria) che il termine di validità del PAV era stato prorogato di tre anni, con la legge 9 agosto 2013, n. 98, di conversione del D.L. 21 giugno 2013, n. 69, (art. 30, comma 3bis), e ha ritenuto infondata la censura concernente il mutamento di destinazione sul presupposto che la destinazione prescelta sia stata esclusivamente quella dei «villaggi turistici», con la conseguenza che, anche volendo aderire alla tesi della destinazione a «case vacanze», nel caso di specie si finisce per esorbitare dalla univoca destinazione d’uso.
Secondo la ricorrente, si sarebbe dunque superato il confine tra amministrazione attiva e giurisdizione di legittimità, superamento che si risolve in radicale difetto di giurisdizione per indebita invasione del campo riservato all’Amministrazione attiva, nella parte in cui, il T.A.R., prima, il Consiglio di Stato, poi, preso atto dell’inconsistenza della ragione addotta dal Comune a fondamento dell’ordine di demolizione, hanno ritenuto di poter sostituire a quella ragione una (totalmente) diversa giustificazione, e cioè che in quella «zona» erano consentite non tutte le opere definite «strutture turistiche extralberghiere» dalla legge, ma solo i «villaggi turistici». In seconda battuta, si afferma che il Consiglio di Stato si sarebbe sostituito all’amministrazione laddove ha espresso «la necessità che ogni sospensione -anche se disposta con provvedimento generale, come l’ordinanza sindacale che vieti ogni lavoro edile nei mesi di luglio ed agosto- sia formalizzata in un apposito provvedimento “ricognitivo“».
Con la memoria, la ricorrente ha depositato successiva sentenza del Consiglio di Stato n. 8270/2022 del 26/9/2022, con la quale il giudice amministrativo ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione proposto dalla società Marlin (fondato sull’asserito errore di fatto posto in essere dal Consiglio di Stato in punto di proroga ex lege, biennale e non triennale, del termine di ultimazione dei lavori) avverso la sentenza n. 149/2022, qui impugnata per motivi di giurisdizione.
2. Il ricorso è inammissibile.
L’art. 111, ult. comma, Cost., dispone che il sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è ammesso «per i soli motivi inerenti alla giurisdizione», ripetendo sostanzialmente la formula del primo comma, n. 1, dell’art. 360 e del primo comma dell’art. 362 cod. proc. civ., cui si sono aggiunti, più di recente, l’art. 110 cod. proc. amm. e l’art. 207 cod. giust. cont. e l’aggettivo «soli» sta chiaramente ad indicare il carattere limitativo della previsione costituzionale: limitativo, cioè, rispetto all’ambito del sindacato esercitabile dalla Corte di cassazione sulle sentenze dei giudici speciali in genere, consentito invece per qualsiasi «violazione di legge» dal penultimo comma del medesimo art. 111 Cost.
Nella giurisprudenza di queste Sezioni unite è costante l’affermazione che il sindacato da esse esercitato sulle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti ha per oggetto l’osservanza dei soli «limiti esterni» della giurisdizione (a fronte di pronuncia su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale), non già dei suoi limiti interni, che ricomprendono, in genere, gli errori «in iudicando» o «in procedendo», ossia le violazioni delle norme sostanziali o processuali, e che pertanto non costituiscono vizio attinente alla giurisdizione (tra i numerosissimi precedenti Cass. Sez. Un. 12/06/1999, n. 325; 04/11/2002, n. 15438; 19/02/2004, n. 3349), ancorché si siano concretati in violazioni dei principi del giusto processo consacrati nel novellato art. 111 Cost.
In particolare, alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale n. 6/2018 (ove si è affrontato il tema in modo approfondito, superando radicalmente le precedenti oscillazioni giurisprudenziali e disattendendo la tesi, emersa in alcune pronunce di questa Corte, che propugnava un certo ampliamento del concetto di «motivi inerenti alla giurisdizione», attraverso una interpretazione che estendeva il perimetro del controllo della Cassazione in ulteriori ambiti, variamente definiti dalle singole pronunce), volta ad identificare gli ambiti dei poteri attribuiti alle diverse giurisdizioni dalla Costituzione, nonché i presupposti e i limiti del ricorso ex art. 111, comma 8, Cost., «il sindacato della Corte di cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione concerne le ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione per «invasione» o «sconfinamento» nella sfera riservata ad altro potere dello Stato ovvero per «arretramento» rispetto ad una materia che può formare oggetto di cognizione giurisdizionale, nonché le ipotesi di difetto relativo di giurisdizione, le quali ricorrono quando la Corte dei Conti o il Consiglio di Stato affermino la propria giurisdizione su materia attribuita ad altro giudice o la neghino sull’erroneo presupposto di quell’attribuzione. L’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore è configurabile solo allorché il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete, e non invece quando si sia limitato al compito interpretativo che gli è proprio, anche se tale attività ermeneutica abbia dato luogo ad un provvedimento “abnorme o anomalo” ovvero abbia comportato uno “stravolgimento” delle “norme di riferimento”, atteso che in questi casi può profilarsi, eventualmente, un “error in iudicando”, ma non una violazione dei limiti esterni della giurisdizione» (Cass. Sez. Un. n. 8311/2019).
Il controllo del limite esterno della giurisdizione – che l’art. 111, comma 8, Cost., affida alla Corte di cassazione – non include quindi il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori «in iudicando» o «in procedendo», senza che rilevi la gravità o intensità del presunto errore di interpretazione, il quale rimane confinato entro i limiti interni della giurisdizione amministrativa, considerato che l’interpretazione delle norme costituisce il «proprium» distintivo dell’attività giurisdizionale (Cass. Sez. Un. n. 27770/2020; Cass. Sez. Un. n. 29653/2020; Cass. Sez. Un. n. 19244/2021).
Questa Corte ha, di recente (Cass. Sez. Unite, Ord., 30 novembre 2021, n. 37552), chiarito ulteriormente: « [è] naturale che qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme in cui il giudice possa incorrere nell’esercizio della funzione giurisdizionale, ove incida sull’esito della decisione, può essere letta in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira, perché la tutela si realizza compiutamente se il giudice interpreta ed applica in modo corretto le norme destinate a regolare il caso sottoposto al suo esame. Non per questo, però, ogni errore di giudizio o di attività processuale imputabile al giudice è qualificabile come eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte di cassazione, quale risulta delineato dall’art. 111 Cost., comma 8, e dall’art. 362 c.p.c., e art. 207 del codice di giustizia contabile. Ne risulterebbe altrimenti del tutto obliterata la distinzione tra limiti interni ed esterni della giurisdizione e il sindacato di questa Corte sulle sentenze del giudice speciale verrebbe di fatto ad avere una latitudine non dissimile da quella che ha sui provvedimenti del giudice ordinario: ciò che la norma costituzionale e le disposizioni processuali dianzi richiamate non sembrano invece consentire (Cass., Sez. Un., 14 settembre 2020, n. 19085). Si è ribadito (Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2018, n. 32773; Cass., Sez. Un., 9 aprile 2020, n. 7762) che la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non concreta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111 Cost., comma 8, atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione».
Si deve poi ricordare che «l’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 3, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito, è configurabile solo quando l’indagine svolta non sia rimasta nei limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, ma sia stata strumentale ad una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, esprima una volontà dell’organo giudicante che si sostituisce a quella dell’amministrazione. Il che vuoi dire che il giudice, procedendo ad un sindacato di merito, emette una pronunzia autoesecutiva, intendendosi come tale quella che abbia il contenuto sostanziale e l’esecutorietà stessa del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa» (così, in motivazione, si veda Cass., Sez. Un., n. 774 del 2014; Cass., Sez. Un., n. 7157 del 2017); Cass. Sez. Un. n. 21300/2017).
Si è poi ritenuto (Cass. Sez.Un. 5951/2022) che «Non è configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile con il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, se il giudice amministrativo non abbia violato i cosiddetti limiti esterni della propria giurisdizione, e, nello specifico, laddove, senza sostituirsi all’autorità amministrativa mediante l’integrazione ex post della motivazione dell’atto impugnato, si sia limitato a svolgere l’attività interpretativa e valutativa connaturata all’esercizio della giurisdizione (rispetto alla quale non sono sindacabili avanti alle Sezioni Unite eventuali errores in iudicando o in procedendo)».
Nella specie, Viene denunciato l’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera riservata al merito della P.A., ma esso «è configurabile quando l’indagine svolta dal giudice amministrativo ecceda i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del merito, istituzionalmente riservato alla pubblica amministrazione, compia una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, evidenzi l’intento dell’organo giudicante di sostituire la propria volontà a quella dell’amministrazione mediante una pronuncia che, in quanto espressiva di un sindacato di merito ed avente il contenuto sostanziale e l’esecutorietà propria del provvedimento sostituito, non lasci spazio ad ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa» (per tutte, tra le tante, Sez. Un. n. 12155 del 2021, nonché Sez.Un. n. 2605 del 2021 e Sez. Un. 9369/2023).
Invero, la prospettazione, ribadita in memoria, che, nel sindacare la legittimità dei provvedimenti amministrativi, il Consiglio di Stato abbia proceduto ad una integrazione della motivazione del provvedimento impugnato si risolve nella denuncia non già di una violazione dei limiti esterni della giurisdizione da parte di quel giudice per invasione della sfera della pubblica amministrazione, bensì nella denuncia di un error in iudicando e, dunque, di un errore commesso da quello stesso giudice all’interno della sua giurisdizione.
Nella specie, il lamentato sconfinamento non ricorre, in quanto la domanda di annullamento degli atti amministrativi non è stata respinta sulla base di ragioni diverse da quelle dedotte nella motivazione dei diversi provvedimenti impugnati.
Si è semmai di fronte, come anche rilevato dal P.G., da un lato, al contempo alla denuncia di un vizio di minuspetizione (nella parte in cui il giudice amministrativo ha sostenuto che l’appaltante avrebbe introdotto inammissibilmente una nuova censura con memoria del 20 settembre 2021, basata sulla proroga legislativa del PAUJI”) e di ultrapetizione o di extrapetizione (per aver lo stesso escluso l’illegittimità del provvedimento impugnato sulla base di rationes decidendi che non trovano fondamento nell’impianto motivazionale dell’atto amministrativo) ossia a un error in procedendo, riconducibile alla violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e, per altro verso, a un error in judicando, quale violazione della normativa sostanziale (quale può essere l’affermata necessità che ogni sospensione sia formalizzata in un apposito provvedimento «ricognitivo»), senza che però il tutto renda configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale, stante l’assenza nel caso di specie del radicale stravolgimento delle norme di rito che implichi un evidente diniego di giustizia, né essendo ipotizzabile una diretta e concreta valutazione «dell’opportunità e convenienza dell’atto» tale da dar luogo a un provvedimento abnorme o anomalo ovvero da determinare uno stravolgimento delle norme di riferimento, con conseguente violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale (v. Cass. Sez. Un. nn. 36899 del 2021 e 36593 del 2021).
Si tratta dunque di attività che costituisce il proprium della funzione giurisdizionale, non di un’attività riservata alla P.A. (S.U. n. 12155 del 2021), rientrante nell’ambito della giurisdizione di legittimità ed inerente alla funzione interpretativa da questa svolta, così come è interna a questa l’accertamento della situazione di fatto e la sua riconducibilità alla previsione normativa, per cui eventuali errori commessi nello svolgerla non ridondano in un vizio qui rilevante, a prescindere dalla (eventuale) gravità degli stessi (Sez. Un. n. 31023 del 2019; n. 31103 del 2018), restando esclusa, in radice, la possibilità di procedere ad un controllo della correttezza del giudizio di sussunzione e dell’interpretazione offerta dal giudice amministrativo, che non si sostanzi in un atto abnorme.
3. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, si deve dar atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 6.000,00, a titolo di compensi, oltre € 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfettario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso, a Roma, nella camera di consiglio del 20 giugno 2023
Allegati:
SS.UU, 04 luglio 2023, n. 18880, in tema di eccesso di potere giurisdizionale
In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 04 luglio 2023, n. 18847
Cass. civ. Sez. Unite, Ord., (ud. 20/06/2023) 04-07-2023, n. 18847
COMPETENZA E GIURISDIZIONE CIVILE
Regolamento di giurisdizione
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Primo Presidente f.f. –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –
Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27376-2022 proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOVANNI BATTISTA MARTINI 13, presso lo studio dell’avvocato ANDREA DI PORTO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati SIMONE CONTI e FRANCESCO NEBOLI;
– ricorrente –
e B.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FRATTINA 75, presso lo studio dell’avvocato MICHELA CORIGLIANO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VIVIAN JULIA DONATH;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 51724/2021 del TRIBUNALE di ROMA. Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2023 dal Consigliere ORONZO DE MASI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale MAURO VITIELLO, il quale chiede che la Corte di Cassazione, in camera di consiglio, accolga il ricorso ed affermi la giurisdizione del Giudice italiano.
Svolgimento del processo
CHE:
A.A., dottore commercialista e revisore legale, propone ricorso per regolamento di giurisdizione in relazione alla causa pendente avanti al Tribunale di Roma (RGN. 51724/2021), promossa con atto di citazione notificato il 27/8/2021, al suo indirizzo estero di Londra, ad B.B., la quale resiste con controricorso.
Il A.A. ha agito in giudizio “per ottenere il pagamento delle prestazioni professionali fornite (…) in esecuzione di un apposito mandato” a favore della predetta cliente e consistite “nella consulenza patrimoniale, fiscale e societaria”.
Riferisce che “il conferimento dell’incarico professionale (…) è avvenuto a Roma”, nel 2014, e che la B.B. è una imprenditrice, la quale opera “attraverso la società Immobiliare Arena Blu Srl (…) di cui detiene l’intera partecipazione (…) la società B.B. M.D. (..) di cui detiene sempre l’intera partecipazione sociale” e, dunque, con affari e interessi “concentrati in Italia, e, in particolare, a Roma (..) sia nel campo immobiliare sia in quello farmaceutico”, per cui “le prestazioni richieste al Dott. A.A. erano sostanzialmente finalizzate a supportare l’attività imprenditoriale svolta dalla Dott.ssa B.B.”.
Evidenzia che “proprio in virtù del luogo di residenza, del luogo di svolgimento dell’attività imprenditoriale, nonchè della sede delle società della Dott.ssa B.B. (la stessa) ha dunque rivolto la propria attività professionale verso l’Italia e, nello specifico, verso Roma”.
La B.B., sin dal suo primo atto difensivo, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano, sostenendo che “aveva infatti (ed ha tuttora) non soltanto il domicilio sul suolo britannico (ma anche la residenza) precisamente “a (Omissis) (sin dal novembre 2019), come risulta dal relativo certificato AIRE”.
Convenuta in giudizio ha, peraltro, negato la legittimazione processuale del A.A., assumendo di non aver intrattenuto un rapporto contrattuale diretto con il professionista, il quale come legale rappresentante della BBS Finance Srl aveva stipulato un contratto di prestazione di servizi con la Consulting & Legal Services Scarl per rendere, attraverso la società, una serie di attività in suo favore.
Ha, poi, dedotto di non aver “rivestito la qualifica di “professionista”” e negato che il A.A. avesse svolto prestazioni “finalizzate a supportare l’attività imprenditoriale di B.B.”, essendo semmai lei stessa a rivestire “esclusivamente quella di “consumatore””, donde la conseguente applicazione della
tutela privilegiata di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005 e l’attrazione della controversia innanzi al giudice del luogo di residenza o domicilio del consumatore medesimo.
La controricorrente riferisce che l’unico contratto venuto in essere è quello da lei “sottoscritto in data 3 novembre 2014” con la Consulting & Legal Services Scarl , riferibile alla “proposta di gestione (Omissis) “per attività servente e di organizzazione fiscale previdenziale per le competenze delle attività professionali” per la durata di un anno”.
Ribadisce di essere rimasta estranea al contratto che, in pari data, “la Consulting & Legal Services Scarl ha sottoscritto con la BBS Srl , di cui Dottor A.A. era in allora il legale rappresentante, un Contratto di prestazione di servizi affinchè prestasse “anche con l’ausilio dei propri collaboratori – per conto del Cliente (-) le attività come di seguito elencate nei confronti della Dottoressa B.B., nata a (Omissis), codice fiscale (Omissis) (…)”.
Alla società Consulting & Legal Services, sempre secondo la controricorrente, spettava di svolgere “attività servente e di organizzazione per la prestazione di consulenza professionale che il commercialista si era impegnato a svolgere non in proprio ma attraverso la propria società e con la propria struttura”.
Motivi della decisione
CHE:
Con il primo motivo del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, il A.A. “assume la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 3, comma 1, nonchè alla luce della disciplina del Codice del Consumo, deducendo che la B.B. “ha sì trasferito la propria residenza a Londra, ma ha mantenuto il proprio domicilio a Roma”, atteso che, ai sensi dell’art. 43 c.c., per domicilio deve intendersi il luogo in cui la persona “ha stabilito la sede principale dei suoi affari” e deduce che l’attività imprenditoriale della stessa viene svolta in Italia, precisamente a Roma, “attraverso due società delle quali detiene l’intero capitale sociale”. Deduce, altresì, che ove anche si volesse attribuire alla B.B. la qualifica di “consumatore”, ai sensi dell’art. 66 bis del Codice del Consumo, “la competenza territoriale inderogabile sarebbe comunque “del giudice del luogo di domicilio del consumatore””.
Con il secondo motivo deduce, in via subordinata, la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano, ai sensi dalla L. n. 218 del 1995, art. 3, comma 2, secondo i criteri di cui al Reg. UE n. 1215 del 2012 (c.d. “Bruxelles I bis”), in quanto anche se la B.B. avesse effettivamente trasferito a Londra non solo la residenza ma anche il domicilio, troverebbero applicazione i “criteri speciali” di collegamento previsti dal richiamato Regolamento UE, trovandosi la parte convenuta “nel territorio di uno Stato non vincolato dal medesimo Regolamento (come è il Regno Unito a seguito della Brexit”. Deduce, altresì, che discutendosi di un contratto di prestazione di servizi, il criterio che viene in rilievo è quello previsto dall’art. 7 del Regolamento “Bruxelles I bis”, il quale radica la giurisdizione nel Paese “in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto esser prestati in base al contratto””.
Con il terzo motivo deduce “l’inapplicabilità, in ogni caso, della disciplina del foro esclusivo del consumatore, in quanto la B.B. “non può essere considerata “consumatore” bensì “professionista””, essendo il dedotto contratto “per la gestione patrimoniale, fiscale e societaria” funzionalmente collegato con la gestione di partecipazioni societarie (in Immobiliare Arena Blu Srl e in B.B. M.D. Srl ) e, dunque, destinato a soddisfare non esigenze della vita quotidiana della persona fisica, bensì l’attività imprenditoriale alla B.B. riconducibile.
CONSIDERATO CHE:
Il ricorso è ammissibile.
Avuto riguardo all’udienza di trattazione della causa innanzi al giudice monocratico, ex art. 281 sexies c.p.c., va rilevato che la preclusione all’esperibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, ai sensi dell’art. 41 c.p.c., per effetto di una decisione nel merito in primo grado, si verifica dal momento in cui la causa viene trattenuta per la sentenza, momento che, segnando il radicamento dei poteri decisori del giudice, osta a che il regolamento medesimo possa assolvere lo scopo di una sollecita definizione della questione di giurisdizione investendone in via preventiva la Suprema Corte (Cass. Sez. Un., n. 8076/2012; n. 25256/2009).
Nella specie, il ricorso ex art. 41 c.p.c., risulta notificato in data 18/11/2022, mentre l’udienza per la discussione ex art. 281 sexies c.p.c., era fissata per il giorno 29/11/2022.
I motivi del regolamento preventivo di giurisdizione sono connessi e possono essere esaminati in modo congiunto.
Deve essere dichiarata la giurisdizione del giudice italiano da questa Corte, conformemente a quanto osservato dal P.G. nelle rassegnate conclusioni.
Il giudizio del quale si discute è iniziato il 27/8/2021, innanzi al Tribunale Civile di Roma.
Secondo l’esposizione dei fatti contenuta nell’atto di citazione, la vicenda da cui trae origine la controversia riguarda il preteso affidamento, da parte della B.B. al A.A., dell’attività di “consulenza per la gestione patrimoniale e societaria”, come da formale “mandato” conferito al professionista, attività da rendere nell’ambito di un rapporto di prestazione d’opera intellettuale, sensi dell’art. 2230 e segg. c.c., asseritamente iniziato nel novembre 2014 e conclusosi due anni e mezzo dopo, allorquando, a causa dell’inadempienza contrattuale della cliente ed a seguito dell’intervenuto recesso del professionista, è stata giudizialmente domandata la condanna della B.B. al pagamento dei corrispettivi medio tempore maturati.
La questione di giurisdizione deve essere risolta in base alla L. 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).
Dispone l’art. 3 della legge citata che: “1. La giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell’art. 77 c.p.c. e negli altri casi in cui è prevista dalla legge. 2. La giurisdizione sussiste inoltre in base ai criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27 settembre 1968, resi esecutivi con la L. 21 giugno 1971, n. 804, e successive modificazioni in vigore per l’Italia, anche allorchè il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, quando si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione. Rispetto alle altre materie la giurisdizione sussiste anche in base ai criteri stabiliti per la competenza per territorio”.
Il criterio di giurisdizione previsto dal comma 1 della norma, abbandonato il previgente criterio della cittadinanza italiana del convenuto, attribuisce rilievo al fatto di trovarsi in Italia il domicilio o la residenza o, implicitamente, la sede per le persone giuridiche, o la presenza di un rappresentante autorizzato a stare in giudizio.
Si è in tal modo privilegiato, ai fini della giurisdizione, il radicamento effettivo in Italia della persona del convenuto, sia esso cittadino o straniero, avuto riguardo ai rapporti giuridici che a lui o a lei fanno capo.
Ddell’art. 3, il comma 2 della legge citata contempla alcuni criteri speciali e, in forza del rimando della norma nazionale alla Convenzione di Bruxelles del 1968 e successive modificazioni, in vigore per l’Italia, riguardante le controversie in materia civile e commerciale, cui è seguito il Regolamento Bruxelles I (n. 44 del 2001), sostitutivo della predetta convenzione, e Bruxelles I-bis (n. 1215 del 2012), stabilisce che la giurisdizione italiana sussiste, oltre che nei casi di cui al comma 1, collegati, appunto, al domicilio o alla residenza in Italia del convenuto, o all’esistenza di un suo rappresentante ex art. 77 c.p.c., anche allorchè il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, ove si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione.
Si è in tal modo data rilevanza, nelle materie considerate alle sezioni 2, 3 e 4 del Titolo II della Convenzione (competenze speciali in materia di obbligazioni contrattuali ed extracontrattuali), alle stesse circostanze fattuali, “anche allorchè il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente”, e cioè sia nel caso in cui si applichi, sia nel caso in cui non si applichi la Convenzione di Bruxelles quale fonte internazionale vincolante.
I criteri sopra menzionati sono stati fatti propri dal diritto interno italiano per le materie in cui si applica la Convenzione e valgono nei confronti di tutti i soggetti convenuti, come se fossero stati da esso direttamente previsti, donde anche il potere esclusivo del giudice nazionale di interpretare il diritto interno e di individuare nell’ordinamento processuale la disciplina del caso concreto.
Al presente giudizio, iniziato dopo il 31/12/2020, non è applicabile il Regolamento UE n. 1215 del 2012, ai sensi dell’art. 67 del Brexit Withdrawal Agreement, perchè il Regno Unito non è Paese membro dell’Unione Europea ed alla suddetta data si è concluso il periodo di transizione previsto dall’art. 126 dell’Accordo sul recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall’Unione Europea e dalla Comunità Europea dell’energia atomica accordo (cosiddetto Brexit Withdrawal Agreement).
Infatti, l’art. 67, comma 1, dell’accordo citato, dispone: “Nel Regno Unito, nonchè negli Stati membri in situazioni che coinvolgano il Regno Unito, ai procedimenti avviati prima della fine del periodo di transizione e ai procedimenti o alle cause connesse ai sensi degli artt. 29, 30 e 31 del regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio (73), dell’art. 19 del regolamento (CE) n. 2201/2003 o degli artt. 12 e 13 del regolamento (CE) n. 4/2009 del Consiglio (74), si applicano gli atti o le disposizioni seguenti: a) le disposizioni del regolamento (UE) n. 1215/2012 riguardanti la competenza giurisdizionale….”.
Le Sezioni Unite di questa Corte (n. 31963/2021) hanno avuto modo di precisare, in tema di giurisdizione del giudice italiano, che nei procedimenti avviati prima della fine del periodo di transizione – conclusosi il 31/12/2020 – previsto dall’art. 126 del Brexit Withdrawal Agreement (approvato il 17/10/2019 ed entrato in vigore l’1/2/2020) trova applicazione il Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, ai sensi dell’art. 67 del citato accordo, ancorchè il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord non sia più un Paese membro dell’Unione Europea.
Ebbene, dal venir meno della fonte comunitaria nei rapporti con il Regno Unito e dalla non applicabilità diretta della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, non avendo il Regno Unito aderito a tale convenzione internazionale, consegue che la questione della competenza giurisdizionale debba essere necessariamente risolta sulla base delle norme di diritto processuale civile internazionale del Paese in cui si intende avviare la causa (art. 4 della Convenzione di Bruxelles e art. 6 del Regolamento UE n. 1215 del 2012).
Operano, quindi, i criteri di collegamento all’uopo stabiliti dal diritto interno ed, innanzitutto, quelli di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 3, comma 1, che per il radicamento della giurisdizione attribuisce rilievo, tra l’altro, alternativamente, al domicilio e alla residenza del convenuto in Italia.
Parte ricorrente assume, al riguardo, che la B.B., cittadina italiana, a prescindere dalle risultanze dell’iscrizione nell’anagrafe dei residenti all’estero (AIRE), pur risiedendo anagraficamente in Gran Bretagna, ha di fatto mantenuto in Italia il suo domicilio, inteso come sede principale di affari ed interessi economici e, segnatamente, a Roma, dove hanno sede le due società, interamente possedute, la Immobiliare Arena Blu Srl e la B.B. M.D. Srl , attraverso le quali gestisce immobili di proprietà, svolge attività di acquisto, vendita, permuta e locazione degli stessi, nonchè produce e commercializza prodotti farmaceutici, parafarmaceutici e medicinali e gestisce marchi e brevetti di specialità medicinali.
Com’è noto, l’identificazione del giudice cui spetta la giurisdizione in ordine ad una controversia caratterizzata da elementi di estraneità all’ordinamento italiano integra questione di carattere processuale, in relazione alla quale la Suprema Corte, chiamata ad operare come giudice anche del fatto, può procedere non solo alla verifica della corretta individuazione ed interpretazione della disciplina applicabile, ma anche alla ricostruzione della vicenda sottoposta al suo esame, nei limiti in cui ciò risulti necessario per l’applicazione della predetta disciplina (Cass. Sez. Un., n. 156/2020; n. 1717/2020; n. 5830/2022).
Per affermare in base allo stato di fatto che sussiste la giurisdizione italiana e non quella del giudice straniero, detto stato di fatto deve emergere dalle risultanze delle prove raccolte, in base alle regole probatorie del processo, e non si può giudicare in base ad una mera ipotesi non accertata (Cass., Sez. Un, n. 103/1954; Cass. n. 2004/1974).
La giurisdizione, inoltre, si determina sulla base della domanda, individuata con riferimento al petitum sostanziale, identificato non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto della causa petendi, vale a dire della effettiva consistenza della situazione soggettiva giuridicamente tutelata dedotta in giudizio, identificata con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico di cui essi sono rappresentazione.
Occorre, dunque, guardare al petitum sostanziale, in funzione della causa petendi, rappresentata dalla “intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio”, che il giudice deve accertare “con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione” (da ultimo, Cass. Sez. Un., n. 6001/2021).
Tanto premesso, corre l’obbligo di evidenziare che le deduzioni dell’odierno ricorrente volte a superare il dato oggettivo ricavabile dalle risultanze probatorie documentali, costituito dal certificato di residenza per gli italiani residenti all’estero rilasciato dal Comune di Roma e prodotto dalla B.B., non appaiono corroborate da evenienze conclamanti un luogo di domicilio diverso da quello coincidente con la residenza anagrafica (art. 43 c.c.).
Le circostanze allegate (plurime proprietà immobiliari in Italia, detenzione dell’intero capitale delle società di diritto italiano Immobiliare Arena Blu e B.B. M.D. anche se amministrate da altri, titolarità in capo alla B.B. di marchi e domande di brevetto, con versamento in Italia delle relative imposte) non appaiono dotate di specifica attitudine dimostrativa e risulta incerto l’esito della valutazione di detti elementi anche in termini di prova per presunzioni.
Ne discende, sul piano della prova, la decisività del documento che, pur avendo valore presuntivo certamente non assoluto, indica in Londra il luogo di residenza (anche fiscale) della convenuta, sin dal 6/11/2019, luogo nel quale, peraltro, si è perfezionata la notifica (“presso il Consolato Italiano”) dell’atto introduttivo del giudizio.
In difetto di prova contraria, come di regola avviene per le presunzioni, non v’è, quindi, ragione per escludere la coincidenza del domicilio con il luogo di residenza della parte convenuta.
Vanno, allora, scrutinati i criteri di cui alla L. n. 218 del 1992, art. 3, comma 2 che “estendono” la giurisdizione italiana, nelle materie civili e commerciali considerate alle sezioni 2, 3 e 4 del Titolo II della Convenzione di Bruxelles, nell’ipotesi – che qui ricorre – del convenuto non domiciliato nel territorio di uno degli Stati aderenti (Cass. Sez. Un. 18299/2021 e n. 7065/2023).
Sotto tale profilo, è ininfluente la mancata appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea, considerato che le norme convenzionali sono destinate a rilevare, nel caso di specie, come diritto interno.
Orbene, la Convenzione, Sezione 2 (Competenze speciali), art. 5, prevede, tra l’altro, che “Il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente: 1) in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita; in materia di contratto individuale di lavoro, il luogo è quello in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività; qualora il lavoratore non svolga abitualmente la propria attività in un solo paese, il datore di lavoro può essere citato dinanzi al giudice del luogo in cui è situato o era situato lo stabilimento presso il quale è stato assunto;”.
L’odierno ricorrente, “dottore commercialista e revisore contabile”, ha convenuto in giudizio, innanzi al Tribunale Ordinario di Roma, la B.B., cittadina italiana residente all’estero, per sentire: “I) accertare e dichiarare il diritto del Dott. A.A. a percepire e dalla Dott.ssa B.B. il compenso maturato per lo svolgimento dell’attività professionale di cui all’incarico conferito il 3 novembre 2014, per le ragioni di cui (…). II) per l’effetto, condannare la Dott.ssa B.B. a pagare al Dott. A.A. la somma di Euro 6.227.799,00 o quella maggiore o minore che sarà ritenuta di giustizia, oltre interessi ex D.Lgs. n. 231 del 2001 e oltre accessori di legge. Con vittoria delle spese di lite, oltre accessori di legge” (v. conclusioni rassegnate nell’atto di citazione).
Ed allora, la giurisdizione sulla domanda proposta dal professionista, con studio in “Brescia e Milano”, e con “uffici di “rappresentanza” in Roma e Bruxelles”, spetta, in base all’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1998, richiamata dalla L. n. 218 del 1995, art. 3 al giudice del luogo dove la prestazione è stata eseguita, perchè l’attività intellettuale richiesta per l’esecuzione del contratto di prestazione d’opera, secondo quanto allegato e dedotto dall’attore, venne posta in essere “in prima persona dal Dott. A.A.”, ovvero in un ambito territoriale determinato coincidente con quello ricavabile dalla diversa narrazione della B.B., la quale riferisce l’attività mirante alla cura dei propri interessi patrimoniali in Italia, alla Consulting & Legal Services Scarl e, mediatamente, alla BBS Finance Srl , rientrando il A.A. tra i “collaboratori” ausilianti quest’ultima, autorizzati ad operare nell’interesse della cliente, società entrambe con sede a Roma e pacificamente operanti in Italia, sulla base di incarico conferito anch’esso (a Roma) in Italia.
Del resto, il rapporto contrattuale dedotto in giudizio, secondo la narrativa attorea, aveva tratto origine da due incontri avvenuti a Roma, il secondo dei quali conclusosi, appunto, con la formalizzazione, da parte della B.B., dello “incarico di gestire, sia dal punto di vista fiscale che da quello societario, il proprio patrimonio”, in Italia, e si era estrinsecato in molteplici attività “di natura professionale altamente qualificata”, entrando in crisi a seguito “del contenzioso dalla stessa (B.B.) instaurato nei confronti della sorella Paola per la successione ereditaria del padre”, concludendosi, infine, con la comunicazione di recesso del professionista (v. atto di citazione).
Il criterio appropriato per individuare il giudice avente la giurisdizione sulla domanda, di norma, è da ritenere quello della sede che il professionista ha al momento in cui riceve l’incarico, che è il luogo in cui egli elabora le prestazioni che si rendono di volta in volta necessarie nell’interesse del cliente e, nel caso di specie, il A.A. agisce per il corrispettivo di attività professionale svolta in Italia e da retribuirsi in Italia.
Per radicare la giurisdizione nel Regno Unito, quale Stato nel cui territorio si trova il domicilio del consumatore evocato in giudizio, la B.B. ha pure fatto riferimento, quanto al domicilio a Londra, alla normativa posta a tutela il consumatore, destinata a prevalere su ogni altra, in virtù delle esigenze di protezione, anche di natura processuale, della parte debole del rapporto contrattuale.
L’art. 13 della più volte richiamata Convenzione, Sezione 4 (Competenza in materia di contratti conclusi da consumatori), prevede che: “In materia di contratti conclusi da una persona per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività professionale, in appresso denominata “consumatore”, la competenza è regolata dalla presente sezione, salve le disposizioni dell’art. 4 e dell’art. 5, punto 5.
1) qualora si tratti di una vendita a rate di beni mobili materiali;
2) qualora si tratti di un prestito con rimborso rateizzato o di un’altra operazione di credito, connessi con il finanziamento di una vendita di tali beni;
3) qualora si tratti di un altro contratto che abbia per oggetto una fornitura di servizio o di beni mobili materiali se: a) la conclusione del contratto è stata preceduta da una proposta specifica o da una pubblicità nello Stato in cui il consumatore ha il proprio domicilio e se b) il consumatore ha compiuto in tale Stato gli atti necessari per la conclusione del contratto.
Qualora la controparte del consumatore non abbia il proprio domicilio nel territorio di uno Stato contraente, ma possieda una succursale, un’agenzia o qualsiasi altra filiale in uno Stato contraente, essa è considerata, per le contestazioni relative al loro esercizio, come avente domicilio nel territorio di tale Stato”.
L’art. 14 prevede, poi, che: “L’azione del consumatore contro l’altra parte del contratto può essere proposta sia davanti ai giudici dello Stato contraente nel cui territorio tale parte ha il proprio domicilio, sia davanti ai giudici dello Stato contraente nel cui territorio è domiciliato il consumatore.
L’azione dell’altra parte del contratto contro il consumatore può essere proposta solo davanti ai giudici dello Stato nel cui territorio il consumatore ha il proprio domicilio.
Queste disposizioni non pregiudicano il diritto di proporre una domanda riconvenzionale davanti al giudice della domanda principale in conformità della presente sezione.”.
Anche i regolamenti Bruxelles I-bis e Roma I, seppure con formule parzialmente diverse tra loro, prendono in considerazione il consumatore quale persona fisica che concluda contratti internazionali per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività commerciale o professionale con un’altra persona che agisca nell’esercizio della sua attività commerciale o professionale, riprendendo una definizione già contenuta nelle Convenzioni antecedenti i regolamenti, che è stata fatta oggetto nel tempo di un’opera di cesellamento da parte della Corte di Giustizia la quale ne ha definito i termini restringendone progressivamente l’ambito soggettivo di applicazione, al fine di evitare che una protezione troppo estesa della parte debole gravasse poi sugli scambi commerciali intracomunitari.
Il ricorrente deduce che la contraente B.B. ha assunto, nel rapporto de quo, non la veste di “consumatore”, richiesta per applicazione della tutela consumeristica, ma quella di “professionista”. L’attività svolta dal A.A., sempre secondo il ricorrente, non sarebbe del tutto estranea all’attività imprenditoriale della cliente, riguardando la “gestione dell’operatività delle suindicate società (…) assistendo (il A.A.) la Dott.ssa B.B. sia negli investimenti immobiliari da effettuare a Roma per il tramite della società Immobiliare Arena Blu Srl , sia nella gestione dei prodotti, brevetti e knowhow della società B.B. M.D. Srl “.
Va detto che non è affatto agevole verificare, sulla scorta delle risultanze versate in atti, l’effettiva estensione dell’attività oggetto dell’incarico professionale dedotto in giudizio e, del resto, la questione è oggetto di acceso contrasto tra le parti in causa.
Nè appare corretto scindere, nella ricostruzione ed interpretazione del dedotto vincolo contrattuale, i contenuti dell’incarico “di consulenza per la gestione patrimoniale fiscale e societaria”, di cui alla scrittura recante la data del 3 novembre 2014 e la sottoscrizione della B.B., da quelli, invece, del contratto, anch’esso sottoscritto in data 3 novembre 2014, con la Consulting & Legal Services Scarl , riferibile alla “proposta di gestione (Omissis) “per attività servente e di organizzazione fiscale previdenziale per le competenze delle attività professionali” per la durata di un anno”, nonchè da quelli, ancora, del contratto stipulato, in pari data, dalla Consulting & Legal Services Scarl con la BBS Srl , di cui Dottor A.A. era all’epoca legale rappresentante, comunque strumentale alle attività d’interesse della B.B..
In forza di un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, “ai fini dell’assunzione della veste di consumatore l’elemento significativo non è il “non possesso”, da parte della “persona fisica” che ha contratto con un “operatore commerciale”, della qualifica di “imprenditore commerciale” bensì lo scopo (obiettivato o obiettivabile) avuto di mira dall’agente nel momento in cui ha concluso il contratto, con la conseguenza che la stessa persona fisica svolgente attività imprenditoriale o professionale deve considerarsi “consumatore” quando conclude un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività (cfr. Cass., 5/5/2015, n. 8904; Cass., 4/11/2013, n. 24731; Cass., 18/9/2006, n. 20175. Cfr. altresì, con riferimento alla fideiussione, Cass., 15/10/2019, n. 25914)” (Cass. n. 6578/2021).
Non è superfluo ricordare che anche nel diritto unionale la nozione di “consumatore”, ai sensi dell’art. 2, lett. b), della direttiva 93/13, ha un carattere oggettivo (v. sentenza Costea, C0110/14, EU:C:2015:538, punto 21) e deve, quindi, essere valutata alla luce di un criterio funzionale volto ad analizzare se il rapporto contrattuale in esame rientri nell’ambito delle attività estranee all’esercizio di una professione, spettando al giudice nazionale, investito di una controversia relativa a un contratto idoneo a rientrare nell’ambito di applicazione di tale direttiva, verificare, tenendo conto di tutte le circostanze della fattispecie e di tutti gli elementi di prova, se il contraente in questione possa essere qualificato come “consumatore” ai sensi della suddetta direttiva (v., in Ric. 2018 n. 31844 sez. M1 ud. 03-12-2019 -4- tal senso, sentenza Costea, C110/14, EU:C:2015:538, punti 22 e 23).
Ciò detto, ad avviso di queste Sezioni Unite, è sufficiente rilevare che sulla scorta delle stesse allegazioni delle parti, le quali collocano, come innanzi ricordato, lo sviluppo dell’intera vicenda negoziale esclusivamente nel territorio nazionale, non ricorrerebbero le ulteriori condizioni di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 13, n. 3, lett. a) e b) ovvero, che la conclusione del contratto sia stata preceduta da una proposta specifica o da una pubblicità nello Stato in cui il consumatore ha il proprio domicilio (il Regno Unito) e che il consumatore abbia compiuto in tale Stato gli atti necessari per la conclusione del contratto.
Va, conseguentemente, dichiarata la giurisdizione del giudice italiano e la causa rimessa davanti al Tribunale Civile di Roma, che provvederà pure alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Dichiara la giurisdizione del giudice italiano e rimette le parti innanzi al Tribunale Civile di Roma che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili, il 20 giugno 2023.
Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2023
Allegati:
SS.UU, 04 luglio 2023, n. 18847, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 19 giugno 2023, n. 17532
Civile Ord. Sez. U Num. 17532 Anno 2023
Presidente: CIRILLO ETTORE
Relatore: FEDERICI FRANCESCO
Data pubblicazione: 19/06/2023
Regolamento preventivo
di giurisdizione
ORDINANZA
Sul ricorso n. 21662-2022, proposto da:
SIMONI Alberto, c.f. SMNLRT87M01C912Z, DAVIDE LUCIANI, c.f. LCNDVD64A12C912T, IMMOBILIARE FUTURA S.r.l., c.f. 01429760398, MATTIA INVESTIMENTI IMMOBILIARI S.r.l., c.f. 01864530389, entrambe in persona del legale rappresentante p.t., tutti rappresentati e assistiti dagli avv. Federico Gualandi e Francesca Minotti, digitalmente domiciliati all’indirizzo PEC avv.federicogua-landi@ordineavvocatibopec.it –
Ricorrenti
CONTRO
COMUNE DI COMACCHIO, c.f. 00342190386, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Cristiana Carpani, digitalmente domiciliato all’indirizzo PEC cristianacarpani@ordineavvocatibopec.it –
Resistente
per regolamento preventivo di giurisdizione nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Ferrara, iscritto al NRG 2740 del 2021.
udita la relazione della causa svolta dal Consigliere dott. Francesco Federici nella camera di consiglio del 18 aprile 2023;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale dott. Fulvio Troncone, il quale ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo.
RILEVATO CHE
La controversia trova genesi nell’acquisto, operato dai ricorrenti in data 22 novembre 2007, di un lotto di terreno edificabile, sito nel Comune di Comacchio. La cessione dell’area si era perfezionata sul presupposto che la società venditrice, “DEGLI INN” s.r.l., in data 17 novembre 2007 aveva ottenuto il permesso di costruire n. 103/2007 per la realizzazione di un edificio residenziale, composto da quattro unità abitative. Il permesso era stato volturato il 23 gennaio 2008. Successivamente il Sindaco del Comune di Comacchio aveva tuttavia chiesto approfondimenti sulla legittimità del rilascio del permesso, compresi pareri della Provincia di Ferrara e della Regione Emilia-Romagna. All’esito della verifica il Comune di Comacchio aveva disposto la sospensione dei lavori e quindi l’annullamento del permesso di costruire.
Seguì un lungo contenzioso dinanzi al TAR Emilia-Romagna e poi al Consiglio di Stato, nel quale gli odierni ricorrenti risultarono soccombenti. I giudici amministrativi rilevarono che il PRG del Comune di Comacchio era in contrasto con il Piano territoriale di Coordinamento Provinciale nella parte in cui consentiva interventi di nuova edificazione in aree nelle quali il PTCP della Provincia di Ferrara li escludeva, con conseguente legittimità di tutti i provvedimenti comunali -oggetto di impugnazione- finalizzati ad impedire la realizzazione del fabbricato.
Esaurito il contenzioso dinanzi alla giurisdizione amministrativa, i ricorrenti hanno riferito di aver “appreso” che il Comune aveva proceduto all’acquisizione coattiva dell’area, senza averne titolo di legittimazione. Hanno sostenuto che tale trasferimento coattivo era avvenuto «in forza di una norma, l’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, che pacificamente non può trovare applicazione nel caso di specie in quanto riferita espressamente solo alle ipotesi di immobili abusivi perché ab origine costruiti in assenza di titolo abilitativo e non anche a quella di immobili divenuti suscettibili di demolizione a causa del sopravvenuto annullamento del titolo edilizio (ma che invece, al momento della loro realizzazione, esisteva ed era perfettamente valido ed efficace). Per questi ultimi, l’acquisizione gratuita al patrimonio del Comune non è prevista e, conseguentemente, anche a prescindere dalla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, l’Ente non può considerarsi legittimo proprietario dell’area di cui sono invece senz’altro titolari, per la quota di ¼ ciascuno, gli odierni ricorrenti. Di qui, l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c. proposta innanzi al Tribunale di Ferrara».
Al Tribunale è stato pertanto richiesto «in via incidentale: – disapplicare eventuali provvedimenti amministrativi illegittimi e lesivi del diritto di proprietà degli odierni Attori con particolare riferimento ad un eventuale atto con cui si sia inteso accertare l’inottemperanza all’ordine di demolizione ai sensi e per gli effetti dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001; in via principale: – accertare e dichiarare l’esclusiva proprietà degli odierni Attori sull’area sita in Comune di Comacchio e catastalmente censita al N.C.E.U. del predetto Comune al foglio 50, part. 738 nonché l’inesistenza di qualsivoglia diritto reale del Comune convenuto; – condannare il Comune di Comacchio alla restituzione del possesso del bene, ordinando a quest’ultimo di desistere da ogni ulteriore pretesa sui beni per cui vi è causa. Vinte le spese di lite”».
Poiché nel giudizio introdotto dinanzi al Tribunale di Ferrara il convenuto Comune di Comacchio ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, i ricorrenti hanno proposto regolamento preventivo di giurisdizione, ai sensi dell’art. 41 cod. proc. civ., chiedendo il riconoscimento della giurisdizione del giudice ordinario.
Il Comune di Comacchio ha resistito con controricorso, a tal fine insistendo sul riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo.
L’Ufficio della Procura Generale, che ha presentato conclusioni scritte, ha chiesto di dichiarare il difetto di giurisdizione del Tribunale di Ferrara, disponendo la prosecuzione del giudizio innanzi al giudice amministrativo competente per territorio.
In prossimità della adunanza camerale il Comune ha ritualmente e tempestivamente depositato memoria illustrativa.
Considerato che
I ricorrenti assumono che l’oggetto del giudizio promosso dinanzi al Tribunale di Ferrara sia riconducibile alla giurisdizione del giudice ordinario.
Ritengono che la domanda introdotta sia finalizzata alla tutela del proprio diritto di proprietà sull’area, che il Comune di Comacchio ha coattivamente acquisito dopo l’annullamento del permesso di costruire, già regolarmente rilasciato, sul presupposto della non conformità del PRG al Piano Territoriale di coordinamento provinciale, e dunque della illegittimità dell’atto autorizzatorio.
Assumono che, non versandosi nell’ipotesi di manufatto realizzato in assenza del permesso di costruire o in sua totale o parziale difformità, bensì nella diversa fattispecie della costruzione erigenda nel rispetto di un provvedimento autorizzatorio, solo successivamente annullato, non era applicabile l’art. 31, bensì l’art. 38 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il quale, nel disciplinare gli interventi edilizi eseguiti in base ad un permesso rilasciato e poi annullato, prevede che «[…] qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. […] 2. L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36».
Sostengono che tale norma non prevede l’acquisizione dell’area, pur quando manchino i presupposti per la definizione in sanatoria. Pertanto la pubblica amministrazione avrebbe operato il trasferimento dominicale in carenza di potere e rispetto a tale condotta materiale i ricorrenti, titolari di un diritto e non di un interesse legittimo, hanno inteso adire il giudice ordinario di Ferrara con l’azione di rivendicazione ex art. 948 cod. civ.
Rispetto alle obiezioni del Comune convenuto affermano che è irrilevante che l’acquisizione dell’area sia stata preceduta dall’ordinanza di demolizione e dagli atti di accertamento della relativa ottemperanza, e ciò sia per il criterio del petitum sostanziale, con riguardo alla natura di accertamento petitorio introdotto dinanzi al Tribunale di Ferrara, sia per l’irrilevanza di qualunque potestà pubblica vantata dal Comune di Comacchio, poiché è proprio questa ad essere stata contestata dai ricorrenti dinanzi al giudice ordinario.
L’ente territoriale confuta le ragioni avverse, evidenziando i motivi su cui si fonda il provvedimento di annullamento del permesso di costruire, ossia: «a) contrasto con l’art. 13 del PTPR; b) contrasto con gli artt. 13 e 20 del PTCP vigente; c) contrasto con l’art. 8 del Piano di Stazione Centro Storico di Comacchio (Piano del Parco); d) contrasto con quanto espresso dal Settore Pianificazione della Provincia di Ferrara in data 29.2.2008; e) contrasto con quanto espresso dalla Direzione Generale Programmazione Territoriale della Regione Emilia Romagna in data 3.3.2008; […] g) contrasto con l’avvenuto accertamento dell’area come “soggetta a mareggiate“; h) contrasto con l’avvenuto accertamento che l’intervento ricade, parzialmente, in area demaniale; g) contrasto con il vincolo archeologico».
Rappresentando quindi la vicenda nei suoi sviluppi procedimentali, riferisce che «In data 9 giugno 2008 è stata emessa l’Ordinanza n. 283 […] con la quale il Dirigente ha ordinato la demolizione delle opere realizzate sulla base del permesso di costruire annullato ed il ripristino dei luoghi entro 90 giorni dalla notificazione del provvedimento medesimo, pena l’acquisizione di diritto al patrimonio del Comune del bene immobile illegittimamente realizzato, nonché dell’area di sedime. Con l’ulteriore avvertenza che l’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione avrebbe costituito titolo per l’immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari. Risale al 13 ottobre 2008 il primo sopralluogo eseguito dal Corpo di Polizia Municipale di Comacchio, all’esito del quale è stata accertata l’inottemperanza alla Ordinanza n. 283/2008 […]. Risale al 6 novembre 2009 il secondo sopralluogo, sempre effettuato dal Corpo di Polizia Municipale di Comacchio, all’esito del quale si è accertato che all’Ordinanza di demolizione n. 283/2008 non era stata data esecuzione […]. Tutti i predetti provvedimenti sono stati oggetto di impugnativa avanti il TAR per l’Emilia Romagna, il quale ultimo con sentenza n. 2649/2009 […] ha respinto il ricorso confermando la legittimità dei provvedimenti adottati dal Comune di Comacchio. Il TAR ha, altresì, respinto l’istanza risarcitoria formulata con il ricorso introduttivo. Detta pronuncia è stata, poi, confermata in grado di appello dalla Sez. IV del Consiglio di Stato con la sentenza n. 7491/2010 […] e ciò anche sulla base di motivazioni ulteriori rispetto a quelle addotte dal primo Giudice. In particolare, la Sez. IV del Consiglio di Stato ha nuovamente: 1) respinto la doglianza con la quale si assumeva che il PRG del Comune di Comacchio, essendo stato approvato dopo la vigenza del PTCP, sarebbe stato da ritenere a quest’ultimo conforme; 2) respinto la pretesa risarcitoria. […]. Definito il contenzioso […], il Comune di Comacchio ha, quindi, provveduto in data 28 febbraio 2019 alla redazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, del Verbale di constatazione e verifica dal quale emerge che gli attori “…non ottemperavano all’ordinanza di demolizione n. 283/2008 del 09/6/2008 debitamente notificata agli stessi in data 10 giugno 2008…” […] Detto provvedimento non è stato oggetto di impugnazione. Conseguentemente, il competente Dirigente comunale ha emesso, sempre ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 13 della Legge Regionale n. 23/2004, l’atto prot. n. 14889 del 6 marzo 2019 […] recante l’accertamento della inottemperanza all’ordinanza di demolizione; accertamento che ai sensi delle cit. disposizioni “…costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione gratuita nei registri immobiliari del bene, dell’area identificata nel Comune di Comacchio al Fg. 50 mapp. 378…la cui superficie rientra nei limiti definiti all’art. 31 comma 3 del DPR 380/2001 e s.m.i.”. Anche detto provvedimento è stato notificato agli attuali attori ed è divenuto definitivo, in quanto non oggetto di impugnazione. Da ciò l’inoltro il 25 gennaio 2021 di tutti gli atti alla Agenzia delle Entrate di Ferrara […], la quale ultima in data 3 febbraio 2021 ha provveduto alla trascrizione nei registri immobiliari, conseguente all’accertamento della mancata ottemperanza alla ordinanza di demolizione ex art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 […]».
Riassunta la vicenda nei termini ora riportati, la controricorrente contesta la giurisdizione del giudice ordinario perché non vi è stata alcuna acquisizione coattiva dell’area. Al contrario, sulla base di una sequenza procedimentale accertata come pienamente legittima, e rispetto ai cui atti conclusivi i ricorrenti hanno prestato piena acquiescenza (verbale di constatazione di inottemperanza all’ordinanza di demolizione del 28 febbraio 2019; atto d’accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione del 6 marzo 2019, entrambi ritualmente notificati alle parti -con successivo inoltro degli atti all’Agenzia delle entrate per la trascrizione nei registri immobiliari-), si è semplicemente verificato un “trasferimento ex lege” dell’area, secondo previsione normativa.
Queste le rispettive posizioni, va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo.
Premesso che i fatti e le vicende processuali sono incontestati, con consolidato indirizzo interpretativo questa Corte ha affermato che la giurisdizione si determina sulla base della domanda, e, quanto al riparto tra giudice ordinario e amministrativo, non ha rilevanza la prospettazione della parte, ma il cd. petitum sostanziale, da identificarsi non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione chiesta al giudice, quanto sulla base della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati a fondamento della pretesa fatta valere con l’atto introduttivo della lite ed al rapporto giuridico di cui sono espressione (già Sez. U, 8 maggio 2007, n. 10374; 25 giugno 2010, n. 15323; tra le più recenti, ex multis, Sez. U, 27 luglio 2022, n. 23436; 21 settembre 2021, n. 25480; 8 luglio 2020, n. 14231; 15 settembre 2017, n. 21522).
Quanto al riparto della giurisdizione, in ipotesi di acquisizione di area occupata da un manufatto realizzato in difformità o in carenza, anche sopravvenuta, del provvedimento autorizzatorio, è stata ad esempio affermata la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella controversia promossa dal proprietario dell’area che, per non essere l’autore della condotta abusiva -addebitabile invece al coniuge- aveva chiesto la restituzione del terreno, previo accertamento del suo diritto di proprietà e la declaratoria di nullità dell’ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale, emessa ai sensi dell’art. 15 legge n. 10 del 1977. Ciò perché l’oggetto immediato e diretto della controversia è stato identificato nell’ordinanza di acquisizione, della cui legittimità si discuteva (Sez. U, 12 gennaio 2007, n. 417; 26 gennaio 2011, n. 1776).
In tema di applicazione di sanzioni pecuniarie, nell’ipotesi di accertata impossibilità di dare esecuzione all’attività ripristinatoria dello stato dei luoghi, e dunque quale sanzione sostitutiva dell’ordine di demolizione, si è peraltro affermato che la controversia avente ad oggetto la sanzione pecuniaria irrogata ai sensi dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, anche se relativa solo al quantum, rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, poiché, seppur afferente al diritto soggettivo a non subire una prestazione patrimoniale non prevista dalla legge, è legata da un nesso di stretta pregiudizialità-dipendenza con il rapporto amministrativo concernente l’uso del territorio, che presuppone l’esercizio del potere amministrativo di demolizione dell’opera edilizia realizzata in assenza o totale difformità dal permesso (Sez. U, 14 febbraio 2023, n. 4607; cfr. anche Sez. U, 11 maggio 2021, n. 12429).
Si tratta di precedenti non sovrapponibili al caso di specie, ma nei quali, ai fini della individuazione del plesso giurisdizionale, nel cui alveo è stata riportata la lite, si è valorizzata la riconducibilità mediata del rapporto dedotto in giudizio all’esercizio del potere amministrativo avente ad oggetto l’uso del territorio.
Il medesimo principio trova conferma laddove si è riconosciuta la giurisdizione ordinaria per una domanda con cui il beneficiario di un permesso di costruire, successivamente annullato in autotutela in quanto illegittimo, aveva invocato la risoluzione del contratto di compravendita del terreno, nonché la condanna della P.A. al risarcimento dei danni conseguenti alla lesione dell’incolpevole affidamento sulla legittimità del predetto atto ampliativo. In questo caso, si è affermato, la causa petendi della domanda risiedeva non già nella lesione di un interesse legittimo pretensivo (giacché non era in discussione la legittimità del disposto annullamento) ma nella lesione del diritto soggettivo all’integrità del patrimonio; pertanto ai fini del petitum sostanziale il provvedimento amministrativo non rilevava in sé, quale elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria, della cui illegittimità il giudice è chiamato a conoscere principaliter, ma come fatto, rilevabile incidenter tantum, che aveva dato causa all’evento dannoso subìto dal patrimonio del privato (Sez. U, 8 luglio 2020, n. 14231).
Tornando dunque al caso ora all’esame della Corte, secondo la prospettazione dei ricorrenti la circostanza che l’illegittimità della costruzione sia dovuta non già ad una assenza originaria del permesso di costruire, o ad una difformità dell’opera dall’atto autorizzatorio, ma ad un successivo venir meno dell’atto amministrativo, essendo riconducibile nella fattispecie regolata dall’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001, che non contempla espressamente l’acquisizione ex lege al patrimonio comunale dell’area su cui insiste il manufatto abusivo, tradurrebbe l’attività acquisitiva posta in essere dall’ente territoriale in una mera condotta materiale, avverso la quale il privato avrebbe diritto di ricorrere alla tutela apprestata dall’azione petitoria, ex art. 948 cod. civ., dinanzi al G.O.
Pur prescindendo da ogni riferimento agli effetti del mancato adempimento all’ordine di demolizione e ripristino, previsto anche dall’art. 38 cit., e pur senza voler richiamare i limiti operativi della predetta norma (ad es. cfr. Consiglio di Stato, 7 settembre 2020, n. 17), la prospettazione difensiva dei ricorrenti si infrange dinanzi alla inevitabile collocazione dell’atto acquisitivo dell’area di sedime del manufatto, ormai illegittimo, nella complessiva sequenza procedimentale amministrativa sviluppatasi ed ora conclusa.
Al rilascio del permesso di costruire e all’inizio dell’attività edificatoria è infatti seguito l’annullamento del provvedimento autorizzatorio e l’emissione dell’ordinanza di demolizione, generatore di un contenzioso definito dinanzi alla giurisdizione amministrativa con il rigetto delle ragioni, anche quelle risarcitorie, dei ricorrenti. A conclusione del contenzioso sono seguiti il verbale di constatazione di inottemperanza all’ordinanza di demolizione, del 28 febbraio 2019, e l’atto d’accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione, del 6 marzo 2019, mai impugnati, con successivo inoltro degli atti all’Agenzia delle entrate per la trascrizione nei registri immobiliari.
Proprio con attenzione ai fatti dedotti a fondamento della pretesa fatta valere dai ricorrenti, emerge dunque che, a prescindere dalla invocazione della tutela petitoria, il petitum sostanziale è indirizzato a contestare gli effetti della sequenza degli atti amministrativi posti in essere dal Comune di Comacchio, a seguito dell’annullamento del permesso a costruire e della ingiunzione di demolizione del manufatto illegittimo.
In tale contesto i diritti, dei quali i ricorrenti lamentano la lesione, vanno rapportati e ricondotti nell’alveo della sequenza procedimentale amministrativa, tenendo peraltro conto degli atti conclusivi del procedimento acquisitivo al patrimonio comunale delle aree oggetto di lite (che non risultano neppure impugnati).
Si tratta di una fattispecie che, a prescindere dalla tutela formalmente invocata dai ricorrenti, sottopone al vaglio della giurisdizione un rapporto giuridico mediatamente riconducibile all’esercizio del potere amministrativo, avente ad oggetto l’uso del territorio, secondo la regola del petitum sostanziale.
Deve pertanto dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte a Sezioni Unite dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo.
Condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese sostenute dal Comune controricorrente, che si liquidano nella misura di € 6.000,00 per competenze ed € 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle sezioni unite del 18 aprile
Allegati:
SS.UU, 19 giugno 2023, n. 17532, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di eccesso di potere giurisdizionale – SS.UU, 30 giugno 2023, n. 18541
Civile Ord. Sez. U Num. 18541 Anno 2023
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: SCODITTI ENRICO
Data pubblicazione: 30/06/2023
ORDINANZA
sul ricorso 9335-2022 proposto da:
DAUNIA WIND S.R.L., DAUNIA SERRACAPRIOLA S.R.L., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA DI VILLA SACCHETTI 9, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO SAVERIO MARINI, che le rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCO GAETANO SCOCA e PIER LUIGI PELLEGRINO;
– ricorrenti –
contro
COMUNE DI SERRACAPRIOLA, rappresentato e difeso dagli avvocati GIACINTO LOMBARDI e FRANCESCO VOLPE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 838/2022 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 07/02/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2023 dal Consigliere ENRICO SCODITTI.
Rilevato che:
con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, Daunia Wind s.r.l. e Daunia Serracapriola s.r.l., la prima quale dante causa della seconda, chiesero accertarsi nei confronti del Comune di Serracapriola la nullità della convenzione del 24 maggio 2006, stipulata con il medesimo Comune, nella parte in cui (art. 4) era previsto il pagamento di un “corrispettivo economico”, per le obbligazioni assunte dall’Amministrazione e per la costituzione di diritti di servitù e di ogni altro onere o disagio, con conseguente condanna del Comune alla restituzione delle somme già corrisposte. Esposero le ricorrenti che Daunia Serracapriola s.r.l. era titolare di un impianto di produzione di energia elettrica alimentato da fonte rinnovabile (eolico) nel Comune di Serracapriola, autorizzato dalla Regione Puglia, e che, prima della conclusione del procedimento di rilascio dell’autorizzazione unica ex art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003, Daunia Wind s.r.l. aveva stipulato con il Comune di Serracapriola una «convenzione regolante la concessione di aree in favore della società per la costruzione, il funzionamento e la manutenzione di un impianto eolico» su aree a destinazione agricola comprese nel territorio comunale. Aggiunsero che la convenzione era nulla nella parte in cui contemplava l’obbligo a carico della parte ricorrente di pagare un corrispettivo economico per la mera localizzazione di un impianto eolico sul territorio comunale, ossia una misura di compensazione di carattere meramente patrimoniale, contraria a norme imperative. Il giudice di primo grado rigettò il ricorso.
Osservò il TAR che trovava applicazione la sopravvenuta (in corso di giudizio) disposizione di cui all’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018, ai sensi della quale: «ferma restando la natura giuridica di libera attività d’impresa dell’attività di produzione, importazione, esportazione, acquisto e vendita di energia elettrica, i proventi economici liberamente pattuiti dagli operatori del settore con gli enti locali, nel cui territorio insistono impianti alimentati da fonti rinnovabili, sulla base di accordi bilaterali sottoscritti prima del 3 ottobre 2010, data di entrata in vigore delle linee guida nazionali in materia, restano acquisiti nei bilanci degli enti locali, mantenendo detti accordi piena efficacia. Dalla data di entrata in vigore della presente legge, fatta salva la libertà negoziale delle parti, gli accordi medesimi sono rivisti alla luce del decreto del Ministro dello sviluppo economico 10 settembre 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 219 del 18 settembre 2010, e segnatamente dei criteri contenuti nell’allegato 2 al medesimo decreto. Gli importi già erogati e da erogare in favore degli enti locali concorrono alla formazione del reddito d’impresa del titolare dell’impianto alimentato da fonti rinnovabili».
Proposto appello da Daunia Wind s.r.l. e Daunia Serracapriola s.r.l.,
il Consiglio di Stato sollevò questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 953 della legge 30 dicembre 2018, n. 145. Con sentenza n. 46 del 23 marzo 2021 la Corte costituzionale dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale.
Osservò il giudice costituzionale che assicurava la ragionevolezza della norma «l’obiettivo, perseguito dal legislatore, a un tempo di garantire la concorrenza, riallineando le condizioni degli operatori del settore, quanto all’onere delle misure compensative e di riequilibrio ambientale, e altresì di promuovere la tutela dell’ambiente e del paesaggio con misure compensative specifiche e non già (solo) per equivalente», con l’effetto anche di chiarire sul piano interpretativo, facendo perno sullo spartiacque temporale del 3 ottobre 2010, la questione se gli accordi stipulati dagli enti locali sulla base dell’art. 1, comma 5, della legge n. 239 del 2004, che prevedeva la possibilità di convenire pattiziamente «misure di compensazione e di riequilibrio ambientale» senza precisarne il contenuto, dovessero contemplare solo misure di compensazione di carattere specifico, ossia interventi “positivi” sull’ambiente volti a bilanciare i pregiudizi sullo stesso, derivanti dalla messa in esercizio degli impianti di produzione di fonte elettrica, oppure potessero prevedere anche misure di carattere meramente patrimoniale, cioè volte a “compensare” tali pregiudizi per equivalente. Aggiunse, quanto al profilo della efficacia retroattiva della norma, che questa trovava congrua giustificazione nella finalità di tutelare il mercato e l’ambiente, preservando anche la tenuta dei bilanci dei Comuni, obiettivi questi che ben potevano qualificarsi come «motivi imperativi d’interesse generale». Osservò, infine, che la censura non era fondata sul piano dei vincoli internazionali ed euro-unitari e che pertanto non ricorrevano dubbi tali da giustificare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Con sentenza n. 838 del 7 febbraio 2022 il Consiglio di Stato, sez. V, rigettò l’appello. Premesso che la Corte costituzionale aveva precisato che nel quadro normativo previgente all’entrata in vigore del D.M. del 2010 vi era facoltà di prevedere “misure di compensazione” nella più ampia accezione, potendo l’impatto sulla risorsa ambientale della costruzione dell’impianto di energia da fonte rinnovabile essere compensato anche destinando somme di denaro a finalità di interesse della comunità territoriale, osservò il giudice amministrativo che non vi era ragione per sostenere che nel quadro normativo previgente fosse indispensabile, già all’interno dell’accordo, specificare le modalità di reinvestimento a beneficio della collettività del denaro conseguito in compensazione. Aggiunse che «i profili di possibile contrasto della normativa vigente all’entrata in vigore delle linee guida del 2010 [di cui al d.m. 10 settembre 2010] con principi e disposizioni del diritto dell’Unione europea sono stati valutati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 46 del 2021 (par. 22 e ss.) ed esclusi al punto da ritenere non necessario il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea non versandosi in situazione di dubbio sul significato e sugli effetti delle norme di diritto dell’Unione europea». Osservò inoltre, richiamando sempre la motivazione della sentenza costituzionale, che la stipulazione di accordi con “misure compensative” a carattere meramente patrimoniale non aveva frapposto condizioni all’acquisizione del titolo abilitativo alla realizzazione di un impianto di energia da fonte rinnovabile o, comunque, reso più complicato e difficoltoso l’iter autorizzatorio, in primo luogo perché l’accordo era frutto della libera determinazione delle parti, senza che fosse prescritto quale condizione per poter avviare o comunque utilmente proseguire il procedimento amministrativo di rilascio dell’autorizzazione unica, e in secondo luogo perché i Comuni contraenti non avevano competenza circa il rilascio delle autorizzazioni. Sempre richiamando la motivazione della sentenza costituzionale, osservò inoltre il Consiglio di Stato che l’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2008 non innovava l’ordinamento giuridico, ma confermava l’efficacia degli accordi aventi ad oggetto misure di compensazione meramente patrimoniali se stipulati prima dell’entrata in vigore delle linee guida del 2010, per cui la specificazione secondo cui «i proventi economici liberamente pattuiti dagli operatori del settore con gli enti locali [sulla base dei predetti accordi]…, restano acquisiti nei bilanci degli enti locali» non costituiva «il presupposto di operatività della disposizione, come preteso dalle appellanti, secondo cui gli accordi sono efficaci a condizione che le amministrazioni abbiano inserito in bilancio le poste patrimoniale dagli stessi derivanti, ma è un effetto della conferma della validità degli accordi che il legislatore ha ritenuto opportuno specificare».
Concluse quindi nel senso che «la diversa interpretazione, oltre a porsi in contrasto con la natura non innovativa della disposizione espressamente sancita dalla Corte costituzionale, renderebbe la disposizione gravemente illogica, non riuscendosi a rintracciare una ragione valida a dire gli accordi efficaci alla sola condizione che le somme siano state iscritte in bilancio e, diversamente, se tale iscrizione non sia avvenuta, privi di efficacia. Né tale si può dire sia la necessità di assicurare la tenuta dei bilanci locali, come più volte sottolineato dalle appellanti, per l’ovvia considerazione che non v’è prova alcuna che, in mancanza di dette somme, i Comuni contraenti si vengano a trovare in una situazione di indebitamento insostenibile. Senza considerare che l’efficacia/inefficacia degli accordi, ossia la regola di validità dell’atto, sarebbe subordinata a un dato completamente estraneo all’atto, del tutto indipendente da esso, e in alcun modo collegato ed anzi, se si vuole, del tutto casuale (potendo alcuni Comuni aver iscritto le poste in bilancio all’entrata in vigore della l. n. 145 del 2018 ed altri non avere ancora provveduto)».
Daunia Wind s.r.l. e Daunia Serracapriola s.r.l. hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi e resiste con controricorso la parte intimata. E’ stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ.. E’ stata presentata memoria.
Considerato che:
con il primo motivo si denuncia violazione dei limiti esterni della giurisdizione per sconfinamento nella giurisdizione della Corte costituzionale ed invasione della sfera legislativa. Osserva la parte ricorrente che la Corte costituzionale ha affermato che gli accordi con i Comuni, pure ammissibili prima delle linee guida del 2010, devono contemplare soltanto «misure di compensazione e riequilibrio ambientale», e che seppure tali clausole possano avere carattere esclusivamente monetario, “ossia solo per equivalente”, esse devono comunque rispondere, esclusivamente, alla funzione di «monetizzazione degli effetti deteriori che l’impatto ambientale determina». Aggiunge che, sulla base della sentenza costituzionale vincolante per il giudice remittente, le ricorrenti avevano eccepito che la convenzione mancava di tale destinazione finalistica posto che in nessuna parte di essa si faceva riferimento all’introduzione di “misure di compensazione”, non contemplando l’art. 4 alcun impatto territoriale e ambientale né tanto meno alcuna monetizzazione di esso (non risultava inoltre provato che le ingenti somme corrisposte fossero state destinate all’attuazione di riequilibrio del pregiudizio ambientale, territoriale o paesaggistico determinato dal realizzato impianto eolico).
Aggiunge ancora che il Consiglio di Stato, affermando che le pattuizioni meramente patrimoniali anteriori al d.m. 10 settembre 2010 non dovessero dimostrare la loro natura “compensativa”, e riconducendo tale conclusione alla sentenza costituzionale, ne ha violato i contenuti, invece vincolanti per il giudice a quo, così illegittimamente sconfinando nella sfera della giurisdizione costituzionale, e per di più, così decidendo, ha creato ex novo la regola iuris applicata, stravolgendone il tenore testuale e la voluntas legis. Precisa che vi è travalicamento dei limiti esterni perché l’attività “interpretativa” del giudice amministrativo ha invaso quella già esercitata dalla Corte costituzionale nel giudizio incidentale attivato dallo stesso Consiglio di Stato in corso di causa, con sentenza interpretativa di rigetto, vincolante per il giudice a quo, creando una norma nuova.
In particolare, osservano ancora le società ricorrenti, la norma imperativa di cui all’art. 1, comma 5, l. n. 239 del 2004, prevede espressamente che gli enti locali territorialmente interessati dalla localizzazione di infrastrutture strategiche «hanno diritto di stipulare accordi con i soggetti proponenti che individuino misure di compensazione e riequilibrio ambientale, coerenti con gli obiettivi generali di politica energetica nazionale”, con ciò testualmente imponendo la previa determinazione degli impatti territoriali degli impianti e la traduzione monetaria di quegli impatti nelle stesse convenzioni con i Comuni, per cui, in base all’univoco tenore testuale della norma, le sole misure patrimoniali ammissibili sono quelle che hanno funzione di “compensazione e riequilibrio ambientale”, e che siano “individuate” nelle Convenzioni con i Comuni. Conclude nel senso che il Consiglio di Stato, affermando che la legislazione vigente non richiederebbe che le misure compensative siano preventivamente individuate negli accordi, e specificamente relazionate agli squilibri da compensare, ha creato una norma inesistente, laddove invece in base alla disposizione la mancanza della destinazione finalistica determina la nullità dell’accordo.
Con il secondo motivo si denuncia violazione dei limiti esterni, sotto il profilo dell’arretramento della giurisdizione in relazione alla censura di incompatibilità della norma con la disciplina unionale. Osservano le ricorrenti che, nonostante la denuncia di plurimi profili di contrasto con il diritto euro-unitario, il Consiglio di Stato si è rifiutato di pronunciare sulla questione, assumendo che i detti profili erano già stati valutati dal giudice costituzionale, erroneamente perché nella sentenza costituzionale non vi è alcuna valutazione circa la legittimità euro-unitaria delle disposizioni normative anteriori al 10 settembre 2010, ma solo in relazione all’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018. Precisano al riguardo che la normativa nazionale, come ricostruita dalla Corte costituzionale, sovverte le libertà di circolazione di servizi e capitali nel territorio dell’Unione e di concorrenza nel mercato interno, di cui agli artt. 3, 56 e 63 TFUE, in quanto, condizionando la realizzazione degli impianti alla stipula di pattuizioni a contenuto meramente patrimoniale con i Comuni su cui insistono gli impianti medesima, disincentiva gli investimenti nello Stato italiano, crea differenziazioni territoriali ingiustificate che limitano la concorrenza, e aggrava ingiustificatamente l’implementazione dei servizi di produzione di energia green. Aggiungono che la normativa nazionale ribalta anche le Direttive europee in materia di liberalizzazione del mercato elettrico, perseguita in UE sin dalla Direttiva 1996/92/CE, volta alla creazione di un mercato unico dell’energia elettrica.
Concludono quindi chiedendo alla Corte di Cassazione «di disapplicare– o di ordinare al Consiglio di Stato in sede di rinvio di disapplicare – l’art. 1, c. 5, della l. n. 239 del 2004, letto in correlazione con l’art. 12, c. 6, d.lgs. n. 387 del 2003, perché incompatibile con le Direttive 2001/77/CE, 2009/28/CE, e 2018/2001/UE e con il relativo effetto utile, nonché con gli artt. 3, 56 e 63 TFUE, come pure con i principi di liberalizzazione del mercato elettrico di cui alle Direttive 1996/92/CE, 2003/54/CE, 2009/72/CE, e conseguentemente dichiarare la nullità della Convenzione stipulata con il Comune di Serracapriola per contrasto con le richiamate fonti unionali, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla CGUE».
Con il terzo motivo si denuncia violazione dei limiti esterni della giurisdizione per sconfinamento nella giurisdizione della Corte costituzionale ed invasione della sfera legislativa, in relazione alla domanda subordinata di nullità/inefficacia parziale della convenzione. Premesso che la Corte costituzionale aveva reputato non fondata la questione di legittimità costituzionale sulla base del motivo imperativo di carattere generale fra cui la tenuta dei bilanci degli enti locali, osserva la parte ricorrente che il Consiglio di Stato, disattendendo l’eccezione di inefficacia della convenzione quanto meno con riferimento alla somme non corrisposte, le quali non erano state iscritte in bilancio, ha manifestamente violato la sentenza costituzionale, vincolante per il giudice a quo, per la quale la preventiva acquisizione e rendicontazione a bilancio delle somme pattuite nelle convenzioni tra privati e Comuni costituiva invece presupposto di applicabilità della norma, così incorrendo nel vizio di eccesso di potere giurisdizionale per indebito sconfinamento nella sfera giurisdizionale riservata alla Corte costituzionale. Aggiunge che, per conseguenza, risulta creata ex novo la norma applicata perché l’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018 collega l’efficacia della convenzione alla circostanza che restano acquisiti nei bilanci degli enti locali i proventi economici, e dunque all’elemento della preventiva iscrizione a bilancio di questi ultimi, per cui il Consiglio di Stato, negando che l’acquisizione a bilancio dei proventi pattuiti in Convenzione sia condizione di applicabilità della norma, è andato oltre uno dei possibili significati della norma.
Il primo ed il terzo motivo, da trattare congiuntamente, sono inammissibili. I due motivi contengono un duplice ordine di censure per violazione di limiti esterni. Con la prima censura si denuncia l’eccesso di potere giurisdizionale derivante dalla violazione del dictum della sentenza della Corte costituzionale, con la seconda l’eccesso derivante dalla applicazione di una norma inesistente per mancato rispetto dei confini linguistici della disposizione.
Muovendo dalla prima censura va subito detto che l’asserita violazione del vincolo che deriverebbe dalla sentenza costituzionale si tradurrebbe nell’applicazione della disposizione sulla base di un’interpretazione ritenuta costituzionalmente viziata, ma non nella creazione di norma, in quanto applicazione di disposizione pur sempre esistente nell’ordinamento e valutata, ma non dichiarata, costituzionalmente illegittima dal giudice costituzionale se interpretata come per ipotesi avrebbe fatto il giudice comune.
Ciò premesso, va evidenziato che, contrariamente a quanto affermato dalle ricorrenti, la sentenza costituzionale n. 46 del 2021 non costituisce una sentenza interpretativa di rigetto, non solo perché nel dispositivo manca la formula “nei sensi di cui in motivazione”, profilo che di per sé non sarebbe dirimente, ma anche perché la stessa motivazione non manifesta, anche per implicito, un’interpretazione della disposizione che il giudice costituzionale abbia ritenuto viziata perché non conforme a Costituzione. Anche assumendo tuttavia una natura interpretativa della sentenza di rigetto in discorso, essa comunque non sarebbe assistita, come ogni pronuncia di rigetto, da un’efficacia vincolante sia per il giudice a quo che per tutti gli altri giudici comuni, se non nello stretto limite negativo del divieto di applicazione della disposizione nel significato interpretativo ritenuto non conforme al parametro costituzionale evocato e scrutinato dalla Corte costituzionale, a meno di non ritenere l’interpretazione rifiutata da quest’ultima come l’unica corretta o possibile e dunque sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale, eventualmente evocando anche parametri costituzionali diversi da quello precedentemente indicato e scrutinato (Cass. Sez. Un. 16 dicembre 2013, n. 27986).
Come sopra anticipato, l’applicazione della norma sulla base di un’interpretazione che il giudice delle leggi ha considerato costituzionalmente viziata non corrisponde a creazione ex novo di una norma e dunque non può configurare il denunciato vizio di eccesso di potere giurisdizionale, sia nei confronti del legislatore, perché è applicazione di una disposizione ancora esistente nell’ordinamento, sia nei confronti del giudice costituzionale, perché la violazione del divieto di applicazione della disposizione nel significato interpretativo ritenuto non conforme resta sul piano della violazione del diritto vigente, comprensivo della sua componente costituzionale, ma non è esercizio di giurisdizione costituzionale. A fortiori, alla medesima conclusione di inconfigurabilità dell’eccesso di potere giurisdizionale deve pervenirsi quando, in presenza di semplice sentenza costituzionale di rigetto, come nel caso di specie, sia denunciato un contrasto in ordine alla disposizione applicata fra l’interpretazione del giudice costituzionale e quella del giudice comune. L’intera problematica resta sul piano dell’interpretazione ed applicazione del diritto vigente.
Sul punto della prima censura contenuta nei due motivi va in conclusione enunciato il seguente principio di diritto: “l’applicazione da parte del giudice comune di una disposizione sulla base di un’interpretazione che la Corte costituzionale ha considerato con sentenza interpretativa di rigetto non conforme a Costituzione non configura eccesso di potere giurisdizionale, sia nei confronti della funzione legislativa, perché è applicazione di una disposizione ancora esistente nell’ordinamento e non creazione ex novo di norma, sia nei confronti della giurisdizione costituzionale, perché la violazione del divieto di applicazione della disposizione nel significato interpretativo ritenuto non conforme a Costituzione resta sul piano della violazione del diritto vigente, il quale deve essere applicato in conformità alla Costituzione, ma non è esercizio di giurisdizione costituzionale”.
Passando alla seconda censura contenuta nei due motivi, come affermato da queste Sezioni Unite «soltanto il fraintendimento della disposizione, quale abnorme percezione dell’enunciato linguistico, frutto di una “lettura” della disposizione normativa che prescinde dagli strumenti interpretativi rivolti a farne emergere il significato, si traduce nella creazione di una norma giuridica inesistente» (Cass. Sez. Un. 11 aprile 2023, n. 9659).
In relazione al primo motivo, il fraintendimento linguistico attingerebbe l’art. 1, comma 5, l. n. 239 del 2004, il quale prevede che «le regioni, gli enti pubblici territoriali e gli enti locali territorialmente interessati dalla localizzazione di nuove infrastrutture energetiche ovvero dal potenziamento o trasformazione di infrastrutture esistenti hanno diritto di stipulare accordi con i soggetti proponenti che individuino misure di compensazione e riequilibrio ambientale, coerenti con gli obiettivi generali di politica energetica nazionale, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387». Ha affermato il Consiglio di Stato che «non v’è ragione per sostenere che nel quadro normativo previgente fosse indispensabile, già all’interno dell’accordo, specificare le modalità di reinvestimento a beneficio pubblico delle somme incassate». Secondo le ricorrenti la mancata indicazione nell’accordo della misura di compensazione e riequilibrio ambientale determina la nullità del patto. Si tratta chiaramente di una conseguenza ermeneutica che trae l’interprete dalla lettura della disposizione, ma non vi è in quest’ultima un inequivoco elemento linguistico che enunci la nullità per mancanza della detta indicazione.
In relazione al secondo motivo, viene in rilievo il testo dell’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018, il quale prevede che: «ferma restando la natura giuridica di libera attività d’impresa dell’attività di produzione, importazione, esportazione, acquisto e vendita di energia elettrica, i proventi economici liberamente pattuiti dagli operatori del settore con gli enti locali, nel cui territorio insistono impianti alimentati da fonti rinnovabili, sulla base di accordi bilaterali sottoscritti prima del 3 ottobre 2010, data di entrata in vigore delle linee guida nazionali in materia, restano acquisiti nei bilanci degli enti locali, mantenendo detti accordi piena efficacia. Dalla data di entrata in vigore della presente legge, fatta salva la libertà negoziale delle parti, gli accordi medesimi sono rivisti alla luce del decreto del Ministro dello sviluppo economico 10 settembre 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 219 del 18 settembre 2010, e segnatamente dei criteri contenuti nell’allegato 2 al medesimo decreto. Gli importi già erogati e da erogare in favore degli enti locali concorrono alla formazione del reddito d’impresa del titolare dell’impianto alimentato da fonti rinnovabili».
Il Consiglio di Stato ha interpretato la disposizione nel senso che la preventiva acquisizione nei bilanci degli enti locali dei proventi economici pattuiti non è condizione di efficacia degli accordi. Anche in tal caso si tratta del risultato interpretativo della disposizione senza che emerga una questione di fraintendimento linguistico perché in nessuna parte la lettera dell’enunciato è nel senso contrario a quanto affermato dal giudice amministrativo.
Il secondo motivo è inammissibile. Vi è eccesso di potere giurisdizionale per c.d. arretramento quando il giudice speciale neghi la propria giurisdizione sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (fra le tante Cass. Sez. Un. 11 novembre 2019, n. 29082; 15 aprile 2020, n. 7839). Nel caso di specie il diniego di giurisdizione non risulta denunciato sulla base di una ritenuta estraneità in astratto della materia alla sfera giurisdizionale, ma perché il giudice speciale avrebbe considerato che i profili di contrasto con il diritto euro-unitario sarebbero già stati valutati dalla Corte costituzionale. Si tratta all’evidenza di un giudizio non sindacabile da queste Sezioni Unite in quanto avente ad oggetto soltanto l’estensione dello scrutinio svolto dal giudice costituzionale e non avendo quindi implicazioni sul piano astratto dei limiti esterni della giurisdizione.
Quanto alla invocata disapplicazione da parte di questa Corte, o all’ordine da disporre al Consiglio di Stato in sede di rinvio di disapplicazione dell’art. 1, c. 5, della l. n. 239 del 2004, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, si tratta chiaramente di pronuncia che esula dai limiti segnati dall’ultimo comma dell’art. 111 Cost.. Né può questa Corte disporre il rinvio pregiudiziale perché la pronuncia da parte della Corte di giustizia sarebbe funzionale a disvelare eventuali errori in cui il Consiglio di Stato possa essere incorso nell’interpretazione e applicazione di disposizioni sostanziali di diritto interno in rapporto al diritto dell’Unione, ma tali errori non sarebbero scrutinabili da queste Sezioni Unite, non attenendo a motivi di giurisdizione e non potendo quindi condurre in nessun caso alla cassazione dell’impugnata sentenza ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost. (Cass. Sez. Un. 27 maggio 2022, n. 1733; 18 gennaio 2022, n. 1454).
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Poiché il ricorso viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 – quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna le ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il giorno 20 giugno 2023
Allegati:
SS.UU, 30 giugno 2023, n. 18541, in tema di eccesso di potere giurisdizionale
In tema di eccesso di potere giurisdizionale – SS.UU, 06 giugno 2023, n. 15934
Civile Ord. Sez. U Num. 15934 Anno 2023
Presidente: RAIMONDI GUIDO
Relatore: MARULLI MARCO
Data pubblicazione: 06/06/2023
ORDINANZA
sul ricorso 6413-2022 proposto da:
PENELOPE SPV, e per essa, quale procuratrice di INTRUM ITALY S.P.A. (già TERSIA S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, Via Cicerone n. 44 presso lo studio dell’avvocato Mariano Protto, rappresentata e difesa dell’avvocato MARCO SICA;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI PESCIA, in persona del Commissario prefettizio pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOVANNI DA PALESTRINA 63, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO TURCO, rappresentato e difeso dall’avvocato GAETANO VICICONTE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5997/2021 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 23/08/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/05/2023 dal Consigliere MARCO MARULLI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA, il quale chiede alla Corte di dichiarare inammissibile il ricorso.
FATTI DI CAUSA
1.1. Con sentenza n. 1158/2018 pubblicata il 30.8.2018 il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana aveva dichiarato inammissibile il ricorso promosso dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia – cui, nelle more dell’odierno giudizio, sarebbe subentrata, in qualità di cessionaria del relativo credito, l’attuale ricorrente Penelope Spv – per l’annullamento degli atti a mezzo dei quali il Comune di Pescia, in relazione agli abusi edilizi di cui erano stati oggetto, aveva proceduto ad ordinare la demolizione, prima, e l’acquisizione, poi, degli immobili già di proprietà della Toscana Re gravati da ipoteca a favore della banca a garanzia dell’adempimento degli obblighi restitutori contratti dalla prima a fronte del mutuo concessole dalla seconda, immobili che la banca, malgrado l’inadempimento della mutuataria, non aveva potuto sottoporre ad espropriazione poiché il provvedimento di acquisizione adottato dal Comune aveva determinato l’automatica caducazione del vincolo ipotecario e la conseguente insoddisfazione delle riflesse ragioni di credito da esso garantite.
1.2. Nel motivare le ragioni del proprio pronunciamento, il giudice di prima istanza aveva giudicato il ricorso della banca carente in punto di legittimazione attiva e di interesse ad agire. Da un lato, infatti, la ricorrente, tenuto conto della sua estraneità rispetto alla vicenda che aveva impegnato il Comune e Toscana Re, non poteva reputarsi titolare di una posizione differenziata in grado di porla in relazione diretta con l’atto oggetto di impugnativa, sicché la sua condizione non era diversa da quella di chi, più generalmente, si renda portatore di un’aspirazione alla mera ed astratta legittimità dell’azione amministrativa, il che, sotto il profilo processuale, se fosse stata verificata la sussistenza dell’iscrizione ipotecaria, ne avrebbe al più giustificato l’intervento ad adiuvandum, semmai gli atti sospettati di illegittimità fossero stati impugnati dalla Toscana Re, circostanza, tuttavia non verificatasi nella specie, tanto che detti atti erano divenuti definitivi e non più modificabili; dall’altro, non si sarebbe potuto riconoscere in capo all’istante neanche l’interesse ad agire, non essendo l’attività acquisitiva, in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, attività discrezionale, ma attività vincolata per legge ed essendo per contro la caducazione dell’ipoteca diretto effetto di ciò, con la conseguenza che i beni in questione non avrebbero potuto perciò costituire oggetto di sequela e di soddisfazione in via coattiva delle ragioni della creditrice.
1.3. Pur non condividendo questa impostazione – è ben vero che il terzo ipotecario resta fuori dal circuito relazionale e dal contraddittorio tra pubblica amministrazione e proprietario del bene, ma non può negarsi la natura pregiudizievole della situazione di fatto a cui il terzo ipotecario sarebbe, nel caso di specie, andato incontro – il Consiglio di Stato, adito dalla soccombente in sede di gravame, ha tuttavia ritenuto di non poterne accoglierne le ragioni, rigettando nel merito il proposto atto di appello.
1.4. A fondamento di ciò il decidente pone la considerazione, reiteratamente enunciata da questa Corte, secondo cui l’ordinanza di acquisizione degli immobili abusivi o abusivamente trasformati, alla cui adozione il Comune procede in caso di inosservanza dell’ordine di demolizione, determina in capo al procedente l’acquisto a titolo originario del bene che ne è oggetto, assolvendo in tale veste alla duplice funzione di sanzionare i comportamenti illeciti di cui il destinatario si è reso responsabile e di prevenire la perseveranza nel tempo dei loro effetti dannosi. In questo contesto, l’acquisto del bene a titolo originario comporta la caducazione di tutti i diritti preesistenti, ivi compresi i diritti di garanzia, sicché la procedura esecutiva instaurata dal creditore ipotecario nei confronti del manufatto abusivo, già gravato da iscrizione a proprio favore, è improduttiva di qualsivoglia effetto stante l’originarietà dell’acquisto operato dall’ente pubblico. Se questo rende, quindi, indifferenti le ragioni di gravame che si fanno valere con riferimento alla preesistenza dell’iscrizione ipotecaria ovvero al carattere vincolato dell’ordine di acquisizione o ancora alla mancata motivazione dell’ordine di demolizione rispetto alle ragioni del terzo ipotecario, ciò nondimeno il terzo ipotecario, pure leso come detto nella propria aspettativa creditoria e come tale legittimato ad agire in giudizio per vedere riconosciute le proprie ragioni, non resta per questo privo di tutela, potendo infatti sempre provare l’illegittimità del provvedimento caducatorio che ne pregiudica il diritto, dato che la recessività dell’iscrizione ipotecaria rispetto all’acquisizione ex lege del bene abusivo postula in ogni caso l’accertata sussistenza della relativa condotta illecita. Su questo fronte, osserva conclusivamente il decidente, la tesi impugnante si rivela tuttavia priva di fondamento: le contestazioni in ordine all’illegittimo modus procedendi del Comune sono infatti generiche ed inidonee a sconfessare gli addebiti puntualmente contestati, mentre l’allegato difetto di notificazione dei provvedimenti impugnati non è circostanza che può essere fatta valere dall’impugnante, giacché i provvedimenti di che trattasi sono stati notificati ai soggetti previsti dalla legge, tra i quali non è ricompreso il terzo ipotecario.
1.5. Impugnando detta pronuncia avanti a questa Corte la ricorrente ne lamenta l’eccesso o il difetto di giurisdizione; e di ciò chiede giustizia sulla base di cinque motivi di ricorso, seguiti da memoria e resistiti con controricorso e memoria dal Comune di Pescia, mentre non ha svolto attività processuale Toscana Re.
Requisitorie scritte del Procuratore Generale che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
2.1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta che la decisione impugnata sarebbe affetta da eccesso di potere giurisdizionale, segnatamente sotto il profilo del rifiuto di giurisdizione, posto che il Consiglio di Stato, pur riconoscendo la legittimazione della banca, aveva tuttavia omesso di pronunciarsi su quanto da essa denunciato, ritenendo erroneamente che essa potesse tutelare le proprie ragioni solo dimostrando, nell’incardinato giudizio amministrativo, l’illegittimità degli atti impugnati per insussistenza degli abusi sanzionati. Più in dettaglio, sostiene l’impugnante, censurando il capo della decisione che a questo fine aveva fatto leva sull’estraneità del terzo ipotecario al circuito relazionale e al contraddittorio tra pubblica amministrazione e proprietario del bene, il principio in parola, ove rettamente inteso, avrebbe dovuto condurre a conclusioni diametralmente diverse da quelle enunciate, in quanto, proprio perché estraneo all’abuso edilizio, il creditore ipotecario doveva essere messo in condizione di tutelare i propri diritti prima che l’amministrazione adottasse l’atto oggetto di lagnanza, a nulla rilevando, in contrario, l’astratta tutelabilità degli stessi dinanzi al giudice amministrativo, dato che in quella sede il creditore non avrebbe potuto valersi di quegli strumenti, azionabili invece stragiudizialmente, come ad esempio l’istanza in sanatoria, idonei a preservarne il diritto e a scongiurare il pregiudizio diversamente subito.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta che la decisione impugnata sarebbe affetta da difetto di giurisdizione per eccesso di potere giurisdizionale, segnatamente, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera amministrativa, posto che il Consiglio di Stato, nel rigettare, sul presupposto della ritenuta recessività dell’ipoteca rispetto al provvedimento di acquisizione, il terzo ed il quarto motivo del ricorso avanti a sé – intesi a contestare l’illegittimità del provvedimento di acquisizione per la preesistenza dell’iscrizione ipotecaria ovvero il carattere vincolato dell’ordine di acquisizione o, ancora, la mancata motivazione dell’ordine di demolizione rispetto alle ragioni del terzo ipotecario – si sarebbe sostituito, nel rapporto con il terzo ipotecario, alla pubblica amministrazione, negando che il primo potesse attivarsi per tutelare le proprie ragioni prima che il bene fosse acquisito al patrimonio pubblico. Più in dettaglio, sostiene l’impugnante, censurando ancora il capo della decisione che a questo fine aveva fatto leva sull’estraneità del terzo ipotecario al circuito relazionale e al contraddittorio tra pubblica amministrazione e proprietario del bene, valutare l’apporto del privato nel procedimento che porta all’acquisizione del bene è compito che pertiene in prima battuta alla legge, che disciplina i diritti di partecipazione in campo amministrativo ed il diritto alla conservazione delle garanzie patrimoniali in campo civile, e quindi all’amministrazione, non potendo ritenersi a priori che l’apporto della banca in questo contesto sarebbe stato in ogni caso irrilevante, in ciò per vero evidenziandosi un’ulteriore ragione di censura sotto il profilo del sindacato di poteri non esercitati.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta che la decisione impugnata sarebbe affetta da un difetto di giurisdizione per eccesso di potere giurisdizionale, sotto il profilo della violazione del doppio grado di giurisdizione, posto che il Consiglio di Stato, pur rilevando l’errore in cui era caduto il primo giudice dichiarando inammissibile il ricorso della banca, in luogo di rimettergli gli atti per la rinnovazione del giudizio, aveva statuito nel merito rigettando le doglianze dell’appellante. Più in dettaglio, sostiene l’impugnante, illustrando le ragioni per le quali, sotto il profilo della tutela dei diritti della difesa, della riconoscibilità in parte qua di un rifiuto di giurisdizione e della possibile violazione degli obblighi motivazionali, il vizio denunciato infirma alla radice la decisione gravata, la rilevanza di esso non sarebbe esclusa dall’effetto devolutivo proprio del giudizio di appello, poiché, avendo il decidente ricusato dei esaminare le censure sollevate in primo grado, si renderebbe in ciò riconoscibile appunto il denunciato rifiuto di giurisdizione.
2.4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta che la decisione impugnata sarebbe affetta da difetto di giurisdizione per eccesso di potere giurisdizionale, nonché da un rifiuto di giurisdizione, segnatamente sotto il profilo della violazione dell’art. 13 CEDU, posto che il Consiglio di Stato, statuendo nei riferiti termini, aveva negato il diritto della banca a vedere efficacemente tutelate le proprie ragioni. Più in dettaglio, sostiene l’impugnante, la denunciata violazione si renderebbe ravvisabile nell’aver essa negato alla banca, sul presupposto del principio di recessività dell’ipoteca rispetto all’acquisizione del bene al patrimonio pubblico, di poter far valere le proprie ragioni in sede amministrativa, nonché nell’aver accollato alla stessa, ritenendo che essa potesse vedere riconosciute le proprie ragioni solo dimostrando il giudizio l’insussistenza dell’abuso sanzionato, una prova diabolica, essendo essa del tutto estranea alla sua consumazione.
2.5. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta che la decisione impugnata sarebbe affetta da difetto di giurisdizione per eccesso di potere giurisdizionale, segnatamente sotto il profilo della violazione del primo protocollo aggiuntivo della CEDU, della violazione degli artt. 6 e 13 CEDU, della violazione degli art. 3, 24 e 113 Cost. e della violazione del principio di proporzionalità, posto che il Consiglio di Stato, pur investito delle corrispondenti questioni, aveva omesso di pronunciarsi in ordine ai vizi dedotti con riferimento alla citate norme sovranazionali. Più in dettaglio, sostiene l’impugnante, censurando il capo della decisione che, richiamando l’art. 31 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, aveva convenuto sull’automatica caducazione della garanzia ipotecaria a fronte dell’intervenuta acquisizione alla sfera pubblica del bene abusivo, la norma richiamata non prevede che il Comune possa unilateralmente estinguere l’ipoteca gravante sul bene da esso acquisito o possa pregiudicarne altrimenti il diritto del creditore, sicché un’interpretazione costituzionalmente orientata di essa, conforme inoltre ai soprarichiamati principi sovranazionali ed in linea con il principio di proporzionalità tra illecito e sanzione, avrebbe dovuto condurre alla ben diversa conclusione di ritenere illegittimi i provvedimenti impugnati, tanto più considerando il pregiudizio in tal modo sofferto dal diritto di difesa di essa impugnante che, se i beni fossero stati trasferiti a terzi, avrebbe potuto comunque rivalersi su di essi.
3. Tutti i sopradetti motivi si prestano ad una comune declaratoria di inammissibilità in quanto volti a denunciare violazioni di legge o, al più, errores in iudicando, che, afferendo ai limiti interni della giurisdizione affidata al giudice speciale, fuoriescono dal perimetro entro cui si esercita il controllo di giurisdizione previsto dagli artt. 111, comma 8, Cost. e 362 cod. proc. civ.
4. È bene a questo riguardo fissare inizialmente le coordinate di principio entro cui si situa l’odierno contenzioso, anche per evitare di alimentare facili suggestioni indotte dalla convinzione – su cui pure si sofferma il controricorrente – che il controllo di giurisdizione che l’ordinamento processuale affida alle SS.UU. di questa Corte sulle sentenze dei giudici speciali, in vista di un concetto “dinamico” di giurisdizione o, se si vuole, di una concezione della tutela giurisdizionale nel senso più ampio accordato dal diritto unionale, possa estendersi ben oltre i limiti indicati con chiarezza dal legislatore costituente.
Non è allora inopportuno ricordare che la Corte Costituzionale, nel rigettare con sentenza 6/2018 la questione di legittimità costituzionale a tale riguardo sollevata dalle SS.UU. di questa Corte con ordinanza 6891/2016, ha, tra l’altro, affermato che il controllo di giurisdizione previsto dall’art. 111, comma 8, Cost. «attinge il suo significato e il suo valore dalla contrapposizione con il precedente comma settimo, che prevede il generale ricorso in cassazione per violazione di legge contro le sentenze degli altri giudici, contrapposizione evidenziata dalla specificazione che il ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è ammesso per i “soli” motivi inerenti alla giurisdizione». Deve di conseguenza «ritenersi inammissibile ogni interpretazione di tali motivi che, sconfinando dal loro ambito tradizionale, comporti una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso». «L'”eccesso di potere giudiziario”, denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici».
Costituisce, in ragione di ciò, perciò ius receptum il principio, stabilizzatosi nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite a seguito del riportato dictum di costituzionalità (in motivazione, ex multis, Cass., Sez. U, 9/11/2022, n. 33075; Cass., Sez. U, 7-12-2021, n. 38978; Cass., Sez. U, 14/01/2020, n. 413) e, rafforzatosi in maniera significativa (Cass., Sez. U, 15/11/2022, n. 33641; Cass., Sez. U, 9/11/2022, n. 33100; Cass., Sez. U, 10/10/2022, n. 29502) dopo Corte Giust., 21.12.2021, C-497/20, Randstad Italia – che, com’è noto, negando che sia contraria all’ordinamento unionale una disposizione di diritto interno che renda insindacabile la decisione del giudice speciale di ultima istanza anche quando si assuma che essa contrasti con il diritto dell’Unione, ha, allo stato, posto un punto fermo nella discussione in materia – secondo cui il controllo esercitabile dalla Corte di Cassazione sulle decisione dei giudici speciale ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost. è circoscritto alle sole questioni inerenti alla giurisdizione, cioè al controllo dell’osservanza delle norme di diritto che disciplinano i limiti esterni della giurisdizione stessa, ovvero all’esistenza di vizi che attengono all’essenza stessa della funzione giurisdizionale, senza estendersi al modo del suo esercizio, con la conseguenza che con il ricorso per cassazione avverso le decisioni del giudice amministrativo o del giudice contabile non possono essere dedotti altri eventuali errori, in iudicando o in procedendo (così in motivazione Cass., Sez. U, 5/07/2021, n. 18976; Cass., Sez. U, 15/09/2020, n. 19168; Cass., Sez. U, 10/05/2019, n. 12586). In particolare, si è precisato – diversamente assumendo il controllo di giurisdizione una latitudine non dissimile da quella che ha sui provvedimenti del giudice ordinario (Cass., Sez. U, 14/11/2018, n. 29285) – che il controllo del limite esterno della giurisdizione non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori “in iudicando” o “in procedendo“, senza che rilevi la gravità o intensità del presunto errore di interpretazione, il quale rimane confinato entro i limiti interni della giurisdizione amministrativa, considerato che l’interpretazione delle norme costituisce il “proprium” distintivo dell’attività giurisdizionale (Cass., Sez. U, 9/11/2022, n. 33074; Cass., Sez. U, 16/12/2021, n. 40479; Cass., Sez. U, 4/12/2020, n. 27770).
5. Questi pochi rilievi smentiscono alla radice i contrari convincimenti esplicati dalla ricorrente nell’impugnare la decisione in disamina.
6.1. Nessun seguito può invero trovare la doglianza che prende corpo nel primo motivo di ricorso.
Va qui, infatti, previamente ricordato che secondo quel si insegna abitualmente il rifiuto di giurisdizione, in guisa del quale la decisione adottata dal giudice speciale si rende sindacabile sensi dell’art. 362 cod. proc. civ., risulta riconoscibile soltanto se il giudice adito nel declinare la giurisdizione ritenga che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio sia in astratto priva di tutela, ovvero riconosca la giurisdizione del giudice ordinario o di altro giudice speciale (Cass., Sez. U, 30/11/2021, n. 37552).
Orbene il principio, applicato al caso che ne occupa, è con pari effetto preclusivo, illuminante: da un lato è evidente che la doglianza non si accorda con il tenore della decisione, dal momento che il Consiglio di Stato non ha affatto denegato la propria giurisdizione sulla domanda ricorrente, ma, pur riformando l’errata pronuncia del giudice di primo grado che ne aveva decretato l’inammissibilità per il difetto di legittimazione e di interesse all’azione dell’istante e riconoscendone perciò l’astratta tutelabilità avanti a sé, si è pronunciato su di essa pur se per rigettarla nel merito; dall’altro, appuntandosi, come si è visto la doglianza segnatamente sul punto in cui la sentenza ha affermato l’estraneità al circuito relazionale e al contraddittorio tra amministrazione pubblica e proprietario dei beni abusivi del terzo ipotecario, al quale sarebbe perciò precluso di poter interloquire nel relativo procedimento e di poter far valere in quella sede con più efficacia le ragioni del proprio credito, è altrettanto evidente che essa si risolve al più nella denuncia di un vizio del procedimento amministrativo per violazione, ove in concreto ravvisabile, del diritto di partecipazione del terzo interessato.
Nell’uno e nell’altro caso la doglianza si colloca apertamente al di fuori del vizio denunciabile in questa sede.
6.2. Anche il secondo motivo di ricorso si espone a rilievi parimenti preclusivi.
Posto, infatti, che l’eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera riservata al potere discrezionale della P.A., si rende configurabile se la pronuncia adottata dal decidente che non si limiti ad annullare il provvedimento impugnato, rimettendo all’Amministrazione ogni valutazione in ordine al prosieguo della procedura, ma si spinga fino a prefigurare il possibile esito di tale valutazione, individuando un’unica corretta modalità di esercizio della discrezionalità amministrativa (Cass., Sez. U, 18/02/2022, n. 5365), ne discende, ancora una volta, considerando il caso che ne occupa ala luce del prefissato principio, che la doglianza non colga nel segno.
Il Consiglio di Stato ha invero respinto le doglianze argomentate con il terzo ed il quarto motivo del ricorso avanti a sé, a cui si correla la doglianza odierna, all’esito di un sindacato interpretativo che, muovendo dall’iniziale premessa – reiteratamente enunciata dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’acquisizione dell’immobile abusivo, che segue ai sensi dell’art. 31 d.P.R. 380/2001 all’inottemperanza dell’ordine di demolizione, configura un acquisto a titolo originario in capo all’amministrazione procedente e caduca automaticamente tutti i diritti preesistenti, ivi compresi quelli di garanzia – è giunto alla naturale conclusione che le doglianze declinate con riferimento alla preesistenza dell’iscrizione ipotecaria e alla vincolatività ex lege dell’ordine di acquisizione non potessero trovare alcun accoglimento in ragione appunto della natura originaria dell’acquisto operato dalla P.A. e della conseguente recessività rispetto ad esso di ogni vincolo preesistente.
E’ allora evidente, guardando alla doglianza odierna, il duplice vulnus che ne infirma il proponimento: l’impugnata sentenza non prefigura, infatti, alcun esito di un ipotetico ravvedimento amministrativo, escludendo in partenza, che per il rigetto del terzo e del quarto motivo del ricorso avanti a sé, la vicenda debba formare oggetto di rinnovata delibazione in quella sede; ma neppure si mostra qui diversamente sindacabile, rendendosi al riguardo, al più, ipotizzabile un errore di interpretazione in cui sarebbe caduto il giudice speciale, che non è però declinabile quale motivo di impugnazione per eccesso di giurisdizione, l’attività interpretativa del giudice speciale rientrando, infatti, nei limiti interni della giurisdizione affidata al medesimo.
6.3. Rifluiscono infine nel solco di una denuncia che è intesa a censurare l’impugnata decisione sotto il profilo della violazione dei soli limiti interni della giurisdizione che fa capo al giudice speciale e si rendono, perciò, insuscettibili di valutazione sotto il profilo azionato le doglianze declinate con il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso.
Si è già per l’innanzi ricordato che il controllo esercitabile dalla Corte di Cassazione sulle decisioni dei giudici speciale ai sensi degli artt. 111, comma 8, Cost. e 362 cod. proc. civ. è circoscritto alle sole questioni inerenti alla giurisdizione, cioè al controllo dell’osservanza delle norme di diritto che disciplinano i limiti esterni della giurisdizione stessa ovvero all’esistenza di vizi che attengono all’essenza stessa della funzione giurisdizionale, senza estendersi al modo del suo esercizio, con la conseguenza che con il ricorso per cassazione avverso le decisioni del giudice amministrativo o del giudice contabile non possono essere dedotti altri eventuali errori, in iudicando o in procedendo (così in motivazione Cass., Sez. U, 5/07/2021, n. 18976; Cass. Sez. U, 15/09/2020, n. 19168; Cass., Sez. U, 10/05/2019, n. 12586).
Con il terzo motivo di ricorso, dolendosi che nel riformare la decisione di primo grado in punto di legittimazione ed interesse ad agire dell’impugnante, la sentenza gravata avrebbe violato il principio del doppio grado di giurisdizione non rimettendo la controversia al primo giudice, la ricorrente intende appunto veder sindacato in questa sede proprio un error in procedendo che, ove sussistente, si è consumato nei limiti interni della giurisdizione affidata a quel giudice e che come tale esula dall’eccesso di giurisdizione denunciabile avanti a queste Sezioni Unite.
Muovendo viceversa con il quarto ed il quinto motivo di ricorso alla volta di un error in iudicando in cui la sentenza impugnata sarebbe caduta nel non aver correttamente delibato, in relazione alla specie in disamina, le implicazioni interpretative sottese alle richiamate norme sovranazionali, la ricorrente addebita ancora una volta alla sentenza impugnata un errore che attiene all’interpretazione e all’applicazione delle norme di diritto, chiedendo inammissibilmente di sindacare un’attività che costituisce il proprium della giurisdizione esercitata al giudice speciale e che, rientrando nei limiti interni della giurisdizione affidata al plesso giurisdizionale di riferimento, non è suscettibile del vaglio qui richiesto.
7. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da susseguente dispositivo.
Ove dovuto sussistono i presupposti per il raddoppio a carico della ricorrente del contributo unificato ai sensi del dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in favore di parte resistente in euro 7200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Cosi deciso in Roma nella camera di consiglio della Sezioni Unite civili il giorno 9.5.2023.
Il Presidente
Dott. Guido Raimondi
Allegati:
SS.UU, 06 giugno 2023, n. 15934, in tema di eccesso di potere giurisdizionale
In tema di eccesso di potere giurisdizionale – SS.UU, 27 marzo 2023, n. 8676
Civile Ord. Sez. U Num. 8676 Anno 2023
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 27/03/2023
R.G. 16409/2022
C.C. 21/3/2023
ricorso avverso sentenza
del Consiglio di Stato
resa in sede di revocazione
O R D I N A N Z A
sul ricorso iscritto al N.R.G. 16409 del 2022 proposto da:
BERGAMI Karen, rappresentata e difesa dall’Avvocato Alessia Fiore, con domicilio eletto presso lo studio Pini & Partners in Roma, via della Giuliana, n. 82;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio presso la sede dell’Istituto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– resistente –
per la cassazione della sentenza del Consiglio di Stato n. 3258 del 2022, depositata il 27 aprile 2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 marzo 2023 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Rita Sanlorenzo, che ha chiesto dichiararsi il ricorso inammissibile.
FATTI DI CAUSA
1. – La dottoressa Karen Bergami ha partecipato al concorso per il conferimento di ottanta posti di commissario della Polizia di Stato, ma è stata dalla commissione medica del Ministero dell’interno giudicata inidonea al servizio, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del decreto ministeriale n. 198 del 2003, per la carenza dei requisiti psico-fisici, in particolare per la presenza di un tatuaggio in una zona del corpo non coperta dall’uniforme.
Avverso tale giudizio di inidoneità la dottoressa Bergami ha proposto ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sostenendo che si trattava, non di un tatuaggio in senso stretto, ma di un mero residuo cicatriziale, irrilevante anche perché coperto dalle calze dell’uniforme.
2. – Il TAR del Lazio ha accolto il ricorso con sentenza n. 1700 del 2020 e, per l’effetto, ha disposto l’annullamento del giudizio di non idoneità espresso dalla commissione medica. L’Amministrazione – ha rilevato il primo giudice – non può procedere all’automatica esclusione dal concorso per la sola presenza di un tatuaggio in una zona del corpo non coperta dall’uniforme, bensì deve specificamente motivare in che misura la visibilità è tale da determinare l’inidoneità al servizio nella Polizia, valutando la situazione nello specifico caso anche alla luce della previsione di favorevole evoluzione in relazione alla sottoposizione del tatuaggio al trattamento di completa rimozione, già in periodo anteriore alla data della visita medica concorsuale.
3. – Di diverso avviso è stato il Consiglio di Stato, il quale, con sentenza in data 8 giugno 2021, ha accolto l’appello spiegato dal Ministero dell’interno, riformando la pronuncia di primo grado.
Secondo il giudice amministrativo di ultima istanza, non ha rilievo il fatto che il tatuaggio sia stato completamente rimosso in un momento successivo all’accertamento concorsuale, perché i requisiti di idoneità devono essere posseduti entro la data di partecipazione alla selezione concorsuale e devono essere verificabili nei tempi previsti dal bando, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.
La circostanza per cui il tatuaggio fosse già allora in avanzato stato di rimozione, è smentita, secondo il Consiglio di Stato, dal verbale della seduta della commissione medica, la quale ha fatto riferimento alla documentazione fotografica, da cui è evidente la presenza del tatuaggio ancora percepibile nelle sue dimensioni complessive e nel soggetto raffigurato.
Il giudice amministrativo d’appello ha sottolineato che il tatuaggio non risulta coperto dall’uniforme e che, ai fini della corretta interpretazione dell’art. 3, comma 2, del d.m. n. 198 del 2003, non assume rilievo la circostanza che durante la visita medica non siano state fatte indossare le calze, non assimilabili ai capi di abbigliamento, quali pantaloni o giacche, ai quali la disposizione si riferisce.
In relazione alle considerazioni svolte dall’appellata sulla divisa e in particolare sulla natura delle calze in relazione all’uniforme, il Consiglio di Stato ha fatto richiamo ad un proprio precedente che, in analoga fattispecie, ha affermato che, con l’espressione “tatuaggi sulle parti del corpo non coperte dall’uniforme”, il citato decreto ministeriale ha inteso distinguere gli effetti dei tatuaggi in termini di idoneità al servizio nella Polizia di Stato: mentre i tatuaggi presenti sulle parti del corpo non coperte dalla divisa hanno valenza automaticamente escludente, di contro i tatuaggi sulle parti del corpo coperte dalla divisa determinano inidoneità solo ove, per sede e per natura, deturpanti o, per contenuto, indice di personalità “abnorme”.
4. – La dottoressa Bergami si è rivolta nuovamente al Consiglio di Stato, chiedendo la revocazione della sentenza pronunciata in grado di appello per errore di fatto, determinato, a suo avviso, dalla mancata considerazione della non visibilità del tatuaggio e dall’aver motivato la decisione esclusivamente in astratto, sulla base di precedenti giurisprudenziali intervenuti su casi simili.
5. – Con sentenza n. 3258 del 2022, pubblicata il 27 aprile 2022, il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione, escludendo la configurabilità dell’ipotesi di errore di fatto revocatorio denunciato dall’interessata.
Il giudice amministrativo ha osservato, al riguardo, che la visibilità dei residui del tatuaggio ha costituito il punto controverso, e “centrale”, sul quale la sentenza d’appello ha avuto modo di esprimersi, e ha rilevato che anche la documentazione fotografica prodotta dalla dottoressa Bergami, unitamente al verbale della commissione medica del Ministero dell’interno, è stata oggetto di valutazione in appello.
Secondo il Consiglio di Stato, le doglianze della ricorrente sono volte a censurare, al più, un error in iudicando, non essendo sindacabile in sede di revocazione il fatto che il giudice dell’appello non abbia ritenuto sussistenti i presupposti per accogliere la richiesta di verificazione.
6. – Per la cassazione della sentenza del Consiglio di Stato resa nel giudizio per revocazione, la dottoressa Bergami ha proposto ricorso, con atto notificato il 24 giugno 2022, sulla base di due motivi.
Il Ministero dell’interno non ha notificato controricorso, ma ha depositato un atto di costituzione ai soli fini della partecipazione alla eventuale discussione orale.
7. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
8. – Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte nel senso della inammissibilità del ricorso.
In prossimità della camera di consiglio, la difesa della ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Viene impugnata con due motivi di ricorso per cassazione la sentenza del Consiglio di Stato che ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione avverso la pronuncia dello stesso Consiglio che, accogliendo l’appello dell’Amministrazione, ha respinto la domanda della dottoressa Bergami di annullamento del giudizio di non idoneità al concorso per commissario della Polizia di Stato, espresso dalla commissione medica per la presenza di un tatuaggio in zona non coperta dall’uniforme.
2. – Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente censura il vizio di eccesso di potere giurisdizionale in cui sarebbe incorso il Consiglio di Stato in sede di revocazione, per avere operato uno sconfinamento nel potere della pubblica amministrazione là dove, entrando nel merito della controversia, ha affermato che essa aveva ad oggetto i residui di un tatuaggio, seppur in avanzata fase di rimozione, in una parte del corpo visibile con l’uniforme.
La pronuncia del Consiglio di Stato, là dove ha ritenuto che, ai fini della corretta interpretazione dell’art. 3, comma 2, del d.m. n. 198 del 2003, in tema di cause di esclusione, non rileva la circostanza che durante la visita medica non siano state fatte indossare le calze (poiché non assimilabili ai capi di abbigliamento in senso stretto), si sarebbe spinta al di là dell’esame richiesto in sede di revocazione.
La sentenza impugnata risulterebbe inficiata dal vizio di eccesso di potere sotto un duplice profilo.
In primo luogo, perché il Consiglio di Stato, nel condividere gli esiti della sentenza d’appello secondo cui la controversia aveva ad oggetto un tatuaggio posto in una parte del corpo visibile con l’uniforme (e non già i residui cicatriziali derivanti dalla precedente operazione di rimozione), avrebbe, di fatto, coniato una nuova norma sul sistema delle divise degli appartenenti alla Polizia di Stato. Ad avviso della ricorrente, il giudice della revocazione avrebbe arbitrariamente escluso le calze dai capi di abbigliamento, ignorando le regole già dettate dal Ministero dell’interno in materia ed ingerendosi nella potestà regolamentare attribuita a quest’ultimo dal legislatore.
In secondo luogo, perché il Consiglio di Stato, nel ritenere che l’omessa considerazione delle calze quale parte integrante dell’uniforme femminile non costituisce un “abbaglio dei sensi”, avrebbe finito con l’invadere la sfera della discrezionalità amministrativa, individuando quali capi di abbigliamento concorrono a formare la divisa da far indossare in sede di accertamento concorsuale, sostituendo, per l’effetto, la propria valutazione di opportunità dell’atto amministrativo al giudizio della pubblica amministrazione.
3. – Con il secondo motivo, la ricorrente si duole che il Consiglio di Stato, ribadendo, in sede di revocazione, l’irripetibilità degli accertamenti psico-fisici effettuati in sede concorsuale, abbia indebitamente rifiutato di esercitare la funzione giurisdizionale, omettendo di considerare la valenza della perizia di parte e non ammettendo la verificazione richiesta. Viene denunciata la violazione degli artt. 24, 103, 113 e 117 Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, degli artt. 1-3 e 64-67 cod. proc. amm., del codice delle pari opportunità (d.lgs. n. 198 del 2006), degli artt. 3, 15, 21, 23, 30, 31, 34 e 35 della CDFUE, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, dell’art. 267 TFUE, e degli artt. 2, 3, 4, 24, 35, 36, 37, 111 e 113 Cost. Ad avviso della ricorrente, il Consiglio di Stato avrebbe omesso di esercitare un sindacato giurisdizionale pieno, anche sotto il profilo istruttorio, sul provvedimento impugnato. L’eccesso di potere giurisdizionale per diniego o rifiuto di giurisdizione sarebbe configurabile anche per l’omessa verifica di applicazione e interpretazione del diritto dell’Unione europea in relazione a situazioni giuridiche soggettive fondamentali, quali la non discriminazione, la parità di accesso al lavoro, la tutela giurisdizionale e l’effettività del ricorso.
4. – Il ricorso è, con riferimento ad entrambi i motivi in cui si articola, inammissibile.
5. – Giova premettere che, con l’impugnata pronuncia, il Consiglio di Stato ha escluso che ricorra l’errore revocatorio.
Il rimedio – ha affermato il giudice speciale – non è stato esperito per eliminare l’ostacolo materiale frapposto tra la realtà del processo e la percezione che di questa abbia avuto il giudice amministrativo d’appello. Secondo il giudice amministrativo, le doglianze di parte ricorrente investono l’attività valutativa compiuta dal giudice in sede di appello e non la percezione – che si assume inesatta – di dati fattuali.
Affinché sia configurabile l’errore revocatorio – ha sottolineato il Consiglio di Stato – occorre che esso derivi da un “abbaglio dei sensi”, ossia da un’errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio che abbia indotto il giudice a ritenere come documentalmente provato un fatto inesistente o, viceversa, inesistente un fatto documentalmente provato.
Mentre l’errore revocatorio richiede che il fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza abbia pronunciato, nel caso di specie, ha osservato il Consiglio di Stato, la causa in sede di appello ha avuto ad oggetto proprio la visibilità in una parte del corpo, con l’uniforme, dei residui di un tatuaggio seppur in avanzata fase di rimozione. E – prosegue la sentenza – il giudice d’appello ha dato atto di aver valutato anche la documentazione fotografica del tatuaggio in questione, ritenendo decisivi non solo il verbale redatto dalla commissione medica, ma anche le risultanze fotografiche presenti agli atti.
6. – In sede di ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato pronunciate su impugnazione per revocazione, può sorgere questione di giurisdizione solo con riferimento al potere giurisdizionale in ordine alla statuizione sulla revocazione medesima, restando comunque esclusa la possibilità di rimettere in discussione detto potere con riguardo alla precedente decisione di merito (Cass., Sez. Un., 31 ottobre 2019, n. 28214; Cass., Sez. Un., 20 luglio 2021, n. 20688).
7. – Alla luce di tale principio, va rilevato che, con il proposto ricorso per cassazione, la ricorrente utilizza l’impugnazione della sentenza del Consiglio di Stato nel giudizio di revocazione per veicolare censure rivolte, in realtà, a contestare il potere giurisdizionale esercitato, dallo stesso giudice amministrativo, nella precedente decisione resa in sede di appello.
8. – Ciò è evidente là dove, con il primo motivo, la ricorrente si duole del superamento del limite esterno della giurisdizione per avere, il giudice amministrativo di ultima istanza, dettato le norme sulla costituzione dei capi di abbigliamento delle divise e, sotto altro profilo, per aver ritenuto di sostituire l’atto amministrativo con valutazioni di opportunità.
Lo sconfinamento del giudice amministrativo nel potere della pubblica amministrazione evidenzierebbe, ad avviso della ricorrente, la “abnormità della sentenza di appello anche in termini discriminatori là dove – escludendo addirittura le calze dai capi di abbigliamento dell’uniforme – ha ritenuto di adottare una nuova norma sulla costituzione dei capi delle divise” (così il ricorso, a pagina 9).
L’eccesso di potere (per essersi spinto, il giudice amministrativo, sino a “coniare una nuova norma che individua i capi di abbigliamento delle divise ed esclude le calze da questi ultimi”) riguarda, in prima battuta, secondo la stessa prospettazione della ricorrente, la sentenza di appello del Consiglio di Stato (cfr. pagina 10 del ricorso).
Soltanto formalmente la ricorrente estende il vizio alla sentenza resa in sede di revocazione. Si sostiene, infatti, nel ricorso, che “si è perpetrato anche in sede di revocazione un eccesso di potere giurisdizionale”; che “non rientra nel potere del giudice amministrativo (nella specie, il giudice della revocazione) di dettare le norme in materia di costituzione dell’uniforme”; che il giudice della revocazione “ha pianamente convalidato nel merito che l’esito cicatriziale del tatuaggio, essendo posizionato sul dorso del piede destro della dottoressa Bergami, fosse ex se visibile e ciò a prescindere dalla divisa e dalle calze dell’uniforme”.
9. – Ritiene il Collegio delle Sezioni Unite che, nel ricorso per cassazione contro una sentenza del Consiglio di Stato emessa su impugnazione per revocazione, non vi è spazio per una questione di giurisdizione quando il vizio di eccesso di potere denunciato (nella specie, per sconfinamento nel potere della pubblica amministrazione) in realtà si annidi, secondo la deduzione della stessa parte ricorrente, nella sentenza di appello del giudice amministrativo, per poi riflettersi per ricaduta – ma soltanto in conseguenza del non superamento di quell’esito decisorio per effetto della valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione – nella sentenza che dichiara inammissibile la revocazione.
Il che è coerente con il principio, più volte ribadito da questa Corte regolatrice (Cass., Sez. Un., 9 marzo 2021, n. 6471; Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2022, n. 1603; Cass., Sez. Un., 13 febbraio 2023, n. 4335), secondo cui, qualora vi sia stata la valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato, non è consentito il ricorso per cassazione, giacché con esso non verrebbe in rilievo la sussistenza o meno del potere giurisdizionale di operare detta valutazione e, dunque, una violazione di quei limiti esterni alla giurisdizione del giudice amministrativo, rispetto alla quale soltanto è ammesso ricorrere in sede di legittimità.
10. – Sono, pertanto, condivisibili le conclusioni del Pubblico Ministero, secondo cui non è configurabile alcuno sconfinamento di potere da parte del Consiglio di Stato, essendosi limitato il giudice della revocazione a constatare l’oggetto della controversia e a rilevare come non fosse configurabile un errore di fatto revocatorio, essendosi in presenza di una valutazione del giudice di appello che ha ritenuto determinanti, ai fini della decisione, le risultanze del verbale redatto dalla commissione. L’interpretazione del Consiglio di Stato relativa alle parti del corpo che devono essere considerate coperte in senso fisico da capi di abbigliamento, in virtù della quale non è stata attribuita valenza “coprente” alle calze della divisa, costituisce, dunque, un’attività ermeneutica che rappresenta il proprium dell’attività giurisdizionale, potendosi, al più, configurare un error in iudicando, come tale non censurabile innanzi alle Sezioni Unite.
11. – Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
12. – Con tale motivo la ricorrente si duole del fatto che, evocando i principi del tempus regit actum e della par condicio fra i candidati, il Consiglio di Stato avrebbe, da un lato, omesso ogni considerazione circa la perizia di parte, stante la sua natura necessariamente postuma rispetto agli accertamenti compiuti dalla commissione medica e, dall’altro, respinto l’istanza di verificazione avanzata dalla difesa della dottoressa Bergami, considerata la carenza di un corredo probatorio idoneo a mettere in dubbio l’attendibilità del giudizio di inidoneità. Lamenta la ricorrente che, tuttavia, così facendo, il Consiglio di Stato avrebbe posto la dottoressa Bergami in una posizione connotata dalla sostanziale impossibilità di fornire la prova contraria, generando una impasse nella possibilità fattuale di difesa rispetto alle risultanze dell’accertamento medico: ciò in quanto il giudizio di inidoneità diverrebbe, esclusivamente in virtù del momento in cui è stato emesso dalla commissione medica, sempre e comunque insindacabile, indipendentemente dalla bontà e correttezza del suo contenuto. Conseguentemente, l’impugnazione dell’atto amministrativo in sede giudiziale si risolverebbe in una mera formalità, una facoltà che, seppur virtualmente riconosciuta dall’ordinamento, si dimostra inidonea, in virtù del principio tempus regit actum, a tramutarsi in un sindacato pieno ed effettivo. Il giudice, opponendo al proprio sindacato l’irripetibilità degli accertamenti e revocando in dubbio l’attendibilità delle prove di parte, avrebbe omesso di considerare che la possibilità di contraddire del privato si basa su prove, quali perizie mediche ed accertamenti, necessariamente postume al provvedimento di esclusione dal concorso.
Secondo l’impostazione della ricorrente, una tale censura assumerebbe rilievo anche alla luce dei principi di tutela giurisdizionale effettiva, occupazione e accesso al lavoro, pari opportunità e non discriminazione e giusto processo.
La ricorrente, infatti, lamenta non solo l’esclusione dal concorso in ragione del rifiuto giurisdizionale denunciato, ma anche l’impossibilità di ripetere la selezione a causa del limite di età vigente.
Del pari, ella si duole che la questione non si sarebbe neppure posta per un candidato di sesso maschile, stante la prescrizione per il solo personale femminile di indossare, per le occasioni di gala, l’uniforme “ordinaria”, che pone problemi di visibilità del tatuaggio, costituita da gonna con calze e décolleté.
13. – Tale essendo la censura formulata dalla ricorrente con il secondo motivo, va rilevato che essa attinge, innanzitutto, una ratio aggiuntiva nel contesto delle argomentazioni che sostengono il decisum.
14. – Invero, con il ricorso per revocazione la ricorrente ha lamentato l’errore percettivo determinato dalla mancata considerazione della asserita non visibilità del tatuaggio e dall’aver motivato la decisione esclusivamente in astratto sulla base dei precedenti giurisprudenziali espressi su casi simili. A supporto della propria tesi, il gravame ha richiamato le fotografie depositate in primo grado dalla ricorrente, l’omesso esame della perizia di parte prodotta nel giudizio di appello e il mancato esperimento della richiesta verificazione.
La qui impugnata sentenza del Consiglio di Stato ha fondato la statuizione di inammissibilità del ricorso per revocazione sulla insussistenza di un errore di fatto revocatorio. Poiché la visibilità del tatuaggio e la sua ubicazione in una parte del corpo non coperta dall’uniforme hanno costituito il punto controverso sul quale la sentenza d’appello ha avuto modo di esprimersi in maniera esplicita, si è di fronte ad una ben precisa, per quanto criticabile dalla parte, valutazione del giudice di appello, il quale ha ritenuto decisive le risultanze del verbale e le relative fotografie presenti agli atti. Non c’è errore percettivo, non si è in presenza di un abbaglio dei sensi.
Dopo avere espresso questa ratio decidendi, il Consiglio di Stato ha esposto una motivazione ad abundantiam.
Una volta ricondotta la questione della visibilità del tatuaggio al punto controverso, e “centrale”, della sentenza d’appello ed esclusa, pertanto, la configurabilità dell’errore revocatorio, il giudice amministrativo di ultima istanza ha aggiunto una ulteriore argomentazione. Ha affermato, infatti, che, contrariamente a quanto ipotizzato dalla ricorrente, la sentenza d’appello non avrebbe potuto altrimenti tener conto della perizia di parte, necessariamente postuma, a suo tempo depositata dall’appellante, attesa la sostanziale irripetibilità, salvo casi limite, degli accertamenti psico-fisici esperiti in sede concorsuale, e considerata la necessità che i requisiti di partecipazione siano imprescindibilmente posseduti dai candidati entro la data di partecipazione alla selezione, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.
15. – L’afferenza della censura formulata dalla ricorrente ad una argomentazione svolta ad abundantiam ne preclude l’esame in questa sede.
È infatti inammissibile, in sede di ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione avverso una sentenza del Consiglio di Stato, il motivo che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam, in quanto la stessa, non costituendo una ratio decidendi, non spiega alcuna influenza sul dispositivo della pronuncia e, pertanto, essendo improduttiva di effetti giuridici, la sua impugnazione è priva di interesse. In altri termini, la censura mossa contro una motivazione di una sentenza del Consiglio di Stato formulata ad abundantiam non può comportare la cassazione di tale sentenza e deve, pertanto, essere dichiarata inammissibile in quanto inoperante.
16. – Del pari inammissibile è la doglianza con cui si contesta che il giudice amministrativo abbia escluso la sindacabilità in sede di revocazione, per non essere configurabile alcun errore percettivo, del fatto che, giudicando sull’appello, il Consiglio di Stato non abbia ritenuto sussistenti i presupposti per disporre la verificazione, richiesta per dimostrare la non visibilità sul corpo della donna dei residui del tatuaggio.
Con tale motivo di ricorso per cassazione, ancorché formalmente prospettato sotto il profilo del rifiuto di giurisdizione, si censura, infatti, la valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato. Non è posta una violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo. È denunciato un cattivo esercizio, da parte del Consiglio di Stato, della propria giurisdizione: vizio che, attenendo all’esplicazione interna del potere giurisdizionale conferito dalla legge al giudice amministrativo, non è deducibile dinanzi alle Sezioni Unite.
17. – Denunciando il rifiuto di giurisdizione, la ricorrente con il secondo motivo pone anche un problema di effettività della tutela giurisdizionale e, al contempo, di ambito, e di limiti, del sindacato delle Sezioni Unite sulle sentenze del giudice amministrativo.
È consolidato nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice il principio secondo cui, in materia di ricorso per cassazione avverso le sentenze del giudice amministrativo, integra il vizio di rifiuto dell’esercizio della giurisdizione l’affermazione, contro la regula iuris che attribuisce a quel giudice il potere di dicere ius sulla domanda, che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio è, in astratto, priva di tutela, allorché essa sia corredata dal rilievo della estraneità di tale situazione non solo alla propria giurisdizione ma anche a quella di ogni altro giudice. Tale vizio risulta il solo sindacabile dalla Corte di cassazione ex art. 111, ultimo comma, Cost., e ciò diversamente dall’erronea negazione, in concreto, della tutela alla situazione sog-gettiva azionata (v., per tutte, Cass., Sez. Un., 6 giugno 2017, n. 13976).
La negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non concreta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, ottavo comma, Cost., atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione.
Nella misura in cui riconduce ipotesi di errores in iudicando o in procedendo ai motivi inerenti alla giurisdizione, la tesi del concetto di giurisdizione inteso in senso dinamico – ha sottolineato la Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 – comporta una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso, ai sensi del settimo e dell’ottavo comma dell’art. 111 Cost., e si pone in contrasto con tale disposizione costituzionale e con l’assetto pluralistico delle giurisdizioni stabilito dalla Carta fondamentale che, appunto per questo, ha sottratto le sentenze del Consiglio di Stato (e della Corte dei conti) al controllo nomofilattico della Corte di cassazione, stabilendo una riserva di nomofilachia in favore dei rispettivi organi di vertice delle due giurisdizioni speciali.
18. – La ricorrente muove dalla tesi, in passato accolta dalle Sezioni Unite, secondo cui sarebbe norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto al potere stabilendo attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca. In particolare, la ricorrente sostiene che l’apertura a tale concezione della giurisdizione sarebbe nella specie giustificata dal coacervo e dal complesso di violazioni che sarebbero riscontrabili nella sentenza impugnata: per il duplice diniego sia alla considerazione della perizia di parte sia a dare sfogo alla richiesta di verificazione; per il sostanziale rifiuto di sindacare il giudizio di inidoneità impugnato; per la mancata adeguata considerazione dei diritti fondamentali, delle libertà e dei valori in gioco, anche di derivazione europea, dal diritto al lavoro al principio di non discriminazione.
19. – Il Collegio delle Sezioni Unite è consapevole del fatto che le disposizioni limitative in materia di tatuaggi coinvolgono il tema delle libertà costituzionali, in particolare della libertà di espressione, e che, proprio per questo, il giudice deve evitare, nel momento interpretativo, letture restrittive della normativa regolamentare che si risolvano in un esito discriminatorio per le donne che intendono accedere in Polizia di Stato, tenuto conto della diversa uniforme femminile che, in alcuni casi, non copre in modo identico ai pantaloni.
Il Collegio ritiene, tuttavia, la complessiva censura inammissibile, per una duplice ragione.
19.1. – In primo luogo, per la condivisibilità dell’indirizzo, costituente diritto vivente, sul quale si è attestata la giurisprudenza delle Sezioni Unite, in tema di limiti al sindacato delle sentenze del Consiglio di Stato, costituendo ipotesi estranea al perimetro del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione la denuncia di un diniego di giustizia da parte del giudice amministrativo di ultima istanza, derivante dallo stravolgimento delle norme di riferimento. L’insindacabilità, da parte della Corte di cassazione a Sezioni Unite, per eccesso di potere giurisdizionale, ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost., delle sentenze del Consiglio di Stato pronunciate in violazione del diritto anche dell’Unione europea, non si pone in contrasto con gli artt. 52, par. 1, e 47 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, in quanto l’ordinamento processuale italiano garantisce comunque ai singoli l’accesso a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, come quello amministrativo, non prevedendo alcuna limitazione all’esercizio, dinanzi a tale giudice, dei diritti e delle libertà fondamentali (Cass., Sez. Un., 30 agosto 2022, n. 25503).
L’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile con il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione – che si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento) – nonché di difetto relativo di giurisdizione, riscontrabile quando detto giudice abbia violato i c.d. limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici, senza che tale ambito possa estendersi, di per sé, ai casi di sentenze “abnormi”, “anomale” ovvero di uno “stravolgimento” radicale delle norme di riferimento.
Quindi, il ricorso, con il quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo, rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione soltanto se il rifiuto sia stato determinato dall’affermata estraneità alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice della domanda, che non possa essere da lui conosciuta (Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2023, n. 5862).
Al contrario, non può essere sindacato innanzi alle Sezioni Unite l’errore che non si risolva nel rifiuto di esercitare la giurisdizione, bensì nel suo cattivo esercizio. Invero, il cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che provveda perché investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione, e tuttavia nell’esercitarla applichi regole di giudizio che lo portino a negare tutela alla situazione giuridica azionata, si risolve soltanto nell’ipotetica commissione di un errore interno e, se tale errore porti a negare tutela alla situazione fatta valere, ciò costituisce mera valutazione di infondatezza della richiesta di tutela; e ciò, ancorché la statuizione, in quanto proveniente dal giudice di ultimo grado della giurisdizione adita, comporti che la situazione rimanga priva di tutela giurisdizionale.
Ciascuna giurisdizione si esercita, infatti, con l’attribuzione, all’organo di vertice interno al plesso giurisdizionale, del controllo e della statuizione finale sulla correttezza in facto ed in iure di tutte le valutazioni necessarie a decidere sulla controversia, onde non è possibile prospettare che il modo in cui tale controllo viene esercitato dall’organo di vertice della giurisdizione speciale – ove pure si sia risolto nel negare tutela alla situazione giuridica azionata – sia suscettibile del controllo da parte delle Sezioni Unite, assumendosi quindi che la negazione di tutela in concreto, con l’applicazione da parte del giudice speciale delle regole sostanziali e processuali interne alle controversie devolute alla sua giurisdizione, si sia risolta in un vizio di violazione delle regole di giurisdizione (Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2023, n. 5862, cit.).
19.2. – C’è, peraltro, una ragione concorrente che rende inammissibile la censura.
Il rifiuto di sindacare il giudizio di inidoneità e il sotteso accertamento medico – che è ciò di cui si duole la ricorrente, sotto il profilo dell’esclusione della valenza di apporti probatori (esami medici, verificazione) relativi ai requisiti fisici esaminati in sede concorsuale nonché sub specie di mancata verifica di compatibilità della disciplina regolamentare italiana con il diritto unionale e con i diritti fondamentali ivi connessi e coinvolti – risale, in realtà, secondo la prospettazione della parte, alla sentenza del Consiglio di Stato resa in sede di appello, che non è la pronuncia oggetto della presente impugnazione.
20. – Il ricorso è dichiarato inammissibile.
Non vi è luogo a statuizione sulle spese, non avendo il Ministero dell’interno, che si è limitato a depositare un atto di costituzione privo dei caratteri del controricorso, svolto attività difensiva in questa sede.
21. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, ricorrono i presupposti processuali per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore im-porto a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stes-sa impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, in-serito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorren-te, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 21 marzo
Allegati:
SS.UU, 27 marzo 2023, n. 8676, in tema di eccesso di potere giurisdizionale
In tema di appalti pubblici – SS.UU, 09 marzo 2023, n. 7035
Civile Ord. Sez. U Num. 7035 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 09/03/2023
O R D I N A N Z A
sul ricorso iscritto al NRG 15196 del 2022 promosso da:
COMUNE DI TRECASTAGNI, rappresentato e difeso dagli Avvocati Andrea Scuderi e Giovanni Mandolfo;
– ricorrente –
contro
A.E. s.p.a., rappresentato e difeso dall’Avvocato Claudio Fiume;
– controricorrente –
per regolamento preventivo di giurisdizione nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Catania, iscritto al numero 236/2022 di ruolo generale.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7 marzo 2023 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giovanni Battista Nardecchia, che ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario.
FATTI DI CAUSA
1. – Con ricorso notificato l’11 febbraio 2022, la società A.E. s.p.a. ha chiesto al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Catania, la risoluzione della concessione del 16 giugno 2005, rep. 877, stipulata mediante scrittura privata, con la quale il Comune di Trecastagni ha concesso alla società ricorrente, allora denominata Medi-Etna Service s.p.a., i locali di proprietà comunale (un ex convento dei francescani), siti in piazza Vecchio Municipio, al fine di realizzarvi un centro museale, nonché dei successivi accordi del 30 giugno 2008 e del 4 gennaio 2016, con i quali sono state apportate modifiche alla concessione. La ricorrente ha domandato, inoltre, la condanna del Comune al risarcimento del danno, sia da perdita del finanziamento a valere sul P.O.R. 2000-2006, cui la società era stata ammessa, sia da lucro cessante per il mancato utilizzo dell’immobile, essendosi la società trovata nell’impossibilità di aprire il museo.
A fondamento della domanda, la società ha dedotto che la responsabilità della mancata apertura del centro museale è da ascrivere al Comune di Trecastagni, il quale avrebbe concesso in uso una struttura di fatto inagibile, priva dei necessari requisiti di sicurezza e, da ultimo, nemmeno ristrutturata dopo il sisma del 2018. In particolare, la struttura, da adibire a centro museale, non sarebbe dotata del certificato di agibilità, continuerebbe ad essere classificata come B/4 (ufficio) anziché B/6 (museo) e sarebbe dotata di impianto fognario ubicato in luogo diverso rispetto a quello indicato nel progetto presentato al Comune. La società concessionaria ha rappresentato di essersi dovuta far carico, nel corso del rapporto, di ingenti spese per lavori di vario genere senza per contro poter incassare i proventi derivanti dalla vendita dei biglietti d’ingresso al museo.
Nel giudizio dinanzi al TAR si è costituito il Comune di Trecastagni, resistendo ed eccependo preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore di quello ordinario.
2. – Nella pendenza del giudizio dinanzi al TAR, il Comune di Trecastagni ha sollevato, con atto notificato il 21 giugno 2022, ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, chiedendo dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario.
Ad avviso del ricorrente, la controversia sarebbe ricompresa nell’ambito della competenza giurisdizionale del giudice ordinario perché: non attiene alla fase pubblicistica di individuazione del concessionario, che inizia con la pubblicazione del bando di gara e si conclude con l’affidamento della concessione al soggetto vincitore dell’apposita sequenza ad evidenza pubblica; riguarda la fase di natura privatistica, meramente esecutiva del rapporto; ha ad oggetto l’asserito mancato adempimento, da parte del Comune, delle obbligazioni previste dalla convenzione sottoscritta dalle parti; la posizione giuridica della parte ricorrente nel giudizio a quo, qualificabile come diritto soggettivo, non afferisce all’esercizio di potestà amministrative discrezionali.
Il Comune osserva, inoltre, che l’immobile oggetto del rapporto non avrebbe una destinazione di pubblico generale interesse e non vi sarebbe alcuna previsione che imponga o contempli l’istituzione di un pubblico servizio gestito dall’amministrazione con vincoli istituzionali ed esercizio di potestà pubbliche.
3. – Si è costituita nel giudizio per regolamento preventivo, con controricorso, la società A.E., ricorrente nel giudizio a quo, concludendo per la giurisdizione dell’adito giudice amministrativo.
La controversia avrebbe ad oggetto atti relativi ad un rapporto di concessione di beni pubblici, sicché vi sarebbe la giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133 cod. proc. amm. La risoluzione della concessione amministrativa per inadempimento del concedente sarebbe riconducibile all’ambito pubblicistico. La controversia comporterebbe decisioni sulla durata o efficacia del rapporto concessorio.
Ad avviso della società controricorrente, sarebbe indifferente l’appartenenza del bene al patrimonio disponibile ovvero indisponibile. In ogni caso, l’immobile sarebbe da ricomprendere tra i beni del patrimonio indisponibile, essendo stato destinato a centro culturale museale.
Secondo la società, la controversia non riguarderebbe semplicemente la fase esecutiva del rapporto, bensì atterrebbe alla fase pubblicistica che inizia con la pubblicazione del bando e si conclude con l’affidamento della concessione.
4. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-ter cod. proc. civ., sulla base delle conclusioni scritte del Pubblico Ministero, che ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario.
Affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati a un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826, terzo comma, cod. civ., deve sussistere – ha rilevato l’Ufficio del Procuratore Generale – il doppio requisito, soggettivo e oggettivo, della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (quindi, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel bene determinato a un pubblico servizio) e dell’effettiva, attuale destinazione del bene al pubblico servizio.
In difetto di tali concorrenti condizioni, e della conseguente ascrivibilità del bene al patrimonio indisponibile, la cessione in godimento
dell’immobile in favore di privati non può essere ricondotta, ad avviso del Pubblico Ministero, a un rapporto di concessione amministrativa, ma, inerendo a un bene facente parte del patrimonio disponibile, al di là del nomen iuris che le parti contraenti abbiano inteso dare al rapporto, essa viene a inquadrarsi nello schema privatistico della locazione, con la conseguente devoluzione della cognizione della relativa controversia alla giurisdizione del giudice ordinario.
Nel caso di specie, la pariteticità del rapporto, la rilevanza puramente patrimoniale dei beni interessati, la circostanza, pacifica, che l’immobile non è attualmente destinato al pubblico servizio, sarebbero tutti elementi deponenti per la non riconducibilità del bene al patrimonio indisponibile.
5. – In prossimità della camera di consiglio entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Le Sezioni Unite sono investite del compito di stabilire a quale plesso giurisdizionale spetta conoscere della controversia promossa da un privato per ottenere la risoluzione, per responsabilità del Comune concedente, della convenzione con la quale l’Amministrazione ha concesso ad un privato l’uso e il godimento di un immobile di sua proprietà per adibirlo a centro museale, oltre al risarcimento del danno.
2. – La controversia ricade nella giurisdizione del giudice ordinario.
3. – La controversia attiene alla fase meramente esecutiva del rapporto. Si verte nell’ambito di un rapporto paritetico tra le parti che si colloca a valle della procedura ad evidenza pubblica per la scelta del contraente. La società ricorrente non chiede l’annullamento di un provvedimento amministrativo emesso dal Comune.
La domanda azionata, infatti, mira ad addebitare la mancata apertura del centro museale a “colpa grave, negligenza e malafede del Comune”; ad accertare e dichiarare “l’inadempimento del Comune resistente nell’aver dato in concessione un immobile privo del certificato di agibilità”, con destinazione d’uso “diversa da quella idonea alla realizzazione di una struttura museale”, privo del certificato di prevenzione incendi e con vizi che hanno comportato l’esecuzione di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria; ad accertare e dichiarare “l’inadempimento del Comune … per non aver ottenuto il certificato di prevenzione incendi”; a “dichiarare la risoluzione della concessione del 2005 … e dei successivi accordi integrativi … per inadempimento imputabile in via esclusiva al Comune”.
La domanda proposta è di “risoluzione” “per inadempimento imputabile in via esclusiva al Comune” e, su questa base, di condanna al risarcimento del danno.
La domanda riguarda la risoluzione per l’inadempimento delle obbligazioni assunte dal Comune, come risultanti dalle condizioni concordate nella convenzione stipulata in posizione di pariteticità, senza che venga in considerazione il potere autoritativo dell’Amministrazione comunale.
Tale potere non è ravvisabile in linea di principio quando, esaurita la fase pubblicistica della scelta del contraente, sia sorto il “vincolo” contrattuale e siano in contestazione la delimitazione del contenuto del rapporto, gli adempimenti delle obbligazioni contrattuali e i relativi effetti sul piano del rapporto, salvo che l’amministrazione intervenga con atti autoritativi che incidono direttamente, seppure successivamente all’aggiudicazione, sulla procedura di affidamento mediante esercizio del potere di annullamento d’ufficio o, comunque, nella fase esecutiva mediante altri poteri riconosciuti dalla legge.
Nel settore dell’attività negoziale della P.A., mentre appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo tutte le controversie che attengono alla fase preliminare, antecedente e prodromica al contratto, inerenti alla formazione della volontà e alla scelta del contraente privato in base alle regole della evidenza pubblica, quelle che invece radicano le loro ragioni, come nella specie, nella serie negoziale successiva, che va dalla stipulazione del contratto fino alle vicende del suo adempimento, e riguardano la disciplina dei rapporti scaturenti dal contratto, sono devolute al giudice ordinario (Cass., Sez. Un., 13 marzo 2020, n. 7219).
La controversia nella quale il petitum sostanziale è l’accertamento dell’adempimento o dell’inadempimento del Comune alle obbligazioni assunte nell’ambito del rapporto convenzionale, non coinvolge sotto alcun profilo un controllo sull’esercizio del potere pubblico, in relazione ai parametri di legittimità dell’azione amministrativa provvedimentale (Cass., Sez. Un., 24 maggio 2022, n. 16763).
Al giudice di merito è chiesto di valutare la corrispondenza al vero dei fatti di inadempimento dedotti a fondamento delle pretese e di qualificarli giuridicamente, per trarne le conseguenze sul piano privatistico, vertendosi in tema di diritti soggettivi vantati in posizione di parità dal privato nei confronti dell’ente pubblico (Cass., Sez. Un., 28 febbraio 2023, n. 5971).
Si è, pertanto, al di fuori dell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di concessione di beni pubblici, ai sensi dell’art. 133, lettera b), cod. proc. amm.
Queste Sezioni Unite hanno affermato che, affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili, in quanto destinati a un pubblico servizio ai sensi dell’art. 826, terzo comma, cod. civ., deve sussistere il doppio requisito (soggettivo e oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio) e dell’effettiva, concreta e attuale destinazione del bene al pubblico servizio. In difetto di tali condizioni e della conseguente ascrivibilità del bene al patrimonio indisponibile, la cessione in godimento del bene medesimo in favore di privati non può essere ricondotta a un rapporto di concessione amministrativa, ma, inerendo a un bene facente parte del patrimonio disponibile, al di là del nomen iuris che le parti contraenti hanno inteso dare al rapporto, essa viene a inquadrarsi nello schema privatistico della locazione (o del comodato), con conseguente giurisdizione del giudice ordinario (Cass., Sez. Un., 21 maggio 2019, n. 13664; Cass., Sez. Un., 12 ottobre 2020, n. 21991).
La richiesta del doppio requisito si giustifica in quanto soltanto così l’amministrazione può dimostrare la seria volontà e la necessità di destinare il bene ad un fine pubblico e di assoggettarlo ad un regime preferenziale rispetto a quello comune.
Esattamente il Pubblico Ministero evidenzia che il bene oggetto della scrittura privata, sicuramente non appartenente al demanio necessario, neppure riveste il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili, non essendo destinato a un pubblico servizio ai sensi dell’art. 826, terzo comma, cod. civ.
Difettano, infatti, sia il profilo formale-soggettivo della preordinata destinazione alla salvaguardia di interessi pubblici, sia quello materiale-oggettivo della effettività della destinazione impressa, come si desume dalla circostanza, pacifica, che l’immobile non è, attualmente, destinato concretamente a pubblico servizio.
Risulta inoltre per tabulas dalla scrittura privata del 16 giugno 2005 che il contratto parla di “comodato” (là dove prevede che a titolo di corrispettivo per la concessione “in comodato” dei locali di sua proprietà il Comune avrà diritto ad una percentuale del 10% da calcolarsi sul totale dei biglietti di ingresso venduti e comunque degli utili complessivi ricavati dall’utilizzo della struttura) e ribadisce che la de-tenzione dei locali di proprietà comunale da parte del concessionario è “a titolo di comodato”. Lo stesso bando di gara si riferisce alla “con-cessione in comodato del bene”.
La terminologia adottata nella convenzione, con il riferimento reiterato al modello privatistico e paritetico del comodato, conferma che si è al di fuori dello schema concessorio e che i locali in questione (“consegnati nello stato di fatto in cui si trovano con obbligo del concessionario di adeguarli a propria cura e spese alle normative vigenti” per la realizzazione, l’allestimento e la gestione di un centro museale) non appartengono alla categoria dei beni del patrimonio indisponibile, difettando la loro destinazione a svolgere in via immediata e diretta un servizio pubblico in forza di un atto di volontà amministrativa concretamente attuato.
5. – E’ dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.
La regolamentazione delle spese viene rimessa al giudice del merito.
P.Q.M.
dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, dinanzi al quale rimette le parti, anche per le spese del regolamento.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 marzo 2023.
Allegati:
SS.UU, 09 marzo 2023, n. 7035, in tema di appalti pubblici