In tema di usi civici – SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938
Civile Ord. Sez. U Num. 13938 Anno 2024
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: ORILIA LORENZO
Data pubblicazione: 20/05/2024
Oggetto
USI CIVICI
R.G.31329/2018
Cron.
Rep.
Ad. 30/01/2024
CC
ORDINANZA
sul ricorso 31329-2018 proposto da:
ENEL PRODUZIONE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RUGGERO FAURO 43, presso lo studio dell’avvocato UGO PETRONIO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI ANVERSA DEGLI ABRUZZI, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI DI MASSA;
– controricorrente –
nonchè
REGIONE ABRUZZO;
– intimata –
avverso la sentenza n. 4754/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 10/07/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/01/2024 dal Presidente di Sezione LORENZO ORILIA.
FATTI DI CAUSA
Il Prefetto dell’Aquila, con decreto del 7.7.1932, espropriò alcuni terreni gravati da usi civici nel territorio del Comune di Anversa degli Abruzzi. Con l’espropriazione, fu autorizzata l’occupazione permanente dei suoli in favore delle Ferrovie dello Stato, ente a cui è succeduta, per effetto di trasferimenti immobiliari, l’Enel Produzione spa. Successivamente, il Comune di Anversa degli Abruzzi effettuò una verifica demaniale del territorio segnalando alla Regione Abruzzo la richiesta di reintegra in via amministrativa delle terre civiche avanzata dall’Enel.
A seguito dell’opposizione formalizzata dall’ENEL venne quindi disposta la convocazione delle parti davanti al Commissario per il Riordino degli Usi Civici nella Regione Abruzzo e in quella sede venne nominato un consulente tecnico di ufficio, il quale concluse la sua relazione ravvisando la natura demaniale delle particelle n. 72, 733, 145, 348, 722, 724, 725 del foglio 9 e n. 813, 814, 815, 816, 817, foglio 14.
Con sentenza n. 18/2016 il Commissario dichiarò il proprio difetto di giurisdizione osservando che il decreto di espropr d e l 1932 aveva legittimamente trasferito i fondi, attualmente occupati dall’Enel, all’allora Ferrovie dello Stato, trasformandoli in beni allodiali o comunque appartenenti al patrimonio disponibile dello Stato. Argomentò quindi sulla inapplicabilità delle pronunzie della Corte Costituzionale n. 391/1989 e n. 156/1995 e sulla conseguente idoneità dello stesso decreto ad eliminare ogni diritto gravante sui fondi espropriati trasferendoli sull’indennità di esproprio (compresi i diritti di uso civico), in conformità con i principi generali enunciati dall’ art. 52 l. n. 2359/1865 (Espropriazione per Pubblica Utilità) e da alcune leggi richiamate (art. 3 L. n.1834/1938 e art. 9 L. n. 230/1950).
Contro tale pronuncia il Comune di Anversa degli Abruzzi propose reclamo, accolto dalla Corte d’Appello di Roma Sezione Usi Civici con sentenza n. 4754/2018.
Per giungere a tale conclusione, la Corte territoriale, sulla scorta di alcuni precedenti di questa Corte, ha ritenuto che la controversia investe l’accertamento della qualitas soli, precisando che il decreto prefettizio di esproprio del 1932 non aveva comportato la cessazione del vincolo di demanialità civica, non essendo intervenuto nessun provvedimento autorizzativo alla alienazione o al mutamento di destinazione dei fondi: mancava quindi la sdemanializzazione delle aree.
L’ENEL Produzione spa ricorre davanti a questa Corte con due motivi di ricorso contrastati con controricorso dal Comune di Anversa degli Abruzzi.
La Regione Abruzzo è rimasta invece intimata.
Con ordinanza interlocutoria n. 24988 del 2023 il Collegio della seconda sezione civile, su richiesta conforme del Pubblico Ministero, ha rimesso il ricorso alla Prima Presidente per l’assegnazione alle Sezioni unite, vertendosi su questioni di giurisdizione.
In prossimità dell’adunanza camerale le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1 Col primo motivo la società ricorrente denunzia plurime violazioni di norme di diritto: violazione degli artt. 12 e 29 della legge n. 1766/1927 in relazione agli artt. 111 Cost. e 132 cpc; violazione dell’art. 5 della legge n. 2248/1865 allegato E; violazione del principio del riparto di giurisdizione e del principio del giusto processo (artt. 102, 103 e 111 Cost.). Difetto di giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici (art. 360 n. 1 cpc).
1.2 Col secondo motivo denunzia violazione degli artt. 12 e 29 della legge n. 1766/1927 in relazione dell’art. 12 delle preleggi; violazione dell’art. 52 della legge n. 2359/1865; della legge n. 431/1985, del DPR n. 327/2001 art. 4 e 21 septies della legge n. 241/1990 (come successivamente modificati); ancora, violazione dell’art. 5 della legge n. 2248/1865 allegato E. Violazione del principio del riparto di giurisdizione e del principio del giusto processo (artt. 102, 103 e 111 Cost.). Difetto di giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici (art. 360 n. 1 cpc).
Osserva in particolare la società ricorrente:
- la giurisdizione si determina sulla base della “causa petendi” sostanziale che, nella specie, consiste nella possibilità o nella impossibilità che le terre di uso civico – quelle di cd. Demanio civico e quelle private gravate da usi civici – siano espropriabili per pubblica utilità;
- quindi l’accertamento sulla giurisdizione, pur implicando l’apprezzamento di elementi di merito, non può implicare che la statuizione sulla giurisdizione possa confondersi con la decisione sul merito né che la decisione possa essere determinata secundum eventus litis;
- la Corte d’Appello ha deciso sulla scorta di principio di diritto oramai superato nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha successivamente chiarito che l’espropriazione per pubblica utilità, ex l. n. 2359/1865, art. 52, co. 2, si applica anche ai diritti d’uso civico (cita n. 9986/2007); invero, i terreni di uso civico sono suscettibili d’esecuzione forzata nel pubblico interesse, essendo soggetti ad un regime di alienabilità controllata (cita Corte Cost. n. 391/1989);
- la Corte d’Appello ha erroneamente dichiarato assorbita ogni altra questione e, in particolare, quella concernente l’impossibilità, per il Commissario, di dichiarare la nullità dell’espropriazione (peraltro, solo in epoca successiva la legge -art. 4, D. P.R. n. 327/2001- aveva previsto la non espropriabilità dei beni gravati da uso civico, salvo compatibilità col predetto uso);
- all’epoca l’art. 12, l. n. 1766/1927 escludeva alienabilità e usucapibilità in assenza di autorizzazione al mutamento di destinazione, ma non v’era accenno all’espropriazione per pubblica utilità; per contro la Corte cost. (sent. n. 391/1989) aveva affermato sussistere un regime di alienabilità controllata e quindi di suscettibilità all’espropriazione per pubblica utilità.
In sintesi, secondo la tesi della società ricorrente, la sentenza della Corte d’Appello è nulla per avere dichiarato la giurisdizione commissariale senza tener contro della successiva giurisprudenza; ed è altresì nulla per avere ritenuto che le terre di uso civico non sono espropriabili in assenza di un provvedimento di mutamento della destinazione, senza considerare il diritto vigente nel 1932 (quando i beni non avevano rilevanza ambientale), violando in tal modo i principi di imperatività ed effettività dell’atto amministrativo.
La sentenza avrebbe inoltre erroneamente dichiarato assorbiti gli elementi di fatto e di diritto tesi a dimostrare l’impossibilità per il Commissario di dichiarare la nullità dell’esproprio come atto amministrativo.
2 Le due censure – che ben si prestano ad esame unitario per il comune riferimento alla questione di giurisdizione – sono prive di fondamento.
Le tematiche poste dal ricorso sono due, tra loro strettamente collegate: una riguardante i limiti della giurisdizione del Commissario per il Riordino degli Usi Civici e l’altra riguardante l’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico di dominio della collettività.
2.1 Sulla prima questione, si rende opportuno partire da una ricognizione del panorama normativo: come già chiarito da questa Corte (v. tra le varie Sez. U, Sentenza n. 9280 del 20/05/2020; Sez. U – , Ordinanza 28802 del 04/10/2022), con la locuzione «usi civici», si indicano i diritti spettanti a una collettività insediata su un territorio e ai suoi componenti (cives), il cui contenuto consiste nel trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque. La materia degli usi civici è stata disciplinata dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 e dal R.D. 26 febbraio 1928, n. 332 (con il quale è stato approvato il regolamento per la esecuzione della detta legge), nonché dalla legge 10 luglio 1930, n. 1078, recante norme sulla definizione delle controversie in materia di usi civici. Più recentemente, la legge 20 novembre 2017 n. 168 è intervenuta sulla materia, sancendo il riconoscimento degli assetti collettivi fondiari – denominati “domini collettivi” – e dei diritti dei cittadini di uso e di gestione dei beni di collettivo godimento, dei quali ha affidato la gestione agli enti esponenziali delle collettività titolari (ossia alle amministrazioni separate dei beni frazionali e alle associazioni o università agrarie, già individuate dall’art. 11 della l. n. 1766 del 1927) e, in mancanza, ai Comuni sia pure col ricorso ad “amministrazione separata” (art. 2, comma 4). La legge n. 1766/1927, nell’istituire l’ufficio del Commissario per la liquidazione degli usi civici, con funzioni amministrative e giurisdizionali (art. 27), ha individuato – nell’art. 1 – due diverse situazioni giuridiche: da un lato, i diritti di uso e di promiscuo godimento spettanti agli abitanti di un comune o di una frazione su terre di proprietà privata (c.d. “iura in re aliena“), destinati ad essere liquidati ai sensi degli artt. 1-7 della stessa legge e degli artt. 11-15 del RD. n. 332 del 1928; dall’altro, i diritti di uso collettivo sulle terre possedute da comuni, frazioni, università ed altre associazioni agrarie (c.d. “iura in re propria” o proprietà collettive di diritto pubblico), destinati invece ad essere valorizzati e sottoposti alla normativa di tutela dell’ambiente e del paesaggio. Inizialmente, le funzioni attribuite al Commissario erano prevalentemente amministrative, svolte sotto la supervisione del Ministero dell’Economia Nazionale (poi del Ministero dell’Agricoltura e Foreste, art. 37 L. n. 1766/1927 cit.) e dirette al riordinamento degli usi civici; in tale quadro, l’attività giurisdizionale risultava incidentale, destinata a risolvere, in contraddittorio delle parti e con forza di giudicato, le controversie che si potessero profilare. Trasferite le funzioni amministrative (anche di liquidazione) alle Regioni (art. 1 d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11 e art. 66 d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616), il Commissario è rimasto quasi esclusivamente titolare di funzioni giurisdizionali e, quindi, giudice delle controversie circa l’esistenza, la natura e la estensione dei diritti di uso civico (art. 29 L. n. 1766/1927 cit.). È stato altresì chiarito che il Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici, in sede contenziosa, ha natura di organo di giurisdizione speciale, sicché le questioni che insorgano sul riparto di attribuzioni fra detto Commissario ed il giudice ordinario attengono alla giurisdizione (v. SSUU Sentenza n. 9280 del 2020 cit. che a sua volta richiama, ex plurimis, Cass., Sez. Un. n. 6373 del 28/10/1983; Cass., Sez. Un., n. 1174 del 19/04/1968; Sez. Un., n. 2425 del 10/10/1966).
L’ambito della giurisdizione devoluta al Commissario per la liquidazione degli usi civici si ricava dall’art. 29 della L. n. 1766 del 1927, il quale stabilisce al primo comma: «I commissari procederanno, su istanza degli interessati od anche di ufficio, all’accertamento, alla valutazione ed alla liquidazione dei diritti di cui all’art. 1, allo scioglimento delle promiscuità ed alla rivendica e ripartizione delle terre»; e al secondo comma soggiunge: «I commissari decideranno tutte le controversie circa la esistenza, la natura e la estensione dei diritti suddetti, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni loro affidate». Come è dato rilevare dalla lettura dell’art. 29, il secondo comma attribuisce alla giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici le controversie relative ai diritti di cui al primo comma, il quale – a sua volta – rimanda ai diritti menzionati dall’art. 1 della I. n. 1766 del 1927: si tratta degli «usi civici» e di «qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento delle terre». In sostanza, la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici è limitata alla materia che riguarda gli “usi civici” e i “diritti di uso collettivo delle terre”, esulando ogni altra controversia dalla sua giurisdizione.
Nella giurisprudenza di questa Corte, in linea col citato dettato normativo, si è dunque da tempo affermato che la giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici ha ad oggetto tutte le controversie relative all’accertamento, alla valutazione e alla liquidazione dei diritti di uso civico, allo scioglimento delle promiscuità e alla rivendicazione e ripartizione delle terre, e quindi, in sostanza, ogni controversia circa l’esistenza, la natura e l’estensione dei diritti di uso civico e degli altri diritti di promiscuo godimento delle terre spettanti agli abitanti di un Comune o di una frazione, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni affidate ai Commissari stessi (Cass., Sez. Un., n. 7894 del 20/05/2003; analogamente, Cass., Sez. Un., n. 720 del 15/10/1999; Cass., Sez. Un., n. 33012 del 20/12/2018; Cass., Sez. Un., n. 605 del 15/01/2015). E ancora, l’accertamento della qualità di un terreno che si assume di “uso civico”, ossia l’accertamento della c.d. “qualitas soli”, rientra nella giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici soltanto quando la relativa questione sia sollevata dal preteso titolare o dal preteso utente del diritto civico e debba essere risolta con efficacia di giudicato; invece, la controversia tra privati nella quale la demanialità civica di un bene sia stata eccepita al solo scopo di negare l’esistenza del diritto soggettivo di cui la controparte sostenga di essere titolare – eccezione questa che si risolve nella contestazione di un fatto costitutivo del diritto azionato dalla controparte – deve essere decisa dal giudice ordinario, con statuizione sul punto efficace solo incidenter tantum (Cass., Sez. Un., n. 836 del 18/01/2005; Cass., Sez. Un., n. 7429 del 27/03/2009; Cass., Sez. Un., n. 7894 del 20/05/2003; Cass., Sez. Un., n. 3031 del 01/03/2002). Va, dunque, affermato che la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici presuppone una controversia che abbia ad oggetto l’accertamento di usi civici o di diritti di uso collettivo delle terre ovvero l’accertamento dell’appartenenza di un terreno al “demanio civico” (secondo la definizione di cui all’art. 3 della I. 20/11/2017, n. 168). Deve quindi ribadirsi che le questioni circa l’esistenza, la natura e l’estensione dei diritti di uso civico, nonché quelle relative alla qualità demaniale del suolo, postulano la giurisdizione dei Commissari agli usi civici, prevista dall’art. 29 della legge 16 giugno 1927 n. 1766, solo se attengano a controversie aventi ad oggetto detto accertamento fra i soggetti titolari delle rispettive posizioni soggettive e non, invece, quando debbano essere risolte in via meramente incidentale, come nelle controversie tra privati relative al rilascio di beni (cfr. Sez. U, Sentenza n. 28654 del 03/12/2008 Rv. 605653 in tema di locazione a terzi del suolo sottoposto al regime di demanialità collettiva; v. altresì Sez. U, Ordinanza n. 20183 del 2019 che richiama a sua volta Sez. U, Ordinanza n. 26816 del 19/12/2009).
In definitiva, restano escluse dalla giurisdizione commissariale le domande che postulano un già intervenuto definitivo accertamento della qualitas soli (cfr. Sez. U, Ordinanza n. 20183 del 2019 cit.).
2.2 Sulla seconda questione (relativa all’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico di dominio della collettività), queste Sezioni Unite sono di recente intervenute ponendo fine ad incertezze giurisprudenziali ed hanno affermato, in relazione ad un caso di espropriazione di beni demaniali pronunciata nel 1960 sempre dal Prefetto dell’Aquila, il seguente principio: i diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti) per effetto di un decreto di espropriazione per pubblica utilità, poiché la loro natura giuridica assimilabile a quella demaniale lo impedisce, essendo, perciò, necessario, per l’attuazione di una siffatta forma di espropriazione, un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il citato decreto espropriativo che implichi l’estinzione di eventuali usi civici di questo tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull’indennità di espropriazione (cfr. Sez. U – , Sentenza n. 12570 del 10/05/2023).
E’ bene porre subito in evidenza che nella fattispecie (sovrapponibile a quella per cui è causa) decisa con la citata pronuncia delle sezioni unite del 2023 nessuno pose in discussione la giurisdizione commissariale: difatti in quel caso la Corte di appello di Roma – Sezione Specializzata per gli usi civici, con sentenza n. 6/2017, depositata il 4 aprile 2017, si pronunciò sul merito in ordine al reclamo dell’Enel Produzione spa contro la sentenza n. 15/2015 del Commissario per il Riordino degli usi civici nella Regione Abruzzo che, a sua volta, esaminando sempre il merito della vicenda, aveva accolto la domanda del Comune di Alfedena, con la dichiarazione della natura demaniale civica dei fondi in contestazione, la nullità ed inefficacia degli atti pubblici e privati, disposti sugli stessi, ed ordinata la reintegra nel possesso dei fondi in favore della collettività del Comune.
3 Venendo al caso in esame, e sulla scorta della esposta ricostruzione normativa e giurisprudenziale, non vi è dubbio che – contrariamente a quanto si assume in ricorso – il petitum sostanziale investe proprio l’accertamento della qualitas soli: l’indagine tesa a stabilire se sia o meno consentita l’espropriabilità per pubblica utilità dei terreni pubblici gravati da usi civici con la conseguenza della eventuale estinzione della loro natura (questione, come si è visto, ormai definitivamente chiarita da queste Sezioni Unite con la citata sentenza n. 12570 del 10/05/2023) investe proprio la verifica della qualitas soli. La risposta positiva al quesito comporta infatti il venir meno della natura demaniale e l’acquisto della natura giuridica di beni allodiali, mentre a conclusioni diametralmente opposte deve giungersi qualora la risposta al quesito debba essere negativa e rimanga ferma la natura demaniale.
Si rivela pertanto giuridicamente corretta la decisione della Corte d’Appello di Roma laddove, discostandosi dalla pronuncia commissariale, ha ravvisato – nella controversia sulla espropriabilità dei beni assoggettati ad usi civici – una lite sulla qualitas soli dichiarando conseguentemente la giurisdizione commissariale.
In conclusione, il ricorso va respinto, ma il fatto che l’intervento nomofilattico chiarificatore sul tema della all’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico sia intervenuto dopo la proposizione del ricorso per cassazione giustifica senz’altro, ad avviso del Collegio, la compensazione delle spese del giudizio di legittimità tra le parti.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; dichiara la giurisdizione del Commissario per il Riordino degli Usi Civici della Regione Abruzzo; compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 30.1.2024.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 22 agosto 2023, n. 24988, per SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938, in tema di usi civici
SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938, in tema di usi civici
In tema di società in house – SS.UU, 19 febbraio 2024, n. 4413
Civile Ord. Sez. U Num. 4413 Anno 2024
Presidente: CASSANO MARGHERITA
Relatore: CRISCUOLO MAURO
Data pubblicazione: 19/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso 12016-2023 proposto da:
PUTZU ALESSIO, rappresentato e difeso dagli avvocati BALLERO BENEDETTO e BALLERO FRANCESCO, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI ORISTANO, PERRA BARBARA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 4067/2023 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 21/04/2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/02/2024 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
FATTI DI CAUSA
1. Alessio Putzu ha proposto appello avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda), 00866/2022, con cui era stata declinata la giurisdizione in favore di quella del giudice ordinario in relazione al ricorso avente ad oggetto l’impugnazione del provvedimento n. 53614 del 20.08.2022 del sindaco del Comune di Oristano, con cui era stata disposta la revoca del ricorrente, con decorrenza immediata, dall’incarico di amministratore unico della società Oristano Servizi Comunali S.r.l., quale società in house a capitale interamente pubblico, nonché l’impugnazione della Determina del Sindaco di Oristano n. 23 del 02.09.2022, che aveva disposto la nomina del nuovo amministratore unico della Società Oristano Servizi.
La sentenza appellata aveva fatto applicazione dell’art. 2449 c.c., facendo richiamo al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 16335 del 18.06.2019 nel caso relativo alla revoca dell’amministratore della società Milano Ristorazione s.p.a. da parte dell’Ente Pubblico.
Secondo l’appellante, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, lo Statuto della società Milano Ristorazione Spa riportava un espresso riferimento al potere dell’Ente pubblico di disporre la revoca dell’amministratore, ai sensi dell’art. 2449 c.c., mentre tale richiamo non era presente nello Statuto della società Oristano Servizi comunali S.r.l., il che escludeva che la controversia in esame rientrasse nella giurisdizione del giudice ordinario, venendo in effetti in rilievo un normale potere di imperio ed un correlato interesse legittimo in capo all’amministratore revocato.
Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4067 del 21 aprile 2023 ha rigettato l‘appello.
Richiamata la regola per cui la giurisdizione si determina in base alla domanda, a prescindere dal vaglio della sua fondatezza, e che, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il “petitum” sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della “causa petendi“, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione, ha osservato che nella specie non poteva trovare accoglimento la tesi di parte appellante secondo la quale, in difetto di un espresso richiamo contenuto nello Statuto comunale all’art. 2449 c.c., i poteri dell’Ente pubblico avrebbero carattere autoritativo.
In realtà doveva ritenersi che il potere di nomina dell’amministratore, previsto nell’ipotesi di specie dallo statuto (art. 7 ed 8), era attuazione di quanto previsto dall’art. 2449 c.c. e che a detto potere privatistico si accompagni quello contrario, avente del pari carattere paritetico, di revoca, nella cui logica si inscrive anche il potere previsto dall’art. 50 del TUEL, secondo quanto ritenuto dalla Suprema Corte con la pronuncia Sez. Un., 18/06/2019, n.16335, con cui si è affermato che i commi 8 e 9 dell’articolo 50 TUEL sono norme etero-integrative dell’articolo 2449 c.c., che, nei limiti temporali previsti, consentono all’ente pubblico, in deroga alla previsione statutaria di durata minima dell’incarico, di revocare i componenti dell’organo di gestione in precedenza nominati.
La stessa giurisprudenza di legittimità aveva affermato (Cass. Sez. Un. 6 maggio 1995, n. 4989; Cass., Sez. un., 26 agosto 1998, n. 8454; Cass., Sez. un., ord. 3 ottobre 2016, n. 19676; Cass., Sez. un., ord. 14 settembre 2017, n. 21299; Cass., Sez. un., ord. 1 dicembre 2016, n. 24591) – che “una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale”, e ciò in quanto il rapporto che lega la società e l’ente pubblico è di assoluta autonomia, “posto che l’ente può incidere sul funzionamento e sull’attività della società non già attraverso l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei componenti degli organi sociali di sua nomina”.
Invero, la PA quando nomina o revoca gli amministratori “non esercita un potere a titolo proprio ma esercita l’ordinario potere dell’assemblea, ad essa surrogandosi, quale organo della società, per autorizzazione della legge o dello statuto”. Inoltre, “l’amministratore di designazione pubblica non è soggetto agli ordini dell’ente nominante ed anzi, per testuale previsione del codice civile (articolo 2449 c.c.), ha i medesimi diritti ed i medesimi obblighi dell’amministratore di nomina assembleare”. Infine, l’equiparazione tra amministratori di nomina assembleare e quelli designati dall’ente pubblico si riscontra anche nella forma di tutela a cui possono accedere, atteso che entrambi possono giovarsi solo della “monetizzazione della funzione” ai sensi dell’art. 2383 c.c.
Da ciò discende, “l’inquadramento privatistico delle società in mano pubblica, col relativo assoggettamento alla giurisdizione ordinaria”, come del resto evincibile dall’art. 1 comma 3 del D.Lgs. n. 175/2016 (c.d. TUSP).
Confortava tale conclusione anche l’art. 2449, comma 1, c.c., che chiarisce che la facoltà del compimento dei predetti atti deve essere “conferita al socio pubblico dallo statuto, cioè da un atto fondamentale di natura negoziale (articolo 2328 c.c., comma 3) e che, con l’abrogazione (…) dell’articolo 2450 c.c. – a norma del quale la legge o lo statuto potevano attribuire la nomina e la revoca ad un ente pubblico estraneo al capitale sociale – è stato posto in chiaro che gli atti in questione competono all’ente pubblico uti socius, e dunque iure privatorum e non iure imperii”. In particolare in materia di società partecipate da enti pubblici, al giudice amministrativo vanno attribuite le controversie relative ai provvedimenti unilaterali di natura autoritativa, che sono, di fatto, preliminari rispetto alle successive deliberazioni societarie, “con i quali l’ente pubblico delibera di costituire la società o di parteciparvi o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della stessa o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della medesima”, mentre spettano al giudice ordinario le cause “aventi ad oggetto gli atti societari “a valle” della scelta di fondo dell’utilizzazione del modello societario”, ovvero quelle connesse con l’esercizio da parte dell’ente pubblico delle facoltà proprie del socio, “fra le quali rientrano quelle volte ad accertare l’intera gamma delle patologie e delle inefficacie negoziali inerenti la struttura del contratto sociale, ancorché ad essa estranee e/o sopravvenute e derivanti da irregolarità- illegittimità della procedura amministrativa a monte”
Ove si dibatta della legittimità dell’atto di revoca degli amministratori di una partecipata emesso dal Sindaco neoeletto entro quarantacinque giorni dal suo insediamento, la lite deve essere devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di atto che è esercizio di quanto previsto dall’art. 50 del TUEL, e che attiene ad una fase successiva alla costituzione della società e, in quanto idoneo ad incidere sulla struttura societaria, deve essere ricondotto alla “potestà di diritto privato ascrivibile all’ente pubblico uti socius, che il Sindaco esercita in conformità degli indirizzi, di natura politico-amministrativa stabiliti dal consiglio”.
Le Sezioni unite hanno poi precisato che l’art. 50 TUEL risponde all’esigenza “della nuova amministrazione di poter contare sull’immediata disponibilità di soggetti che si rendano interpreti delle sue nuove linee di indirizzo e delle diverse finalità della gestione, senza dover sottostare ai tempi lunghi occorrenti per verificare se gli amministratori in carica, “ereditati'” del precedente governo cittadino, siano in grado di corrispondere a tali mutate esigenze”.
I principi affermati dal giudice di legittimità risultavano poi applicabili alla fattispecie, in quanto, come evidenziato dal Comune appellato, lo Statuto della Oristano Servizi s.r.l. contiene numerosi richiami alle norme privatistiche. In particolare, l’art. 7 co. 1 dello Statuto espressamente riserva alla competenza del socio unico le decisioni nelle materie di cui agli artt. 2479 e 2487 c.c.; la prima di dette norme, rubricata “decisione dei soci” al comma 2, numero 2, prevede che: “In ogni caso sono riservate alla competenza dei soci: … 2) la nomina, se prevista nell’atto costitutivo, degli amministratori”. L’art. 8 prevede che la società può essere amministrata, alternativamente, su decisione del socio unico, da un amministratore unico o da un consiglio di amministrazione.
Era, pertanto, evidente come il potere di nomina del socio unico si inquadrasse nel disposto dell’art. 2449 c.c., il cui comma 2 prevede che “gli amministratori e i sindaci …nominati a norma del primo comma possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati”.
Poiché il Comune di Oristano è socio unico della Oristano Servizi s.r.l., al potere di nomina previsto dallo statuto non può che accompagnarsi anche quello contrario di revoca, a norma dell’art. 2449 comma 2 c.c., essendo quest’ultimo contrarius actus rispetto alla nomina.
Inoltre, l’art. 19 dello Statuto dispone che: “ Per quanto non espressamente disciplinato dal presente Statuto, valgono le norme dettate dal codice civile e dalle leggi in materia” (in coerenza con la clausola ermeneutica generale di cui all’art. 1 co. 3 D.Lgs. n. 175 del 19 agosto 2016 (TUSP) secondo la quale: “Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”), con la conseguenza che doveva ravvisarsi il carattere paritetico di tale potere, come rilevato anche da Cass. S.U., n. 34473 del 27.12.2019.
La sentenza aggiungeva, poi, che il definitivo transito delle società partecipate nell’orbita del diritto comune si evinceva anche da tre disposizioni, ed in primo luogo, dall’art. 1 comma 3, TUSP (D.lgs. 175/2016) a mente del quale “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali del diritto privato”.
In secondo luogo l’art. 12 del D.lgs. 175/2016 sposta il baricentro della responsabilità degli organi di governance verso il diritto civile, prevedendo che “i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali”, con la sola salvezza della giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house.
Infine, l’art. 14 del T.U. società partecipate, in tema di crisi d’impresa, afferma in maniera netta che tutte le compagini pubbliche (anche in house) “sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39”.
Andava perciò riaffermata la natura giuridica privata delle società in cui le Amministrazioni detengono delle partecipazioni, come precisato anche nel Parere del Consiglio di stato n. 968/2016 reso sul Testo Unico società partecipate.
La costruzione in chiave civilistica delle società partecipate era anche avvalorata dall’art. 2449 c.c., il quale, con riferimento alle società per azioni che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio in cui lo Stato o gli enti pubblici detengono partecipazioni, prevede esclusivamente un “particolare” potere di nomina (e revoca) degli organi di governance, con la conseguenza che per tutti gli altri profili si applica la disciplina del diritto comune.
Ne discende che, quando l’ente pubblico nomina e revoca gli amministratori della partecipata, non esercita un proprio potere, ma si surroga al potere che ordinariamente spetterebbe all’assemblea, in quanto la facoltà attribuita all’ente si qualifica come “sostitutiva della generale competenza dell’assemblea ordinaria, trovando la sua giustificazione nella peculiarità di quella tipologia di soci, e deve essere qualificata estrinsecazione non di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di diritto privato, in quanto espressiva di una potestà attinente ad una situazione giuridica societaria, restando esclusa qualsiasi sua valenza amministrativa” (Cass., Sez. un., ordinanza 23 gennaio 2015, n. 1237).
Tale esito trovava, poi, anche il conforto della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE sentenza 23 ottobre 2007, nella causa C-112/05; CGUE sentenza 6 dicembre 2007 nelle cause riunite C-463/04 C-464/04; CGUE sentenza 26 marzo 2009, causa C-326/07), a mente della quale il c.d. principio di neutralità delle forme giuridiche, sancito all’art. 345 TFUE, implica che “i trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri rendendo ininfluente la proprietà pubblica o privata del capitale sociale”.
2. Avverso la sentenza del Consiglio di Stato è stato proposto ricorso per cassazione da Putzu Alessio sulla base di un Gli intimati non hanno svolto difese in questa fase.
La Prima Presidente, in data 7 settembre 2023, ha formulato proposta di definizione del giudizio ex art. 380-bis c.p.c., nel testo novellato dal D. Lgs. n. 149/2022, avendone rilevato l’inammissibilità.
Parte ricorrente ha però chiesto la decisione del ricorso, formulando apposita istanza nel termine di cui al secondo comma dell’art. 380 bis c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli 2449, 2479 e 2479-bis c.c., sotto il profilo dell’art. 103 Cost. e dell’art. 7 c.p.a., nonché degli artt. 1 e 9 del D. Lgs. n. 175/2016.
Si deduce che la sentenza impugnata ha inteso radicare la giurisdizione del giudice ordinario con il richiamo all’art. 2449 c.c., sebbene gli artt. 7 ed 8 dello Statuto della società non contengano un esplicito riferimento alla norma de qua ma all’art. 2479 c.c. Inoltre, non si è tenuto conto che quella interessata dal presente giudizio non è una società per azioni, ma una società a responsabilità limitata, né di quanto previsto dall’art. 9, co. 7, del D. Lgs. n. 175/2016, dal quale si evince che, per radicare la giurisdizione del giudice ordinario è necessario che lo statuto societario faccia un esplicito richiamo al testo dell’art. 2449 c.c.
In definitiva, ad avviso del ricorrente, l’atto con il quale è stato revocato è atto esterno all’assemblea, cui competeva il potere di nomina o revoca dell’amministratore, e si qualifica alla stregua di un atto iure imperii, sottoposto quindi alla giurisdizione del giudice amministrativo.
2. Il motivo è manifestamente infondato.
Già nella proposta di definizione depositata in corso di causa è stato compiuto il puntuale richiamo ai precedenti di questa Corte che hanno reiteratamente affermato che la giurisdizione per la domanda in questa sede avanzata compete al giudice ordinario.
Questa Corte ha, infatti, affermato che spetta al giudice ordinario, e non al giudice amministrativo, la cognizione della controversia relativa all’impugnazione dell’atto con il quale il sindaco, nella specie, abbia espresso un giudizio di non idoneità nei confronti di un candidato alla nomina, riservata al Comune, di componente del consiglio di amministrazione di una fondazione, trattandosi di atto che – come avviene per la nomina (e la revoca) di amministratori e sindaci delle società a partecipazione pubblica (anche costituite secondo il modello delle società “in house providing“) – non è riconducibile all’esercizio di alcun pubblico potere e riguarda un soggetto di diritto privato, non rientrando le fondazioni nella pur ampia nozione di pubblica amministrazione, di cui all’art. 7, comma 2, d.lgs. n. 104 del 2010 (Cass. S.U. n. 34473 del 27/12/2019).
Con specifico riferimento alle società per azioni con partecipazione pubblica, è stata ribadita la giurisdizione del giudice ordinario, quanto alla controversia relativa alla revoca dell’amministratore nominato ai sensi dell’art. 2449 c.c., in quanto trattasi di atto posto in essere dall’ente pubblico “a valle” della scelta iniziale di avvalersi dello strumento societario, emanato avvalendosi degli strumenti che il diritto comune attribuisce al socio e dunque interamente regolato dal diritto privato, come si evince chiaramente dal testo del richiamato art. 2449 c.c., il quale individua nello statuto sociale, e dunque in un atto fondamentale di natura negoziale, la fonte esclusiva dell’attribuzione al socio pubblico della facoltà di nominare un numero di amministratori proporzionale alla sua partecipazione, con la correlata facoltà di revocarli (Cass. S.U. n. 29078 del 11/11/2019).
I principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite (cfr., tra le molte: Cass. S.U. n.4989/1995; n. 7799/2005; n. 30167/2011; n. 1237/2015; n. 19676/2016; n. 24591/2016; n. 21299/2017; n. 16335/2019), oltre che dello stesso Consiglio di Stato (cfr. Adunanza Plenaria 3 giugno 2011 n.10), confermano il fatto che la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto privato solo perché l’Ente pubblico ne possegga, in tutto o in parte, le azioni: il rapporto tra società ed ente pubblico azionista è, in altri termini, di assoluta autonomia.
Ciò significa che all’ente pubblico non è consentito incidere unilateralmente sugli atti di gestione e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario dei quali dispone nella sua qualità di socio. Del resto, il richiamo alla disciplina del codice civile in materia di società di capitali per quanto non diversamente stabilito dalla legge – e salve deroghe espresse -, trova esplicita e chiara conferma normativa nell’art. 4, comma 13, quarto periodo, del D.L. n. 95/2012 convertito nella L. n. 135/2012, oltre che nell’analogo art. 1, comma 3, del D. Lgs. n. 175/2016.
Trattasi di previsioni normative che fungono da “clausola ermeneutica generale” di chiusura (in senso privatistico) e che entrambe esprimono rilevanza significativa.
Il profilo involgente la disciplina di diritto pubblico, segnato dall’agire dell’ente pubblico come autorità, si esaurisce nella scelta iniziale dell’ente di costituire una società, o di parteciparvi, nel mentre il profilo privatistico è relativo alla adozione, durante lo svolgimento dell’attività sociale, degli atti (c.d. “a valle” di quella scelta iniziale) che l’ente pone in essere avvalendosi degli strumenti che il diritto comune gli attribuisce nella sua qualità di socio.
Quello posto in essere dal Comune di Oristano, proprio alla luce delle previsioni contenute nello Statuto della Oristano Servizi Comunali S.r.l. (che prevedono sia il potere di nomina che di revoca dell’amministratore unico ad opera del socio unico), si pone come atto da collocare “a valle” della scelta iniziale di avvalersi dello strumento societario, e quindi resta interamente regolato dal diritto privato
Tale conclusione non muta anche nel caso in cui la revoca sia stata dettata dall’applicazione della previsione dell’art. 50, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 267 del 2000, che attribuisce al Sindaco il potere di revoca degli amministratori delle società partecipate dal Comune entro 45 giorni dal suo insediamento, (Cass. S.U. n. 16335 del 18/06/2019, che ribadisce che si radica la giurisdizione ordinaria, poiché quello di revoca resta un provvedimento attinente ad una situazione giuridica successiva alla costituzione della società stessa, idoneo ad incidere internamente sulla sua struttura ed espressione di una potestà di diritto privato ascrivibile all’ente pubblico “uti socius” ed esercitata dal medesimo Sindaco in conformità degli indirizzi stabiliti dal Consiglio comunale).
3. Va pertanto riaffermata la giurisdizione del giudice ordinario (in termini nella giurisprudenza meno recente si veda anche S.U. n. 21299/2017; Cass. S.U. n. 24591/2016; Cass. S.U. n. 1237/2015), senza che possa influire sulla correttezza di tale conclusione la circostanza che nella specie la società dalla cui carica è stato revocato il ricorrente era una società a responsabilità limitata, anziché una società per azioni.
Tale differenza che, come ricordato da Cass. S.U. n. 4309/2010, non preclude di estendere alle società a responsabilità limitata i principi dettati per le società per azioni a partecipazione pubblica, ove tale partecipazione assuma connotazioni analoghe per le prime, consente di affermare come non sia esigibile un espresso richiamo alla previsione di cui all’art. 2449 c.c., norma dettata specificamente per le società per azioni con partecipazione dello Stato o di enti pubblici.
Piuttosto, è proprio il richiamo alla disciplina di cui all’art. 2468 co. 3, c.c., che consente l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società, a far concludere che le previsioni statutarie che dispongano in tal senso (come appunto l’art. 8 dello statuto della società per cui è causa) legittimano l’adozione di un potere di revoca che resta però nell’ambito della sfera privatistica (peccando di eccessivo formalismo la tesi sostenuta dal ricorrente, che pretende che la previsione statutaria debba necessariamente accompagnarsi ad un esplicito richiamo alla norma codicistica).
Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile.
4. Nulla a disporre quanto alle spese nei confronti delle parti intimate.
5. Considerato che la trattazione del ricorso è stata chiesta ai sensi dell’art. 380-bis p.c., ultimo comma, a seguito di proposta di inammissibilità a firma della Prima Presidente, la Corte, considerato che il giudizio è stato definito in conformità della proposta, deve applicare il terzo e il quarto comma dell’articolo 96, come previsto dal citato art. 380-bis, ultimo comma.
Trattasi di una novità normativa (introdotta dall’art. 3, comma 28, lett. g, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a decorrere dal 18 ottobre 2022, ai sensi di quanto disposto dall’art. 52, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 149/2022) che contiene, nei casi di conformità tra proposta e decisione finale, una valutazione legale tipica, ad opera del legislatore, della sussistenza dei presupposti per la condanna di una somma equitativamente determinata a favore della controparte (art. 96, terzo comma) e di una ulteriore somma di denaro non inferiore ad euro 500,00 e non superiore ad euro 5.000,00 (art. 96 quarto comma).
In tal modo, risulta codificata una ipotesi di abuso del processo, peraltro da iscrivere nel generale istituto del divieto di lite temeraria nel sistema processuale (cfr. Cass. S.U. nn. 27195 e 27433 del 2023).
Quanto alla disciplina intertemporale sull’applicazione ai giudizi di cassazione delle disposizioni di cui all’art. 96, terzo e quarto comma, per effetto del rinvio operato dall’ultimo comma dell’art. 380-bis nel testo riformato, rileva la Corte che la predetta normativa – in deroga alla previsione generale contenuta nell’art. 35 comma 1 del Lgs. n. 149/2022 – sia immediatamente applicabile a seguito dell’adozione di una decisione conforme alla proposta, sebbene per giudizi già pendenti alla data del 28 febbraio 2023 (Cass. S.U. n. 27195/2023).
Sulla scorta di quanto esposto, ed in assenza di indici che possano far propendere per una diversa applicazione della norma, la parte ricorrente va condannata al pagamento della somma di €. 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
6. Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Condanna il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di € 2.000,00;
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 13 febbraio
Allegati:
SS.UU, 19 febbraio 2024, n. 4413, in tema di società in house
In tema di responsabilità degli intermediari finanziari – SS.UU, 12 aprile 2024, n. 9956
Civile Ord. Sez. U Num. 9956 Anno 2024
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 12/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 228/2023 R.G. proposto da:
ROSSI GIANCARLA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA R. ZANDONAI 55, presso lo studio dell’avvocato PINELLI MARIO, rappresentata e difesa dall’avvocato LEONARDI RICCARDO
-ricorrente-
contro
SCOCCO BRUNO, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA DI VILLA CARPEGNA, 43, presso lo studio dell’avvocato GREGORIS MARCO, rappresentato e difeso dall’avvocato FORMICA DOMENICO
-controricorrente-
Avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ANCONA n. 1329/2022 depositata il 20/10/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30/01/2024 dal Consigliere ANTONIO SCARPA.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Giancarla Rossi ha proposto ricorso articolato in due motivi avverso la sentenza n. 1329/2022 della Corte d’appello di Ancona, pubblicata il 20 ottobre 2022.
Resiste con controricorso Bruno Scocco.
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma dell’art. 380-bis.1, c.p.c.
La ricorrente ha depositato memoria.
2. La Corte d’appello di Ancona ha rigettato l’appello proposto da Giancarla Rossi, in proprio e quale erede di Enzo Baglioni, e da Giorgia Baglioni, quale erede di Enzo Baglioni, avverso la sentenza del Tribunale di Pesaro n. 602/2017 del 13 settembre 2017, che aveva dichiarato il difetto della giurisdizione del giudice italiano in favore di quello della Confederazione Svizzera sulla domanda avanzata da Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni nei confronti di Bruno Scocco e della Clerical Medical Italia s.r.l. con citazione del 22 aprile 2013.
3. La domanda di Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni era volta all’‹‹accertamento della responsabilità extra contrattuale›› di Bruno Scocco per i fatti esposti in citazione ed alla conseguente condanna risarcitoria, nonché, ‹‹previo accertamento della responsabilità›› di Bruno Scocco e della Clerical Medical Italia s.r.l. sempre per i fatti esposti, a ‹‹dichiarare la nullità delle polizze n. 2312609T, 2313674 e 2323399D e condannare i predetti ex art. 2055 c.c. al pagamento della somma di € 350.000,00 di cui € 208.874,13 a titolo di danno patrimoniale ed il residuo a titolo di danno non patrimoniale, o in quella diversa maggiore o minore ….››. In via subordinata, le attrici chiedevano di accertare l’‹‹inadempimento contrattuale›› imputabile a Bruno Scocco e alla Clerical Medical Italia s.r.l., con condanna risarcitoria di entrambi ex art. 2055 c.c.
All’udienza del 10 luglio 2014 gli attori dichiararono di rinunciare alla domanda proposta nei confronti della Clerical Medical Italia s.r.l.
3.1. I fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, culminante nelle predette conclusioni, concernevano la sottoscrizione di polizze assicurative da parte di Giancarla Rossi e del defunto coniuge Enzo Baglioni, a far tempo dal dicembre 1998. Tali investimenti, a dire delle attrici, erano stati proposti ai coniugi Rossi e Baglioni da Bruno Scocco e da un terzo, i quali li avevano rassicurati sulla redditività delle operazioni e sulla carenza di rischi. I contatti tra le parti si sarebbero svolti dapprima presso i domicili degli investitori, mentre poi gli stessi avrebbero aperto un conto corrente presso la Filiale della UBS di Lugano. Le operazioni erano descritte come avvenute mediante consegna ad opera dei coniugi Rossi e Baglioni di denaro contante ammontante alla cifra complessiva di € 309.874,13, in relazione alle polizze n. 2312609T, 2313674 e 2323399D. Trascorsi alcuni anni, Giancarla Rossi aveva tuttavia appurato che di tali somme investite col coniuge erano residuati solo circa € 101.000,00. Fu dato corso anche ad un procedimento penale, nel corso del quale venne accertato che gli investimenti eseguiti consistevano in prodotti finanziari, e non in polizze assicurative, e che lo Scocco aveva svolto abusivamente l’attività di promotore finanziario. La citazione lamentava, allora, che Bruno Scocco avesse ‹‹omesso di riferire, alla sig.ra Rossi ed al coniuge Baglioni, in merito agli elementi costitutivi del prodotto finanziario››, non ‹‹consegnato, al momento della proposta dell’investimento, la nota informativa o prospetto informativo obbligatorio per legge ex art. 94 D.lgs. 58/98››, ‹‹esposto notizie non veritiere in relazione alla titolarità ed agli obblighi relativi al capitale di debito›› ed infine ‹‹collocato sul mercato prodotti finanziari non risultando iscritto nell’apposito albo››, così ravvisandone la ‹‹responsabilità contrattuale per inosservanza degli obblighi prescritti dal decreto legislativo 58/98, dagli art. 1337, 1375, 1775 e 1776 c.c. e contenuti nel Regolamento Consob n. 11522/1998, comportante la nullità dei contratti››.
Il convenuto Bruno Scocco oppose di non aver mai avuto rapporti di natura contrattuale e di non aver mai effettuato operazioni di intermediazione finanziaria con Enzo Baglioni e Giancarla Rossi, essendosi limitato a prestare in favore di quest’ultima una attività di consulenza relativa all’apertura di un conto corrente, da parte dei coniugi Baglioni, presso un istituto di credito svizzero e ad un prestito di € 62.000,00 da lui fatto in favore della Rossi.
3.2. L’adito Tribunale di Pesaro, con sentenza n. 602/2017 del 13 settembre 2017, dichiarò il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana, per essere la controversia riservata all’autorità giudiziaria della Svizzera, alla stregua dell’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968, argomentando dalla natura extracontrattuale dell’azione esperita da Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni, in quanto dagli atti di causa non sarebbe emersa “la sussistenza di alcun rapporto obbligatorio tra parte attrice ed il convenuto, giacché (in ragione dell’inidoneità probatoria della documentazione prodotta da parte attrice) non sono state prodotte le polizze che la Rossi sostiene di aver sottoscritto con lo Scocco e neanche le copie degli investimenti fatti dai coniugi Baglioni e dalla Rossi personalmente né risulta provata l’attività di intermediazione finanziaria che lo Scocco avrebbe posto in essere in favore di parte attrice”. La sentenza di primo grado aggiungeva che “[a] prescindere dalla documentazione riferita alla Clerical Medical, dagli atti di causa non emerge dunque alcuna riferibilità allo Scocco degli stessi documenti, rilevato che non appare dimostrata la sottoscrizione delle polizze da parte della Rossi per tramite dello Scocco né può dirsi provato che lo stesso abbia ingannato la medesima a tal fine, cosi come carente di prova appare il nesso di causalità tra il danno asseritamente subìto ed il comportamento dello Scocco”. Il Tribunale di Pesaro aggiungeva che, dovendosi perciò aver riguardo ai fini della giurisdizione al luogo in cui l’evento dannoso era avvenuto, assumevano rilievo: “- la gestione delle “fantomatiche” polizze dalla Pro Trust, società con sede in Svizzera; – il versamento del denaro in un istituto di credito di Lugano e relativo investimento in Svizzera; – i rapporti diretti tra la Baglioni con soggetti svizzeri (cfr. la corrispondenza diretta con la HBV Luxembourg e la Pro Trust); – i contatti diretti tra le parti avvenuti solo in Svizzera e nell’occasione dell’apertura del c/c bancario svizzero”.
3.3. Sul gravame proposto da Giancarla Rossi e da Giorgia Baglioni nei confronti di Bruno Scocco, la Corte d’appello di Ancona ha confermato la declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice italiano, rilevando come Bruno Scocco fosse residente in Svizzera e come, trattandosi di un illecito extracontrattuale, trovasse applicazione il criterio di individuazione della giurisdizione fissato dall’articolo 7, n. 2, del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012. La Corte di Ancona ha sostenuto che la natura extracontrattuale dell’azione esperita dalle attrici “discende dal fatto che dagli atti di causa non emerge la sussistenza di alcun rapporto obbligatorio tra parte attrice e convenuto”, mancando prova del “titolo” della responsabilità contrattuale, non essendo state prodotte “le polizze che parte attrice sostiene di aver sottoscritto e, dall’altro, la documentazione prodotta deve considerarsi inidonea al fine probatorio”. Pertanto, ha concluso la sentenza impugnata, “la giurisdizione non può che ritenersi delle autorità giurisdizionali svizzere, posto che la condotta che si assume essere stata pregiudizievole si è verificata nel territorio svizzero dove sono state sottoscritte le polizze ed effettuati gli investimenti mediante versamento delle somme presso un istituto di credito svizzero”.
4. Va premesso che il ricorso di Giancarla Rossi non risulta intimato né notificato a Giorgia Baglioni, parte dei pregressi giudizi di merito, quale attrice prima ed appellante poi. Si tratta, comunque, di giudizio a litisconsorzio facoltativo, in cui più attori hanno proposto domande risarcitorie contro lo stesso convenuto, sicché anche il ricorso ex art. 360, comma 1, n. 1, c.p.c. per motivi attinenti alla giurisdizione rientra nell’ipotesi di cui all’art. 332 c.p.c., e non va perciò ordinata la notificazione dell’impugnazione a Giorgia Baglioni, essendo la stessa ormai preclusa.
5. Il primo motivo del ricorso di Giancarla Rossi deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 n. 3 della Convenzione di Lugano 2007, norma che nella specie starebbe a regolare la giurisdizione, ed in relazione alla quale i giudici del merito non avrebbero rilevato che il luogo dove si sono verificate le conseguenze dell’illecito è Pesaro, ove la ricorrente aveva, ed ha, il centro dei propri interessi, ove inoltre è avvenuto il depauperamento del suo patrimonio e si è anche realizzato il danno-evento, ove lo Scocco aveva fraudolentemente rappresentato le operazioni di investimento ed avuto in consegna il denaro, versato dapprima in una banca lussemburghese e poi trasferito a Lugano, ed ove era avvenuta la sottoscrizione delle polizze, di cui era stato allegato il relativo certificato.
Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione e/o falsa applicazione, dell’art. 132 comma 2 n. 4 c.p.c. e dell’art. 111 Cost. per motivazione apparente. La ricorrente evidenzia che in tutti gli atti di causa, ed in particolare nella citazione introduttiva, le attrici avevano affermato che il collocamento e la sottoscrizione delle polizze, come anche la consegna del denaro, erano avvenuti negli incontri avuti con lo Scocco a Pesaro. Tale ricostruzione dei fatti era stata indicata anche nella deduzione della prova per testimoni e per interrogatorio formale. Del pari, la documentazione prodotta avrebbe dimostrato che tutte tali vicende del rapporto oggetto di lite si erano svolte a Pesaro.
6. Il controricorrente Bruno Scocco replica che le censure sono inammissibili, che le attrici “non hanno dato la prova della esposizione fattuale offerta sin dal primo atto”, che i suoi rapporti con le stesse si erano svolti “solamente a Lugano, quando chiesero la di lui consulenza per aprire dei conti correnti in Svizzera” e che mai vi erano stati “rapporti di natura contrattuale”, tanto meno in Italia.
7. Il ricorso, le cui censure vanno esaminate congiuntamente, è fondato nei sensi di cui alla motivazione che segue.
8. Occorre inizialmente considerare che la decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda stessa (art. 386 c.p.c.). Ciò significa che la decisione a rendersi avviene rispetto alla domanda, come individuata nei suoi elementi, e deve perciò ricostruire quale rapporto intercorreva tra le parti, ma ai soli fini di attribuire la giurisdizione, e non anche il diritto che essa afferma esistente.
Così si spiega il consolidato principio secondo cui, in ordine ai motivi attinenti alla giurisdizione ex art. 360, primo comma, n.1, c.p.c., la Corte di cassazione è giudice anche del fatto, cioè conosce dei fatti processuali ed altresì di tutti i fatti dai quali dipenda la soluzione della questione, mediante orientato esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio (ad esempio, tra le tante, Cass. Sez. Unite n. 28332 del 2019).
In particolare, ai fini del riparto della giurisdizione tra il giudice italiano ed il giudice straniero, in applicazione del criterio del “petitum” sostanziale, pur dovendosi prescindere dalle difese del convenuto, che sono invece rilevanti per la decisione di merito, occorre tenere conto delle allegazioni di fatto dell’attore, come anche delle risultanze istruttorie legittimamente acquisite agli atti di causa (Cass. Sez. Unite n. 16296 del 2007; n. 13702 del 2022). Le Sezioni Unite procedono, così, alla qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio sulla base dell’oggetto della domanda e degli accertamenti di fatto che sono loro consentiti, e tale qualificazione rientra nel giudicato che viene a formarsi sulla giurisdizione in forza della decisione raggiunta, ma la questione dell’esistenza o meno del preteso diritto rimane da valutare in sede di merito della controversia.
9. Per la invocata decisione sulla giurisdizione, la domanda di Giancarla Rossi va, dunque, valutata non già in base al criterio cosiddetto della soggettiva prospettazione della domanda (ossia in base alla qualificazione compiutane dall’interessata), ma alla stregua del “petitum” sostanziale individuato dagli elementi oggettivi che caratterizzano la sostanza del rapporto giuridico posto a fondamento delle pretese, ovvero tenendo conto della natura della situazione dedotta e della protezione sostanziale ad essa accordata dall’ordinamento.
Va subito detto che la sentenza impugnata, come prima ancora quella di primo grado, hanno errato nel fondare le loro decisioni non già sulla “prova della giurisdizione”, quanto sulla “prova della pretesa di merito azionata”, affermando che la natura extracontrattuale dell’azione doveva desumersi “dal fatto che dagli atti di causa non emerge la sussistenza di alcun rapporto obbligatorio tra parte attrice e convenuto”, non essendovi prova del “titolo” della responsabilità contrattuale. L’apprezzamento del giudice sulla giurisdizione ed il correlato potere-dovere di qualificazione giuridica del rapporto litigioso devono operarsi in riferimento agli elementi dedotti ed allegati, seppur non ancora effettivamente accertati (Cass. Sez. Unite, n. 4894 del 2006).
9.1. La domanda di Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni (sebbene nelle conclusioni richiedeva in via principale l’‹‹accertamento della responsabilità extra contrattuale›› di Bruno Scocco, nonché di ‹‹dichiarare la nullità delle polizze n. 2312609T, 2313674 e 2323399D››, con condanna al risarcimento dei danni, mentre soltanto in via subordinata chiedeva di accertare l’‹‹inadempimento contrattuale›› imputabile al convenuto), nell’esporre i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della stessa (art. 163, comma 3, n. 4, c.p.c.), narrava che Bruno Scocco aveva proposto ai coniugi Rossi e Baglioni la sottoscrizione di polizze assicurative, rassicurandoli sulla redditività delle operazioni e sulla carenza di rischi. Il contatto tra le parti si era instaurato presso i domicili degli investitori Rossi e Baglioni in Pesaro. In tale luogo era avvenuta la consegna del denaro in contanti, tant’è che gli esibiti ordini di pagamento, rivolti alla UBS di Lugano, risultavano poi sottoscritti dallo Scocco. Lo stesso convenuto Bruno Scocco ha ammesso di aver svolto in favore di Giancarla Rossi una attività di consulenza, seppur soltanto relativa all’apertura di un conto corrente presso un istituto di credito svizzero e ad un prestito. La citazione lamentava che Bruno Scocco avesse ‹‹omesso di riferire, alla sig.ra Rossi ed al coniuge Baglioni, in merito agli elementi costitutivi del prodotto finanziario››, non ‹‹consegnato, al momento della proposta dell’investimento, la nota informativa o prospetto informativo obbligatorio per legge ex art. 94 D.lgs. 58/98››, ‹‹esposto notizie non veritiere in relazione alla titolarità ed agli obblighi relativi al capitale di debito›› ed infine ‹‹collocato sul mercato prodotti finanziari non risultando iscritto nell’apposito albo››, così ravvisandone la ‹‹responsabilità contrattuale per inosservanza degli obblighi prescritti dal decreto legislativo 58/98, dagli art. 1337, 1375, 1775 e 1776 c.c. e contenuti nel Regolamento Consob n. 11522/1998, comportante la nullità dei contratti››.
9.2. Le allegazioni di fatto delle attrici e i documenti esibiti a sostegno del “petitum” sostanziale azionato depongono per la qualificazione di natura contrattuale del rapporto dedotto in giudizio.
La domanda delineava che fra i coniugi Rossi e Baglioni e Bruno Scocco si fosse instaurato un rapporto contrattuale di consulenza finanziaria, avendo quest’ultimo prestato una attività professionale di assistenza ai clienti in materia di investimenti finanziari e poi operato presso un istituto di credito, quale incaricato dei servizi di negoziazione degli ordini. Gli attori avevano lamentato la violazione di norme di comportamento, in particolare di diligenza, correttezza e trasparenza, da parte dello Scocco, che si sarebbero invece dovute osservare nella formazione e nell’esecuzione del contratto, sia per aver indirizzato i clienti verso un prodotto inadatto per il profilo di rischio, sia per non aver consegnato alcun prospetto informativo, sia per non aver loro comunicato le perdite subite. La violazione di questi obblighi dà luogo a responsabilità contrattuale (arg. da Cass. Sez. Unite n. 14939 del 2023).
10. La giurisdizione va valutata facendo applicazione della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007 (ratificata dall’UE con decisione del Consiglio del 27 novembre 2008 ed entrata in vigore nei rapporti con la Confederazione elvetica il 1° gennaio 2011).
Ai sensi dell’art. 5, paragrafo 1, della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007, la persona domiciliata nel territorio di uno Stato vincolato dalla stessa convenzione può essere convenuta in un altro Stato vincolato dalla presente convenzione:
“a) in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita.
b) Ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è:
– nel caso della compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato vincolato dalla presente convenzione, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto;
– nel caso della prestazione di servizi, il luogo, situato in uno Stato vincolato dalla presente convenzione, in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto”.
11. Ne consegue che, con riguardo, come nella specie, ad un contratto concluso in Italia tra un soggetto ivi domiciliato ed un soggetto domiciliato nella Confederazione Svizzera, avente ad oggetto la prestazione da parte di quest’ultimo del servizio di consulenza in materia di investimenti finanziari in favore del cliente domiciliato in Italia, relativa ad una o più operazioni di sottoscrizione di strumenti finanziari, va affermata la giurisdizione del giudice italiano sulla controversia in materia di responsabilità contrattuale per violazione delle norme di comportamento da parte del consulente, in applicazione del criterio di collegamento dettato dell’art. 5, paragrafo 1, lettera b) della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007, facendo, cioè, riferimento al luogo in cui la prestazione del servizio di consulenza è stata o avrebbe dovuto essere eseguita, in rapporto all’obbligo di informazione da fornire al cliente caratterizzante il contratto.
12. Va perciò accolto il ricorso e la sentenza impugnata va cassata, dichiarando la giurisdizione del giudice italiano, e la causa, ai sensi dell’art. 383, comma 3, c.p.c. in relazione all’art. 353 c.p.c., ratione temporis operante, va rimessa al Tribunale di Pesaro, in persona di diverso magistrato, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte accoglie il ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice italiano, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Pesaro, in persona di diverso magistrato, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 12 aprile 2024, n. 9956, in tema di responsabilità degli intermediari finanziari
In tema di diritto internazionale privato – SS.UU, 28 febbraio 2024, n. 5303
Civile Ord. Sez. U Num. 5303 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: MERCOLINO GUIDO
Data pubblicazione: 28/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 32050/2018 R.G. proposto da
AZIMUT MARINE DENIZCILIK SAN. VE TIC A.S., in persona dei legali rappresentanti p.t. Nese Yildiz e Fatih Okur, rappresentata e difesa dall’Avv. Denise D’Annibale, con domicilio eletto in Roma, via G.G. Belli, n. 36, presso lo studio dell’Avv. Luca Pardini;
– ricorrente –
contro
SYSNAV S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t. Fabio Concezzi, rappresentata e difesa dall’Avv. Gianrocco Catalano, con domicilio eletto in Roma, via Lutezia, n. 11;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1972/18, depositata il 28 marzo 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16 gennaio 2024 dal Consigliere Guido Mercolino;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alessandro PEPE, che ha chiesto l’accoglimento del primo motivo di ricorso, con l’assorbimento degli altri motivi.
FATTI DI CAUSA
1. L’Azimut Marine Denizcilik San. Ve Tic A.s. convenne in giudizio la Sysnav S.r.l., proponendo opposizione al decreto ingiuntivo n. 15845/11, emesso il 10 agosto 2011, con cui il Tribunale di Roma le aveva intimato il pagamento della somma di Euro 230.358,00, oltre interessi, a titolo di corrispettivo per la fornitura di dispositivi digitali e pannelli operatore costituenti il sistema «AMX id Proteo», ai fini della realizzazione di un nuovo modello di imbarcazione.
A sostegno dell’opposizione, l’attrice riferì che il sistema, finalizzato alla gestione digitale dell’impianto elettrico dell’imbarcazione, aveva manifestato fin dall’origine problemi di funzionamento, che avevano reso necessario l’intervento dei tecnici della Sysnav, e per la cui soluzione quest’ultima aveva chiesto che la fornitura dei pannelli elettrici fosse affidata ad un subfornitore di sua fiducia. Essendo fallito ogni tentativo di porre rimedio ai predetti inconvenienti, essa attrice era stata costretta a richiamare tutte le imbarcazioni dotate del predetto sistema ed a sostituirlo con un sistema elettromeccanico tradizionale, offrendo in restituzione alla fornitrice i componenti smontati o giacenti in magazzino. Tanto premesso, l’attrice eccepì il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, spettando la controversia al Giudice turco, la violazione dell’art. 641 cod. proc. civ. e il grave inadempimento della Sysnav, chiedendo la risoluzione del contratto e la dichiarazione dell’obbligo della convenuta di risarcire i danni da essa subìti.
Si costituì la Sysnav, e resistette all’opposizione, chiedendo la condanna dell’attrice al pagamento della somma di Euro 154.690,00 per l’illegittima cancellazione di ordini relativi a prodotti già realizzati, ed al risarcimento dei danni.
1.1. Con sentenza del 30 luglio 2015, il Tribunale di Roma dichiarò la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana ed accolse l’opposizione, ritenendo provata l’esistenza di malfunzionamenti nel sistema fornito, e revocando quindi il decreto ingiuntivo; escluse peraltro la gravità dell’inadempimento, e condannò l’Azimut al pagamento della somma di Euro 171.618,50, oltre interessi, a titolo di corrispettivo per la fornitura dei pannelli di controllo e del materiale elettrico, dichiarando invece inammissibili le domande di risarcimento reciprocamente proposte dalle parti.
2. L’impugnazione proposta dall’Azimut è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Roma con sentenza del 28 marzo 2018.
A fondamento della decisione, la Corte, per quanto ancora rileva in questa sede, ha confermato la spettanza della controversia alla giurisdizione italiana, ritenendo inoperanti sia l’art. 5, n. 1, lett. b), del Regolamento CE n. 44/2001 del 22 dicembre 2000 che il Regolamento CE n. 1215/2012 del 12 dicembre 2012, poiché l’opponente aveva la sua sede in Turchia, ed affermando l’applicabilità dell’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, resa esecutiva con legge 21 giugno 1971, n. 804; ha rilevato infatti che la sostituzione del Regolamento alla Convenzione, prevista dall’art. 68 di entrambi i Regolamenti, opera esclusivamente tra gli Stati membri dell’UE, aggiungendo che, ai fini dell’individuazione del luogo in cui doveva essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio, non poteva trovare applicazione l’art. 57 della Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 sulla vendita internazionale di merci, resa esecutiva con legge 11 dicembre 1985, n. 765, che disciplina il rapporto sostanziale, ma l’art. 1182 cod. civ., ai sensi del quale doveva tenersi conto del luogo in cui aveva sede la venditrice.
Nel merito, premesso che la sentenza di primo grado era rimasta incensurata sia nella parte in cui aveva ritenuto impossibile accertare l’esistenza e la causa dei vizi lamentati, sia nella parte in cui aveva escluso la riferibilità degli stessi al materiale elettrico fornito dalla Sysnav, la Corte ha osservato che l’Azimut non aveva dimostrato il malfunzionamento dell’intera fornitura e la necessità di rimuoverla senza poterla riutilizzare almeno parzialmente, ritenendo insufficienti, a tal fine, le deposizioni rese dai testi escussi, e aggiungendo che il sistema era progettato per funzionare, in caso di emergenza, anche in modo meccanico. Ha escluso pertanto la possibilità di pronunciare la risoluzione del contratto per inadempimento della venditrice, dovendo quest’ultimo essere valutato sotto il profilo meramente quantitativo del materiale fornito, la cui parziale riutilizzazione da parte dell’acquirente escludeva la configurabilità di un adempimento totale, non essendo stato dedotto che il materiale fosse affetto da vizi tali da renderlo inutilizzabile con qualsiasi tipo di comando.
La Corte ha confermato infine l’inammissibilità della domanda di risarcimento del danno proposta con l’atto di opposizione, per mancata precisazione del petitum, essendosi l’opponente riservata di agire dinanzi al Giudice turco, con la conseguente impossibilità di operare una valutazione quantitativa ai fini della compensazione con il credito fatto valere dalla Sysnav.
3. Avverso la predetta sentenza l’Azimut ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. La Sysnav ha resistito con controricorso, illustrato anche con memoria.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione dinanzi alla Seconda Sezione civile, che con ordinanza interlocutoria del 13 settembre 2023 ha rimesso gli atti alla Prima Presidente, la quale ne ha disposto l’assegnazione alle Sezioni Unite, alla luce della questione di giurisdizione sollevata con il primo motivo, in ordine alla quale la più recente giurisprudenza di legittimità ha fatto registrare un mutamento d’indirizzo, che ha dato luogo a reazioni critiche in dottrina.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità dell’impugnazione, sollevata dalla difesa della controricorrente in relazione alla mancanza dell’attestazione di conformità all’originale della procura alle liti ed alla mancata indicazione, in quest’ultima, degli estremi della sentenza impugnata, nonché al difetto di rappresentanza dei soggetti che l’hanno rilasciata.
1.1. La procura speciale, conferita su supporto cartaceo, risulta infatti redatta su un foglio separato ma congiunto materialmente al ricorso, anche esso predisposto in formato analogico, ed è stata notificata unitamente allo stesso a mezzo PEC, nonché depositata in Cancelleria, con l’attestazione di conformità, la quale si riferisce sia al ricorso che alla procura e alle ricevute comprovanti la spedizione e la consegna del messaggio di posta elettronica. La circostanza che l’attestazione di conformità non sia stata inserita nella relata di notifica, come prescritto dall’art. 3-bis, comma quinto, lett. g), della legge 21 gennaio 1994, n. 53, non comporta la nullità della notificazione, e quindi l’inammissibilità dell’impugnazione, configurandosi, nel contesto normativo vigente all’epoca della proposizione del ricorso, che prevedeva la costituzione in formato cartaceo, come una mera irregolarità non invalidante, nella specie sanata dalla successiva allegazione in sede di deposito (cfr. Cass., Sez. Un., 21/12/2020, n. 29175).
Ininfluente, ai fini della validità della procura, deve considerarsi anche la mancata indicazione della data e degli estremi della sentenza impugnata, trattandosi di un’omissione inidonea a generare incertezza in ordine al conferimento del potere rappresentativo per il giudizio di legittimità, avuto riguardo alla congiunzione materiale dell’atto al ricorso ed al preciso riferimento alla Corte di cassazione, in esso contenuto, nonché alla data di rilascio, successiva alla pronuncia della sentenza impugnata ed anteriore alla notificazione del ricorso, che ne assicurano la compatibilità con il requisito della specialità prescritto dall’art. 365 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. III, 17/01/2022, n. 1165; Cass., Sez. V, 21/12/2019, n. 34259; Cass., Sez. II, 27/05/2019, n. 14437).
Parimenti inidonea a determinare la nullità della procura o del ricorso deve considerarsi la mancata specificazione della partita IVA della società ricorrente e del codice fiscale dei soggetti che hanno conferito il mandato in nome della stessa, trattandosi di un’indicazione non prescritta dall’art. 366, n. 1 cod. proc. civ., la cui omissione non impedisce peraltro di risalire all’identità di tali soggetti, agevolmente individuabili sulla base dell’indicazione della sede della società e dei dati anagrafici delle persone che la rappresentano legalmente (cfrr. Cass., Sez. I, 24/02/2021, n. 5067; Cass., Sez. III, 19/014/2016, n. 767; Cass., Sez. V, 17/12/2015, n. 25399).
2. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 3 della legge 31 maggio 1995, n. 218, censurando la sentenza impugnata per aver affermato la spettanza della controversia alla giurisdizione italiana, senza tenere conto dell’avvenuta conclusione del contratto in Turchia, dove era stata eseguita anche la prestazione caratterizzante, costituita dalla fornitura del sistema digitale. Premesso di non avere sede in Italia e di non avervi neppure un rappresentante autorizzato a stare in giudizio, afferma che, ai sensi dell’art. 68 del Regolamento CE n. 44/2001, il rinvio alla Convenzione di Bruxelles contenuto nell’art. 3 cit. deve intendersi oggi riferito al medesimo Regolamento, avendo come unico scopo quello di estendere ai rapporti con gli Stati extracomunitari le regole di diritto internazionale privato vigenti nei rapporti tra gli Stati membri. Precisato che la soluzione non sarebbe stata diversa, anche nel caso in cui fosse stato applicato l’art. 5 della Convenzione di Bruxelles, afferma l’inconferenza del richiamo alla Convenzione di Vienna, in quanto non avente ad oggetto il riparto di giurisdizione tra gli Stati contraenti, ma l’unificazione della disciplina sostanziale della vendita internazionale.
3. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1453 e 1492 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di risoluzione del contratto, nonostante l’accertamento dei difetti del sistema fornito. Sostiene infatti che la Corte territoriale ha immotivatamente separato il sistema dalle componenti elettriche che lo costituivano, senza tenere conto dell’oggetto dell’incarico conferito alla Sysnav, consistente sia nella fornitura dei dispositivi digitali e dei pannelli operatore che nella progettazione di tutto l’impianto elettrico, né della gestione completa ed autonoma del sistema da parte della Sysnav, né della richiesta, dalla stessa avanzata successivamente, di affidare la fornitura dei quadri elettrici ad un subfornitore di sua fiducia. Aggiunge che la sentenza impugnata ha omesso di valutare le deposizioni rese dai testi, da cui risultava che il malfunzionamento del sistema dipendeva anche dai componenti elettrici che ne costituivano il corpo, i quali avevano dovuto essere in gran parte sostituiti, essendone rimasta sulle imbarcazioni soltanto una parte marginale. Precisa infine di aver censurato la sentenza di primo grado anche nella parte concernente la valutazione dell’importanza dell’inadempimento, nonché di aver dedotto che le contestazioni sollevate riguardavano anche il materiale elettrico.
4. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha posto a carico di essa appellante l’onere di fornire la prova dei vizi del sistema fornito, spettante invece alla venditrice, la quale avrebbe quindi dovuto dimostrare di aver consegnato una cosa conforme alle caratteristiche del tipo ordinariamente prodotto o la regolarità del processo di fabbricazione o di realizzazione.
5. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per aver dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno, configurabile in realtà come eccezione riconvenzionale, in quanto volta a paralizzare la domanda proposta dalla Sysnav, mediante la sollecitazione di un accertamento incidentale del diritto al risarcimento, ai fini di un’eventuale compensazione.
6. Il primo motivo, con cui la ricorrente insiste sul difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, è fondato.
Nell’escludere la spettanza della giurisdizione all’Autorità giudiziaria della Turchia, la Corte d’appello ha richiamato infatti l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai sensi dell’art. 3, comma secondo, della legge 31 maggio 1995, n. 218, per determinare l’ambito della giurisdizione italiana, nelle materie non escluse dal campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, occorre fare riferimento ai criteri stabiliti dalle Sezioni II, III e IV del Titolo II della medesima Convenzione, i quali trovano applicazione anche nei confronti del convenuto non domiciliato né residente in Italia e non appartenente ad uno Stato contraente, giacché il rinvio ai predetti criteri è destinato ad operare oltre la sfera dell’efficacia personale della stessa (cfr. Cass., Sez. Un., 2/12/2013, n. 26937; 12/04/2012, n. 5765; 11/02/2003, n. 2060). Com’è noto, nell’ambito di tale orientamento è stato precisato che il rinvio contenuto nell’art. 3, comma secondo, della legge n. 218 del 1995 si riferisce esclusivamente alla Convenzione di Bruxelles, e non può essere esteso al Regolamento CE n. 44/2001, non avendo quest’ultimo sostituito definitivamente (e quindi implicitamente abrogato) la Convenzione, la quale continua ad operare relativamente ai rapporti con soggetti non domiciliati in uno degli Stati dell’Unione ovvero domiciliati in uno degli Stati che, pur facendo parte dell’Unione, non hanno adottato il predetto regolamento (cfr. Cass., Sez. Un., 21/10/2009, n. 22239). Conformemente a tale precisazione, la sentenza impugnata ha escluso l’applicabilità sia del Regolamento CE n. 44/2001, vigente alla data di proposizione della domanda, sia del Regolamento UE n. 1215/2012, che lo ha sostituito, osservando che, ai sensi dell’art. 68 di entrambi i Regolamenti, il rinvio alla Convenzione di Bruxelles s’intende riferito ai Regolamenti stessi soltanto nei limiti in cui questi ultimi sostituiscono, tra gli Stati membri, le disposizioni della Convenzione, e richiamando il nono considerando del primo Regolamento, secondo cui «i convenuti non domiciliati in uno Stato membro sono generalmente soggetti alle norme nazionali in materia di competenza vigenti nel territorio dello Stato membro del giudice adìto e i convenuti domiciliati in uno Stato membro non vincolato dal presente regolamento devono continuare ad essere soggetti alla Convenzione di Bruxelles».
Tale orientamento ha costituito peraltro oggetto di rimeditazione da parte della giurisprudenza più recente, la quale, richiamando anche la giurisprudenza unionale (cfr. Corte di giustizia UE, sent. 3/09/2020, in causa C-186/ 19, Supreme Site Services GmbH; 29/07/2019, in causa C-451/18, Tibor), ha osservato che la Convenzione di Bruxelles, nazionalizzata dall’art. 3, comma secondo, della legge n. 218 del 1995, s’intende ormai trasfusa nel Regolamento n. 1215/2012, che ha sostituito il Regolamento n. 44/2001, con la conseguenza che le disposizioni di quella Convenzione restano operanti per i soli territori degli Stati membri che rientrano nell’ambito di applicazione territoriale della stessa e che sono esclusi dal Regolamento ai sensi dell’art. 355 del TFUE. Premesso che, così come l’art. 4 della Convenzione di Bruxelles, l’art. 6 del Regolamento UE n. 1215/2012 stabilisce che, se il convenuto non è domiciliato in uno Stato membro, la competenza delle autorità giurisdizionali di ciascuno Stato membro è disciplinata dalla legge di tale Stato, si è rilevato che la legge dello Stato italiano alla quale rinvia l’art. 6 cit. è oggi costituita, per l’appunto, dall’art. 3 della legge n. 218 del 1995, il quale al comma secondo richiama, per le materie già comprese nel campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles, i criteri stabiliti dalla medesima Convenzione e dalle sue successive modificazioni in vigore per l’Italia, i quali sono dichiarati applicabili «anche allorché il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente». Si è pertanto concluso che, alla stregua dello art. 3, comma secondo, della legge n. 218 del 1995, se il convenuto non è domiciliato in uno Stato membro, la giurisdizione italiana, quando si tratti di una delle materie già comprese nel campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles, sussiste in base ai criteri stabiliti dal Regolamento n. 1215/2012, il quale ha sostituito il Regolamento n. 44/2001, che aveva a sua volta sostituito la Convenzione (cfr. Cass., Sez. Un., 8/01/2024, n. 613; 10/07/2023, n. 19571; 24/11/2021, n. 36371; 10/11/2021, nn. 33002 e 33003; 25/06/ 2021, n. 18299).
Le predette conclusioni, cui questa Corte è pervenuta sulla base della disciplina dettata dal Regolamento n. 1215/2012, meritano di essere ribadite in questa sede anche con riferimento a quella prevista dal precedente Regolamento n. 44/2001, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, in quanto vigente alla data dell’instaurazione del presente giudizio: l’art. 4 di tale Regolamento prevede infatti, allo stesso modo dell’art. 6 del Regolamento che lo ha sostituito, che «se il convenuto non è domiciliato nel territorio di uno Stato membro, la competenza è disciplinata, in ciascuno Stato membro, dalla legge di tale Stato», in tal modo estendendo indirettamente il campo di applicazione della disciplina eurounitaria anche ai soggetti non domiciliati negli Stati membri, attraverso il recepimento dei criteri dalla stessa dettati nell’ambito della normativa nazionale (cfr. Cass., Sez. Un., 20/02/2013, n. 4211).
6.1. Non possono quindi condividersi le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata, la quale, sulla base della disciplina dettata dall’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles, ha ritenuto che, trattandosi di controversia in materia contrattuale, la giurisdizione spettasse all’Autorità giudiziaria italiana, in qualità di forum destinatae solutionis, individuando l’obbligazione dedotta in giudizio in quella avente ad oggetto il pagamento del prezzo dei beni forniti dalla Sysnav e il luogo in cui la prestazione avrebbe dovuto essere eseguita nella sede di affari della venditrice, in virtù del richiamo alla disciplina uniforme dettata dall’art. 57 della Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 sulla vendita internazionale di merci.
Com’è noto, infatti, l’art. 5, n. 1 della Convenzione di Bruxelles viene comunemente interpretato nel senso che il forum destinatae solutionis deve essere individuato avendo riguardo al luogo in cui è stata o dev’essere eseguita la specifica obbligazione intorno alla quale le parti controvertono, da determinarsi in conformità della legge sostanziale applicabile al rapporto sulla base del diritto internazionale privato del giudice adìto (cfr. Cass., Sez. Un., 6/06/2002, n. 8224; 6/08/1998, n. 7714; 19/12/1994, n. 10910; v. anche Corte di Giustizia UE, 5/10/1999, in causa C-420/97, Leathertex; 29/06/ 1994, in causa C-288/92, Custom Made Commercial Ltd.; 6/10/1976, in causa C-14/76, De Bloos); ove poi, come nella specie, la controversia abbia ad oggetto una vendita internazionale di merci, si è ritenuto che debba farsi riferimento alla Convenzione di Vienna, la quale, dettando una disciplina sostanziale uniforme, si sostituisce alle legislazioni dei singoli Stati e prevale anche sulla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, resa esecutiva con legge 18 dicembre 1984, n. 975 (cfr. Cass., Sez. Un., 21/10/2009, n. 22239; 9/02/2009, n. 3059; 20/04/ 2004, n. 7503).
Nonostante la parziale identità della formulazione letterale, recante in entrambi i casi il riferimento al «luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita», l’art. 5, n. 1 del Regolamento n. 44/01 è stato invece interpretato nel senso che, ai fini dell’individuazione del forum destinatae solutionis, occorre avere riguardo non già all’obbligazione fatta valere dall’attore, ma a quella caratterizzante il contratto (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 14/07/2016, in causa C-196/15, Granarolo S.p.a.; 25/02/ 2010, in causa C-381/08, Car Trim): il Giudice unionale ha infatti osservato che con tale disposizione il legislatore comunitario ha inteso rompere esplicitamente con la precedente soluzione secondo cui il luogo di esecuzione doveva essere individuato per ciascuna delle obbligazioni controverse in base al diritto internazionale privato del giudice adìto, designando autonomamente come luogo di esecuzione il luogo in cui l’obbligazione che caratterizza il contratto deve essere adempiuta, ed introducendo quindi una competenza speciale fondata su un collegamento particolarmente stretto tra il contratto e il giudice chiamato a conoscerne, in modo tale da centralizzare presso quest’ultimo la competenza giurisdizionale per le controversie relative a tutte le obbligazioni derivanti dal contratto, in una logica di ottimizzazione del processo (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 19/12/2013, in causa C-9/12, Corman-Collins SA; 11/03/2010, in causa C-19/09, Wood Floor Solutions Andreas Domberger GmbH; 3/05/2007, in causa C-386/05, Color Drack GmbH). Questa Corte ha a sua volta rilevato che, ai sensi della lett. c) dell’art. 5, n. 1, il riferimento al luogo in cui è stata o deve essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio, contenuto nella lett. a), riveste una portata meramente residuale, giacché, ove si tratti di compravendita di beni, la lett. b) conferisce rilievo, in via principale, al luogo in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto, il quale coincide, salvo diversa convenzione, con il luogo in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati, da individuarsi con riferimento al luogo di recapito finale della merce, al luogo cioè in cui la stessa entra nella disponibilità materiale, e non solo giuridica, dell’acquirente (cfr. Cass., Sez. Un., 22/11/2021, n. 35784; 19/03/2009, n. 6598; 20/06/ 2007, n. 14299; nel medesimo senso, in riferimento all’art. 7, n. 1, lett. b), primo trattino, del Regolamento n. 1215/2012, Cass., Sez. Un., 13/12/2018, n. 32362).
6.2. Sulla base di tali principi, e tenuto conto che in tema di riparto della giurisdizione questa Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto, procedendo non solo alla verifica della corretta individuazione ed interpretazione della disciplina applicabile, ma anche all’identificazione del giudice cui spetta la cognizione della controversia attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dalle ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata (cfr. Cass., Sez. Un., 5/11/2019, n. 28332; 8/06/2007, n. 13397; 10/07/2003, n. 10840), si rileva che nel caso di specie l’obbligazione caratterizzante il contratto stipulato tra le parti è costituita indubbiamente dalla fornitura del sistema digitale e dell’impianto elettrico prodotti dalla Sysnav, la cui consegna ha avuto pacificamente luogo in Turchia, presso la sede legale o comunque presso l’azienda della società ricorrente. La controversia esula pertanto dall’ambito della giurisdizione italiana, in applicazione del criterio di collegamento previsto dall’art. 5, n. 1, lett. a), del Regolamento CE n. 44/ 2001, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la circostanza, fatta valere dalla controricorrente, che la progettazione e la produzione dei sistema digitale fossero state originariamente commissionate dalla Azimut Benetti S.p.a., socia della Azimut Marine Denizcilik ed avente sede in Italia: come ha riconosciuto la stessa controricorrente, infatti, tra le parti è intervenuto successivamente un accordo, in virtù del quale il rapporto è proseguito esclusivamente con la ricorrente, che, in qualità di destinataria della fornitura ed obbligata al pagamento del corrispettivo, risulta pertanto l’unico soggetto legittimato a resistere alla domanda proposta dalla venditrice.
7. In accoglimento del primo motivo d’impugnazione, va pertanto dichiarato il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, restando assorbiti gli altri motivi, aventi ad oggetto questioni che attengono al merito della controversia.
La sentenza impugnata va conseguentemente cassata, senza rinvio.
La complessità della questione trattata, che ha costituito oggetto di un mutamento di giurisprudenza intervenuto in corso di causa, giustifica l’integrale compensazione delle spese relative ai tre gradi di giudizio.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata e dichiara il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana. Compensa integralmente le spese processuali.
Così deciso in Roma il 16/01/2024
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 13 settembre 2023, n. 26422, per SS.UU, 28 febbraio 2024, n. 5303, in tema di dir. internaz. privato
SS.UU, 28 febbraio 2024, n. 5303, in tema di diritto internazionale privato
In tema di concessioni demaniali – SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736
Civile Ord. Sez. U Num. 3736 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: BERTUZZI MARIO
Data pubblicazione: 09/02/2024
O R D I N A N Z A
sul ricorso N. 16978/2017 proposto da:
Stabilimento Balneare D’Aquila s.r.l., in persona dell’amministratore unico sig. Giampaolo D’Aquila, rappresentata e difesa dall’Avvocato Silvio Pinna, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avvocato Giorgio Carta in Roma, viale Parioli n. 55.
Ricorrente
contro
Regione Autonoma della Sardegna, in persona del suo Presidente, rappresentata e difesa dagli Avvocati Andrea Secchi e Mattia Pani, elettivamente domiciliata presso l’Ufficio di rappresentanza della Regione medesima in Roma, via Lucullo n. 21.
Controricorrente
avverso la sentenza n. 435/2017 della Corte di appello di Cagliari, depositata il 26. 5. 2017.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21. 11. 2023 dal consigliere Mario Beruzzi.
Fatti di causa
Con sentenza n. 435 del 26. 5. 2017 la Corte di appello di Cagliari, accogliendo l’appello incidentale proposto dalla Regione Autonoma della Sardegna, dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in favore del giudice amministrativo, sulla domanda proposta, ai sensi dell’art. 702 bis cod. proc. civ., dallo Stabilimento Balneare D’Aquila s.r.l. nei confronti della Regione per la restituzione della somma di euro 479.998,00, corrisposta a titolo di sovracanone dal 2004 al 2012.
La società Stabilimento Balneare D’Aquila, titolare di una concessione su porzione di demanio marittimo, aveva motivato la domanda di ripetizione esponendo che il pagamento del sovracanone era stato previsto dalla Regione con determinazioni nn. 2081/D del 28. 12. 2001 e 2220/D del 29. 12. 2003, emanate ai sensi dell’art. 46 del d.P.R. n. 348 del 1979, e che tale obbligo era stato poi riprodotto nell’atto di concessione demaniale; tuttavia, su ricorso di altro concessionario, la società cooperativa Golfo degli Aranci, il Tar Sardegna, con sentenza 14. 12. 2012, n. 1122, aveva annullato ” a causa della carenza del necessario presupposto normativo o legittimazione della pretesa impositiva “ non solo il provvedimento del comune che imponeva il sovracanone ma anche i suindicati atti regionali presupposti, facendo così venire meno il titolo per ottenere la sua corresponsione.
La Regione Autonoma della Sardegna aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e l’infondatezza nel merito della domanda.
Con ordinanza del 20. 10. 2015 il Tribunale di Cagliari affermò la propria giurisdizione ma rigettò la domanda, negando ogni rilevanza alla sentenza del giudice amministrativo invocata dalla parte privata, per essere la debenza del sovracanone prevista dalla convenzione n. 1176 del 2004 stipulata dalla società attrice in sede di concessione del bene demaniale, non oggetto di impugnativa.
La Corte di appello di Cagliari, investita da appello in via principale dalla società attrice ed in via incidentale dalla Regione Autonoma della Sardegna, dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario affermando che, ai sensi dell’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., le controversie in materia di concessione di beni pubblici sottratte alla giurisdizione del giudice amministrativo e quindi sottoposte a quella del giudice ordinario sono solo quelle di contenuto meramente patrimoniale che attengono all’ammontare del canone, nelle quali non viene in rilievo l’esercizio dei poteri discrezionali spettanti alla pubblica amministrazione, mentre nel caso di specie la società concessionaria aveva contestato proprio il corretto esercizio del potere della Regione nella imposizione del sovracanone.
Per la cassazione di questa sentenza, con atto notificato a mezzo posta con invio il 28. 6. 2017, ha proposto ricorso la s.r.l. Stabilimento Balneare D’Aquila, affidandosi ad un unico motivo.
La Regione Autonoma della Sardegna ha notificato controricorso e depositato successiva memoria.
Con ordinanza interlocutoria n. 16368 del 2023, la prima Sezione di questa Corte ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per la sua trattazione da parte delle Sezioni unite.
Ragioni della decisione
1.Con l’unico motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 1), cod. proc. civ.
La ricorrente assume che la statuizione di diniego della giurisdizione del giudice ordinario adottata dalla Corte di appello è errata, non conformandosi al modello legale di ripartizione stabilito dalla disposizione di legge citata. Ciò in quanto la esponente non aveva “ affatto contestato dinanzi al Tribunale l’azione autoritativa della Regione Sardegna “, e neppure “ contestato la concessione demaniale nella parte in cui (art. 4) imponeva il pagamento del sovracanone regionale “, ma aveva “ inteso esclusivamente azionare il proprio diritto soggettivo alla ripetizione delle somme riscosse sine titulo nel corso degli anni dalla Regione Sardegna a titolo di sovracanone, a seguito e per l’effetto della declaratoria di illegittimità da parte del TAR Sardegna non sentenza n. 1122 del 14 dicembre 2012 del medesimo sovracanone e dell’efficacia erga omnes di tale sentenza “.
La causa petendi dell’azione proposta non aveva pertanto ad oggetto la contestazione dell’esercizio di poteri discrezionali dell’amministrazione concedente, bensì il diritto di ripetere quanto versato in ragione del venir meno, in forza dell’annullamento disposto dal giudice amministrativo, degli atti amministrativi che avevano imposto il sovracanone.
Si aggiunge che, come emerge chiaramente dalla lettura dell’art. 4 dell’atto di concessione demaniale, in esso non si era formato alcun accordo, neppure mediato, tra concedente e concessionario in ordine al pagamento del sovracanone, la cui imposizione era pertanto diretta conseguenza della autoritativa applicazione da parte della Regione della determinazione, ivi richiamata, n. 2220/D del 29. 12. 2003.
2. Il ricorso è fondato.
2.1. L’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., stabilisce che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “ le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche“.
Questa Corte ha chiarito che le controversie concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, riservate, in materia di concessioni amministrative, alla giurisdizione del giudice ordinario, sono solo quelle con un contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo, cioè, il potere d’intervento della Pubblica Amministrazione a tutela di interessi generali; quando, invece, la controversia coinvolge la verifica dell’azione autoritativa della P.A. sull’intera economia del rapporto concessorio, la medesima è attratta nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo.
Sulla base di questo criterio distintivo è stato più volte sottolineato che ricorre la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della legittimità del provvedimento di determinazione del canone di concessione, in relazione al quale è ravvisabile un potere discrezionale della amministrazione concedente (Cass. Sez. un. 16459 del 2020; Cass. Sez. un. n. 11687 del 2020; Cass. Sez. un. n. 13903 del 2011; Cass. Sez. un. n. 15644 del 2010 ).
2.2. Ai sensi dell’art. 5 cod. proc. civ. si desume che la giurisdizione si determina sulla base della domanda, avuto riguardo al c.d. petitum sostanziale ed alla causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio ed individuata dal giudice stesso con riguardo ai fatti allegati ( Cass. Sez. un. n. 21677 del 2013; Cass. Sez. un. n. 10375 del 2007; Cass. Sez. un. n. 17461 del 2006 ). In sede di applicazione dell’art. 133 cod. dir. amm. il riparto della giurisdizione deve pertanto prendere in considerazioni le ragioni che il concessionario pone a fondamento della propria pretesa riguardante il canone concessorio.
Nel caso di specie, la società concessionaria ha avanzato la sua domanda di restituzione dei sovracanoni versati deducendo che essi erano stati previsti nell’atto concessorio senza che si fosse formata sul punto alcuna convenzione o accordo tra le parti, in virtù della mera applicazione ed esecuzione delle determinazioni regionali sopra menzionate e che, essendo esse state annullate con efficacia erga omnes dal Tar Sardegna, era venuto meno il titolo in forza del quale l’Amministrazione concedente potesse trattenere le somme versate. La pretesa azionata in giudizio va pertanto qualificata come domanda di ripetizione di indebito per sopravvenuta mancanza del titolo, fondata sull’efficacia ultra partes dell’invocato giudicato amministrativo di annullamento.
L’esame dei fatti costitutivi dell’azione dedotti dalla società attrice porta a ritenere che la presente controversia sia annoverabile tra quelle a contenuto patrimoniale aventi a oggetto le indennità i canoni o gli altri corrispettivi, devolute al giudice ordinario.
Ed invero l’azione si fonda non già sulla contestazione della legittimità dei provvedimenti che hanno imposto la prestazione che si assume non dovuta, bensì sulla mera richiesta di accertare che gli stessi sono venuti meno in forza di un giudicato amministrativo. Ciò che viene eccepito non è quindi un non corretto esercizio dei poteri discrezionali spettanti alla amministrazione concedente, prodromo al sindacato tipico del giudice amministrativo, ma la loro inefficacia ai fini della regolamentazione del rapporto di concessione. La domanda ha quindi ad oggetto la tutela di un diritto soggettivo patrimoniale a fronte della dedotta inesistenza del potere del concedente di imporre la corresponsione di una prestazione pecuniaria aggiuntiva a titolo di canone, esercitabile come tale dinanzi al giudice ordinario ( Cass. Sez. un. n. 13193 del 2018; Cass. Sez. un. n. 2295 del 2014 ). Mentre, è da aggiungere, appartengono al merito della controversia e non sono pertanto scrutinabili in sede di decisione sulla giurisdizione, le questioni inerenti alla estensione dell’efficacia del dedotto giudicato amministrativo al rapporto in essere tra le parti ed alla ricostruzione della regolamentazione dello stesso alla luce delle clausole e condizioni presenti nell’atto di concessione.
3. Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche a liquidare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; rinvia la causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche a liquidare le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite il 21 novembre
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 09 giugno 2023, n. 16368, per SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736, in tema di concessioni demaniali
SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736, in tema di concessioni demaniali
In tema di rinuncia alla domanda – SS.UU, 07 febbraio 2024, n. 3453
Civile Sent. Sez. U Num. 3453 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: NAZZICONE LOREDANA
Data pubblicazione: 07/02/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 23403/2021 R.G. proposto da:
CUKI COFRESCO S.R.L, in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. LUIGI SAGLIETTI (SGLLGU43P22C049O) e dall’Avv. Prof. BRUNO NICOLA SASSANI (SSSBNN50E09E030Y)
-ricorrente-
contro
NOVELIS DEUTSCHLAND GMBH, in persona del legale rapp.te p.t., elettivamente domiciliata in ROMA VIA MICHELE MERCATI, 39, presso lo studio degli Avv.ti MONIA BACCARELLI (BCCMNO73L42H501C) e MARIA ROSA VALENTINA SPINELLI (SPNMRS74S62F205W), da cui è rappresentata e difesa
-controricorrente-
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO TORINO n. 609/2021 depositata il 01/06/2021.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 21/11/2023 dal Consigliere LOREDANA NAZZICONE.
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, che ha concluso per l’accoglimento del primo, secondo e quarto motivo del ricorso, assorbito il terzo.
Uditi gli Avvocati Luigi Saglietti e Monia Baccarelli.
FATTI DI CAUSA
1. – La Cuki Cofresco r.l. convenne innanzi al Tribunale di Torino la Novelis Deutchsland GmbH, società di diritto tedesco, titolare di modello comunitario per vaschette usa e getta in alluminio, proponendo domanda di accertamento negativo della contraffazione del modello comunitario e di proprie condotte di concorrenza sleale.
Con sentenza del 17 gennaio 2019, n. 212, il Tribunale di Torino dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in favore del Tribunale dei disegni e modelli comunitari della Germania, ove ha sede la società convenuta.
Il Tribunale, qualificata la domanda attorea come diretta all’accertamento negativo dell’esecuzione, da parte di Cuki Cofresco s.r.l., di condotte violative dei diritti vantati da Novelis Deutchsland GmbH in forza del modello comunitario multiplo numero 00516836, dunque volta ad accertare che i vassoi o vaschette prodotti dall’attrice non integravano contraffazione né concorrenza sleale confusoria del suddetto modello comunitario, ha rilevato il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore di quello tedesco. Ha ritenuto che la disciplina sul modello comunitario dettata dall’art. 82 Reg. CE n. 6/2002 – secondo cui i procedimenti derivanti dalle azioni e dalle domande giudiziali relative a disegni e modelli comunitari vanno proposti dinanzi al Tribunale dello stato membro in cui il convenuto ha domicilio o una stabile organizzazione – è criterio applicabile anche alla connessa domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale, in forza dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 13 luglio 2019, C-433/16.
2. – Adìta dalla Cuki Cofresco s.r.l., la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 1° giugno 2021, 609, ha respinto l’impugnazione.
La corte territoriale ha ritenuto che:
a) non ha errato il Tribunale nell’interpretazione della domanda introduttiva, sulla scorta del tenore letterale degli atti difensivi, come volta alla richiesta di accertamento negativo sia della contraffazione del modello comunitario, sia della concorrenza sleale confusoria, non essendo stato invece domandato, contrariamente all’assunto dell’appellante, l’accertamento dell’insussistenza di qualsiasi condotta illecita, ivi compresi cioè l’illecito da indebito utilizzo di marchio di fatto, la concorrenza per imitazione servile o la violazione del diritto di proprietà intellettuale: anche a voler sorvolare sull’inammissibilità, per violazione delle preclusioni processuali, delle successive modificazioni della domanda rispetto al contenuto formulato in citazione, la parte non ha fornito in appello alcun elemento tale da consentire di qualificare la domanda azionata come di più ampio contenuto;
b) ne deriva che non si applica l’art. 5.3 reg. n. 44/2001, ma il reg. 6/2002, come statuito dalla Corte di giustizia UE 13-07- 2017, C 433/16, Bayerische Motoren Werke AG c. Soc. Acacia, non potendosi ritenere che le predette domande rivestissero carattere autonomo, non richiedendo il preventivo accertamento della domanda di contraffazione di modello, dato che non sono state neppure proposte, mentre la difformità tra le azioni di accertamento positivo o negativo della concorrenza non può incidere sulla operatività del criterio generale di attribuzione della giurisdizione al giudice nazionale del convenuto, fondato sulla mera connessione fra le domande, connotato processuale decisivo ai fini dell’applicazione del regime di competenza di cui al Reg. n. 6/2002;
c) non ha pregio la pretesa di una interpretazione non letterale del dispositivo della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea citata, in quanto l’appellante la sostiene in modo generico;
d) non va operato il richiesto rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 19 par. 3, lett. b), del Trattato sull’Unione Europea e dell’art. 267 del F.U.E., trattandosi di rinvio non necessario alla luce di rilievi posti a fondamento della decisione, per quanto esposto circa l’insussistenza nella specie di una domanda di accertamento negativo della sussistenza di un più ampio “illecito civile”, all’interno del quale si pone l’accertamento della contraffazione, onde non si dà la premessa per un’interpretazione estensiva dell’art. 28, par. 3, reg. n. 44/2001.
3. – Avverso la pronuncia la Cuki Cofresco r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui Novelis Deutschland GmbH ha resistito con controricorso.
Con la memoria di cui all’art. 372 c.p.c., la ricorrente ha depositato documenti, concernenti la domanda di Novelis Deutschland GmbH a EUIPO di registrazione del Modello Comunitario n. 516836-0007, di cui è causa; la decisione di rigetto da parte della Divisione di annullamento del suddetto Ufficio della domanda di nullità promossa da Cuki; la decisione del 1° febbraio 2021 della Terza Commissione di Ricorso di EUIPO di declaratoria della nullità del modello comunitario, perché privo del carattere individuale, ex art. 6 reg. UE n. 6/2002; la sentenza del 2 febbraio 2022 della Terza Sezione del Tribunale di primo grado UE (causa T- 173/21) di rigetto del ricorso di Novelis, con conferma della decisione della Commissione dei Ricorsi.
La ricorrente ha chiesto dichiararsi, per fatti sopravvenuti alla proposizione del ricorso, cessata la materia del contendere in relazione alla domanda di accertamento negativo della contraffazione del modello comunitario, ormai dichiarato definitivamente nullo, con condanna della resistente alle spese di lite, ed accogliersi il ricorso circa l’accertamento negativo del compimento da parte di Cuki Cofresco s.r.l. di atti di concorrenza sleale ai danni di Novelis, considerato che la documentazione prodotta, da cui si deduce la declaratoria di nullità del modello comunitario per cui è causa, costituisce un mutamento di fatto che «attribuisce la giurisdizione al giudice italiano per quanto concerne tale seconda domanda».
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
4. – Con ordinanza interlocutoria 18202/2023, la Sezione Prima civile ha rimesso la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, comma 3, c.p.c., sulla questione «se possano o meno assumere rilievo, ai fini di radicare la giurisdizione del giudice italiano, la rinuncia a una delle domande connesse originariamente proposte o una circostanza sopravvenuta allegata (la decisione di nullità del modello comunitario), anche ai fini della violazione e mancata applicazione dell’art. 5 c.p.c., come interpretato da questo giudice di legittimità, ove intervenute nel termine per le repliche conclusionali in appello o successivamente, e se la mancata fissazione dell’udienza di discussione della causa, nonostante la rituale richiesta di una delle parti, comporti di per sé la nullità della sentenza, alla luce dei principi di diritto affermati nella sentenza delle Sezioni unite n. 36596/2021».
La causa è, quindi, pervenuta alle Sezioni unite.
Il Procuratore generale dr. Stanislao De Matteis ha chiesto l’accoglimento dei motivi primo, secondo e quarto del ricorso, con assorbimento del terzo.
Entrambe le parti hanno depositato le memorie per la pubblica udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. – Con il primo motivo, la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 1, c.p.c., l’erroneità dell’esclusione della giurisdizione italiana per falsa applicazione del CE n. 6/2002 e per non applicazione del reg. UE n. 1215/2012, in conseguenza della rinuncia alla domanda di accertamento negativo di contraffazione di design, da essa operata nella memoria di replica in appello.
In tal modo, non vi era più attrazione, ai fini della giurisdizione, della domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale in quella sull’accertamento negativo della contraffazione, avendo Cuki rinunciato, in sede di memoria di replica in appello ex art. 190 c.p.c., alla domanda di accertamento negativo di contraffazione del modello comunitario di Novalis, con conseguente necessità di individuare la giurisdizione, per la sola domanda rimasta, attraverso l’applicazione del reg. UE n. 1215/2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, e specificamente dell’art. 7, che, in materia di illeciti civili, dolosi e colposi, indica, ai fini dell’individuazione della giurisdizione, il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire.
La Corte d’appello si è pronunciata su di una domanda rinunciata, e ciò costituisce anche violazione dell’art. 112 c.p.c. per ultrapetizione.
1.2. – Con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 1, c.p.c., censura l’erroneità dell’esclusione della giurisdizione italiana per falsa applicazione del CE n. 6/2002, in luogo del reg. UE n. 1215/2012, in conseguenza di un mutamento di fatto, dal giudice però non considerato.
Infatti, la Corte d’appello non ha esaminato la circostanza sopravvenuta, allegata in quella sede, relativa alla decisione della Commissione dei ricorsi dell’EUIPO di nullità del modello comunitario della controparte, con conseguente carenza di interesse ad agire e cessazione della materia del contendere sulla domanda originaria di accertamento negativo della contraffazione, donde la necessità di applicazione, ai fini della giurisdizione sulla sola domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale, non dell’art. 6 reg. CE n. 6/2002, in difetto di domande connesse e di un modello comunitario, ma dell’art. 7.2 reg. n. 1215/2012; deduce, inoltre, nel presente giudizio di legittimità, quale ulteriore fatto sopravvenuto, la sentenza definitiva di nullità del modello comunitario da parte del Tribunale UE.
Nelle ipotesi di c.d. concorrenza sleale pura, siano esse di accertamento positivo o negativo, l’azione di accertamento dell’illecito anticoncorrenziale rientra nella nozione di “fattispecie illecita” di cui, ratione temporis, all’art. 5.3 Reg. UE n. 44/2001 o all’art. 7.2. Reg. UE n. 1215/2012, quale forum commissi delicti, nella specie l’Italia, dove la ricorrente produce e commercializza i prodotti.
1.3. – Con il terzo motivo, si deduce la nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi dell’art. 360, comma 2, n. 4, c.p.c., per la mancata fissazione dell’udienza di discussione orale richiesta ex 352, comma 2, c.p.c., con conseguente lesione del diritto di difesa della appellante.
Invero, essendo la decisione della Commissione dei ricorsi dell’EUIPO di nullità del modello comunitario di Novelis intervenuta il 1° febbraio 2021, dopo lo scadere delle preclusioni istruttorie e del termine di deposito delle memorie conclusionali e di replica, essa aveva confidato nella fissazione di un’udienza di discussione orale della causa, richiesta in sede di precisazione delle conclusioni e reiterata in sede di memorie di replica, con istanza al Presidente della Corte, e comunque aveva, in data 4 febbraio 2021, depositato tale decisione, formulando istanza di rimessione in termini: ma la Corte d’appello, pur riservato l’esame dell’istanza suddetta in sede decisoria, nella sentenza impugnata non ha affatto considerato la decisione di nullità.
1.4. – Con il quarto motivo censura la violazione o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 2, n. 3, c.p.c., dell’art. 5 c.p.c. e della ratio della perpetuatio iurisdictionis.
La mancata valutazione, da parte della Corte d’appello, del fatto sopravvenuto consistente nella decisione di nullità del modello comunitario viola l’art. 5 c.p.c., in quanto il principio della perpetuatio iurisdictionis non trova applicazione nel caso in cui il mutamento dello stato di diritto o di fatto comporti l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della proposizione della domanda, sebbene la circostanza sopravvenuta sia intervenuta oltre l’udienza di precisazione delle conclusioni in appello.
2. – Il primo ed il quarto connesso motivo sono fondati, con assorbimento degli altri.
2.1. – La parte appellante ed odierna ricorrente, nel corso del giudizio di appello, con la memoria di replica del 18 gennaio 2021, oltre a ribadire la già formulata istanza di fissazione dell’udienza di discussione orale ai sensi dell’art. 352 p.c., provvide altresì a rinunciare alla domanda di accertamento negativo di contraffazione del modello comunitario in titolarità della controparte.
Come la ricorrente ricorda nel ricorso, ivi chiese quanto segue:
«In replica alla comparsa conclusionale ex adverso depositata, nonché alla luce delle ultime interpretazioni giurisprudenziali e dottrinali, la scrivente difesa: (…) rinuncia alla domanda di accertamento negativo di contraffazione del modello comunitario di Novelis» (cfr. p. 2 della memoria di replica in appello).
2.2. – La rinuncia alla domanda o ai suoi singoli capi può intervenire in sede di comparsa conclusionale o di memoria di replica, nonostante la natura semplicemente illustrativa di tali atti.
Da un lato, invero, è noto il principio secondo cui gli scritti conclusivi di parte, comparsa conclusionale e memoria di replica, sono volti ad illustrare quanto già discusso, senza poter contenere nova.
Dall’altro lato, tuttavia, è altrettanto ammessa la restrizione del thema decidendum, in forza della rinuncia a qualche capo di domanda o ad eccezione in precedenza formulate, che resta nella disponibilità del soggetto processuale non solo fino al momento della precisazione delle conclusioni, ma anche in séguito, come nella comparsa conclusionale o anche nella memoria di replica (per la conclusionale, cfr. Cass. 26 giugno 2015, n. 13203, in motivazione; Cass. 15 aprile 2014, n. 8737; Cass. 17 dicembre 2013, n. 28146, in motivazione; Cass. 25 agosto 1997, n. 7977; e già Cass. n. 2434/1971; Cass. n. 334/1965).
Anche dopo la precisazione delle conclusioni, a preclusioni ormai maturate, se è vietato estendere il thema decidendum attraverso nuove domande ed eccezioni che non potrebbero essere confutate ex adverso, va però consentito di restringerlo, mediante rinuncia a una delle domande, ad uno o più capi di essa, od alle eccezioni.
Per il principio dispositivo, infatti, va sempre ammesso che la parte rinunci alla sua domanda o a parti di essa, come si ricava dallo stesso art. 306 c.p.c. (cfr., di recente, Cass. 17 marzo 2023, n. 7883, sui concetti di rinuncia agli atti, all’azione, al diritto o alla domanda).
Si opera, invero, in tal modo una restrizione del thema decidendum, che è sempre permessa.
Nel completo rispetto del contraddittorio, peraltro, proprio per il fatto che si tratta di un caso eccezionale di modifica delle proprie richieste, sia pure in senso restrittivo, il giudice potrà provvedere, se ritenga rilevante la modifica ai fini delle difese, alla rimessione della causa sul ruolo al fine di estendere la discussione alla situazione creatasi a domanda o capi di domanda rinunciati.
Non ha, dunque, ragione di porsi la perplessità avanzata nell’ordinanza interlocutoria, secondo cui la rinuncia potrebbe restare inefficace, in quanto la prospettazione di un parzialmente diverso thema decidendum influenzerebbe la questione di giurisdizione.
Il bilanciamento tra il principio dispositivo, che rende la parte sovrana delle sue scelte difensive e delle domande poste al giudice, e gli effetti che esso produce per tutte le parti del giudizio è stato risolto dal legislatore mediante la prevalenza del primo, presentando invero il sistema le modalità procedurali per assicurare, come ora esposto, il pieno rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa di tutte le parti in causa.
2.3. – Ne deriva la fondatezza del quarto connesso motivo.
Costituisce principio consolidato che la regola di irrilevanza delle sopravvenienze, stabilita dall’art. 5 c.p.c., essendo diretta a favorire la perpetuatio iurisdictionis, non ad impedirla, trova applicazione solo nel caso di sopravvenuta carenza di giurisdizione del giudice originariamente adìto, non anche qualora il mutamento dello stato di diritto o di fatto comporti, invece, l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della proposizione della domanda (Cass. 8 ottobre 2014, n. 21221; già Cass., sez. un., n. 6532/2008, n. 4820/2005, n. 2415/2002 e n. 225/2001). Ed invero, l’art. 5 c.p.c. va interpretato in conformità alla sua ratio di favorire, non già di impedire, la perpetuatio iurisdictionis, onde, ove sia stato adito un giudice incompetente al momento della domanda, l’incompetenza non può essere dichiarata se quel giudice è diventato competente (Cass. 5 gennaio 2022, n. 214).
Nella specie, trattandosi di applicare l’art. 7.2 del Regolamento n. 1215/2012 – che, al pari del precedente disposto (art. 5, punto 3, regolamento Cee n. 44/2001), rende competente l’«autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire» – il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire è quello in cui è avvenuta la lesione del diritto, senza avere riguardo al luogo in cui si sono verificate o potrebbero verificarsi le conseguenze future di tale lesione (cfr., fra le altre, Cass. 12 marzo 2019, n. 7007; Cass., sez. un., 27 dicembre 2011, n. 28811; Cass., sez. un., 5 luglio 2011, n. 14654; Cass., sez. un., 5 maggio 2006, n. 10312; e v., inter alia, Corte di giustizia dell’Unione europea 16 giugno 2016, C-12/15).
Infatti, in tema di giurisdizione del giudice italiano, quando la domanda abbia per oggetto un illecito extracontrattuale trova applicazione il criterio di individuazione della giurisdizione fissato dall’art. 7, n. 2, Regolamento UE n. 1215 del 2012, a mente del quale una persona domiciliata in uno stato membro può essere convenuta in un altro stato membro, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire; alla luce di tale criterio e della chiara e costante interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia dell’Unione europea, la giurisdizione si radica o nel luogo in cui si è concretizzato il danno o, in alternativa, a scelta dell’attore danneggiato, in quello dove si è verificato l’evento generatore di tale danno, coincidendo il primo, quando il danneggiato è persona giuridica, normalmente con la sua sede statutaria (Cass., sez. un., 15 dicembre 2020, n. 28675; Cass., sez. un., 9 febbraio 2021, n. 3125), dato che ai fini della individuazione della giurisdizione in tema di risarcimento del danno, ai sensi del Regolamento UE n. 1215 del 2012 deve intendersi “luogo dell’evento dannoso” sia quello in cui ha avuto luogo la condotta lesiva, sia quello in cui il danno si è concretizzato avendo riguardo al “danno iniziale” e non alle conseguenze negative derivanti da un pregiudizio verificatosi altrove (Cass., sez. un., 17 maggio 2023, n. 13504), come questa Corte ha costantemente ritenuto.
3. – In accoglimento dei motivi primo e quarto, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio della causa innanzi al Tribunale di Torino, in diversa composizione, per la decisione della Al medesimo si demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, accoglie il primo ed il quarto motivo di ricorso, assorbiti il secondo ed il terzo; dichiara la giurisdizione del giudice italiano; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Torino, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 novembre
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 26 giugno 2023, n. 18202, per SS.UU, 07 febbraio 2024, n. 3453, in tema di rinuncia alla domanda
SS.UU, 07 febbraio 2024, n. 3453, in tema di rinuncia alla domanda
In tema di appalti pubblici – SS.UU, 29 febbraio 2024, n. 5441
Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Civile Ord. Sez. U Num. 5441 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: FALABELLA MASSIMO
Data pubblicazione: 29/02/2024
Oggetto
REGOLAMENTI
DI GIURISDIZIONE
R.G.N. 12066/2023
Cron.
Rep.
Ud. 05/12/2023
CC
ORDINANZA
sul ricorso 12066-2023 proposto da:
Geko s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gerolamo Taccogna e Luigi Cocchi;
– ricorrente –
contro
Sacyr Industrial SL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, piazza d’Ara Coeli 1, presso lo studio legale Osborne Clarke, rappresentata e difesa dagli avvocati Giorgio Lezzi e Federico Banti;
nonché contro
Iren Acqua s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Daniela Anselmi, Alessio Anselmi e Paolo Canepa;
– controricorrenti –
nonchè contro
Depuracion de Aguas del Mediterraneo SL, Infratech Consorzio Stabile s.c. a r.l.;
– intimate –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 796/2022 del TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE di GENOVA.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/12/2023 dal Consigliere MASSIMO FALABELLA;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale MAURO VITIELLO, il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso e l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario.
FATTI DI CAUSA
1. ― Iren s.p.a., quale stazione appaltante, ha espletato per Iren Acqua s.p.a. una procedura di gara per l’aggiudicazione dell’appalto relativo alla progettazione e realizzazione di un nuovo depuratore delle acque di scarico nell’area centrale di Genova.
L’appalto è stato aggiudicato a un raggruppamento temporaneo di imprese con mandataria Sacyr Industrial SL e mandanti Geko s.p.a., Depuracion de Aguas del Mediterrano SL – DAM S.L. e Infratech Consorzio Stabile s.c. a r.l.
L’aggiudicazione è stata impugnata innanzi al TAR della Liguria da parte di Veolia Water Technologies Italia s.p.a. che, quale mandataria di altro raggruppamento di imprese, era risultata seconda classificata in esito alla gara. Veolia ha lamentato che Sacyr Industrial avesse perso i requisiti di partecipazione e che, quindi, l’aggiudicazione ad essa ed al suo raggruppamento fosse illegittima.
Prima che tale ricorso fosse deciso, Iren s.p.a. ha revocato l’aggiudicazione al raggruppamento di imprese di cui era mandataria Sacyr, con un atto che non è stato impugnato.
Ha fatto seguito una nuova aggiudicazione a Veolia ed al suo raggruppamento.
2. ― Con successivo ricorso Iren Acqua ha agito innanzi al TAR della Liguria nei confronti di Sacyr e delle mandanti. Ha domandato, in particolare, la declaratoria del diritto della ricorrente al risarcimento dei danni derivanti dalla mancata stipula del contratto (visto che l’appalto era stato definitivamente aggiudicato al raggruppamento di imprese facente capo a Veolia a un corrispettivo superiore) e la conseguente condanna delle convenute, nonché, in via subordinata, l’accertamento del proprio diritto ad ottenere il pagamento della somma dovuta per cauzione, con relativa condanna.
Geko, Sacyr e le altre imprese del raggruppamento aggiudicatario, in origine, dell’appalto, si sono costituite, resistendo al ricorso ed eccependo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
3. ― Prima dell’udienza pubblica fissata per la discussione del ricorso Geko ha proposto un regolamento preventivo di giurisdizione.
Avanti a questa Corte hanno rassegnato difese Iren Acqua e Sacyr. Il Pubblico Mistero ha concluso chiedendo la declaratoria di giurisdizione del giudice ordinario. Sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. ― La ricorrente assume che l’azione di controparte avrebbe dovuto essere proposta avanti al giudice ordinario. Deduce, in sintesi, che la controversia non inerisce alla fase pubblicistica della gara ma a una fase precontrattuale, in cui i contendenti si trovavano su di un piano di assoluta parità.
2. ― Il ricorso per regolamento è fondato.
Come è noto, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva il petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione (Cass. Sez. U. 31 luglio 2018, n. 20350; cfr. pure, tra le tante: Cass. Sez. U. 7 settembre 2018, n. 21928; Cass. Sez. U. 15 settembre 2017, n. 21522; Cass. Sez. U. 11 ottobre 2011, n. 20902).
Col ricorso al TAR della Liguria Iren Acqua ebbe a fondare le proprie pretese di risarcimento del danno e di incameramento della cauzione provvisoria sulla mancata stipula del contratto per fatto imputabile all’aggiudicataria, la quale, a suo avviso, aveva mancato di adempiere l’obbligo di mantenere per tutta la durata della procedura il possesso dei requisiti dichiarati, oltre che di informare l’Amministrazione del venir meno di tali requisiti (pag. 11 dell’atto in questione). L’odierna ricorrente fece dunque valere una responsabilità precontrattuale della controparte.
Ciò detto, il fatto che le domande proposte presentassero un collegamento con una procedura di evidenza pubblica ─ posto che, come si è visto, il raggruppamento di imprese di cui era mandataria Sacyr risultò aggiudicatario dell’appalto e proprio in conseguenza della condotta delle imprese risultate vincitrici della gara l’odierna istante intese procedere alla revoca dell’aggiudicazione ─ non appare decisivo ai fini che qui interessano.
Non rileva, in particolare, che abbia avuto luogo l’aggiudicazione, e nemmeno che si sia provveduto alla revoca della stessa, dal momento che il giudizio non verte sull’accertamento della legittimità o illegittimità di tali atti.
E’ da ricordare, in linea generale, che ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, le norme che attribuiscono al giudice amministrativo la giurisdizione in particolari materie ― nella specie che qui interessa: l’art. 133, lett. e1), c.p.a., in tema di procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture ― si devono interpretare nel senso che non vi rientra ogni controversia che in qualche modo riguardi una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva, non essendo sufficiente il dato della mera attinenza della controversia con la materia, ma soltanto le controversie che abbiano ad oggetto, in concreto, la valutazione di legittimità di provvedimenti amministrativi che siano espressione di pubblici poteri (Cass. Sez. U. 25 febbraio 2011, n. 4614).
In fattispecie analoga a quella in esame, in cui veniva in questione la decadenza di un’aggiudicazione per mancata consegna di tutta la documentazione amministrativa necessaria ai fini della stipulazione del contratto, queste Sezioni Unite si sono pronunciate nel senso che la vicenda attinente alla scelta dell’aggiudicatario contraente nella procedura ad evidenza pubblica rimaneva sullo sfondo rispetto alla controversia risarcitoria introdotta dalla stazione appaltante, la quale aveva lamentato il comportamento precontrattuale illecito della società aggiudicataria domandando il risarcimento dei danni derivati dalla mancata stipula del contratto e dalla assegnazione del servizio, con scorrimento della graduatoria, all’impresa seconda classificata, a condizioni ritenute peggiorative per la medesima committente. In tal senso si è ritenuto che la domanda non inerisse alla fase pubblicistica della gara, ma a un ambito precontrattuale, in cui le parti di trovavano su un piano di perfetta parità (Cass. Sez. U. 4 gennaio 2023, n. 111, non massimata in CED).
Le stesse considerazioni possono svolgersi con riguardo alla presente lite, nella quale non è implicato, come si è detto, alcun giudizio circa la legittimità dell’esercizio di potestà pubblicistiche.
Infatti, una volta appurato che la proposta domanda si fonda, come si è visto, sulla prospettata responsabilità precontrattuale di Sacyr, la quale aveva taciuto il venir meno di alcune condizioni richieste per addivenire alla conclusione del contratto, deve trovare applicazione il principio per cui la domanda di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale proposta da una stazione appaltante nei confronti del soggetto affidatario di lavori o servizi pubblici appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di richiesta afferente non alla fase pubblicistica della gara ma a quella prodromíca, nella quale si lamenta la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza: in tale ipotesi, infatti, il giudice predetto è chiamato a decidere di una controversia avente ad oggetto un diritto soggettivo la cui lesione sia stata non conseguente, bensì soltanto occasionata da un procedimento amministrativo di affidamento di lavori o servizi (Cass. Sez. U. 4 luglio 2017 n. 16419; in tema cfr. pure Cass. Sez. U. 17 giugno 2021, n. 17329).
Né assume rilievo, ai presenti fini, la modifica dell’art. 124 c.p.a.. Quale che sia la portata di tale norma, invocata da Iren Acqua, è certo che, ratione temporis, essa non possa regolare la giurisdizione della presente causa. Infatti, l’art. 209 d.lgs. n. 36/2003, con cui è stato modificato il cit. art. 124, ha acquistato efficacia il 1 luglio 2023: dopo, quindi, l’introduzione del giudizio avanti al TAR.
3. ─ Le spese del regolamento sono rimesse al merito.
P.Q.M.
La Corte
dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; rimette al giudizio di merito le spese del regolamento di giurisdizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 29 febbraio 2024, n. 5441, in tema di appalti pubblici
In tema di danno non patrimoniale – SS.UU, 01 febbraio 2017, n. 2611
Repubblica Italiana
In nome del Popolo Italiano
La Suprema Corte di Cassazione
Sezioni Unite Civili
r.g.n. 2954/15
Cron.2611
Rep.
P.U. 27/9/2016
– Giurisdizione-
-risarcimento danni da
autorizzazione amministrativa
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Renato RORDORF – Primo Presidente f.f.
Dott. Salvatore DI PALMA – Presidente Sez.
Dott. Giovanni AMOROSO – Presidente Sez.
Dott.ssa Adelaide AIVIENDOLA – Consigliere.
Dott. Aniello NAPPI – Consigliere –
Dott.ssa Maria Cristina GIANCOLA – Consigliere
Dott. Bruno BIANCHINI – Consigliere rel
Dott. Biagio VIRGILIO – Consigliere
Dott. Domenico CHINDEMI – Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso (iscritto al n.r.g. 2954/15) proposto da:
– Comune di OLBIA ( c.f.: 91008330903)
In persona del Sindaco pro tempore Giovanni Maria Enrico Giovannelli , a ciò autorizzato da delibera di Giunta n. 392 del 28 novembre 2014; rappresentato e difeso, anche in via disgiunta tra loro, dagli avv.ti Emanuela Traina ed Andrea Manzi; con domicilio eletto presso lo studio del secondo, sito in Roma, via Federico Confalonieri n.5, giusta procura a margine del ricorso
– ricorrente —
Contro
– Raffaella CALAMUSA ( c.f.: CLM RFL 711345 G203B);
– Andrea FRESI ( c.f.: FRS NDR 63L12 L093F);
in proprio e quali genitori esercenti la potestà su Mario FRESI ( c.f. FRSMRA 98P11 L093T)
parti tutte rappresentate e difese dall’avv. Valeria Virdis giusta procura a margine del controricorso; con domicilio fissato ex lege presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione
– contro ricorrenti-
Nonché nei confronti di:
– Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo
-parte intimata —
avente ad oggetto
ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, n. 336/2014, pubblicata il 22 luglio 2014
– Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27 settembre 2016 dal Consigliere Relatore Dott. Bruno Bianchini;
– uditi l’avv Luigi Manzi — munito di delega dell’avv. Traina – per il ricorrente e l’avv. Virdis per il controricorrente;
– udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore GeneraleDott. Riccardo Fuzio , che ha chiesto rigettarsi il ricorso.
Svolgimento del processo
1 — Andrea Fresi e Raffaella Calamusa, agendo anche nella qualità di genitori esercenti la potestà sull’allora minore Mario Fresi, citarono il Comune di Olbia ed il Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti per aver consentito che, durante i festeggiamenti per il santo patrono, fosse stato permesso al Comitato di posizionare un palco a meno di un metro dalla propria abitazione, ostacolandone l’accesso e determinando immissioni sonore a turbativa della vita domestica e , finiti i festeggiamenti , per aver omesso di farlo smontare, rendendolo base per giochi e schiamazzi della gioventù locale. Il Comune contestò il fondamento della domanda, in particolare osservando di non avere alcun obbligo di vigilanza, rimanendo il proprio intervento istituzionale limitato al rilascio della concessione amministrativa per l’installazione della pedana sul suolo pubblico.
Il Tribunale di Tempio Pausania rigettò le domande; la Corte di Appello di Cagliari — Sezione distaccata di Sassari- invece le accolse, ritenendo sussistenti lesioni ai diritti fondamentali degli originari attori.
Per la cassazione di tale decisione l’ente territoriale ha proposto ricorso, sulla base di tre motivi, il secondo dei quali involgente la carenza di giurisdizione del giudice ordinario; Comune ha risposto con controricorso; il Comitato non ha svolto difese; parte ricorrente ha anche depositato memoria ex art 378 cpc.
MOTIVI DELLA DECISIONE
§1 — Per priorità logica va esaminato il secondo motivo con il quale il Comune eccepisce la carenza di giurisdizione dell’ AGO in ragione del fatto che i danni lamentati sarebbero stati in stretta correlazione con il presunto cattivo esercizio dell’attività provvedimentale.
§ 1.a — Il motivo è inammissibile perché la giurisdizione ordinaria non è mai stata contestata nei precedenti gradi di giudizio, di tal che le domande e le difese delle parti l’hanno sempre presupposta; ne deriva che il punto non è più suscettibile di ulteriore verifica; contro tale constatazione non vale richiamare — come operato dal ricorrente a fol 5 della memoria ex art 378 cpc- la specificazione interpretativa contenuta nella sentenza di queste Sezioni Unite n. 20698/2013, a mente della quale non sussisterebbe giudicato implicito sulla giurisdizione allorché l’interesse a sollevare la relativa eccezione sorga sulla base del percorso decisionale in concreto adottato dal giudice in grado di appello: va infatti messo in evidenza che nel caso di specie sin dal primo grado di giudizio la res controversa era costituita dalla lesione della sfera patrimoniale e personale delle allora parti attrici causata da un’attività del privato — il Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo- assentita dal Comune e da questi non adeguatamente vigilata nel suo svolgimento: a fronte di ciò l’ente territoriale aveva impostato sin da allora la propria linea difensiva sulla non diretta incidenza dell’attività amministrativa nell’ambito del privato ( vedi quanto riportato in merito a fol 3 del ricorso) .
§ 2 — Con il primo motivo viene denunciata la violazione degli artt 1227 e 2043 cod. civ. innanzi tutto perché la tutela risarcitoria presupporrebbe un’attività illegittima della PA , in concreto non riscontrabile : all’uopo sottolinea il Comune ricorrente che le controparti non hanno mai chiesto l’accertamento della illegittimità provvedimentale di esso ricorrente , presupposto per attivare la propria responsabilità; in secondo luogo assume che non sarebbero risarcibili i danni derivanti dall’attività del Comitato in quanto evitabili “per la mancata diligente utilizzazione degli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento (è richiamata Cons. Stato Sez. IV, n. 1750/2012); sotto diversa ottica poi parte ricorrente lamenta che la Corte di Appello sia pervenuta alla identificazione di una propria responsabilità aquiliana senza un’appropriata indagine sull’effettiva presenza di tutti gli elementi contemplati nell’art 2043 cod. civ. : quanto all’ingiustizia del danno, atteso che non avrebbe valutato la mancata impugnativa del provvedimento autorizzatorio; quanto al nesso di causalità tra potere esercitato e l’evento di danno ( concretatasi nell’ostacolo all’ingresso alla propria abitazione) , dal momento che non avrebbe posto a mente che, una volta emesso il provvedimento che autorizzava il posizionamento del palco, ogni diversa conseguenza pregiudizievole per i terzi sarebbe derivata dalle modalità esecutive di esclusiva spettanza del Comitato, che dunque non potevano essere fatte risalire a propria responsabilità; quanto infine all’elemento soggettivo del dolo o della colpa ne assume l’assenza , ribadendo la legittimità del proprio operato.
§ 2.c — Il mezzo è destituito di fondamento.
§ 2.c.1- Va innanzi tutto messo in evidenza che il petitum sostanziale ( causa petendi in relazione alla concreta fattispecie) posto a base della originaria domanda conteneva non già una censura all’esercizio del potere amministrativo manifestatosi con il provvedimento di concessione di suolo pubblico, ma si concretizzava in una denuncia del mancato esercizio dei poteri di vigilanza successiva su come sarebbe stato utilizzato il palco — sia nei giorni stabiliti per il festeggiamento del Santo Patrono, sia nell’estate successiva da parte della cittadinanza-; si aggiunga che l’art 7, comma 4, del decreto legislativo n. 104/2010 non è richiamabile a disciplina della fattispecie , ratione temporis ( la domanda è stata introdotta con citazione notificata nel dicembre 2003) e comunque non sarebbe applicabile perché il comma quarto fa rientrare nella giurisdizione generale amministrativa le controversie anche risarcitorie, per lesione di interessi legittimi- posizione giuridica che non viene mai rivendicata dai ricorrenti che si sono sempre doluti della violazione di propri diritti assoluti — e il comma quinto attrae nella ridetta giurisdizione generale amministrativa
anche le controversie risarcitorie per lesione di diritti soggettivi, ma a condizione che si verta in materia di giurisdizione esclusiva — positivamente da escludersi, nella fattispecie –
§ 2.c.2 – Appare allora evidente che l’affermazione della sussistenza di un diritto soggettivo che si assume leso dalla condotta — e non dal provvedimento — del Comune, toglie di sostanza alle censure attinenti al mancato sindacato dell’atto amministrativo innanzi al giudice amministrativo, come condizione per l’azione risarcitoria nei confronti del Comune.
§ 2.c.3 – Dal momento poi che i controricorrenti avevano lamentato una lesione di propri diritti soggettivi assoluti, da far risalire — come detto – non già all’autorizzazione concessa dal Comune, quanto piuttosto all’ inerzia che l’ente locale avrebbe serbato, pur a fronte delle loro reiterate proteste, a causa del perdurare della situazione dannosa e che la Corte del merito ha poi specificato ( vedi fol sesto della decisione) che entrambe le parti convenute erano chiamate a risarcire i danni in quanto il Comitato aveva posto in essere le condizioni materiali della situazione dannosa e l’ente territoriale aveva omesso di intervenire per porvi rimedio – in tal modo localizzando (con statuizione non specificamente impugnata) l’insorgenza della condotta censurata in epoca successiva all’emissione del provvedimento-, da ciò deriva la sussistenza dell’elemento colposo che consente di addebitare al Comune le conseguenze della propria inerzia che concretizzava un agire non jure e contro jus per la situazione che si era venuta a creare — ostacolato ingresso all’abitazione dei controricorrenti per tutto il periodo estivo ( dacchè il palco non era smontato tra uno spettacolo e l’altro) ; la sussistenza poi di emissioni sonore e luminose ( per il solo periodo dei festeggiamenti) — che ben avrebbe potuto esser evitata con l’ordine di riposizionare il palco dall’altro lato della piazza (come risulta essere avvenuto due anni dopo) messa in relazione all’inerzia serbata dall’Ente territoriale nel frangente, costituiva indice certo ed ulteriore della sua colpa.
§ 3 — Con il terzo motivo — formulato in via subordinata al rigetto del precedenti – viene denunciata la violazione dell’ad 2059 cod civ. nonché la violazione degli artt 3, 32 e 41 della Costituzione, laddove la Corte distrettuale ebbe a riconoscere la sussistenza di danni non patrimoniali , pur in assenza dei loro presupposti — indicati: o nell’esistenza di una condotta astrattamente qualificabile come reato; o nella grave lesione di interessi costituzionalmente garantiti-.
§ 3.1 — Assume il ricorrente che, quanto all’ostacolo all’accesso ed al libero godimento del proprio domicilio, il rilievo costituzionale di tale attività sarebbe stato rinvenuto in un concetto lato di estrinsecazione della “dignità umana” , indicato nel secondo comma dell’art 41 Costit. che invece riguarderebbe solo una particolare estrinsecazione della libertà, quella di iniziativa economica; censura altresì il Comune ricorrente l’accertamento della lesione del “diritto alla salute” , basato su
una non provata intollerabilità delle emissioni luminose e sonore da ricondurre ad effettive e documentate lesioni fisiche o psichiche , del tutto non provate nella fattispecie.
§ 3.2 — Il mezzo è infondato in quanto, sebbene il referente normativo della lesione al godimento della propria abitazione non possa essere rinvenuto nell’art 41 della Costituzione, sibbene nell’art 42, secondo comma, che tutela la proprietà privata e detta i limiti per la compressione del relativo diritto, la base fattuale posta a fondamento della sentenza — dalla quale è emerso che sebbene l’abitazione fosse munita anche di un accesso secondario, il secondo era di dimensioni esigue e spesso neppure sufficienti al concreto uso– non è stata specificamente contestata; per quello poi che riguarda la prova del danno alla salute, premesso che non è stato richiesto il risarcimento del danno biologico determinato dalle immissioni sonore e luminose bensì si è fatto valere il pregiudizio non patrimoniale derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita , va data continuità all’indirizzo interpretativo di recente espresso in sede di legittimità, in forza del quale il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e d el diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi ( vedi Cass. Sez. 3, n. 20927/2015); ne consegue che la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza ( sul punto vedi Cass. Sez. 3 n. 26899/2014). Nella fattispecie la dimostrazione del pregiudizio è stata ricavata dall’esame della natura e dell’entità delle immissioni sonore e luminose , con ragionamento non specificamente censurato.
§ 4. Il rigetto del ricorso determina la condanna del ricorrente al pagamento delle spese, liquidate come indicato in dispositivo; dal momento che il ricorso è stato inviato per la notifica il 16 gennaio 2015 e quindi in data successiva al 30 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della parte soccombente, di un ulteriore importo pari a quanto versato a titolo di contributo unificato, a norma dell’ari 13, comma 1 quater d.P.R. 115/2002
P.Q.M
Rigetta il ricorso ; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese che liquida in euro 3.500,00 oltre ad euro 200,00 per esborsi; ai sensi dell’ari 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dello stesso ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art 13.
Così deciso in Roma il 27 settembre 2016
Il consigliere estensore
Il Presidente
Allegati:
SS.UU, 01 febbraio 2017, n. 2611, in tema di danno non patrimoniale
In tema di trust – SS.UU,12 febbraio 2019, n. 18831
Civile Ord. Sez. U Num. 18831 Anno 2019
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 12/07/2019
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al N.R.G. 4738 del 2017 proposto da:
POLI Paola, rappresentata e difesa dagli Avvocati Francesco Gianni, Alberto Nanni, Emanuele Rimini e Antonio Auricchio, con domicilio eletto presso lo studio legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners in Roma, via delle Quattro Fontane, n. 20;
– ricorrente –
contro
POLI Elena, rappresentata e difesa dall’Avvocato Cristina Rossello, con domicilio eletto nel suo studio in Roma, piazza di Spagna, n. 31;
– controricorrente –
contro
MASSIMO Claudio, rappresentato e difeso dall’Avvocato Ettore Maria Negro;
– controricorrente –
e nei confronti di
POLI GROUP HOLDING s.r.I.;
– intimata –
per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio pendente dinanzi al Tribunale ordinario di Milano, iscritto al N.R.G. 31946 del 2016.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18 giugno 2019 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giovanni Giacalone, depositate in cancelleria il 13 maggio 2019, con cui l’Ufficio del Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
FATTI DI CAUSA
1. – Elena Poli e Paola Poli, entrambe cittadine italiane residenti in Italia, sono le uniche eredi nonché beneficiarie del 50% ciascuna del patrimonio del padre Stefano Poli, importante esponente dell’industria farmaceutica, cittadino italiano nato a Varese 1’8 luglio 1946, già residente in Svizzera e deceduto in Italia il 10 dicembre 2009.
In data 15 maggio 2007 Stefano Poli, in qualità di settlor, costituiva un trust, denominato The Pale Trust, a cui trasferiva la proprietà del Gruppo Poli; trustee di tale trust, poi sottoposto alla legge neozelandese, veniva nominata, per effetto di variazione in data 14 agosto 2007, la Intrust Trustees, una società della Nuova Zelanda, mentre beneficiari erano designati lo stesso Stefano Poli e, in caso di suo decesso, le figlie Elena e Paola Poli, in parti uguali.
Con testamento pubblico ricevuto in data 20 giugno 2007 dal notaio Fabio Bernasconi di Chiasso e integrazione olografa del 15 novembre 2009, Stefano Poli nominava eredi del suo patrimonio, sempre in parti uguali, le due figlie Elena e Paola, scegliendo che la sua successione fosse regolata (“nella misura in cui ciò sia possibile”) dal diritto svizzero e designando esecutore testamentario Claudio Massimo e, in caso di suo impedimento o di non accettazione, quale esecutore testamentario sostituto, Paolo Mondia.
Deceduto il de cuius, in data 3 giugno 2013 le beneficiarie del trust hanno sottoscritto a Lugano, insieme al trustee, il Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue (ovvero Accordo, Indennizzo, Rilascio e Impegno ad astenersi dall’iniziare azioni legali), in cui le sorelle Poli hanno, tra l’altro, riconosciuto, concordato ed accettato che la distribuzione di Paola e la distribuzione di Elena sono di pari valore e costituiscono pari beneficio per ciascuna di esse. Tale accordo è stato sottoposto, come il trust, alla legge neozelandese. In attuazione del Deed, il trustee, senza sciogliere il trust, ha disposto un’assegnazione dei beni in trust anticipata rispetto al termine di durata dello stesso, assegnando a Elena Poli 81 milioni di euro, pari alla metà del valore del Gruppo Poli, e attribuendo l’intero capitale sociale della holding lussemburghese Polilux Holding s. à r.l. (Gruppo Poli) a Paola Poli.
2. – A seguito della cessione, da parte di Paola Poli in data 30 novembre 2015, del Gruppo Poli a una società spagnola (il Gruppo Almirall) per il controvalore di 365 milioni di euro, oltre a 35 milioni di euro in forza di una clausola di earn out, Elena Poli, con atto di citazione notificato il 18 maggio 2016, ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la sorella Paola Poli, chiedendo accertarsi e dichiararsi la sussistenza del diritto di credito in capo all’attrice alla maggior somma dovuta, oltre a quella di euro 81 milioni già incamerata, impregiudicata ad ogni effetto, fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli, da ricalcolarsi per effetto dell’annullamento per dolo, ex art. 761 cod. civ., e, in subordine, della rescissione per lesione ultra quartum, ex art. 763 cod. civ., dell’atto di “apporzionamento” del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli calcolato sulla base dei multipli impliciti nelle transazioni di società similari nel periodo 2002/2012, e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli come riveniente dalla cessione al Gruppo Almirall, con l’emissione della conseguente pronuncia di condanna, in subordine anche a titolo di risarcimento del danno o di indebito arricchimento.
A sostegno delle domande, l’attrice ha dedotto, in particolare, che la quota in denaro ricevuta da Elena Poli sarebbe frutto di una “sottovalutazione ad arte del Gruppo Poli legata alla strategia di Paola Poli che … ha voluto che ci si avvalesse del criterio di stima del valore del Gruppo che il padre aveva dettato per il solo caso in cui al termine della durata del trust il Gruppo fosse ancora in attività e una sola delle figlie desiderasse proseguire nell’attività e l’altra volesse essere liquidata in denaro”. Secondo l’attrice, il principio dell’eguale beneficio doveva essere rispettato sino alla scadenza della durata del trust e se Paola Poli, senza preannunciarlo al trustee né all’altra beneficiaria, aveva deciso di vendere quanto acquisito, le posizioni delle due beneficiarie dovevano essere riportate ad equilibrio. Ad avviso di Elena Poli, la sorella Paola era legittimata passiva all’obbligo restitutorio e risarcitorio nel determinando ammontare, atteso che, indipendentemente dai passaggi societari realizzati per procedere alla vendita del Gruppo Poli, restava sottoposta al principio della equiparazione delle posizioni delle beneficiarie del trust.
2.1. – Costituendosi in giudizio, Paola Poli ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano e la sussistenza della giurisdizione esclusiva dell’arbitro unico previsto dall’art. 15 del Deed sottoscritto tra la stesse Paola Poli ed Elena Poli e dal trustee Intrust il 3 giugno 2013, arbitro da nominarsi secondo le norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera.
2.2. – E’ intervenuto in giudizio Claudio Massimo, in qualità di esecutore testamentario del de cuius Stefano Poli, sostenendo le ragioni dell’attrice.
3. – Nella pendenza del giudizio dinanzi al Tribunale ordinario di Milano, Paola Poli ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, con atto notificato il 21 febbraio 2017, chiedendo dichiararsi il difetto di giurisdizione del Tribunale di Milano e di qualsiasi altro giudice italiano, richiamando la clausola n. 15 del Deed prevedente l’arbitrato svizzero (“qualunque lite, controversia o istanza che scaturisca da o in relazione al presente Atto, comprese la validità, l’invalidità o le violazioni del presente Atto, sarà composta come tra le parti a mezzo di arbitrato ai sensi delle Norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera”: così nella traduzione giurata in atti).
4. – Ha resistito, con controricorso, Elena Poli, chiedendo il rigetto del ricorso per regolamento preventivo e la declaratoria della giurisdizione del giudice italiano.
Ad avviso della controricorrente, la materia del contendere verte – tenuto conto anche della circostanza che petitum e causa petendi sono stati emendati dall’attrice con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ., depositata il 17 febbraio 2017, quattro giorni prima della notifica del ricorso per regolamento preventivo in cassazione – non sulla caducazione del Deed, ma sull’attuazione della divisione della massa ereditaria secondo il criterio dell’eguale beneficio dettato dal de cuius Stefano Poli, cittadino italiano, deceduto a Milano il 10 dicembre 2009. Le singole attribuzioni dei cespiti ereditari non infirmerebbero la natura successoria della controversia di scioglimento della comunione tra coeredi: la clausola per arbitrato estero (con arbitro svizzero, sede a Lugano e applicazione del diritto neozelandese per successione di cittadino italiano), inerente all’attribuzione di un singolo cespite che compone l’asse ereditario, non osterebbe alla giurisdizione italiana in materia successoria, quale sancita dall’art. 50 della legge 31 maggio 1995, n. 218. Difatti il Deed avrebbe assolto la sola funzione di attribuire un cespite dell’asse da dividere, nel quadro e nel contesto del complessivo scioglimento della comunione ereditaria ancora in corso sotto le cure dell’esecutore testamentario Claudio Massimo; la lesione subita da Elena Poli attraverso il Deed ben potrebbe e dovrebbe essere conosciuta íncidenter tantum in funzione del complesso oggetto successorio e divisionale della controversia di cui il Deed costituirebbe soltanto una singola parte; e sussisterebbe controversia divisionale ereditaria anche quando, come nella specie, ferme le quote testamentarie fissate dal de cuius, si controverta sui valori dei beni rispettivamente attribuiti, qui manifestamente distanti rispetto alla volontà del testatore di ripartire il suo patrimonio tra le due figlie in eguale misura.
5. – Ha resistito, con separato controricorso, Claudio Massimo.
Preliminarmente, ha dedotto l’inammissibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione per due ordini di motivi: perché esso è stato proposto prima della scadenza del termine per il deposito della memoria ex art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., quindi antecedentemente all’accertamento istruttorio necessario ai fini della statuizione sulla giurisdizione; perché nel caso di specie tutte le parti sono italiane e quindi soggette alla giurisdizione italiana, con la conseguenza che il giudizio arbitrale, sia estero o interno, comporta necessariamente una questione di competenza, ai sensi dell’art. 819-ter cod. proc. civ.
Quanto al merito della questione di giurisdizione, il controricorrente, a sostegno delle conclusioni di sussistenza della giurisdizione italiana, rileva che la clausola compromissoria di cui all’art. 15 del Deed non sarebbe applicabile alla controversia oggetto del giudizio di merito, il quale non avrebbe ad oggetto la validità del Deed in sé considerato – unica ipotesi per la quale sarebbe stata pattuita la clausola compromissoria – bensì l’esito della divisione ereditaria operata per mezzo dello stesso e la conseguente violazione delle disposizioni testamentarie dettate dal padre defunto con la letter of wishes del 5 maggio 2007, lettera indirizzata, pochi giorni prima dell’istituzione del trust, anche al Massimo, nella duplice veste di esecutore testamentario e di protector, affinché questi vegliasse sul rispetto delle sue volontà.
6. – La società Poli Group Holding è rimasta intimata.
7. – Nelle conclusioni scritte ex art. 380-ter cod. proc. civ. depositate il 30 ottobre 2017, il pubblico ministero ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, sul rilievo che tutte le parti della causa sono residenti o hanno sede in Italia.
8. – Con ordinanza 20 novembre 2018, n. 29879, le Sezioni Unite hanno dichiarato ammissibile l’istanza di regolamento preventivo, respingendo le eccezioni preliminari sollevate dal pubblico ministero e dal controricorrente Massimo, e hanno richiesto all’Ufficio del Massimario una relazione di approfondimento sulle questioni attinenti al fondo della questione di giurisdizione.
Nel respingere le eccezioni preliminari, le Sezioni Unite hanno affermato:
– che il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto per sollevare una questione concernente il difetto di giurisdizione del giudice italiano non solo allorché convenuto nella causa di merito sia un soggetto domiciliato o residente all’estero, ma anche quando il convenuto, domiciliato e residente in Italia, abbia contestato la giurisdizione italiana in forza di deroga convenzionale a favore di un arbitrato estero;
– che il controricorrente Massimo non ha indicato in che cosa avrebbe dovuto consistere l’accertamento istruttorio, utile ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione, che sarebbe
stato vanificato dalla proposizione “anticipata” del regolamento preventivo;
– che, in presenza di clausola compromissoria di arbitrato estero, l’eccezione di compromesso dà luogo ad una questione di giurisdizione e non di competenza ai sensi dell’art. 819-ter cod. proc. civ.
9. – In prossimità della camera di consiglio, fissata per il 18 giugno 2019, il pubblico ministero ha depositato nuove conclusioni scritte, concludendo per il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
L’Ufficio del Procuratore Generale ha evidenziato che il trust in questione deve essere qualificato come donazione indiretta ex art. 809 cod. civ., rientrante nell’ambito dei negozi transmorte inter vivos, sicché la comunione insorta tra i beneficiari va configurata come ordinaria e non successoria, con conseguente impossibilità d’includere l’istituto in esame nel campo di applicazione dell’art. 50 della legge n. 218 del 1995, dettato in tema di giurisdizione con esclusivo riguardo alla “materia successoria”.
Dopo avere sottolineato che le norme di applicazione necessaria operano esclusivamente come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato dalla norma di conflitto, senza incidere sul diverso problema dell’individuazione dei criteri dai quali dipende la competenza giurisdizionale, il pubblico ministero ha affermato che le esercitate azioni di cui agli artt. 761 e 763 cod. civ. non sono poste a presidio di diritti indisponibili, sottratti in quanto tali all’ambito applicativo dell’art. 4, comma 2, della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato.
10. – In prossimità della camera di consiglio tutte le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Deve essere preliminarmente disattesa l’istanza, avanzata dalla difesa di Elena Poli, di riunione del presente giudizio per regolamento preventivo a quello, pendente tra le stesse parti, iscritto al N. R.G. 11328 del 2017 e fissato per la decisione nella stessa adunanza camerale del 18 giugno 2019. I due ricorsi si riferiscono infatti a giudizi di merito diversi, non confluiti in un unico procedimento a quo.
2. – Passando al fondo della questione di giurisdizione, si tratta di stabilire, innanzitutto, se vi siano criteri di collegamento che consentano di ricondurre alla giurisdizione dello Stato italiano la controversia riguardante l’apporzionamento tra i beneficiari del bene conferito in trust e, in particolare, se la detta controversia sia suscettibile di essere ricompresa tra quelle concernenti la divisione ereditaria, per le quali la giurisdizione del giudice italiano e’ regolata dalla L. n. 218 del 1995, articolo 50.
3. – Nello svolgere tale indagine, occorre muovere dall’esame delle domande azionate nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Milano, risultanti dal petitum e dalla causa petendi dell’atto di citazione, come emendati con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ.
Questo esame deve essere condotto alla luce dell’orientamento invalso nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice anche nelle questioni di diritto internazionale privato – per il quale la giurisdizione del giudice italiano e quella del giudice straniero vanno determinate non gia’ in base al criterio della prospettazione della domanda (ossia in base alla qualificazione soggettiva che l’istante dà all’interesse di cui chiede domanda la tutela), ma in base al diverso criterio secondo cui, ai fini del relativo riparto, non è sufficiente e decisivo avere riguardo alle deduzioni ed alle richieste formalmente avanzate dalle parti, ma occorre tener conto della vera natura della controversia, da stabilire con riferimento alle concrete posizioni soggettive delle parti in relazione alla disciplina legale della materia (Cass., Sez. U., 24 luglio 2007, n. 16296; Cass., Sez. U., 26 maggio 2015, n. 10800).
4. – Oggetto della controversia promossa e’ la pretesa creditoria di Elena Poli alla maggiore somma (oltre a quella di Euro 81 milioni, gia’ incamerata), fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli, da ricalcolarsi per effetto dell’annullamento per dolo o della rescissione per lesione ultra quartum dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013, ovvero, in via subordinata, per effetto della condotta dannosa e ingannevole posta in essere dalla sorella o dell’indebito arricchimento di costei.
L’attrice ha infatti domandato la condanna di Paola Poli al pagamento in proprio favore “della maggior somma dovuta, oltre a quella di Euro 81.000.000 gia’ incamerata, impregiudicata ad ogni effetto, fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli… e/o fino a concorrenza del 50% del valore del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013], calcolato sulla base dei multipli impliciti nelle transazioni di societa’ similari nel periodo 2002/2012, e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli come riveniente dalla cessione al Gruppo Almirall””.
Questa domanda di condanna al pagamento della maggior somma e’ stata avanzata, in via principale, “per effetto dell’annullamento ex art. 761 cod. civ. dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013]” e, in via subordinata, “per effetto della rescissione ex art. 763 cod. civ. dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013]”.
In ulteriore subordine, l’attrice ha chiesto la condanna della convenuta, “previo accertamento dell’elemento soggettivo incidente”, al risarcimento in proprio favore dei danni come provati in corso di giudizio o, in subordine, come ritenuti in via equitativa e, comunque, in misura mai inferiore a Euro 120.000.000″, ovvero, in via ulteriormente subordinata, “in forza dell’articolo 2043 e/o dell’articolo 1375 e/o dell’articolo 1440 c.c.”. Ha poi domandato la condanna al risarcimento del danno patrimoniale da perdita di chance e, in estremo subordine, la condanna “al pagamento a titolo di indennizzo ex art. 2041 cod. civ… della maggior somma, rispetto a quanto gia’ incamerato, che resta impregiudicato ad ogni effetto, fino a concorrenza del 50% del Gruppo Poli”.
In sostanza, l’attrice ha lamentato: (a) di avere prestato in buona fede il consenso a ricevere la somma di euro 81 milioni determinata con l’applicazione del criterio indicato dal padre per il caso in cui almeno una figlia intendesse proseguire la gestione del Gruppo Poli, atteso che tanto la sorella Paola Poli aveva dichiarato di volere fare (“celando … di avere in corso già delle trattative con diversi potenziali acquirenti”); (b) che il criterio valutativo immaginato dal de cuius, basato su un metodo patrimoniale misto che considerasse un modesto avviamento, aveva lo scopo di preservare risorse per il processo di sviluppo del Gruppo nell’ipotesi che una delle figlie mantenesse il controllo, laddove con la cessione in data 30 novembre 2015 ad Almirall – per un importo pari a 400 milioni di euro, tra cash ed earn out – Paola Poli “ha abbandonato il ruolo imprenditoriale che fu del padre e che aveva dichiarato in allora di voler conservare”; (c) che alla data del 3 giugno 2013 Elena Poli “ha manifestato un consenso all’apporzionamento de quo viziato in quanto determinato” da “artifizi” e da “raggiri”, “senza i quali non lo avrebbe mai espresso”; (d) che “l’apporzionamento del 3 giugno 2013 non corrisponde per ben più di un quarto al valore effettivo del 50% della quota” spettante ad Elena Poli, “essendo addirittura pari al solo 19%”. Ed in via subordinata l’attrice ha dedotto: (e) di avere in ogni caso “il diritto di ottenere, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1440 cod. civ., dalla sorella Paola Poli il risarcimento del danno subito, il cui ammontare dovrà … ricomprendere anche il mutamento delle condizioni contrattuali, tenuto conto del possibile contenuto dell’accordo che sarebbe stato concluso in difetto del comportamento dannoso serbato dalla convenuta”; (f) che Paola Poli ha conseguito, con l’apporzionamento del 3 giugno 2013, in difetto di una giusta causa, un vantaggio di natura patrimoniale in danno della sorella, che, a seguito del medesimo atto, ha subito un correlativo ingiustificato depauperamento.
5. – Ad avviso del Collegio, la controversia così introdotta non rientra nella materia successoria.
5.1. – Occorre premettere che anche la divisione ereditaria afferisce alla materia successoria, come è dimostrato, per un verso, dalla collocazione delle norme del codice civile rivolte a disciplinare la divisione (art. 713 e ss.) nel titolo IV del Libro II “Delle successioni”, e, per l’altro verso, dalle norme di conflitto e di giurisdizione dettate, nel sistema italiano di diritto internazionale privato, dalla legge n. 218 del 1995, la quale, all’art. 46, comma 3, inserito nel capo VII “Successioni”, detta una disposizione apposita rivolta a ricomprendervi tutte le ipotesi di divisione ereditaria, e dunque anche quella amichevole o contrattuale.
Ciò posto, deve tuttavia escludersi che il consenso espresso dalle beneficiarie all’apporzionamento tra le stesse, ad opera del trustee, dei beni conferiti in vita dal disponente Stefano Poli nel Pale Trust (il Gruppo Poli), integri un atto avente ad oggetto un bene caduto in successione ereditaria.
Invero, sotto quest’ultimo profilo, va rilevato – in conformità delle conclusioni alle quali è pervenuto il pubblico ministero con la requisitoria depositata il 13 maggio 2019 – che con il Pale Trust non si è realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente Stefano Poli.
Il Pale Trust è stato infatti costituito con atto inter vivos e, durante la vita del settlor, si è avuto il passaggio della proprietà del Gruppo Poli nella sfera giuridica del trustee, investito del compito fiduciario di gestire le partecipazioni societarie nell’interesse dei beneficiari e di devolvere ad essi detto patrimonio al termine del trust.
Tali beni non sono caduti in successione perche’ essi si trovavano, al tempo dell’apertura della stessa, già fuori del patrimonio del disponente, avendone costui trasferito la proprieta’ in via definitiva e per atto inter vivos al trustee; i beneficiari finali – le figlie Elena e Paola – hanno acquistato i beni direttamente dal trustee e non già per successione mortis causa dal de cuius.
In altri termini, nel caso di trust liberale tra vivi (qual è il Pale Trust) che produce effetti, sul piano beneficiario, dopo la morte del disponente, quel che il disponente ha pienamente trasferito in vita non concorre a formare l’asse ereditario.
Il Collegio condivide l’opinione, espressa dalla prevalente dottrina, che qualifica una vicenda attributiva come quella di specie (nella quale il settlor, istituendo con atto inter vivos il trust e conferendovi la proprietà del Gruppo Poli, ha utilizzato lo strumento per finalità che attengono alla trasmissione alle figlie, con effetti post mortem, del proprio patrimonio avente ad oggetto le partecipazioni societarie), in termini di donazione indiretta, riconducibile nell’ambito della categoria delle liberalita’ non donative, di cui all’articolo 809 cod. civ. Infatti, l’arricchimento dei beneficiari e’ stato realizzato dal disponente mediante un meccanismo indiretto, prevedente la creazione di un ufficio di diritto privato (quello del trustee), il titolare del quale – titolare, altresi’, del patrimonio separato costituente la dotazione del trust – è stato investito del compito di far pervenire ai beneficiari i vantaggi patrimoniali previsti dall’atto istitutivo.
Va quindi esclusa la natura mortis causa del trasferimento dal trustee ai beneficiari finali, che costituisce il secondo segmento dell’operazione, perchè – come e’ stato rilevato – tale atto traslativo ha investito ormai sfere giuridiche diverse da quelle dell’originario disponente: rispetto a tale trasferimento, la morte del settlor non ha alcuna rilevanza causale, potendo al piu’ individuare il momento di esecuzione dell’attribuzione finale.
5.1.2. – Questo approdo interpretativo è confermato dal regolamento UE n. 650/2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 luglio 2012 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato Europeo, non applicabile ratione temporis (il regolamento si applica, ex art. 83, alle successioni delle persone decedute alla data o dopo il 17 agosto 2015, mentre il Dott. Stefano Poli è deceduto anteriormente, il 10 dicembre 2009), e tuttavia significativo per ricostruire le linee di tendenza del quadro normativo di riferimento. Infatti, l’ambito d’applicazione del regolamento si estende a tutti gli aspetti di diritto civile della successione a causa di morte, ma ne sono esclusi non solo le questioni inerenti alla costituzione, al funzionamento e allo scioglimento di trust (e con la precisazione che in caso di costituzione di trust testamentari o legali in connessione con una successione legittima si applica la legge applicabile alla successione per quanto riguarda la devoluzione dei beni e la determinazione dei beneficiari), bensi’ anche i diritti e i beni trasferiti con strumenti diversi dalla successione, quali le donazioni, fatto salvo quanto previsto in tema di collazione e di riduzione ai fini del calcolo delle quote dei beneficiari secondo la legge applicabile alla successione (v. considerando 9, 13 e 14, nonche’ articolo 1, paragrafi 1 e 2, lettere g e j, e articolo 23, paragrafo 2, lettera i).
5.2. – La difesa della controricorrente Elena Poli, a sostegno della diversa tesi della natura ereditaria della controversia, sottolinea alcune circostanze di fatto che, a suo avviso, dimostrerebbero l’unitarietà e la continuità dell’intento del defunto nel ricondurre il tutto – testamento e trust – a una sola, perfetta e solenne unità volitiva. In particolare, viene richiamata la lettera olografa del 5 maggio 2007, scritta di pugno dal de cuius e indirizzata al suo commercialista, Dott. Claudio Massimo, fiduciario, esecutore testamentario e protector del Pale Trust. In tale documento, (Stefano Poli espresse al Massimo, “in aggiunta e complemento a quanto stabilito nel testamento”, e “in considerazione del fatto” che sarebbe stato lui il suo “esecutore testamentario”, il desiderio che il patrimonio venisse pariteticamente ripartito tra le figlie anche in relazione al costituendo trust successorio (“i beneficiari dovranno essere, dopo la mia morte, le mie figlie Elena e Paola Poli”; “il protector del Trust dovrai essere Tu”).
5.2.1. – Il Collegio ritiene che tale deduzione difensiva non sia idonea a dimostrare che con il Pale Trust si sia realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente.
Com’e’ noto, infatti, l’atto mortis causa è diretto a regolare i rapporti patrimoniali e non patrimoniali del soggetto per il tempo e in dipendenza della sua morte: nessun effetto, nemmeno prodromico o preliminare, esso è perciò destinato a produrre, e produce, prima di tale evento. L’evento della morte riveste un ruolo diverso nell’atto post mortem, perchè qui l’attribuzione è attuale nella sua consistenza patrimoniale e non è limitata ai beni rimasti nel patrimonio del disponente al momento della morte.
Seguendo tale insegnamento, va ribadito che, nella specie, con l’istituzione del Pale Trust – nel quale il settlor ha conferito le proprietà azionarie del Gruppo chimico-farmaceutico, indicando se stesso quale beneficiario in vita e, dopo la sua morte, le due figlie quali beneficiarie paritetiche – si è determinato un immediato passaggio nella sfera giuridica del trustee, realizzandosi così il dato dell’attualità dello spoglio da parte del disponente; e la di lui morte non ha costituito il punto di origine della situazione regolata né è penetrata nella giustificazione causale dell’attribuzione, ma ha rappresentato soltanto termine o condizione, e dunque modalità della stessa.
5.3. – Né la controversia può dirsi successoria in applicazione dei precedenti di questa Corte nei casi Agnelli e Corsini.
Nel primo caso (Cass., Sez. U., 27 ottobre 2008, n. 25875), infatti, si trattava di una controversia avente ad oggetto, quale domanda principale, la petizione di eredità e il conseguente scioglimento della comunione ereditaria, e proprio in ragione di tali domande svolte in via principale la giurisdizione italiana è stata riconosciuta, in applicazione dell’art. 50 della legge n. 218 del 1995, essendosi aperta in Italia la successione; e la giurisdizione italiana è stata ritenuta sussistente anche in relazione all’azione di rendiconto svolta nei confronti di più professionisti, in considerazione del carattere pregiudiziale rispetto a quella principale di petizione di eredità esercitata nei confronti del coerede, attesa la funzione unitariamente ricostruttiva di un altrettanto unitario asse ereditario cui l’azione esperita mirava in concreto.
Analogamente, nel secondo caso, questa Corte (Cass., Sez. U., 15 marzo 2012, n. 4132) ha affermato che qualora la figlia proponga un’unica azione per l’accertamento della propria qualità di erede e di divisione dell’asse ereditario contro la moglie del padre, cittadino italiano defunto nel Principato di Monaco, nonché contro i trustee dei trust di Jersey, istituiti dal de cuius, per la resa del conto e il risarcimento del danno, sussiste la giurisdizione del giudice italiano ex art. 50 della legge n. 218 del 1995, essendo il de cuius cittadino italiano al momento della morte, tanto sulla domanda principale di petitio hereditatis quanto sulla causa di rendiconto, che può essere riconosciuta incidenter tantum.
Nell’una e nell’altra vicenda, pertanto, le domande svolte in via principale miravano ad accertare e dichiarare la qualità di erede dell’attrice e a ottenere la divisione dell’asse ereditario, sicché la verifica della giurisdizione italiana è stata compiuta tenendo conto delle questioni dedotte con tali domande che vertevano in materia successoria.
Nell’odierna causa promossa dinanzi al Tribunale di Milano (R.G. n. 31946 del 2016) non è stata invece proposta nessuna domanda di petizione di eredità né di scioglimento della comunione ereditaria: l’oggetto della domanda – quale risulta in particolare dalle precisazioni e dalle modificazioni contenute nella memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ. – riguarda la pretesa creditoria nei rapporti interni tra le beneficiarie dell’apporzionamento nascente dalla dedotta sproporzione delle due attribuzioni (l’assegnazione di 81 milioni di euro a Elena Poli e l’attribuzione dell’intero capitale sociale della holding lussemburghese Polilux Holdings s.à.r.l. a Paola Poli), secondo l’attrice determinato dal dolo e comunque dal comportamento illegittimo della sorella nella stipulazione tra di esse dell’atto “divisionale”, asseritamente in contrasto con la volontà paterna, il quale, con la lettera di istruzioni al protector del 5 maggio 2007, aveva richiamato l’esigenza di un’effettiva parità tra le due figlie nella ripartizione del proprio patrimonio. La domanda – nel contestare la vincolatività dell’atto di scioglimento della comunione, evidentemente ordinaria e non ereditaria, realizzatosi attraverso il Deed tra le sorelle beneficiarie del Pale Trust, e nel tendere alla ricostruzione, determinazione e revisione del valore complessivo dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 – si riallaccia, secondo la prospettazione dell’attrice, al criterio dell’egual beneficio espressamente voluto dal padre, avendo costui previsto una deroga di favore (nella valutazione del valore del patrimonio del trust per quanto riguarda le società, con l’applicazione di un metodo patrimoniale misto che considerasse un moderato avviamento) alla continuatrice di stirpe aziendale, deroga che – si sostiene – nella specie non sarebbe applicabile, stante l’asserito comportamento doloso di Paola, che non avrebbe rilevato alla sorella le proprie reali intenzioni di non volere neanch’essa proseguire le attività paterne.
6. – Poiché, dunque, la presente controversia concerne gli esiti di una attribuzione inter vivos e non mortis causa discendente dall’apporzionamento di beni conferiti in trust e non fanno parte dell’oggetto della causa i meccanismi di riequilibrio – tipici della materia successoria – della collazione e della riduzione delle liberalità indirette, il titolo di giurisdizione, nel rapporto tra la giurisdizione italiana e quella degli altri Stati, va ricercato, non secondo i criteri speciali dettati dall’art. 50 della legge n. 218 del 1995, ma in base al criterio generale di cui all’art. 3 della stessa legge.
In applicazione di quest’ultima disposizione, la causa rientra nell’ambito della giurisdizione italiana, essendo la convenuta Paola Poli domiciliata e residente in Italia.
La causa rientra nell’ambito della giurisdizione italiana anche in applicazione della disposizione generale sulla competenza dettata dall’art. 4 del regolamento UE n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale («A norma del presente regolamento, le persone domiciliate nel territorio di un determinato Stato membro sono convenute, a prescindere dalla loro cittadinanza, davanti alle autorità giurisdizionali di tale Stato membro»).
7. – Si tratta a questo punto di stabilire se il titolo di giurisdizione italiana sia o meno neutralizzato dalla convenzione derogatoria a favore dell’arbitrato svizzero contenuta nell’art. 15 del Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue.
8. – A tale quesito deve darsi risposta positiva.
8.1. – Con la clausola compromissoria contenuta nell’art. 15 del Deed le parti hanno stabilito di risolvere “qualunque lite, controversia o istanza che scaturisca da o in relazione al presente Atto, comprese la validità, l’invalidità o la violazione delle condizioni del presente Atto” a mezzo di “arbitrato ai sensi delle Norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera (le ‘Norme’) vigenti alla data in cui l’Avviso di arbitrato viene presentato ai sensi delle Norme” (prevedendosi che “Il numero di arbitri sarà uno, la sede dell’arbitrato sarà Lugano e il procedimento arbitrale sarà condotto in inglese”; con tale clausola le parti hanno anche rinunciato “a qualunque obiezione in merito alla sede di tale procedura arbitrale e a ogni contestazione in ordine alla competenza del foro adito”). (nell’originale: “The parties to this Deed: Agree that any dispute, controversy or claim arising out of or in relabon to this Deed, including the validity, invalidity or breach of the terms of this Deed, shall be resolved as between the parties by arbitration in accordance with the Swiss Rules of International Arbitration of the Swiss Chambers of Commerce (the ‘Rules’) in force on the date when the Notice of Arbitration is submitted in accordance with the Ru/es. The number of arbitrators shall be one, the seat of arbitration shall be Lugano and the arbitrai proceedings shall be concluded in English. Hereby waive any objection to the laying of venue of any such arbitration proceedings and any claim that such proceedings have been brought in an inconvenient forum“).
Con il Deed – che ha visto come parti la Intrust Trustees, da un lato, ed Elena Poli e Paola Poli, dall’altro, queste ultime in veste di promittenti – le promittenti hanno premesso di avere richiesto ad Intrust di esercitare i suoi poteri ai sensi del Pale Trust, inclusi il potere di distribuzione e il potere di anticipazione.
Le promittenti hanno inoltre riconosciuto, concordato ed accettato (secondo quanto prevede l’art. 3): di avere piena conoscenza di tutti i fatti materiali relativi alle azioni indennizzate; di stipulare l’atto senza fare affidamento su garanzie, dichiarazioni o altro, sia in relazione alla natura che al merito delle azioni indennizzate che altrimenti; che la valutazione inclusa nella relazione di valutazione del Gruppo Poli è una stima accurata del valore del Gruppo Poli alla data dell’atto, fermo restando che tale valutazione è basata su informazioni contabili del Gruppo Poli del 2011; che la distribuzione di Paola e la distribuzione di Elena sono di pari valore e costituiscono pari beneficio per ciascuna di esse, in generale e ai fini del Pale Trust; che esse sono a conoscenza del fatto che Intrust non può al momento essere certa che non ci sia alcuna probabilità che le autorità tributarie procedano ad investigazioni in relazione al Pale Trust; che Intrust ha determinato di trattenere la riserva fiscale sino alla data di cessazione della riserva fiscale; che Intrust ha determinato di esercitare i propri poteri sul Trust Margot e sul Trust Mirtilla in modo da far sì che, fino alla data specificata, il fondo di ciascun trust sia trattenuto nel trust al fine, tra gli altri, di proteggere gli interessi dei beneficiari successivi e di far sì che la responsabilità del trustee del Pale Trust siano adempiute dal fondo dei Trust Margot e Mirtilla.
8.2. – Le domande articolate dall’attrice, tanto in via principale quanto in via subordinata, investono tutte direttamente il Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue del 3 giugno 2013, ossia l’accordo di attribuzione con cui, insieme al trustee, Elena e Paola Poli, quali uniche beneficiarie del Pale Trust, hanno pattuito il riparto, nella misura del 50% ciascuna, dello specifico bene rappresentato dal compendio societario costituito in trust, attraverso la liquidazione anticipata dei diritti economici ad Elena Poli, con l’assegnazione di 81 milioni di euro, e l’attribuzione della proprietà del Gruppo a Paola Poli.
Non è questa la sede per stabilire se il Deed sia un atto divisionale o un atto che abbia semplicemente permesso di definire e di perfezionare la liberalità indiretta a favore di ciascuna delle due beneficiarie, l’una e l’altra liberalità poi suscettibili di essere considerate, per effetto della collazione, nella successiva fase della divisione ereditaria.
La scelta processuale dell’attrice è stata nel primo senso: proponendo la “domanda ai sensi dell’art. 761 cod. civ.” e la “domanda ai sensi dell’art. 763 cod. civ.” (così, espressamente, a pag. 16 e a pag. 26 della memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1, cod. proc. civ.), ella ha contestato la vincolatività dell’esito dell’accordo divisorio tra le sorelle”. In tal modo Elena Poli ha configurato il Deed come un atto avente ad oggetto la divisione del patrimonio costituito nel Pale Trust e, su questa base, ha dedotto, a sostegno della richiesta di annullamento per dolo, che “non avrebbe prestato il proprio consenso all’apporzionamento de quo, qualora già allora la sorella Paola Poli avesse disvelato le sue reali intenzioni circa il futuro del Gruppo Poli” (pag. 17 della citata memoria), e, a supporto della domanda di rescissione per lesione, che “lo squilibrio della ripartizione” ha comportato “un oggettivo difetto funzionale della divisione” (pag. 27 del medesimo atto).
Quantunque la controricorrente Elena Poli abbia esplicitato di non avere inteso mettere in discussione la validità del Deed, in realtà, avuto riguardo al petitum sostanziale, l’annullamento o la rescissione dell’apporzionamento ovvero, ancora e in via subordinata, l’accertamento che senza i dedotti raggiri usati dalla sorella l’accordo sarebbe stato concluso da Elena Poli a condizioni diverse e per lei più vantaggiose o che l’apporzionamento stesso sarebbe privo di causa e avrebbe determinato un ingiustificato depauperamento per una delle stipulanti, costituiscono la fonte della pretesa creditoria avanzata in giudizio da Elena Poli.
8.3. – Non è condivisibile la tesi della controricorrente secondo cui l’invalidità e la rescindibilità del Deed potrebbero essere rilevate e conosciute incidenter tantum.
E’ sufficiente osservare che sono oggetto di cognizione incidenter tantum, ai sensi dell’art. 34 cod. proc. civ., solo le questioni pregiudiziali in senso tecnico. Queste ricorrono allorché le parti controvertano su di un antecedente giuridico non necessitato in senso logico dalla decisione e potenzialmente idoneo a riprodursi tra le stesse parti in relazione ad ulteriori e distinte controversie, di guisa che la statuizione su di esso, per la pluralità di effetti derivabili, possa lasciarne impregiudicata la riemersione in altra sede processuale (Cass., Sez. II, 26 marzo 2015, n. 6172).
Nella specie, l’invalidità per dolo e la rescindibilità per lesione del Deed, in quanto contenente una valutazione del Gruppo Poli asseritamente inadeguata e la cui applicazione sarebbe frutto del dolo o del comportamento illegittimo di Paola Poli, rientrano nell’oggetto della domanda e del processo e sono al di fuori del perimetro della pregiudizialità: esse costituiscono la fonte della pretesa creditoria vantata da Elena Poli e la causa petendi della domanda avente come petitum l’accertamento del credito e la condanna della sorella a soddisfarlo. Non esistono, in altri termini, due temi controversi, uno dei quali – l’asserito credito – possa essere oggetto di decisione, e l’altro – l’invalidità per dolo o la rescindibilità per lesione del Deed – oggetto di cognizione incidenter tantum.
8.4. – Né, d’altra parte, può dubitarsi della validità della detta clausola compromissoria, trattandosi di accordo di deroga della giurisdizione italiana che verte su diritti disponibili, ai sensi dell’art. 4, comma 2, della legge n. 218 del 1995: esso, infatti, è contenuto in un atto, il Deed, che concerne una situazione avente natura patrimoniale.
Ritiene questa Corte che la previsione del citato art. 4, comma 2, della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato debba essere ricollegata, in via sistematica: (a) all’art. 1966, secondo comma, cod. civ., con cui si sancisce esplicitamente come non possano formare oggetto di transazione i diritti che, «per loro natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti»; (b) all’art. 806 cod. proc. civ., che, salvo espresso divieto di legge, consente alle parti di «far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili»; (c) all’art. H della Convenzione per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, adottata a New York il 10 giugno 1958 (l’adesione alla quale è stata autorizzata con la legge 19 gennaio 1968, n. 62), disposizione che fa riferimento ad una questione suscettiva di essere regolata in via arbitrale («une question susceptible d’étre réglée par voie d’arbitrage») (cfr. Cass., Sez. U., 4 maggio 2006, n. 10219).
Questa Corte ha in proposito chiarito che l’area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determini una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte (Cass., Sez. I, 12 settembre 2011, n. 18600); e ha precisato che l’indisponibilità del diritto costituisce il limite al ricorso alla clausola compromissoria e non va confusa con l’inderogabilità della normativa applicabile al rapporto giuridico, la quale non impedisce la compromissione in arbitrato, con cui si potrà accertare la violazione della norma imperativa senza determinare con il lodo effetti vietati dalla legge (Cass., Sez. VI-1, 16 aprile 2018, n. 9344).
Si tratta di una conclusione conforme all’elaborazione della dottrina, la quale ha evidenziato che la disponibilità del diritto si concreta nella facoltà che una parte ha di incidere su un proprio diritto soggettivo, determinandone il destino, e che, di conseguenza, il concetto di diritti indisponibili si riferisce a situazioni accertabili, se controverse, solo da parte dell’autorità giudiziaria.
A ciò aggiungasi che l’eventuale presenza, nella fattispecie, di norme di applicazione necessaria (nell’accezione datane dall’art. 17 della legge n. 218 del 1995) – ossia di norme della lex fori operanti
come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato da una norma di conflitto – non incide sul diverso problema della possibilità di compromettere in arbitrato estero la controversia, non potendosi presumere che il lodo dell’arbitrato estero si porrà in concreto contrasto con la norma italiana di ordine pubblico (cfr. Cass., Sez. U., 20 febbraio 2007, n. 3841).
8.5. – Il Deed reca, oltre alla clausola arbitrale (art. 15), gli artt. 16 e 17, con la previsione della giurisdizione del giudice straniero, delle Corti d’Inghilterra e del Galles (art. 16) e di quella della Nuova Zelanda (art. 17).
Sotto la rubrica “Jurisdiction“, infatti, l’art. 16 prevede che “ai sensi della clausola 15, le parti in questo Atto scelgono irrevocabilmente quale foro competente in via non esclusiva il Tribunale d’Inghilterra e del Galles” (così nella traduzione giurata in atti; nell’originale: “Subject to clause 15, the parties to this Deed irrevocably submit to the non-exclusive jurisdiction of the Courts of England and Wales); a sua volta, l’art. 17, rubricato “No intention to oust Court’s jurísdiction“, prevede che “Nulla nelle clausole 15 o 16 del presente Atto sarà letto o interpretato come inteso a escludere la competenza dell’Alta Corte della Nuova Zelanda” (nell’originale: “Nothing in clauses 15 or 16 of this Deed shall be read or construed as intended to oust the inherent jurisdiction of the High Court of New Zealand”)..
8.5.1. – La difesa della controricorrente Elena Poli, nella memoria depositata in prossimità della camera di consiglio del 18 giugno 2019, ha prospettato che un’interpretazione cauta e non demolitoria degli artt. 15, 16 e 17 del Deed debba condurre a concludere che le parti, consapevoli che le eventuali controversie sulla successione e sulla divisione del patrimonio del de cuius avrebbero presentato un legame stretto con l’ordinamento italiano e con la restante materia successoria dell’eredità Poli, abbiano voluto non già escludere la giurisdizione italiana sul Deed, ma semmai affiancarvi altre giurisdizioni, prima tra tutte l’arbitrale svizzera, lasciate tuttavia alle scelta libera di ciascun contraente e ferma, per le controversie in materia di amministrazione del Pale Trust, la giurisdizione neozelandese. La deduzione difensiva muove dal rilievo che le clausole del Deed sulla scelta del foro competente (artt. 15, 16 e 17), dato il loro contenuto “palesemente non esclusivo”, non potrebbero avere reale portata derogatoria della giurisdizione italiana, che rimarrebbe quella con il maggior numero di connessioni con la fattispecie controversa.
8.5.2. – Il Collegio non condivide detta interpretazione.
Essa muove dall’erroneo presupposto che, poiché la scelta dell’autorità giudiziaria inglese (e del Galles) è espressamente definita “non-esclusiva”, con ciò le parti avrebbero inteso ammettere proprio “la possibilità che la jurisdiction sul Deed spettasse, oltre che all’arbitrato svizzero e al foro inglese, a ogni altra giurisdizione virtualmente competente, compresa quella del giudice italiano”.
In realtà, una lettura complessiva del tenore delle tre clausole, ancorata al loro significato letterale e rispettosa della volontà dei paciscenti, induce a scartare la tesi che l’espressa qualificazione come “non-esclusiva” della giurisdizione inglese valga a renderla concorrente con ogni altra autorità giudiziaria munita per legge di competenza giurisdizionale (compresa, quindi, quella italiana). La giurisdizione dei giudici inglesi (e del Galles) è “non-esclusiva” perché essa concorre con la giurisdizione statale dell’Alta Corte della Nuova Zelanda, la cui “inherent jurisdiction” in tema di administration del Pale Trust è ribadita e fatta salva con l’articolo immediatamente successivo.
In sostanza, la piana lettura, consecutiva ed integrata, delle tre clausole sopra citate (artt. 15, 16 e 17 del Deed) offre alle parti un ventaglio di possibilità, rimesse alla scelta di chi promuove il giudizio, ma all’interno dei tre fori alternativamente previsti: l’arbitrato svizzero (amministrato, con sede a Lugano, essendo pattuita la rinuncia a qualunque obiezione in merito alla sede di tale procedura arbitrale e a ogni contestazione in ordine alla competenza del foro adito); l’autorità giudiziaria inglese; e, venendo in considerazione un atto di amministrazione del Pale Trust, l'”inherent jurisdiction” dell’Alta Corte della Nuova Zelanda.
Questo sistema, aperto all’interno, è chiuso ed esclusivo all’esterno, e pertanto, in sé autosufficiente e completo, non ammette integrazioni “ortopediche” ab extra derivanti dall’innesto, sulle scelte operate dall’autonomia privata, di (tutte le) altre giurisdizioni statali munite, in base alla legge, di un criterio di collegamento con la fattispecie controversa.
In altri termini, la giurisdizione arbitrale svizzera, mentre è affiancata dalla (concorrente) giurisdizione inglese e da quella neozelandese e non deroga ad esse, deroga a tutti gli effetti a quella italiana sul Deed.
9. – Dovendo escludersi che l’arbitro svizzero non possa conoscere della causa (ai sensi dell’art. 4, comma 3, della legge n. 218 del 1995) o che la convenzione arbitrale sia «caduque, inopérante ou non susceptible d’étre appliquée» (agli effetti di quanto previsto dall’art. II, paragrafo 3, della Convenzione di New York del 10 giugno 1958), va dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
Tale declaratoria non è preclusa dalla pendenza in Italia, tra le stesse parti, di altri giudizi connessi: dovendosi dare continuità al principio secondo cui la clausola compromissoria per arbitrato estero, che sia stata validamente stipulata a norma dell’art. II della citata Convenzione di New York del 10 giugno 1958, comporta una deroga alla giurisdizione italiana che non viene meno per ragioni di connessione fra la controversia devoluta ad arbitri stranieri ed altra spettante alla cognizione del giudice italiano, salva restando l’eventuale sospensione di quest’ultima per ragioni di pregiudizialità (Cass., Sez. U., 12 gennaio 1982, n. 124).
10. – Sulle conformi conclusioni del pubblico ministero, è dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
11. – La complessità e la novità delle questioni trattate giustificano la compensazione tra le parti delle spese dell’intero processo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano e compensa tra le parti le spese dell’intero processo.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 3 luglio 2019.
Allegati:
SS.UU, 12 febbraio 2019, n. 18831, in tema di trust
In tema di responsabilità della p.a. – SS.UU, 12 febbraio 2024, n. 3755
Civile Ord. Sez. U Num. 3755 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: NAPOLITANO LUCIO
Data pubblicazione: 12/02/2024
Oggetto
RESPONSABILITA’
CIVILE P.A.
R.G.N. 2226/2023
Cron.
Rep.
Ud. 21/11/2023
CC
ORDINANZA
sul ricorso 2226-2023 proposto da:
BELGIOVINE DAMIANO E CO. S.A.S., in persona del socio accomandatario, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BOCCA DI LEONE 78, presso lo studio dell’avvocato CURZIO CICALA (Studio BDL), rappresentata e difesa dall’avvocato MAURO GADALETA;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI BISCEGLIE;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1781/2022 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 13/12/2022.
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/11/2023 dal Consigliere LUCIO NAPOLITANO;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, il quale chiede che le Sezioni Unite rigettino il ricorso.
Rilevato che:
L’Impresa Edile dott. Damiano Belgiovine & Co. S.a.s. (di seguito la società), in persona del socio accomandatario e legale rappresentante pro-tempore dott. Damiano Belgiovine, convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Trani il Comune di Bisceglie per sentirne affermare la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale per l’inerzia e totale disinteresse nel portare a termine le opere urbane ivi descritte, inerenti al mancato completamento di una rotatoria e del relativo collegamento viario con la rete cittadina, ciò che impediva l’accesso diretto dalla strada principale agli immobili destinati ad uso commerciale utilizzati in leasing dalla società, posti alle spalle di detta rotatoria, con conseguente domanda di condanna dell’ente locale al risarcimento dei danni subiti, non quantificati nell’atto introduttivo del giudizio.
Costituitosi il Comune, che eccepì il proprio difetto di legittimazione passiva rispetto alla domanda proposta, il Tribunale adito, rilevata d’ufficio e sottoposta al contraddittorio tra le parti la questione di giurisdizione, con sentenza n. 1223/2019, depositata il 20 maggio 2019, declinò la giurisdizione, in favore di quella del giudice amministrativo (Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia – Bari).
Il Tribunale di Trani, richiamando l’art. 7, comma 1, del d. lgs. n. 104/2010 (cod. proc. amm.), affermò la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, essendo la controversia attinente al dedotto comportamento omissivo della P.A. nell’esercizio del potere di gestione e conformazione del territorio, rientrante nella materia urbanistica.
Detta pronuncia fu impugnata dalla società dinanzi alla Corte d’appello di Bari, che, con sentenza n. 1781/2022, depositata il 13 dicembre 2022 e notificata il 20 dicembre 2012, respinse il gravame.
La Corte d’appello rilevò che entrambe le doglianze esposte dall’attrice a fondamento della domanda risarcitoria proposta ricadevano nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
La prima, riferita agli insostenibili ritardi del Comune di Bisceglie nel completamento della viabilità della zona nella quale erano compresi gli immobili commerciali sopra indicati, ricadeva nell’ambito della previsione normativa di cui all’art. 133, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 104/2010, a mente del quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di risarcimento del danno ingiusto causato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo.
La seconda, riferita al ritardo nella conclusione del procedimento per l’espropriazione e la demolizione di un vecchio rudere di proprietà di terzi ubicato sulla direttrice stradale incompiuta, ugualmente dipendente, secondo l’assunto della società, dal ritardo del Comune nell’attività destinata a concludersi con la demolizione del succitato manufatto, riconducibile, invece, secondo la Corte d’appello, all’art. 133, comma 1, lett. f), del citato d.lgs. n. 104/2010.
Avverso detta sentenza la società ricorre per cassazione sulla base di un solo motivo.
Il Comune di Bisceglie è rimasto intimato.
Disposta la trattazione della controversia in adunanza camerale, in prossimità della stessa, nel rispetto dei termini, il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, concludendo per il rigetto del ricorso e parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 – bis.1, cod. proc. civ.
Considerato che:
1. Con l’unico motivo di ricorso la società denuncia «violazione dell’art. 360 n. 1 c.p.c. con riferimento all’art. 2043 c.c. ed alla violazione della legge n. 69 del 2009, art. 59, comma 3, e art. 11 comma 3, c.p.a. Anche con riguardo alla pretesa violazione del d.lgs. 104/2010, art. 133, comma 1, lettera a) e n. 1».
La ricorrente – ribadito di avere agito a tutela di un proprio diritto soggettivo in qualità di locataria degli immobili de quibus, azionando la pretesa risarcitoria sia sotto l’aspetto contrattuale come derivante da detta indicata qualità, sia sotto l’aspetto della responsabilità extracontrattuale per violazione dell’art. 2043 cod. civ. per lesione del generale principio del neminem laedere – rilevava che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto della circostanza, pur allegata in atti sin dal primo grado di giudizio, che il procedimento amministrativo riferito all’espropriazione dell’area contestata si era concluso con l’immissione del Comune nel possesso della medesima e con l’esecuzione delle opere residue, sicché, da parte del giudice ordinario adito, non restava che decidere sul fondamento e sulla quantificazione della domanda risarcitoria proposta.
2. Giova premettere una sintetica ricostruzione, in fatto, della vicenda dalla quale è scaturita l’odierna controversia.
Le opere viarie delle quali la società ha lamentato la tardiva realizzazione da parte del Comune di Bisceglie rientravano nelle opere di urbanizzazione primaria previste nella nuova zona P.e.e.p., 167, del PRG di detto Comune.
Esse furono disciplinate da apposita convenzione,
intercorsa tra il Comune di Bisceglie ed il Consorzio Bisceglie 167, di cui era parte la società Fratellanza Soc. Coop. Edilizia a r.l. (di seguito Fratellanza), disponendo la convenzione che le opere di urbanizzazione primaria fossero a carico del Consorzio.
La società Fratellanza cedette, quindi, in proprietà, nel 2012, a Fineco Leasing, gli immobili destinati ad uso commerciale realizzati nell’area, dei quali quelli descritti nell’originario atto di citazione furono ceduti in leasing all’odierna ricorrente.
2.1. Ciò premesso, deve rilevarsi che, sebbene la ricorrente tenda a collegare la domanda risarcitoria ad un comportamento materiale di mera inerzia e totale disinteresse nel portare a termine le opere urbane sopra descritte, secondo le conclusioni rassegnate nel libello introduttivo del giudizio di merito, non vi è dubbio che, viceversa, l’azione risarcitoria proposta sia riconducibile, sul piano eziologico, al cattivo esercizio, implicitamente lamentato dal medesimo atto di citazione, del potere amministrativo, in materia riferita al governo del territorio.
In tale contesto, deve ribadirsi che la cognizione sulla domanda risarcitoria del privato per i danni asseritamente causati da atti illegittimi – ovvero anche dalla mancata adozione di atti che avrebbero dovuto essere emanati da parte dell’autorità amministrativa competente – spetti alla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. Cass. SU, ord. 8 novembre 2016, n. 22650; Cass. SU, 2 luglio 2015, n. 13568).
2.2. Nella fattispecie in esame, secondo la ricorrente, avrebbero avuto rilevanza decisiva al fine di radicare la giurisdizione del giudice ordinario, le circostanze della conclusione del procedimento amministrativo afferente all’immissione in possesso del Comune nell’area occupata dal rudere di proprietà di terzi, che impediva il completamento della rotatoria, e del conseguente collegamento alla rete viaria preesistente, con realizzazione quindi dell’opera, come precisato in atti nel corso del giudizio di primo grado, e delle quali entrambe le pronunce rese nei gradi di merito non hanno tenuto conto.
2.2.1. Ciò non incide, peraltro, sulla natura della doglianza rappresentata dalla società nell’atto di citazione, atteso che essa si risolve nella contestazione che l’amministrazione non abbia esercitato un dato potere nella situazione legata all’esecuzione delle opere di urbanizzazione intercorsa tra il Comune ed il Consorzio Bisceglie 167, ovvero che l’abbia esercitato in tempi e modi non congrui, donde la posizione giuridica soggettiva del privato si pone in termini di interesse legittimo al corretto esercizio del potere (cfr. Cass. SU, ord. 18 maggio 2015, n. 10095; Cass. SU, 11 maggio 2021, n. 21678).
2.2.2. Né il fatto che dalla situazione esposta si faccia dipendere un danno ingiusto, lamentato dall’attrice con riferimento al depauperamento delle potenzialità commerciali degli immobili destinati a detto uso per l’impedimento all’accesso ai medesimi dalla via principale può radicare la giurisdizione del giudice ordinario, rientrando la controversia in oggetto nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa, sia, per quanto già osservato dalla Corte d’appello, in relazione all’art. 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm., (controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti della pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia, concernenti tutti gli aspetti dell’uso del territorio) sia, più specificamente, perché il lamentato cattivo esercizio del potere amministrativo è riferito – in relazione al mancato completamento della rotatoria in oggetto, come inserita nel contesto delle opere di urbanizzazione primaria della zona P.e.e.p. 167 del Comune di Bisceglie – alla fase esecutiva di accordi integrativi di provvedimenti amministrativi (nella specie la Convenzione per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria riguardanti la zona menzionata di cui all’ Atto pubblico 6.10.2008 intercorso tra il Comune di Bisceglie ed il Consorzio Bisceglie 167); donde risulta attratta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche in relazione al disposto dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, del cod. proc. amm. (cfr., più di recente, Cass. SU, ord. 4 maggio 2023, n. 11713 per l’affermazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in tema di accordi sostitutivi in materia urbanistica e loro esecuzione; si veda anche Cass. SU, ord. 24 luglio 2023, n. 22144, ove si è affermato che la controversia relativa ad un contratto di permuta tra la P.A. ed un privato, alternativo ad un procedimento di espropriazione, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a, n. 2, del d. lgs. n. 104 del 2010, rappresentando detto accordo uno strumento di pianificazione territoriale attraverso il quale il soggetto pubblico assolve ai propri compiti istituzionali).
2.3. In tale contesto deve infine rilevarsi come i precedenti delle Sezioni Unite di questa Corte, solo genericamente, peraltro, indicati dalla ricorrente in memoria, addotti dalla ricorrente medesima a supporto della propria tesi, in realtà non siano conferenti con la fattispecie in esame, atteso che riguardano, per lo più, diverse fattispecie nelle quali questa Corte ha avuto modo di affermare la giurisdizione del giudice ordinario in tema di responsabilità civile della P.A. per lesione del legittimo affidamento del privato da contatto sociale “qualificato” (ad esempio, tra le altre, Cass. SU, ord. 19 gennaio 2023, n. 1567), ovvero fattispecie in cui, sebbene l’inerzia della P.A. sia collegata al mancato esercizio di attività provvedimentale, la stessa assume natura di attività vincolata, come nel caso di omesso sgombero di immobile abusivamente occupato (si veda, ad esempio, Cass. SU, 16 marzo 2023, n. 7737).
2.4. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere pertanto respinto, sussistendo in materia la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, come correttamente affermato dalla sentenza impugnata.
3. Non vi è luogo a pronunciare sulle spese del giudizio di legittimità, non avendo svolto difese il Comune di Bisceglie.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio delle Sezioni
Allegati:
SS.UU, 12 febbraio 2024, n. 3755, in tema di responsabilità della p.a.