In tema di compenso professionale – SS.UU, 19 settembre 2005, n. 18450
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vincenzo CARBONE – Presidente aggiunto –
NICASTRO – Presidente di sezione – Dott. Gaetano
Dott. Salvatore SENESE – Presidente di sezione –
Dott. Giovanni PAOLINI – Consigliere –
Dott. Alessandro CRISCUOLO – Rel. Consigliere –
Dott. Francesco SABATINI – Consigliere –
Dott. Fabrizio MIANI CANEVARI – Consigliere –
Dott. Michele LO PIANO – Consigliere –
Dott. Mario Rosario MORELLI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CECIARINI ALESSANDRO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CHELINI 5, presso lo studio dell’avvocato FABIO VERONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO CECIARINI, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI ISOLA DEL GIGLIO, in persona del Sindaco pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. B. VICO 31, presso lo studio dell’avvocato ENRICO SCOCCINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSANDRO ANTICHI, giusta delega in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1310/00 della Corte d’Appello di FIRENZE, depositata il 17/07/00;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/05/05 dal Consigliere Dott. Alessandro CRISCUOLO;
udito 1’Avvocato Massimo CECIARINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo GAMBARDELLA che ha concluso per il rigetto del primo motivo del ricorso, accoglimento per quanto di ragione degli altri motivi.
Ceciarini
Svolgimento del processo
Con convenzione stipulata il 27 marzo 1987 tra il Comune di Isola del Giglio e l’ing. Alessandro Ceciarini l’ente territoriale affidò al professionista la redazione del progetto dei lavori per la costruzione di una rete idrica relativa ai centri abitati di Giglio Castello, Giglio Porto e Giglio Campese. Nella convenzione fu pattuito che il pagamento del compenso al professionista restasse subordinato alla condizione che il Comune ottenesse dagli enti competenti il finanziamento dell’opera.
Espletato l’incarico l’ing. Ceciarini, non avendo ottenuto il compenso, promosse il procedimento arbitrale (previsto dalla convenzione d’incarico) al fine di ottenere la condanna del Comune al pagamento di lire 100.954.726, con i relativi interessi, a titolo di onorari e rimborso spese per l’attività professionale espletata.
Il Comune contestd la domanda, in quanto il pagamento del compenso era subordinato alla condizione, non avveratasi, del finanziamento dell’opera.
La parte privata replicò che la condizione doveva ritenersi inefficace, in quanto meramente potestativa, e comunque contraria al principio d’inderogabilità della tariffa professionale.
Addusse, inoltre, che la condizione, se valida, si sarebbe dovuta ritenere avverata essendo mancata per fatto imputabile al Comune, tenuto comunque al risarcimento del danno, e che l’opera almeno in parte era stata finanziata.
Il collegio arbitrale, espletata una consulenza tecnica ed acquisita agli atti la documentazione prodotta, con lodo del 9 ottobre 1998 condanna l’ente territoriale a pagare all’ing. Ceciarini la somma di lire 65.000.000=, con i relativi interessi, nonché i 2/3 delle spese di lite. Il collegio pervenne a tale statuizione ritenendo non configurabile la fattispecie di cui all’art. 1359 c. c. (dato l’interesse di entrambe le parti all’avveramento della condizione), considerando valida la clausola che prevedeva la condizione medesima ed osservando, tuttavia, che il Comune non si era attivato con la dovuta diligenza nella richiesta di finanziamento, onde risultava inadempiente ai sensi dell’art. 1358 c. c., con conseguente obbligo risarcitorio a suo carico, liquidato in misura pari al compenso spettante al professionista e ridotto del 20%.
Con citazione notificata il 15 febbraio 1999 il Comune di Isola del Giglio impugno il lodo davanti alla Corte di appello di Firenze, adducendone la nullità per violazione degli artt. 1358 e 1359 c. c., per contraddittorieta, per violazione del principio di diritto secondo cui il giudice deve pronunciare “juxta alligata et probata”, per carente esame della documentazione prodotta e per mancata ammissione delle prove richieste in ordine all’impossibilita di ottenere un mutuo comunitario o di ricorrere a soluzioni alternative.
Il Ceciarini si costituì per resistere all’impugnazione, proponendo a sua volta impugnazione incidentale diretta a censurare il lodo nella parte in cui avrebbe illegittimamente decurtato il compenso minimo del 20% e deducendo (l’errata interpretazione ed applicazione dell’art. 1359 c. c. nonché la nullità del lodo medesimo per carenza di motivazione sulle deduzioni proposte.
La Corte di appello fiorentina, con sentenza depositata il 17 luglio 2000, dichiarò la nullità del lodo e dichiarò che nulla era dovuto dal Comune al professionista in virtù del contratto stipulato tra le parti, compensando integralmente tutte le spese del giudizio, comprese quelle del procedimento arbitrale.
La Corte territoriale richiamò il principio (già affermato da questa Corte) secondo cui, qualora le parti abbiano subordinato gli effetti di un contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario acquirente ottenga da un istituto bancario un mutuo per poter pagare in tutto o in parte il prezzo stabilito — patto valido perché i negozi ai quali non è consentito apporre condizioni sono indicati tassativamente dalla legge — la relativa condizione ¢ qualificabile come “mista”, in quanto la concessione del mutuo dipende anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la relativa pratica. La mancata concessione del mutuo, peraltro, comporta le conseguenze previste in contratto, senza che rilevi (ai sensi dell’art. 1359 c. c.), un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente, sia perché tale disposizione è inapplicabile nel caso in cui la parte, tenuta condizionatamente ad una data prestazione, abbia anch’essa interesse all’avveramento della condizione, sia perché l’omissione di un’attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, e la sussistenza di un obbligo siffatto deve essere esclusa per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista.
Nel quadro di tale principio, ritenuto applicabile alla fattispecie, la sentenza impugnata escluse l’applicabilità al caso in esame sia dell’art. 1359 c. c., attinente all’avveramento della condizione per il comportamento della parte dalla cui condotta l’avveramento stesso anche dipende, sia dell’art. 1358 c. c., relativo alla responsabilità nascente in capo a detta parte per comportamento non conforme a buona fede. In ciò ravvisò causa di nullità del lodo, in accoglimento della doglianza proposta dall’impugnante principale.
La Corte di merito, poi, rilevò che il contratto qdeu o prevedeva la concessione di un mutuo per l’esecuzione dell’opera la cui progettazione era stata affidata al Ceciarini, in assenza del quale nessun compenso era previsto per quest’ultimo, e ne dedusse che ai fini di causa il Comune era tenuto alla richiesta del detto mutuo e ciò, com’era pacifico, era stato fatto, sicché l’ente territoriale aveva adempiuto agli obblighi derivanti dal contratto, non essendo obbligato in forza del contratto stesso ad ulteriori comportamenti.
Pertanto, ad avviso della Corte fiorentina, dichiarato nullo il lodo per errore di diritto, andava altresi dichiarato che nulla era dovuto al Ceciarini dal Comune medesimo, restando assorbita ogni altra domanda proposta dalle parti.
Avverso tale sentenza l’ing. Ceciarini ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi illustrati con due memorie.
Il Comune di Isola del Giglio ha resistito con controricorso.
La prima sezione civile di questa Corte, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza depositata il 5 giugno 2004 ha rilevato che, con il primo motivo del ricorso stesso, si poneva la questione della validita della clausola — apposta alla convenzione con la quale il Comune affida ad un privato l’attività professionale di progettazione di un’opera pubblica — che subordina il diritto al compenso all’ottenimento del finanziamento dell’opera progettata.
Ha osservato, quindi, che su tale questione sussiste un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, perché in alcune sentenze si è affermato che il principio d’inderogabilita delle tariffe professionali (operante anche con riguardo alle prestazioni rese da ingegneri ed architetti allo Stato e agli altri enti pubblici, nei limiti indicati dall’art. 4, comma 12 bis, del d. 1 n. 65 del 1989, introdotto dalla legge di conversione n. 155 del 1989) attiene al momento di liquidazione del compenso, ma non esclude che il professionista possa validamente sottoporre il suo diritto a riscuotere il compenso stesso a termine o a condizione, o anche a prestare la propria opera gratuitamente per i motivi più vari, che possono essere ispirati da mera liberalità ovvero da considerazioni di ordine sociale o di convenienza o, ancora, da prospettive di opportunita in relazione a personali ed indiretti vantaggi. Mentre nella sentenza n. 7538 del 2002 si è deciso che deve essere ritenuta nulla la clausola, contenuta in un capitolato, la quale condizioni il pagamento del compenso a finanziamenti futuri e incerti, ancorché l’ente pubblico abbia ricevuto 1’intera prestazione professionale, in quanto in contrasto con la causa normalmente onerosa della prestazione.
In presenza di tale contrasto 1’ordinanza ha ravvisato l’opportunita di rimettere gli atti al Primo Presidente per eventuale assegnazione del ricorso alle sezioni unite, considerato anche che era gia all’esame di queste la questione (ritenuta connessa) concernente la validità dell’atto negoziale di conferimento dell’incarico al professionista nell’ipotesi in cui la relativa delibera dell’ente territoriale sia priva della previsione di spesa, in violazione dell’art. 284 del r. d. 3 marzo 1934, n. 383 (relativamente a fattispecie contrattuali realizzate nel vigore di detta normativa).
Il ricorso, quindi, è stato assegnato alle sezioni unite di questa Corte ed è stato chiamato all’udienza di discussione.
Motivi della decisione
1. Il resistente ha addotto l’inammissibilità del ricorso per cassazione, ritenendolo tardivo in quanto non sarebbe possibile cumulare due sospensioni dei termini per il periodo feriale.
Tale eccezione (in senso lato, in quanto attinente a profilo rilevabile anche d’ufficio) non è fondata.
La sentenza impugnata fu depositata il 17 luglio 2000. Da tale data prese a decorrere il termine annuale di decadenza ex art. 327 c. p. c. ( in quanto essa non risulta notificata, com’è incontroverso), termine da calcolare ex nominatione dierum, cioè prescindendo dal numero dei giorni da cui è composto ogni singolo mese o anno, ai sensi dell’art. 155, comma 2°, del codice di rito civile (Cass., 11 agosto 2004, n. 15530; 3 giugno 2003, n. 8850; 7 luglio 2000, n. 9068). Il detto termine, dunque, veniva a scadere il 17 luglio 2001, ma esso doveva essere prolungato di 46 giorni (calcolati ex numeratione dierum, ai sensi del combinato disposto degli artt. 155, comma 1°, c. p. c. e 1, comma 1°, L. n. 742 del 1969: v. giurisprudenza ora cit) per la sospensione durante il periodo feriale. Pertanto, dopo i primi 14 giorni (17/31 luglio 2001), i residui 32 giomi non giunsero a compimento il 1°settembre 2001 (ricadente nel c. d. periodo feriale) ma presero a decorrere dopo la detta sospensione, cioè dal 16 settembre 2001 (incluso), giungendo a compimento il 17 ottobre 2001. Poiché il ricorso per cassazione risulta notificato il 10 ottobre 2001,
L’impugnazione si rivela tempestiva.
La tesi del resistente, secondo cui non sarebbe possibile cumulare due periodi di sospensione, non può essere condivisa. Essa non trova riscontro nel dettato normativo ed anzi contrasta con la ratio della legge n. 742 del 1969, che — salve le eccezioni previste — ha comunque inteso evitare il decorso dei termini processuali nell’arco di tempo considerato da tale legge. Il punto, del resto, è stato già trattato da questa Corte, la quale ha affermato il principio secondo cui il termine annuale di decadenza dall’impugnazione che, qualora sia iniziato a decorrere prima della sospensione dei termini durante il periodo feriale, deve essere prolungato di 46 giorni ( non dovendosi tenere conto del periodo compreso tra il 1° agosto e il 15 settembre di ciascun anno) è suscettibile di ulteriore analogo prolungamento quando l’ultimo giorno di detta proroga venga a cadere dopo l’inizio del nuovo periodo feriale dell’anno successivo (Cass., 8 gennaio 2001, n. 200; 20 marzo 1998, n. 2978). Ed a tale principio il collegio intende dare continuità, essendo esso conforme alla lettera ed alla ratio della citata legge n. 742 del 1969.
2. Con il primo mezzo di cassazione il ricorrente denunzia “omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia prospettato dalla parte o rilevabile d’ufficio.
Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c. p. c. Violazione degli artt. 36 Cost., 2233, 2° comma, c. c., dell’articolo unico della legge 5. 5. 1976 n. 340, degli artt. 1418 e 1419, 2° comma, c.c”.
Con il secondo motivo dell’impugnazione incidentale avverso il lodo I’ing. Ceciarini avrebbe riproposto — sotto il profilo della nullità del lodo per violazione di norme di diritto — la questione concernente la nullita della clausola che subordina la riscossione del compenso da parte del professionista al fatto, futuro e incerto, dell’avvenuto finanziamento dell’opera progettata.
Con il primo motivo avrebbe già impugnato il lodo, sotto il medesimo profilo di parziale nullita per contrasto con le norme imperative stabilite dall’art. unico della 1. 5 maggio 1976, n. 340, concernente la riduzione del 20% sui minimi tariffari.
Tali questioni avrebbero avuto indubbio carattere preliminare perché, se la condizione fosse stata dichiarata nulla e/o inefficace (sia per contrasto con le norme relative all’inderogabilita dei minimi tariffari, sia per contrasto con gli artt. 36 Cost. e 2233, 2° comma, c. ¢.), sarebbe stato inutile porsi il problema della operativita 0 meno degli artt. 1358 e 1359 c. c. (addotti invece dalla Corte di merito a motivo unico della propria decisione).
La Corte territoriale avrebbe omesso del tutto l’esame di tali censure, inserendole frettolosamente tra quelle “assorbite”, laddove, poiché la questione circa la validita della condizione apposta avrebbe costituito un prius rispetto all’incidenza (agli effetti degli artt. 1359 e 1358 c. c.) del mancato avveramento della condizione stessa, la Corte distrettuale avrebbe avuto l’obbligo di pronunciarsi e di motivare sul punto.
Peraltro, qualora si dovesse considerare il rigetto della questione di nullità o inefficacia della clausola contenente la condizione come motivato per implicito, la sentenza impugnata si esporrebbe comunque a censura per violazione di legge.
Infatti, se l’art. unico della legge n. 340 del 1976 impone l’inderogabilità dei minimi tariffari tra privati (mentre, ai sensi dell’art. 4, comma 12 bis, del d. 1. 2 marzo 1989 n. 65, aggiunto dalla legge di conversione n. 155 del 26 aprile 1989, per le prestazioni rese dai professionisti allo Stato e agli altri enti pubblici relativamente alla realizzazione di opere pubbliche o comunque d’interesse pubblico, il cui onere è in tutto o in parte a carico dello Stato e degli altri enti pubblici, la riduzione dei minimi di tariffa non può superare il 20%), sarebbe erroneo il giudizio espresso dal collegio arbitrale, tacitamente avallato dalla Corte di appello, circa la rilevanza meramente disciplinare della deroga accettata dal professionista e la validita tra le parti della clausola condizionante la riscossione del compenso alla concessione del finanziamento dell’opera.
In presenza di una norma imperativa, la nullita della clausola di deroga sarebbe automatica in forza del combinato disposto degli artt. 1418 e 1419 c. c., senza necessita di specifica comminatoria di questa sanzione.
Tale principio sarebbe confortato non soltanto dall’art. 36 Cost. ma anche dall’art. 2233, comma 2°, c. c. che, stabilendo in modo tassativo che in ogni caso spetta al professionista un compenso in misura adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione, escluderebbe l’ammissibilità di pattuizioni dirette addirittura a mettere a rischio la possibilità di ottenere qualsiasi compenso.
Sarebbe vero che al professionista è consentito prestare gratuitamente la propria opera per vari motivi sociali o di convenienza, ma sarebbe anche vero che, come affermato da questa Corte (Cass., n. 10393 del 1994), al di fuori di questa ipotesi i patti in deroga ai minimi della tariffa professionale sono nulli.
Errato e contraddittorio, quindi, sarebbe il giudizio del collegio arbitrale, condiviso per implicito dalla Corte di appello, che — dopo avere esattamente affermato l’inderogabilità della tariffa e la insussistenza (ormai non più revocabile in dubbio, concernendo accertamenti e valutazioni sul fatto non impugnabili e non impugnate) di motivi idonei a giustificare la volonta del Ceciarini di prestare gratuitamente la propria opera, avrebbe poi escluso il diritto del professionista a conseguire il compenso, certamente non ravvisabile nella irrisoria somma per spese di lire 2.000.000, peraltro neppure pagata dal Comune contrariamente a quanto da questo dedotto, sicché la sentenza impugnata sarebbe viziata per l’omissione di pronuncia nella parte in cui avrebbe escluso totalmente il diritto al compenso anche per la somma ora citata, in ogni caso dovuta.
2.1. L’esame delle censure contenute nel primo motivo del ricorso richiede le seguenti considerazioni di carattere preliminare;
a) l’ordinanza di rimessione della causa a queste S. U. ritiene connessa alla questione di cui si tratta quella concernente la validità dell’atto negoziale di conferimento dell’incarico al professionista, nell’ipotesi in cui la relativa delibera dell’ente territoriale sia priva della previsione di spesa, in violazione dell’art. 284 del r. d. 3 marzo 1934, n. 383 (relativamente a fattispecie contrattuali sorte nel vigore di detta normativa). Ad avviso di questa Corte, però, si tratta di questioni distinte, in quanto quella concernente l’interpretazione e l’applicazione del citato art. 284 (sulla quale questa Corte a s. u. si è pronunciata con sentenza 10 giugno 2005, n. 12195) è imperniata per l’appunto sulla validità della delibera e sui riflessi della sua eventuale nullità (per mancata previsione della spesa) sul correlato rapporto di prestazione professionale, mentre nel caso in esame non è stato posto alcun problema circa la validità dell’atto amministrativo, né un problema del genere potrebbe sorgere in questa sede, in quanto esso postulerebbe sul contenuto della delibera accertamenti di fatto non compatibili con i limiti del giudizio di legittimità. In questo processo, invece, è in discussione la validità di una clausola contrattuale interna al rapporto di prestazione d’opera professionale e recante una condizione diretta a subordinare il pagamento del compenso al professionista ad un evento futuro e incerto, qual è il finanziamento dell’opera pubblica dal medesimo professionista progettata. Si tratta, dunque, di fattispecie diverse, che sono soggette a discipline giuridiche differenti;
b) la sentenza impugnata — sia pure attraverso la relatio a due sentenze di questa Corte (concernenti ipotesi non coincidenti con quella oggetto della presente causa ma ad essa ritenute “sovrapponibili”: v. pag. 5-6 della statuizione qui impugnata) — ha considerato valida la clausola contenente la condizione, “poiché i negozi ai quali non è consentito apporre condizioni sono indicati tassativamente dalla legge”, così respingendo in modo implicito le altre argomentazioni svolte dall’attuale ricorrente. Pertanto l’omissione di pronuncia addotta dall’ing. Ceciarini non è configurabile. Neppure il dedotto vizio di motivazione può essere ravvisato, perché esso in realtà si risolve nella denunzia di un errori in iudicando relativo all’interpretazione ed all’applicazione di norme giuridiche (senza necessità di ulteriori indagini di fatto, in relazione alle quali sia configurabile un difetto motivazionale) e sotto questo profilo deve essere in questa sede valutato come violazione di legge (art. 360, primo comma, n. 3, c. p. c.), nel quadro delle censure mosse dal ricorrente col primo motivo del ricorso in relazione alle quali l’ordinanza di rimessione ha ravvisato il contrasto sottoposto a queste S. U.
2.2. Tale contrasto concerne la validità o meno della clausola, inserita in un contratto d’opera professionale avente ad oggetto la progettazione di un’opera pubblica, clausola che condizioni il diritto al compenso del professionista alla concessione del finanziamento necessario per la realizzazione dell’opera.
Secondo un orientamento, che può considerarsi in larga misura prevalente, la clausola suddetta in linea di principio deve considerarsi valida (cfr., tra le più recenti, Cass., 8 ottobre 2004, n. 20039; 22 settembre 2004, n. 19000; 23 maggio 2001, n. 7003; 22 gennaio 2001, n. 897; 9 gennaio 2001, n. 247; 21 luglio 2000, n. 9587; 26 gennaio 2000, n. 863; 20 luglio 1999, n. 7741; 30 dicembre 1993, n. 13008; 28 aprile 1992, n. 5061).
Tale orientamento si affida ad una pluralita di argomentazioni: cosi si è affermato che il principio stabilito dall’art. unico della legge 5 maggio 1976, n. 340 (che introdusse 1’inderogabilita dei minimi di tariffa delle prestazioni professionali degli ingegneri e degli architetti), applicabile ai sensi dell’art. 6 (comma primo) della legge n. 404 del 1977 esclusivamente ai rapporti tra privati, non è violato dalla convenzione che preveda a favore del professionista la liquidazione dei soli compensi per lavori topografici, con esclusione dei compensi a vacazione, perché la
ratio della norma restrittiva dell’autonomia contrattuale delle parti è che il professionista, per qualsiasi sua particolare ragione, non sia indotto a prestare la sua attività a condizioni lesive della dignità della professione (Cass., n. 5061 del 1992; n. 863 del 2000); che la gratuità delle prestazioni professionali e la rinuncia al compenso non trovano ostacoli nella nullità dei patti in deroga ai minimi di tariffa, allorché siano fondate su specifici presupposti causali e non risultino quindi attuate per violare le norme sui minimi di tariffa, onde al professionista è consentita la prestazione gratuita della sua attivita professionale per considerazioni di ordine sociale e di convenienza, anche con riguardo ad un suo personale ed indiretto vantaggio (Cass., n. 13008 del 1993); che in tema di prestazione d’opera intellettuale l’onerosità del relativo contratto, che ne costituisce elemento normale come risulta dall’art. 2233 c. c., non ne integra peraltro un elemento essenziale, né pud essere considerato un limite di ordine pubblico all’autonomia contrattuale delle parti che, pertanto, ben possono prevedere la gratuita dello stesso (fattispecie in cui ¢ stata ritenuta legittima la clausola contrattuale condizionante il diritto al compenso per la prestazione di un ingegnere, al quale un Comune aveva commissionato il progetto di un’opera pubblica, al conseguimento delle approvazioni richieste e dei finanziamenti pubblici: Cass., n. 7741 del 1999); che la clausola contrattuale diretta a sottoporre il diritto al compenso, da parte del professionista incaricato del progetto di un’opera pubblica, alla condizione dell’intervenuto finanziamento dell’opera progettata non limita la responsabilità del committente del progetto, perché non influisce sulle conseguenze del suo eventuale inadempimento, ma piuttosto delimita il contenuto del mandato conferito, facendo derivare i diritti del mandatario dal progetto finanziato e non dal progetto soltanto redatto (Cass., n. 9587 del 2000; n. 19000 del 2004); che, quando un contratto d’opera professionale concluso da un ingegnere con un Comune prevede l’alternativa tra il pagamento del compenso secondo tariffa ovvero la prestazione gratuita dell’attività professionale in caso di mancato finanziamento dell’opera, si è fuori dall’ipotesi della violazione dei minimi tariffari e si versa nella fattispecie della prestazione gratuita dell’attività professionale, restando valida tra le parti la rinunzia al compenso (Cass., n. 247 del 2001; n. 897 del 2001); che l’onerosità costituisce un elemento naturale ma non essenziale dei contratti di prestazione d’opera intellettuale, essendo consentito alle parti sia di escludere il diritto del professionista al compenso sia di subordinarlo al verificarsi di una condizione (Cass., n. 7003 del 2001).
Come si vede, al di 1a dei differenti profili argomentativi, la conclusione comune cui pervengono le pronunzie sopra richiamate e nel senso di ritenere valida la clausola che sottoponga il diritto al compenso del professionista, incaricato della progettazione di un’opera pubblica, alla condizione che tale opera ottenga i finanziamenti richiesta.
All’indirizzo maggioritario si contrappone un altro orientamento, alla stregua del quale l’art. 6 della legge n. 404 del 1977 — che, interpretando autenticamente 1’art. unico della legge n. 340 del 1976, ne ha limitato 1’applicazione ai rapporti intercorrenti tra privati — deve essere inteso nel senso che, nei rapporti tra ente pubblico e professionista privato cui il primo abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica, sono validi gli accordi che prescindono dai limiti minimi stabiliti dalle tabelle salvo comunque, ove sia certa la natura onerosa del rapporto, il diritto del professionista alla percezione di una somma a titolo di compenso (che, nel contrasto tra le parti,deve essere determinato dal giudice, prescindendo dalle tabelle degli onorari), in quanto soltanto tale interpretazione consente di non snaturare la causa
della prestazione, incidendo sul sinallagma contrattuale. Ne consegue che deve ritenersi nulla la clausola contenuta in un capitolato che subordini 1’obbligo del pagamento del compenso per la prestazione resa a futuri e incerti finanziamenti (Cass., 23 maggio 2002, n. 7538).
Allo stesso orientamento, sia pur con una prospettiva in parte differente, può essere ascritto il principio secondo cui al professionista è consentita la prestazione gratuita della sua attivita professionale per i motivi più vari, che possono consistere nell’affectio, nella benevolenza ovvero in considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio. Al di fuori di questa ipotesi sono nulli i patti in deroga ai minimi della tariffa professionale (Cass., 28 giugno 2000, n. 8787; 3 dicembre 1994, n. 10393).
2. 3. 1l contrasto deve essere risolto in senso conforme all’orientamento prevalente, alla stregua delle considerazioni che seguono.
Si deve premettere che, ai fini della decisione, il richiamo all’art. 36 della Costituzione non è pertinente. Infatti, come questa Corte ha ripetutamente affermato, la disposizione ora indicata riguarda soltanto l’area del rapporto di lavoro subordinato e, dunque, non si applica al rapporto di lavoro autonomo, nel cui ambito rientrano le prestazioni dei liberi professionisti espletate a seguito di apposito incarico (Cass., 1 settembre 2004, n. 17564; 26 maggio 2004, n. 10168; 23 marzo 2004, n. 5807; 25 ottobre 2003, n. 16059; 28 gennaio 2003, n. 1223; 26 febbraio 2002, n. 2861; 21 ottobre 2000, n. 13941).
Ciò posto, si osserva che le parti di un rapporto contrattuale ben possono prevedere, nell’esercizio dell’autonomia privata, che l’efficacia di un’obbligazione nascente dal contratto resti condizionata, in senso sospensivo o risolutivo, ad un evento futuro ed incerto (artt. 1322 — 1353 c. c.). Tale principio è applicabile in via generale anche alla convenzione con la quale un ente pubblico territoriale affidi ad un professionista l’incarico di provvedere alla redazione del progetto per la realizzazione di un’opera pubblica, in quanto tale atto non rientra nel novero dei negozi (c. d. actus legitimi o negozi puri) previsti dalla legge, cui non è consentito apporre condizioni o termini. Resta da stabilire se il detto principio debba trovare applicazione anche con riguardo alla specifica clausola contrattuale volta a condizionare il diritto al compenso, spettante al professionista, alla concessione del finanziamento necessario per la realizzazione dell’opera. Ed a tale quesito, ad avviso del collegio, va dato risposta affermativa.
Invero, nella disciplina delle professioni intellettuali il contratto costituisce la fonte principale per la determinazione del compenso, mentre la relativa tariffa rappresenta una fonte sussidiaria e suppletiva, alla quale è dato ricorrere, ai sensi dell’art. 2233 c. c., soltanto in assenza di pattuizioni al riguardo.
Pertanto le limitazioni al potere di autonomia delle parti e la prevalenza della liquidazione in base a tariffa possono derivare soltanto da leggi formali o da altri atti aventi forza di legge riguardanti gli ordinamenti professionali (v. Cass., 29 gennaio 2003, n. 1317; 23 maggio 2000, n. 6732; 9 ottobre 1998, n. 10064; 11 aprile 1996, n. 3401).
Il primato della fonte contrattuale impone di ritenere che il compenso spettante al professionista, ancorché elemento naturale del contratto di prestazione d’opera intellettuale, sia liberamente determinabile dalle parti e possa anche formare oggetto di rinuncia da parte del professionista, salva l’esistenza di specifiche norme proibitive che, limitando il potere di autonomia delle parti, rendano indisponibile il diritto al compenso per la prestazione professionale e vincolante la determinazione del compenso stesso in base a tariffe.
Si tratta allora di verificare se, nell’apposita normativa concernente le professioni di ingegnere ed architetto, sussistano norme siffatte.
Orbene, la disciplina, introdotta con I’articolo unico della legge 5 maggio 1976, n. 340, stabili I’inderogabilita dei minimi della tariffa professionale per gli ingegneri e gli architetti. L’art. 6, comma primo, della legge 1 luglio 1977, n. 404, dispose che il detto articolo unico doveva “intendersi applicabile esclusivamente ai rapporti intercorrenti tra privati”, disponendo poi nei commi successivi limiti ai compensi massimi per i casi d’incarichi di progettazione conferiti dallo Stato o da un altro ente pubblici a più professionisti per una stessa opera. Con l’art. del D. L. 2 marzo 1989, n. 65, convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 1989, n. 155, fu disposto che “per le prestazioni rese dai
professionisti allo Stato e agli altri enti pubblici relativamente alla realizzazione di opere pubbliche o comunque di interesse pubblico, il cui onere è in tutto o in parte a carico dello Stato e degli altri enti pubblici, la riduzione dei minimi di tariffa non può superare il 20%”.
Nel caso di specie, come risulta incontroverso, la convenzione con la quale all’ing. Ceciarini fu affidato l’incarico professionale de quo fu sottoscritta il 27 marzo 1987 (v. ricorso per cassazione, pag. 2), sicché gia per questo dato temporale il principio d’inderogabilita delle tariffe, a prescindere dalla sua interpretazione, non sarebbe invocabile, vertendosi in tema di negozio perfezionato prima del 1989, al quale quindi non sarebbe applicabile la normativa di cui alla sopravvenuta legge n. 155 del 1989. Ma, pur volendo trascurare il dato suddetto, si deve osservare, sul piano dell’interpretazione testuale, che nella normativa sopra citata manca una disposizione espressa diretta a sanzionare con la nullita eventuali clausole in deroga alle tariffe e, sul piano logico, che le norme sull’inderogabilita dei minimi tariffari sono contemplate non a tutela di un interesse generale della collettivita ma di un interesse di categoria, onde per una clausola che si discosti da tale principio non è configurabile — in difetto di un’espressa previsione normativa in tal senso — il ricorso alla sanzione della nullitd, dettata per tutelare la violazione d’interessi generali. Quel principio d’inderogabilita, invero, è diretto ad evitare che il professionista possa essere indotto a prestare la propria opera a condizioni lesive della dignita della professione (sicché la sua violazione, in determinate circostanze, può assumere rilievo sul piano disciplinare), ma non si traduce in una norma imperativa idonea a rendere invalida qualsiasi pattuizione in deroga, allorché questa sia stata valutata dalle parti nel quadro di una libera ponderazione dei rispettivi interessi.
Queste considerazioni risultano ancor più valide in fattispecie come quella in esame, in cui il diritto al compenso vantato dal professionista non forma oggetto di una rinunzia espressa già in sede di stipula del contratto col quale l’incarico professionale è affidato, ma con apposita clausola viene condizionato al finanziamento dell’opera, inserendosi quindi nel complessivo assetto d’interessi perseguito dalle parti col negozio posto in essere. In casi del genere, in realta, non può neppure affermarsi che le parti abbiano voluto un negozio a titolo gratuito. Il contratto d’opera professionale resta (normalmente) oneroso, ma in esso e introdotto per volonta dei contraenti un elemento ulteriore, cioè un evento che condiziona il pagamento del compenso al finanziamento dell’opera, in assenza del quale guest’ultima non puo essere eseguita.
Resta da dire (anche se la questione non risulta sollevata nella controversia in esame) che la detta clausola non è neppure configurabile come condizione meramente potestativa (in quanto tale nulla ai sensi dell’art. 1355 c. c.), perché la realizzazione dell’evento dedotto in condizione non è indifferente per nessuna delle due parti (onde non può dirsi dipendente dalla mera volontà di una di esse) e certamente risponde anche ad un interesse dell’ente pubblico. Né va trascurata la considerazione che, benché ai fini del finanziamento siano indispensabili atti d’iniziativa ad opera dell’ente pubblico richiedente, la sua concessione è un fatto che prescinde dalla volontà dell’ente, dipendendo anche da una serie di elementi esterni. La condizione de qua, dunque, va qualificata come condizione potestativa mista, la cui realizzazione è rimessa in parte alla volontà di uno dei contraenti ed in parte ad un apporto causale esterno (tra le più recenti: Cass., 28 luglio 2004, n. 14198; 22 aprile 2003, n. 6423; 21 luglio 2000, n. 9587; 20 luglio 1999, n. 7741).
Nei sensi ora esposti I’orientamento seguito dalla giurisprudenza maggioritaria deve trovare conferma.
Le differenti opzioni ermeneutiche seguite (con talune diversita di motivazione) dall’orientamento di minoranza non si rivelano convincenti.
Infatti, non persuade la tesi (seguita dalla sentenza n. 7538 del 2002) secondo cui, nei rapporti tra ente pubblico e professionista privato cui il primo abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica, sono validi gli accordi che prescindono dai limiti minimi stabiliti dalle tabelle, salvo comunque, ove sia certa la natura onerosa del rapporto, il diritto del professionista al pagamento di una somma a titolo di compenso, in quanto soltanto tale interpretazione consentirebbe di non snaturare la causa della prestazione, incidendo sul sinallagma contrattuale.
Infatti questa tesi, che pur riconosce la validità di accordi in deroga ai minimi stabiliti dalle tariffe, trascura di considerare che non può ravvisarsi violazione del rapporto sinallagmatico in una clausola liberamente pattuita che non incide sulla causa del contratto e tanto meno la nega, ma subordina l’efficacia di una obbligazione nascente da quel contratto ad un evento futuro e incerto, nell’esercizio di un’autonomia negoziale che, secondo la stesse sentenza, non trova ostacolo in imperative norme di legge.
E neppure appare persuasiva la tesi secondo la quale al professionista sarebbe consentita la prestazione gratuita della sua attività professionale per i motivi più vari (affectio, benevolentia, considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio), mentre al di fuori di queste ipotesi sarebbero nulli i patti in deroga ai minimi della tariffa professionale. Infatti, nel momento in cui si ammette la prestazione gratuita dell’attività professionale “per i motivi più vari” (e, quindi, si esclude il carattere cogente delle tariffe in guisa da rendere indisponibile il diritto al compenso), non si giustifica poi la previsione di nullità per altre ipotesi (a questo punto, necessariamente di carattere residuale, attesa l’ampiezza dei motivi ipotizzati come validi), se non ricorrendo ad una alterazione del carattere sinallagmatico del rapporto contrattuale, in coerenza con la tesi propugnata dalla sentenza n. 7538 del 23 maggio 2002 ma qui non condivisa per le ragioni sopra esposte.
Conclusivamente, a composizione del contrasto segnalato con l’ordinanza di rimessione, deve essere affermato il seguente principio di diritto:
“La clausola con cui, in una convenzione tra un ente pubblico territoriale e un ingegnere al quale il primo abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica, il pagamento del compenso per la prestazione resa e condizionata alla concessione di finanziamento per la realizzazione dell’opera, e valida in quanto non si pone in contrasto col principio d’inderogabilita dei minimi tariffari, previsto dalla legge 5 maggio 1976, n. 340, come interpretata autenticamente dall’art. 6, comma 1, della legge 1° luglio 1977, n. 404, normativa cui ha fatto seguito l’art. 12 bis del d. l. 2 marzo 1989, n. 65, convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 1989, n. 155.
Né tale clausola, espressione dell’autonomia negoziale delle parti, viene a snaturare la causa della prestazione, incidendo sul sinallagma contrattuale”.
Alla stregua di tale principio il primo motivo del ricorso deve essere respinto.
3. Va poi esaminato con priorita, per ragioni di ordine logico, il terzo motivo del detto ricorso.
Con esso — denunziando motivazione insufficiente e contraddittoria su punto decisivo della controversia prospettato dalla parte, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1358, 1359, 1375, 1175, c. c., violazione e falsa applicazione degli artt. 828, 829, 830 c. p. c. — il ricorrente censura la sentenza impugnata, sostenendo che essa avrebbe posto a base della pronuncia di annullamento del lodo (in fase rescindente) e di rigetto della domanda (in fase rescissoria) unicamente l’asserita inapplicabilita dell’art. 1359 c. c. alla condizione potestativa mista (che sarebbe stata affermata in due sentenze di questa Corte) e sull’estensione, operata dalla Corte di appello, della medesima ratio per escludere anche la responsabilita prevista dall’art. 1358 c.c
Tale convincimento sarebbe erroneo e contraddittorio, in quanto — secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte — l’applicabilità dell’art. 1359 c. c. resterebbe esclusa soltanto in caso di condizione potestativa semplice, mentre la norma andrebbe applicata in ipotesi di condizione potestativa mista.
Inoltre, anche le sentenze richiamate dalla Corte territoriale non autorizzerebbero ad estendere I’applicabilita dell’art. 1359 alla condizione potestativa mista.
Non sussistendo la nullita del lodo per errore di diritto, cioè per violazione dell’art. 1359 c. c., la Corte di appello non avrebbe avuto il potere di scendere all’esame del merito e di sindacare la decisione del collegio arbitrale.
Né il Comune potrebbe addurre che l’art. 1359 c. c. non sarebbe operante perché, come accertato dal detto collegio arbitrale, non sarebbe esistito un interesse dell’ente contrario ad ottenere il finanziamento. Invero al riguardo, col terzo motivo dell’impugnazione incidentale avverso il lodo (motivo totalmente ignorato, con conseguente omessa motivazione su punto decisivo)
L’ing. Ceciarini avrebbe osservato che I’interesse contrario all’avveramento poteva rivelarsi anche per fatti concludenti e sopravvenuti, nel caso in esame costituiti dalla volontà di assumere un mutuo di 904 milioni per la costruzione di una caserma o di privilegiare altre opere o fonti di finanziamento a totale carico dello Stato.
Tale interesse sopravvenuto sarebbe idoneo ad integrare l’interesse contrario all’avveramento previsto dall’art. 1359 c. c.
Agli effetti di tale norma né gli arbitri né la Corte distrettuale avrebbero esercitato il potere-dovere di identificare la parte che in concreto, violando gli obblighi di correttezza, con il suo comportamento colposo o doloso aveva contribuito a modificare l’iter attuativo del contratto.
Ma, pur volendo considerare legittima e motivata la ritenuta inapplicabilita, nella fattispecie, dell’art. 1359 c. c., resterebbe pur sempre illegittima la mancata applicazione dell’art. 1358 c. c. (che era poi la norma sulla quale il lodo arbitrale si era basato).
La Corte di merito non avrebbe ritenuto applicabile detta norma estendendo la ratio che l’aveva portata a considerare inoperante l’art. 1359 c. c., cioè ritenendo priva di conseguenze la violazione dell’obbligo di buona fede da parte del contraente a favore del quale è stabilita una condizione potestativa mista. In altri termini, come in base all’art. 1359 c. c. non sarebbe sanzionabile con la fictio iuris dell’avveramento del fatto la parte che non si attiva per l’attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista, la stessa parte non sarebbe sanzionabile per tale mancata attuazione con la responsabilità risarcitoria prevista dall’art. 1358 c. c.
Questa tesi sarebbe errata e contraria al disposto dell’art. 1358 c. c. e della normativa di correttezza dettata, in particolare, dagli artt. 1175 e 1375 c. c.
L’art. 1358 c. c. sancirebbe una particolare e specifica applicazione del generale principio di correttezza e buona fede in materia contrattuale, senza distinzione di tipo (esclusa la condizione meramente potestativa, che non conferisce all’altra parte alcuna aspettativa tutelabile o coercibile), la cui violazione darebbe luogo ad una responsabilità di tipo contrattuale. Invece l’art. 1359 c. c. presupporrebbe, da un lato, che uno dei contraenti abbia interesse contrario all’avveramento della clausola e, dall’altro, che la conseguenza del comportamento indebito non sia una responsabilità di natura risarcitoria bensì l’attuazione stessa del contratto, come se l’evento si fosse verificato. Non sarebbe dunque corretto, sul piano giuridico, sottoporre le due ipotesi alla identica disciplina, perché quella dettata dall’art. 1359 c. c. avrebbe carattere eccezionale, non suscettibile di applicazione analogica.
Inoltre gli arbitri avrebbero ravvisato a carico del Comune un vero e proprio obbligo, legale e contrattuale, di attivarsi per ottenere un finanziamento che non necessariamente avrebbe dovuto essere contratto con la Cassa DD. e PP., individuando la fonte di tale obbligo, oltre che nella convenzione, anche nella delibera in data 2 ottobre 1987, nella quale l’ente territoriale avrebbe esplicitato il proprio impegno a contrattare un mutuo con la detta Cassa oppure a ricorrere ad altre forme di finanziamento. Gli arbitri, poi, avrebbero dato conto degli elementi alla stregua dei quali l’ente non si sarebbe attivato allo scopo di ottenere il finanziamento per eseguire I’acquedotto progettato dal Ceciarini.
Il giudizio di responsabilita per violazione dell’obbligo di correttezza, di buona fede e di diligenza, espresso dal collegio arbitrale, non sarebbe stato in contrasto con i principi stabiliti dall’art. 1358 c. c. e non avrebbe potuto dar luogo a revisione alcuna nel merito da parte della Corte d’appello (tanto meno allo scopo di valutare la condotta diligente 0 meno del Comune nel richiedere il finanziamento), non sussistendo né errore di diritto né vizio del lodo.
Le suddette censure sono parzialmente fondate, sicché vanno accolte per quanto di ragione, ai sensi delle considerazioni che seguono.
Si deve premettere che, come emerge dall’esposizione dei fatti contenuta nel ricorso per cassazione (in particolare, v. pag. 3), ed anche nel controricorso (in particolare, v. pag. 3, punto 5), il collegio arbitrale ritenne “non configurabile la fattispecie di cui all’art. 1359 c. c. (stante l’interesse di entrambe le parti all’avveramento della condizione dell’avvenuto finanziamento dell’opera)”, cioè negò “che la condizione possa dirsi avverata ai sensi dell’art. 1359 c. c.” (controricorso, loc. cit.). Il lodo, quindi, escluse I’applicabilita dell’art. 1359 c.c., attinente all’avveramento della condizione per il comportamento della parte avente interesse contrario a tale avveramento, sicché il presunto errore di diritto individuato dalla Corte di appello con riguardo a tale norma in realta non sussiste.
L’attuale ricorrente, invece, ritiene la norma medesima applicabile alla fattispecie qdeu a, lamentando che la Corte territoriale abbia del tutto ignorato il terzo motivo dell’impugnazione incidentale avverso il lodo proposta dal medesimo Ceciarini e diretta a porre in evidenza gli elementi a suo avviso idonei a configurare un interesse (sopravvenuto) del Comune contrario all’avveramento della condizione.
La sentenza impugnata però non ha esaminato questo punto, ritenendolo assorbito sull’erroneo presupposto che gli arbitri avessero applicato l’art. 1359 c. c. e che anche ciò comportasse la nullità del lodo per errore di diritto. Ne deriva che, verificata l’erroneità di tale pronuncia, le censure mosse sul punto dall’attuale ricorrente, che postulano accertamenti di fatto (sul contenuto della clausola contenente la condizione nel contesto dell’intera convenzione, nonché sul comportamento delle parti) non compatibili col giudizio di legittimità, sono inammissibili in questa sede e restano affidate — per i profili di rito e di merito — al giudice del rinvio, se ed in quanto davanti al medesimo riproposte.
Restano da esaminare le censure imperniate sul disposto dell’art. 1358 c. c., che sono fondate nei sensi in prosieguo indicati.
La sentenza impugnata, con il solo riferimento alle massime estratte da due pronunzie di questa Corte (n. 10220 del 1996 e n. 11074 [ recte: 10074] del 1996), relative peraltro al solo art. 1359 c. c., ha escluso I”applicabilita alla fattispecie anche del detto art. 1358, pervenendo su tale base a dichiarare la nullita del lodo per asserito errore di diritto. Quest’ultima norma stabilisce, nello stato di pendenza della condizione, il dovere di ciascuna parte di comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte.
Come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, in tema di esecuzione del contratto la buona fede (in senso oggettivo) si atteggia come un impegno di cooperazione o un obbligo di solidarietà che impone a ciascun contraente di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali o dal dovere extracontrattuale del neminem laedere siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte senza
rappresentare un apprezzabile sacrificio (Cass., 20 aprile 1994, n. 3775). Si tratta di un principio generale che, ad avviso del collegio, deve trovare applicazione anche nel quadro dell’art. 1358 c. c., sia pure con le precisazioni che seguono.
La clausola negoziale in esame nella presente controversia, come già sopra si è notato, integra una condizione potestativa mista, tale essendo quella il cui avveramento dipende in parte dal caso o dalla volonta di terzi, in parte dalla volonta di uno dei contraenti (v. la giurisprudenza prima citata). E non si può dubitare che, nella specie, la concessione del finanziamento dipendesse in parte dall’iniziativa del Comune (contraente della convenzione d’incarico professionale) e in parte dalla volonta del soggetto o dei soggetti che dovevano erogare il detto finanziamento.
Nella giurisprudenza piu recente si ¢ manifestato un orientamento diretto ad affermare che il contratto sottoposto a condizione mista soggiace alla disciplina dell’art. 1358 c. c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione, con il limite che I’omissione di un’attivitd in tanto pud ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico (Cass., n. 14198 del 2004; n. 6423 del 2003).
Tuttavia la seconda delle sentenze citate aggiunge che un siffatto obbligo comunque non sarebbe configurabile per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo della condizione mista (richiamandosi alla precedente sentenza di questa Corte 5 gennaio 1983, n. 9; ma v. anche Cass. n. 10074 del 1996, richiamata nella pronuncia impugnata). La prima, invece, afferma la sussistenza del detto obbligo anche per il segmento non casuale della condizione mista in quanto gli obblighi di correttezza e di buona fede, che hanno la funzione di salvaguardare l’interesse della controparte alla prestazione dovuta e all’utilitd che essa assicura, impongono una serie di comportamenti che assumono la consistenza di “standards” integrativi dei principi generali e sono individuabili mediante un giudizio applicativo di norme elastiche (giudizio soggetto al controllo di legittimita al pari di ogni altro giudizio fondato su norme di legge).
Il collegio ritiene di dover condividere quest’ultimo orientamento, alla stregua delle considerazioni che seguono.
L’art. 1358 c. c. dispone che “colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte”. La norma s’inserisce nell’ambito applicativo della clausola generale della buona fede, operante nel diritto dei contratti sia in sede di trattative e di formazione del contratto medesimo (art. 1337 c. c.), sia in sede d’interpretazione (art. 1366 c. c. ), sia in sede di esecuzione (art. 1375 c. c.).
La fonte dell’obbligo giuridico qdeu o, dunque, si trova appunto nel citato art. 1358, che lo stabilisce al fine di “conservare integre le ragioni dell’altra parte” e dunque gli attribuisce un chiaro carattere doveroso. Né convince la tesi secondo cui tale obbligo andrebbe escluso per il profilo attuativo dell’elemento potestativo della condizione mista.
Invero, il principio di buona fede (intesa, questa, nel senso sopra chiarito come requisito della condotta) costituisce ad un tempo criterio di valutazione e limite anche del comportamento discrezionale del contraente dalla cui volontà dipende (in parte) l’avveramento della condizione. Tale comportamento non può essere considerato privo di ogni carattere doveroso, sia perché — se così fosse — finirebbe per risolversi in una forma di mero arbitrio, contrario al dettato dell’art. 1355 c. c., sia perché aderendo a tale indirizzo si verrebbe ad introdurre nel precetto dell’art. 1358 una restrizione che questo non prevede e che, anzi, condurrebbe ad un sostanziale svuotamento del contenuto della
norma, limitandolo all’elemento casuale della condizione mista, cioè ad un elemento sul quale la condotta della parte (la cui obbligazione è condizionata) ha ridotte possibilità d’incidenza, mentre la posizione giuridica dell’altra parte resterebbe in concreto priva di ogni tutela.
Invece è proprio l’elemento potestativo quello in relazione al quale il dovere di comportarsi secondo buona fede ha più ragion d’essere, perché è con riguardo a quell’elemento che la discrezionalità contrattualmente attribuita alla parte deve essere esercitata nel quadro del principio cardine di correttezza.
Si deve, perciò, affermare che il contratto sottoposto a condizione mista è soggetto alla disciplina dell’art. 1358 c. c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione. E’ vero che l’omissione di un’attività in tanto può costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, ma tale obbligo, in casi come quello in esame, discende direttamente dalla legge e, segnatamente, dall’art. 1358 c. c., che lo impone come requisito della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di un obbligo siffatto va riconosciuta anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista. Pertanto il giudice del merito deve procedere ad un penetrante esame della clausola recante la condizione e del comportamento delle parti, nel contesto del negozio in cui la clausola stessa è contenuta, al fine di verificare, alla stregua degli elementi probatori acquisiti, se corrispondano ad uno standard esigibile di buona fede le iniziative poste in essere al fine di ottenere il finanziamento.
Nel caso in esame in esame la sentenza impugnata non si è conformata ai suddetti principi, escludendo in radice l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 1358 c. c., peraltro con il mero richiamo a due massime estratte da altrettante sentenze di questa Corte, relative alla (non coincidente) ipotesi di cui all’art. 1359 c. c. Pertanto essa deve essere cassata, dovendosi far luogo a nuovo giudizio rescindente, restando quindi assorbitpere ché presuppongono la caducazione del lodo, le (insufficienti ed assertive) considerazioni attinenti alla fase rescissoria, e la causa va rinviata per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Firenze, che si uniformerà ai principi sopra enunciati e provvedera anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
Il secondo mezzo di cassazione, diretto a propugnare la tesi alla stregua delle quale la condizione, in realta, si sarebbe avverata nel quadro dello stesso regolamento contrattuale, in quanto il finanziamento sarebbe intervenuto, rimane a sua volta assorbito ed affidato al giudice del rinvio, se in quella sede riproposto.
P.Q.M.
La Corte suprema di cassazione, pronunziando a sezioni unite, rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie per quanto di ragione il terzo, dichiara assorbito il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte di appello di Firenze.
Cosi deciso in Roma, il 19 maggio 2005, nella camera di consiglio delle sezioni unite civili della Corte suprema di cassazione.
Il consigliere est.
Il Presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 05 giugno 2004, n. 10739, per SS.UU, 19 settembre 2005, n. 18450, in tema di compenso professionale
SS.UU, 19 settembre 2005, n. 18450, in tema di compenso professionale
In tema di responsabilità degli intermediari finanziari – SS.UU, 12 aprile 2024, n. 9956
Civile Ord. Sez. U Num. 9956 Anno 2024
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 12/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 228/2023 R.G. proposto da:
ROSSI GIANCARLA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA R. ZANDONAI 55, presso lo studio dell’avvocato PINELLI MARIO, rappresentata e difesa dall’avvocato LEONARDI RICCARDO
-ricorrente-
contro
SCOCCO BRUNO, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA DI VILLA CARPEGNA, 43, presso lo studio dell’avvocato GREGORIS MARCO, rappresentato e difeso dall’avvocato FORMICA DOMENICO
-controricorrente-
Avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ANCONA n. 1329/2022 depositata il 20/10/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30/01/2024 dal Consigliere ANTONIO SCARPA.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Giancarla Rossi ha proposto ricorso articolato in due motivi avverso la sentenza n. 1329/2022 della Corte d’appello di Ancona, pubblicata il 20 ottobre 2022.
Resiste con controricorso Bruno Scocco.
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma dell’art. 380-bis.1, c.p.c.
La ricorrente ha depositato memoria.
2. La Corte d’appello di Ancona ha rigettato l’appello proposto da Giancarla Rossi, in proprio e quale erede di Enzo Baglioni, e da Giorgia Baglioni, quale erede di Enzo Baglioni, avverso la sentenza del Tribunale di Pesaro n. 602/2017 del 13 settembre 2017, che aveva dichiarato il difetto della giurisdizione del giudice italiano in favore di quello della Confederazione Svizzera sulla domanda avanzata da Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni nei confronti di Bruno Scocco e della Clerical Medical Italia s.r.l. con citazione del 22 aprile 2013.
3. La domanda di Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni era volta all’‹‹accertamento della responsabilità extra contrattuale›› di Bruno Scocco per i fatti esposti in citazione ed alla conseguente condanna risarcitoria, nonché, ‹‹previo accertamento della responsabilità›› di Bruno Scocco e della Clerical Medical Italia s.r.l. sempre per i fatti esposti, a ‹‹dichiarare la nullità delle polizze n. 2312609T, 2313674 e 2323399D e condannare i predetti ex art. 2055 c.c. al pagamento della somma di € 350.000,00 di cui € 208.874,13 a titolo di danno patrimoniale ed il residuo a titolo di danno non patrimoniale, o in quella diversa maggiore o minore ….››. In via subordinata, le attrici chiedevano di accertare l’‹‹inadempimento contrattuale›› imputabile a Bruno Scocco e alla Clerical Medical Italia s.r.l., con condanna risarcitoria di entrambi ex art. 2055 c.c.
All’udienza del 10 luglio 2014 gli attori dichiararono di rinunciare alla domanda proposta nei confronti della Clerical Medical Italia s.r.l.
3.1. I fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, culminante nelle predette conclusioni, concernevano la sottoscrizione di polizze assicurative da parte di Giancarla Rossi e del defunto coniuge Enzo Baglioni, a far tempo dal dicembre 1998. Tali investimenti, a dire delle attrici, erano stati proposti ai coniugi Rossi e Baglioni da Bruno Scocco e da un terzo, i quali li avevano rassicurati sulla redditività delle operazioni e sulla carenza di rischi. I contatti tra le parti si sarebbero svolti dapprima presso i domicili degli investitori, mentre poi gli stessi avrebbero aperto un conto corrente presso la Filiale della UBS di Lugano. Le operazioni erano descritte come avvenute mediante consegna ad opera dei coniugi Rossi e Baglioni di denaro contante ammontante alla cifra complessiva di € 309.874,13, in relazione alle polizze n. 2312609T, 2313674 e 2323399D. Trascorsi alcuni anni, Giancarla Rossi aveva tuttavia appurato che di tali somme investite col coniuge erano residuati solo circa € 101.000,00. Fu dato corso anche ad un procedimento penale, nel corso del quale venne accertato che gli investimenti eseguiti consistevano in prodotti finanziari, e non in polizze assicurative, e che lo Scocco aveva svolto abusivamente l’attività di promotore finanziario. La citazione lamentava, allora, che Bruno Scocco avesse ‹‹omesso di riferire, alla sig.ra Rossi ed al coniuge Baglioni, in merito agli elementi costitutivi del prodotto finanziario››, non ‹‹consegnato, al momento della proposta dell’investimento, la nota informativa o prospetto informativo obbligatorio per legge ex art. 94 D.lgs. 58/98››, ‹‹esposto notizie non veritiere in relazione alla titolarità ed agli obblighi relativi al capitale di debito›› ed infine ‹‹collocato sul mercato prodotti finanziari non risultando iscritto nell’apposito albo››, così ravvisandone la ‹‹responsabilità contrattuale per inosservanza degli obblighi prescritti dal decreto legislativo 58/98, dagli art. 1337, 1375, 1775 e 1776 c.c. e contenuti nel Regolamento Consob n. 11522/1998, comportante la nullità dei contratti››.
Il convenuto Bruno Scocco oppose di non aver mai avuto rapporti di natura contrattuale e di non aver mai effettuato operazioni di intermediazione finanziaria con Enzo Baglioni e Giancarla Rossi, essendosi limitato a prestare in favore di quest’ultima una attività di consulenza relativa all’apertura di un conto corrente, da parte dei coniugi Baglioni, presso un istituto di credito svizzero e ad un prestito di € 62.000,00 da lui fatto in favore della Rossi.
3.2. L’adito Tribunale di Pesaro, con sentenza n. 602/2017 del 13 settembre 2017, dichiarò il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana, per essere la controversia riservata all’autorità giudiziaria della Svizzera, alla stregua dell’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968, argomentando dalla natura extracontrattuale dell’azione esperita da Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni, in quanto dagli atti di causa non sarebbe emersa “la sussistenza di alcun rapporto obbligatorio tra parte attrice ed il convenuto, giacché (in ragione dell’inidoneità probatoria della documentazione prodotta da parte attrice) non sono state prodotte le polizze che la Rossi sostiene di aver sottoscritto con lo Scocco e neanche le copie degli investimenti fatti dai coniugi Baglioni e dalla Rossi personalmente né risulta provata l’attività di intermediazione finanziaria che lo Scocco avrebbe posto in essere in favore di parte attrice”. La sentenza di primo grado aggiungeva che “[a] prescindere dalla documentazione riferita alla Clerical Medical, dagli atti di causa non emerge dunque alcuna riferibilità allo Scocco degli stessi documenti, rilevato che non appare dimostrata la sottoscrizione delle polizze da parte della Rossi per tramite dello Scocco né può dirsi provato che lo stesso abbia ingannato la medesima a tal fine, cosi come carente di prova appare il nesso di causalità tra il danno asseritamente subìto ed il comportamento dello Scocco”. Il Tribunale di Pesaro aggiungeva che, dovendosi perciò aver riguardo ai fini della giurisdizione al luogo in cui l’evento dannoso era avvenuto, assumevano rilievo: “- la gestione delle “fantomatiche” polizze dalla Pro Trust, società con sede in Svizzera; – il versamento del denaro in un istituto di credito di Lugano e relativo investimento in Svizzera; – i rapporti diretti tra la Baglioni con soggetti svizzeri (cfr. la corrispondenza diretta con la HBV Luxembourg e la Pro Trust); – i contatti diretti tra le parti avvenuti solo in Svizzera e nell’occasione dell’apertura del c/c bancario svizzero”.
3.3. Sul gravame proposto da Giancarla Rossi e da Giorgia Baglioni nei confronti di Bruno Scocco, la Corte d’appello di Ancona ha confermato la declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice italiano, rilevando come Bruno Scocco fosse residente in Svizzera e come, trattandosi di un illecito extracontrattuale, trovasse applicazione il criterio di individuazione della giurisdizione fissato dall’articolo 7, n. 2, del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012. La Corte di Ancona ha sostenuto che la natura extracontrattuale dell’azione esperita dalle attrici “discende dal fatto che dagli atti di causa non emerge la sussistenza di alcun rapporto obbligatorio tra parte attrice e convenuto”, mancando prova del “titolo” della responsabilità contrattuale, non essendo state prodotte “le polizze che parte attrice sostiene di aver sottoscritto e, dall’altro, la documentazione prodotta deve considerarsi inidonea al fine probatorio”. Pertanto, ha concluso la sentenza impugnata, “la giurisdizione non può che ritenersi delle autorità giurisdizionali svizzere, posto che la condotta che si assume essere stata pregiudizievole si è verificata nel territorio svizzero dove sono state sottoscritte le polizze ed effettuati gli investimenti mediante versamento delle somme presso un istituto di credito svizzero”.
4. Va premesso che il ricorso di Giancarla Rossi non risulta intimato né notificato a Giorgia Baglioni, parte dei pregressi giudizi di merito, quale attrice prima ed appellante poi. Si tratta, comunque, di giudizio a litisconsorzio facoltativo, in cui più attori hanno proposto domande risarcitorie contro lo stesso convenuto, sicché anche il ricorso ex art. 360, comma 1, n. 1, c.p.c. per motivi attinenti alla giurisdizione rientra nell’ipotesi di cui all’art. 332 c.p.c., e non va perciò ordinata la notificazione dell’impugnazione a Giorgia Baglioni, essendo la stessa ormai preclusa.
5. Il primo motivo del ricorso di Giancarla Rossi deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 n. 3 della Convenzione di Lugano 2007, norma che nella specie starebbe a regolare la giurisdizione, ed in relazione alla quale i giudici del merito non avrebbero rilevato che il luogo dove si sono verificate le conseguenze dell’illecito è Pesaro, ove la ricorrente aveva, ed ha, il centro dei propri interessi, ove inoltre è avvenuto il depauperamento del suo patrimonio e si è anche realizzato il danno-evento, ove lo Scocco aveva fraudolentemente rappresentato le operazioni di investimento ed avuto in consegna il denaro, versato dapprima in una banca lussemburghese e poi trasferito a Lugano, ed ove era avvenuta la sottoscrizione delle polizze, di cui era stato allegato il relativo certificato.
Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione e/o falsa applicazione, dell’art. 132 comma 2 n. 4 c.p.c. e dell’art. 111 Cost. per motivazione apparente. La ricorrente evidenzia che in tutti gli atti di causa, ed in particolare nella citazione introduttiva, le attrici avevano affermato che il collocamento e la sottoscrizione delle polizze, come anche la consegna del denaro, erano avvenuti negli incontri avuti con lo Scocco a Pesaro. Tale ricostruzione dei fatti era stata indicata anche nella deduzione della prova per testimoni e per interrogatorio formale. Del pari, la documentazione prodotta avrebbe dimostrato che tutte tali vicende del rapporto oggetto di lite si erano svolte a Pesaro.
6. Il controricorrente Bruno Scocco replica che le censure sono inammissibili, che le attrici “non hanno dato la prova della esposizione fattuale offerta sin dal primo atto”, che i suoi rapporti con le stesse si erano svolti “solamente a Lugano, quando chiesero la di lui consulenza per aprire dei conti correnti in Svizzera” e che mai vi erano stati “rapporti di natura contrattuale”, tanto meno in Italia.
7. Il ricorso, le cui censure vanno esaminate congiuntamente, è fondato nei sensi di cui alla motivazione che segue.
8. Occorre inizialmente considerare che la decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda stessa (art. 386 c.p.c.). Ciò significa che la decisione a rendersi avviene rispetto alla domanda, come individuata nei suoi elementi, e deve perciò ricostruire quale rapporto intercorreva tra le parti, ma ai soli fini di attribuire la giurisdizione, e non anche il diritto che essa afferma esistente.
Così si spiega il consolidato principio secondo cui, in ordine ai motivi attinenti alla giurisdizione ex art. 360, primo comma, n.1, c.p.c., la Corte di cassazione è giudice anche del fatto, cioè conosce dei fatti processuali ed altresì di tutti i fatti dai quali dipenda la soluzione della questione, mediante orientato esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio (ad esempio, tra le tante, Cass. Sez. Unite n. 28332 del 2019).
In particolare, ai fini del riparto della giurisdizione tra il giudice italiano ed il giudice straniero, in applicazione del criterio del “petitum” sostanziale, pur dovendosi prescindere dalle difese del convenuto, che sono invece rilevanti per la decisione di merito, occorre tenere conto delle allegazioni di fatto dell’attore, come anche delle risultanze istruttorie legittimamente acquisite agli atti di causa (Cass. Sez. Unite n. 16296 del 2007; n. 13702 del 2022). Le Sezioni Unite procedono, così, alla qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio sulla base dell’oggetto della domanda e degli accertamenti di fatto che sono loro consentiti, e tale qualificazione rientra nel giudicato che viene a formarsi sulla giurisdizione in forza della decisione raggiunta, ma la questione dell’esistenza o meno del preteso diritto rimane da valutare in sede di merito della controversia.
9. Per la invocata decisione sulla giurisdizione, la domanda di Giancarla Rossi va, dunque, valutata non già in base al criterio cosiddetto della soggettiva prospettazione della domanda (ossia in base alla qualificazione compiutane dall’interessata), ma alla stregua del “petitum” sostanziale individuato dagli elementi oggettivi che caratterizzano la sostanza del rapporto giuridico posto a fondamento delle pretese, ovvero tenendo conto della natura della situazione dedotta e della protezione sostanziale ad essa accordata dall’ordinamento.
Va subito detto che la sentenza impugnata, come prima ancora quella di primo grado, hanno errato nel fondare le loro decisioni non già sulla “prova della giurisdizione”, quanto sulla “prova della pretesa di merito azionata”, affermando che la natura extracontrattuale dell’azione doveva desumersi “dal fatto che dagli atti di causa non emerge la sussistenza di alcun rapporto obbligatorio tra parte attrice e convenuto”, non essendovi prova del “titolo” della responsabilità contrattuale. L’apprezzamento del giudice sulla giurisdizione ed il correlato potere-dovere di qualificazione giuridica del rapporto litigioso devono operarsi in riferimento agli elementi dedotti ed allegati, seppur non ancora effettivamente accertati (Cass. Sez. Unite, n. 4894 del 2006).
9.1. La domanda di Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni (sebbene nelle conclusioni richiedeva in via principale l’‹‹accertamento della responsabilità extra contrattuale›› di Bruno Scocco, nonché di ‹‹dichiarare la nullità delle polizze n. 2312609T, 2313674 e 2323399D››, con condanna al risarcimento dei danni, mentre soltanto in via subordinata chiedeva di accertare l’‹‹inadempimento contrattuale›› imputabile al convenuto), nell’esporre i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della stessa (art. 163, comma 3, n. 4, c.p.c.), narrava che Bruno Scocco aveva proposto ai coniugi Rossi e Baglioni la sottoscrizione di polizze assicurative, rassicurandoli sulla redditività delle operazioni e sulla carenza di rischi. Il contatto tra le parti si era instaurato presso i domicili degli investitori Rossi e Baglioni in Pesaro. In tale luogo era avvenuta la consegna del denaro in contanti, tant’è che gli esibiti ordini di pagamento, rivolti alla UBS di Lugano, risultavano poi sottoscritti dallo Scocco. Lo stesso convenuto Bruno Scocco ha ammesso di aver svolto in favore di Giancarla Rossi una attività di consulenza, seppur soltanto relativa all’apertura di un conto corrente presso un istituto di credito svizzero e ad un prestito. La citazione lamentava che Bruno Scocco avesse ‹‹omesso di riferire, alla sig.ra Rossi ed al coniuge Baglioni, in merito agli elementi costitutivi del prodotto finanziario››, non ‹‹consegnato, al momento della proposta dell’investimento, la nota informativa o prospetto informativo obbligatorio per legge ex art. 94 D.lgs. 58/98››, ‹‹esposto notizie non veritiere in relazione alla titolarità ed agli obblighi relativi al capitale di debito›› ed infine ‹‹collocato sul mercato prodotti finanziari non risultando iscritto nell’apposito albo››, così ravvisandone la ‹‹responsabilità contrattuale per inosservanza degli obblighi prescritti dal decreto legislativo 58/98, dagli art. 1337, 1375, 1775 e 1776 c.c. e contenuti nel Regolamento Consob n. 11522/1998, comportante la nullità dei contratti››.
9.2. Le allegazioni di fatto delle attrici e i documenti esibiti a sostegno del “petitum” sostanziale azionato depongono per la qualificazione di natura contrattuale del rapporto dedotto in giudizio.
La domanda delineava che fra i coniugi Rossi e Baglioni e Bruno Scocco si fosse instaurato un rapporto contrattuale di consulenza finanziaria, avendo quest’ultimo prestato una attività professionale di assistenza ai clienti in materia di investimenti finanziari e poi operato presso un istituto di credito, quale incaricato dei servizi di negoziazione degli ordini. Gli attori avevano lamentato la violazione di norme di comportamento, in particolare di diligenza, correttezza e trasparenza, da parte dello Scocco, che si sarebbero invece dovute osservare nella formazione e nell’esecuzione del contratto, sia per aver indirizzato i clienti verso un prodotto inadatto per il profilo di rischio, sia per non aver consegnato alcun prospetto informativo, sia per non aver loro comunicato le perdite subite. La violazione di questi obblighi dà luogo a responsabilità contrattuale (arg. da Cass. Sez. Unite n. 14939 del 2023).
10. La giurisdizione va valutata facendo applicazione della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007 (ratificata dall’UE con decisione del Consiglio del 27 novembre 2008 ed entrata in vigore nei rapporti con la Confederazione elvetica il 1° gennaio 2011).
Ai sensi dell’art. 5, paragrafo 1, della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007, la persona domiciliata nel territorio di uno Stato vincolato dalla stessa convenzione può essere convenuta in un altro Stato vincolato dalla presente convenzione:
“a) in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita.
b) Ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è:
– nel caso della compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato vincolato dalla presente convenzione, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto;
– nel caso della prestazione di servizi, il luogo, situato in uno Stato vincolato dalla presente convenzione, in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto”.
11. Ne consegue che, con riguardo, come nella specie, ad un contratto concluso in Italia tra un soggetto ivi domiciliato ed un soggetto domiciliato nella Confederazione Svizzera, avente ad oggetto la prestazione da parte di quest’ultimo del servizio di consulenza in materia di investimenti finanziari in favore del cliente domiciliato in Italia, relativa ad una o più operazioni di sottoscrizione di strumenti finanziari, va affermata la giurisdizione del giudice italiano sulla controversia in materia di responsabilità contrattuale per violazione delle norme di comportamento da parte del consulente, in applicazione del criterio di collegamento dettato dell’art. 5, paragrafo 1, lettera b) della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007, facendo, cioè, riferimento al luogo in cui la prestazione del servizio di consulenza è stata o avrebbe dovuto essere eseguita, in rapporto all’obbligo di informazione da fornire al cliente caratterizzante il contratto.
12. Va perciò accolto il ricorso e la sentenza impugnata va cassata, dichiarando la giurisdizione del giudice italiano, e la causa, ai sensi dell’art. 383, comma 3, c.p.c. in relazione all’art. 353 c.p.c., ratione temporis operante, va rimessa al Tribunale di Pesaro, in persona di diverso magistrato, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte accoglie il ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice italiano, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Pesaro, in persona di diverso magistrato, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 12 aprile 2024, n. 9956, in tema di responsabilità degli intermediari finanziari
In tema di interessi legali – SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
OPPOSIZIONE
ESECUZIONE
R.G.N. 16260/2023
Cron.
Rep.
Ud. 26/03/2024
PU
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
e
Fatti di causa
- Cordusio Società Fiduciaria per Azioni propose innanzi al Tribunale di Milano opposizione al precetto, notificato sulla base di sentenza emessa dal medesimo Tribunale, per il pagamento della somma di 116.819,15, oltre agli interessi maturandi sulla sorte capitale, denunciando l’erroneo calcolo degli interessi di mora dal momento in cui era stata proposta la domanda giudiziale, nonostante il titolo esecutivo giudiziale non recasse la condanna al pagamento degli stessi con la decorrenza indicata (né vi era stata domanda in tal senso) ed il credito riconosciuto dal titolo giudiziale escludesse l’applicazione dell’art. 1284, comma 4, cod. , trattandosi di credito risarcitorio ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. Aggiunse che il giudice dell’esecuzione non poteva integrare il titolo esecutivo giudiziale della previsione mancante circa gli interessi.
- Con ordinanza di data 25 luglio 2023, il Tribunale adito ha disposto rinvio pregiudiziale degli atti ai sensi dell’art. 363 bis proc. civ. per la risoluzione della seguente questione di diritto: «se in tema di esecuzione forzata – anche solo minacciata – fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore, limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di “interessi legali” o “di legge” ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si debbano ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284 primo comma c.c. o – a partire dalla data di proposizione della domanda – possano ritenersi liquidati quelli di cui al quarto comma del predetto articolo».
- Con decreto di data 18 settembre 2023, la Prima Presidente ha assegnato la questione alle Sezioni Unite per l’enunciazione del principio di diritto.
Il Pubblico Ministero ha depositato la requisitoria scritta, concludendo nei termini che gli interessi di cui all’art. 1284, comma 4, cod. civ. devono ritenersi computati dalla data di proposizione della domanda giudiziale fino al soddisfo. E’ stata depositata memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
- La questione di diritto, assegnata a queste Sezioni unite a seguito di rinvio pregiudiziale disposto dal giudice del merito ai sensi dell’art. 363 bis proc. civ., è se la mera previsione degli «interessi legali» nella pronuncia di condanna da parte del giudice della cognizione, possa essere interpretata, per la parte di interessi decorrenti dopo il momento della proposizione della domanda giudiziale, nei termini del saggio di interessi previsto dal comma quarto dell’art. 1284 cod. civ., oppure se, per l’assenza di specificazioni nella decisione, il saggio degli interessi debba restare limitato a quello previsto dal primo comma della medesima disposizione.
Preliminare è il tema dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale, tema trattato anche dal Pubblico Ministero, alla luce del fatto che trattasi di questione già affrontata dalla giurisprudenza di questa Corte. L’assegnazione della questione da parte della Prima Presidente per l’enunciazione del principio di diritto non preclude la valutazione di ammissibilità del rinvio pregiudiziale da parte del Collegio investito della decisione, secondo quanto emerge dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite (cfr. Cass. Sez. U. 13 dicembre 2023, n. 34851).
Secondo un indirizzo emerso in questa Corte, in presenza di esecuzione forzata fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi che ha comminato, limitandosi alla generica qualificazione degli stessi in termini di «interessi legali» o «di legge», si devono ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284, comma 1, in ragione della portata generale di questa disposizione, rispetto alla quale le altre ipotesi di interessi previste dalla legge hanno natura speciale, atteso che l’applicazione di una qualsiasi delle varie ipotesi di interessi legali, diversi da quelli previsti dalla disposizione citata, presuppone l’avvenuto accertamento degli elementi costitutivi della relativa fattispecie speciale, ed ove dal titolo non emerga un siffatto accertamento non è consentita l’integrazione in sede esecutiva, ma è esperibile soltanto il rimedio dell’impugnazione (Cass. 27 settembre 2017, n. 22457). Trattasi di opzione ermeneutica che risulta condivisa da una serie di pronunce delle sezioni semplici di questa Corte (Cass. 23 aprile 2020, n. 8128; 25 luglio 2022, n. 23125; 14 luglio 2023, n. 20273; 4 agosto 2023, n. 23846). La particolarità dell’indirizzo in esame è che esso è sorto in relazione al rapporto fra il primo comma dell’art. 1284 e la legge speciale (d. lgs. n. 231 del 2002), ma non con riferimento alla relazione fra il primo ed il quarto comma dell’art. 1284, salvo la pronuncia più recente (Cass. n. 23846 del 2023), la quale si è limitata puramente e semplicemente ad affermare che il tasso che trova applicazione è quello del primo comma.
Vi è tuttavia un altro indirizzo, soggiacente una serie di pronunce della Corte (essenzialmente della Sezione lavoro), non emerso al livello di principio di diritto, secondo cui la formula dei commi 4 e 5 dell’art. 1284 è chiara nel predeterminare la misura degli interessi legali, nel caso in cui il credito venga riconosciuto da una sentenza a seguito di un giudizio anche arbitrale, senza necessità di apposita precisazione del loro saggio in sentenza (Cass. 20 gennaio 2021, n. 943; 23 settembre 2020, n. 19906; 12 novembre 2019, n. 9212; 25 marzo 2019, n. 8289; 7 novembre 2018, n. 28409). In relazione ad impugnazioni che denunciavano l’omesso riconoscimento, da parte del giudice del merito, degli interessi legali di cui al quarto comma, si è risposto che il provvedimento doveva ritenersi integrato da quest’ultima previsione.
La formazione del primo indirizzo in un contesto normativo nel quale non veniva in rilievo il comma quarto dell’art. 1284, ma soltanto la legge speciale, da una parte, ed il contrasto latente fra i due orientamenti, dall’altra, inducono a far concludere nel senso dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale. L’art. 363 bis, comma 1, prevede quale condizione di ammissibilità del rinvio, fra l’altro, che la questione non sia stata ancora «risolta» dalla Corte di Cassazione. E’ significativa la differenza di formulazione fra la disposizione del codice processuale e la previsione della legge delega, che parlava di questione di diritto non «ancora affrontata dalla Corte di Cassazione». Ai fini dell’ammissibilità del rinvio è perciò ora necessario che la questione, pur affrontata dalla Corte, non sia stata dalla stessa ancora risolta.
La mancata risoluzione emerge, nel presente caso, sulla base del concorso dei due profili sopra evidenziati: la formazione di un indirizzo di legittimità sulla base di un contesto normativo non direttamente ed immediatamente riconducibile alla norma oggetto di interpretazione in sede di rinvio pregiudiziale – ossia la legge speciale, la cui applicabilità, si noti, non è condizionata dalla domanda giudiziale, come per il quarto comma dell’art. 1284, ma da un presupposto sostanziale – e la presenza di una latente divergenza di valutazioni fra sezioni della Corte. Dal punto di vista della funzione dell’istituto del rinvio pregiudiziale, che deve consentire al giudice di merito di concludere nel senso di una questione già risolta dalla Corte di Cassazione, il concorso dei due profili evidenziati esclude che ad una tale conclusione possa pervenirsi. Ricorre pertanto la condizione di ammissibilità di cui al n. 1 dell’art. 363 bis, unitamente alle ulteriori condizioni già valutate dal provvedimento presidenziale.
- Alla trattazione della questione di diritto deve essere premesso il richiamo dell’intera disposizione di cui all’art. 1284 (“Saggio degli interessi”):
«1. Il saggio degli interessi legali è determinato in misura pari al 5 per cento in ragione d’anno. Il Ministro del tesoro, con proprio decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana non oltre il 15 dicembre dell’anno precedente a quello cui il saggio si riferisce, può modificarne annualmente la misura, sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell’anno. Qualora entro il 15 dicembre non sia fissata una nuova misura del saggio, questo rimane invariato per l’anno successivo.
2. Allo stesso saggio si computano gli interessi convenzionali, se le parti non ne hanno determinato la
3. Gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto; altrimenti sono dovuti nella misura
4. Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni
5. La disposizione del quarto comma si applica anche all’atto con cui si promuove il procedimento arbitrale».
L’evidenza della questione di diritto risiede nel fatto che il giudice dell’esecuzione, al cospetto del titolo esecutivo giudiziale, non ha poteri di cognizione, ma deve limitarsi a dare attuazione al comando contenuto nel titolo esecutivo medesimo, mediante un’attività che ha, sul punto, natura rigorosamente esecutiva. Si tratta pertanto di attività di interpretazione (latu sensu, perché svolta in sede esecutiva), e non di integrazione, in quanto volta ad estrarre il contenuto precettivo già incluso nel titolo esecutivo ed in funzione non di risoluzione di controversia, e cioè cognitiva in senso stretto, ma di esecuzione del comando disposto dal titolo. Se dunque il richiamo agli “interessi legali” nel titolo esecutivo giudiziale possa avere – dopo la proposizione della domanda – la valenza del saggio previsto per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, è questione che attiene a ciò che deve intendersi già incluso nel titolo esecutivo, senza che il suo riconoscimento da parte del giudice dell’esecuzione possa avere una valenza integrativa derivante da cognizione. Si tratta di un potere, in definitiva, che non è di accertamento (cognizione) in senso proprio, ma di precisazione dell’oggetto del titolo esecutivo, allo scopo di dare attuazione al relativo comando. Come ricorda Cass. Sez. U. 6 aprile 2023, n. 9479, la distinzione fra il piano della cognizione e quello dell’esecuzione comporta che i poteri cognitivi riconosciuti dal codice di rito al giudice dell’esecuzione sono, comunque, funzionali all’espletamento dell’esecuzione stessa. La questione posta attiene, così, rigorosamente al profilo di identificazione del contenuto del titolo esecutivo giudiziale in funzione della sua esecuzione.
- La premessa da cui partire, per la risoluzione della questione di diritto, è che il quarto comma dell’art. 1284 non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi (cui la legge collega la relativa misura), ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono per una parte certamente rinvenibili in quelli cui la legge in generale collega l’effetto della spettanza degli interessi legali, ma per l’altra è integrata da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale. Entro tali limiti, viene a stabilirsi una soluzione di continuità fra la fattispecie costitutiva dell’effetto della spettanza degli interessi legali in generale e quella degli interessi legali contemplati dal quarto comma dell’art. 1284.
La relativa autonomia della fattispecie produttiva dei c.d. super-interessi (relativa perché contenente ulteriori elementi di specificazione), rispetto a quella produttiva degli ordinari effetti legali, fa sì che uno dei diversi profili oggetto di accertamento giurisdizionale, a seguito della introduzione della controversia con la deduzione in giudizio di un determinato rapporto giuridico, sia anche quello della ricorrenza dei presupposti applicativi dell’art. 1284, comma 4. Con la domanda giudiziale insorge una controversia ed è parte di questa controversia anche la spettanza, dopo la domanda giudiziale, del saggio degli interessi legali previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La controversia, sul punto, per il generale obbligo del giudice di provvedere sulla domanda, deve essere risolta con uno specifico accertamento giurisdizionale.
La necessità della risoluzione di questa specifica controversia, nell’ambito del complessivo rapporto dedotto in giudizio, è la conseguenza, come si è appena detto, della relativa autonomia della fattispecie costitutiva della spettanza dei c.d. super-interessi rispetto a quella produttiva degli ordinari interessi legali, il cui saggio è previsto dal primo comma dell’art. 1284. L’attenzione va così rivolta alla varietà dei presupposti applicativi degli interessi maggiorati che deve essere oggetto dell’attività di accertamento del giudice della cognizione, il quale emetterà il titolo esecutivo. Fra i presupposti applicativi che possono emergere, se ne possono qui enumerare i seguenti.
In primo luogo, la natura della fonte dell’obbligazione, la quale, in base all’art. 1173 cod. civ., può essere la più varia. Vengono in rilievo la generale distinzione fra obbligazioni contrattuali ed obbligazioni derivanti da responsabilità extracontrattuale e l’area dei crediti di lavoro (con la specifica disciplina di cui all’art. 429, comma 3, cod. civ.), ma anche, a titolo soltanto esemplificativo, una congerie di crediti, quali quelli in materia di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo di cui alla legge n. 89 del 2001, i crediti per gli alimenti (dovuti, in base all’art. 445 cod. civ., proprio dal giorno della domanda giudiziale) ed in generale i crediti derivanti da obblighi familiari, nonché, in questo quadro, i crediti non preesistenti al processo, tutti crediti, questi ultimi, per i quali può indubbiamente essere controversa la spettanza degli interessi in questione. Che l’obbligazione dedotta in giudizio, e destinata ad entrare nel titolo esecutivo giudiziale, sia suscettibile di produrre i super-interessi, in relazione a ciascuna delle tipologie di obbligazioni sommariamente indicate, deve essere oggetto di specifico accertamento da parte del giudice della cognizione, il che implica anche la compiuta qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio.
Vi è poi da accertare se vi sia una (valida ed efficace) determinazione contrattuale della misura degli interessi, prevista dall’art. 1284, comma 4, quale circostanza la cui esistenza impedisce la produzione degli interessi nella misura prevista dalla legge speciale richiamata. Ulteriore profilo meritevole di accertamento potrebbe essere quello dell’identificazione della domanda giudiziale, quale momento rilevante per la decorrenza degli interessi legali in discorso. Se non vi sono dubbi circa la rilevanza della data di notifica dell’atto di citazione o del deposito del ricorso introduttivo, può essere controverso se l’epoca della domanda giudiziale debba risalire ad una domanda cautelare, quale l’istanza di sequestro conservativo di cui all’art. 671 cod. proc. civ. o di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art. 696 bis cod. proc. civ.), ma si pensi anche alla domanda di accertamento tecnico preventivo obbligatorio di cui all’art. 445 bis cod. proc. civ.. Potrebbe, ancora, essere oggetto di controversia, ad esempio, se i super-interessi spettino durante lo svolgimento del procedimento di mediazione, ai sensi del d. lgs. n. 28 del 2010, introdotto dopo la domanda giudiziale per il mancato previo esperimento da parte del creditore.
Si tratta, in definitiva, di svolgere l’accertamento, propriamente giurisdizionale, di corrispondenza della fattispecie concreta a quella astratta di spettanza degli interessi maggiorati. Il giudizio sussuntivo, risolutivo sul punto della controversia, ricade nell’attività di cognizione, che fonda il titolo esecutivo giudiziale e che deve essere necessariamente svolta ai fini del provvedimento da emettere sulla domanda.
L’esigenza di cognizione dei presupposti applicativi della misura degli interessi previsti dal quarto comma dell’art. 1284 comporta che il titolo esecutivo giudiziale contenga l’accertamento di spettanza degli interessi legali nella misura indicata. Dal punto di vista del giudice dell’esecuzione, la mera previsione, nel dispositivo e/o nella motivazione del titolo esecutivo, degli “interessi legali” è inidonea ad integrare il detto accertamento, in ragione della evidenziata autonomia relativa della fattispecie produttiva degli interessi maggiorati rispetto alla ordinaria produzione degli interessi legali. Si tratta, come si è ormai più volte detto, di una fattispecie (relativamente) autonoma, che cade nella controversia da risolvere e rispetto alla quale l’accertamento, suscettibile di diventare cosa giudicata, deve essere specificatamente svolto.
Se il titolo esecutivo è silente, il creditore non può conseguire in sede di esecuzione forzata il pagamento degli interessi maggiorati, stante il divieto per il giudice dell’esecuzione di integrare il titolo, ma deve affidarsi al rimedio impugnatorio. Il titolo esecutivo giudiziale, nel dispositivo e/o nella motivazione, alla luce del principio di necessaria integrazione di dispositivo e motivazione ai fini dell’interpretazione della portata del titolo, deve così contenere la previsione della spettanza degli interessi maggiorati.
- Va in conclusione enunciato il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
- Va disposta la restituzione degli atti al Tribunale di Milano, anche per la regolamentazione delle spese per l’attività difensiva svolta nella presente sede.
P. Q. M.
La Corte, a Sezioni Unite, pronunciando sul rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363 bis cod. proc. civ, disposto dal Tribunale di Milano con ordinanza di data 25 luglio 2023, enuncia il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
Spese al merito.
Dispone la restituzione degli atti al Tribunale di Milano.
Così deciso in Roma il giorno 26 marzo 2024
Il consigliere estensore
Dott. Enrico Scoditti
Il Presidente
Dott. Pasquale D’Ascola
Allegati:
Decreto, 18 settembre 2023, per SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449, in tema di interessi legali
SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449, in tema di interessi legali
In tema di fallimento – SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337
Civile Sent. Sez. U Num. 7337 Anno 2024
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO
Data pubblicazione: 19/03/2024
FALLIMENTO
preliminare di
vendita
immobiliare –
prima casa –
subentro del
curatore –
cancellazione
di gravami –
art. 108 l.f. –
R.G.N. 7704/2021
Cron. Rep.
Ud. 12/12/2023
PU
SENTENZA
sul ricorso 7704-2021 proposto da:
LEVITICUS SPV S.R.L., CF LIBERTY SERVICING S.P.A., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI 7, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO SILVETTI, rappresentate e difese dagli avvocati EDOARDO STAUNOVO POLACCO e GIORGIO TARZIA;
– ricorrenti –
contro
FALLIMENTO GLI ARTIGIANI SOC. COOP. EDILIZIA S.C. A R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 19, presso lo studio dell’avvocato LUCA IACOPINI, rappresentata e difesa dall’avvocato BARBARA ROVATI;
DE ANGELIS LUCA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell’avvocato PAOLA PETRILLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA FOLCO;
– controricorrenti –
avverso il decreto del TRIBUNALE di MONZA emesso il 13/01/2021 (r.g. 136-2018).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/12/2023 dal Consigliere FRANCESCO TERRUSI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Edoardo Staunovo Polacco, Giorgio Tarzia, Paola Petrilli e Barbara Rovati.
Fatti di causa
La Leviticus SPV s.r.l. propose reclamo contro il decreto col quale il giudice delegato al fallimento de Gli Artigiani soc. coop. edilizia in liquidazione, dopo aver autorizzato il curatore a subentrare in un contratto preliminare di assegnazione in proprietà della porzione di un immobile a un socio, Luca De Angelis, aveva disposto la cancellazione dei gravami insistenti sul bene. Tra i detti gravami era compresa un’ipoteca iscritta in data 30-10-2006 a favore della Banca popolare di Milano, la quale prima del fallimento aveva promosso l’azione esecutiva a mezzo di pignoramento trascritto il 17-7-2018. La Leviticus si era resa cessionaria del credito garantito.
Nel proporre il reclamo la cessionaria evidenziò che il contratto preliminare era stato trascritto in data anteriore al fallimento e che il prezzo dovuto dal promissario acquirente era stato già interamente versato alla società cooperativa, sempre in epoca anteriore alla sentenza dichiarativa. Sostenne che alla fattispecie non fosse applicabile l’art. 108, secondo comma, legge fall., essendosi trattato di un mero subentro ex lege del curatore nel contratto preliminare (trascritto) di un immobile destinato a costituire abitazione principale dell’acquirente, e quindi non di una vendita forzata bensì di un atto consequenziale al preliminare, di natura totalmente privatistica.
L’adito tribunale di Monza ha respinto il reclamo, e per motivare la decisione ha osservato che secondo l’orientamento evinto da una sentenza di questa Corte (Cass. Sez. 1 n. 3310-17) la vendita ex art. 72, ultimo comma, legge fall., sebbene attuata con forme privatistiche, rimane una vendita fallimentare. E questo perché la vendita avviene comunque coattivamente, ossia a prescindere dalla volontà del titolare del diritto sul bene (l’impresa fallita), e all’interno di un procedimento di liquidazione concorsuale mediante un atto del curatore, soggetto rappresentante la massa dei creditori e lo stesso fallito.
Richiamando un conforme indirizzo di merito, il tribunale di Monza ha evidenziato che l’unica differenza rispetto agli altri atti di liquidazione fallimentare risiede, in tal caso, nel fatto che la scelta su come liquidare il bene è compiuta direttamente dal legislatore. Il quale ha inteso accordare al promissario acquirente della casa di abitazione una tutela privilegiata, facendo prevalere il suo diritto alla stipula del contratto definitivo sul diritto alla migliore soddisfazione economica delle ragioni del creditore ipotecario. Sicché invece l’accoglimento della diversa tesi della società reclamante avrebbe determinato un’abrogazione di fatto della tutela riconosciuta dall’art. 72 legge fall.
Il tribunale ha infine ritenuto non ostativo il diverso principio espresso da altra più recente decisione di questa Corte (Cass. Sez. 1 n. 23139-20), in quanto relativo alla fattispecie del concordato, e ha richiamato a ulteriore supporto della propria tesi la disciplina introdotta dall’art. 173, quarto comma, del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (breviter CCII), per la quale spetta al giudice delegato la potestà di cancellare, per l’appunto, le ipoteche gravanti sull’immobile venduto al promissario acquirente dal curatore subentrato nel contratto preliminare salva l’inopponibilità della metà degli acconti già versati.
La Leviticus SPV, tramite la mandataria CF Liberty Servicing s.p.a., ha proposto ricorso per cassazione contro il decreto del tribunale di Monza, deducendo un solo motivo.
Il Fallimento e il De Angelis hanno resistito con distinti controricorsi.
Le parti hanno depositato memorie.
La causa è stata chiamata in adunanza camerale dinanzi alla Prima sezione civile.
La Prima sezione, con ordinanza interlocutoria n. 16166 del 2023, dopo aver ritenuto il ricorso ammissibile perché proposto contro un provvedimento di natura decisoria in tema di cancellazione delle ipoteche, ai sensi dell’art. 108, secondo comma, legge fall. (v. già Cass. Sez. 1 n. 30454-19, Cass. Sez. 1 n. 3310-17), ha disposto la rimessione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Ha rilevato che si è dinanzi a una questione di massima di particolare importanza, molto dibattuta e oggetto di contrasto, integrata dall’interrogativo se l’art. 108, secondo comma, legge fall. sia o meno applicabile anche alla vendita attuata non all’esito di una procedura competitiva pubblicizzata e svoltasi sulla base di valori di stima, ma in forma contrattuale, in adempimento di un contratto preliminare in cui il curatore sia subentrato ex lege in applicazione del disposto dell’art. 72, ottavo comma, stessa legge.
La Prima Presidente ha disposto in conformità.
Ragioni della decisione
I. – Con l’unico motivo la ricorrente, denunziando la violazione o falsa applicazione degli 72 e 108 legge fall., anche in relazione agli artt. 2645-bis, 2808, 2878 e 2882 cod. civ., assume errata la decisione del tribunale sotto entrambi i profili: (a) della qualificazione come vendita concorsuale del contratto definitivo concluso dal curatore in esecuzione del preliminare trascritto ex art. 72, ultimo comma, legge fall., ai fini dell’art. 108 stessa legge; (b) della presunta esistenza di una ragione di prevalenza del fine di tutela dei diritti del promissario acquirente rispetto ai diritti del creditore ipotecario, da tutelare mediante l’esercizio del potere di purgazione.
Dal primo punto di vista la ricorrente sottolinea che l’art. 108 legge fall. si inserisce nell’alveo della liquidazione dell’attivo, mentre la trascrizione del preliminare, per i conseguenti effetti prenotativi, esclude che in esito al definitivo il bene che ne forma oggetto entri a far parte della massa attiva concorsuale.
Dal secondo punto di vista segnala che la tutela del promissario acquirente rispetto ai diritti del creditore ipotecario rimane, nell’ordinamento, affidata alla pubblicità immobiliare e alla possibilità di conoscere le iscrizioni pregiudizievoli gravanti sul bene che egli intenda acquistare, mentre l’interpretazione condivisa dal tribunale di Monza avrebbe come conseguenza la soppressione sostanziale del diritto di sequela riconosciuto dall’art. 2808 cod. civ. al creditore ipotecario, cosa inammissibile in difetto di un’espressa previsione normativa. Invero il creditore si troverebbe a concorrere solo sulla frazione di prezzo dell’immobile eventualmente suscettibile di esser pagato dal promissario acquirente al curatore (cosa che peraltro nella specie è esclusa dall’avere il promissario integralmente pagato il prezzo prima del fallimento), e subirebbe la cancellazione fuori dalla disciplina dell’estinzione delle ipoteche prevista dagli artt. 2878 e 2882 cod. civ., non essendo l’esecuzione del contratto pendente equiparabile a un esproprio.
Secondo la ricorrente, non sarebbe possibile trarre conferma della bontà del ragionamento del tribunale dalla disciplina offerta al riguardo dal CCII (art. 173, quarto comma), poiché codesta ha introdotto una regola completamente innovativa di bilanciamento tra la tutela del promissario acquirente e quella del creditore ipotecario, a condizioni del tutto diverse e come tali inestensibili alla legge fallimentare.
II. – La questione controversa attiene al fatto se possa o meno considerarsi come vendita concorsuale, ai fini dell’art. 108 legge fall. e delle conseguenze da esso stabilite, la modalità dell’alienazione che si realizza in esito al subentro ex lege del curatore fallimentare nel contratto preliminare di vendita di un immobile da adibire ad abitazione principale del promissario, trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis civ.; o, il che è lo stesso, del contratto preliminare di assegnazione del bene al socio di una cooperativa edilizia.
III. – L’art. 108, secondo comma, legge fall., quanto ai beni immobili (e agli altri beni iscritti in pubblici registri), prevede – all’esito del lgs. n. 5 del 2006 e poi del d.lgs. n. 169 del 2007 – che “una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, il giudice delegato ordina, con decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo”.
Nella visione del tribunale di Monza questa norma – sebbene inserita tra quelle relative (all’esercizio provvisorio e) alla liquidazione dell’attivo – andrebbe coniugata con la disciplina degli effetti del fallimento sui rapporti pendenti.
Per i rapporti pendenti l’art. 72 legge fall. stabilisce, al primo comma, la regola generale secondo cui “se un contratto è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento, l’esecuzione del contratto, fatte salve le diverse disposizioni della presente Sezione, rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto”. Come poi precisato dal terzo comma, la previsione si applica anche al contratto preliminare di vendita immobiliare, fatto salvo quanto previsto nell’art. 72-bis per i contratti relativi a immobili da costruire.
Per la vendita immobiliare soccorre inoltre – in generale – il settimo comma dell’art. 72, il quale prevede che, ove a fronte di un preliminare trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ. vi sia stato lo scioglimento da parte del curatore, “l’acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno e gode del privilegio di cui all’articolo 2775-bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento.”.
È bene rammentare a tal riguardo che questa Corte ha chiarito che l’afferente privilegio speciale sul bene immobile, che assiste ai sensi dell’art. 2775-bis cod. civ. i crediti del promissario acquirente conseguenti alla mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ., essendo subordinato a una particolare forma di pubblicità costitutiva (come previsto dall’ultima parte dell’art. 2745 cod. civ.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza del privilegio sull’ipoteca, sancita, se non diversamente disposto, dal secondo comma dell’art. 2748 cod. civ., e soggiace agli ordinari principi in tema di pubblicità degli atti. Sicché, nel caso in cui il curatore del fallimento della società costruttrice dell’immobile scelga lo scioglimento del contratto preliminare (ai sensi dell’art. 72 della legge fall.), il conseguente credito del promissario acquirente per la restituzione di caparre o acconti, benché assistito da privilegio speciale, è collocato in grado inferiore rispetto a quello dell’istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull’immobile stesso ipoteca a garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice (v. Cass. Sez. U n. 21045-09 e poi anche Cass. Sez. 1 n. 4195-12, Cass. Sez. 1 n. 17270-14, Cass. Sez. 1 n. 17141-16).
In sostanza è principio fondamentale che in ipotesi di scioglimento dal contratto resta prevalente il diritto derivante dall’iscrizione ipotecaria.
IV. – Sempre sul piano della disciplina normativa il dato diverge nel caso del preliminare avente a oggetto un immobile per uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero un immobile per uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente stesso.
In questa situazione l’ultimo comma dell’art. 72 ha introdotto una deroga rispetto alla potestà del curatore di sciogliersi dal vincolo: “le disposizioni di cui al primo comma non si applicano al contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’articolo 2645-bis del codice civile avente ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado ovvero un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente”.
È bene ribadire che la deroga non attiene (ovviamente) al meccanismo tipico del preliminare, ma solo alla dianzi citata (ordinaria) potestà di scioglimento dal contratto.
Come esattamente osservato dall’ordinanza interlocutoria, l’effetto che ne deriva è che il curatore, in presenza di un contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ., avente a oggetto un immobile con la destinazione suddetta, non ha possibilità di scegliere se subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendosi tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo. Egli succede necessariamente nel contratto, ex lege, e quindi è tenuto a darvi esecuzione.
V. – Da qui il problema se, considerata l’esistenza di un simile obbligo di legge, possa dirsi che l’alienazione effettuata in questi casi dal curatore fallimentare sia tale da rientrare essa stessa – ancora ex lege – nell’ambito dell’attività liquidatoria: di quell’attività, cioè, che il curatore è tenuto a compiere nel corso della procedura concorsuale.
La risposta affermativa si basa sul rilievo che la vendita fatta dal curatore è da considerare come tale anche se non effettuata secondo le regole della esecuzione concorsuale, o (come dice l’ordinanza interlocutoria) a mezzo di procedure competitive.
VI. – Il tema è stato fin qui variamente considerato nelle sedi di merito, in adesione ora all’una ora all’altra delle possibili soluzioni.
Su di esso si è registrato un contrasto anche nella giurisprudenza di questa Corte, contrasto che per vero non ha risparmiato neppure la dottrina a valle della considerazione in ordine alla ratio di favore che governa l’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Si allude al fatto che con l’art. 72, ultimo comma, la legge fallimentare ha inteso accordare una tutela rafforzata – in forma specifica – al diritto alla proprietà del bene destinato alla prima abitazione del promissario acquirente che abbia trascritto il preliminare prima del fallimento; sicché il diritto del promissario sarebbe per tale ragione assoggettabile a una regolazione indiretta in ambito concorsuale.
Un orientamento di tal genere è quello fatto proprio dal tribunale di Monza.
La premessa di tale orientamento è che sono da qualificare come vendite concorsuali quelle che, comunque attuate, possiedono natura coattiva perché avvengono invito domino in un ambito procedimentalizzato.
Anche queste vendite sarebbero soggette all’efficacia purgativa.
In particolare, la vendita immobiliare fatta in esecuzione di un preliminare stipulato dal fallito e previamente trascritto diventerebbe vendita concorsuale, ai fini dell’art. 108 legge fall., perché disposta dal curatore fallimentare con la autorizzazione del comitato dei creditori.
Nella prospettiva così – appunto – “procedimentalizzata”, essa stessa parteciperebbe dell’ambito dell’attività liquidatoria che il curatore è tenuto a compiere nel corso della procedura concorsuale, anche se concretizzata al di fuori delle regole di cui alla Sezione II (“Della vendita dei beni”) alle quali, come detto all’inizio, la norma si riferisce.
L’indirizzo interpretativo ha trovato avallo nella sentenza della Prima sezione di questa Corte citata sia dal tribunale di Monza che dall’ordinanza interlocutoria.
La sentenza ha affermato il principio secondo cui, in tema di vendita fallimentare, anche se attuata nelle forme contrattuali e non tramite esecuzione coattiva, trova applicazione l’art. 108, secondo comma, legge fall., con la conseguente cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione a opera del giudice delegato e ammissione del creditore ipotecario al concorso, con rango privilegiato, sull’intero prezzo pagato, ivi compreso l’acconto eventualmente versato al venditore ancora in bonis (Cass. Sez. 1 n. 3320-17).
L’indirizzo che si riallaccia a tale orientamento segnala che non si giustificherebbe altrimenti la rilevanza assunta dal bene protetto – e cioè la casa di abitazione – quale fondamento dell’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 72 cit.
VII. – A questa tesi si è contrapposta quella per cui, invece, il risultato al quale tende l’art. 108, secondo comma, legge fall. non è concepibile al di fuori di una procedura coattiva aperta al mercato e finalizzata al realizzo dell’intero (e anzi del migliore) prezzo di vendita del bene acquisito all’attivo.
Ciò sarebbe in certa misura presupposto dalla norma, per essere codesta riferibile al profilo di necessaria competizione nell’ambito di una procedura pubblica di dismissione dei beni. La quale procedura pubblica dovrebbe sempre muovere da un prezzo di stima e favorire la massima informazione e partecipazione di tutti i soggetti interessati, al fine di assicurare il conseguimento del maggior risultato possibile e con esso la miglior soddisfazione dei creditori.
In tale diversa prospettiva, alla quale si riferisce l’ordinanza interlocutoria, la base di riferimento delle vendite fallimentari sarebbe dunque solo quella delineata dalla norma sulla vendita propriamente procedimentalizzata, e solo in tal guisa si giustificherebbe l’effetto purgativo.
Espressione di simile differente criterio di giudizio è l’ordinanza della Prima sezione n. 23139-20 che, sebbene in tema di concordato preventivo con continuità aziendale, ha affermato che l’assegnazione dell’immobile al socio di una cooperativa, che avvenga in esecuzione di un piano gestionale teso all’ultimazione degli alloggi rimasti incompiuti, non può essere accompagnata dalla cancellazione ex art. 108 legge fall. delle iscrizioni pregiudizievoli, dal momento che i detti effetti purgativi si giustificano solo qualora la vendita si compia in esito a una procedura competitiva a evidenza pubblica secondo le regole di cui agli artt. 105 e ss. legge fall. richiamate dall’art. 182, quinto comma, legge fall., non anche quando essa sia il frutto della continuazione dell’attività di impresa.
VIII. – Occorre dire che vanamente il tribunale di Monza, da un lato, e parte della dottrina dall’altro, hanno tentato di sminuire la rilevanza di codesto precedente in esito alla citata ultima frase (“non anche quando essa sia il frutto della continuazione dell’attività di impresa”).
Si è detto che quel precedente è relativo alla liquidazione condotta in sede concordataria e in relazione alla prevista continuità aziendale (e v. peraltro anche Cass. Sez. 1 n. 30454-19); quindi vale solo per essa.
Può osservarsi che non è dubbio che il principio di diritto enunciato da Cass. Sez. 1 n. 23139-20 attenga alla situazione del concordato in continuità aziendale, il quale è istituto orientato alla prosecuzione dell’attività d’impresa a opera di chi, essendone titolare, non abbia subito lo spossessamento.
Ma è evidente che non da ciò può giustificarsi la convivenza del diversamente argomentato margine di valutazione reso da quel precedente a proposito della operatività della regola di cui all’art. 108, secondo comma, legge fall., attesa l’analogia di disciplina dettata per le modalità della cessione dei beni nel concordato dall’art. 182 legge fall. (nel rinvio agli artt. da 105 a 108-ter stessa legge).
Del resto, anche l’ordinanza interlocutoria n. 16166-23 mostra di non voler ribadire l’indirizzo assunto con la sentenza n. 3310 del 2017. Per cui è innegabile che il contrasto di giurisprudenza sussiste in modo netto presso questa Corte a proposito della coordinazione dei principi fondamentali in materia.
E in ogni caso la questione di massima è indubbiamente di particolare importanza.
IX. – Il contrasto va risolto affermando il principio per cui nel sistema della legge fallimentare l’art. 108, secondo comma, prevede il potere purgativo del giudice delegato in stretta ed esclusiva consonanza con l’espletamento della liquidazione concorsuale dell’attivo disciplinata nella Sezione II del Capo VI secondo le alternative indicate nell’art. 107, perché in essa il curatore esercita la funzione di legge secondo il parametro di legalità dettato nell’interesse esclusivo del ceto creditorio mediante gli appositi procedimenti destinati al fine; mentre è da escludere che la norma possa essere applicata – e il potere purgativo esercitato dal giudice delegato – nei diversi casi in cui il curatore agisca nell’ambito dell’art. 72, ultimo comma, legge fall. quale semplice sostituto del fallito, nell’adempimento di obblighi contrattuali da questo assunti con un preliminare di vendita.
X. – È necessario partire dalla considerazione che quanto previsto dall’art. 108, secondo comma, legge fall. trae diretto fondamento dalla funzione liquidatoria della vendita espropriativa, esattamente come accade per l’esecuzione individuale con l’art. 586 cod. proc. civ.
Ciò costituisce riflesso della natura giuridica della vendita fallimentare secondo un modello acquisito già prima della riforma.
Nel vigore del testo antecedente al d.lgs. n. 5 del 2006 la cosa era agevolmente desunta dall’art. 105 legge fall., il cui senso onnicomprensivo risaltava per l’espresso richiamo alle norme del codice di procedura civile, base dell’inquadramento delle vendite fallimentari nell’ambito delle vendite giudiziali o, come anche si dice, forzate.
In coerenza con tale inquadramento, era acquisito il principio secondo cui nella procedura fallimentare l’alienazione degli immobili non potesse avvenire che nelle forme della vendita forzata, con o senza incanto, culminante nel decreto di trasferimento, senza alcuna possibilità di una vendita a trattativa privata. E quindi che l’art. 108 legge fall. non consentisse mai la vendita di un bene immobile a trattativa privata, ma solo – si diceva comunemente – l’alienazione nelle forme della vendita forzata, con o senza incanto, che si concludono col decreto di trasferimento del bene. Era in vero considerato illegittimo il provvedimento del giudice delegato che autorizzasse una vendita non pienamente corrispondente a uno dei due tipi, con o senza incanto, espressamente previsti e disciplinati (ex multis Cass. Sez. 1 n. 5751- 93, Cass. Sez. 1 n. 3624-04, Cass. Sez. 1 n. 26954-16, Cass. Sez. 1 n. 11464-17).
XI. – È da puntualizzare che, prima della riforma attuata col lgs. n. 5 del 2006 e completata col d.lgs. n. 169 del 2007, la natura propriamente esecutiva delle vendite era un dato acquisito anche rispetto al concordato previdente la cessione dei beni, tanto da aver costituito elemento di comparazione per l’esegesi delle norme afferenti seppur declinate in relazione ai poteri del commissario.
In relazione alle vecchie norme le Sezioni Unite di questa Corte ne hanno precisato il senso rispondendo affermativamente al quesito se sia o meno possibile assoggettare a ricorso straordinario per cassazione il provvedimento con cui il tribunale abbia accolto o rigettato un reclamo proposto contro il decreto emesso dal giudice delegato in tema di vendita dei beni del debitore nella fase esecutiva del concordato preventivo con cessione.
Netta è stata l’affermazione che anche nel procedimento liquidatorio dei beni del debitore, per quanto avente in ambito concordatario un fondamento originario di natura negoziale, la vendita deve dirsi sottesa da una finalità satisfattoria dei creditori del tutto analoga a quelle della procedura esecutiva fallimentare, tanto da muoversi in un ambito di controlli pubblici del pari destinati a garantire il raggiungimento di tale finalità.
Anche la fase esecutiva del concordato per cessione dei beni – è stato precisato – deve considerarsi riconducibile “a una più vasta categoria di procedimenti di esecuzione forzata (in senso lato) al pari della procedura fallimentare”, tanto che pure la liquidazione concordataria, proprio come quella fallimentare, risulta disciplinata “da rigorose disposizioni sul cui rispetto gli organi della procedura sono chiamati a vigilare” (Cass. Sez. U n. 19506-08).
Questa correlazione è suscettibile di essere mantenuta anche dopo la riforma del diritto concorsuale del 2006-2007.
Già nella sentenza citata è stato invero rimarcato che nel contesto della riforma “nulla suggerisce che il legislatore abbia inteso modificare la natura e le caratteristiche essenziali della procedura di concordato – e tanto meno far perdere ad essa i suoi connotati originariamente negoziali in favore di un impianto pubblicistico prima non configurabile”. E al tempo stesso è stato convincentemente segnalato il carattere confermativo di una tale conclusione nelle pertinenti norme dovute al d.lgs. n. 169 del 2007, giacché pure in queste è stato oggettivato l’accostamento delle funzioni del liquidatore concordatario a quelle del curatore del fallimento.
In sostanza, e in relazione al tema che qui rileva, la riforma del diritto concorsuale del 2006-2007 si è mossa – sia per il concordato che per il fallimento – nel solco di un medesimo schema procedimentalizzato. Per riprendere le parole della citata sentenza delle Sezioni Unite, nel prescrivere che alla vendita dei beni oggetto della cessione ai creditori si debbano applicare (sia pure con la clausola della compatibilità) le disposizioni della stessa legge fall., art. 105 e seg., ivi compreso l’art. 107 in ordine alle modalità attuative, la nuova disciplina rafforza la convinzione “che la liquidazione concordataria sia, proprio come quella fallimentare, disciplinata da rigorose disposizioni sul cui rispetto gli organi della procedura sono chiamati a vigilare” (così testualmente Cass. Sez. U n. 19506-08). E tali rigorose disposizioni, senza modificare la natura e le caratteristiche essenziali della procedura di concordato, confermano la preesistente assimilabilità tra la fase esecutiva del concordato per cessione dei beni del debitore (pur con la sua origine negoziale e con le sue ovvie peculiarità) e “il procedimento di vendita coatta di detti beni” sotteso dalla vendita fallimentare propriamente intesa.
XII. – Una duplice conseguenza è possibile trarre dal sintetizzato percorso giurisprudenziale: se da un lato l’applicazione dell’art. 108 legge presuppone la cd. vendita fallimentare, dall’altro l’elemento centrale di una tale vendita è ravvisabile nella natura esecutiva (e procedimentale) della vendita coattiva (forzata); cosa data per acquisita dalla ripetuta sentenza n. 19506-08 delle Sezioni Unite al punto da farne un elemento di comparazione idoneo a coordinare (alla sua stessa stregua) le norme relative alla cessione dei beni nel concordato preventivo.
Un simile modello di ragionamento è stato contraddetto (soltanto) dalla ripetuta sentenza della Prima sezione n. 3310-17.
Codesta ha posto la base dell’estensione del concetto di vendita fallimentare oltre lo steccato delle modalità di cui all’art. 107, seppur richiamate (quelle modalità) anche per la vendita di aziende, di rami, di beni e di rapporti in blocco dall’art. 105, secondo comma, legge fall.
Tanto ha fatto riferendosi alla successiva e conseguente necessità di ammissione del creditore ipotecario al concorso, con rango privilegiato, “sull’intero prezzo pagato, ivi compreso l’acconto eventualmente versato” dal promissario acquirente.
Epperò senza che di tale e asseritamente consequenziale assunto sia individuabile un minimo riscontro sul piano normativo.
XIII. – Ora va detto che dopo la riforma del 2006-2007 l’art. 107 legge fall. disciplina le “Modalità delle vendite”, e lo fa mediante un ridimensionamento dei rinvii al processo esecutivo previsto dal codice di procedura civile.
Nel testo dell’art. 107 è oggi declinata una trama ripartibile in tre modalità di vendita, in nessuna delle quali rientra l’ipotesi (mera) della cessione per atto negoziale.
Le vendite e gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione possono essere effettuate alternativamente (i) dal curatore, ma tramite procedure competitive, (ii) dal giudice delegato, secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili, (iii) ancora secondo le disposizioni del codice di procedura civile ove il curatore decida di subentrare nelle procedure esecutive che siano pendenti alla data della dichiarazione di fallimento.
Per i fini del conseguente art. 108, la comune caratteristica delle vendite fallimentari non è stata messa in discussione nell’alveo della normativa riformata, nel senso che quanto ai provvedimenti purgativi il legislatore, anche dopo la riscrittura delle norme, ha mostrato di non voler dissociare i provvedimenti stessi dal tipo di vendita forzata presupposta, che è e resta una vendita procedimentalizzata.
E difatti nella Relazione ministeriale illustrativa si legge: “per ciò che riguarda le forme delle vendite ed i loro effetti, si è innovato molto e si è ritenuto di eliminare ogni rinvio alla disciplina del processo esecutivo individuale, fermo restando, comunque, il fondamentale effetto purgativo delle vendite forzate”.
In altre parole, la maggiore flessibilità dei parametri di riferimento non ha determinato effetti a proposito del presupposto di adozione del decreto del giudice delegato conseguente alla vendita e alla riscossione per intero del prezzo, tale essendo sempre la vendita esecutiva procedimentalizzata in funzione liquidatoria di cui alle alternative ipotesi disciplinate nell’art. 107, perché questa – e solo questa – è la “vendita forzata”.
XIV. – L’orientamento teso a ritenere l’estensione del potere del giudice delegato di ordinare la cancellazione delle ipoteche e degli altri vincoli al caso ulteriore (rispetto a quello sotteso al procedimento ex 107) della vendita effettuata dal curatore (subentrato ex lege) in adempimento del preliminare stipulato dal fallito muove da un profilo di similitudine.
Il profilo si assume rinvenibile in ciò: che l’atto di vendita (in adempimento del preliminare) sarebbe comunque posto in essere da un organo del fallimento, non proprietario del bene, né delegato a vendere dal proprietario. Donde si sarebbe in presenza di un soggetto (il curatore) che agisce mettendo in pratica un potere proprio, che gli deriva dal fallimento e che partecipa della natura del potere di liquidare il patrimonio, a prescindere dalla volontà del titolare del diritto di proprietà (il fallito).
Da questa constatazione trarrebbe forza la similitudine, perché – ancora si dice – quale che sia la forma con la quale l’alienazione si realizza, l’atto finale è pur sempre qualificabile come atto traslativo di un bene, e solo questo conta, poiché per riconoscere natura di vendita forzata alla vicenda traslativa di diritti rileva la natura del potere e non la forma del suo esercizio.
XV. – Questa conclusione così come il ragionamento che la sottende non possono essere condivisi.
La vendita effettuata dal curatore in adempimento del preliminare stipulato dal fallito non possiede natura coattiva, né funzione liquidatoria dell’attivo, neppure quando il preliminare abbia riguardato la casa di abitazione del promissario e sia stato trascritto prima del fallimento.
Nel caso disciplinato dall’art. 72, ultimo comma, legge fall. rileva il subentro del curatore nel contratto preliminare, al quale consegue (art. 72, primo comma) l’assunzione di “tutti i relativi obblighi”.
L’unica particolarità (rispetto alla disciplina del primo comma) è che il subentro, in questo caso, è obbligatorio per legge.
In tale evenienza il curatore è tenuto a eseguire la vendita; ed è tenuto anche a adempiere all’eventuale obbligazione accessoria di far conseguire il bene al promissario libero dalle ipoteche, obbligazione che sia stata assunta già dal promittente venditore.
Tutto questo, però, è l’effetto (ovvio) del subentro.
Non consente alcun accostamento con la vendita forzata perché nel caso dell’art. 72, ultimo comma, si rimane nell’ambito delle obbligazioni negoziali, anche a proposito della garanzia dell’evizione (art. 1483 cod. civ.).
Quella che legittima l’effetto purgativo discendente dall’art. 108 legge fall. è una cosa ben diversa.
Per codificare l’effetto purgativo e giungere al decreto del giudice delegato non basta l’obbligazione del curatore di stipulare una vendita come conseguenza del subentro (volontario o ex lege) in un anteriore obbligo assunto dal fallito in bonis, e neppure quella di garantire la liberazione del bene secondo la promessa fatta dal fallito medesimo.
Non basta perché l’art. 108 riguarda – in sé e per sé – la vendita esecutiva.
Codesta è la vera vendita forzata e non ogni vendita che avviene in ambito fallimentare può esser considerata tale.
L’incontestabilità di tale fatto è testimoniata dalla diversità di schema sotteso all’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Per ripetere il concetto: (i) nel caso dell’art. 72, ultimo comma, legge fall. viene in risalto il mero subentro ex lege del curatore nel preliminare stipulato dal fallito; (ii) l’atto col quale è poi eseguita la vendita resta avvinto dalla ordinaria funzione di adempimento delle obbligazioni discendenti dal preliminare; (iii) per tale ragione la vendita non costituisce un atto esecutivo di liquidazione dell’attivo fallimentare, a prescindere dal fatto che il prezzo sia stato – come emblematicamente si dice essere accaduto nella specie – versato interamente o meno, e che il curatore, in luogo del fallito, possa ottenere a sua volta il pagamento di un residuo.
Invero nemmeno quando prima del fallimento il promissario acquirente abbia versato semplici acconti può dirsi sussistere, nella vendita negoziale fatta in esecuzione del contratto preliminare, una finalità propriamente liquidatoria dell’attivo concorsuale, perché la finalità vera è sempre quella di adempiere l’obbligo a contrarre.
La funzione liquidatoria esclude di contro il vincolo negoziale, essendo l’organo fallimentare astretto all’osservanza delle (sole) modalità procedimentali dettate per il legittimo esercizio del potere di realizzazione coattiva.
XVI. – Non può allora forzarsi il concetto di “procedimentalizzazione” della vendita in nome della maggiore elasticità del sistema delineato dagli attuali 105 e seg. legge fall., così da farne un denominatore comune di una generica finalità liquidatoria.
La vendita procedimentalizzata è altra rispetto alla vendita negoziale semplicemente autorizzata dal comitato dei creditori.
La finalità liquidatoria non implica una procedimentalizzazione purchessia (del tipo di quella evincibile dall’eventuale necessità di previa autorizzazione del comitato dei creditori alla stipula di un contratto), ma la procedimentalizzazione dettata dall’art. 107 legge fall. in vista del miglior soddisfacimento delle ragioni creditorie.
Tale è la spiegazione del collegamento esistente tra l’art. 108 e l’art. 107 legge fall., anche considerando la natura necessariamente competitiva delle procedure tramite le quali deve avvenire la vendita ove non si ricorra alle alternative parimenti indicate nella norma.
Si rivela così inappropriato svilire il profilo formale della vendita forzata in nome di una presunta rilevanza dell’aspetto “sostanziale” del potere esercitato dall’organo del fallimento.
Ben vero nell’adempimento del preliminare, nel quale è subentrato, il curatore non esercita alcun potere.
A ogni modo, non si disconosce che l’art. 107 legge fall., nella riscrittura delle norme sulla vendita dei beni (art. 105 e seg.), abbia attuato il passaggio da una disciplina irrigidita dal rinvio alle norme del codice di procedura relative al processo esecutivo a una ispirata, invece, a maggiore elasticità.
Ma per quanto ciò sia vero, e per quanto la norma sia ispirata a un più elastico principio di libertà di forme, è evidente che tale libertà è perseguita alla condizione specificamente considerata, e cioè che “le vendite e gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione” siano svolti dal curatore “tramite procedure competitive”.
In altre parole, è la procedura competitiva il limite intrinseco del pur canonizzato (nel nuovo testo dell’art. 107 legge fall.) principio di libertà delle forme (e v. infatti Cass. Sez. 1 n. 22383-19, Cass. Sez. 1 n. 21007-22).
Sicché, fatte salve le concorrenti previsioni del medesimo art. 107, l’elasticità esiste – certo – ma rimane confinata all’interno del concetto di competitività.
Questa nozione (la procedura competitiva) non è astretta a uno schema predefinito, ma ai fattori ritenuti essenziali allo scopo: la stima, la pubblicità, la possibilità di gara, quali presupposti inderogabili di trasparenza e correttezza anche a salvaguardia della parità fra gli offerenti (v. Cass. Sez. 1 n. 26076-22).
Ai fini dell’effetto purgativo è perciò necessario che la vendita sia stata attivata nel senso indicato dall’art. 107, perché questo rende la vendita declinabile in senso procedimentale come atto di liquidazione dell’attivo, per effetto della messa in esecuzione di un programma di liquidazione all’esito delle conseguenti possibilità offerte dalla norma.
E poiché in situazioni del genere può discorrersi di vendita procedimentalizzata, l’art. 108 coerentemente prevede che, “una volta riscosso interamente il prezzo”, il giudice delegato ordini, con suo decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione e delle trascrizioni dei pignoramenti, dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo incidente sul bene.
XVII. – Se si tiene a mente tutto questo, è abbastanza chiaro che né la struttura giuridica del fenomeno, né la sua caratterizzazione funzionale, né l’attitudine a perseguire l’effetto pratico possono ragionevolmente confluire in un elemento di similitudine per l’ipotesi di semplice esecuzione di un contratto preliminare.
Un parallelismo del genere non è sostenibile nemmeno quando, per mero accidente, il prezzo di stipula indicato nel preliminare si riveli essere poi, in base alle peculiari condizioni di mercato, quello più vantaggioso.
La differenza resta radicale, perché il curatore, essendo la stipulazione del definitivo obbligatoria a seguito del subentro nella posizione del fallito previsto per legge, si trova a operare, ai fini del definitivo, come sostituto del fallito, non in rappresentanza della massa e a tutela delle ragioni di questa. Egli non può che vendere al prezzo indicato nel preliminare e non può recuperare in alcun modo gli acconti già versati, così che la massa resta esposta finanche all’eventualità di non ricevere proprio niente ove, come nella specie, prima del fallimento risulti che sia stato versato dal promissario l’intero prezzo.
XVIII. – Le superiori considerazioni dimostrano che, indipendentemente dal riconoscimento o meno della facoltà del curatore fallimentare di sciogliersi dal contratto, e indipendentemente dalla natura più o meno vantaggiosa della vendita, l’esecuzione del preliminare, da un lato, è sempre tecnicamente qualificabile come vendita negoziale (e non come vendita esecutiva concorsuale), e dall’altro non è in grado (ontologicamente) di garantire la realizzazione dell’effetto pratico che la vendita concorsuale persegue per il tramite della sua procedimentalizzazione.
L’atto al quale è tenuto il curatore, dopo il subentro ex lege nel preliminare, esaurisce la sua funzione nel contesto del preesistente rapporto obbligatorio, cosa che ne impedisce la ventilata comune prospettiva funzionale rispetto alla disciplina dei trasferimenti coattivi, quali che siano.
Ciò è d’altronde palpabile conseguenza del fatto che un trasferimento coattivo – come esattamente osservato in dottrina – non è mai fine a sé stesso.
Punta sempre a conseguire un fine pratico distinto, rispetto al quale semplicemente si pone come mezzo: il mezzo astrattamente più idoneo per giungere, coattivamente, ad avere ciò che è necessario alla realizzazione dei diritti patrimoniali dei creditori.
Mancando un tale requisito, cui è paradigmaticamente funzionale il procedimento che conduce alla vendita secondo l’art. 107 legge fall., non può invocarsi il successivo art. 108, e dunque non può discorrersi di potere purgativo del giudice delegato.
XIX. – Il tribunale di Monza, riprendendo argomentazioni più volte utilizzate dalla giurisprudenza di merito, ha richiamato, quale dato esegetico asseritamente rafforzativo della diversa tesi, la disciplina dell’art. 173, quarto comma, del CCII.
Questa norma, nei casi di subentro del curatore nel contratto preliminare di vendita, riconosce esplicitamente la possibilità del giudice delegato di ordinare con decreto la cancellazione delle iscrizioni pregiudizievoli.
La previsione dell’art. 173 del CCII non è applicabile al caso di specie, ratione temporis. Ma secondo il tribunale potrebbe essere impiegata quale corrispondente esegetico, a conferma della bontà dell’orientamento sostenuto in ordine al nesso tra l’art. 108 e l’art. 72, ultimo comma, legge fall.
A una simile possibilità di interpretazione evolutiva ha fatto ampio riferimento anche il procuratore generale nelle sue conclusioni.
Ed eguale associazione è stata ipotizzata dall’ordinanza interlocutoria, per il fine di verificare – s’è detto – “se ricorra un ambito di continuità tra il regime fallimentare e quello successivo e se la nuova norma sia quindi idonea a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare”, secondo le possibilità offerte dalla giurisprudenza formatasi dinanzi a queste Sezioni Unite in merito al limite e alle condizioni di rilevanza di una simile pratica (Cass. Sez. U n. 12476-20, Cass. Sez. U n. 2061-21, Cass. Sez. n. 8504-21, Cass. Sez. U n. 42093-21, e infine anche Cass. Sez. U n. 8557-23).
XX. – In verità il richiamo all’art. 173 del CCII non è risolutivo nel senso indicato dal tribunale di Monza; a tutto concedere dimostra semmai il contrario.
In ogni caso tale richiamo non è un elemento di raffronto utile sul versante esegetico perché l’effetto che si pretende finisce con l’interferire sul terreno della vigenza della legge, connesso alla sua entrata in vigore e al correlato ambito di applicazione temporale.
XXI. – L’art. 173, sebbene nella relazione di accompagnamento ne sia illustrata la finalità in termini congiunti, di tutela dell’ “interesse del promissario acquirente ad acquistare un bene libero da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli” e di risoluzione dei “contrasti giurisprudenziali in ordine alla natura – coattiva o meno – della vendita effettuata dal curatore in adempimento del contratto preliminare”, non ha revisionato la disciplina anteriormente rinvenibile nell’art. 72 legge fall. mediante una previsione di estensione mera del potere purgativo del giudice delegato.
L’art. 173 ha introdotto un precetto nuovo all’interno della disciplina degli interessi in gioco.
Il curatore può sempre sciogliersi dal contratto preliminare di vendita immobiliare anche quando il promissario acquirente abbia proposto e trascritto prima dell’apertura della liquidazione giudiziale una domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’articolo 2932 cod. civ., fermo che “lo scioglimento non è opponibile al promissario acquirente se la domanda viene successivamente accolta”.
Dopodiché, quanto alla situazione del contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ. avente a oggetto un immobile a uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale del promissario acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero un immobile a uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa del promissario acquirente, il contratto non si scioglie – dice l’art. 173 – “sempre che gli effetti della trascrizione non siano cessati anteriormente alla data dell’apertura della liquidazione giudiziale e il promissario acquirente ne chieda l’esecuzione nel termine e secondo le modalità stabilite per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi sui beni compresi nella procedura”.
In concorrenza di codeste ulteriori condizioni – la seconda del tutto innovativa – il preliminare di vendita relativo a immobili di tal genere è postulato come oggetto di un subentro ex lege.
In tal prospettiva l’art. 173, quarto comma, ha introdotto la terza, e ancor più innovativa, regola, involgente la falcidia degli acconti versati: “nei casi di subentro del curatore nel contratto preliminare di vendita, l’immobile è trasferito e consegnato al promissario acquirente nello stato in cui si trova” e “gli acconti corrisposti prima dell’apertura della liquidazione giudiziale sono opponibili alla massa in misura pari alla metà dell’importo che il promissario acquirente dimostra di aver versato”.
Come conseguenza della falcidia “il giudice delegato, una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, ordina con decreto la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo”.
XXII. – L’esito fondamentale è questo.
Da un lato, la disciplina non si pone in linea di continuità con quella della legge fallimentare, secondo l’ottica alla quale invece le citate decisioni delle Sezioni Unite hanno inteso doversi riferire il legittimo utilizzo del CCII quale dato comparativo funzionale a dirimere dubbi esistenti a proposito delle vecchie norme. Non si pone in linea di continuità perché l’art. 173 innova completamente il testo che caratterizza l’antecedente art. 72 legge fall. nel momento stesso in cui enfatizza una condizione che in quello non era data: e cioè che, non essendo gli effetti della trascrizione cessati prima dell’apertura della procedura, il promissario acquirente richieda l’esecuzione del preliminare nel termine e con le modalità per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi su beni compresi nella procedura stessa.
Dall’altro, non è vero che la previsione finale di cui al quarto comma dell’art. 173 sia confermativa della bontà dell’indirizzo giurisprudenziale sostenuto dal tribunale di Monza quanto all’art. 72 legge fall. (e all’art. 108 stessa legge).
Non è così perché l’art. 173, quarto comma, non ha previsto il potere purgativo quale semplice effetto del subentro del curatore nel contratto preliminare e della conseguente vendita.
L’art. 173 ha invece ritenuto di coniugare l’ambito delle tutele facendo perno proprio sulla necessità di garantire (per quanto parzialmente) i diritti di prelazione, tanto è vero che ha previsto il potere purgativo a valle della opponibilità alla massa degli acconti, nella misura pari alla metà dell’importo che il promissario acquirente possa dimostrare di aver versato prima dell’apertura della liquidazione giudiziale.
Nel CCII non viene in considerazione il fatto (mero) della vendita obbligatoria, e non trova diritto di cittadinanza neppure l’assunto che ogni vendita fatta in ambito concorsuale sia una vendita forzata.
Vengono in considerazione invece l’onere del promissario di conformarsi a un ben preciso schema procedimentale (la domanda di adempimento da fare con le modalità e nel termine stabilito per ordinarie le domande di accertamento dei diritti dei terzi) e il legame con la falcidia degli acconti già versati; la quale è l’unica che, sebbene limitatamente, consente di attuare un (parziale) soddisfacimento del creditore ipotecario, e che quindi permette (ancorché in questa misura) di prospettare l’effetto purgativo come sintonico alle caratteristiche effettuali di una vendita forzata.
È quindi vero che l’intervento sopra menzionato ha avuto (anche) il fine di risolvere in qualche modo il problema che interessa; ma è altrettanto vero che la soluzione è stata incentrata sulla codificazione della potestà di purgare le ipoteche (e di cancellare le iscrizioni, le trascrizioni o gli altri vincoli) come effetto di una accurata regolamentazione del tutto nuova.
XXIII. – Ora qui deve essere fatta una puntualizzazione a chiarimento.
Che il legislatore del CCII abbia inteso declinare in modo diverso il rischio dell’insolvenza quanto alla fattispecie del preliminare di vendita relativo alla casa di abitazione (o a quelle equiparate), per modo da estenderlo (parzialmente) anche al creditore ipotecario, è un fatto (per certi versi problematico, se lo si pone a paragone con la disciplina dell’esecuzione individuale) che in sé non aggiunge niente al caso di specie, e che soprattutto non può essere considerato per i fini di un’interpretazione evolutiva delle diverse previsioni della legge fallimentare del tutto silenti al riguardo.
Sono messi in gioco i limiti dell’interpretazione, ai quali il giudice è inevitabilmente astretto.
L’attività di interpretazione delle norme non può superare i limiti che si impongono nel contesto del suo svolgimento, perché sono codesti limiti a dare il senso della distinzione dei piani.
Il legislatore, fatto salvo il rispetto dei canoni costituzionali di ragionevolezza, è libero di modulare le tutele introducendo precetti nuovi; viceversa, il giudice non può che applicare al caso concreto “la legge intesa secondo le comuni regole dell’ermeneutica” (cfr. C. cost. n. 155 del 1990), per modo da disvelarne sì il corretto significato, ma purché codesto possa considerarsi insito in essa.
Questa cosa influisce sulla funzione dichiarativa della giurisprudenza – anche di legittimità – da contenere all’interno del confine proprio (v. già Cass. Sez. U n. 21095-04, Cass. Sez. U n. 4135- 19, Cass. Sez. U n. 2061-21).
L’attività di interpretazione, per quanto la si voglia dilatare in funzione “evolutiva” (e in molti casi è opportuno dilatarla in tale chiave onde superare altrimenti inaccettabili lacune dell’ordinamento), non può mai spingersi fino a superare il limite di tolleranza e di elasticità di un enunciato, ossia – come efficacemente è stato detto – del significante testuale della disposizione che il legislatore ha posto, giacché da quel significante, previamente individuato, non può che muovere la dinamica di inveramento della norma nella concretezza del suo operare.
Ecco perché insistere sulla diversa scelta operata dal CCII non è produttivo nel caso di specie.
XXIV. – Naturalmente la Corte deve farsi carico del problema che il tribunale di Monza ha rappresentato quanto alla finalità di tutela sottesa alla disciplina dell’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Si tratta di stabilire se il riferimento a una simile finalità consenta o imponga una soluzione diversa da quella fin qui indicata.
La risposta deve essere negativa.
La norma citata ha avuto (e ha) l’obiettivo di tutelare il promissario acquirente che abbia trascritto il preliminare di acquisto della casa di abitazione.
E tuttavia questa finalità rileva solo a fronte del rischio di sopravvenienza del fallimento.
Nella legge fallimentare il promissario acquirente resta tutelato dalla anteriorità della trascrizione del preliminare in vista dell’eventualità della dichiarazione di fallimento del promittente, non in rapporto alla posizione dei terzi titolari di anteriori diritti di prelazione.
La trascrizione del preliminare neutralizza quel rischio nel senso che, ai fini dell’adempimento degli obblighi discendenti dal preliminare, il fallimento è come se non ci fosse.
La tutela rispetto al creditore ipotecario è cosa diversa.
È diversa da quella presupposta dall’art. 72, e nella legge fallimentare non è considerata affatto. E non perché sussista una lacuna, ma molto semplicemente perché una simile ulteriore tutela si basa – come sempre accade nelle vendite immobiliari – sugli effetti della pubblicità costitutiva, che è materia del codice civile, non della legge fallimentare.
Ne deriva che l’anteriorità della trascrizione del preliminare secondo il regime dell’art. 2645-bis cod. civ. scongiura il rischio correlato all’eventualità del fallimento del promittente ma non può indurre a prospettare di per sé, in mancanza di una specifica previsione di legge, un’alterazione dei nessi di priorità delle iscrizioni ipotecarie già esistenti.
Quindi la ratio di tutela, sottesa all’art. 72, ultimo comma, legge fall., non è idonea a sostenere l’estensione del potere purgativo in caso di attuazione degli obblighi discendenti dal subentro del curatore nel contratto preliminare.
Né lo è il fatto che il promittente venditore, poi fallito, si sia assunto l’obbligo, col preliminare, di assicurare la liberazione del bene dalle ipoteche.
Tanto di dice avvenuto nella specie.
Ma neppure quest’obbligo, nel quale pur subentra ex lege lo stesso curatore per effetto della regola dettata dall’art. 72, ultimo comma, legge fall., sposta i termini del problema.
Esso non trasforma la vendita privatistica (e negoziale) in vendita attuata nell’alveo di un procedimento officioso finalizzato alla liquidazione dell’attivo fallimentare.
Suppone invece che ogni questione abbia a risolversi nell’ordinario operare dei rimedi privatistici, ivi compresa la garanzia per il caso di evizione (artt. 1482, ultimo comma, e 1483 cod. civ.).
XXV. – Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso della società Leviticus deve essere accolto e il decreto del tribunale di Monza cassato.
Segue il rinvio al medesimo tribunale il quale, in diversa composizione, si uniformerà al principio all’inizio esposto.
Il tribunale provvederà sulle spese del giudizio di merito.
Quelle del giudizio di legittimità possono essere interamente compensate, ravvisandosi gravi motivi della intrinseca complessità della questione di massima oggetto di contrasto.
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa al tribunale di Monza anche per le spese del giudizio di merito; compensa le spese del giudizio di cassazione.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili,
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 08 giugno 2023, n. 16166, per SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337, in tema di fallimento
SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337, in tema di fallimento
In tema di diritto internazionale privato – SS.UU, 28 febbraio 2024, n. 5303
Civile Ord. Sez. U Num. 5303 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: MERCOLINO GUIDO
Data pubblicazione: 28/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 32050/2018 R.G. proposto da
AZIMUT MARINE DENIZCILIK SAN. VE TIC A.S., in persona dei legali rappresentanti p.t. Nese Yildiz e Fatih Okur, rappresentata e difesa dall’Avv. Denise D’Annibale, con domicilio eletto in Roma, via G.G. Belli, n. 36, presso lo studio dell’Avv. Luca Pardini;
– ricorrente –
contro
SYSNAV S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t. Fabio Concezzi, rappresentata e difesa dall’Avv. Gianrocco Catalano, con domicilio eletto in Roma, via Lutezia, n. 11;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1972/18, depositata il 28 marzo 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16 gennaio 2024 dal Consigliere Guido Mercolino;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alessandro PEPE, che ha chiesto l’accoglimento del primo motivo di ricorso, con l’assorbimento degli altri motivi.
FATTI DI CAUSA
1. L’Azimut Marine Denizcilik San. Ve Tic A.s. convenne in giudizio la Sysnav S.r.l., proponendo opposizione al decreto ingiuntivo n. 15845/11, emesso il 10 agosto 2011, con cui il Tribunale di Roma le aveva intimato il pagamento della somma di Euro 230.358,00, oltre interessi, a titolo di corrispettivo per la fornitura di dispositivi digitali e pannelli operatore costituenti il sistema «AMX id Proteo», ai fini della realizzazione di un nuovo modello di imbarcazione.
A sostegno dell’opposizione, l’attrice riferì che il sistema, finalizzato alla gestione digitale dell’impianto elettrico dell’imbarcazione, aveva manifestato fin dall’origine problemi di funzionamento, che avevano reso necessario l’intervento dei tecnici della Sysnav, e per la cui soluzione quest’ultima aveva chiesto che la fornitura dei pannelli elettrici fosse affidata ad un subfornitore di sua fiducia. Essendo fallito ogni tentativo di porre rimedio ai predetti inconvenienti, essa attrice era stata costretta a richiamare tutte le imbarcazioni dotate del predetto sistema ed a sostituirlo con un sistema elettromeccanico tradizionale, offrendo in restituzione alla fornitrice i componenti smontati o giacenti in magazzino. Tanto premesso, l’attrice eccepì il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, spettando la controversia al Giudice turco, la violazione dell’art. 641 cod. proc. civ. e il grave inadempimento della Sysnav, chiedendo la risoluzione del contratto e la dichiarazione dell’obbligo della convenuta di risarcire i danni da essa subìti.
Si costituì la Sysnav, e resistette all’opposizione, chiedendo la condanna dell’attrice al pagamento della somma di Euro 154.690,00 per l’illegittima cancellazione di ordini relativi a prodotti già realizzati, ed al risarcimento dei danni.
1.1. Con sentenza del 30 luglio 2015, il Tribunale di Roma dichiarò la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana ed accolse l’opposizione, ritenendo provata l’esistenza di malfunzionamenti nel sistema fornito, e revocando quindi il decreto ingiuntivo; escluse peraltro la gravità dell’inadempimento, e condannò l’Azimut al pagamento della somma di Euro 171.618,50, oltre interessi, a titolo di corrispettivo per la fornitura dei pannelli di controllo e del materiale elettrico, dichiarando invece inammissibili le domande di risarcimento reciprocamente proposte dalle parti.
2. L’impugnazione proposta dall’Azimut è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Roma con sentenza del 28 marzo 2018.
A fondamento della decisione, la Corte, per quanto ancora rileva in questa sede, ha confermato la spettanza della controversia alla giurisdizione italiana, ritenendo inoperanti sia l’art. 5, n. 1, lett. b), del Regolamento CE n. 44/2001 del 22 dicembre 2000 che il Regolamento CE n. 1215/2012 del 12 dicembre 2012, poiché l’opponente aveva la sua sede in Turchia, ed affermando l’applicabilità dell’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, resa esecutiva con legge 21 giugno 1971, n. 804; ha rilevato infatti che la sostituzione del Regolamento alla Convenzione, prevista dall’art. 68 di entrambi i Regolamenti, opera esclusivamente tra gli Stati membri dell’UE, aggiungendo che, ai fini dell’individuazione del luogo in cui doveva essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio, non poteva trovare applicazione l’art. 57 della Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 sulla vendita internazionale di merci, resa esecutiva con legge 11 dicembre 1985, n. 765, che disciplina il rapporto sostanziale, ma l’art. 1182 cod. civ., ai sensi del quale doveva tenersi conto del luogo in cui aveva sede la venditrice.
Nel merito, premesso che la sentenza di primo grado era rimasta incensurata sia nella parte in cui aveva ritenuto impossibile accertare l’esistenza e la causa dei vizi lamentati, sia nella parte in cui aveva escluso la riferibilità degli stessi al materiale elettrico fornito dalla Sysnav, la Corte ha osservato che l’Azimut non aveva dimostrato il malfunzionamento dell’intera fornitura e la necessità di rimuoverla senza poterla riutilizzare almeno parzialmente, ritenendo insufficienti, a tal fine, le deposizioni rese dai testi escussi, e aggiungendo che il sistema era progettato per funzionare, in caso di emergenza, anche in modo meccanico. Ha escluso pertanto la possibilità di pronunciare la risoluzione del contratto per inadempimento della venditrice, dovendo quest’ultimo essere valutato sotto il profilo meramente quantitativo del materiale fornito, la cui parziale riutilizzazione da parte dell’acquirente escludeva la configurabilità di un adempimento totale, non essendo stato dedotto che il materiale fosse affetto da vizi tali da renderlo inutilizzabile con qualsiasi tipo di comando.
La Corte ha confermato infine l’inammissibilità della domanda di risarcimento del danno proposta con l’atto di opposizione, per mancata precisazione del petitum, essendosi l’opponente riservata di agire dinanzi al Giudice turco, con la conseguente impossibilità di operare una valutazione quantitativa ai fini della compensazione con il credito fatto valere dalla Sysnav.
3. Avverso la predetta sentenza l’Azimut ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. La Sysnav ha resistito con controricorso, illustrato anche con memoria.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione dinanzi alla Seconda Sezione civile, che con ordinanza interlocutoria del 13 settembre 2023 ha rimesso gli atti alla Prima Presidente, la quale ne ha disposto l’assegnazione alle Sezioni Unite, alla luce della questione di giurisdizione sollevata con il primo motivo, in ordine alla quale la più recente giurisprudenza di legittimità ha fatto registrare un mutamento d’indirizzo, che ha dato luogo a reazioni critiche in dottrina.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità dell’impugnazione, sollevata dalla difesa della controricorrente in relazione alla mancanza dell’attestazione di conformità all’originale della procura alle liti ed alla mancata indicazione, in quest’ultima, degli estremi della sentenza impugnata, nonché al difetto di rappresentanza dei soggetti che l’hanno rilasciata.
1.1. La procura speciale, conferita su supporto cartaceo, risulta infatti redatta su un foglio separato ma congiunto materialmente al ricorso, anche esso predisposto in formato analogico, ed è stata notificata unitamente allo stesso a mezzo PEC, nonché depositata in Cancelleria, con l’attestazione di conformità, la quale si riferisce sia al ricorso che alla procura e alle ricevute comprovanti la spedizione e la consegna del messaggio di posta elettronica. La circostanza che l’attestazione di conformità non sia stata inserita nella relata di notifica, come prescritto dall’art. 3-bis, comma quinto, lett. g), della legge 21 gennaio 1994, n. 53, non comporta la nullità della notificazione, e quindi l’inammissibilità dell’impugnazione, configurandosi, nel contesto normativo vigente all’epoca della proposizione del ricorso, che prevedeva la costituzione in formato cartaceo, come una mera irregolarità non invalidante, nella specie sanata dalla successiva allegazione in sede di deposito (cfr. Cass., Sez. Un., 21/12/2020, n. 29175).
Ininfluente, ai fini della validità della procura, deve considerarsi anche la mancata indicazione della data e degli estremi della sentenza impugnata, trattandosi di un’omissione inidonea a generare incertezza in ordine al conferimento del potere rappresentativo per il giudizio di legittimità, avuto riguardo alla congiunzione materiale dell’atto al ricorso ed al preciso riferimento alla Corte di cassazione, in esso contenuto, nonché alla data di rilascio, successiva alla pronuncia della sentenza impugnata ed anteriore alla notificazione del ricorso, che ne assicurano la compatibilità con il requisito della specialità prescritto dall’art. 365 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. III, 17/01/2022, n. 1165; Cass., Sez. V, 21/12/2019, n. 34259; Cass., Sez. II, 27/05/2019, n. 14437).
Parimenti inidonea a determinare la nullità della procura o del ricorso deve considerarsi la mancata specificazione della partita IVA della società ricorrente e del codice fiscale dei soggetti che hanno conferito il mandato in nome della stessa, trattandosi di un’indicazione non prescritta dall’art. 366, n. 1 cod. proc. civ., la cui omissione non impedisce peraltro di risalire all’identità di tali soggetti, agevolmente individuabili sulla base dell’indicazione della sede della società e dei dati anagrafici delle persone che la rappresentano legalmente (cfrr. Cass., Sez. I, 24/02/2021, n. 5067; Cass., Sez. III, 19/014/2016, n. 767; Cass., Sez. V, 17/12/2015, n. 25399).
2. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 3 della legge 31 maggio 1995, n. 218, censurando la sentenza impugnata per aver affermato la spettanza della controversia alla giurisdizione italiana, senza tenere conto dell’avvenuta conclusione del contratto in Turchia, dove era stata eseguita anche la prestazione caratterizzante, costituita dalla fornitura del sistema digitale. Premesso di non avere sede in Italia e di non avervi neppure un rappresentante autorizzato a stare in giudizio, afferma che, ai sensi dell’art. 68 del Regolamento CE n. 44/2001, il rinvio alla Convenzione di Bruxelles contenuto nell’art. 3 cit. deve intendersi oggi riferito al medesimo Regolamento, avendo come unico scopo quello di estendere ai rapporti con gli Stati extracomunitari le regole di diritto internazionale privato vigenti nei rapporti tra gli Stati membri. Precisato che la soluzione non sarebbe stata diversa, anche nel caso in cui fosse stato applicato l’art. 5 della Convenzione di Bruxelles, afferma l’inconferenza del richiamo alla Convenzione di Vienna, in quanto non avente ad oggetto il riparto di giurisdizione tra gli Stati contraenti, ma l’unificazione della disciplina sostanziale della vendita internazionale.
3. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1453 e 1492 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di risoluzione del contratto, nonostante l’accertamento dei difetti del sistema fornito. Sostiene infatti che la Corte territoriale ha immotivatamente separato il sistema dalle componenti elettriche che lo costituivano, senza tenere conto dell’oggetto dell’incarico conferito alla Sysnav, consistente sia nella fornitura dei dispositivi digitali e dei pannelli operatore che nella progettazione di tutto l’impianto elettrico, né della gestione completa ed autonoma del sistema da parte della Sysnav, né della richiesta, dalla stessa avanzata successivamente, di affidare la fornitura dei quadri elettrici ad un subfornitore di sua fiducia. Aggiunge che la sentenza impugnata ha omesso di valutare le deposizioni rese dai testi, da cui risultava che il malfunzionamento del sistema dipendeva anche dai componenti elettrici che ne costituivano il corpo, i quali avevano dovuto essere in gran parte sostituiti, essendone rimasta sulle imbarcazioni soltanto una parte marginale. Precisa infine di aver censurato la sentenza di primo grado anche nella parte concernente la valutazione dell’importanza dell’inadempimento, nonché di aver dedotto che le contestazioni sollevate riguardavano anche il materiale elettrico.
4. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha posto a carico di essa appellante l’onere di fornire la prova dei vizi del sistema fornito, spettante invece alla venditrice, la quale avrebbe quindi dovuto dimostrare di aver consegnato una cosa conforme alle caratteristiche del tipo ordinariamente prodotto o la regolarità del processo di fabbricazione o di realizzazione.
5. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per aver dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno, configurabile in realtà come eccezione riconvenzionale, in quanto volta a paralizzare la domanda proposta dalla Sysnav, mediante la sollecitazione di un accertamento incidentale del diritto al risarcimento, ai fini di un’eventuale compensazione.
6. Il primo motivo, con cui la ricorrente insiste sul difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, è fondato.
Nell’escludere la spettanza della giurisdizione all’Autorità giudiziaria della Turchia, la Corte d’appello ha richiamato infatti l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai sensi dell’art. 3, comma secondo, della legge 31 maggio 1995, n. 218, per determinare l’ambito della giurisdizione italiana, nelle materie non escluse dal campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, occorre fare riferimento ai criteri stabiliti dalle Sezioni II, III e IV del Titolo II della medesima Convenzione, i quali trovano applicazione anche nei confronti del convenuto non domiciliato né residente in Italia e non appartenente ad uno Stato contraente, giacché il rinvio ai predetti criteri è destinato ad operare oltre la sfera dell’efficacia personale della stessa (cfr. Cass., Sez. Un., 2/12/2013, n. 26937; 12/04/2012, n. 5765; 11/02/2003, n. 2060). Com’è noto, nell’ambito di tale orientamento è stato precisato che il rinvio contenuto nell’art. 3, comma secondo, della legge n. 218 del 1995 si riferisce esclusivamente alla Convenzione di Bruxelles, e non può essere esteso al Regolamento CE n. 44/2001, non avendo quest’ultimo sostituito definitivamente (e quindi implicitamente abrogato) la Convenzione, la quale continua ad operare relativamente ai rapporti con soggetti non domiciliati in uno degli Stati dell’Unione ovvero domiciliati in uno degli Stati che, pur facendo parte dell’Unione, non hanno adottato il predetto regolamento (cfr. Cass., Sez. Un., 21/10/2009, n. 22239). Conformemente a tale precisazione, la sentenza impugnata ha escluso l’applicabilità sia del Regolamento CE n. 44/2001, vigente alla data di proposizione della domanda, sia del Regolamento UE n. 1215/2012, che lo ha sostituito, osservando che, ai sensi dell’art. 68 di entrambi i Regolamenti, il rinvio alla Convenzione di Bruxelles s’intende riferito ai Regolamenti stessi soltanto nei limiti in cui questi ultimi sostituiscono, tra gli Stati membri, le disposizioni della Convenzione, e richiamando il nono considerando del primo Regolamento, secondo cui «i convenuti non domiciliati in uno Stato membro sono generalmente soggetti alle norme nazionali in materia di competenza vigenti nel territorio dello Stato membro del giudice adìto e i convenuti domiciliati in uno Stato membro non vincolato dal presente regolamento devono continuare ad essere soggetti alla Convenzione di Bruxelles».
Tale orientamento ha costituito peraltro oggetto di rimeditazione da parte della giurisprudenza più recente, la quale, richiamando anche la giurisprudenza unionale (cfr. Corte di giustizia UE, sent. 3/09/2020, in causa C-186/ 19, Supreme Site Services GmbH; 29/07/2019, in causa C-451/18, Tibor), ha osservato che la Convenzione di Bruxelles, nazionalizzata dall’art. 3, comma secondo, della legge n. 218 del 1995, s’intende ormai trasfusa nel Regolamento n. 1215/2012, che ha sostituito il Regolamento n. 44/2001, con la conseguenza che le disposizioni di quella Convenzione restano operanti per i soli territori degli Stati membri che rientrano nell’ambito di applicazione territoriale della stessa e che sono esclusi dal Regolamento ai sensi dell’art. 355 del TFUE. Premesso che, così come l’art. 4 della Convenzione di Bruxelles, l’art. 6 del Regolamento UE n. 1215/2012 stabilisce che, se il convenuto non è domiciliato in uno Stato membro, la competenza delle autorità giurisdizionali di ciascuno Stato membro è disciplinata dalla legge di tale Stato, si è rilevato che la legge dello Stato italiano alla quale rinvia l’art. 6 cit. è oggi costituita, per l’appunto, dall’art. 3 della legge n. 218 del 1995, il quale al comma secondo richiama, per le materie già comprese nel campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles, i criteri stabiliti dalla medesima Convenzione e dalle sue successive modificazioni in vigore per l’Italia, i quali sono dichiarati applicabili «anche allorché il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente». Si è pertanto concluso che, alla stregua dello art. 3, comma secondo, della legge n. 218 del 1995, se il convenuto non è domiciliato in uno Stato membro, la giurisdizione italiana, quando si tratti di una delle materie già comprese nel campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles, sussiste in base ai criteri stabiliti dal Regolamento n. 1215/2012, il quale ha sostituito il Regolamento n. 44/2001, che aveva a sua volta sostituito la Convenzione (cfr. Cass., Sez. Un., 8/01/2024, n. 613; 10/07/2023, n. 19571; 24/11/2021, n. 36371; 10/11/2021, nn. 33002 e 33003; 25/06/ 2021, n. 18299).
Le predette conclusioni, cui questa Corte è pervenuta sulla base della disciplina dettata dal Regolamento n. 1215/2012, meritano di essere ribadite in questa sede anche con riferimento a quella prevista dal precedente Regolamento n. 44/2001, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, in quanto vigente alla data dell’instaurazione del presente giudizio: l’art. 4 di tale Regolamento prevede infatti, allo stesso modo dell’art. 6 del Regolamento che lo ha sostituito, che «se il convenuto non è domiciliato nel territorio di uno Stato membro, la competenza è disciplinata, in ciascuno Stato membro, dalla legge di tale Stato», in tal modo estendendo indirettamente il campo di applicazione della disciplina eurounitaria anche ai soggetti non domiciliati negli Stati membri, attraverso il recepimento dei criteri dalla stessa dettati nell’ambito della normativa nazionale (cfr. Cass., Sez. Un., 20/02/2013, n. 4211).
6.1. Non possono quindi condividersi le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata, la quale, sulla base della disciplina dettata dall’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles, ha ritenuto che, trattandosi di controversia in materia contrattuale, la giurisdizione spettasse all’Autorità giudiziaria italiana, in qualità di forum destinatae solutionis, individuando l’obbligazione dedotta in giudizio in quella avente ad oggetto il pagamento del prezzo dei beni forniti dalla Sysnav e il luogo in cui la prestazione avrebbe dovuto essere eseguita nella sede di affari della venditrice, in virtù del richiamo alla disciplina uniforme dettata dall’art. 57 della Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 sulla vendita internazionale di merci.
Com’è noto, infatti, l’art. 5, n. 1 della Convenzione di Bruxelles viene comunemente interpretato nel senso che il forum destinatae solutionis deve essere individuato avendo riguardo al luogo in cui è stata o dev’essere eseguita la specifica obbligazione intorno alla quale le parti controvertono, da determinarsi in conformità della legge sostanziale applicabile al rapporto sulla base del diritto internazionale privato del giudice adìto (cfr. Cass., Sez. Un., 6/06/2002, n. 8224; 6/08/1998, n. 7714; 19/12/1994, n. 10910; v. anche Corte di Giustizia UE, 5/10/1999, in causa C-420/97, Leathertex; 29/06/ 1994, in causa C-288/92, Custom Made Commercial Ltd.; 6/10/1976, in causa C-14/76, De Bloos); ove poi, come nella specie, la controversia abbia ad oggetto una vendita internazionale di merci, si è ritenuto che debba farsi riferimento alla Convenzione di Vienna, la quale, dettando una disciplina sostanziale uniforme, si sostituisce alle legislazioni dei singoli Stati e prevale anche sulla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, resa esecutiva con legge 18 dicembre 1984, n. 975 (cfr. Cass., Sez. Un., 21/10/2009, n. 22239; 9/02/2009, n. 3059; 20/04/ 2004, n. 7503).
Nonostante la parziale identità della formulazione letterale, recante in entrambi i casi il riferimento al «luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita», l’art. 5, n. 1 del Regolamento n. 44/01 è stato invece interpretato nel senso che, ai fini dell’individuazione del forum destinatae solutionis, occorre avere riguardo non già all’obbligazione fatta valere dall’attore, ma a quella caratterizzante il contratto (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 14/07/2016, in causa C-196/15, Granarolo S.p.a.; 25/02/ 2010, in causa C-381/08, Car Trim): il Giudice unionale ha infatti osservato che con tale disposizione il legislatore comunitario ha inteso rompere esplicitamente con la precedente soluzione secondo cui il luogo di esecuzione doveva essere individuato per ciascuna delle obbligazioni controverse in base al diritto internazionale privato del giudice adìto, designando autonomamente come luogo di esecuzione il luogo in cui l’obbligazione che caratterizza il contratto deve essere adempiuta, ed introducendo quindi una competenza speciale fondata su un collegamento particolarmente stretto tra il contratto e il giudice chiamato a conoscerne, in modo tale da centralizzare presso quest’ultimo la competenza giurisdizionale per le controversie relative a tutte le obbligazioni derivanti dal contratto, in una logica di ottimizzazione del processo (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 19/12/2013, in causa C-9/12, Corman-Collins SA; 11/03/2010, in causa C-19/09, Wood Floor Solutions Andreas Domberger GmbH; 3/05/2007, in causa C-386/05, Color Drack GmbH). Questa Corte ha a sua volta rilevato che, ai sensi della lett. c) dell’art. 5, n. 1, il riferimento al luogo in cui è stata o deve essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio, contenuto nella lett. a), riveste una portata meramente residuale, giacché, ove si tratti di compravendita di beni, la lett. b) conferisce rilievo, in via principale, al luogo in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto, il quale coincide, salvo diversa convenzione, con il luogo in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati, da individuarsi con riferimento al luogo di recapito finale della merce, al luogo cioè in cui la stessa entra nella disponibilità materiale, e non solo giuridica, dell’acquirente (cfr. Cass., Sez. Un., 22/11/2021, n. 35784; 19/03/2009, n. 6598; 20/06/ 2007, n. 14299; nel medesimo senso, in riferimento all’art. 7, n. 1, lett. b), primo trattino, del Regolamento n. 1215/2012, Cass., Sez. Un., 13/12/2018, n. 32362).
6.2. Sulla base di tali principi, e tenuto conto che in tema di riparto della giurisdizione questa Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto, procedendo non solo alla verifica della corretta individuazione ed interpretazione della disciplina applicabile, ma anche all’identificazione del giudice cui spetta la cognizione della controversia attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dalle ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata (cfr. Cass., Sez. Un., 5/11/2019, n. 28332; 8/06/2007, n. 13397; 10/07/2003, n. 10840), si rileva che nel caso di specie l’obbligazione caratterizzante il contratto stipulato tra le parti è costituita indubbiamente dalla fornitura del sistema digitale e dell’impianto elettrico prodotti dalla Sysnav, la cui consegna ha avuto pacificamente luogo in Turchia, presso la sede legale o comunque presso l’azienda della società ricorrente. La controversia esula pertanto dall’ambito della giurisdizione italiana, in applicazione del criterio di collegamento previsto dall’art. 5, n. 1, lett. a), del Regolamento CE n. 44/ 2001, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la circostanza, fatta valere dalla controricorrente, che la progettazione e la produzione dei sistema digitale fossero state originariamente commissionate dalla Azimut Benetti S.p.a., socia della Azimut Marine Denizcilik ed avente sede in Italia: come ha riconosciuto la stessa controricorrente, infatti, tra le parti è intervenuto successivamente un accordo, in virtù del quale il rapporto è proseguito esclusivamente con la ricorrente, che, in qualità di destinataria della fornitura ed obbligata al pagamento del corrispettivo, risulta pertanto l’unico soggetto legittimato a resistere alla domanda proposta dalla venditrice.
7. In accoglimento del primo motivo d’impugnazione, va pertanto dichiarato il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, restando assorbiti gli altri motivi, aventi ad oggetto questioni che attengono al merito della controversia.
La sentenza impugnata va conseguentemente cassata, senza rinvio.
La complessità della questione trattata, che ha costituito oggetto di un mutamento di giurisprudenza intervenuto in corso di causa, giustifica l’integrale compensazione delle spese relative ai tre gradi di giudizio.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata e dichiara il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana. Compensa integralmente le spese processuali.
Così deciso in Roma il 16/01/2024
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 13 settembre 2023, n. 26422, per SS.UU, 28 febbraio 2024, n. 5303, in tema di dir. internaz. privato
SS.UU, 28 febbraio 2024, n. 5303, in tema di diritto internazionale privato
In tema di concessioni demaniali – SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736
Civile Ord. Sez. U Num. 3736 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: BERTUZZI MARIO
Data pubblicazione: 09/02/2024
O R D I N A N Z A
sul ricorso N. 16978/2017 proposto da:
Stabilimento Balneare D’Aquila s.r.l., in persona dell’amministratore unico sig. Giampaolo D’Aquila, rappresentata e difesa dall’Avvocato Silvio Pinna, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avvocato Giorgio Carta in Roma, viale Parioli n. 55.
Ricorrente
contro
Regione Autonoma della Sardegna, in persona del suo Presidente, rappresentata e difesa dagli Avvocati Andrea Secchi e Mattia Pani, elettivamente domiciliata presso l’Ufficio di rappresentanza della Regione medesima in Roma, via Lucullo n. 21.
Controricorrente
avverso la sentenza n. 435/2017 della Corte di appello di Cagliari, depositata il 26. 5. 2017.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21. 11. 2023 dal consigliere Mario Beruzzi.
Fatti di causa
Con sentenza n. 435 del 26. 5. 2017 la Corte di appello di Cagliari, accogliendo l’appello incidentale proposto dalla Regione Autonoma della Sardegna, dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in favore del giudice amministrativo, sulla domanda proposta, ai sensi dell’art. 702 bis cod. proc. civ., dallo Stabilimento Balneare D’Aquila s.r.l. nei confronti della Regione per la restituzione della somma di euro 479.998,00, corrisposta a titolo di sovracanone dal 2004 al 2012.
La società Stabilimento Balneare D’Aquila, titolare di una concessione su porzione di demanio marittimo, aveva motivato la domanda di ripetizione esponendo che il pagamento del sovracanone era stato previsto dalla Regione con determinazioni nn. 2081/D del 28. 12. 2001 e 2220/D del 29. 12. 2003, emanate ai sensi dell’art. 46 del d.P.R. n. 348 del 1979, e che tale obbligo era stato poi riprodotto nell’atto di concessione demaniale; tuttavia, su ricorso di altro concessionario, la società cooperativa Golfo degli Aranci, il Tar Sardegna, con sentenza 14. 12. 2012, n. 1122, aveva annullato ” a causa della carenza del necessario presupposto normativo o legittimazione della pretesa impositiva “ non solo il provvedimento del comune che imponeva il sovracanone ma anche i suindicati atti regionali presupposti, facendo così venire meno il titolo per ottenere la sua corresponsione.
La Regione Autonoma della Sardegna aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e l’infondatezza nel merito della domanda.
Con ordinanza del 20. 10. 2015 il Tribunale di Cagliari affermò la propria giurisdizione ma rigettò la domanda, negando ogni rilevanza alla sentenza del giudice amministrativo invocata dalla parte privata, per essere la debenza del sovracanone prevista dalla convenzione n. 1176 del 2004 stipulata dalla società attrice in sede di concessione del bene demaniale, non oggetto di impugnativa.
La Corte di appello di Cagliari, investita da appello in via principale dalla società attrice ed in via incidentale dalla Regione Autonoma della Sardegna, dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario affermando che, ai sensi dell’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., le controversie in materia di concessione di beni pubblici sottratte alla giurisdizione del giudice amministrativo e quindi sottoposte a quella del giudice ordinario sono solo quelle di contenuto meramente patrimoniale che attengono all’ammontare del canone, nelle quali non viene in rilievo l’esercizio dei poteri discrezionali spettanti alla pubblica amministrazione, mentre nel caso di specie la società concessionaria aveva contestato proprio il corretto esercizio del potere della Regione nella imposizione del sovracanone.
Per la cassazione di questa sentenza, con atto notificato a mezzo posta con invio il 28. 6. 2017, ha proposto ricorso la s.r.l. Stabilimento Balneare D’Aquila, affidandosi ad un unico motivo.
La Regione Autonoma della Sardegna ha notificato controricorso e depositato successiva memoria.
Con ordinanza interlocutoria n. 16368 del 2023, la prima Sezione di questa Corte ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per la sua trattazione da parte delle Sezioni unite.
Ragioni della decisione
1.Con l’unico motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 1), cod. proc. civ.
La ricorrente assume che la statuizione di diniego della giurisdizione del giudice ordinario adottata dalla Corte di appello è errata, non conformandosi al modello legale di ripartizione stabilito dalla disposizione di legge citata. Ciò in quanto la esponente non aveva “ affatto contestato dinanzi al Tribunale l’azione autoritativa della Regione Sardegna “, e neppure “ contestato la concessione demaniale nella parte in cui (art. 4) imponeva il pagamento del sovracanone regionale “, ma aveva “ inteso esclusivamente azionare il proprio diritto soggettivo alla ripetizione delle somme riscosse sine titulo nel corso degli anni dalla Regione Sardegna a titolo di sovracanone, a seguito e per l’effetto della declaratoria di illegittimità da parte del TAR Sardegna non sentenza n. 1122 del 14 dicembre 2012 del medesimo sovracanone e dell’efficacia erga omnes di tale sentenza “.
La causa petendi dell’azione proposta non aveva pertanto ad oggetto la contestazione dell’esercizio di poteri discrezionali dell’amministrazione concedente, bensì il diritto di ripetere quanto versato in ragione del venir meno, in forza dell’annullamento disposto dal giudice amministrativo, degli atti amministrativi che avevano imposto il sovracanone.
Si aggiunge che, come emerge chiaramente dalla lettura dell’art. 4 dell’atto di concessione demaniale, in esso non si era formato alcun accordo, neppure mediato, tra concedente e concessionario in ordine al pagamento del sovracanone, la cui imposizione era pertanto diretta conseguenza della autoritativa applicazione da parte della Regione della determinazione, ivi richiamata, n. 2220/D del 29. 12. 2003.
2. Il ricorso è fondato.
2.1. L’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., stabilisce che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “ le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche“.
Questa Corte ha chiarito che le controversie concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, riservate, in materia di concessioni amministrative, alla giurisdizione del giudice ordinario, sono solo quelle con un contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo, cioè, il potere d’intervento della Pubblica Amministrazione a tutela di interessi generali; quando, invece, la controversia coinvolge la verifica dell’azione autoritativa della P.A. sull’intera economia del rapporto concessorio, la medesima è attratta nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo.
Sulla base di questo criterio distintivo è stato più volte sottolineato che ricorre la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della legittimità del provvedimento di determinazione del canone di concessione, in relazione al quale è ravvisabile un potere discrezionale della amministrazione concedente (Cass. Sez. un. 16459 del 2020; Cass. Sez. un. n. 11687 del 2020; Cass. Sez. un. n. 13903 del 2011; Cass. Sez. un. n. 15644 del 2010 ).
2.2. Ai sensi dell’art. 5 cod. proc. civ. si desume che la giurisdizione si determina sulla base della domanda, avuto riguardo al c.d. petitum sostanziale ed alla causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio ed individuata dal giudice stesso con riguardo ai fatti allegati ( Cass. Sez. un. n. 21677 del 2013; Cass. Sez. un. n. 10375 del 2007; Cass. Sez. un. n. 17461 del 2006 ). In sede di applicazione dell’art. 133 cod. dir. amm. il riparto della giurisdizione deve pertanto prendere in considerazioni le ragioni che il concessionario pone a fondamento della propria pretesa riguardante il canone concessorio.
Nel caso di specie, la società concessionaria ha avanzato la sua domanda di restituzione dei sovracanoni versati deducendo che essi erano stati previsti nell’atto concessorio senza che si fosse formata sul punto alcuna convenzione o accordo tra le parti, in virtù della mera applicazione ed esecuzione delle determinazioni regionali sopra menzionate e che, essendo esse state annullate con efficacia erga omnes dal Tar Sardegna, era venuto meno il titolo in forza del quale l’Amministrazione concedente potesse trattenere le somme versate. La pretesa azionata in giudizio va pertanto qualificata come domanda di ripetizione di indebito per sopravvenuta mancanza del titolo, fondata sull’efficacia ultra partes dell’invocato giudicato amministrativo di annullamento.
L’esame dei fatti costitutivi dell’azione dedotti dalla società attrice porta a ritenere che la presente controversia sia annoverabile tra quelle a contenuto patrimoniale aventi a oggetto le indennità i canoni o gli altri corrispettivi, devolute al giudice ordinario.
Ed invero l’azione si fonda non già sulla contestazione della legittimità dei provvedimenti che hanno imposto la prestazione che si assume non dovuta, bensì sulla mera richiesta di accertare che gli stessi sono venuti meno in forza di un giudicato amministrativo. Ciò che viene eccepito non è quindi un non corretto esercizio dei poteri discrezionali spettanti alla amministrazione concedente, prodromo al sindacato tipico del giudice amministrativo, ma la loro inefficacia ai fini della regolamentazione del rapporto di concessione. La domanda ha quindi ad oggetto la tutela di un diritto soggettivo patrimoniale a fronte della dedotta inesistenza del potere del concedente di imporre la corresponsione di una prestazione pecuniaria aggiuntiva a titolo di canone, esercitabile come tale dinanzi al giudice ordinario ( Cass. Sez. un. n. 13193 del 2018; Cass. Sez. un. n. 2295 del 2014 ). Mentre, è da aggiungere, appartengono al merito della controversia e non sono pertanto scrutinabili in sede di decisione sulla giurisdizione, le questioni inerenti alla estensione dell’efficacia del dedotto giudicato amministrativo al rapporto in essere tra le parti ed alla ricostruzione della regolamentazione dello stesso alla luce delle clausole e condizioni presenti nell’atto di concessione.
3. Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche a liquidare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; rinvia la causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche a liquidare le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite il 21 novembre
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 09 giugno 2023, n. 16368, per SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736, in tema di concessioni demaniali
SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736, in tema di concessioni demaniali
In tema di appalti pubblici – SS.UU, 29 febbraio 2024, n. 5441
Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Civile Ord. Sez. U Num. 5441 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: FALABELLA MASSIMO
Data pubblicazione: 29/02/2024
Oggetto
REGOLAMENTI
DI GIURISDIZIONE
R.G.N. 12066/2023
Cron.
Rep.
Ud. 05/12/2023
CC
ORDINANZA
sul ricorso 12066-2023 proposto da:
Geko s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gerolamo Taccogna e Luigi Cocchi;
– ricorrente –
contro
Sacyr Industrial SL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, piazza d’Ara Coeli 1, presso lo studio legale Osborne Clarke, rappresentata e difesa dagli avvocati Giorgio Lezzi e Federico Banti;
nonché contro
Iren Acqua s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Daniela Anselmi, Alessio Anselmi e Paolo Canepa;
– controricorrenti –
nonchè contro
Depuracion de Aguas del Mediterraneo SL, Infratech Consorzio Stabile s.c. a r.l.;
– intimate –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 796/2022 del TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE di GENOVA.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/12/2023 dal Consigliere MASSIMO FALABELLA;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale MAURO VITIELLO, il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso e l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario.
FATTI DI CAUSA
1. ― Iren s.p.a., quale stazione appaltante, ha espletato per Iren Acqua s.p.a. una procedura di gara per l’aggiudicazione dell’appalto relativo alla progettazione e realizzazione di un nuovo depuratore delle acque di scarico nell’area centrale di Genova.
L’appalto è stato aggiudicato a un raggruppamento temporaneo di imprese con mandataria Sacyr Industrial SL e mandanti Geko s.p.a., Depuracion de Aguas del Mediterrano SL – DAM S.L. e Infratech Consorzio Stabile s.c. a r.l.
L’aggiudicazione è stata impugnata innanzi al TAR della Liguria da parte di Veolia Water Technologies Italia s.p.a. che, quale mandataria di altro raggruppamento di imprese, era risultata seconda classificata in esito alla gara. Veolia ha lamentato che Sacyr Industrial avesse perso i requisiti di partecipazione e che, quindi, l’aggiudicazione ad essa ed al suo raggruppamento fosse illegittima.
Prima che tale ricorso fosse deciso, Iren s.p.a. ha revocato l’aggiudicazione al raggruppamento di imprese di cui era mandataria Sacyr, con un atto che non è stato impugnato.
Ha fatto seguito una nuova aggiudicazione a Veolia ed al suo raggruppamento.
2. ― Con successivo ricorso Iren Acqua ha agito innanzi al TAR della Liguria nei confronti di Sacyr e delle mandanti. Ha domandato, in particolare, la declaratoria del diritto della ricorrente al risarcimento dei danni derivanti dalla mancata stipula del contratto (visto che l’appalto era stato definitivamente aggiudicato al raggruppamento di imprese facente capo a Veolia a un corrispettivo superiore) e la conseguente condanna delle convenute, nonché, in via subordinata, l’accertamento del proprio diritto ad ottenere il pagamento della somma dovuta per cauzione, con relativa condanna.
Geko, Sacyr e le altre imprese del raggruppamento aggiudicatario, in origine, dell’appalto, si sono costituite, resistendo al ricorso ed eccependo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
3. ― Prima dell’udienza pubblica fissata per la discussione del ricorso Geko ha proposto un regolamento preventivo di giurisdizione.
Avanti a questa Corte hanno rassegnato difese Iren Acqua e Sacyr. Il Pubblico Mistero ha concluso chiedendo la declaratoria di giurisdizione del giudice ordinario. Sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. ― La ricorrente assume che l’azione di controparte avrebbe dovuto essere proposta avanti al giudice ordinario. Deduce, in sintesi, che la controversia non inerisce alla fase pubblicistica della gara ma a una fase precontrattuale, in cui i contendenti si trovavano su di un piano di assoluta parità.
2. ― Il ricorso per regolamento è fondato.
Come è noto, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva il petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione (Cass. Sez. U. 31 luglio 2018, n. 20350; cfr. pure, tra le tante: Cass. Sez. U. 7 settembre 2018, n. 21928; Cass. Sez. U. 15 settembre 2017, n. 21522; Cass. Sez. U. 11 ottobre 2011, n. 20902).
Col ricorso al TAR della Liguria Iren Acqua ebbe a fondare le proprie pretese di risarcimento del danno e di incameramento della cauzione provvisoria sulla mancata stipula del contratto per fatto imputabile all’aggiudicataria, la quale, a suo avviso, aveva mancato di adempiere l’obbligo di mantenere per tutta la durata della procedura il possesso dei requisiti dichiarati, oltre che di informare l’Amministrazione del venir meno di tali requisiti (pag. 11 dell’atto in questione). L’odierna ricorrente fece dunque valere una responsabilità precontrattuale della controparte.
Ciò detto, il fatto che le domande proposte presentassero un collegamento con una procedura di evidenza pubblica ─ posto che, come si è visto, il raggruppamento di imprese di cui era mandataria Sacyr risultò aggiudicatario dell’appalto e proprio in conseguenza della condotta delle imprese risultate vincitrici della gara l’odierna istante intese procedere alla revoca dell’aggiudicazione ─ non appare decisivo ai fini che qui interessano.
Non rileva, in particolare, che abbia avuto luogo l’aggiudicazione, e nemmeno che si sia provveduto alla revoca della stessa, dal momento che il giudizio non verte sull’accertamento della legittimità o illegittimità di tali atti.
E’ da ricordare, in linea generale, che ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, le norme che attribuiscono al giudice amministrativo la giurisdizione in particolari materie ― nella specie che qui interessa: l’art. 133, lett. e1), c.p.a., in tema di procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture ― si devono interpretare nel senso che non vi rientra ogni controversia che in qualche modo riguardi una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva, non essendo sufficiente il dato della mera attinenza della controversia con la materia, ma soltanto le controversie che abbiano ad oggetto, in concreto, la valutazione di legittimità di provvedimenti amministrativi che siano espressione di pubblici poteri (Cass. Sez. U. 25 febbraio 2011, n. 4614).
In fattispecie analoga a quella in esame, in cui veniva in questione la decadenza di un’aggiudicazione per mancata consegna di tutta la documentazione amministrativa necessaria ai fini della stipulazione del contratto, queste Sezioni Unite si sono pronunciate nel senso che la vicenda attinente alla scelta dell’aggiudicatario contraente nella procedura ad evidenza pubblica rimaneva sullo sfondo rispetto alla controversia risarcitoria introdotta dalla stazione appaltante, la quale aveva lamentato il comportamento precontrattuale illecito della società aggiudicataria domandando il risarcimento dei danni derivati dalla mancata stipula del contratto e dalla assegnazione del servizio, con scorrimento della graduatoria, all’impresa seconda classificata, a condizioni ritenute peggiorative per la medesima committente. In tal senso si è ritenuto che la domanda non inerisse alla fase pubblicistica della gara, ma a un ambito precontrattuale, in cui le parti di trovavano su un piano di perfetta parità (Cass. Sez. U. 4 gennaio 2023, n. 111, non massimata in CED).
Le stesse considerazioni possono svolgersi con riguardo alla presente lite, nella quale non è implicato, come si è detto, alcun giudizio circa la legittimità dell’esercizio di potestà pubblicistiche.
Infatti, una volta appurato che la proposta domanda si fonda, come si è visto, sulla prospettata responsabilità precontrattuale di Sacyr, la quale aveva taciuto il venir meno di alcune condizioni richieste per addivenire alla conclusione del contratto, deve trovare applicazione il principio per cui la domanda di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale proposta da una stazione appaltante nei confronti del soggetto affidatario di lavori o servizi pubblici appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di richiesta afferente non alla fase pubblicistica della gara ma a quella prodromíca, nella quale si lamenta la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza: in tale ipotesi, infatti, il giudice predetto è chiamato a decidere di una controversia avente ad oggetto un diritto soggettivo la cui lesione sia stata non conseguente, bensì soltanto occasionata da un procedimento amministrativo di affidamento di lavori o servizi (Cass. Sez. U. 4 luglio 2017 n. 16419; in tema cfr. pure Cass. Sez. U. 17 giugno 2021, n. 17329).
Né assume rilievo, ai presenti fini, la modifica dell’art. 124 c.p.a.. Quale che sia la portata di tale norma, invocata da Iren Acqua, è certo che, ratione temporis, essa non possa regolare la giurisdizione della presente causa. Infatti, l’art. 209 d.lgs. n. 36/2003, con cui è stato modificato il cit. art. 124, ha acquistato efficacia il 1 luglio 2023: dopo, quindi, l’introduzione del giudizio avanti al TAR.
3. ─ Le spese del regolamento sono rimesse al merito.
P.Q.M.
La Corte
dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; rimette al giudizio di merito le spese del regolamento di giurisdizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 29 febbraio 2024, n. 5441, in tema di appalti pubblici
In tema di patto commissorio – SS.UU, 03 aprile 1989, n. 1611
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
R . G . N . 944/85
Cron. 5582
Rep. 626
Ud. 17.12.88
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Antonio BRANCACCIO – Primo Presidente –
Dott. Andrea Vela – Pres. di Sez. –
Dott. Vittorio NOVELLI – Pres. di Sez. –
Dott. Vincenzo DI CIO’ – Consigliere –
Dott. Onofrio FANELLI – Consigliere –
Dott. Romano PANZARANI – Consigliere –
Dott. Nicola LIPARI – Consigliere –
Dott. Antonio SENSALE – Consigliere –
Dott. Enzo MERIGGIOLA – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 944/85, del R.G.AA.CC. proposto
da
LODIGIANI IDA, elettivamente domiciliata in Roma, presso la Cancelleria Civile della Corte Suprema di Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avv.Giovanni Bertora, giusta delega a margine del ricorso
RICORRENTE
CONTRO
BERZIGA AURELIO elattivamente domiciliato in Roma, via della Giuliana n. 73/6 presso lo studio dell’Avv. Aldo Spezzaferri, che lo rappresenta e difende unitamente all’Avv. Tito Costa, giusta delega a margine del ricorso
CONTRORICORRENTE
Avverso la sentenza della Corte d’ appello di Bologna depositata il 16.10 1984;
Udita nella pubblica udienza, tenutasi il giorno 17 dicembre 1988, la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Meriggiola;
Udito l’Avv. Bertora;
Udito il Pubblico Ministero, nella persona del Dr. Elio Amatucci, Avvocato Generale presso la Corte Suprema di Cassazione, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il 26 aprile 1980 Berziga Aurelio conveniva dinanzi al Tribunale di Parma Lodigiani Ida, deducendo che nel 1971, essendo debitore nei confronti della convenuta per L. 11.250.000, aveva stipulato con la stessa un atto di vendita simulato di un appartamento di sua proprietà, avente la funzione di garantire il pagamento del debito.
In virtù di tale accordo aveva continuato a godere del bene percependo i canoni di locazione, ma poi, pur avendo estinto il debito, la Lodigiani non aveva acconsentito a ritrasferirgli l’immobile.
Per tali ragioni chiedeva che il Tribunale, accertata la dedotta simulazione, condannasse la convenuta ad un congruo risarcimento del danno, in via subordinata alla restituzione delle somme corrisposte, per indebito arricchimento.
Il Tribunale con sentenza I° marzo 1983 respingeva la domanda; successivo 6 ottobre 1984 la Corte d’Appello di Bologna, giudicando sull’impugnazione del Berziga, dichiarava la nullità del contratto. La sentenza rilevava che l’atto notarile, dato atto della esistenza del debito contratto dal Berziga, prevedeva esplicitamente il suo progressivo scomputo con versamenti rateali, nonchè il diritto del debitore di riscattare l’appartamento e venderlo a terzi entro due anni dalla estinzione del mutuo, oltre al corrispondente diritto del creditore di conservare la proprietà in caso di inadempimento totale e parziale. in virtù di tale accordo aveva continuato a godere del bene percependo i canoni di locazione ma poi pur avendo estinto il debito la lodigiani non aveva acconsentito al dell’immobile eh appunto per tali ragioni chiedeva il tribunale accertata la dedotta simulazione condannasse la convenuta ad un congruo risarcimento del danno in via subordinata la restituzione delle somme corrisposte per indebito arricchimento punto il tribunale con sentenza 1 marzo 1983 respingeva la domanda il successivo 6 ottobre 1984 la Corte d’appello di Bologna giudicando l’impugnazione del berzin di gara dichiarava la nullità del contratto. La sentenza rilevava che l’atto notarile dato atto della esistenza del debito contratto dal borzaga prevedeva esplicitamente il suo progressivo scomputo con versamenti rateali nonché il diritto del debitore di riscattare l’appartamento e venderlo a terzi entro due anni l’estinzione del mutuo oltre al corrispondente diritto del creditore di conservare la proprietà in caso di di riempimento totale o parziale.
Tali circostanze dimostravano l’intento di vincolare il bene a garanzia del debito, sì che la volontà espressa, rispettivamente di acquistare e vendere appariva “subordinata e strumentale” rispetto alla finalità perseguita; in altri termini si era trattato di una vendita effettiva con patto di riscatto o comunque sottoposta a condizione risolutiva con funzione di garanzia reale a favore del creditore, da servire come “paravento” a un patto commissorio occulto, da realizzare attraverso un procedimento indiretto, cioè il ricorso a fattispecie negoziale tipica, quindi lecita, fine questo irraggiungibile con un negozio diretto stante il divieto del patto commissorio.
Tale figura negoziale, peraltro, in quanto dissimulava uno scopo di garanzia mediante cessione di beni; pur non integrando un procedimento simulatorio conteneva una causa illecita, in quanto diretta a frodare la legge, come tale da ritenere nulla.
Le parti, infatti, avevano disposto in essere una figura negoziale tipica; in contrasto con la loro effettiva volontà, la cui nullità discendeva dagli arti. 1344 e 1418 cod. civ., costituente il mezzo per eludere il divieto posto da una norma imperativa, rivelando tal modo l’illiceità della sua causa.
Le parti, precisava la sentenza, avevano regolato i loro rapporti anche con una scrittura la quale, pur contenendo un ridimensionamento del prezzo, regolamentava la modalità di pagamento del debito e di retrocessione del bene, da effettuarsi entro due anni dall’estinzione del mutuo, senza evidenziare una volontà contraria all’effettiva cessione del bene, confermata da un esplicito richiamo all’atto pubblico e alla ripetuta previsione di un obbligo di retrocessione, implicante logicamente una precedente effettiva volontà di cessione.
L’attore, invero, non aveva avanzato un’esplicita domanda di accertamento della nullità, essendosi limitato a dedurre la simulazione e la dichiarazione del diritto a conservare la proprietà dell’appartamento, ma la nullità poteva essere dichiarata, sia perché questa è rivelabile d’ufficio ai sensi dell’art. 1421 cod. civ., sia perché la complessiva valutazione del contenuto dell’atto introduttivo del giudizio e delle istanze successive consentiva di ritenere che il Berziga, almeno in via alternativa con l’azione di simulazione, avesse certamente inteso aspettare una richiesta di accertamento di nullità del contratto.
Contro la sentenza la Lodigiani ha proposto ricorso deducendo tre censure, il cui fondamento viene contestato dal Berziga nel controricorso.
Motivi della decisione
Va preliminarmente preso in esame il terzo motivo attinente a questione pregiudiziale, con cui viene dedotta la violazione degli artt. 99 e 345 c.p.c., 1421 cod. civ. sul rilievo che, pur essendosi limitato il Berziga a chiedere l’accertamento della simulazione, la Corte di Bologna, invece di rigettare la domanda, come avrebbe dovuto, essendo mancata la prova della simulazione, ha dichiarato la nullità dell’atto di trasferimento e della scrittura integrativa, senza considerare che la nullità può esser dichiarata quando venga chiesta l’esecuzione del contratto, non anche quando si agisca per la risoluzione, la rescissione o l’annullamento.
E nella specie la Lodigiani, ben lungi dal chiedere l’esecuzione, aveva concluso in primo e secondo grado soltanto per la pronuncia di inefficacia del negozio per simulazione. Né la domanda proposta consentiva di rilevare d’ufficio la nullità, non avendo l’attore mai dedotto tale vizio.
Sulle deduzioni così sintetizzate, va considerato che per costante indirizzo di questa Corte, ora da confermare, il giudice può dichiarare la nullità di un contratto, ai sensi dell’art. 1421 cod. civ., anche nell’ipotesi in cui non sia stata richiesta in termini espliciti, ogni volta che da una globale e illogica interpretazione della domanda emerga la volontà di vedersi riconosciuta la invalidità del rapporto contrattuale dedotto in giudizio, oppure nell’ipotesi in cui siano stati richiesti l’applicazione del contratto o il riconoscimento di diritti ad esso connessi.
Poiché in tali casi il giudice è tenuto a riscontrare gli elementi costitutivi dell’azione esperita, la nullità va necessariamente dichiarata, ponendosi essa effetto dell’accertamento negativo operato sulla pretesa fatta valere in base al contratto.
La rilevabilità d’ufficio di conseguenza, proprio perché risulta dall’esame degli elementi costitutivi, va coordinata con i principi della domanda e della disponibilità, non potendo il giudice prospettarsi questioni giuridiche e presupponente indagini per le quali le parti non abbiano fornito sufficienti elementi (cf.r anche di recente Cass. N° 5958 del 1985; N° 457 del 1986; N° 1903, 4469 e 6480 del 1987).
Nella specie, la Corte di merito ha accertato che l’attore, dopo aver compiuto nella domanda una puntuale descrizione dei fatti (compravendita con funzione di garantire il credito e patto di retrocessione non osservato dall’acquirente), nelle conclusioni, oltre alla declaratoria di simulazione, ha chiesto il riconoscimento della proprietà “piena ed esclusiva” sull’immobile, precisazione questa puntualmente ripetuta, in secondo grado.
Il convenuto per contro, resistendo alla pretesa attrice, ha sostenuto la validità del negozio, avanzando persino, in via riconvenzionale, domanda di completa attuazione degli accordi con la cessione del garage sottostante l’appartamento.
La controversia, quindi, ha essenzialmente riguardato l’esecuzione del contratto, essendosi da una parte richiesto di negare ogni suo possibile effetto, dall’altra di dare ad esso esecuzione, e la Corte, vagliata la vicenda dedotta tutti i suoi aspetti, ha correttamente ritenuto di non potersi esimere dal rispondere con una dichiarazione di nullità, come effetto dell’accertamento negativo compiuto.
Con la prima doglianza del ricorso, la Lodigiani assume che la Corte di merito ha violato gli artt. 2744 e 1500 cod. civ., per omessa e contraddittoria motivazione nel ritenere la sussistenza, ancorché dissimulata, del patto commissorio senza considerare che la l’art. 2744 cod. civ. commina la nullità, ogni volta che risulti l’intento primario delle parti di costituire una garanzia in funzione del mutuo ed in relazione alla irrevocabilità del trasferimento per l’ipotesi di inadempienza del venditore mutuatario, sì da stabilire un nesso teleologico e strumentale fra i due negozi di compravendita e mutuo.
In tali ipotesi infatti si ha una dissimulazione del patto commissorio in quanto si persegue l’intento primario di far conseguire al creditore la restituzione del danaro.
La scrittura privata invece, compilata a parte ad integrazione dell’atto, esplicitamente dichiarava che riacquisto del bene era soltanto una facoltà del venditore, il quale dopo il trasferimento dell’immobile non sarebbe più rimasto obbligato a restituire il danaro ricevuto, salvo l’importo eccedente il valore del bene, definito debito residuo.
Di conseguenza, se non sussisteva l’obbligazione di restituire, né intento primario di garantire la restituzione del danaro, non si poteva parlare di inadempimento, anche a voler aderire ai principii affermati dalla Corte di merito.
La secondo censura-violazione degli artt. 1344 e 1418 cod. civ. aggiunge che, ammessa l’esistenza di una normale vendita con patto di riscatto non integrante un patto commissorio, la tesi del contratto in frode alla legge non può trovare alcun fondamento, dato che il negozio non ha costituito il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa, bensì per perseguire un lecito regolamento di interessi.
Le argomentazioni addotte con tali motivi, da valutare nel loro insieme in considerazione della loro stretta connessione, ripropongono la controversia questione della validità della vendita fiduciaria a scopo di garanzia, accompagnata dal patto di riscatto o di retrovendita da tempo oggetto di dispute in dottrina e giurisprudenza, essendosi posto il problema della sua assimilabilità al patto commissorio, nullo ai sensi dell’art. 2744 cod. civ..
Come è noto il divieto di tale patto già comminato nel diritto romano della decadenza, venne previsto nel diritto comune degli ordinamenti giuridici del medio evo, alcuni dei quali introdussero addirittura specifiche forme di rimedio a favore della parte indotta a sottoscriverlo, una volta accertata l’esistenza di uno squilibrio patrimoniale.
Il codice civile del 1865 ne sancì la nullità nelle sole ipotesi di dazione di pegno ed anticresi, mentre l’art. 2744 del nuovo codice ha esteso la nullità al patto commissorio aggiunto alla costituzione di ipoteca, con dizione che ad avviso della dottrina e della giurisprudenza giustifica l’estensione del divieto a qualunque negozio, mediante il quale le parti intendano realizzare il fine vietato dalla legge, anche al di fuori dell’anticresi o della dazione di pegno od ipoteca (v. in particolare Cass. N° 282 del 1974 e 2544 del 1984).
Per lungo tempo, in conformità di una tradizionale tesi che traeva origine dagli ordinamenti medievali, venne costantemente ritenuta la legittimità di una vendita stipulata fiduciae causa, quando vi fosse reale trasferimento di proprietà accompagnato dal patto, funzionante da condizione risolutiva, che il bene dovesse ritornare al debitore-venditore con l’esercizio del diritto di riscatto o di retrovendita, una volta estinto il debito nel termine convento.
In altri termini si assumeva la liceità del negozio diretto a realizzare un trasferimento effettivo ed immediato, contrapponendolo all’ipotesi in cui le parti; nel concludere il negozio, fossero in realtà d’accordo nel far sorgere implicitamente o con esplicita dichiarazione una situazione corrispondente alla vendita sotto condizione sospensiva, con la conseguenza che il negozio, così veniva precisato, adempie anche alla funzione dell’ipoteca con patto commissorio ed è nullo ai sensi dell’art. 2744 cod. civ. (cfr. in particolare tra le altre Cass. N° 1004 del 1962, N° 264 e 2869 del 1968, N° 2498 del 1974, N° 5967 del 1978, N° 642 del 1980).
In epoca più recente, la terza sezione di questa Corte, nel riesaminare con sentenza N° 3800 del 1983, nel loro insieme, le ipotesi di vendita con effetti traslativi immediati, accompagnata da patto di riscatto o sottoposta a condizione risolutiva, ovvero con pactum de retrovedendo o de retroemendo, se stipulata allo scopo di costituire una garanzia reale a favore del creditore, ha rilevato che tali convenzioni sono in realtà permeate dall’intento primario delle parti di vincolare il bene a garanzia del mutuo, al pari della vendita sottoposta a condizione sospensiva.
La volontà delle parti infatti, ancorché formalmente diretta al conseguimento del bene, è subordinata alla finalità di costituire una garanzia, con la conseguenza che appare ingiustificato sottoporre le diverse fattispecie negoziali a differenti discipline, pur avendo in comune l’identica causa e siano strutturate in modo da produrre gli stessi effetti dato che in ogni caso il trasferimento della proprietà viene nella realtà condizionato all’inadempienza del debitore.
L’identità dei situazioni concrete poste in essere, puntualizzava la detta decisione, rende irrilevante l’immediato trasferimento del bene, avendo le parti il reale intento di costituire una garanzia ed attribuire irrevocabilmente il bene al creditore soltanto in caso di inadempienza del mutuatario.
Tra i negozi di mutuo e di compravendita infatti si stabilisce uno stretto vincolo di interdipendenza che realizza nella sostanza un patto commissorio nullo per legge.
Nel corso degli anni successivi, una serie di sentenze si sono adeguate a tale nuovo indirizzo con motivazioni che sostanzialmente si ispirano alle argomentazioni di iscritte (cfr. , anche per particolari aspetti del problema, Cass. N° 7271 del 1983, 5569 e 5570 del 1984, 3061 del 1985, 3815 e 7260 del 1986, 3784 del 1987, 46 e 3462 del 1988); la sentenza N° 7385 del 1986 invece ha ribadito la tesi tradizionale, principalmente sul duplice rilievo che il testo dell’art. 2744 non permette un’interpretazione tale da superare il senso letterale delle parole usate dalla norma e che il patto di riscatto, data la sua attuale struttura giuridica, non incide sull’effetto reale del contratto di vendita.
Per tale ragione il ricorso ora in esame è stato rimesso al giudizio delle sezioni unite, ad avviso delle quali occorre considerare come premessa, in conformità del costante indirizzo della dottrina e della giurisprudenza, che il divieto del patto commissorio è diretto ad impedire al creditore l’esercizio in una coazione morale sul debitore, spesso spinto alla ricerca di un mutuo da ristrettezze finanziarie, con facoltà di far proprio il bene oggetto di pegno, ipoteca o dato in anticresi, attraverso un meccanismo che gli permetta di sottrarsi alla fondamentale regola della par condicio creditorum.
La parte economicamente più debole, inoltre, può indursi ad accettare un prezzo ben inferiore al giusto, pur di ottenere la somma voluta e trovarsi poi nella impossibilità di riscattare il bene – evento questo non essenziale per realizzare la fattispecie vietata, ma possibile a verificarsi.
E nella vendita in garanzia con patto di riscatto, come tale soggetta a condizione risolutiva, non può negarsi che lo scopo perseguito non è dissimile, in quanto tende come risultato finale ad attribuire la proprietà al creditore nell’ipotesi di mancata restituzione della somma mutuata.
In tale ipotesi ben poco rileva che le parti sottopongano il trasferimento ad una condizione risolutiva, in quanto si realizza pur sempre un onere per il debitore, identico a quello che la legge vuol evitare, allorché detta il divieto del patto commissorio, con la conseguenza che le due situazioni impongono allo stesso modo l’intervento della tutela legislativa in favore del debitore privato della libertà di contrattare.
Un diverso trattamento, è stato giustamente rilevato dalla dottrina, si risolverebbe in un vantaggio non giustificato a favore dei creditori più avveduti, per la possibilità loro offerta di preferire il ricorso alla vendita con patto di riscatto o di retrovendita, esposto al più difficile limitato esperimento dell’azione di rescissione per lesione ex art. 1449, in quanto esercitabile entro il termine di un anno nelle sole ipotesi in cui sussista un danno superiore alla metà del valore del bene trasferito.
La garanzia, si è aggiunto con altrettanto rigore logico, ben lungi dall’essere un motivo della parte, assurge a causa del contratto, in quanto il trasferimento della proprietà trova obiettiva giustificazione nel fine della garanzia, causa peraltro inconciliabile con quella della vendita, posto che il versamento del danaro non costituisce pagamento del prezzo, ma l’esecuzione di un mutuo, mentre il trasferimento del bene non integra l’attribuzione al compratore, bensì l’atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente provvisoria, nonostante le apparenze, in quanto suscettibile di evolversi, a seconda che il debitore adempia o non restituisca la somma ricevuta.
Manca quindi la funzione di scambio tipica della compravendita.
In particolare, la provvisorietà costituisce un elemento rivelatore della causa di garanzia, e quindi della divergenza tra causa tipica del negozio prescelto e determinazione causale delle parti, indirizzata alla elusione di una norma imperativa, qual è l’art. 2744 cod. civ..
In altri termini, le parti, in quanto adottano uno schema negoziale astrattamente lecito per conseguire un risultato vietato dalla legge, pongono in essere una causa illecita che inevitabilmente cade sotto la sanzione dell’art. 1344 cod. civ.
La vendita, in sè lecita e non puramente formale, costituisce un negozio mezzo, perché tende ad eludere il contenuto di una norma ed assume la figura di contratto in frode alla legge, con ogni relativa conseguenza.
Sia che il bene, come esperienza insegna, rimanga a volte in mani del debitore-venditore a titolo di locazione o a titolo precario, sia che il trasferimento sia effettivo, ogni differenza di ipotesi diviene irrilevante qualora si consideri che negozia un mezzo il rapporto allo scopo perseguito.
Il negozio mezzo, pur non mancante di requisiti formali, deve essere necessariamente riguardato in funzione del negozio fine determinato da causa illecita, in quanto permette di raggiungere lo stesso risultato nel negozio vietato, anzi – è stato giustamente sottolineato – viene realizzato proprio il negozio proibito.
In situazioni del genere naturalmente la sproporzione fra il valore del bene dato in garanzia e l’importo del bene assume scarso rilievo, in quanto il divieto prescinde da tale circostanza (cfr. Cass. N° 736 del 1977).
Nè vale obiettare che l’art. 2744 è suscettibile soltanto di interpretazione letterale, qualora si consideri, in conformità di autorevoli opinioni espresse indottrina e dalla stessa giurisprudenza di questa Corte, che la norma è mirata dall’esigenza, comune a molti istituti del nostro ordinamento giuridico, di difendere il debitore da illecite coercizioni del creditore, assicurando nel contempo la garanzia della par condicio creditorum.
È il risultato perseguito che giustifica il divieto di legge, non i mezzi impiegati, con la conseguenza che la nullità non deriva dalla natura di questi, ma costituisce l’effetto imposto dalla legge, dell’impiego fattone, al fine di realizzare il risultato vietato.
Lungi quindi dal potere identificare in astratto una categoria di negozi soggetti alla nullità, perché contrastanti con il divieto del patto commissorio e limitare ad essi l’efficacia di tale divieto, occorre riconoscere che qualsiasi negozio può incorrere nella sanzione di nullità, quale che ne sia il contenuto, nell’ipotesi in cui venga impiegato per conseguire i risultati sopra detti, vietati dall’ordinamento giuridico (in tali termini Cass. N° 282 del 1974 per utili riferimenti anche Cass. N° 1848 del 1967 e N° 1019 del 1970).
Nella specie la Corte di Bologna, avvalendosi dei poteri conferiti dalla legge al giudice del merito, ha accertato con motivazione congrua che la convenzione sottoscritta dalle parti lo stesso giorno del rogito notarile, facendo esplicito riferimento al suo contenuto, ridimensiona il prezzo reale d’acquisto e dà atto della esistenza di un rapporto debitorio nei confronti della Lodigiani, cui viene conferito il diritto di riscattare il bene entro due anni dall’estinzione di debito.
In tal modo gli effetti del trasferimento, apparentemente immediato, vengono condizionati al comportamento del debitore, rivelando il comune intento di vincolare il bene a garanzia ed in funzione del rapporto di mutuo.
Accertamento questo che rende logica la successiva conclusione, con la quale dai fatti emersi si deduce la sussistenza di una reciproca interdipendenza tra mutuo e vendita, concepiti al fine specifico di assicurare al creditore, in funzione di una maggiore garanzia, il consolidamento degli effetti traslativi del bene nella scelta anticipati soltanto via provvisoria, elementi tutti tipici del procedimento indiretto sopra descritto, rientrante nello schema del negozio colpito da nullità.
Va quindi disattesa l’esistenza della pretesa mera facoltà concessa al venditore di restituire il danaro ricevuto e ritenuto corretto il richiamo al concetto di frode alla legge previsto dall’art. 1344 codice civile, per aver le parti scelto un negozio indiretto al fine di eludere l’applicazione di una norma imperativa, rivelatrice dell’illiceità della causa (sic pagg. 9 ed 11 della sentenza).
Il ricorso va pertanto rigettato.
Ricorrono valide ragioni per statuire la compensazione delle spese tra le parti.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma il 17.12.1988 nella camera di consiglio della Corte di Cassazione, a sezioni unite.
Allegati:
SS.UU, 03 aprile 1989, n. 1611, in tema di patto commissorio
In tema di danno non patrimoniale – SS.UU, 01 febbraio 2017, n. 2611
Repubblica Italiana
In nome del Popolo Italiano
La Suprema Corte di Cassazione
Sezioni Unite Civili
r.g.n. 2954/15
Cron.2611
Rep.
P.U. 27/9/2016
– Giurisdizione-
-risarcimento danni da
autorizzazione amministrativa
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Renato RORDORF – Primo Presidente f.f.
Dott. Salvatore DI PALMA – Presidente Sez.
Dott. Giovanni AMOROSO – Presidente Sez.
Dott.ssa Adelaide AIVIENDOLA – Consigliere.
Dott. Aniello NAPPI – Consigliere –
Dott.ssa Maria Cristina GIANCOLA – Consigliere
Dott. Bruno BIANCHINI – Consigliere rel
Dott. Biagio VIRGILIO – Consigliere
Dott. Domenico CHINDEMI – Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso (iscritto al n.r.g. 2954/15) proposto da:
– Comune di OLBIA ( c.f.: 91008330903)
In persona del Sindaco pro tempore Giovanni Maria Enrico Giovannelli , a ciò autorizzato da delibera di Giunta n. 392 del 28 novembre 2014; rappresentato e difeso, anche in via disgiunta tra loro, dagli avv.ti Emanuela Traina ed Andrea Manzi; con domicilio eletto presso lo studio del secondo, sito in Roma, via Federico Confalonieri n.5, giusta procura a margine del ricorso
– ricorrente —
Contro
– Raffaella CALAMUSA ( c.f.: CLM RFL 711345 G203B);
– Andrea FRESI ( c.f.: FRS NDR 63L12 L093F);
in proprio e quali genitori esercenti la potestà su Mario FRESI ( c.f. FRSMRA 98P11 L093T)
parti tutte rappresentate e difese dall’avv. Valeria Virdis giusta procura a margine del controricorso; con domicilio fissato ex lege presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione
– contro ricorrenti-
Nonché nei confronti di:
– Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo
-parte intimata —
avente ad oggetto
ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, n. 336/2014, pubblicata il 22 luglio 2014
– Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27 settembre 2016 dal Consigliere Relatore Dott. Bruno Bianchini;
– uditi l’avv Luigi Manzi — munito di delega dell’avv. Traina – per il ricorrente e l’avv. Virdis per il controricorrente;
– udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore GeneraleDott. Riccardo Fuzio , che ha chiesto rigettarsi il ricorso.
Svolgimento del processo
1 — Andrea Fresi e Raffaella Calamusa, agendo anche nella qualità di genitori esercenti la potestà sull’allora minore Mario Fresi, citarono il Comune di Olbia ed il Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti per aver consentito che, durante i festeggiamenti per il santo patrono, fosse stato permesso al Comitato di posizionare un palco a meno di un metro dalla propria abitazione, ostacolandone l’accesso e determinando immissioni sonore a turbativa della vita domestica e , finiti i festeggiamenti , per aver omesso di farlo smontare, rendendolo base per giochi e schiamazzi della gioventù locale. Il Comune contestò il fondamento della domanda, in particolare osservando di non avere alcun obbligo di vigilanza, rimanendo il proprio intervento istituzionale limitato al rilascio della concessione amministrativa per l’installazione della pedana sul suolo pubblico.
Il Tribunale di Tempio Pausania rigettò le domande; la Corte di Appello di Cagliari — Sezione distaccata di Sassari- invece le accolse, ritenendo sussistenti lesioni ai diritti fondamentali degli originari attori.
Per la cassazione di tale decisione l’ente territoriale ha proposto ricorso, sulla base di tre motivi, il secondo dei quali involgente la carenza di giurisdizione del giudice ordinario; Comune ha risposto con controricorso; il Comitato non ha svolto difese; parte ricorrente ha anche depositato memoria ex art 378 cpc.
MOTIVI DELLA DECISIONE
§1 — Per priorità logica va esaminato il secondo motivo con il quale il Comune eccepisce la carenza di giurisdizione dell’ AGO in ragione del fatto che i danni lamentati sarebbero stati in stretta correlazione con il presunto cattivo esercizio dell’attività provvedimentale.
§ 1.a — Il motivo è inammissibile perché la giurisdizione ordinaria non è mai stata contestata nei precedenti gradi di giudizio, di tal che le domande e le difese delle parti l’hanno sempre presupposta; ne deriva che il punto non è più suscettibile di ulteriore verifica; contro tale constatazione non vale richiamare — come operato dal ricorrente a fol 5 della memoria ex art 378 cpc- la specificazione interpretativa contenuta nella sentenza di queste Sezioni Unite n. 20698/2013, a mente della quale non sussisterebbe giudicato implicito sulla giurisdizione allorché l’interesse a sollevare la relativa eccezione sorga sulla base del percorso decisionale in concreto adottato dal giudice in grado di appello: va infatti messo in evidenza che nel caso di specie sin dal primo grado di giudizio la res controversa era costituita dalla lesione della sfera patrimoniale e personale delle allora parti attrici causata da un’attività del privato — il Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo- assentita dal Comune e da questi non adeguatamente vigilata nel suo svolgimento: a fronte di ciò l’ente territoriale aveva impostato sin da allora la propria linea difensiva sulla non diretta incidenza dell’attività amministrativa nell’ambito del privato ( vedi quanto riportato in merito a fol 3 del ricorso) .
§ 2 — Con il primo motivo viene denunciata la violazione degli artt 1227 e 2043 cod. civ. innanzi tutto perché la tutela risarcitoria presupporrebbe un’attività illegittima della PA , in concreto non riscontrabile : all’uopo sottolinea il Comune ricorrente che le controparti non hanno mai chiesto l’accertamento della illegittimità provvedimentale di esso ricorrente , presupposto per attivare la propria responsabilità; in secondo luogo assume che non sarebbero risarcibili i danni derivanti dall’attività del Comitato in quanto evitabili “per la mancata diligente utilizzazione degli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento (è richiamata Cons. Stato Sez. IV, n. 1750/2012); sotto diversa ottica poi parte ricorrente lamenta che la Corte di Appello sia pervenuta alla identificazione di una propria responsabilità aquiliana senza un’appropriata indagine sull’effettiva presenza di tutti gli elementi contemplati nell’art 2043 cod. civ. : quanto all’ingiustizia del danno, atteso che non avrebbe valutato la mancata impugnativa del provvedimento autorizzatorio; quanto al nesso di causalità tra potere esercitato e l’evento di danno ( concretatasi nell’ostacolo all’ingresso alla propria abitazione) , dal momento che non avrebbe posto a mente che, una volta emesso il provvedimento che autorizzava il posizionamento del palco, ogni diversa conseguenza pregiudizievole per i terzi sarebbe derivata dalle modalità esecutive di esclusiva spettanza del Comitato, che dunque non potevano essere fatte risalire a propria responsabilità; quanto infine all’elemento soggettivo del dolo o della colpa ne assume l’assenza , ribadendo la legittimità del proprio operato.
§ 2.c — Il mezzo è destituito di fondamento.
§ 2.c.1- Va innanzi tutto messo in evidenza che il petitum sostanziale ( causa petendi in relazione alla concreta fattispecie) posto a base della originaria domanda conteneva non già una censura all’esercizio del potere amministrativo manifestatosi con il provvedimento di concessione di suolo pubblico, ma si concretizzava in una denuncia del mancato esercizio dei poteri di vigilanza successiva su come sarebbe stato utilizzato il palco — sia nei giorni stabiliti per il festeggiamento del Santo Patrono, sia nell’estate successiva da parte della cittadinanza-; si aggiunga che l’art 7, comma 4, del decreto legislativo n. 104/2010 non è richiamabile a disciplina della fattispecie , ratione temporis ( la domanda è stata introdotta con citazione notificata nel dicembre 2003) e comunque non sarebbe applicabile perché il comma quarto fa rientrare nella giurisdizione generale amministrativa le controversie anche risarcitorie, per lesione di interessi legittimi- posizione giuridica che non viene mai rivendicata dai ricorrenti che si sono sempre doluti della violazione di propri diritti assoluti — e il comma quinto attrae nella ridetta giurisdizione generale amministrativa
anche le controversie risarcitorie per lesione di diritti soggettivi, ma a condizione che si verta in materia di giurisdizione esclusiva — positivamente da escludersi, nella fattispecie –
§ 2.c.2 – Appare allora evidente che l’affermazione della sussistenza di un diritto soggettivo che si assume leso dalla condotta — e non dal provvedimento — del Comune, toglie di sostanza alle censure attinenti al mancato sindacato dell’atto amministrativo innanzi al giudice amministrativo, come condizione per l’azione risarcitoria nei confronti del Comune.
§ 2.c.3 – Dal momento poi che i controricorrenti avevano lamentato una lesione di propri diritti soggettivi assoluti, da far risalire — come detto – non già all’autorizzazione concessa dal Comune, quanto piuttosto all’ inerzia che l’ente locale avrebbe serbato, pur a fronte delle loro reiterate proteste, a causa del perdurare della situazione dannosa e che la Corte del merito ha poi specificato ( vedi fol sesto della decisione) che entrambe le parti convenute erano chiamate a risarcire i danni in quanto il Comitato aveva posto in essere le condizioni materiali della situazione dannosa e l’ente territoriale aveva omesso di intervenire per porvi rimedio – in tal modo localizzando (con statuizione non specificamente impugnata) l’insorgenza della condotta censurata in epoca successiva all’emissione del provvedimento-, da ciò deriva la sussistenza dell’elemento colposo che consente di addebitare al Comune le conseguenze della propria inerzia che concretizzava un agire non jure e contro jus per la situazione che si era venuta a creare — ostacolato ingresso all’abitazione dei controricorrenti per tutto il periodo estivo ( dacchè il palco non era smontato tra uno spettacolo e l’altro) ; la sussistenza poi di emissioni sonore e luminose ( per il solo periodo dei festeggiamenti) — che ben avrebbe potuto esser evitata con l’ordine di riposizionare il palco dall’altro lato della piazza (come risulta essere avvenuto due anni dopo) messa in relazione all’inerzia serbata dall’Ente territoriale nel frangente, costituiva indice certo ed ulteriore della sua colpa.
§ 3 — Con il terzo motivo — formulato in via subordinata al rigetto del precedenti – viene denunciata la violazione dell’ad 2059 cod civ. nonché la violazione degli artt 3, 32 e 41 della Costituzione, laddove la Corte distrettuale ebbe a riconoscere la sussistenza di danni non patrimoniali , pur in assenza dei loro presupposti — indicati: o nell’esistenza di una condotta astrattamente qualificabile come reato; o nella grave lesione di interessi costituzionalmente garantiti-.
§ 3.1 — Assume il ricorrente che, quanto all’ostacolo all’accesso ed al libero godimento del proprio domicilio, il rilievo costituzionale di tale attività sarebbe stato rinvenuto in un concetto lato di estrinsecazione della “dignità umana” , indicato nel secondo comma dell’art 41 Costit. che invece riguarderebbe solo una particolare estrinsecazione della libertà, quella di iniziativa economica; censura altresì il Comune ricorrente l’accertamento della lesione del “diritto alla salute” , basato su
una non provata intollerabilità delle emissioni luminose e sonore da ricondurre ad effettive e documentate lesioni fisiche o psichiche , del tutto non provate nella fattispecie.
§ 3.2 — Il mezzo è infondato in quanto, sebbene il referente normativo della lesione al godimento della propria abitazione non possa essere rinvenuto nell’art 41 della Costituzione, sibbene nell’art 42, secondo comma, che tutela la proprietà privata e detta i limiti per la compressione del relativo diritto, la base fattuale posta a fondamento della sentenza — dalla quale è emerso che sebbene l’abitazione fosse munita anche di un accesso secondario, il secondo era di dimensioni esigue e spesso neppure sufficienti al concreto uso– non è stata specificamente contestata; per quello poi che riguarda la prova del danno alla salute, premesso che non è stato richiesto il risarcimento del danno biologico determinato dalle immissioni sonore e luminose bensì si è fatto valere il pregiudizio non patrimoniale derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita , va data continuità all’indirizzo interpretativo di recente espresso in sede di legittimità, in forza del quale il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e d el diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi ( vedi Cass. Sez. 3, n. 20927/2015); ne consegue che la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza ( sul punto vedi Cass. Sez. 3 n. 26899/2014). Nella fattispecie la dimostrazione del pregiudizio è stata ricavata dall’esame della natura e dell’entità delle immissioni sonore e luminose , con ragionamento non specificamente censurato.
§ 4. Il rigetto del ricorso determina la condanna del ricorrente al pagamento delle spese, liquidate come indicato in dispositivo; dal momento che il ricorso è stato inviato per la notifica il 16 gennaio 2015 e quindi in data successiva al 30 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della parte soccombente, di un ulteriore importo pari a quanto versato a titolo di contributo unificato, a norma dell’ari 13, comma 1 quater d.P.R. 115/2002
P.Q.M
Rigetta il ricorso ; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese che liquida in euro 3.500,00 oltre ad euro 200,00 per esborsi; ai sensi dell’ari 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dello stesso ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art 13.
Così deciso in Roma il 27 settembre 2016
Il consigliere estensore
Il Presidente
Allegati:
SS.UU, 01 febbraio 2017, n. 2611, in tema di danno non patrimoniale
In tema di responsabilità della p.a. – SS.UU, 12 febbraio 2024, n. 3755
Civile Ord. Sez. U Num. 3755 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: NAPOLITANO LUCIO
Data pubblicazione: 12/02/2024
Oggetto
RESPONSABILITA’
CIVILE P.A.
R.G.N. 2226/2023
Cron.
Rep.
Ud. 21/11/2023
CC
ORDINANZA
sul ricorso 2226-2023 proposto da:
BELGIOVINE DAMIANO E CO. S.A.S., in persona del socio accomandatario, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BOCCA DI LEONE 78, presso lo studio dell’avvocato CURZIO CICALA (Studio BDL), rappresentata e difesa dall’avvocato MAURO GADALETA;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI BISCEGLIE;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1781/2022 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 13/12/2022.
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/11/2023 dal Consigliere LUCIO NAPOLITANO;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, il quale chiede che le Sezioni Unite rigettino il ricorso.
Rilevato che:
L’Impresa Edile dott. Damiano Belgiovine & Co. S.a.s. (di seguito la società), in persona del socio accomandatario e legale rappresentante pro-tempore dott. Damiano Belgiovine, convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Trani il Comune di Bisceglie per sentirne affermare la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale per l’inerzia e totale disinteresse nel portare a termine le opere urbane ivi descritte, inerenti al mancato completamento di una rotatoria e del relativo collegamento viario con la rete cittadina, ciò che impediva l’accesso diretto dalla strada principale agli immobili destinati ad uso commerciale utilizzati in leasing dalla società, posti alle spalle di detta rotatoria, con conseguente domanda di condanna dell’ente locale al risarcimento dei danni subiti, non quantificati nell’atto introduttivo del giudizio.
Costituitosi il Comune, che eccepì il proprio difetto di legittimazione passiva rispetto alla domanda proposta, il Tribunale adito, rilevata d’ufficio e sottoposta al contraddittorio tra le parti la questione di giurisdizione, con sentenza n. 1223/2019, depositata il 20 maggio 2019, declinò la giurisdizione, in favore di quella del giudice amministrativo (Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia – Bari).
Il Tribunale di Trani, richiamando l’art. 7, comma 1, del d. lgs. n. 104/2010 (cod. proc. amm.), affermò la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, essendo la controversia attinente al dedotto comportamento omissivo della P.A. nell’esercizio del potere di gestione e conformazione del territorio, rientrante nella materia urbanistica.
Detta pronuncia fu impugnata dalla società dinanzi alla Corte d’appello di Bari, che, con sentenza n. 1781/2022, depositata il 13 dicembre 2022 e notificata il 20 dicembre 2012, respinse il gravame.
La Corte d’appello rilevò che entrambe le doglianze esposte dall’attrice a fondamento della domanda risarcitoria proposta ricadevano nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
La prima, riferita agli insostenibili ritardi del Comune di Bisceglie nel completamento della viabilità della zona nella quale erano compresi gli immobili commerciali sopra indicati, ricadeva nell’ambito della previsione normativa di cui all’art. 133, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 104/2010, a mente del quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di risarcimento del danno ingiusto causato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo.
La seconda, riferita al ritardo nella conclusione del procedimento per l’espropriazione e la demolizione di un vecchio rudere di proprietà di terzi ubicato sulla direttrice stradale incompiuta, ugualmente dipendente, secondo l’assunto della società, dal ritardo del Comune nell’attività destinata a concludersi con la demolizione del succitato manufatto, riconducibile, invece, secondo la Corte d’appello, all’art. 133, comma 1, lett. f), del citato d.lgs. n. 104/2010.
Avverso detta sentenza la società ricorre per cassazione sulla base di un solo motivo.
Il Comune di Bisceglie è rimasto intimato.
Disposta la trattazione della controversia in adunanza camerale, in prossimità della stessa, nel rispetto dei termini, il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, concludendo per il rigetto del ricorso e parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 – bis.1, cod. proc. civ.
Considerato che:
1. Con l’unico motivo di ricorso la società denuncia «violazione dell’art. 360 n. 1 c.p.c. con riferimento all’art. 2043 c.c. ed alla violazione della legge n. 69 del 2009, art. 59, comma 3, e art. 11 comma 3, c.p.a. Anche con riguardo alla pretesa violazione del d.lgs. 104/2010, art. 133, comma 1, lettera a) e n. 1».
La ricorrente – ribadito di avere agito a tutela di un proprio diritto soggettivo in qualità di locataria degli immobili de quibus, azionando la pretesa risarcitoria sia sotto l’aspetto contrattuale come derivante da detta indicata qualità, sia sotto l’aspetto della responsabilità extracontrattuale per violazione dell’art. 2043 cod. civ. per lesione del generale principio del neminem laedere – rilevava che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto della circostanza, pur allegata in atti sin dal primo grado di giudizio, che il procedimento amministrativo riferito all’espropriazione dell’area contestata si era concluso con l’immissione del Comune nel possesso della medesima e con l’esecuzione delle opere residue, sicché, da parte del giudice ordinario adito, non restava che decidere sul fondamento e sulla quantificazione della domanda risarcitoria proposta.
2. Giova premettere una sintetica ricostruzione, in fatto, della vicenda dalla quale è scaturita l’odierna controversia.
Le opere viarie delle quali la società ha lamentato la tardiva realizzazione da parte del Comune di Bisceglie rientravano nelle opere di urbanizzazione primaria previste nella nuova zona P.e.e.p., 167, del PRG di detto Comune.
Esse furono disciplinate da apposita convenzione,
intercorsa tra il Comune di Bisceglie ed il Consorzio Bisceglie 167, di cui era parte la società Fratellanza Soc. Coop. Edilizia a r.l. (di seguito Fratellanza), disponendo la convenzione che le opere di urbanizzazione primaria fossero a carico del Consorzio.
La società Fratellanza cedette, quindi, in proprietà, nel 2012, a Fineco Leasing, gli immobili destinati ad uso commerciale realizzati nell’area, dei quali quelli descritti nell’originario atto di citazione furono ceduti in leasing all’odierna ricorrente.
2.1. Ciò premesso, deve rilevarsi che, sebbene la ricorrente tenda a collegare la domanda risarcitoria ad un comportamento materiale di mera inerzia e totale disinteresse nel portare a termine le opere urbane sopra descritte, secondo le conclusioni rassegnate nel libello introduttivo del giudizio di merito, non vi è dubbio che, viceversa, l’azione risarcitoria proposta sia riconducibile, sul piano eziologico, al cattivo esercizio, implicitamente lamentato dal medesimo atto di citazione, del potere amministrativo, in materia riferita al governo del territorio.
In tale contesto, deve ribadirsi che la cognizione sulla domanda risarcitoria del privato per i danni asseritamente causati da atti illegittimi – ovvero anche dalla mancata adozione di atti che avrebbero dovuto essere emanati da parte dell’autorità amministrativa competente – spetti alla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. Cass. SU, ord. 8 novembre 2016, n. 22650; Cass. SU, 2 luglio 2015, n. 13568).
2.2. Nella fattispecie in esame, secondo la ricorrente, avrebbero avuto rilevanza decisiva al fine di radicare la giurisdizione del giudice ordinario, le circostanze della conclusione del procedimento amministrativo afferente all’immissione in possesso del Comune nell’area occupata dal rudere di proprietà di terzi, che impediva il completamento della rotatoria, e del conseguente collegamento alla rete viaria preesistente, con realizzazione quindi dell’opera, come precisato in atti nel corso del giudizio di primo grado, e delle quali entrambe le pronunce rese nei gradi di merito non hanno tenuto conto.
2.2.1. Ciò non incide, peraltro, sulla natura della doglianza rappresentata dalla società nell’atto di citazione, atteso che essa si risolve nella contestazione che l’amministrazione non abbia esercitato un dato potere nella situazione legata all’esecuzione delle opere di urbanizzazione intercorsa tra il Comune ed il Consorzio Bisceglie 167, ovvero che l’abbia esercitato in tempi e modi non congrui, donde la posizione giuridica soggettiva del privato si pone in termini di interesse legittimo al corretto esercizio del potere (cfr. Cass. SU, ord. 18 maggio 2015, n. 10095; Cass. SU, 11 maggio 2021, n. 21678).
2.2.2. Né il fatto che dalla situazione esposta si faccia dipendere un danno ingiusto, lamentato dall’attrice con riferimento al depauperamento delle potenzialità commerciali degli immobili destinati a detto uso per l’impedimento all’accesso ai medesimi dalla via principale può radicare la giurisdizione del giudice ordinario, rientrando la controversia in oggetto nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa, sia, per quanto già osservato dalla Corte d’appello, in relazione all’art. 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm., (controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti della pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia, concernenti tutti gli aspetti dell’uso del territorio) sia, più specificamente, perché il lamentato cattivo esercizio del potere amministrativo è riferito – in relazione al mancato completamento della rotatoria in oggetto, come inserita nel contesto delle opere di urbanizzazione primaria della zona P.e.e.p. 167 del Comune di Bisceglie – alla fase esecutiva di accordi integrativi di provvedimenti amministrativi (nella specie la Convenzione per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria riguardanti la zona menzionata di cui all’ Atto pubblico 6.10.2008 intercorso tra il Comune di Bisceglie ed il Consorzio Bisceglie 167); donde risulta attratta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche in relazione al disposto dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, del cod. proc. amm. (cfr., più di recente, Cass. SU, ord. 4 maggio 2023, n. 11713 per l’affermazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in tema di accordi sostitutivi in materia urbanistica e loro esecuzione; si veda anche Cass. SU, ord. 24 luglio 2023, n. 22144, ove si è affermato che la controversia relativa ad un contratto di permuta tra la P.A. ed un privato, alternativo ad un procedimento di espropriazione, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a, n. 2, del d. lgs. n. 104 del 2010, rappresentando detto accordo uno strumento di pianificazione territoriale attraverso il quale il soggetto pubblico assolve ai propri compiti istituzionali).
2.3. In tale contesto deve infine rilevarsi come i precedenti delle Sezioni Unite di questa Corte, solo genericamente, peraltro, indicati dalla ricorrente in memoria, addotti dalla ricorrente medesima a supporto della propria tesi, in realtà non siano conferenti con la fattispecie in esame, atteso che riguardano, per lo più, diverse fattispecie nelle quali questa Corte ha avuto modo di affermare la giurisdizione del giudice ordinario in tema di responsabilità civile della P.A. per lesione del legittimo affidamento del privato da contatto sociale “qualificato” (ad esempio, tra le altre, Cass. SU, ord. 19 gennaio 2023, n. 1567), ovvero fattispecie in cui, sebbene l’inerzia della P.A. sia collegata al mancato esercizio di attività provvedimentale, la stessa assume natura di attività vincolata, come nel caso di omesso sgombero di immobile abusivamente occupato (si veda, ad esempio, Cass. SU, 16 marzo 2023, n. 7737).
2.4. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere pertanto respinto, sussistendo in materia la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, come correttamente affermato dalla sentenza impugnata.
3. Non vi è luogo a pronunciare sulle spese del giudizio di legittimità, non avendo svolto difese il Comune di Bisceglie.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio delle Sezioni
Allegati:
SS.UU, 12 febbraio 2024, n. 3755, in tema di responsabilità della p.a.