In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20678
Civile Ord. Sez. U Num. 20678 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 17/07/2023
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25395/2022 R.G. proposto da:
A.T.I. COSTRUZIONI NICODEMO N. E FIGLI S.N.C. E CO.GE.NI. DI NICODEMO VITO & NICOLA S.N.C., COSTRUZIONI NICODEMO N. & FIGLI – S.N.C., “CO.GE.NI” DI NICODEMO VITO & NICOLA – S.N.C., rappresentati e difesi dall’avvocato FRASSO ROMOLO, che li rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
COMUNE DI SAN CIPRIANO PICENTINO, rappresentato e difeso dagli avvocati LENTINI LORENZO, FERRENTINO FELICIANA
-controricorrente-
per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio pendente davanti al Tribunale ordinario di Salerno, iscritto al RG N. 8924/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/05/2023 dal Consigliere Antonio Scarpa;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Mauro Vitiello, che ha chiesto di dichiarare la giurisdizione del giudice amministrativo;
letta la memoria ex artt. 380-ter e 380-bis.1. c.p.c. depositata dalle ricorrenti.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con citazione del 23 giugno 2020, le società Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., nonché l’A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., hanno convenuto il Comune di San Cipriano Picentino dinanzi al Tribunale di Salerno, domandando in via principale di dichiarare risolta per inadempimento del Comune di San Cipriano Picentino la convenzione n. 651/2002 del 30 ottobre 2002, stipulata a norma dell’art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, avente ad oggetto la realizzazione di 74 alloggi di edilizia residenziale pubblica in aree localizzate a norma dell’art. 51 della medesima legge citata, con impegno dell’A.T.I. di procedere per conto del Comune agli espropri per l‘acquisizione delle aree necessarie e la cessione del diritto di superficie al medesimo soggetto attuatore del programma.
Le attrici, nel domandare la risoluzione della indicata convenzione e di ogni altro rapporto contrattuale instaurato con il Comune, chiedevano altresì di disapplicare la delibera comunale n. 6 del 25 febbraio 2008, che aveva “travolto gli atti amministrativi inerenti la realizzazione del programmato intervento”. In citazione si spiegava che il Comune di San Cipriano Picentino si era determinato con tale delibera a revocare la convenzione del 2002 e la localizzazione dell’area destinata alla realizzazione del programma edilizio alla luce delle contestazioni della Regione Campania sulla possibile decadenza dal contributo di finanziamento correlata alla modifica della ragione sociale del soggetto attuatore, determinatasi con la costituzione dell’A.T.I. Costruzioni Nicodemo Nicola e figli S.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito & Nicola S.n.c. Società Consortile a r.l. e la corrispondente “voltura della convenzione” approvata il 5 maggio 2005. Era poi tuttavia intervenuta la “nota chiarificatrice della Regione Campania” del 22 maggio 2008, con la quale veniva specificato che permanesse il finanziamento regionale in capo alla A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & figli s.n.c. – CO.GE.NI. s.n.c., purché la stessa restasse titolare dell’area ad essa assegnata dal Comune di S. Cipriano Picentino. Le attrici chiedevano dunque, risolta la convenzione e disapplicata la delibera comunale n. 6 del 25 febbraio 2008, di accertare il loro diritto a conseguire la somma di € 1.096.041,05, oltre accessori, pari al prezzo d’acquisto dell’area inizialmente destinata all’attuazione del programma di edilizia residenziale pubblica, essendo venuta meno la causa del pagamento. Sempre in via principale, le attrici domandavano il risarcimento dei danni e di dichiarare la “invalidità della convenzione e dell’intero rapporto contrattuale”.
Facevano seguito domande in via subordinata volte alla restituzione dei terreni, al pagamento dell’indennizzo per la diminuzione del valore degli immobili dipendente dal mutamento di destinazione degli stessi, al trasferimento in proprietà degli stessi, all’accertamento del legittimo affidamento insorto in capo alle attrici; in via ulteriormente subordinata si agiva per la ripetizione dell’indebito oggettivo “e/o” l’arricchimento indebito conseguito dal Comune.
2. In sede di costituzione davanti all’adito Tribunale di Salerno, il Comune di San Cipriano Picentino ha evidenziato che con le delibere comunali nn. 5 e 6 del 2008 erano state revocate, rispettivamente, la variante al P.U.C. per la localizzazione del programma costruttivo oggetto di causa, ai sensi dell’art. 51 legge n. 865 del 1971, disposta nel 2001 per la realizzazione dei 74 alloggi di E.R.P., e poi la delibera n. 45/2001, dichiarando l’inefficacia della convenzione rep. 651/2002. Più di recente, con delibera di Giunta del 9 febbraio 2016 è poi stato approvato un nuovo Piano Strutturale e Programmatico del PUC, in forza del quale l’area controversa non riveste più natura edificabile. La difesa del Comune convenuto ha anche evidenziato che l’ATI concessionaria aveva impugnato davanti al T.A.R. di Salerno sia le delibere n. 5/2008 e n. 6/2008 di revoca della localizzazione e di inefficacia della convenzione del 2002, sia la delibera consiliare n. 2/2008 di adozione del PUC, giudizi andati perenti dopo il diniego della sospensiva, dal che discenderebbe la definitiva inefficacia ed invalidità della convenzione rep 651/2002. Anche l’approvazione del PUC recante la diversa destinazione urbanistica dell’area era stata impugnata con esito negativo davanti al T.A.R. Salerno. Il Comune di San Cipriano Picentino ha pertanto eccepito il difetto di giurisdizione dell’adito Tribunale, trattandosi di controversia riservata alla cognizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133 comma 1 lett. a) n. 2 c.p.a.
3. Con ordinanza del 16 gennaio 2022 il Tribunale di Salerno, ritenuta l’eccezione di difetto di giurisdizione “prima facie, non destituita di fondamento”, ha rinviato la causa per le conclusioni all’udienza del 9 novembre 2022.
4. Le società Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., nonché l’A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c. hanno proposto con atto notificato il 27 ottobre 2022 regolamento di giurisdizione, deducendo che la causa ha un contenuto meramente patrimoniale, non pone in discussione alcun esercizio di potere discrezionale della P.A., inerendo ad una fase addirittura successiva a quella dell’esecuzione della convenzione, e solleva piuttosto profili risarcitori e restitutori. In altri termini, secondo le ricorrenti, “la vicenda di cui trattasi involge profili prettamente civilistici inerenti la risoluzione della convenzione rep. n. 651/02 del 30.10.2002, stipulata col Comune di San Cipriano Picentino, sia per inadempimento della P.A., sia per sopravvenuta carenza della causa in concreto, che per sopravvenuto illegittimo arricchimento della P.A.”, rientranti, perciò, nella giurisdizione del giudice ordinario.
5. Il Comune di San Cipriano Picentino replica che, “trattandosi di concessione di beni pubblici, le controversie che hanno ad oggetto questioni di risoluzione, risarcimento danni ovvero restitutorie afferenti il rapporto convenzionale (come quelle in esame relative ad asserite violazione degli obblighi contrattuali) rientrano nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo anche in assenza di atti/provvedimenti della PA, indipendentemente dalla natura delle posizioni giuridiche dedotte ai sensi dell’art. 133 co 1 lett. b) D. Lgs. 104/2010”. Ad identica conclusione il controricorrente perviene osservando che “la convenzione di localizzazione e realizzazione di un intervento di ERP ai sensi dell’art. 28 L. 1150/1942 e dell’art. 35 L 865/1971, prima di tutto, rientra nel modulo delle convenzioni urbanistiche in quanto concernente l’uso del territorio e l’esercizio delle connesse funzioni pubblicistiche, con conseguente giurisdizione esclusiva del GA ai sensi dell’art. 133 co. 1 lett. f) cpa. La convenzione ex art. 35 L 865/1971, ancora, risponde al paradigma degli accordi amministrativi di cui all’artt. 11 L. 241/1990; le relative controversie comprese quelle sulla esecuzione/inadempimento degli obblighi contrattuali (come quella per cui è causa) sono riservate alla giurisdizione esclusiva del GA ai sensi dell’art. 133 co. 1 lett. b) cpa”.
6. Il ricorso per regolamento di giurisdizione è ammissibile, in quanto proposto prima che il giudice di primo grado abbia definito il giudizio dinanzi a sé, ancorché dagli stessi soggetti che hanno instaurato il giudizio di merito, sussistendo, in ragione dell’eccezione del convenuto, un interesse concreto ed immediato alla risoluzione della questione da parte delle Sezioni Unite, in via definitiva ed immodificabile (arg. da Cass. Sez. Unite n. 15122 del 2022).
7. La statuizione cui sono chiamate queste Sezioni Unite, al fine di individuare il giudice fornito di potere giurisdizionale in relazione alla concreta controversia, comporta l’esame diretto degli atti e delle risultanze processuali, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari per la soluzione della questione.
La decisione sulla giurisdizione è peraltro determinata dall’oggetto della domanda espressamente proposta in via principale (come di regola in ipotesi di proposizione di plurime domande legate da nesso di subordinazione: ex multis, Cass. Sez. Unite, n. 21165 del 2021).
8. La domanda proposta in via principale nella citazione del 23 giugno 2020 notificata al Comune di San Cipriano Picentino dalla Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c., dalla CO.GE.NI di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c. e dall’A.T.I. Costruzioni Nicodemo N. & Figli s.n.c. e CO.GE.NI. di Nicodemo Vito e Nicola s.n.c., è volta alla dichiarazione di risoluzione per inadempimento, o per carenza sopravvenuta della causa contrattuale, della convenzione n. 651/2002 del 30 ottobre 2002, stipulata a norma dell’art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, avente ad oggetto la realizzazione di 74 alloggi di edilizia residenziale pubblica in aree localizzate a norma dell’art. 51 della medesima legge citata.
L’esposizione dei fatti e degli elementi costituenti le ragioni di diritto contenuta nella citazione introduttiva individua l’inadempimento del Comune nell’aver “travolto l’intero rapporto contrattuale …
sull’erroneo presupposto della nota regionale prot. 0401075 del 04.05.2007, assolutamente superata da quella prot. n. 2008.0439688 del 22.05.2008” e così “negato la realizzazione dell’intervento edilizio … opponendo il rilievo di una presunta decadenza del finanziamento regionale – per cambio ragione sociale”. L’inadempimento addebitabile dalle attrici al Comune convenuto sarebbe consistito in plurime condotte, quali, in particolare: a) le delibere comunali n. 5 e n. 6 del 25 febbraio 2008, che avevano l’una revocato la variante del PRG adottata nel 2000 per la localizzazione del programma di edilizia residenziale pubblica ex art. 51, legge n. 865 del 1971, inerente alla realizzazione dei 74 alloggi in località Filetta, l’altra dichiarato la sopravvenuta inefficacia ed invalidità della concessione del diritto di superficie di cui all’atto 651/02 del 30 ottobre 2002, nonché del successivo atto aggiuntivo n. 727/05 del 5 maggio 2005; b) aver violato, con la sopravvenuta destinazione urbanistica a “zona E”, l’art. 3 della convenzione, che obbligava il Comune a non assoggettare le aree oggetto di intervento, da acquisire mediante espropriazione per pubblica utilità, a limitazioni ed a diritti a favore di terzi incompatibili con il diritto di superficie concesso”; c) aver violato l’art. 18 della convenzione, che non prevedeva fra le ipotesi di decadenza della cessione in diritto di superficie, la decadenza dal finanziamento regionale; d) non aver proceduto al rilascio del permesso di costruire.
Tali condotte del Comune di San Cipriano Picentino avrebbero altrimenti comunque provocato il venir meno della causa contrattuale.
9. La controversia in esame attiene, dunque, all’adempimento degli obblighi derivanti per l’ente concedente e per il soggetto richiedente da una convenzione stipulata ai sensi della normativa che regola le espropriazioni e la successiva assegnazione delle aree da destinare ad edilizia economica e popolare (già contenuta nell’art. 10 della legge n. 167 del 1962, poi sostituito dall’art. 35 della legge n. 865 del 1971), in base alla localizzazione dei programmi costruttivi stabilita dall’amministrazione comunale (art. 51 della legge n. 865 del 1971), e consistente nella concessione del diritto di superficie per la costruzione degli alloggi e dei relativi servizi.
Le attrici invocano l’estinzione della convenzione stipulata con l’amministrazione comunale, e quindi la ripetizione dei pagamenti eseguiti, sul presupposto del determinante accertamento della illegittimità delle manifestazioni di volontà con le quali il Comune di San Cipriano Picentino è intervenuto sull’oggetto delle aree concesse in diritto di superficie, avendo dapprima impedito, con le delibere n. 5 e n. 6 del 25 febbraio 2008, la iniziale localizzazione del programma di edilizia residenziale pubblica, il quale avrebbe consentito alla concessionaria la realizzazione dei 74 alloggi in località Filetta, e poi immutato la destinazione urbanistica delle medesime aree, così frustrando la realizzabilità del contratto 651/02 del 30 ottobre 2002.
10. E’ stato precisato dalla giurisprudenza di questa Corte (essenzialmente Sez. Unite, sentenza n. 7573 del 2009; si vedano però anche le sentenze n. 20419 del 2016 e n. 5423 del 2021) che la convenzione per la concessione del diritto di superficie ai sensi dell’art. 35 della legge n. 965 del 1971 non costituisce un atto autonomo rispetto alla deliberazione comunale con la quale l’ente manifesta la volontà di concedere l’area e detta le relative condizioni, ma viene, con essa, ad integrare una fattispecie complessa di concessione amministrativa, di tal che si costituisce, tra concedente e concessionario, un rapporto unitario. Tale convenzione, stipulata ai sensi della normativa sull’edilizia economica e popolare, ha quindi natura di contratto di diritto pubblico che, accessivo alle determinazioni autoritative della P.A., dà vita, dunque, a una concessione amministrativa complessa.
11. Sussiste, pertanto, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ex art. 113, lettera a) n. 2, c.p.c., in tema di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo, essendo messa in discussione, sia pure in forma di domanda di risoluzione dell’accordo per inadempimento della p.a. e di condanna della stessa al risarcimento dei danni, la legittimità di deliberazioni comunali incidenti sul contenuto della concessione e della convenzione che vi accede (si vedano anche Sez. Unite, ordinanza n. 11713 del 2023; sentenza n. 12186 del 2007; ordinanze n. 5923 del 2011; n. 732 del 2005).
In particolare, le delibere dell’amministrazione comunale di San Cipriano Picentino n. 5 e n. 6 del 25 febbraio 2008, cui le ricorrenti riconducono la causa della mancata esecuzione della convenzione 651/02 del 30 ottobre 2002, concernono la formazione dei piani di zona per gli interventi di edilizia residenziale pubblica e la procedura di localizzazione ex art. 51 della legge n. 865 del 1971, il potere di adottare varianti rispetto al piano adottato nel 2000 (cfr. Sez. Unite, sentenza n. 1314 del 1990), la potestà del Comune di sciogliere l’accordo sostitutivo del provvedimento in materia di edilizia residenziale per sopravvenuti motivi di pubblico interesse o esigenze urbanistiche, o di revocare la convenzione per violazione degli obblighi ivi stabiliti con detta convenzione, ovvero comunque atti di esercizio di poteri autoritativi da parte dell’ente destinati a realizzare la finalità pubblicistica cui è diretta l’assegnazione in superficie delle aree vincolate alla costruzione degli alloggi.
11. Va quindi dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, dinanzi al quale le parti devono essere rimesse anche per la liquidazione delle spese del giudizio di regolamento.
P.Q.M.
La Corte dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo, dinanzi al quale rimette le parti anche per la liquidazione delle spese del regolamento preventivo di giurisdizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20678, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di riparto di giurisdizione – SS.UU, 04 luglio 2023, n. 18847
Cass. civ. Sez. Unite, Ord., (ud. 20/06/2023) 04-07-2023, n. 18847
COMPETENZA E GIURISDIZIONE CIVILE
Regolamento di giurisdizione
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Primo Presidente f.f. –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –
Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27376-2022 proposto da:
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOVANNI BATTISTA MARTINI 13, presso lo studio dell’avvocato ANDREA DI PORTO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati SIMONE CONTI e FRANCESCO NEBOLI;
– ricorrente –
e B.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FRATTINA 75, presso lo studio dell’avvocato MICHELA CORIGLIANO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VIVIAN JULIA DONATH;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 51724/2021 del TRIBUNALE di ROMA. Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2023 dal Consigliere ORONZO DE MASI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale MAURO VITIELLO, il quale chiede che la Corte di Cassazione, in camera di consiglio, accolga il ricorso ed affermi la giurisdizione del Giudice italiano.
Svolgimento del processo
CHE:
A.A., dottore commercialista e revisore legale, propone ricorso per regolamento di giurisdizione in relazione alla causa pendente avanti al Tribunale di Roma (RGN. 51724/2021), promossa con atto di citazione notificato il 27/8/2021, al suo indirizzo estero di Londra, ad B.B., la quale resiste con controricorso.
Il A.A. ha agito in giudizio “per ottenere il pagamento delle prestazioni professionali fornite (…) in esecuzione di un apposito mandato” a favore della predetta cliente e consistite “nella consulenza patrimoniale, fiscale e societaria”.
Riferisce che “il conferimento dell’incarico professionale (…) è avvenuto a Roma”, nel 2014, e che la B.B. è una imprenditrice, la quale opera “attraverso la società Immobiliare Arena Blu Srl (…) di cui detiene l’intera partecipazione (…) la società B.B. M.D. (..) di cui detiene sempre l’intera partecipazione sociale” e, dunque, con affari e interessi “concentrati in Italia, e, in particolare, a Roma (..) sia nel campo immobiliare sia in quello farmaceutico”, per cui “le prestazioni richieste al Dott. A.A. erano sostanzialmente finalizzate a supportare l’attività imprenditoriale svolta dalla Dott.ssa B.B.”.
Evidenzia che “proprio in virtù del luogo di residenza, del luogo di svolgimento dell’attività imprenditoriale, nonchè della sede delle società della Dott.ssa B.B. (la stessa) ha dunque rivolto la propria attività professionale verso l’Italia e, nello specifico, verso Roma”.
La B.B., sin dal suo primo atto difensivo, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano, sostenendo che “aveva infatti (ed ha tuttora) non soltanto il domicilio sul suolo britannico (ma anche la residenza) precisamente “a (Omissis) (sin dal novembre 2019), come risulta dal relativo certificato AIRE”.
Convenuta in giudizio ha, peraltro, negato la legittimazione processuale del A.A., assumendo di non aver intrattenuto un rapporto contrattuale diretto con il professionista, il quale come legale rappresentante della BBS Finance Srl aveva stipulato un contratto di prestazione di servizi con la Consulting & Legal Services Scarl per rendere, attraverso la società, una serie di attività in suo favore.
Ha, poi, dedotto di non aver “rivestito la qualifica di “professionista”” e negato che il A.A. avesse svolto prestazioni “finalizzate a supportare l’attività imprenditoriale di B.B.”, essendo semmai lei stessa a rivestire “esclusivamente quella di “consumatore””, donde la conseguente applicazione della
tutela privilegiata di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005 e l’attrazione della controversia innanzi al giudice del luogo di residenza o domicilio del consumatore medesimo.
La controricorrente riferisce che l’unico contratto venuto in essere è quello da lei “sottoscritto in data 3 novembre 2014” con la Consulting & Legal Services Scarl , riferibile alla “proposta di gestione (Omissis) “per attività servente e di organizzazione fiscale previdenziale per le competenze delle attività professionali” per la durata di un anno”.
Ribadisce di essere rimasta estranea al contratto che, in pari data, “la Consulting & Legal Services Scarl ha sottoscritto con la BBS Srl , di cui Dottor A.A. era in allora il legale rappresentante, un Contratto di prestazione di servizi affinchè prestasse “anche con l’ausilio dei propri collaboratori – per conto del Cliente (-) le attività come di seguito elencate nei confronti della Dottoressa B.B., nata a (Omissis), codice fiscale (Omissis) (…)”.
Alla società Consulting & Legal Services, sempre secondo la controricorrente, spettava di svolgere “attività servente e di organizzazione per la prestazione di consulenza professionale che il commercialista si era impegnato a svolgere non in proprio ma attraverso la propria società e con la propria struttura”.
Motivi della decisione
CHE:
Con il primo motivo del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, il A.A. “assume la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 3, comma 1, nonchè alla luce della disciplina del Codice del Consumo, deducendo che la B.B. “ha sì trasferito la propria residenza a Londra, ma ha mantenuto il proprio domicilio a Roma”, atteso che, ai sensi dell’art. 43 c.c., per domicilio deve intendersi il luogo in cui la persona “ha stabilito la sede principale dei suoi affari” e deduce che l’attività imprenditoriale della stessa viene svolta in Italia, precisamente a Roma, “attraverso due società delle quali detiene l’intero capitale sociale”. Deduce, altresì, che ove anche si volesse attribuire alla B.B. la qualifica di “consumatore”, ai sensi dell’art. 66 bis del Codice del Consumo, “la competenza territoriale inderogabile sarebbe comunque “del giudice del luogo di domicilio del consumatore””.
Con il secondo motivo deduce, in via subordinata, la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano, ai sensi dalla L. n. 218 del 1995, art. 3, comma 2, secondo i criteri di cui al Reg. UE n. 1215 del 2012 (c.d. “Bruxelles I bis”), in quanto anche se la B.B. avesse effettivamente trasferito a Londra non solo la residenza ma anche il domicilio, troverebbero applicazione i “criteri speciali” di collegamento previsti dal richiamato Regolamento UE, trovandosi la parte convenuta “nel territorio di uno Stato non vincolato dal medesimo Regolamento (come è il Regno Unito a seguito della Brexit”. Deduce, altresì, che discutendosi di un contratto di prestazione di servizi, il criterio che viene in rilievo è quello previsto dall’art. 7 del Regolamento “Bruxelles I bis”, il quale radica la giurisdizione nel Paese “in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto esser prestati in base al contratto””.
Con il terzo motivo deduce “l’inapplicabilità, in ogni caso, della disciplina del foro esclusivo del consumatore, in quanto la B.B. “non può essere considerata “consumatore” bensì “professionista””, essendo il dedotto contratto “per la gestione patrimoniale, fiscale e societaria” funzionalmente collegato con la gestione di partecipazioni societarie (in Immobiliare Arena Blu Srl e in B.B. M.D. Srl ) e, dunque, destinato a soddisfare non esigenze della vita quotidiana della persona fisica, bensì l’attività imprenditoriale alla B.B. riconducibile.
CONSIDERATO CHE:
Il ricorso è ammissibile.
Avuto riguardo all’udienza di trattazione della causa innanzi al giudice monocratico, ex art. 281 sexies c.p.c., va rilevato che la preclusione all’esperibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, ai sensi dell’art. 41 c.p.c., per effetto di una decisione nel merito in primo grado, si verifica dal momento in cui la causa viene trattenuta per la sentenza, momento che, segnando il radicamento dei poteri decisori del giudice, osta a che il regolamento medesimo possa assolvere lo scopo di una sollecita definizione della questione di giurisdizione investendone in via preventiva la Suprema Corte (Cass. Sez. Un., n. 8076/2012; n. 25256/2009).
Nella specie, il ricorso ex art. 41 c.p.c., risulta notificato in data 18/11/2022, mentre l’udienza per la discussione ex art. 281 sexies c.p.c., era fissata per il giorno 29/11/2022.
I motivi del regolamento preventivo di giurisdizione sono connessi e possono essere esaminati in modo congiunto.
Deve essere dichiarata la giurisdizione del giudice italiano da questa Corte, conformemente a quanto osservato dal P.G. nelle rassegnate conclusioni.
Il giudizio del quale si discute è iniziato il 27/8/2021, innanzi al Tribunale Civile di Roma.
Secondo l’esposizione dei fatti contenuta nell’atto di citazione, la vicenda da cui trae origine la controversia riguarda il preteso affidamento, da parte della B.B. al A.A., dell’attività di “consulenza per la gestione patrimoniale e societaria”, come da formale “mandato” conferito al professionista, attività da rendere nell’ambito di un rapporto di prestazione d’opera intellettuale, sensi dell’art. 2230 e segg. c.c., asseritamente iniziato nel novembre 2014 e conclusosi due anni e mezzo dopo, allorquando, a causa dell’inadempienza contrattuale della cliente ed a seguito dell’intervenuto recesso del professionista, è stata giudizialmente domandata la condanna della B.B. al pagamento dei corrispettivi medio tempore maturati.
La questione di giurisdizione deve essere risolta in base alla L. 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).
Dispone l’art. 3 della legge citata che: “1. La giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell’art. 77 c.p.c. e negli altri casi in cui è prevista dalla legge. 2. La giurisdizione sussiste inoltre in base ai criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27 settembre 1968, resi esecutivi con la L. 21 giugno 1971, n. 804, e successive modificazioni in vigore per l’Italia, anche allorchè il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, quando si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione. Rispetto alle altre materie la giurisdizione sussiste anche in base ai criteri stabiliti per la competenza per territorio”.
Il criterio di giurisdizione previsto dal comma 1 della norma, abbandonato il previgente criterio della cittadinanza italiana del convenuto, attribuisce rilievo al fatto di trovarsi in Italia il domicilio o la residenza o, implicitamente, la sede per le persone giuridiche, o la presenza di un rappresentante autorizzato a stare in giudizio.
Si è in tal modo privilegiato, ai fini della giurisdizione, il radicamento effettivo in Italia della persona del convenuto, sia esso cittadino o straniero, avuto riguardo ai rapporti giuridici che a lui o a lei fanno capo.
Ddell’art. 3, il comma 2 della legge citata contempla alcuni criteri speciali e, in forza del rimando della norma nazionale alla Convenzione di Bruxelles del 1968 e successive modificazioni, in vigore per l’Italia, riguardante le controversie in materia civile e commerciale, cui è seguito il Regolamento Bruxelles I (n. 44 del 2001), sostitutivo della predetta convenzione, e Bruxelles I-bis (n. 1215 del 2012), stabilisce che la giurisdizione italiana sussiste, oltre che nei casi di cui al comma 1, collegati, appunto, al domicilio o alla residenza in Italia del convenuto, o all’esistenza di un suo rappresentante ex art. 77 c.p.c., anche allorchè il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, ove si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione.
Si è in tal modo data rilevanza, nelle materie considerate alle sezioni 2, 3 e 4 del Titolo II della Convenzione (competenze speciali in materia di obbligazioni contrattuali ed extracontrattuali), alle stesse circostanze fattuali, “anche allorchè il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente”, e cioè sia nel caso in cui si applichi, sia nel caso in cui non si applichi la Convenzione di Bruxelles quale fonte internazionale vincolante.
I criteri sopra menzionati sono stati fatti propri dal diritto interno italiano per le materie in cui si applica la Convenzione e valgono nei confronti di tutti i soggetti convenuti, come se fossero stati da esso direttamente previsti, donde anche il potere esclusivo del giudice nazionale di interpretare il diritto interno e di individuare nell’ordinamento processuale la disciplina del caso concreto.
Al presente giudizio, iniziato dopo il 31/12/2020, non è applicabile il Regolamento UE n. 1215 del 2012, ai sensi dell’art. 67 del Brexit Withdrawal Agreement, perchè il Regno Unito non è Paese membro dell’Unione Europea ed alla suddetta data si è concluso il periodo di transizione previsto dall’art. 126 dell’Accordo sul recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall’Unione Europea e dalla Comunità Europea dell’energia atomica accordo (cosiddetto Brexit Withdrawal Agreement).
Infatti, l’art. 67, comma 1, dell’accordo citato, dispone: “Nel Regno Unito, nonchè negli Stati membri in situazioni che coinvolgano il Regno Unito, ai procedimenti avviati prima della fine del periodo di transizione e ai procedimenti o alle cause connesse ai sensi degli artt. 29, 30 e 31 del regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio (73), dell’art. 19 del regolamento (CE) n. 2201/2003 o degli artt. 12 e 13 del regolamento (CE) n. 4/2009 del Consiglio (74), si applicano gli atti o le disposizioni seguenti: a) le disposizioni del regolamento (UE) n. 1215/2012 riguardanti la competenza giurisdizionale….”.
Le Sezioni Unite di questa Corte (n. 31963/2021) hanno avuto modo di precisare, in tema di giurisdizione del giudice italiano, che nei procedimenti avviati prima della fine del periodo di transizione – conclusosi il 31/12/2020 – previsto dall’art. 126 del Brexit Withdrawal Agreement (approvato il 17/10/2019 ed entrato in vigore l’1/2/2020) trova applicazione il Regolamento (UE) n. 1215 del 2012, ai sensi dell’art. 67 del citato accordo, ancorchè il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord non sia più un Paese membro dell’Unione Europea.
Ebbene, dal venir meno della fonte comunitaria nei rapporti con il Regno Unito e dalla non applicabilità diretta della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, non avendo il Regno Unito aderito a tale convenzione internazionale, consegue che la questione della competenza giurisdizionale debba essere necessariamente risolta sulla base delle norme di diritto processuale civile internazionale del Paese in cui si intende avviare la causa (art. 4 della Convenzione di Bruxelles e art. 6 del Regolamento UE n. 1215 del 2012).
Operano, quindi, i criteri di collegamento all’uopo stabiliti dal diritto interno ed, innanzitutto, quelli di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 3, comma 1, che per il radicamento della giurisdizione attribuisce rilievo, tra l’altro, alternativamente, al domicilio e alla residenza del convenuto in Italia.
Parte ricorrente assume, al riguardo, che la B.B., cittadina italiana, a prescindere dalle risultanze dell’iscrizione nell’anagrafe dei residenti all’estero (AIRE), pur risiedendo anagraficamente in Gran Bretagna, ha di fatto mantenuto in Italia il suo domicilio, inteso come sede principale di affari ed interessi economici e, segnatamente, a Roma, dove hanno sede le due società, interamente possedute, la Immobiliare Arena Blu Srl e la B.B. M.D. Srl , attraverso le quali gestisce immobili di proprietà, svolge attività di acquisto, vendita, permuta e locazione degli stessi, nonchè produce e commercializza prodotti farmaceutici, parafarmaceutici e medicinali e gestisce marchi e brevetti di specialità medicinali.
Com’è noto, l’identificazione del giudice cui spetta la giurisdizione in ordine ad una controversia caratterizzata da elementi di estraneità all’ordinamento italiano integra questione di carattere processuale, in relazione alla quale la Suprema Corte, chiamata ad operare come giudice anche del fatto, può procedere non solo alla verifica della corretta individuazione ed interpretazione della disciplina applicabile, ma anche alla ricostruzione della vicenda sottoposta al suo esame, nei limiti in cui ciò risulti necessario per l’applicazione della predetta disciplina (Cass. Sez. Un., n. 156/2020; n. 1717/2020; n. 5830/2022).
Per affermare in base allo stato di fatto che sussiste la giurisdizione italiana e non quella del giudice straniero, detto stato di fatto deve emergere dalle risultanze delle prove raccolte, in base alle regole probatorie del processo, e non si può giudicare in base ad una mera ipotesi non accertata (Cass., Sez. Un, n. 103/1954; Cass. n. 2004/1974).
La giurisdizione, inoltre, si determina sulla base della domanda, individuata con riferimento al petitum sostanziale, identificato non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto della causa petendi, vale a dire della effettiva consistenza della situazione soggettiva giuridicamente tutelata dedotta in giudizio, identificata con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico di cui essi sono rappresentazione.
Occorre, dunque, guardare al petitum sostanziale, in funzione della causa petendi, rappresentata dalla “intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio”, che il giudice deve accertare “con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione” (da ultimo, Cass. Sez. Un., n. 6001/2021).
Tanto premesso, corre l’obbligo di evidenziare che le deduzioni dell’odierno ricorrente volte a superare il dato oggettivo ricavabile dalle risultanze probatorie documentali, costituito dal certificato di residenza per gli italiani residenti all’estero rilasciato dal Comune di Roma e prodotto dalla B.B., non appaiono corroborate da evenienze conclamanti un luogo di domicilio diverso da quello coincidente con la residenza anagrafica (art. 43 c.c.).
Le circostanze allegate (plurime proprietà immobiliari in Italia, detenzione dell’intero capitale delle società di diritto italiano Immobiliare Arena Blu e B.B. M.D. anche se amministrate da altri, titolarità in capo alla B.B. di marchi e domande di brevetto, con versamento in Italia delle relative imposte) non appaiono dotate di specifica attitudine dimostrativa e risulta incerto l’esito della valutazione di detti elementi anche in termini di prova per presunzioni.
Ne discende, sul piano della prova, la decisività del documento che, pur avendo valore presuntivo certamente non assoluto, indica in Londra il luogo di residenza (anche fiscale) della convenuta, sin dal 6/11/2019, luogo nel quale, peraltro, si è perfezionata la notifica (“presso il Consolato Italiano”) dell’atto introduttivo del giudizio.
In difetto di prova contraria, come di regola avviene per le presunzioni, non v’è, quindi, ragione per escludere la coincidenza del domicilio con il luogo di residenza della parte convenuta.
Vanno, allora, scrutinati i criteri di cui alla L. n. 218 del 1992, art. 3, comma 2 che “estendono” la giurisdizione italiana, nelle materie civili e commerciali considerate alle sezioni 2, 3 e 4 del Titolo II della Convenzione di Bruxelles, nell’ipotesi – che qui ricorre – del convenuto non domiciliato nel territorio di uno degli Stati aderenti (Cass. Sez. Un. 18299/2021 e n. 7065/2023).
Sotto tale profilo, è ininfluente la mancata appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea, considerato che le norme convenzionali sono destinate a rilevare, nel caso di specie, come diritto interno.
Orbene, la Convenzione, Sezione 2 (Competenze speciali), art. 5, prevede, tra l’altro, che “Il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente: 1) in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita; in materia di contratto individuale di lavoro, il luogo è quello in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività; qualora il lavoratore non svolga abitualmente la propria attività in un solo paese, il datore di lavoro può essere citato dinanzi al giudice del luogo in cui è situato o era situato lo stabilimento presso il quale è stato assunto;”.
L’odierno ricorrente, “dottore commercialista e revisore contabile”, ha convenuto in giudizio, innanzi al Tribunale Ordinario di Roma, la B.B., cittadina italiana residente all’estero, per sentire: “I) accertare e dichiarare il diritto del Dott. A.A. a percepire e dalla Dott.ssa B.B. il compenso maturato per lo svolgimento dell’attività professionale di cui all’incarico conferito il 3 novembre 2014, per le ragioni di cui (…). II) per l’effetto, condannare la Dott.ssa B.B. a pagare al Dott. A.A. la somma di Euro 6.227.799,00 o quella maggiore o minore che sarà ritenuta di giustizia, oltre interessi ex D.Lgs. n. 231 del 2001 e oltre accessori di legge. Con vittoria delle spese di lite, oltre accessori di legge” (v. conclusioni rassegnate nell’atto di citazione).
Ed allora, la giurisdizione sulla domanda proposta dal professionista, con studio in “Brescia e Milano”, e con “uffici di “rappresentanza” in Roma e Bruxelles”, spetta, in base all’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1998, richiamata dalla L. n. 218 del 1995, art. 3 al giudice del luogo dove la prestazione è stata eseguita, perchè l’attività intellettuale richiesta per l’esecuzione del contratto di prestazione d’opera, secondo quanto allegato e dedotto dall’attore, venne posta in essere “in prima persona dal Dott. A.A.”, ovvero in un ambito territoriale determinato coincidente con quello ricavabile dalla diversa narrazione della B.B., la quale riferisce l’attività mirante alla cura dei propri interessi patrimoniali in Italia, alla Consulting & Legal Services Scarl e, mediatamente, alla BBS Finance Srl , rientrando il A.A. tra i “collaboratori” ausilianti quest’ultima, autorizzati ad operare nell’interesse della cliente, società entrambe con sede a Roma e pacificamente operanti in Italia, sulla base di incarico conferito anch’esso (a Roma) in Italia.
Del resto, il rapporto contrattuale dedotto in giudizio, secondo la narrativa attorea, aveva tratto origine da due incontri avvenuti a Roma, il secondo dei quali conclusosi, appunto, con la formalizzazione, da parte della B.B., dello “incarico di gestire, sia dal punto di vista fiscale che da quello societario, il proprio patrimonio”, in Italia, e si era estrinsecato in molteplici attività “di natura professionale altamente qualificata”, entrando in crisi a seguito “del contenzioso dalla stessa (B.B.) instaurato nei confronti della sorella Paola per la successione ereditaria del padre”, concludendosi, infine, con la comunicazione di recesso del professionista (v. atto di citazione).
Il criterio appropriato per individuare il giudice avente la giurisdizione sulla domanda, di norma, è da ritenere quello della sede che il professionista ha al momento in cui riceve l’incarico, che è il luogo in cui egli elabora le prestazioni che si rendono di volta in volta necessarie nell’interesse del cliente e, nel caso di specie, il A.A. agisce per il corrispettivo di attività professionale svolta in Italia e da retribuirsi in Italia.
Per radicare la giurisdizione nel Regno Unito, quale Stato nel cui territorio si trova il domicilio del consumatore evocato in giudizio, la B.B. ha pure fatto riferimento, quanto al domicilio a Londra, alla normativa posta a tutela il consumatore, destinata a prevalere su ogni altra, in virtù delle esigenze di protezione, anche di natura processuale, della parte debole del rapporto contrattuale.
L’art. 13 della più volte richiamata Convenzione, Sezione 4 (Competenza in materia di contratti conclusi da consumatori), prevede che: “In materia di contratti conclusi da una persona per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività professionale, in appresso denominata “consumatore”, la competenza è regolata dalla presente sezione, salve le disposizioni dell’art. 4 e dell’art. 5, punto 5.
1) qualora si tratti di una vendita a rate di beni mobili materiali;
2) qualora si tratti di un prestito con rimborso rateizzato o di un’altra operazione di credito, connessi con il finanziamento di una vendita di tali beni;
3) qualora si tratti di un altro contratto che abbia per oggetto una fornitura di servizio o di beni mobili materiali se: a) la conclusione del contratto è stata preceduta da una proposta specifica o da una pubblicità nello Stato in cui il consumatore ha il proprio domicilio e se b) il consumatore ha compiuto in tale Stato gli atti necessari per la conclusione del contratto.
Qualora la controparte del consumatore non abbia il proprio domicilio nel territorio di uno Stato contraente, ma possieda una succursale, un’agenzia o qualsiasi altra filiale in uno Stato contraente, essa è considerata, per le contestazioni relative al loro esercizio, come avente domicilio nel territorio di tale Stato”.
L’art. 14 prevede, poi, che: “L’azione del consumatore contro l’altra parte del contratto può essere proposta sia davanti ai giudici dello Stato contraente nel cui territorio tale parte ha il proprio domicilio, sia davanti ai giudici dello Stato contraente nel cui territorio è domiciliato il consumatore.
L’azione dell’altra parte del contratto contro il consumatore può essere proposta solo davanti ai giudici dello Stato nel cui territorio il consumatore ha il proprio domicilio.
Queste disposizioni non pregiudicano il diritto di proporre una domanda riconvenzionale davanti al giudice della domanda principale in conformità della presente sezione.”.
Anche i regolamenti Bruxelles I-bis e Roma I, seppure con formule parzialmente diverse tra loro, prendono in considerazione il consumatore quale persona fisica che concluda contratti internazionali per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività commerciale o professionale con un’altra persona che agisca nell’esercizio della sua attività commerciale o professionale, riprendendo una definizione già contenuta nelle Convenzioni antecedenti i regolamenti, che è stata fatta oggetto nel tempo di un’opera di cesellamento da parte della Corte di Giustizia la quale ne ha definito i termini restringendone progressivamente l’ambito soggettivo di applicazione, al fine di evitare che una protezione troppo estesa della parte debole gravasse poi sugli scambi commerciali intracomunitari.
Il ricorrente deduce che la contraente B.B. ha assunto, nel rapporto de quo, non la veste di “consumatore”, richiesta per applicazione della tutela consumeristica, ma quella di “professionista”. L’attività svolta dal A.A., sempre secondo il ricorrente, non sarebbe del tutto estranea all’attività imprenditoriale della cliente, riguardando la “gestione dell’operatività delle suindicate società (…) assistendo (il A.A.) la Dott.ssa B.B. sia negli investimenti immobiliari da effettuare a Roma per il tramite della società Immobiliare Arena Blu Srl , sia nella gestione dei prodotti, brevetti e knowhow della società B.B. M.D. Srl “.
Va detto che non è affatto agevole verificare, sulla scorta delle risultanze versate in atti, l’effettiva estensione dell’attività oggetto dell’incarico professionale dedotto in giudizio e, del resto, la questione è oggetto di acceso contrasto tra le parti in causa.
Nè appare corretto scindere, nella ricostruzione ed interpretazione del dedotto vincolo contrattuale, i contenuti dell’incarico “di consulenza per la gestione patrimoniale fiscale e societaria”, di cui alla scrittura recante la data del 3 novembre 2014 e la sottoscrizione della B.B., da quelli, invece, del contratto, anch’esso sottoscritto in data 3 novembre 2014, con la Consulting & Legal Services Scarl , riferibile alla “proposta di gestione (Omissis) “per attività servente e di organizzazione fiscale previdenziale per le competenze delle attività professionali” per la durata di un anno”, nonchè da quelli, ancora, del contratto stipulato, in pari data, dalla Consulting & Legal Services Scarl con la BBS Srl , di cui Dottor A.A. era all’epoca legale rappresentante, comunque strumentale alle attività d’interesse della B.B..
In forza di un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, “ai fini dell’assunzione della veste di consumatore l’elemento significativo non è il “non possesso”, da parte della “persona fisica” che ha contratto con un “operatore commerciale”, della qualifica di “imprenditore commerciale” bensì lo scopo (obiettivato o obiettivabile) avuto di mira dall’agente nel momento in cui ha concluso il contratto, con la conseguenza che la stessa persona fisica svolgente attività imprenditoriale o professionale deve considerarsi “consumatore” quando conclude un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività (cfr. Cass., 5/5/2015, n. 8904; Cass., 4/11/2013, n. 24731; Cass., 18/9/2006, n. 20175. Cfr. altresì, con riferimento alla fideiussione, Cass., 15/10/2019, n. 25914)” (Cass. n. 6578/2021).
Non è superfluo ricordare che anche nel diritto unionale la nozione di “consumatore”, ai sensi dell’art. 2, lett. b), della direttiva 93/13, ha un carattere oggettivo (v. sentenza Costea, C0110/14, EU:C:2015:538, punto 21) e deve, quindi, essere valutata alla luce di un criterio funzionale volto ad analizzare se il rapporto contrattuale in esame rientri nell’ambito delle attività estranee all’esercizio di una professione, spettando al giudice nazionale, investito di una controversia relativa a un contratto idoneo a rientrare nell’ambito di applicazione di tale direttiva, verificare, tenendo conto di tutte le circostanze della fattispecie e di tutti gli elementi di prova, se il contraente in questione possa essere qualificato come “consumatore” ai sensi della suddetta direttiva (v., in Ric. 2018 n. 31844 sez. M1 ud. 03-12-2019 -4- tal senso, sentenza Costea, C110/14, EU:C:2015:538, punti 22 e 23).
Ciò detto, ad avviso di queste Sezioni Unite, è sufficiente rilevare che sulla scorta delle stesse allegazioni delle parti, le quali collocano, come innanzi ricordato, lo sviluppo dell’intera vicenda negoziale esclusivamente nel territorio nazionale, non ricorrerebbero le ulteriori condizioni di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 13, n. 3, lett. a) e b) ovvero, che la conclusione del contratto sia stata preceduta da una proposta specifica o da una pubblicità nello Stato in cui il consumatore ha il proprio domicilio (il Regno Unito) e che il consumatore abbia compiuto in tale Stato gli atti necessari per la conclusione del contratto.
Va, conseguentemente, dichiarata la giurisdizione del giudice italiano e la causa rimessa davanti al Tribunale Civile di Roma, che provvederà pure alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Dichiara la giurisdizione del giudice italiano e rimette le parti innanzi al Tribunale Civile di Roma che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili, il 20 giugno 2023.
Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2023
Allegati:
SS.UU, 04 luglio 2023, n. 18847, in tema di riparto di giurisdizione
In tema di trasporto di persone – SS.UU, 20 giugno 2023, n. 17541
Civile Sent. Sez. U Num. 17541 Anno 2023
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: FALASCHI MILENA
Data pubblicazione: 20/06/2023
SENTENZA
sul ricorso 31123-2018 proposto da:
VALTOLINA ANDREA, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MATTEO REPETTI;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI MILANO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE LEPORE, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANTONELLA FRASCHINI, VINCENZA PALMIERI, PAOLA MARIA CECCOLI ed ANTONELLO MANDARANO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3291/2017 del TRIBUNALE di MILANO, depositata il 26/03/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/11/2022 dal Consigliere MILENA FALASCHI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale FULVIO TRONCONE, il quale conclude affinché le Sezioni Unite della Corte, in relazione ai due dubbi interpretativi posti dall’ordinanza interlocutoria n. 6781 del 1° marzo 2022, accolgano il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
In data 17.05.2016 il Comune di Milano contestava ad Andrea Valtolina, nella qualità di titolare di autorizzazione per l’esercizio del servizio di autonoleggio con conducente, la violazione dell’art. 85, comma 4, del C.d.S. in quanto “acquisiva un servizio di trasporto senza effettuare il preventivo contratto con il cliente e trasporto effettuato senza partire dalla rimessa per detto servizio – rimessa sita nel Comune di Altavilla Vicentina – Importo tramite App Uber”.
Il Valtolina proponeva opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione, con ricorso proposto dinanzi al Giudice di pace di Milano, chiedendo l’annullamento del verbale e delle sanzioni comminategli. Deduceva la genericità della contestazione formulata. Sosteneva, inoltre, che il trasporto era stato regolarmente richiesto e concordato mediante l’applicazione Uber Black, di modo che l’incontro delle volontà era avvenuto tramite la piattaforma web; che non vi era mai stato uno stazionamento dell’auto nelle piazzole riservate ai taxi; che l’efficacia delle disposizioni di cui al D.L. n. 207/2008, modificative della legge n. 21/1992 (relative all’obbligo di partenza e rientro delle corse necessariamente presso la rimessa), ritenute da più autorità illogiche, era stata sospesa da più decreti legge succedutisi nel tempo (artt. 3, 11 e 13 legge n. 21 del 1992).
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del Comune di Milano, che chiedeva il rigetto dell’opposizione del Valtolina, il giudice adito, con sentenza n. 12279 del 2016, accoglieva il ricorso annullando il verbale impugnato, sul presupposto che, con l’emanazione del d.l. n. 5 del 2009 (art. 7 bis), l’efficacia degli artt. 3 e 11 legge n. 21 del 1992, nella nuova formulazione, era stata sospesa.
In virtù di impugnazione interposta dal Comune di Milano, il Tribunale di Milano, nella resistenza del Valtolina, con sentenza n. 3291 del 2018, accoglieva il gravame e, in riforma della sentenza di prime cure, rigettava il ricorso originariamente presentato dal Valtolina, condannandolo al pagamento delle spese del giudizio.
A sostegno della decisione il Tribunale esponeva che gli artt. 3 e 11 della legge n. 21 del 1992, come modificati dall’art. 29, comma 1 quater, del decreto-legge n. 207/2008, convertito con la legge n. 14/2009, erano applicabili nella fattispecie, in quanto la sospensione dell’efficacia delle suddette norme – disposta dall’art. 7 bis del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, inserito dalla legge di conversione 9 aprile 2009, n. 33 – era stata prorogata solo fino al 31.03.2010; di converso, sulla durata di tale sospensione non spiegava alcun effetto il termine, e le relative proroghe, fissato per l’adozione di disposizioni attuative del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti dall’art. 2, comma 3, del decreto-legge n. 40/2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 73/2010.
Avverso la sentenza del Tribunale di Milano ha proposto ricorso per cassazione Andrea Valtolina, sulla base di tre motivi, cui ha resistito con controricorso il Comune di Milano.
Fissata la trattazione della causa all’adunanza camerale del 04.03.2021, venivano acquisite le conclusioni della Procura Generale, motivate nel senso dell’accoglimento del ricorso, ritualmente comunicate alle parti, e veniva depositata memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c. dal solo ricorrente.
All’esito della camera di consiglio, la Seconda Sezione rimetteva la causa alla pubblica udienza per la rilevanza nomofilattica della questione.
Per la decisione sul ricorso, fissata la trattazione in udienza pubblica per il giorno 25.11.2021, è stato applicato lo speciale rito «cartolare» previsto dall’art.23, comma 8 bis, del d.l. 137 del 28-10-2020, convertito con modificazioni dalla legge 18-12-2020 n.176 e prorogato a tutto il 2022 dal d.l. 30-12-2021 n.228, convertito dalla legge 25 febbraio 2022, n. 15, non avendo alcuna delle parti depositato istanza per la trattazione orale della causa. Sono state acquisite nuove conclusioni della Procura Generale, motivate nel senso della declaratoria di inammissibilità, in subordine, per il rigetto del ricorso.
In prossimità della pubblica udienza entrambe le parti curavano il deposito di memorie ex art. 378 c.p.c.
All’esito della camera di consiglio, la Seconda Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 6781 del 2022, rimetteva gli atti al Primo Presidente, per la risoluzione di una questione di massima di particolare importanza, sia per la mancanza di precedenti univoci o pienamente convincenti, sia per la sentita esigenza nomofilattica caratterizzante l’interpretazione di norme disciplinanti la questione di diritto circa la vigenza o la sospensione alla data di maggio 2016 – epoca dei fatti contestati al ricorrente – delle modifiche recate al testo della legge n. 21 del 1992 (e, per quanto specificamente interessa la vicenda in esame, agli artt. 3 e 11 di tale legge) dall’art. 29, comma 1 quater, del d.l. n. 207 del 2008 (inserito dalla legge di conversione n. 14 del 2009), la cui soluzione reputava rilevante per la decisione del ricorso.
Il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e seguiva la fissazione dell’odierna udienza, in vista della quale venivano depositate conclusioni scritte del pubblico ministero nel senso dell’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 85, comma 4, C.d.S., dell’art. 3 Cost. per manifesta illogicità e travisamento, nonchè del principio di legalità di cui all’art. 1 legge n. 689 del 1981, ritenendo la sostanziale irriferibilità della normativa di cui alla legge n. 21 del 1992 alle nuove e non disciplinate modalità offerte dalle applicazioni informatiche. Ad avviso del ricorrente la normativa di cui alla legge n. 21 del 1992 – legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea – emanata in un’epoca in cui vi era il telefono cellulare ma con caratteristiche ben diverse rispetto agli attuali smartphone, sarebbe divenuta oggettivamente inapplicabile, facendo riferimento ad una realtà del tutto superata, come emergerebbe anche da recente segnalazione, AS1354 del 10.03.2017, al Parlamento e al Governo da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che ha riconosciuto la stessa oggettiva diversità dei servizi resi tramite piattaforma web e la conseguente irriferibilità delle previsioni normative di cui alla legge quadro. Al riguardo richiama anche il parere n. 3586 del 23.12.2015 reso dal Consiglio di Stato, Sez. Prima, su richiesta del Ministero dell’interno, proprio in siffatta materia, cui ha fatto seguito la successiva nota del Ministero dell’interno dell’11.03.2016, relativamente all’inapplicabilità dell’art. 85 C.d.S. ai nuovi servizi telematici di trasporto. Di converso la Polizia Municipale di Milano ha inopinatamente ritenuto di emettere la nota del 04.05.2016, che ha espressamente ad oggetto “Disposizioni attuative degli articoli 85 e 86 del Codice della Strada e della legge 21/1992”. Il ricorrente ricorda, inoltre, l’analogia che si era realizzata qualche decennio fa con il servizio di radiotaxi, preso in esame dalla sentenza gravata: sebbene non preso in considerazione dal legislatore, nessuna sanzione viene comminata ai sensi dell’art. 86 C.d.S. a chi recluta la clientela tramite le centrali di radiotaxi anziché stazionando sulle aree a ciò specificamente riservate.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dei principi generali di cui agli artt. 3 e 41 Cost. per avere i provvedimenti ed i comportamenti adottati dal Comune di Milano nella presente vicenda determinato una limitazione della libera attività economica privata non giustificata da alcun motivo di “utilità sociale”, conformemente alla pronuncia della Corte costituzionale n. 174 del 2014.
Nel senso della dubbia costituzionalità delle norme contenute nella legge n. 21 del 1992 si è già espresso il TAR Lombardia con il decreto n. 1105 del 2013.
Con il terzo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 3 e 11 legge n. 21 del 1992 per intervenuta sospensione legislativa dell’efficacia del disposto di cui all’art. 29, comma 1 quater d.l. n. 207 del 2008. Ad avviso del ricorrente, le disposizioni invocate dal Comune di Milano non riguarderebbero la presente vicenda, altrimenti si incorrerebbe nella violazione dei principi costituzionali di legalità, uguaglianza, ragionevolezza e libertà economica.
Lo stesso legislatore ha immediatamente sospeso l’efficacia della novella in oggetto, in particolare l’art. 7 bis legge n. 33 del 2009, specificamente reiterato dai dd.ll. nn. 78 e 194 del 2009, in quanto l’art. 1, comma 1136, legge n. 205 del 2017 espressamente afferma che “conseguentemente, la sospensione dell’efficacia disposta dall’art. 7 bis, comma 1, del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009 n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2018”, dissipando ogni residuo dubbio circa la perdurante sospensione – ab origine e senza soluzione di continuità – dell’efficacia delle disposizioni introdotte con il d.l. n. 207 del 2008. Nei medesimi termini si era in precedenza già espresso anche il d.l. n. 244 del 2016 c.d. Milleproroghe.
Ritiene il ricorrente che volga nello stesso senso la nota prot. n. 6446 del 31.03.2016 che ha ribadito come “in relazione alla questione se sia da ritenersi sospesa l’efficacia dell’art. 29 comma 1 quater (…) milita a favore di tale interpretazione il dato testuale del d.l. n. 40/2003 (art. 2, comma 3), in ragione del quale il Legislatore ha inteso subordinare l’attuazione della novella legislativa al decreto interministeriale de quo. Se ne desume che, almeno finchè legittimamente (e cioè fino allo scadere del 31.12.2016) il Decreto non sarà emanato, dovrebbe essere inibita l’efficacia dell’art. 29, comma 1 quater…”.
Rileva preliminarmente il Collegio che le tre censure vanno esaminate e trattate unitariamente, in quanto tutte volte alla pregiudiziale affermazione dell’applicabilità (o meno) alla fattispecie del noleggio di autovetture con conducente, di cui all’art. 7-bis, comma 1, del d.l. n. 5 del 2009, conv in legge n. 33 del 2009, della sospensione dell’efficacia delle modifiche previste agli artt. 3 e 11 della legge n. 21 del 1992, introdotte dall’art. 29, comma 1 quater del d.l. n. 207 del 2008 e dell’art. 9, comma 3 d.l. n. 244 del 2016, conv. in legge n. 19 del 2017.
Esse sono meritevoli di accoglimento nell’ambito dei confini che di seguito verranno illustrati.
L’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione, 1° marzo 2022 n. 6781, individua la questione di diritto alla stessa sottoposta nei seguenti termini: se, all’epoca dei fatti contestati al ricorrente (maggio 2016), le modifiche recate al testo della legge n. 21 del 1992 (e, per quanto specificamente interessa la vicenda in esame, agli artt. 3 e 11 di tale legge) dall’art. 29, comma 1 quater, del d.l. n. 207 del 2008 (inserito dalla legge di conversione n. 14 del 2009) dovessero ritenersi vigenti o sospese.
In particolare, osserva il Collegio remittente che, secondo il ricorrente, l’art. 9, comma 3, del decreto-legge 30 dicembre 2016, n. 244, convertito in legge 27 febbraio 2017, n. 19, là dove prevede (nel secondo periodo) che «la sospensione dell’efficacia disposta dall’articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2017», estenderebbe retroattivamente la sospensione di efficacia dell’art. 29, comma 1 quater del decreto-legge 30 dicembre 2007 n. 207 dalla data del 31 marzo 2010, fino alla quale essa era già stata prorogata, alla data del 31 dicembre 2017, così creando un continuum di sospensione di efficacia dal 2009 al 2017.
Così individuata la questione oggetto di scrutinio, l’ordinanza interlocutoria ritiene sia meritevole di un supplemento di riflessione l’approdo ermeneutico al quale è giunta la Corte con le sentenze n. 12679 del 2017 e n. 28077 del 2021.
Con tali pronunce si è affermato che la sospensione dell’efficacia delle modifiche alla disciplina di cui agli artt. 3 e 11 della legge n. 21 del 1992, introdotta dall’art. 29 del d.l. n. 207 del 2008, era cessata al 31 marzo 2010, secondo quanto previsto dall’art. 5, comma 3, del d.l. n. 194 del 2009, conv. in l. n. 25 del 2010, ponendosi tale norma come l’ultima (la precedente era l’art 23, comma 2 d.l. n. 78 del 2009, conv. in legge n. 102 del 2009) che aveva prorogato l’iniziale sospensione prevista dall’art. 7-bis del d.l. n. 5 del 2009 introdotto dalla legge di conversione n. 33 del 2009.
Secondo detto indirizzo, rispetto a tale cessazione, a nulla valeva l’individuazione del termine del 31 dicembre 2016 contenuto nell’art. 2, comma 3 del d.l. n. 40 del 2010, in quanto riferito all’adozione di un decreto ministeriale volto a impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, pratiche non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia, senza alcuna rinnovata sospensione della efficacia delle disposizioni di cui al d.l. n. 207 del 2008. Non poteva, infatti, ritenersi che il mero rinvio ad un decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, ancorché previa intesa con la Conferenza unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, contenuto nell’art. 2 cit. potesse avere l’effetto di impedire l’efficacia di una disciplina inserita nella legge-quadro per il trasporto dotata, peraltro, di indubbia idoneità prescrittiva.
La successiva pronuncia del 2021, riportando l’iter argomentativo della precedente del 2017, ha affermato che l’art. 9, comma 3, del decreto legge n. 244 del 2016, nel testo risultante dalla legge di conversione n. 19 del 2017, nella parte in cui prevede che «Conseguentemente, la sospensione dell’efficacia disposta dall’articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2017», ha inteso disporre una nuova sospensione delle disposizioni introdotte dall’art. 29, comma 1- quater, a far tempo dal 1° marzo 2017, data di entrata in vigore delle modifiche apportate con la legge di conversione, sino al 31 dicembre 2017, senza che a tale ius superveniens potesse attribuirsi il contenuto e la valenza di una legge retroattiva o di interpretazione autentica.
L’ordinanza di rimessione pone in luce come l’interpretazione della seconda parte del comma 3 dell’art. 9 del d.l. n. 244 del 2016 si presti ai seguenti dubbi.
In primo luogo essa non appare perfettamente coerente con il dato letterale della disposizione, là dove essa recita «la sospensione … si intende prorogata». Il senso letterale della parola “prorogata”, infatti, sembra alludere alla “protrazione” di una sospensione ancora in essere, non alla “riattivazione” di una sospensione cessata anni prima.
In secondo luogo, l’ordinanza riporta un passaggio della motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 56 del 2020 la quale, pur senza affrontare il tema oggetto del presente scrutinio (essendo stata sottoposta al suo esame la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.l. n. 135 del 2018), sembra, tuttavia, offrire una ricostruzione della disciplina in esame non del tutto coincidente con quella di cui ai citati precedenti di questa Corte. In particolare, l’iter argomentativo seguito dalla Consulta sulla questione alla stessa sottoposta si conclude al paragrafo 3.1 del Considerato in diritto con l’affermazione che «Per meglio comprendere l’assetto normativo vigente, va precisato che l’art. 10-bis ha a sua volta abrogato, a decorrere dal 10 gennaio 2019, sia il comma 3 dell’art. 2 del d.l. n. 40 del 2010 (al comma 5), che l’art. 7-bis del d.l. n. 5 del 2009 (al comma 7), che avevano sospeso l’efficacia della più stringente disciplina dettata dall’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2008. Di conseguenza, dalla indicata data del 10 gennaio 2019 hanno acquistato efficacia le disposizioni modificative della legge n. 21 del 1992 introdotte dall’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2008, come ulteriormente modificate dall’art. 10-bis del d.l. n. 135 del 2018, mentre è venuta meno la previsione di «urgenti disposizioni attuative» dirette a contrastare il fenomeno dell’abusivismo, da adottare con decreto ministeriale». Tale dictum, a parere del Collegio che ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, lascia «il dubbio che, nella ricostruzione normativa operata dalla Corte costituzionale, le disposizioni modificative della legge n. 21 del 1992 introdotte dall’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2008 non siano mai entrate in vigore prima del 10 gennaio 2019, quando esse entrarono in vigore con le modifiche recate dall’art. 10-bis del d.l. n. 135 del 2018».
La Sezione remittente ricorda che anche la giurisprudenza di merito, proprio alla luce delle considerazioni fin qui esposte e delle incertezze presenti (per l’interpretazione patrocinata dal ricorrente si veda Trib. Roma 26.05.2017), propende a favore della tesi che per l’intero periodo dal 1° marzo 2010 al 31 dicembre 2017 la materia disciplinata, prima, dal testo originario della legge n. 21/1992 e, poi, dal testo di tale legge come modificato dal decreto-legge n. 207/2008 deve intendersi come totalmente deregolata. Il giudice di merito ha, in primo luogo, rilevato come l’art. 29, comma 1-quater d.l. n. 207 del 2008, prevedendo la sostituzione integrale di commi e articoli di legge preesistenti, implichi il duplice effetto dell’abrogazione di tali disposizioni e, al tempo stesso, dell’introduzione nell’ordinamento giuridico di nuove disposizioni, inserite in luogo di quelle soppresse e nella medesima sede originariamente destinata a queste ultime; in secondo luogo, si è poi sottolineato come la sostituzione comporti l’eliminazione della sequenza testuale da un testo normativo e l’inserimento di una nuova sequenza al posto di quella, con conseguente unificazione dei momenti dell’abrogazione e dell’inserimento. Sulla scorta dei tali premesse, il Tribunale capitolino ha quindi richiamato Corte cost. n. 13/2012 (“il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate non opera in via generale e automatica e può essere ammesso soltanto in ipotesi tipiche e molto limitate”) e Cass., Sez. Un., n. 25551/2007 (“a questo proposito va in generale affermato che, nel regime di successione delle leggi, mentre l’abrogazione della disposizione che modifica o sostituisce quella precedente non comporta la sua reviviscenza, tale effetto può invece predicarsi in caso di abrogazione di una disposizione che abbia come contenuto quello di abrogare una disposizione precedente sicché ciò che viene meno è proprio l’effetto abrogativo”); per concludere che, nel periodo di sospensione dell’efficacia delle disposizioni recate dal decreto legge n. 207/2008, non ricorreva alcuna reviviscenza delle disposizioni contenute nel testo previgente della legge n. 21 del 1992.
Questo è, dunque, il perimetro oggettivo della remissione.
Per una riconsiderazione complessiva del tema da parte di queste Sezioni Unite e per una più chiara comprensione della questione rimessa è necessario premettere un sintetico quadro delle disposizioni di legge rilevanti.
L’intervento del legislatore nazionale sulla disciplina amministrativa del noleggio con conducente trova la propria fonte nella legge n. 21 del 1992 (Legge quadro per il trasposto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea). In particolare, per quanto specificatamente interessa la vicenda in esame, l’art. 3 (Servizio di noleggio con conducente) nella sua originaria formulazione prevedeva che «1. Il servizio di noleggio con conducente si rivolge all’utenza specifica che avanza, presso la sede del vettore, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. Lo stazionamento dei mezzi avviene all’interno delle rimesse o presso i pontili di attracco», mentre il successivo art. 11 (Obblighi dei titolari di licenza per l’esercizio del servizio di taxi e di autorizzazione per l’esercizio del servizio di noleggio con conducente) disponeva che «1. I veicoli o natanti adibiti al servizio di taxi possono circolare e sostare liberamente secondo quanto stabilito dai regolamenti comunali. 2. Il prelevamento dell’utente ovvero l’inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza per qualunque destinazione, previo assenso del conducente per le destinazioni oltre il limite comunale o comprensoriale, fatto salvo quanto disposto dal comma 5 dell’articolo 4. 3. Nel servizio di noleggio con conducente, esercìto a mezzo di autovetture, è vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico nei comuni ove sia esercìto il servizio di taxi. È tuttavia consentito l’uso delle corsie preferenziali e delle altre facilitazioni alla circolazione previste per i taxi e altri servizi pubblici. 4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso le rispettive rimesse. 5. I comuni in cui non è esercìto il servizio di taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. 6. I comuni, ferme restando le attribuzioni delle autorità competenti in materia di circolazione negli ambiti portuali, aeroportuali e ferroviari, ed in accordo con le organizzazioni sindacali di categoria dei comparti del trasporto di persone, possono, nei suddetti ambiti, derogare a quanto previsto dal comma 3, purché la sosta avvenga in aree diverse da quelle destinate al servizio di taxi e comunque da esse chiaramente distinte, delimitate e individuate come rimessa. 7. Il servizio di taxi, ove esercìto, ha comunque la precedenza nei varchi prospicienti il transito dei passeggeri».
Per effetto dell’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2008 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni finanziarie urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge n. 14 del 2009) l’art. 3 cit. è stato modificato nel seguente testo «1. Il servizio di noleggio con conducente si rivolge all’utenza specifica che avanza, presso la rimessa, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. 2. Lo stazionamento dei mezzi deve avvenire all’interno delle rimesse o presso i pontili di attracco. 3. La sede del vettore e la rimessa devono essere situate, esclusivamente, nel territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione» e l’art. 11 cit. nel seguente testo «1. I veicoli o natanti adibiti al servizio di taxi possono circolare e sostare liberamente secondo quanto stabilito dai regolamenti comunali. 2. Il prelevamento dell’utente ovvero l’inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza per qualunque destinazione, previo assenso del conducente per le destinazioni oltre il limite comunale o comprensoriale, fatto salvo quanto disposto dal comma 5 dell’articolo 4. 3. Nel servizio di noleggio con conducente, esercìto a mezzo di autovetture, è vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico nei comuni ove sia esercìto il servizio di taxi. In detti comuni i veicoli adibiti a servizio di noleggio con conducente possono sostare, a disposizione dell’utenza, esclusivamente all’interno della rimessa. I comuni in cui non è esercìto il servizio taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. Ai veicoli adibiti a servizio di noleggio con conducente è consentito l’uso delle corsie preferenziali e delle altre facilitazioni alla circolazione previste per i taxi e gli altri servizi pubblici. 4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso la rimessa. L’inizio ed il termine di ogni singolo servizio di noleggio con conducente devono avvenire alla rimessa, situata nel comune che ha rilasciato l’autorizzazione, con ritorno alla stessa, mentre il prelevamento e l’arrivo a destinazione dell’utente possono avvenire anche nel territorio di altri comuni. Nel servizio di noleggio con conducente è previsto l’obbligo di compilazione e tenuta da parte del conducente di un «foglio di servizio» completo dei seguenti dati: a) fogli vidimati e con progressione numerica; b) timbro dell’azienda e/o società titolare della licenza. La compilazione dovrà essere singola per ogni prestazione e prevedere l’indicazione di: 1) targa veicolo; 2) nome del conducente; 3) data, luogo e km. di partenza e arrivo; 4) orario di inizio servizio, destinazione e orario di fine servizio; 5) dati del committente. Tale documentazione dovrà essere tenuta a bordo del veicolo per un periodo di due settimane. 5. I comuni in cui non è esercìto il servizio di taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. 6. I comuni, ferme restando le attribuzioni delle autorità competenti in materia di circolazione negli ambiti portuali, aeroportuali e ferroviari, ed in accordo con le organizzazioni sindacali di categoria dei comparti del trasporto di persone, possono, nei suddetti ambiti, derogare a quanto previsto dal comma 3, purché la sosta avvenga in aree diverse da quelle destinate al servizio di taxi e comunque da esse chiaramente distinte, delimitate e individuate come rimessa. 7. Il servizio di taxi, ove esercìto, ha comunque la precedenza nei varchi prospicienti il transito dei passeggeri».
La normativa introdotta dall’art. 29, comma 1-quater d.l. n. 207 del 2008 (comma aggiunto dalla legge di conversione del 27 febbraio 2019 n. 14) ha ridisegnato la disciplina del servizio di noleggio con conducente (NCC) prevista dalla legge n. 21 del 1992 rendendo più stringenti i vincoli territoriali, aumentando anche i controlli sul loro rispetto e le sanzioni in caso di violazione. In particolare, sono stati introdotti a carico dei prestatori dei servizi di NCC: l’obbligo di avere la sede e la rimessa esclusivamente nel territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione; l’obbligo di iniziare ogni singolo servizio dalla rimessa e di ritornarvi al termine del servizio; l’obbligo di compilare e tenere il «foglio di servizio»; l’obbligo di sostare, a disposizione dell’utenza, esclusivamente all’interno della rimessa. È stato inoltre confermato l’obbligo, già previsto dalla legge n. 21 del 1992, di effettuazione presso le rimesse le prenotazioni di trasporto. Le modifiche apportate dall’art. 29 cit. hanno avuto applicazione per un brevissimo lasso di tempo (dal 1 marzo 2009, data di entrata in vigore della legge n. 14 del 2009, al 14 aprile 2009, data di entrata in vigore dell’art. 7-bis d.l. 10 febbraio 2009 n. 5, inserito dalla legge di conversione del 9 aprile 2009 n. 33).
In particolare, il legislatore ha inizialmente previsto una prima sospensione fino al 30 giugno 2009 (art. 7-bis cit., nel testo originario). Detto termine è stato successivamente prorogato al 31 dicembre 2009 dall’art. 23, comma 2, d.l. 1° luglio 2009 n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009 e, successivamente, al 31 marzo 2010, dall’art. 5, comma 3, d.l. 30 dicembre 2009 n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 25 del 2010. E’, poi, intervenuto l’art. 2, comma 3, d.l. 25 marzo 2010 n. 40 il quale, sempre nel testo applicabile ratione temporis, prevedeva che «3. Ai fini della rideterminazione dei principi fondamentali della disciplina di cui alla legge 15 gennaio 1992, n. 21, secondo quanto previsto dall’articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, ed allo scopo di assicurare omogeneità di applicazione di tale disciplina in ambito nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono adottate, entro e non oltre il 31 dicembre 2016, urgenti disposizioni attuative, tese ad impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia. Con il suddetto decreto sono, altresì, definiti gli indirizzi generali per l’attività di programmazione e di pianificazione delle regioni, ai fini del rilascio, da parte dei Comuni, dei titoli autorizzativi.»
L’art. 2, comma 3 cit. è stato, poi, fatto oggetto di successivo intervento da parte del legislatore ad opera dell’art. 9, comma 3 d.l. n. 244 del 2016, come modificato dalla legge di conversione n. 19 del 2017, con il quale si è disposto che «All’articolo 2, comma 3 del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2010, n. 73, le parole: «31 dicembre 2016» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre 2017».
La seconda parte del disposto dell’art 9, comma 3 cit. continua con la precisazione che «Conseguentemente, la sospensione dell’efficacia disposta dall’articolo 7-bis, comma 1 del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009 n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2017.»
Infine, sulla materia è intervenuto l’art. 10-bis d.l. n. 135 del 2018, che in sede di conversione, di cui alla legge n. 12 del 2019, ha riprodotto le disposizioni già contenute nel d.l. n. 143 del 2018 (di due soli articoli su “Misure urgenti in materia di autoservizi pubblici non di linea”), contestualmente abrogandole e che, per quanto qui di interesse, così dispone «1. Alla legge 15 gennaio 1992, n. 21, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 3, comma 1, le parole: «presso la rimessa» sono sostituite dalle seguenti: «presso la sede o la rimessa» e sono aggiunte, infine, le seguenti parole: «anche mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici»; b) all’articolo 3, il comma 3 è sostituito dal seguente: «3. La sede operativa del vettore e almeno una rimessa devono essere situate nel territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione. È possibile per il vettore disporre di ulteriori rimesse nel territorio di altri comuni della medesima provincia o area metropolitana in cui ricade il territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione, previa comunicazione ai comuni predetti, salvo diversa intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata entro il 28 febbraio 2019. In deroga a quanto previsto dal presente comma, in ragione delle specificità territoriali e delle carenze infrastrutturali, per le sole regioni Sicilia e Sardegna l’autorizzazione rilasciata in un comune della regione è valida sull’intero territorio regionale, entro il quale devono essere situate la sede operativa e almeno una rimessa»; all’articolo 11, il comma 4 è sostituito dal seguente: «4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso la rimessa o la sede, anche mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici. L’inizio ed il termine di ogni singolo servizio di noleggio con conducente devono avvenire presso le rimesse di cui all’articolo 3, comma 3, con ritorno alle stesse. Il prelevamento e l’arrivo a destinazione dell’utente possono avvenire anche al di fuori della provincia o dell’area metropolitana in cui ricade il territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione. Nel servizio di noleggio con conducente è previsto l’obbligo di compilazione e tenuta da parte del conducente di un foglio di servizio in formato elettronico, le cui specifiche sono stabilite dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministero dell’interno. Il foglio di servizio in formato elettronico deve riportare: a) targa del veicolo; b) nome del conducente; c) data, luogo e chilometri di partenza e arrivo; d) orario di inizio servizio, destinazione e orario di fine servizio; e) dati del fruitore del servizio. Fino all’adozione del decreto di cui al presente comma, il foglio di servizio elettronico è sostituito da una versione cartacea dello stesso, caratterizzata da numerazione progressiva delle singole pagine da compilare, avente i medesimi contenuti previsti per quello in formato elettronico, e da tenere in originale a bordo del veicolo per un periodo non inferiore a quindici giorni, per essere esibito agli organi di controllo, con copia conforme depositata in rimessa»; f) all’articolo 11, dopo il comma 4 sono inseriti i seguenti: «4-bis. In deroga a quanto previsto dal comma 4, l’inizio di un nuovo servizio può avvenire senza il rientro in rimessa, quando sul foglio di servizio sono registrate, sin dalla partenza dalla rimessa o dal pontile d’attracco, più prenotazioni di servizio oltre la prima, con partenza o destinazione all’interno della provincia o dell’area metropolitana in cui ricade il territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione. Per quanto riguarda le regioni Sicilia e Sardegna, partenze e destinazioni possono ricadere entro l’intero territorio regionale. 4-ter. Fermo restando quanto previsto dal comma 3, è in ogni caso consentita la fermata su suolo pubblico durante l’attesa del cliente che ha effettuato la prenotazione del servizio e nel corso dell’effettiva prestazione del servizio stesso».
Essendo la questione all’attenzione di queste Sezioni Unite costituita dalla definizione del limite temporale della sospensione dell’efficacia della riforma di settore (giova ribadirlo, se nel senso della sua permanenza nel periodo 1° aprile 2010 – 31 dicembre 2017 ovvero della sua negazione, con tutto ciò che ne consegue in termini di disciplina applicabile al caso di specie), onde poter assolvere al compito di interpretazione di siffatte norme, occorre prendere le mosse dai servizi disciplinati dalla legge quadro n. 21 del 1992, la quale – come sopra esposto – nel prevedere due tipologie di servizio, taxi e noleggio con conducente, con il d.l. 30 dicembre 2008 n. 207, in particolare con l’art. 29, comma 1-quater, ha provveduto a ridisegnare in larga parte la disciplina dello svolgimento dei servizi NCC prevedendo l’introduzione di una serie di vincoli a tale attività; tuttavia l’efficacia di tale disciplina è stata pacificamente ed in termini espliciti sospesa fino al marzo 2010 e, successivamente, dal 1° gennaio 2017 fino al 31 dicembre 2018, per cui permangono dubbi sul periodo compreso tra il 1° aprile 2010 ed il 31 dicembre 2016, non espressamente e dettagliatamente disciplinato.
L’esigenza di adeguare le disposizioni della legge n. 21 del 1992 – in considerazione sia di problematiche relative al rapporto tra i servizi di taxi e di noleggio con conducente (va ricordato che in origine gli obblighi di servizio pubblico discendevano solo per il servizio di taxi, i quali risultano disciplinati dalle leggi regionali, ai cui criteri devono attenersi i comuni nel regolamentarne l’esercizio, enti ai quali sono delegate le funzioni amministrative), sia per l’esigenza di rispondere alle nuove realtà economiche che offrivano servizi non immediatamente riconducibili a quelli previsti dalla regolamentazione nazionale, anche al fine di superare i dubbi riguardanti la loro legittimità – ha caratterizzato le ultime legislature, a ciò stimolate anche dagli interventi delle Autorità indipendenti di settore, quali l’Autorità di Regolazione dei Trasporti (che ha inviato al Governo ed al Parlamento il 21 maggio 2015 un atto di segnalazione sulla rilevanza economico-regolatoria dell’autotrasporto di persone non di linea) e l’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato (AGCM), intervenuta più volte proprio sul tema della riforma della disciplina del settore Taxi e NCC (da ultimo, il 10 marzo 2017, ha inviato una segnalazione al Parlamento ed al Governo in cui si sottolinea che il settore dalla mobilità non di linea – taxi e NCC – richiede una riforma complessiva, in quanto è ancora regolato dalla legge n. 21 del 15 gennaio 1992, oramai non più al passo con l’evoluzione del mercato).
Il profilo dell’autonomia privata di regolare a propria discrezione i fenomeni economici (associativi o di scambio) è stato certamente incentivato dalla globalizzazione e da internet. Basti pensare alla creazione della start up Uber, nota per avere creato nel 2010 l’omonima applicazione per mettere in contatto diretto gli automobilisti ed i passeggeri, offrendo così un servizio di trasporto automobilistico distinto dai tradizionali autoservizi pubblici di linea. L’irrompere sul mercato di questa nuova applicazione ha generato non poche frizioni tra le parti sociali che sono spesso sfociate in contenziosi giurisdizionali. Di qui – alla luce di quanto previsto nel decreto “milleproroghe” 2017 – la scelta del legislatore di posticipare almeno fino al gennaio 2018 l’entrata in vigore dell’art. 29, comma 1-quater legge 30.12.2008 n. 207.
Conseguentemente alla nuova disciplina per il NCC che viene delineata dal d.l. n. 143 del 2018, il comma 5 dell’art. 1 dispone l’abrogazione del comma 3 dell’art. 2 del decreto-legge n. 40 del 2010 che prevedeva l’adozione, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata, di disposizioni per impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia e per definire gli indirizzi generali per l’attività di programmazione e di pianificazione delle regioni, ai fini del rilascio, da parte dei Comuni, dei titoli autorizzativi. Il termine per l’emanazione di tale decreto interministeriale è stato differito 12 volte, da ultimo al 31 dicembre 2018 dall’art. art. 1, comma 1136, lettera b), della legge n. 205 del 2017, che – per quanto già esposto – ha anche confermato la sospensione dell’efficacia, per l’anno 2018, delle disposizioni del D.L. n. 207/2008. Analogamente, il comma 7 dispone, a decorrere dal 1° gennaio 2019, l’abrogazione dell’art. 7-bis d.l. n. 5 del 2009, cioè della norma che aveva disposto la sospensione fino al 31 marzo 2010 dell’operatività dell’art. 29, comma 1-quater, del decreto-legge 30 dicembre 2008 n. 207.
Va, infine, ricordato come l’art. 10-bis d.l. n. 135 del 2018 abbia abrogato, a decorrere dal 10 gennaio 2019, sia il comma 3 dell’art. 2 d.l. n. 40 del 2010, che l’art. 7-bis d.l. n. 5 del 2009, che avevano sospeso l’efficacia della disciplina dettata dall’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2018. Di conseguenza, dal 1° gennaio 2019 hanno acquistato efficacia le disposizioni modificative della legge n. 21 del 1992 introdotte dall’art. 29, comma 1-quater del d.l. n. 207 del 2008, come ulteriormente modificate dall’art. 10-bis del d.l. n. 135 del 2018, mentre è venuta meno la previsione di «urgenti disposizioni attuative» dirette a contrastare il fenomeno dell’abusivismo, da adottare con decreto ministeriale (cfr. testualmente, Corte cost. 56/2020, par. 3.1.).
Solo per completezza si osserva che la legge annuale per la concorrenza (legge n. 124 del 2017, art. 1, commi 179-182) conteneva la delega per l’emanazione di un decreto legislativo di riordino del settore taxi e NCC, da esercitare entro il 29 agosto 2018, ma tale delega non è stata mai esercitata.
Così ricostruito l’excursus storico della disciplina normativa, giova poi chiarire – sempre nell’ottica di una migliore interpretazione del testo normativo – che l’art. 9, comma 3, d.l. n. 244 del 2016, come modificato dalla legge di conversione n. 19 del 2017 che modifica parzialmente l’art. 2, comma 3 d.l. n. 40 del 2010, convertito dalla legge n. 73 del 2010, sostituendo le parole “31 dicembre 2016” con “31 dicembre 2017”, è stato approvato nella Prima Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente del Senato della Repubblica a seguito del recepimento dell’emendamento 9.20, ritirati gli emendamenti 9.16, 9.17, 9.18, 9.22, 9.23 e 9.25, respinti quelli recanti i numeri 9.15, 9.19, 9.21 e 9.24, che meglio rispondevano al quesito esegetico posto dall’ordinanza interlocutoria nel senso che la disposta sospensione opera per tutto il periodo 1° aprile 2010 – 31 dicembre 2017.
Siffatta impostazione tuttavia consente di collegare la disposizione citata all’art. 2, comma 3 d.l. n. 40 del 2010 (il quale stabiliva che: «3. Ai fini della rideterminazione dei principi fondamentali della disciplina di cui alla legge 15 gennaio 1992, n. 21, secondo quanto previsto dall’articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, ed allo scopo di assicurare omogeneità di applicazione di tale disciplina in ambito nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono adottate, entro e non oltre il termine di sessanta giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore del presente decreto, urgenti disposizioni attuative, tese ad impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia.
Con il suddetto decreto sono, altresì, definiti gli indirizzi generali per l’attività di programmazione e di pianificazione delle regioni, ai fini del rilascio, da parte dei Comuni, dei titoli autorizzativi.») all’art. 29, comma 1-quater del d.l. n. 207 del 2008, facendone conseguire la sospensione anche dell’efficacia della riforma che ridisegna i principi fondamentali del servizio del noleggio con conducente di cui alla legge n. 21 del 1992, in quanto il nuovo e più rigoroso regime postula la necessità dell’adozione di una disciplina complessiva (statale, regionale e comunale) con l’adozione di decreti ministeriali concertati tra i Ministeri interessati e previa intesa con la Conferenza Unificata di Stato, regioni e di comuni.
In altri termini, la maieutica dell’art. 9, comma 3 d.l. n. 244 del 2016, come modificato dalla legge di conversione n. 19 del 2017, non consente di dare attuazione alla nuova disciplina nella sua globalità senza la messa a regime dell’intero settore. Né a siffatta interpretazione è di ostacolo il principio secondo cui la norma di interpretazione autentica può essere adottata solo per ovviare ad una situazione di grave incertezza normativa o a forti contrasti giurisprudenziali, con la conseguenza che il legislatore sarebbe abilitato ad intervenire solamente al ricorrere di siffatti eventi, tali da giustificare, di conseguenza, l’esegesi legislativa. Infatti, si rischierebbe di affrontare la tematica dell’interpretazione autentica sulla base di un criterio approssimativo, ossia non considerando la giurisprudenza costituzionale in materia di leggi interpretative, attraverso la quale, seppur con esiti variabili, i giudici delle leggi sono giunti a riconoscere la legittimità dell’intervento (autenticamente) interpretativo, e quindi, retroattivo del legislatore, non solo in casi di incertezza normativa (v. Corte cost. n. 15 del 2012 che richiama le sent. nn. 271 e 257 del 2011, n. 209 del 2010, nn. 311 e 24 del 2009, nn. 162 e 74 del 2008; in tal senso vedi anche Corte cost. nn. 156 del 2014, n. 170 del 2013, n. 264 del 2012, n. 78 del 2012) o di anfibologie giurisprudenziali, ovvero nei casi in cui il legislatore si limiti a selezionare uno dei possibili significati che possono ricavarsi dalla disposizione interpretata (rimanendo entro i possibili confini interpretativi: v. Corte cost. sentenze n. 227 del 2014, n. 170 del 2008 e n. 234 del 2007), ma anche nell’ipotesi in cui il legislatore intervenga per contrastare un orientamento giurisprudenziale (c.d. diritto vivente) sfavorevole, sempre che l’opzione ermeneutica prescelta rinvenga il proprio fondamento nella cornice della norma interpretata (v. Corte cost. n. 271/2011 cit.). Così intesa, l’incertezza normativa cui il legislatore cercherebbe di far fronte mediante l’intervento esegetico potrebbe articolarsi nella diversa accezione oggettiva (oggettivo contrasto giurisprudenziale) ovvero soggettiva (indesiderato indirizzo giurisprudenziale). La Corte costituzionale rinviene il fondamento dell’adozione dello strumento legislativo interpretativo nella sussistenza di contrasti giurisprudenziali che diano luogo ad incertezza applicativa della norma ad oggetto ovvero nel consolidamento di uno specifico orientamento giurisprudenziale, la cui caratteristica sarebbe da rintracciarsi nella contrarietà a quanto disposto dal legislatore, costretto, al fine di imporre la propria interpretazione, ad un intervento correttivo.
Si è assistito ad un iniziale orientamento in cui si era tentato di tracciare – seppure a grandi linee – i contorni della norma di interpretazione autentica, ricercandone gli elementi costituzionalmente necessari affinchè la norma potesse considerarsi legittima, per poi passare ad una seconda fase, nella quale il giudice delle leggi si è allontanato dalla questione della specifica natura da riconoscere alle leggi interpretative, quali norme effettivamente interpretative ovvero innovative criptoretroattive (in tal senso v., tra le altre, Corte cost. n. 234 del 2007), concentrandosi piuttosto sulla ricerca del loro presupposto giustificativo. In linea di principio, dunque, la Corte costituzionale evidenzia la potenzialità retroattiva delle leggi di interpretazione autentica – la cui legittimità è ammessa nell’ordinamento costituzionale nazionale, con l’unico limite dell’art. 25, comma secondo Cost. in materia penale – nella prospettiva, però, di preservazione dei principi di certezza del diritto e di legittimo affidamento dei cittadini (v. Corte cost. n. 166 del 2012), da considerarsi come principi di “civiltà giuridica”. Pertanto, l’intervento legislativo interpretativo sembra essere ammissibile allorchè – sebbene destinato ad incidere sulle posizioni giuridiche soggettive dei singoli – sia tale da garantire una compensazione ragionevole allo svantaggio arrecato. Ed è proprio sulla ragionevolezza della norma interpretativa che sembra fondarsi il nucleo del sindacato di legittimità costituzionale cui aspira il giudice delle leggi. Al fine di risultare costituzionalmente legittima, l’esegesi normativa, infatti, dovrebbe essere ragionevolmente giustificata da motivi imperativi di interesse generale (v. Corte cost. n. 191 del 2014 e n. 170 del 2013), di modo da bilanciare gli effetti retroattivi anche a danno dei diritti acquisiti dai soggetti interessati.
Il giudice è, dunque, chiamato a valutare l’astratta idoneità interpretativa della norma che si pone come tale, attraverso la disamina degli elementi esteriori (rubrica, titolo, autoqualificazione …) ovvero rintracciandone il fine giustificativo (ratio legis …), fino a spingersi ad analizzare il contesto storico in cui la disposizione è stata approvata (volontà storica del legislatore) ovvero giovandosi di altre norme di analogo tenore (interpretazione analogica) o, ancora, rileggere la disposizione alla luce dell’evoluzione del quadro giuridico complessivo (interpretazione evolutiva), di modo che l’intervento interpretativo risulti capace di ricondurre a razionalità e a logicità le norme.
Ed è quanto occorso nella specie, in quanto proprio facendo applicazione di siffatti principi, in particolare quello dell’interpretazione evolutiva, va ravvisata la volontà del legislatore nel senso di estendere la sospensione dell’efficacia della disciplina di riforma – dopo averla disposta espressamente quasi nell’immediatezza dell’entrata in vigore della medesima e fino al 31 marzo 2010 – con la previsione contenuta nel comma 3 dell’art. 9 del d.l. n. 244 del 2016, per cui il termine del suo vigore è stato posticipato al 31 dicembre 2016 (divenuto successivamente 31 dicembre 2017) anche quanto alle disposizioni di cui all’art. 29, comma 1-quater, proprio per ricondurre a coerenza il complessivo quadro delle proroghe finalizzato all’adozione e alla creazione di un sistema unitario e complessivo.
Sotto siffatto profilo il ricorso va, pertanto, accolto per avere il Tribunale di Milano fatto applicazione di una norma i cui effetti al momento della commissione dell’illecito amministrativo erano sospesi e quindi inefficaci anche le norme regionali derivate dalla disciplina statale.
Permane, allora, la questione posta dall’ordinanza interlocutoria con il secondo dubbio interpretativo: «Se, durante il periodo di sospensione dell’efficacia delle disposizioni recate dall’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2008 debbano ritenersi reviviscenti le disposizioni dettate dalla legge n. 21/1992 (artt. 3 e 11) nel testo precedente alle modifiche recate dal menzionato articolo 29 del decreto-legge n. 207/2008 o se, al contrario, tali disposizioni non possano ritenersi tornate in vigore durante la sospensione dell’efficacia dell’art. 29, comma 1-quater, d.l. n. 207/2008, in quanto abrogate e non reviviscenti, con conseguente deregolazione della materia dalle stesse disciplinata».
Come è noto, il fenomeno della reviviscenza indica la condizione di ripresa di vigore della situazione giuridica – ovvero del rapporto – oggetto della vicenda di temporanea e/o permanente stasi, condizione che si verifica per il sopraggiungere di una nuova situazione normativa per la quale le norme abrogatrici vengono a mancare. Per quanto qui di interesse – anche se si è in presenza della diversa fattispecie di sospensione della efficacia della riforma, che comunque da taluni è ritenuta abrogativa della originaria disciplina, cui va assimilata per eadem ratio – si sarebbe in presenza di ipotesi di abrogazione legislativa (nella specie, peraltro, solo temporanea), che si suole ricondurre al brocardo latino lex posterior derogat priori.
L’abrogazione costituisce effetto dell’entrata in vigore di una norma contrastante con un’altra di pari grado, effetto che spetta al giudice interpretare, prendendo in considerazione ai fini della valutazione la norma da applicare alla fattispecie concreta. La questione controversa è quella degli effetti, nel senso se si tratti di un fenomeno istantaneo e irreversibile ovvero se esso sia comunque ravvisabile in ipotesi di contrasto tra due discipline che pur si susseguono nel tempo.
Al riguardo si osserva che alcune relativamente recenti pronunce della Corte costituzionale rese in sede di giudizio di legittimità della legge hanno investito disposizioni abrogatrici e i loro effetti sono stati pacificamente intesi dalla stessa Corte costituzionale e dalla giurisprudenza ordinaria successiva come comportanti il ripristino delle norme illegittimamente abrogate (v. Corte cost. sent. n. 162 del 2012, sent. nn. 5, 32 e 94 del 2014). In passato un esito di questo tipo era stato considerato in termini altamente critici sia in dottrina sia in giurisprudenza, mentre oggi si tende a riconoscere che il sistema di garanzia di conformità delle leggi alla Costituzione non sarebbe completo se non prevedesse la possibilità di estendere il sindacato della Corte anche sulle norme abrogatrici e non potesse implicare l’annullamento dell’abrogazione, qualora essa fosse ritenuta illegittima.
Ci si deve chiedere se la reviviscenza a seguito di abrogazione della norma abrogatrice sia, al pari dell’abrogazione stessa, un istituto autonomo o se, al contrario, essa costituisca un esito interpretativo che si impone per logiche che sono intrinseche allo stesso istituto dell’abrogazione. Il problema non sembra essere stato finora analizzato in questi termini in modo diffuso. La più attenta dottrina ha sempre affermato che la questione della reviviscenza consiste, in ultima analisi, in un problema di interpretazione di diritto positivo, dimostrando in tal modo di propendere per la ricostruzione del fenomeno in chiave di esito interpretativo e non quale istituto giuridico dotato di propria autonomia. Il verificarsi della reviviscenza nei casi concreti si ritiene che debba essere sempre frutto di un’attività interpretativa, poiché uno dei pochi caratteri comuni a tutte le ipotesi di reviviscenza consiste proprio nell’assenza, da parte del legislatore o eventualmente dell’organo che procede al controllo di validità dell’atto normativo, di una dichiarazione di ripristino in forma espressa e vincolante erga omnes. Si tratta di una condizione inevitabile proprio in ragione della circostanza che il legislatore italiano si è sempre disinteressato di porre una disciplina di qualunque tipo sul fenomeno. Nell’affrontare la questione della reviviscenza, pertanto, si prenderanno le mosse dalla ricostruzione delle questioni comuni a tutte le ipotesi, che riguardano principalmente la definizione dell’abrogazione e la questione delle lacune eventualmente colmabili mediante ripristino di norme abrogate.
La chiave di lettura che viene scelta per affrontare il problema è quella di valutare l’impatto della reviviscenza in relazione alla certezza del diritto e alla sua crisi. La reviviscenza, infatti, tende in concreto ad evitare che nell’ordinamento si formino lacune, privando di una disciplina positiva una materia già oggetto di regolamentazione legislativa.
Come già affermato da questa Suprema Corte, soprattutto in materia di espropri, nel riconoscere la reviviscenza della precedente disciplina, il giudice deve compiere un’attività interpretativa che parte dalla necessaria premessa “a meno che il legislatore non abbia stabilito una nuova disciplina” (v. Cass. n. 5550 del 2009; Cass. n. 28431 del 2008; Cass., Sez. Un., n. 26275 del 2007), che mostra l’attenzione del giudice nell’applicare le norme dell’ordinamento, verificandone la operatività. Tali decisioni confermano l’indirizzo secondo cui la reviviscenza di norme abrogate opera in via di eccezione e non automaticamente, descrivendo una ordinaria attività interpretativa del giudice che individuato un vuoto, mira a colmarlo, e ciò indipendentemente dalle ragioni che hanno causato la lacuna normativa. La Corte di legittimità con siffatte pronunce non solo ha riconosciuto la teoria della reviviscenza, l’ha anche applicata nel caso concreto, facendo l’analisi della stratificazione normativa e individuando quella vigente ed applicabile al caso in esame.
Chiaramente la giurisprudenza richiamata non costituisce una teorizzazione generale della reviviscenza di norme abrogate, tuttavia apre le porte al fenomeno per consentire a siffatto meccanismo di colmare una totale carenza di disciplina normativa venutasi a creare a seguito di vicende diverse che possono colpire l’effetto abrogativo. E poiché nel nostro ordinamento non ci sono disposizioni di rango costituzionale o legislativo che prevedano espressamente quali siano le conseguenze sul piano normativo nelle ipotesi di abrogazione di una norma, le norme sull’ammissibilità e sulle condizioni di reviviscenza devono essere necessariamente desunte per via interpretativa.
Al riguardo soccorrono l’interprete le Disposizioni sulla legge in generale (le c.d. “Preleggi”), che all’art. 11 stabiliscono che la legge dispone soltanto «per l’avvenire», vietando gli effetti retroattivi; salvo l’ambito penale, in cui sussiste un divieto costituzionale di retroattività in peius della legge successiva (art. 25, comma 2, Cost.), in ogni altro settore dell’ordinamento tale disposizione legislativa è derogabile, ma soltanto tramite una previsione espressa di norma legislativa. Si tratta di una tutela minima che la legge non sia retroattiva, salvo espressa previsione. Naturalmente si pongono problemi di diritto intertemporale che possono essere risolti proprio con la reviviscenza.
L’altra disposizione che ci viene in soccorso è l’art. 15, che indica i casi in cui le leggi devono considerarsi abrogate, sì da realizzare lo scopo che il mutamento del diritto si realizzi unicamente con un atto di volontà novativa da parte del legislatore, sul presupposto della configurazione in modo logico dell’abrogazione quale fenomeno obiettivo e automatico. La prassi, tuttavia, pare disegnare una distanza da questa impostazione, dovuta soprattutto alla difficoltà di separare con nettezza il riconoscimento dell’abrogazione dall’attività interpretativa.
Venendo al nostro caso, peraltro frequente nella prassi, e sempre che si voglia fare rientrare nel concetto di abrogazione in senso ampio, ci troviamo di fronte ad una abrogazione per novellazione della disciplina (come definita da avveduta recente dottrina), tramite sostituzione o modifica del testo di una disposizione previgente. In queste ipotesi il legislatore può preferire adeguare un preesistente corpus di norme intervenendo su singole parti, senza predisporre un nuovo atto normativo integralmente sostitutivo dei precedenti, riformando – anche solo in parte – un singolo istituto o più istituti previsti senza emanare un nuovo testo iuris. L’entrata in vigore della disposizione modificatrice ha una duplice conseguenza: da un lato introduce una nuova disciplina, dall’altro nello stesso tempo può abrogare quella precedente.
Una disposizione che innova l’ordinamento mediante la modifica di testi normativi previgenti pone questioni peculiari in relazione alle ipotesi di reviviscenza: il venir meno di una simile disposizione, infatti, potrebbe essere inteso come il venire meno della modifica da essa disposta, ripristinando la disposizione modificata nella sua formulazione anteriore. E del resto l’art. 15 delle preleggi afferma che una delle modalità di abrogazione consiste nella «incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti».
Nell’abrogazione c.d. tacita il compito di individuare la disciplina abrogata grava di fatto e di diritto sull’interprete: se più disposizioni, poste dal legislatore in tempi diversi, regolano la stessa materia senza che quelle posteriori abbiano espressamente previsto l’abrogazione di quelle anteriori, l’eventuale contrasto fra le stesse dovrà essere risolto riconoscendo l’abrogazione delle norme espresse dalle disposizioni più antiche da parte di quelle desunte dalle più recenti, per cui l’attività interpretativa deve avere ad oggetto entrambe le discipline.
Si deve tenere presente, però, che la vigenza di una norma può cessare anche senza che ne intervenga l’abrogazione da parte di una successiva. È il caso di leggi che dispongano autonomamente il tempo per cui resteranno vigenti e che pertanto possiamo definire come leggi temporanee. Un’altra ipotesi è quella in cui sia sopravvenuta, per cause materiali o per volontà anche solo temporanea del legislatore, l’impossibilità di dare esecuzione a una norma o a una serie di norme. Quest’ultima ipotesi appare integrare la fattispecie in esame in ordine alla quale il legislatore del 2008/2009 aveva espresso la volontà di un regime più rigoroso per differenziare il servizio taxi da quello di NCC, ponendo a carico di quest’ultimo maggiori limitazioni sanzionate come illeciti amministrativi più dettagliati, senza però far venire meno la disciplina di settore. Trovandoci di fronte a siffatta tecnica di normazione, poiché il legislatore non ha nel tempo completato l’intento dichiarato con il D.L. n. 207/2008 di predisporre una riforma unitaria per assicurare omogeneità di applicazione della disciplina dei trasporti non di linea in ambito nazionale, differendo per ben dodici volte il termine per l’emanazione del decreto interministeriale (decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281), previsto dall’articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, ciò costituisce prova che con il rinvio e la relativa sospensione – onde evitare di incorrere in un vuoto normativo in un settore particolarmente sensibile quale quello del trasporto su territorio nazionale, che proprio con la riforma vuole garantire la composizione di interessi di utilità sociale con quelli della libera attività economica privata, contrastando il fenomeno dell’abusivismo – non abbia voluto abrogare la disciplina previgente, che peraltro non appare abrogata ma al più rafforzata dalla previsione di nuovi illeciti amministrativi che si aggiungono a quelli di cui alla legge n. 21 del 15 gennaio 1992 nella originaria formulazione, oramai considerata non più al passo con l’evoluzione del mercato.
Su questo approccio di ricostruzione del fenomeno si fonda l’effetto ripristinatorio o meglio di permanenza della precedente disciplina, che si basa sull’analisi oggettiva delle vicende della norma abrogatrice in relazione alla norma previgente.
In conclusione, vanno affermati i seguenti principi di diritto: «Il legislatore, con la disposizione di interpretazione autentica, di cui al comma 3 dell’art. 9 del d.l. n. 244 del 2016, ha sospeso l’efficacia delle fattispecie introdotte con l’art. 29, comma 1-quater d.l. n. 2007/2008, inserito dalla legge di conversione n. 14/2009, posticipandola al 31 dicembre 2016 (divenuto successivamente 31 dicembre 2017).
Le fattispecie introdotte con il predetto art. 29, comma 1-quater cit. non abrogano le previgenti ipotesi di cui agli artt. 3 e 11 legge quadro n. 21 del 1992 (art. 3. Servizio di noleggio con conducente 1. Il servizio di noleggio con conducente si rivolge all’utenza specifica che avanza, presso la sede del vettore, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. Lo stazionamento dei mezzi avviene all’interno delle rimesse o presso i pontili di attracco.
Art. 11. Obblighi dei titolari di licenza per l’esercizio del servizio di taxi e di autorizzazione per l’esercizio del servizio di noleggio con conducente 1. I veicoli o natanti adibiti al servizio di taxi possono circolare e sostare liberamente secondo quanto stabilito dai regolamenti comunali. 2. Il prelevamento dell’utente ovvero l’inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza per qualunque destinazione, previo assenso del conducente per le destinazioni oltre il limite comunale o comprensoriale, fatto salvo quanto disposto dal comma 5 dell’articolo 4. 3. Nel servizio di noleggio con conducente, esercìto a mezzo di autovetture, è vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico nei comuni ove sia esercito il servizio di taxi. E’ tuttavia consentito l’uso delle corsie preferenziali e delle altre facilitazioni alla circolazione previste per i taxi e altri servizi pubblici. 4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso le rispettive rimesse. 5. I comuni in cui non è esercìto il servizio di taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. 6. I comuni, ferme restando le attribuzioni delle autorità competenti in materia di circolazione negli ambiti portuali, aeroportuali e ferroviari, ed in accordo con le organizzazioni sindacali di categoria dei comparti del trasporto di persone, possono, nei suddetti ambiti, derogare a quanto previsto dal comma 3, purchè la sosta avvenga in aree diverse da quelle destinate al servizio di taxi e comunque da esse chiaramente distinte, delimitate e individuate come rimessa. 7. Il servizio di taxi, ove esercito, ha comunque la precedenza nei varchi prospicienti il transito dei passeggeri), che vengono pertanto solo integrate dalla successiva previsione e comunque sono da ritenere vigenti al momento della commissione della violazione contestata».
Alla luce di quanto sopra affermato, la decisione di accoglimento dell’appello si pone, dunque, in contrasto con tali principi, sicché il ricorso va accolto; ne discende l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio del procedimento al Tribunale di Milano, in persona di diverso magistrato, affinché riesamini la vicenda alla luce dei principi sopra affermati e accerti se la condotta contestata integri o meno l’illecito amministrativo ai sensi e per gli effetti degli artt. 3 e 11 previsti dalla legge n. 21 del 1992 nella versione antecedente alla riforma di cui al d.l. n. 207 del 2008.
Al giudice del rinvio è rimessa anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 385 c.p.c.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso;
cassa la decisione impugnata e rinvia al Tribunale di Milano, in persona di diverso magistrato, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio delle Sezioni
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 01 marzo 2022, n. 6781, per SS.UU, 20 giugno 2023, n. 17541, in tema di trasporto di persone
SS.UU, 20 giugno 2023, n. 17541, in tema di trasporto di persone
In tema di presupposizione – SS.UU, 20 aprile 2018, n. 9909
Civile Sent. Sez. U Num. 9909 Anno 2018
Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: D’ASCOLA PASQUALE
Data pubblicazione: 20/04/2018
SENTENZA
sul ricorso 428-2015 proposto da:
COMUNE DI FRASSINORO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI 39, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA GIUFFRE’, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati FAUSTA BRIGHENTI e CONCETTA DONATACCI CIRELLI;
– ricorrente –
contro
ACQUEDOTTO DRAGONE IMPIANTI S.R.L. (già ACQUEDOTTO DRAGONE IMPIANTI S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE PARIOLI 180, presso lo studio dell’avvocato MARIO SANINO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NICOLA AICARDI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 185/2013 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE PUBBLICHE, depositata il 19/11/2013.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
23/05/2017 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. TOMMASO BASILE, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli Avvocati Fausta Brighenti, Concetta Donatacci Cirelli e Nicola Aicardi.
Fatti di causa
Si apprende dagli atti di causa che nel 1959 il comune di Frassinoro aveva pattuito con il Consorzio Intercomunale dell’ Acquedotto Dragone che non si sarebbe opposto alla captazione e utilizzo delle acque dalle fonti site nel Comune, in cambio dell’erogazione di sei litri di acqua al secondo, di cui 4 a pagamento e due gratuitamente.
L’accordo era stato attuato pacificamente fino al 30 giugno 2000.
Dal 1 luglio 2000 il Comune aveva affidato l’acquedotto alla Meta spa e la società Acquedotto Dragone Impianti srl (in cui il Consorzio si era trasformato) aveva sospeso l’erogazione gratuita dei due litri d’acqua al secondo e preteso il pagamento di tutta la fornitura, per impossibilità sopravvenuta della prestazione, causata dalla circostanza che il comune non gestiva più direttamente il servizio di acquedotto.
Nel 2009 il Comune ha agito contro la società davanti al TRAP Toscana chiedendo la risoluzione del contratto e la condanna alla restituzione della somma equivalente alla mancata erogazione gratuita dell’acqua (232mila euro circa).
Il Tribunale Regionale ha accolto la domanda con sentenza del 30 settembre 2011.
Il Tribunale Superiore ha capovolto la decisione e con sentenza 19 novembre 2013 ha rigettato tutte le domande proposte dal Comune.
Il comune di Frassinoro ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, resistiti da controricorso di Acquedotto Dragone Impianti srl.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
2) Nella memoria depositata in vista dell’udienza, parte ricorrente ha eccepito l’inammissibilità del controricorso “per vizio riguardante la procura ad litem”. Ha osservato che nel mandato rilasciato da parte ricorrente era stata menzionata una delibera – datata 14 giugno 2012 – con cui era stato conferito “all’organo della società controricorrente lo specifico potere di rappresentarla nel presente giudizio”, procura che avrebbe dovuto essere “prodotta da controparte al momento di costituirsi”.
Il rilievo è infondato, perché si basa su un’errata lettura del mandato rilasciato a margine del ricorso.
La delibera assembleare del giugno 2012 non poteva riferirsi infatti alla impugnazione della sentenza del TSAP, che è stata resa nel 2013, oltre un anno dopo. La lettura più piana del testo fa comprendere che il mandato si riferiva alla delibera con cui l’amministratore Unico e legale rappresentante pro tempore era stato investito della suddetta funzione, subito prima menzionata per indicare la qualità in forza della quale veniva rilasciato il mandato. Detta qualità abilitava a tale atto, in mancanza di specifica contestazione di essa (SU 20596/07).
3) Sempre in via preliminare va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività. Secondo la resistente, il termine lungo per proporre il ricorso per cassazione sarebbe stato di sei mesi – e non di un anno – perché la causa sarebbe iniziata dopo l’entrata in vigore della legge 69/2009 (4 luglio 2009), che ha novellato in tal senso l’art. 327 c.p.c..
Il rilievo è infondato perché, come controdedotto da parte ricorrente, la data di inizio della causa davanti al Tribunale Regionale di Firenze non è quella di deposito del ricorso in cancelleria (14 ottobre 2009), ma quella di notifica del ricorso stesso alla controparte, che è l’8 giugno 2009, come si legge in esordio della sentenza di primo grado.
4) La sentenza qui impugnata ha premesso che l’accordo tra il Comune e la resistente era nato dalla non opposizione del Comune nel procedimento di concessione delle acque pubbliche, concessione che doveva essere rilasciata da altro soggetto, e dall’interesse dell’ente ad assicurarsi la fornitura di acqua per la somministrazione del servizio. Ha affermato (pag. 16) che presupposto dell’obbligazione di fornitura di acqua da parte della società convenuta fosse l’utilizzo dell’acqua da parte del Comune per erogare il servizio di acquedotto alla propria collettività.
Ha ritenuto che, come dedotto dalla società, l’intervenuta riorganizzazione del servizio con affidamento della gestione dell’acquedotto alla società pluricomunale META spa di Modena, implicando la perdita del ruolo di gestore, aveva determinato l’esaurimento dell’impegno e un’oggettiva impossibilità di effettuare la prestazione gratuita.
Il comune avrebbe perso sia il ruolo di gestore sia la disponibilità degli impianti funzionali; inoltre esso non avrebbe neppure spiegato dove e come l’acqua avrebbe potuto essere consegnata.
Il TSAP ha affermato che l’esecuzione dell’obbligazione assunta con l’accordo sarebbe possibile solo in favore di un “soggetto che sia gestore di un acquedotto”; che negli accordi con Meta non v’è traccia delle pattuizioni del 1959 e neppure la si ritrova, tra il 2000 e il 2007, nelle pattuizioni tra Consorzio e Meta.
Ha aggiunto che il Comune non avrebbe subìto perdita economica perché, non essendo più gestore, non avrebbe potuto più vendere ai cittadini l’acqua fornitagli gratuitamente dalla società.
Né rileverebbe l’originaria pattuizione, in forza della quale il Comune aveva dato il proprio assenso alla captazione, in quanto all’epoca il Comune si sarebbe soltanto non opposto alla captazione senza assumere la veste di concedente, cosicchè non vi sarebbe violazione del sinallagma su cui si basava la obbligazione della spa Dragone, in quanto non sarebbe il “consenso” del Comune la fonte del diritto della società di “prelevare le acque”.
5) Il primo motivo di ricorso del comune di Frassinoro lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c.. Espone che, in contrasto con criterio ermeneutico dell’interpretazione letterale del
contratto, la sentenza impugnata ha ritenuto che «presupposto indefettibile per il prodursi e il permanere degli effetti» della convenzione del 1959 fosse la «gestione diretta da parte del comune di Frassinoro del proprio servizio di acquedotto». Ha rilevato come tale previsione contrattuale non era in alcun modo contemplata nel testo della delibera 5/1959 di Acquedotto Dragone, riportata in ricorso, con la quale era stato stabilito di stipulare con l’ente locale un accordo “inteso a consentire l’utilizzazione delle acque sorgive»; né, aggiunge il ricorso, se ne trova traccia nella delibera del Comune n.68/1959, pure riportata, delibera che aveva riscontrato quella (n.5/1959) dell’Assemblea del Consorzio.
La censura è fondata.
La sentenza impugnata (pag. 15) e ancor più chiaramente lo stesso controricorso (pag. 11) danno atto della circostanza che finalità alla base dell’accordo era che il Comune si assicurasse una fornitura d’acqua sufficiente a soddisfare i bisogni di acqua potabile della “collettività comunale”.
Sviluppo imprevisto di questa considerazione è stato, in sentenza, l’affermazione che il servizio di acquedotto per acqua potabile ai cittadini debba essere gestito direttamente dal Comune. In tal modo è stata introdotta interpretativamente nel contratto, contro il canone letterale, la presupposizione che il Comune dovesse assumere e mantenere indispensabilmente in modo diretto il «ruolo di gestore del servizio» (sentenza pag. 17 e 18) ed che fosse illegittimo il conferimento in uso alla società Meta spa (adesso Hera), mediante concessione degli impianti utilizzati, della gestione del servizio acquedottistico.
Una siffatta costrittiva condizione non risulta però contrattualmente pattuita, cosicchè introdurla sotto le spoglie della presupposizione contrasta con i canoni ermeneutici e anche, ineludibilmente, con le premesse che la sentenza stessa aveva posto.
E’ noto che si rinviene la presupposizione allorquando (cfr la sintesi che svolge in motivazione Cass.12235/07) «una determinata situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso – pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali – come presupposto condizionante il negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), richiedendosi pertanto a tal fine: 1) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti; 2) che l’evento supposto sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti (e in ciò la presupposizione differisce dalla condizione); 3) che si tratti di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione (Cass. 31.10.1989, n. 4554; tra le più recenti, Cass. 21.11.2001 n. 14629).
Sicché la “presupposizione è … configurabile quando dal contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo soltanto subordinatamente all’esistenza di una data situazione di fatto che assurga a presupposto comune e determinante della volontà negoziale, la mancanza del quale comporta la caducazione del contratto stesso, ancorché a tale situazione, comune ad entrambi i contraenti, non si sia fatto espresso riferimento” (Cass. 9.11.1994, n. 9304)».
Si ha insomma presupposizione , per tornare a una lontana massima (Cass n. 1064 del 1985), quando una determinata situazione di fatto comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere obiettivo, essendo il suo verificarsi indipendente dalla loro volontà e attività, sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto comune in modo da assurgere a fondamento – pur in mancanza di un espresso riferimento – dell’esistenza ed efficacia del contratto.
Se tale è la nozione, alla luce delle pattuizioni cui le parti hanno dato vita sembra chiaro che non la gestione diretta del servizio acquedottistico da parte del Comune fosse il presupposto indefettibile dell’intesa, ma, per quanto si legge in sentenza e nelle deduzioni delle parti, la destinazione dell’acqua fornita dal Consorzio (ora spa resistente) ai bisogni della collettività residente nel Comune.
E’ dunque fondata la doglianza dell’ente locale.
6) La fondatezza del primo motivo comporta l’accoglimento anche degli altri motivi del ricorso.
Il secondo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1256 e 1463.
Il terzo denuncia violazione di questi articoli del codice civile e degli articoli 1218 e 2697 c.c.
Le censure hanno di mira la conseguenza che la sentenza impugnata ha tratto dall’aver considerato la gestione diretta degli impianti alla stregua di fondamento contrattuale: l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore.
Ora, tralasciando, poiché non è richiesto dal ricorso in esame, l’approfondimento giurisprudenziale circa il rimedio al venir meno del presupposto, rimedio talora individuato nel recesso, altre volte nella risoluzione generica o per impossibilità della prestazione (come ritenuto dal TSAP) o per fatto non imputabile alle parti, etc, va detto che il ricorso è fondato laddove evidenzia che in, mancanza della presupposizione censurata, non v’è luogo per dichiarare la risoluzione del contratto. La sentenza impugnata ha infatti tratto partito per l’applicazione dell’art. 1256 da un presupposto non contemplato in contratto e non desumibile secondo i canoni ermeneutici ordinari.
Ne consegue che la norma è stata applicata senza specifico fondamento.
Ed errato è, per conseguenza, il rimprovero all’ente locale di non aver provato in che modo l’Acquedotto Dragone avrebbe potuto continuare ad adempiere l’obbligazione di consegnare l’acqua. Questo onere probatorio sarebbe stato addebitabile al convenuto in presenza di un’omessa richiesta fornitura da parte del concessionario del Comune o di un rifiuto del concessionario Meta di ricevere l’acqua, o di una comprovata omessa destinazione della fornitura ai bisogni della collettività comunale (indiscussa finalità dell’intesa), ma non ha immancabile nesso con l’esercizio diretto degli impianti acquedottistici da parte del Comune.
Non a caso il motivo si conclude invocando il principio di buona fede quale presidio dell’esecuzione del contratto e lamenta in proposito che parte resistente abbia nelle more continuato a captare l’acqua e ad addurla; trattasi di rilievo che permea inevitabilmente tutta la controversia, in quanto la stessa nozione di presupposizione è innervata da esso, ditalchè la fallacia della sua applicazione, da riconsiderare anche in vista di questo principio, provoca la caducazione della costruzione giuridica che ne è scaturita in sentenza.
Il giudice di rinvio in sede di riesame dovrà quindi verificare quale sia la sorte del rapporto, in relazione alle domande delle parti, alla luce di una corretta interpretazione dell’intesa e di quanto eventualmente in essa presupposto e del configurarsi del rapporto in seguito alla concessione alla Nera della gestione degli impianti.
Discende da quanto esposto l’accoglimento del ricorso.
La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa al Tribunale Superiore delle Acque, in diversa composizione, per il riesame dell’impugnazione alla luce dei principi affermati in ordine all’interpretazione del l’accordo negoziale, nonché per la liquidazione delle spese di questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale Superiore delle Acque, in diversa composizione, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite civili tenuta il 23 maggio 2017
Allegati:
SS.UU, 20 aprile 2018, n. 9909, in tema di presupposizione
In tema di licenziamento – SS.UU, 22 maggio 2018, n. 12568
Civile Sent. Sez. U Num. 12568 Anno 2018
Presidente: CAPPABIANCA AURELIO
Relatore: MANNA ANTONIO
Data pubblicazione: 22/05/2018
SENTENZA
sul ricorso 26171-2015 proposto da:
ANGIUS ANTONIO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE AVENTINO 98, presso lo studio dell’avvocato PAOLO LA BARBERA, rappresentato e difeso dall’avvocato ROBERTA MELAS;
– ricorrente –
BANCO DI SARDEGNA S.P.A., in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PAOLA FALCONIERI 100, presso lo studio dell’avvocato PAOLA FIECCHI, rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE MACCIOTTA;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 385/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 04/11/2014.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/03/2018 dal Presidente ANTONIO MANNA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale RENATO FINOCCHI GHERSI, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, inammissibilità o in subordine rigetto del ricorso incidentale;
uditi gli avvocati Roberto Luca Lo Buono Tajani per delega orale dell’avvocato Roberta Melas e Paola Fiecchi per delega dell’avvocato Giuseppe Macciotta.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza pubblicata il 27.10.15 la Corte d’appello di Cagliari rigettava il gravame di Antonio Angius contro la sentenza del 5.10.12 con cui il Tribunale della stessa sede aveva respinto la sua impugnativa del licenziamento intimatogli con lettera dell’8.7.04 dal Banco di Sardegna S.p.A. per superamento del periodo di comporto e dichiarava assorbito l’appello incidentale della società.
2. Statuivano i giudici di merito che, sebbene il periodo di comporto in realtà non risultasse esaurito alla data di intimazione del licenziamento, nondimeno il recesso fosse da considerarsi non già invalido, bensì meramente inefficace fino all’ultimo giorno di malattia, vale a dire fino al 27.7.04, data in cui il periodo massimo di comporto risultava ormai scaduto.
3. Aggiungevano a tal fine che era irrilevante che il lavoratore si fosse presentato in azienda per riprendere servizio nei giorni 14, 15 e 16 luglio 2004, non essendo in possesso d’un certificato medico che ne attestasse la guarigione.
4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Antonio Angius affidandosi a tre motivi, mentre Banco di Sardegna S.p.A. ha resistito con controricorso ed ha spiegato ricorso incidentale basato su un unico motivo.
5. Entrambe le parti hanno poi depositato memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
6. Con ordinanza interlocutoria n. 24766/17 la sezione lavoro di questa S.C. ha rilevato l’esistenza di due non coerenti indirizzi giurisprudenziali: l’uno afferma la mera inefficacia del licenziamento irrogato in costanza di malattia, efficacia posticipata alla cessazione dello stato patologico, l’altro asserisce la nullità del licenziamento irrogato prima che risulti esaurito il periodo di comporto.
7. Pertanto, con la predetta ordinanza interlocutoria i ricorsi sono stati rimessi al Primo Presidente, il quale li ha poi assegnati alle sezioni unite.
6. Le parti hanno depositato nuove memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione dell’art. 2110 cod. civ., censurandosi la decisione di appello per avere ritenuto che il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto e prima della scadenza dello stesso fosse inefficace anziché nullo; si afferma la necessità della sussistenza della situazione giustificativa del recesso datoriale già al momento dell’intimazione del licenziamento, come statuito da varie pronunce di legittimità.
1.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ. e nullità della sentenza perché sorretta da, una motivazione solo apparente, non avendo la Corte di merito chiarito le ragioni della ritenuta preferibilità, rispetto alla tesi della nullità, di quella della mera inefficacia del licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto.
1.3. Il terzo motivo deduce violazione degli artt. 2110 cod. civ. e 49 c.c.n.l. settore credito del 1999 e omesso esame circa un fatto decisivo, rappresentato dal criterio di calcolo utilizzato ai fini del computo del periodo di comporto; in proposito si censura la sentenza impugnata nella parte in cui, pur convenendo con il fatto che i giorni di malattia da considerare nell’arco dei quarantotto mesi, corrispondenti al periodo di comporto, erano settecentotrenta, aveva ritenuto legittimo il licenziamento senza considerare che, ai sensi dell’art. 2110 cod. civ., solo il superamento di detto periodo rendeva legittimo il recesso datoriale; quanto all’omesso esame, esso riguardava l’atto di recesso, la sua interpretazione e la mancata esplicitazione delle ragioni per le quali il riferimento ai settecentotrenta giorni di assenza sarebbe risultato decisivo per ritenere legittimo il licenziamento.
2.1. Con unico motivo il ricorso incidentale deduce violazione dell’art. 2110 cod. civ. e dell’art. 49 c.c.n.l. 9.7.99, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto applicabile il calcolo del comporto secondo il calendario comune anziché in base ad una durata mensile convenzionale di trenta giorni, nonostante che la prassi seguita e il costante orientamento giurisprudenziale in materia militassero nel senso indicato dalla società.
3.1. Il primo motivo del ricorso principale è fondato.
Si, premetta che, secondo ormai consolidato indirizzo interpretativo di questa S.C. (cfr., ex aliis, v. Cass. n. 24525/14; Cass. n. 12031/99; Cass. n. 9869/91), ai sensi dell’art. 2110 cod. civ. illicenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di licenziamento, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. 2119 cod. civ. e agli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966.
D’altronde, il mero protrarsi di assenze oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva – o, in difetto, dagli usi o secondo equità – di per sé non costituisce inadempimento alcuno
(trattandosi di assenze pur sempre giustificate); né per dare luogo a licenziamento si richiede un’accertata incompatibilità fra tali prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo
dell’impresa, ben potendosi intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto pur ove, in concreto, il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali.
In altre parole, nell’art. 2110, comma 2, cod. civ. si rinviene un’astratta predeterminazione (legislativo-contrattuale) del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia od infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale.
Si noti che l’assunto secondo cui quella in esame è un’autonoma fattispecie di licenziamento non è smentito dalla giurisprudenza (v. Cass. n. 284/17; Cass. n. 8707/16; Cass. n. 23920/2010; Cass. n. 23312/2010; Cass. n. 11092/2005) che ritiene tale recesso assimilabile ad uno per giustificato motivo oggettivo anziché per motivi disciplinari: si tratta d’una mera <<assimilazione» (e non <<identificazione») affermata al solo fine di escludere la necessità d’una previa completa contestazione (indispensabile, invece, in tema di responsabilità disciplinare), da parte datoriale, delle circostanze di fatto (le assenze per malattia) relative alla causale e di cui il lavoratore ha conoscenza personale e diretta (fermo restando – ovviamente – l’onere del datore di lavoro di allegare e provare l’avvenuto superamento del periodo di non recedibilità).
3.2. La questione per cui sono state investite queste Sezioni Unite – che risiede nell’alternativa tra il considerare il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia del lavoratore, ma prima del superamento del periodo di comporto, soltanto inefficace fino a tale momento o, invece, il ritenerlo ab origine nullo per violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. – va sgomberata da possibili equivoci.
Invero, i precedenti di Cass. n. 1657/93 e Cass. n. 9037/01, nell’affermare che il licenziamento intimato in ragione del protrarsi delle assenze per malattia del lavoratore, ma prima che si sia esaurito il periodo di conservazione del posto di lavoro (previsto dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, dagli usi o stabilito secondo equità), è meramente inefficace fino a quando tale periodo non si consumi, rinviano puramente e semplicemente a Cass. n. 1151/88 e a Cass. n. 9032/2000, che tuttavia, a ben vedere, muovono da presupposti diversi.
Infatti, Cass. n. 1151/88 statuisce che prima che scada il comporto non è consentito licenziare il lavoratore per perdurante morbilità, a meno che non ricorra l’ipotesi – eccezionale e diversa dal quella oggi in esame – di malattia irreversibile e inemendabile tale da rendere certo che il dipendente non sarà più in grado di riprendere la propria normale attività lavorativa. È chiaro che in siffatta evenienza il licenziamento non deriva più dal protrarsi delle assenze per malattia, ma da una differente situazione che a sua volta prescinde anche da eventuali assenze del lavoratore e dalla loro durata, ossia scaturisce dall’impossibilità di proseguire il rapporto per sopravvenuta inidoneità fisica del dipendente (accertabile ai sensi dell’art. 5, comma 2, legge n. 300 del 1970): quest’ultima è una fattispecie ben distinta (come questa S.C. ha evidenziato fin da Cass. n. 140/83 e, in tempi meno remoti, con Cass. n. 1404/12) da quella per cui oggi è processo.
Neppure il richiamo alla citata Cass. n. 9032/2000 è conferente, poiché tale sentenza si occupa della mera questione interpretativa – e del relativo onere probatorio – della condotta datoriale che si sia risolta nell’intimare il licenziamento pur sempre dopo la scadenza del periodo di comporto.
In realtà, le sentenze di questa S.C. che hanno statuito il differimento dell’efficacia del licenziamento sino allo scadere del periodo di comporto l’hanno fatto in relazione a licenziamenti alla cui base vi era già un motivo di recesso diverso e autonomo dal mero protrarsi della malattia, vale a dire a licenziamenti intimati o per giustificato motivo oggettivo (Cass. n. 23063/13 e Cass. n. 4394/88), o per giustificato motivo oggettivo derivante da sopravvenuta inidoneità a determinate mansioni (Cass. n. 239/05), o per riduzione di personale (Cass. n. 7098/90), o per giusta causa (Cass. n. 11087/05), o per giustificato motivo oggettivo rispetto al quale era, poi, sopraggiunta una giusta causa di recesso considerata come idonea di per sé p risolvere immediatamente il rapporto, ancpr prima che cessasse lo stato di malattia (Cass. n. 64/17), o per licenziamento ad nutum (Cass. n. 133/89).
In tutte tali evenienze, dunque, il perdurante stato di malattia funge non già da motivo di recesso, ma da elemento ad esso estrinseco e idoneo soltanto a differire l’efficacia del licenziamento, mentre nella vicenda di cui oggi si controverte tale situazione integra di per sé l’unica ragione del licenziamento medesimo.
Pertanto, in tale giurisprudenza il richiamo al differimento dell’efficacia del recesso datoriale sino alla cessazione della malattia o fino all’esaurirsi del periodo di comporto vale solo a ribadire la nota regola in virtù della quale la quiescenza del rapporto (conseguente all’assenza per malattia od infortunio) impedisce l’immediato prodursi dell’effetto risolutivo: si tratta di asserto ininfluente ai fini della questione in oggetto.
In breve, le uniche sentenze (Cass. n. 9037/01 e Cass. n. 1657/93) che hanno espressamente affermato che il licenziamento intimato solo per perdurante morbilità e prima dello scadere del periodo di comporto sia valido, ancorché meramente inefficace fino alla scadenza medesima, si sono basate su precedenti giurisprudenziali che – in realtà – statuivano altro.
3.3. L’opzione interpretativa secondo cui sarebbe già validamente disposto il licenziamento per il protrarsi delle assenze per malattia del lavoratore, con l’unico limite del mero differimento dell’efficacia del recesso fino a quando non si sia consumato il periodo massimo di comporto, contrasta con la sentenza n. 2072/80 di queste Sezioni Unite e con la successiva conforme giurisprudenza – cui deve darsi continuità anche nella presente sede – ed è altresì impraticabile in termini di coerenza, dogmatica all’interno della teoria generale del negozio giuridico.
La citata sentenza n. 2072/80 delle Sezioni Unite già da lungo tempo ha statuito che ai sensi dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. (riferito tanto al comporto c.d. secco quanto a quello c.d. per sommatoria) il datore di lavoro può recedere dal rapporto solo dopo la scadenza del periodo all’uopo fissato dalla contrattazione collettiva (ovvero, in difetto, determinato secondo usi o equità) ed ha espressamente escluso che reiterate assenze per malattia del dipendente integrino un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ai sensi dell’art. 3 legge n. 604 del 1966.
Ammettere come valido (sebbene momentaneamente inefficace) il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto significherebbe consentire un licenziamento che, all’atto della sua intimazione, è ancora sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo e non è sussumibile in altra autonoma fattispecie legittimante.
Si tratterebbe, quindi, d’un licenziamento sostanzialmente acausale (nell’accezione giuslavoristica del termine) disposto al di fuori delle ipotesi residue previste dall’ordinamento (lavoratori in prova, dipendenti domestici, dirigenti, lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia).
Sarebbe – questo – un modo per aggirare l’interpretazione (accolta dalla costante giurisprudenza di questa S.C.) dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. e di ignorarne la ratio, che è quella di garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia od infortunio senza per ciò solo perdere l’occupazione.
Né si dica che il fatto giustificativo debba essere valutato non in concreto, bensì in astratto ed ex ante, secondo la prospettiva del datore di lavoro al momento di intimazione del licenziamento, fermo restando che il fatto medesimo dovrà poi essere accertato in sede giudiziaria: ove pure il datore di lavoro fosse convinto, nel momento in cui ha comunicato il licenziamento, dell’avvenuta consumazione del periodo di comporto, non per questo il licenziamento potrebbe considerarsi meramente inefficace sol in base all’erroneo calcolo effettuato dal dichiarante.
Infatti, mentre l’oggetto dell’accertamento giurisdizionale va calibrato in ragione del motivo di licenziamento enunciato, l’individuazione dell’eventuale sanzione applicabile (nullità, inefficacia, annullamento etc.) va pur sempre parametrata al fatto come in concreto emerso all’esito del giudizio, a prescindere dall’originaria prospettiva di parte datoriale.
Ad esempio, un licenziamento nullo (v. art. 18, comma 1, legge n. 300 del 1970, nel testo novellato ex lege n. 92 del 2012) perché discriminatorio o viziato da motivo illecito e determinante non si sottrarrà alla sanzione della nullità sol perché nella lettera di licenziamento sia stata enunciata un’inesistente infrazione disciplinare astrattamente integrante giusta causa di recesso.
Neppure può distinguersi fra il caso in cui il datore di lavoro abbia erroneamente calcolato le assenze e/o i termini interno ed esterno del comporto e quello in cui egli, pur consapevole del mancato esaurirsi del comporto medesimo, nondimeno abbia ritenuto di poter licenziare il dipendente per il solo fatto d’una eccessiva morbilità: in entrambe le evenienze il licenziamento risulterà difforme dal modello legale delineato dall’art. 2110, comma 2, cod. civ. (come interpretato da costante giurisprudenza di questa S.C.).
L’opzione ermeneutica della mera inefficacia non può suffragarsi neppure adducendo che, ad ogni modo, la fattispecie legittimante il recesso (vale a dire il, superamento del periodo di comporto) si
potrebbe realizzare successivamente: a ciò è agevole obiettare che i requisiti di validità del negozio vanno valutati al momento in cui viene posto in essere (sulla necessità che i requisiti di validità del licenziamento sussistano al momento in cui esso si perfeziona v. Cass. n. 7596/03) e non già al momento della produzione degli effetti (salvo il caso, che qui non ricorre, disciplinato dall’art. 1347 cod. civ.).
Intuitive esigenze di coerenza dogmatica all’interno della teoria generale del negozio giuridico sconsigliano forzature.
3.4. Per completezza espositiva deve infine segnalarsi che, nel caso di specie, neppure la tesi della mera inefficacia del licenziamento intimato prima dello spirare del termine di comporto consentirebbe il rigetto della domanda di reintegra, atteso che dalla sentenza impugnata emerge che il termine massimo di comporto sarebbe spirato (secondo i calcoli effettuati dai giudici di merito) il 27 luglio 2004, mentre già nei giorni 14, 15 e 16 luglio 2004 il ricorrente si era presentato in azienda per riprendere servizio, non riuscendovi sol perché la società aveva rifiutato la sua prestazione pretendendo che presentasse un certificato di avvenuta guarigione.
A tale ultimo proposito va puntualizzato che – contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata – per poter riprendere il lavoro il prestatore non ha l’onere di munirsi di un tale certificato, non esistendo nel settore creditizio alcuna norma di legge in tal senso.
Né un onere del genere potrebbe ricavarsi dall’art. 41, comma 2, lett. e-ter), d.lgs. n. 81 del 2008, come modificato dalla legge n. 106 del 2009, che si limita a prevedere che la sorveglianza sanitaria sia effettuata dal medico competente (di cui al precedente art. 38), anche mediante visita sanitaria precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute protrattasi per più di sessanta giorni continuativi, visita finalizzata a verificare l’idoneità alle mansioni: si tratta di controllo che la legge non configura come condicio iuris della ripresa dell’attività lavorativa e che, per di più, va attivato ad iniziativa datoriale e non del lavoratore.
Infatti, non solo il «medico competente», come definito dall’art. 2, comma 1, lett. h), cit. d.lgs. n. 81 del 2008, è nominato dallo stesso datore di lavoro, con il quale collabora, ma il comma 4 del cit. art. 41 stabilisce che le visite mediche di cui al comma 2 sono «a cura e spese del datore di lavoro», al punto che la loro omissione può anche costituire grave inadempimento del datore di lavoro che, se del caso, legittima l’eccezione di inadempimento del lavoratore ex art. 1460 cod. civ. (come questa S.C. ha già avuto modo di pronunciarsi con sentenza n. 24459/16).
3.5. Deve altresì escludersi che il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla sua scadenza, sia meramente ingiustificato, tale dovendosi – invece – considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d’un giustificato motivo o d’una giusta causa che risulti, poi, smentita (in punto di fatto e/o di diritto) all’esito della verifica giudiziale.
Al contrario, come premesso nel paragrafo che precede sub 3.1., il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. art. 2119 cod. civ. e agli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966.
Prova ne sia che la giurisprudenza di questa S.C., disattendendo un contrario e minoritario indirizzo dottrinale, ha sempre statuito – e da lungo tempo – che l’avvenuto decorso del termine di comporto abilita senz’altro il datore di lavoro a recedere per tale solo fatto, vale a dire senza che siano necessarie la sussistenza e l’allegazione di ulteriori elementi integranti un giustificato motivo a norma dell’art. 3 legge n. 604 del 1966 (cfr. Cass. n. 9869/91; Cass. n. 382/88; Cass. n. 2090/81; Cass. n. 1277/80; Cass. n. 2971/79; Cass. n. 2491/79).
Né per definire come meramente ingiustificato il licenziamento intimato prima dello spirare del termine massimo di comporto si dica che, esclusa tale ipotesi, quel che residua è un licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo e, come tale, ingiustificato: si tratta d’un mero artificio dialettico che trascura il dato di fatto che il licenziamento è stato pur sempre intimato per il protrarsi delle assenze del lavoratore sul presupposto giuridicamente erroneo (perché contrastante con l’art. 2110, comma 2, cod. civ.) che ciò sia consentito ancora prima dello spirare del termine massimo di comporto.
Diversamente opinando, qualunque licenziamento nullo (perché discriminatorio, viziato da motivo illecito determinante o lesivo di norma imperativa di legge) verrebbe pur sempre a collocarsi nell’area della mera mancanza di giustificazione.
3.6. Deve, invece, darsi continuità alla giurisprudenza di questa S.C. che considera nullo il licenziamento intimato solo per il protrarsi delle assenze dal lavoro, ma prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto (cfr. Cass. n. 24525/14; Cass. n. 1404/12; Cass. n. 12031/99; Cass. n. 9869/91).
Muovendo dall’interpretazione, dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. accolta fin dalla summenzionata Cass. S.U. n. 2072/80, va evidenziato che il carattere imperativo della norma, in combinata lettura con l’art. 1418 stesso codice, non consente soluzioni diverse.
È noto che dottrina e giurisprudenza definiscono l’imperatività delle norme in rapporto all’esigenza di salvaguardare valori morali o sociali o valori propri d’un dato ordinamento giuridico.
E il valore della tutela della salute è sicuramente prioritario all’interno dell’ordinamento – atteso che l’art. 32 Cost. lo definisce come «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» – così come lo è quello del lavoro (basti pensare, in estrema sintesi, agli artt. 1, comma 1, 4, 35 e ss. Cost.).
In questa cornice di riferimento è agevole evidenziare come la salute non possa essere adeguatamente protetta se non all’interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro.
All’affermazione della nullità del licenziamento in discorso non osta l’avere il vigente testo dell’art. 18 legge n. 300 del 1970 (come novellato ex lege n. 92 del 2012) collocato la violazione dell’art. 2112, comma 2, cod. civ., nel comma 7 anziché nel comma 1 (riservato ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge), con conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato anziché pieno.
Infatti, in considerazione d’un minor giudizio di riprovazione dell’atto assunto in violazione di norma imperativa, ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullità, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell’art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta ,nel comma 1 là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge.
3.6. La tesi – qui confermata – della nullità del licenziamento intimato prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto non presenta le controindicazioni ipotizzate da talune voci di dottrina.
Non si ravvisa quella secondo cui addosserebbe al datore di lavoro un onere eccessivo, vale a dire quello dell’esatto calcolo del comporto massimo applicabile al singolo caso: a parte il rilievo che in ogni ipotesi di recesso diverso da quello ad nutum il datore di lavoro sopporta il rischio d’un licenziamento viziato da un’erronea valutazione dello stato di fatto e/o di diritto che lo consenta (sicché non si comprende perché la soluzione dovrebbe qui essere difforme), basti osservare che eventuali incertezze a riguardo possono essere superate prudenzialmente attendendo una sicura verifica e, se del caso, posticipando la decisione al rientro del lavoratore.
Infatti, come questa S.C. ha già avuto modo di statuire (cfr. Cass. n. 18411/16; Cass. n. 24899/11), fermo restando il potere datoriale di recedere non appena esaurito il periodo comporto e, quindi, anche prima del rientro al lavoro del dipendente, nondimeno il datore di lavoro ha altresì la facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del lavoratore all’interno dell’assetto organizzativo, se del caso mutato, dell’azienda.
Ne deriva che solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore l’eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinunciare all’esercizio del potere di licenziamento e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente.
Né un’eventuale errore di calcolo del termine massimo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva – errore che abbia indotto il datore di lavoro ad anticipare il licenziamento rispetto al reale momento di esaurimento di tale periodo – impedisce che il licenziamento, nullo, possa poi essere tempestivamente rinnovato una volta che le assenze del lavoratore effettivamente superino il termine massimo di conservazione del posto di lavoro.
Infatti, all’interno della stessa giurisprudenza che afferma la nullità – e non la mera inefficacia – del licenziamento intimato prima che il periodo di comporto si sia esaurito, emerge altresì la statuizione che consente il rinnovo dell’atto di recesso una volta che sopraggiunga la scadenza del temine massimo di comporto, atteso che il nuovo licenziamento, risolvendosi in un negozio diverso dal precedente, esula dal divieto di cui all’art. 1423 cod. civ. (cfr. Cass. n. 24525/14).
4.1. L’accoglimento del primo motivo del ricorso principale assorbe la disamina del secondo e del terzo.
5.1. Il ricorso incidentale è inammissibile per mancanza di interesse.
Infatti, essendo indirizzato non già contro una statuizione della sentenza di merito (che ha visto totalmente vittoriosa la S.p.A. Banco di Sardegna), ma solo contro il passaggio motivazionale in cui la Corte territoriale calcola il periodo di comporto, risulta proposto in difetto di quella soccombenza che costituisce il presupposto indispensabile dell’impugnazione (cfr., da ultimo e per tutte, Cass. n. 22095/17), non potendo impugnarsi una pronuncia giurisdizionale al solo fine di correggerne la motivazione , (cfr., ex aliis, Cass. n. 18674/11; Cass. n. 14970/07; Cass. n. 6601/05; Cass. n. 9637/01; Cass. n. 8924/98).
Né la carenza di interesse viene meno sol per l’accoglimento del primo motivo del ricorso principale, atteso che in tal caso il ricorrente incidentale ha la facoltà di riproporre al giudice del rinvio le questioni non accolte o ritenute assorbite dalla sentenza cassata (cfr., ancora da ultimo e per tutte, Cass. n. 22095/17, cit.).
6.1. In conclusione, accolto il primo motivo del ricorso principale, vanno dichiarati assorbiti il secondo e il terzo, mentre deve dichiararsi inammissibile il ricorso incidentale.
Per l’effetto, si cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e si rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Cagliari in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto:
«Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, cod. civ.».
P.Q.M.
accoglie il primo motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti il secondo e il terzo, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Cagliari in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 13.3.2018.
L’estensore
Dott. Antonio Manna
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 19 ottobre 2017, n. 24766, per SS.UU, 22 moggio 2018, n. 12568, in tema di licenziamento
SS.UU, 22 maggio 2018, n. 12568, in tema di licenziamento
In tema di luogo dell’adempimento – SS.UU, 13 settembre 2016, n. 17989
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RENATO RORDORF – Primo Presidente f.f. –
Dott. GIOVANNI AMOROSO – Presidente Sezione –
Dott. ANIELLIO NAPPI – Presidente Sezione –
Dott. ETTORE CIRILLO – Consigliere –
Dott. BRUNO BIANCHINI – Consigliere –
Dott. ADELAIDE AMENDOLA – Consigliere –
Dott. GIUSEPPE BRONZINI – Consigliere –
Dott. CARLO DE CHIARA – Rel. Consigliere –
Dott. FRANCO DE STEFANO – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 25410/2014 proposto da:
(omissis) S-P.A. elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (omissis) presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (omissis) e (omissis), per delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(omissis) S.R.L;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2751/2014 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il 24/09/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/05/2016 dal Consigliere Dott. CARLO DE CHIARA;
udito l’Avvocato (omissis)
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. TOMMASO BASILE, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il (omissis) s.p.a., con sede in (omissis), convenne davanti al Tribunale di Firenze (nel cui circondario rientra (omissis)) la (omissis) s.r.l. di (omissis) per il pagamento di 9.000 euro più IVA quale corrispettivo di un servizio (studio e sviluppo di due linee di calzature) reso alla convenuta.
Accogliendo l’eccezione di quest’ultima il giudice adito si è dichiarato incompetente in favore del Tribunale di Macerata, individuato sia quale foro del convenuto, sia quale foro in cui era sorta l’obbligazione, sia quale foro del pagamento della somma di danaro oggetto della causa. In particolare, quanto a quest’ultimo criterio di collegamento (i primi due pacificamente radicando presso il tribunale marchigiano la competenza sulla domanda della società attrice), ha osservato che le obbligazioni pecuniarie si identificano – anche ai fini di cui all’art. 1182, terzo comma, c.c., che ne prevede l’adempimento al domicilio del creditore – esclusivamente in quelle sorte originariamente come tali, ossia aventi ad oggetto sin dalla loro costituzione la prestazione di una determinata somma di denaro; con la conseguenza che nella specie non può farsi applicazione della predetta norma, non essendo indicato nel contratto l’importo del corrispettivo spettante all’attrice, onde il luogo di adempimento dell’obbligazione, rilevante agli effetti della determinazione del giudice competente ai sensi dell’art. 20 c.p.c., ult. parte, si identifica, ai sensi del richiamato art. 1182, comma 4, nel domicilio della società debitrice.
Il (omissis) ha proposto ricorso per regolamento di competenza, cui non ha resistito l’intimata (omissis)
Il ricorso è stato inizialmente esaminato in camera di consiglio della Sesta Sezione civile – Sottosezione Seconda, davanti alla quale P.M. ha concluso, ai sensi dell’art. 380 ter c.p.c., per l’accoglimento dell’istanza di regolamento, identificandosi il forum destinatae solutionis con quello del domicilio del creditore tutte le volte che quest’ultimo chieda in giudizio, come nella specie, il pagamento di una somma di denaro determinata, senza che rilevi, ai fini della competenza territoriale, la maggiore o minore complessità dell’indagine sull’ammontare effettivo del credito.
La Sesta Sezione ha promosso l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite avendo rilevato l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla questione “se sia applicabile l’art. 1182 c.c., comma 3, qualora nel contratto non risulti predeterminato l’importo del corrispettivo di una prestazione, ma tale importo venga autodeterminato dall’attore nell’atto con cui fa valere la propria pretesa creditoria”.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Davanti a queste Sezioni Unite il ricorso è stato discusso in pubblica udienza ancorchè, trattandosi di regolamento di competenza, sarebbe stata più corretta la trattazione in camera di consiglio. Tale irregolarità, tuttavia, non ha conseguenze sulla validità degli atti poichè la pubblica udienza assicura alle parti garanzie non certo minori del procedimento camerale.
2. – Secondo l’ordinanza di rimessione della Sesta Sezione, il contrasto di giurisprudenza da dirimere attiene al concetto di obbligazione pecuniaria rilevante ai sensi dell’art. 1182 c.p.c., comma 3, e sussiste tra:
a) un primo orientamento (per il quale l’ordinanza menziona Cass. 22326/2007) secondo cui, ove la somma di danaro oggetto dell’obbligazione debba essere ancora determinata dalle pani o, in loro sostituzione, liquidata dal giudice mediante indagini ed operazioni diverse dal semplice calcolo aritmetico, trova applicazione l’art. 1182, comma 4, secondo cui l’obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza;
b) un secondo orientamento (al quale vengono ricondotte Cass. 7674/2005, 12455/2010, 10837/2011, richiamate nel ricorso per regolamento e nella requisitoria scritta del P.M.) secondo cui il forum destinatae solutionis previsto dall’art. 1182, comma 3, è applicabile in tutte le cause aventi ad oggetto una somma di denaro qualora l’attore abbia richiesto il pagamento di una somma determinata, non incidendo sulla individuazione della competenza territoriale la maggiore o minore complessità dell’indagine sull’ammontare effettivo del credito, che attiene esclusivamente alla successiva fase di merito.
L’ordinanza evidenzia che, secondo quest’ultimo orientamento, è irrilevante che la prestazione richiesta non sia convenzionalmente prestabilita, essendo sufficiente che l’attore abbia agito per il pagamento di una somma da lui puntualmente indicata.
Soggiunge che il contrasto ha talora trovato “una via di fuga” nel rilievo che ai fini della competenza occorre avere riguardo ai fatti per come prospettati dall’attore, prescindendo dalla fondatezza delle contestazioni sollevate del convenuto o comunque concernenti il merito della causa.
3. – Può osservarsi anzitutto che il contrasto non riguarda la necessità del requisito della liquidità affinchè un’obbligazione pecuniaria debba essere adempiuta al domicilio del creditore (requisito in realtà non espressamente previsto dalla legge, tanto che in dottrina non è mancato chi ne ha ritenuto la natura puramente pretoria); riguarda piuttosto il modo di intendere tale requisito.
In effetti nella giurisprudenza di legittimità non è stato mai messo in discussione che obbligazioni pecuniarie “portabili”, ai sensi dell’art. 1182 c.c., comma 3, sono soltanto quelle liquide, essendo assolutamente consolidato il principio che detta disposizione si riferisce alle sole obbligazioni pecuniarie derivanti da titolo convenzionale o giudiziale che ne abbia stabilito la misura, trovando altrimenti applicazione la regola di cui al quarto comma, per la quale la prestazione va eseguita al domicilio del debitore (i precedenti sono numerosissimi, ci si limita a segnalarne alcuni: Cass. 391/1966, 3422/1972, 2591/1997, 21000/2011), precisandosi che la liquidità sussiste anche nel caso
in cui l’ammontare del credito può essere determinato con un semplice calcolo aritmetico e senza indagini od operazioni ulteriori (a Cass. 22326/2007, già richiamata nell’ordinanza di rimessione, si aggiungano, tra le altre, Cass. 3422/1971, 3538/1995, 3808/1999, 4511/2001, 10226/2001, 7021/2002, 9092/2004, 22306/2007) in base a quanto risulta dal titolo.
Si è altresì precisato che sulla determinazione del forum destinatae solutionis a norma dell’art. 1182 c.c., comma 3, e art. 20 c.p.c., seconda parte, non può influire l’eccezione del convenuto che neghi l’esistenza dell’obbligazione, perchè il principio stabilito dall’art. 10 c.p.c., per la determinazione della competenza per valore – secondo il quale il collegamento tra il giudice e la controversia è determinato in base alla domanda – è una regola di portata generale e quindi applicabile anche ai criteri stabiliti per determinare la competenza territoriale per le cause relative a diritti di obbligazione, ai sensi dell’art. 20 c.p.c., sui quali perciò non influisce la fondatezza o meno della domanda (Cass. 789/1998, 1877/1999, 8121/2003, 20177/2004, 8359/2005, 11400/2006); mentre l’unico limite alla rilevanza dei fatti allegati dall’attore ai fini della determinazione della competenza è l’eventuale prospettazione artificiosa, finalizzata a sottrarre la controversia al giudice precostituito per legge (Cass. 10226/2001,8189/2012).
Anche queste Sezioni Unite, allorchè sono state chiamate a pronunciarsi sull’applicabilità del terzo ovvero del quarto comma dell’art. 1182 c.c., al fine di individuare il forum destinatae solutionis quale criterio speciale di competenza giurisdizionale in materia contrattuale, a norma dell’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 e dell’art. 5, n. 1, del Regolamento (CE) n. 44/2001 del 22 dicembre 2000, hanno confermato la necessità del requisito della liquidità delle obbligazioni pecuniarie (v.sentenze 9214/1987, 5899/1997), nonchè l’indifferenza delle contestazioni del convenuto circa la sussistenza dell’obbligazione dedotta in giudizio dall’attore, poichè anche la giurisdizione nei confronti dello straniero deve essere riscontrata in base alla domanda, indipendentemente da ogni questione circa il suo fondamento nel merito, non operando tale principio solo nel caso in cui la prospettazione della domanda sia artificiosamente finalizzata a sottrarre la controversia al giudice precostituito per legge (ordinanza 6217/2006, sentenza 13900/2013).
Proprio la necessità di fare riferimento alla domanda, secondo la regola dettata dall’art. 10 c.p.c., è alla base dell’orientamento, richiamato dalla ricorrente e dal P.M., che considera sufficiente a integrare il requisito della liquidità dell’obbligazione, al fine di rendere quest’ultima “portabile” ai sensi dell’art. 1182 c.c., comma 3, la quantificazione della propria pretesa da parte dell’attore.
Si legge in Cass. 7674/2005, che ha introdotto tale orientamento, cui si sono poi uniformare Cass. 12455/2010 e 10837/2011, citt.: “Occorre ricordare che, a norma dell’art. 10 c.p.c., il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda, e, più precisamente, per l’art. 14 comma 1, nelle cause relative a somme di danaro (…) il valore si determina in base alla somma indicata (…) dall’attore. Per esigenze di armonia ed omogeneità del sistema, la stessa regola deve valere, nei limiti del possibile, anche ai fini della competenza per territorio, nel senso che anche per questa dovrà tenersi conto non dell’effettiva realtà sostanziale sottostante alla domanda, ma del tenore di quest’ultima, indipendentemente dal suo maggiore o minore fondamento. E pertanto, nelle obbligazioni, come quella dedotta in giudizio, aventi ad oggetto una somma di denaro determinata, n’entrano nella previsione dell’art. 1182 c.c., comma 3, quelle che siano come tali indicate dall’attore, mentre il diverso e successivo problema della effettiva sussistenza di esse attiene al merito (vedansi, sul punto, Cass. 27 gennaio 1998 n. 789; 5 marzo 1999 n. 1877). Nella specie il giudice a quo (…) avrebbe dovuto pertanto rivolgere la propria attenzione al contenuto dell’atto di citazione, e, poichè esso indicava, quale credito dell’attrice, una specifica somma di denaro asseritamente dovuta per effetto del rapporto contrattuale tra le parti (…), avrebbe dovuto riconoscere che trattavasi di una somma di ammontare già determinato e trarne le debite conseguenze in termini di competenza“. Con il che la mera quantificazione della pretesa da parte dell’attore fa premio sull’intrinseca liquidità della stessa, la prospettazione della domanda nel processo prevale sulle caratteristiche sostanziali del diritto azionato.
4. – Ritengono queste Sezioni Unite che il contrasto così determinatosi rispetto all’orientamento, in precedenza costante, che richiedeva la effettiva liquidità dell’obbligazione, in base al titolo, ai fini della qualificazione dell’obbligazione stessa come portabile, per gli effetti di cui al combinato disposto dell’art. 1182 c.c., comma 3, e art. 20 c.p.c., vada risolto confermando l’orientamento tradizionale.
4.1. – Tra le obbligazioni pecuniarie, invero, quelle illiquide hanno una particolarità: ai fini dell’adempimento del debitore è necessario un passaggio ulteriore, è necessario cioè un ulteriore titolo, convenzionale o giudiziale.
Questa particolarità non è indifferente rispetto alla disciplina di tale categoria di obbligazioni.
Si consideri che la nozione di obbligazione portabile, di cui all’art. 1182 c.c., comma 3, rileva non soltanto ai fini dell’individuazione del forum destinatae solutionis contemplato dall’art. 20 c.p.c., seconda parte, ma anche ai fini del prodursi della mora ex re ai sensi dell’art. 1219 c.c., comma 2, n. 3, che esclude la necessità della costituzione in mora “quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore”, come appunto stabilito per le obbligazioni pecuniarie dall’art. 1182, comma 3, cit..
La giurisprudenza di questa Corte nega che la mora ex re si verifichi anche per le obbligazioni pecuniarie illiquide (Cass. 535/1999, 9092/2004). Se tra le obbligazioni pecuniarie “portabili” contemplate da tale disposizione rientrassero quelle illiquide, la mora – e con essa la responsabilità ai sensi dell’art. 1224 c.c. – scatterebbe automaticamente anche a carico del debitore la cui prestazione non sia in concreto possibile perchè l’ammontare della sua prestazione è ancora incerto: il che sarebbe ingiustificato, nonchè contrario al sistema, il quale esclude la responsabilità del debitore la cui prestazione sia impossibile per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). L’interpretazione restrittiva della nozione di obbligazione portabile è inoltre coerente anche con il favor debitoris che ispira la regola generale di cui all’art. 1182, comma 2, n. 4 cit..
Le indicate esigenze di protezione del debitore, che sono a fondamento dell’interpretazione restrittiva dell’art. 1182 c.c., comma 3, richiedono evidentemente che la liquidità del credito sia ancorata a dati oggettivi, mentre sarebbero frustrate se essa si facesse coincidere con la pura e semplice precisazione, da parte dell’attore, della somma di denaro dedotta in giudizio, pur in mancanza di indicazioni nel titolo, come sostenuto da Cass. 7674/2005, cit., e dagli altri precedenti che vi si richiamano discostandosi dall’orientamento tradizionale. In tal modo, infatti, non il dato oggettivo della liquidità del credito radicherebbe la controversia presso il forum creditoris, bensì il mero arbitrio del creditore stesso, il quale scelga di indicare una determinata somma come oggetto della sua domanda giudiziale, con conseguente lesione anche del principio costituzionale del giudice naturale.
Va dunque ribadito che rientrano nella previsione di cui all’art. 1182 c.c., comma 3, esclusivamente le obbligazioni pecuniarie liquide, il cui ammontare, cioè, sia determinato direttamente dal titolo ovvero possa essere determinato in base ad esso con un semplice calcolo aritmetico.
4.2. – Peraltro il riferimento di alcuni precedenti di legittimità (sopra richiamati al capoverso del p.3) alla non necessità di indagini ulteriori ai fini della liquidazione del credito, quale requisito di liquidità dello stesso, ha determinato il prodursi di qualche equivoco, di cui vi è traccia nella requisitoria scritta del P.M. davanti alla Sesta Sezione, nella quale non a caso viene sottolineata l’irrilevanza, ai fini della determinazione della competenza territoriale ai sensi dell’art. 20 c.p.c., ultima parte, della “maggiore o minore complessità dell’indagine sull’ammontare effettivo del credito, la quale attiene esclusivamente alla successiva fase di merito”.
Si impone, pertanto, una puntualizzazione.
Liquidità, come si è visto, significa che la somma dovuta risulta dal titolo e dunque non è necessario, per determinarla, un ulteriore titolo negoziale o giudiziale. L’ammontare della somma dovuta potrà risultare direttamente dal titolo originario, che la precisi, oppure solo indirettamente dallo stesso, allorchè questo indichi il criterio o i criteri applicando i quali tale somma va determinata (cfr. Cass. 19958/2005). Deve trattarsi, però, di criteri stringenti, tali, cioè, che la somma risultante dalla loro applicazione sia necessariamente una ed una soltanto: questo è ciò che si intende affermare, nella giurisprudenza di questa Corte, allorchè si ammette una liquidità scaturente da semplici operazioni aritmetiche. Se, infatti, il risultato dell’applicazione dei predetti criteri non fosse obbligato, residuando un margine di scelta discrezionale, il credito non potrebbe dirsi liquido, perchè quel margine di discrezionalità non potrebbe essere superato se non mediante un ulteriore titolo (convenzionale o giudiziale).
Dovendo, inoltre, la liquidità del credito essere effettiva, il principio che la competenza va determinata in base alla domanda non può essere esteso sino al punto di consentire all’attore di dare dei fatti una qualificazione giuridica diversa da quella prevista dalla legge, o di allegare fatti (ad esempio un contratto che indichi l’ammontare del credito) privi di riscontro probatorio. Resta fermo, ovviamente, che tali fatti sono accertati dal giudice, ai soli fini della competenza, allo stato degli atti secondo la regola di cui all’art. 38 c.p.c., u.c..
4.3. – Può in conclusione enunciarsi il seguente principio di diritto: “Le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditore, secondo il disposto dell’art. 1182 c.c., comma 3, sono – agli effetti sia della mora ex re ai sensi dell’art. 1219 c.c., comma 2, n. 3, sia della determinazione del forum destinatae solutionis ai sensi dell’art. 20 c.p.c., ultima parte, – esclusivamente quelle liquide, delle quali, cioè, il titolo determini l’ammontare, oppure indichi i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale, e i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti secondo quanto dispone l’art. 38 c.p.c., u.c. “.
5. – Tanto premesso, l’istanza di regolamento deve essere respinta, atteso che dalla ricorrente non viene neppure dedotto che nel contratto fosse indicato l’ammontare del credito dell’attrice o i criteri per determinarlo.
In mancanza di attività difensiva della parte intimata non occorre provvedere sulle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il 3 maggio 2016.
Il Consigliere relatore
Carlo De Chiara
Il Primo Presidente f.f.
Renato Rordorf
Allegati:
SS.UU, 13 settembre 2016, n. 17989, in tema di luogo dell’adempimento
In tema di eccezione di compensazione – SS.UU, 15 novembre 2016, n. 23225
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CANZIO Giovanni – Primo Presidente –
Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –
Dott. CHIARINI Maria Margherita – rel. Presidente Sezione –
Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –
Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –
Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 24178/2012 proposto da:
AI MORI DI L.F. & C. S.N.C., in persona dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CESI 72, presso lo studio dell’avvocato LUIGI ALBISINNI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati CARLO STRAULINO e GIOVANNI CESARI, per delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
GEFIM RE S.R.L., (già GEFIM IMMOBILIARE DI E.S. & C. S.A.S.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI 10, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO CASTELLANI, rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLA GIGLIO, per delega a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1106/2012 del TRIBUNALE di VENEZIA, depositata il 19/06/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/03/2016 dal Presidente Dott. MARIA MARGHERITA CHIARINI;
udito l’Avvocato Filippo CASTELLANI per delega dell’avvocato Paola Giglio;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per l’accoglimento dei primi due motivi del ricorso, assorbiti gli altri.
Svolgimento del processo
1.– Il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 1160 in data 27 aprile 2009, accolse l’opposizione della società Ai Mori al decreto ingiuntivo ottenuto dalla società GE.F.IM. e condannò quest’ultima al pagamento delle spese di giudizio (Euro 2.240,29).
La società ai Mori, con atto notificato l’11 febbraio 2010, intimò alla società GE.F.IM. precetto per il pagamento, oltre le spese.
L’intimata si oppose all’esecuzione dinanzi al giudice di Pace di Venezia contestando alcuni diritti di procuratore richiesti ed eccependo la compensazione legale del debito, fino alla concorrenza, con un credito di minor importo ex altera causa, ma omogeneo – condanna della società ai Mori a rimborsarle le spese giudiziali, emessa con sentenza n. 16 del Tribunale di Venezia il 5 gennaio 2010 – e chiese di accertare l’inefficacia o la nullità del precetto per le somme non dovute, con vittoria di spese, quantificando il residuo credito della società ai Mori in Euro 1.640,35.
La società Ai Mori eccepì la cessazione della materia del contendere perchè il 15 marzo 2010 la GE.F.IM. aveva pagato all’ufficiale giudiziario senza riserve l’importo intimato.
Si oppose alla compensazione perchè il controcredito – spese giudiziali – non era certo in quanto la sentenza del Tribunale n. 16 del 5 gennaio 2010 non era passata in giudicato, e contestò la voce “spese per registrazione sentenza”.
2.– Con sentenza del 16 luglio 2010 il Giudice di Pace accolse l’opposizione poichè a decorrere dalla pubblicazione della sentenza a favore della GE.FI.M. – 5 gennaio 2010 – era venuto a coesistenza il credito, liquido ed esigibile, di detta società; dichiarò perciò l’estinzione dei crediti, fino alla concorrenza, accertò il residuo credito della società ai Mori (Euro 1.140) e dichiarò la nullità del precetto per l’eccedenza. Poichè la società GE.F.IM. aveva pagato all’ufficiale giudiziario la somma intimata, condannò la società Ai Mori a restituire alla società GE.F.IM. la somma di Euro 2.183,33 oltre agli interessi dal giorno del pagamento all’ufficiale giudiziario.
La società Ai Mori propose appello per erronea applicazione dell’art. 1243 c.c., perchè il credito opposto in compensazione dalla GE.F.IM. non era certo sì che il giudice dell’opposizione all’esecuzione non poteva dichiarare l’estinzione di ogni reciproca ragione fino alla concorrenza, travalicando l’ambito del relativo giudizio, e sconfinando nella potestas iudicandi del giudice dell’impugnazione.
3.– Con sentenza del 19 giugno 2012 il Tribunale di Venezia ha respinto l’appello della s.n.c. Ai Mori nei confronti della GE.F.IM. s.a.s..
Ha proposto ricorso per cassazione la società Ai Mori, con atto del 25 ottobre 2012. Ha proposto controricorso la s.r.l. GEFIM RE, già GEFIM Immobiliare s.a.s. per atto di scissione del 2 maggio 2011, già GE.F.IM. s.a.s. per atto di scissione dell’11 marzo 2010.
La ricorrente ha depositato memoria.
4.– La Terza Sezione Civile di questa Corte, con ordinanza n. 18001 del 2015, ritenuta l’ammissibilità del ricorso notificato alla s.a.s. GE.F.IM., società scissa e perciò non estinta, e la facoltà della s.r.l. GEFIM RE di intervenire nel giudizio a norma dell’art. 111 cod. proc. civ., allegando i presupposti della sua legittimazione, rilevava il contrasto tra l’orientamento di legittimità, secondo il quale se il credito opposto in compensazione non è certo, e cioè se il titolo giudiziale non è definitivo, non opera la compensazione, e la sentenza n. 23573 del 2013, secondo cui tale circostanza non è di ostacolo alla possibilità di opporre il controcredito in compensazione, e rimetteva la relativa questione al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. Fissata l’udienza dinanzi alle Sezioni Unite, la ricorrente ha depositato altra memoria.
5.– Il P.M., ritenuta l’ammissibilità del ricorso, ha pregiudizialmente rilevato l’estraneità al thema decidendum della questione di contrasto perchè si è formato il giudicato interno sulla premessa giuridica della sentenza impugnata secondo cui possono essere compensati esclusivamente i crediti certi, che, se contestati in giudizio, divengono tali solo a seguito del passaggio in cosa giudicata della sentenza che ne riconosca l’an e il quantum.
Da questa premessa, costituente autonoma ratio decidendi, non impugnata, il Tribunale ha però addossato al creditore, che contesti il controcredito, l’onere probatorio del mancato passaggio in giudicato della sentenza che lo accerta, e questa statuizione è stata impugnata dalla società Ai Mori sul presupposto che alla data del 5 gennaio 2010 non era ancora infruttuosamente elasso il termine per impugnare la sentenza che l’aveva condannata a pagare le spese giudiziali alla società GE.F.IM. Perciò, essendosi formato il giudicato interno sulla non deducibilità in compensazione di un credito litigioso, la questione in contrasto – ossia la opponibilità o meno in compensazione di un credito contestato – non può esser rimessa in discussione sollevandola ex officio.
In subordine, il P.M. ha concluso per la riaffermazione dei principi di diritto consolidati di questa Corte, argomentandone le ragioni.
Motivi della decisione
1.– Va pregiudizialmente disatteso il rilievo della società GEFIM RE s.r.l. di inammissibilità del ricorso della società Ai Mori s.n.c. in quanto proposto nei confronti della società GE.FIM. s.a.s. anzichè della GEFIM RE s.r.l., nuovo soggetto risultante dalla scissione del 2 maggio 2011 della società GEFIM Immobiliare s.a.s., già GE.F.IM. s.a.s. per scissione dell’11 marzo 2010.
Ed invero, la scissione, disciplinata dagli artt. 2506 e segg. a decorrere dal 1 gennaio 2004 per effetto dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, consistente nel trasferimento del patrimonio a una o più società, preesistenti o di nuova costituzione, contro l’assegnazione delle azioni o delle quote di queste ultime ai soci della società scissa, si traduce in una fattispecie traslativa, che, sul piano processuale, non determina l’estinzione della società scissa ed il subingresso di quella risultante dalla scissione nella totalità dei rapporti giuridici della prima, ma si configura come una successione a titolo particolare nel diritto controverso, che, ove intervenga nel corso del giudizio, comporta l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 111 cod. proc. civ.(Cass. 30246 del 2011); con la conseguenza che il processo prosegue fra le parti originarie (Cass. 6471 del 2012), con facoltà per il successore di resistere con controricorso all’impugnazione “ex adverso” proposta davanti alla Corte di Cassazione nei confronti del suo dante causa, pur non avendo partecipato al processo nei precedenti gradi di giudizio (tra le altre, Cass. 11757 del 2006, 10902 del 2004, 2889 del 2002, 5822 del 1999, 4742 del 1998).
2.– Con il primo motivo di ricorso la società Ai Mori lamenta: “Art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione dell’art. 1243 c.c., per difetto di presupposto della compensazione legale”.
3.– Con il secondo motivo lamenta: “Art. 360 c.p.c., n. 3, – Violazione dell’art. 2697 c.c., per errata attribuzione di un onere probatorio inesistente”.
4.– Con il terzo motivo la medesima deduce: “Art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 615 c.p.c.“, per avere il Giudice di Pace non soltanto pronunciato la compensazione legale tra contrapposti crediti non ancora certi, ma altresì accertato il residuo credito della società Ai Mori di Euro 1.140, così incidendo sui titoli costitutivi giudiziali e modificandone il decisum.
5.– Con il quarto motivo censura: “Art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione della norma di diritto di cui all’art. 112 c.p.c.“, per avere il giudice dell’opposizione illegittimamente rilevato eccezioni di ufficio.
6.– Con il quinto motivo si duole: “Art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’art. 494 c.p.c.. Motivazione insufficiente sulla mancata declaratoria di cessazione della materia del contendere conseguente all’avvenuto pagamento del debito della società GE.F.IM. eseguito a mani dell’ufficiale giudiziario senza riserva di ripetizione”.
7.– I motivi, congiunti, sono inammissibili per carenza di interesse non essendovi più controversia tra le parti sulla certezza dei reciproci crediti.
Ed infatti la controricorrente rileva che la sentenza n. 16 del 2010 – titolo costitutivo del suo credito opposto in compensazione – era passata in giudicato il 21 giugno 2010 in quanto notificata ai sensi degli artt. 170 e 285 c.p.c., il 21 maggio 2010 e quindi prima della notifica del 26 ottobre 2010 dell’appello della società Ai Mori, così come era divenuto incontrovertibile il credito di quest’ultima società, fondato sulla sentenza n. 1160 del 2009, notificata il 19 novembre 2009 e non impugnata dalla GE.F.IM..
E la ricorrente – in specie nella memoria del 27 gennaio 2015 – è d’accordo sulla circostanza che i rispettivi titoli costitutivi – sentenze di condanna al rimborso delle spese giudiziali – sono divenuti incontrovertibili prima della sentenza di primo grado del 16 luglio 2010 che ha definito il giudizio di opposizione all’esecuzione, dichiarando l’avvenuta estinzione per compensazione del credito della società Ai Mori dalla coesistenza, e fino alla concorrenza, del controcredito della GE.F.IM.
Perciò è ormai venuto meno l’interesse della ricorrente alla decisione delle censure proposte.
8.- Tuttavia le Sezioni Unite ritengono di comporre il contrasto originato dalla sentenza 23573/2013 della Terza Sezione Civile ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, ribadendo i consolidati principi di diritto.
8.1– La compensazione è disciplinata dal libro quarto, capo 4^ – Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dalli adempimento – Sezione III del codice civile (dopo la novazione e la remissione).
L’art. 1241 – Estinzione per compensazione – dispone: “Quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti, secondo le norme degli articoli che seguono”.
L’art. 1242, comma 1, prosegue: “La compensazione estingue i due debiti dal giorno della loro coesistenza. Il giudice non può rilevarla d’ ufficio”.
L’art. 1243 – Compensazione legale e giudiziale – continua: “La compensazione si verifica solo tra due debiti che hanno per oggetto una somma di danaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere e che sono ugualmente liquidi ed esigibili”.
Il secondo comma stabilisce: “Se il debito opposto in compensazione non è liquido ma è di facile e pronta liquidazione, il giudice può dichiarare la compensazione per la parte del debito che riconosce esistente, e può anche sospendere la condanna per il credito fino all’accertamento del credito opposto in compensazione”.
Per credito liquido – espressione letterale dell’art. 1243 c.c., comma 1, che si attaglia alle obbligazioni pecuniarie o omogenee e fungibili deve intendersi il credito determinato nell’ammontare in base al titolo, come si desume anche dall’identica espressione contenuta in altre norme: l’art. 1208 c.c., n. 3, sui requisiti di validità dell’offerta reale dell’obbligazione prevede una somma per le spese “liquide” e un’altra somma per quelle “non liquide”; l’art. 1282 c.c., stabilisce che i crediti liquidi (ed esigibili) producono interessi; l’art. 633 c.p.c., stabilisce come condizione di ammissibilità del provvedimento monitorio un credito di una somma liquida di danaro.
L’ulteriore requisito della certezza sull’esistenza del credito non si desume dalla formulazione dell’art. 1243 c.c., comma 1, perchè la liquidità attiene all’oggetto della prestazione, mentre la certezza attiene all’esistenza dell’obbligazione, e quindi al titolo costitutivo del credito. Perciò la contestazione del titolo non è in sè contestazione sull’ammontare del credito, come determinato in base al titolo, ma se questo è controverso la liquidità e l’esigibilità sono temporanee e a rischio del creditore. E allora, attesa la finalità dell’istituto della compensazione – estinzione satisfattoria reciproca (il che peraltro postula che anche il credito principale sia certo, liquido ed esigibile), che non può verificarsi se la coesistenza del controcredito è provvisoria, la giurisprudenza, da tempo risalente (Cass. n. 620 del 1970) ha affermato che non ricorre il requisito della liquidità del credito non solo quando esso non sia certo nel suo ammontare, ma anche quando ne sia contestata l’esistenza.
Da qui l’ormai consolidato principio che per l’operatività della compensazione legale il titolo del credito deve essere incontrovertibile, ossia non essere più soggetto a modificazioni a seguito di impugnazione (Cass. 6820 del 2002, 8338 del 2011) non solo nella sua esattezza, ma anche nella sua esistenza (credito certus nell’an, nel quid, nel quale, nel quantum debeatur).
Perciò accanto ad una nozione di liquidità sostanziale del credito in base al titolo, si è aggiunta una nozione di “liquidità” processuale stabilizzata che non sussiste se il creditore principale contesta, non pretestuosamente, nell’an e/o nel quantum, il titolo che accerta il controcredito o potrebbe contestarlo (credito litigioso).
La locuzione contenuta nell’art. 1243 c.c., comma 2, – “Se il debito opposto in compensazione.. è di facile e pronta liquidazione..” – è stata interpretata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità nel senso che soltanto l’“accertamento” – nel senso di determinabilità – pronto, ossia in tempo processuale breve, e facile, ossia metodicamente semplice (es. mediante calcolo degli interessi), del controcredito – e per questo riservato dalla norma al giudice dinanzi al quale il processo deve proseguire – può giustificare il ritardo della decisione sul credito principale – certo, liquido ed esigibile – onde dichiarare estinti entrambi i rispettivi crediti per compensazione, secondo la ratio dell’istituto: il vantaggio delle parti di risolvere celermente in unica soluzione le reciproche pretese salvaguardando una ragione di equità, perchè non è giusto che sia condannato all’adempimento chi a sua volta ha un concorrente credito.
Questa Corte, con orientamento pressochè unanime, ha enunciato i seguenti principi:
1) la compensazione legale opera di diritto, su eccezione di parte, e per avere efficacia estintiva “satisfattoria” deve avere ad oggetto due contrapposti crediti certi, liquidi, ossia determinati nella consistenza ed ammontare, omogenei ed esigibili (requisiti desumibili dai rispettivi titoli costitutivi: Cass. 22 ottobre 2014, n. 22324; Cass. 11 gennaio 2006, n. 260);
2) se il requisito della liquidità del controcredito opposto in compensazione manca, ma il giudice dinanzi al quale è formulata l’eccezione ne ritiene la facile e pronta liquidabilità – giudizio di fatto, insindacabile in cassazione può dichiarare la compensazione fino alla concorrenza per la parte del controcredito che riconosce esistente, e può anche sospendere cautelativamente la condanna per il credito principale fino all’accertamento – id est liquidazione – del controcredito;
3) la provvisorietà dell’accertamento del controcredito in separato giudizio non può provocare l’effetto dell’estinzione del credito principale, la quale investe – elidendola irrimediabilmente – la stessa sussistenza, ontologicamente considerata, della ragione di credito e non soltanto la sua tutela esecutiva;
4) l’eseguibilità del titolo giudiziale che accerta il credito non attiene alla certezza, ma solo alla tutela anticipata del medesimo, mediante la sua immediata azionabilità (Cass. 8338 del 2011);
5) la compensazione legale si distingue da quella giudiziale perchè per la ricorrenza della prima i due crediti contrapposti devono essere certi, liquidi ed esigibili anteriormente al giudizio, mentre per la seconda il credito opposto in compensazione non è liquido, ma viene liquidato dal giudice nel processo, purchè reputato di “pronta e facile liquidazione”;
6) se l’accertamento del credito opposto in compensazione pende dinanzi ad altro giudice, è questi che deve liquidarlo (Cass. 1695 del 2015, 9608 del 19 aprile 2013);
7) in quest’ultimo caso il giudice dell’eccezione di compensazione non può sospendere il giudizio sul credito principale ai sensi dell’art. 295 c.p.c., o art. 337 c.p.c., comma 2, qualora nel giudizio avente ad oggetto il credito eccepito in compensazione sia stata emessa sentenza non passata in giudicato (Cass. n. 325 del 1992), ma, non potendo realizzarsi la condizione prevista dall’art. 1243 c.c., comma 2, – che costituisce disciplina processuale speciale ai fini della reciproca elisione dei crediti nel processo instaurato dal creditore principale – (il giudice) deve dichiarare l’insussistenza dei presupposti per elidere il credito agito e rigettare l’eccezione di compensazione;
8) se la certezza del controcredito – il cui onere della prova spetta all’eccipiente (Cass. 5444/2001) – si matura nel corso del giudizio sul credito principale, anche in appello, gli effetti estintivi della compensazione legale decorrono dalla coesistenza dei crediti;
9) l’eccezione di compensazione non configura un presupposto di natura logico-giuridica sui requisiti del credito principale il cui accertamento giustifichi il sacrificio delle ragioni di tutela di questo oltre i limiti previsti dalla stessa norma – ossia la possibilità di procrastinare, cautelativamente (Cass. 5319 del 09/08/1983), la condanna ad adempiere del debitore fino alla pronta e facile liquidazione, nel medesimo processo, del credito opposto in compensazione – consentendo di sospendere la decisione sulla causa principale fino al passaggio in giudicato del giudizio sul controcredito come se questo pregiudicasse, in tutto o in parte, l’esito della causa sul credito principale (Cass., 3 ottobre 2012, n. 16844, Cass., 4 dicembre 2010, n. 25272).
9.- La Terza Sezione civile, con sentenza n. 23573 del 2013, si è consapevolmente discostata da questi principi collegando la disciplina sostanziale dell’eccezione di compensazione con quella processuale ed in particolare:
art. 35 – “Eccezione di compensazione” -: “Quando è opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, questi, se la domanda è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, può decidere su di essa e rimettere le parti al giudice competente per la decisione relativa all’eccezione di compensazione, subordinando, quando occorre, l’esecuzione della sentenza alla prestazione di una cauzione; altrimenti provvede a norma dell’articolo precedente”;
art. 34 – Accertamenti incidentali -: “Il giudice se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o per valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa dinanzi a lui”;
art. 40 c.p.c. – Connessione -: “Se sono proposte dinanzi a giudici diversi più cause le quali, per ragioni di connessione, possono essere decise in un solo processo..; Nei casi previsti dagli artt. 34, 35 e 36, le cause cumulativamente proposte o successivamente riunite debbono essere trattate con il rito ordinario..”.
art. 295 c.p.c. – sospensione necessaria -: “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”;
art. 337 c.p.c., comma 2 – Sospensione dell’esecuzione e dei processi -: “Quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo questo può esser sospeso se tale sentenza è impugnata”.
9.1– L’applicabilità delle suddette norme processuali alle innanzi richiamate norme sostanziali non è condivisibile.
Muovendo dalla considerazione contenuta nella sentenza n. 23573 del 2013, secondo cui, se l’art. 35 c.p.c., disciplina la competenza a decidere il controcredito eccepito nel giudizio sul credito principale, la stessa norma deve applicarsi allorchè il controcredito è già sub judice poichè eccepito ai sensi dell’art. 1243 c.c., comma 2, emerge che i piani tra le norme sulla competenza, a cui appartiene il sucitato art. 35, e la disciplina sostanziale sulla compensazione – art. 1241 c.c. e segg. – non si intersecano.
Ed invero, pacifico per giurisprudenza e dottrina che i requisiti prescritti dall’art. 1243 c.c., comma 1, per la compensazione legale, e cioè l’omogeneità dei debiti, la liquidità, l’esigibilità e la certezza, devono sussistere necessariamente anche per la compensazione giudiziale, il secondo comma di detta norma si limita a consentire al giudice del credito principale di liquidare il controcredito opposto in compensazione soltanto se il suo ammontare è facilmente e prontamente liquidabile in base al titolo.
Ma per esercitare questo potere discrezionale – esclusivo e specifico (Cass., 3 ottobre 2012, n. 16844, Cass., 4 dicembre 2010, n. 25272) – al fine di dichiarare la compensazione giudiziale, il controcredito deve essere certo nella sua esistenza e cioè non controverso.
Se il controcredito è contestato, come prevede l’art. 35 c.p.c., allora non è certo, e quindi non è idoneo ad operare come compensativo sul piano sostanziale, e l’eccezione di compensazione va respinta.
L’ambito di contestazione del controcredito opposto in compensazione secondo l’art. 1243 c.c., secondo comma, è infatti limitato alla liquidità del credito, mentre la contestazione sulla sua esistenza – a meno che essa sia prima facie pretestuosa e infondata (Cass. 6237 del 1991) – lo espunge dalla compensazione giudiziale (Cass. 10352 del 1993).
Soltanto la contestazione sulla liquidità del credito opposto in compensazione consente al giudice del credito principale – con accertamento discrezionale di merito, che presuppone la sua competenza, ed incensurabile in Cassazione – di determinarne l’ammontare se è facile e pronto, sopperendo alla mancanza di questo requisito mediante un’attività ricognitiva – attuativa del titolo, funzionale all’eccezione di compensazione.
La disciplina contenuta nell’art. 1243 c.c., comma 2, consiste nell’inoperatività dell’eccezione di compensazione, sia legale che giudiziale, se è controverso l’an del controcredito, analogamente al caso in cui il credito opposto in compensazione non è di pronta e facile liquidazione (Cass. 10352/1993, cit.).
Il giudice del credito principale ha o la possibilità di dichiarare la compensazione per la parte di controcredito già liquida, o di sospendere, eccezionalmente, la condanna del credito principale fino alla liquidazione di tutto il credito opposto in compensazione, ma non di ritardare la decisione sul credito principale fino all’accertamento, da parte di egli stesso o di altro giudice, dell’esistenza certa di quello opposto in compensazione; altrimenti sarebbe pleonastico il sintagma “di pronta e facile liquidazione” richiesto dalla norma.
Nè d’ altro canto a tal fine può applicarsi analogicamente la disciplina dell’art. 35 c.p.c., non potendosi ravvisare il canone interpretativo dell’eadem ratio.
9.2– Peraltro, neanche le norme sulla modificazione della competenza per ragioni di connessione, contenute nel libro Primo, Sezione IV, del codice di rito legittimano il meccanismo processuale della condanna con riserva e della sospensione del giudizio sulla compensazione che la sentenza n. 23573/2013 ritiene applicabile onde consentire di poter sempre opporre, davanti al giudice investito del credito principale, la compensazione con un credito la cui esistenza sia in corso di accertamento in separato giudizio, in modo da garantire comunque l’operatività della compensazione pur se al momento della relativa eccezione il credito opposto non era ancora accertato con provvedimento giudiziale definitivo, e così impedire che il passaggio in cosa giudicata del titolo giudiziale definitivo sull’esistenza del credito opposto in compensazione intervenga in un momento in cui non sia più possibile farlo valere, a quel titolo e a quei fini, per essere stato definitivamente esitato il giudizio promosso dal creditore-debitore contrapposto.
9.2.1– Da un lato, è principio immanente, innucleato nell’art. 1243 c.c., comma 2, che la compensazione giudiziale è processualmente rilevante soltanto quando il giudice del credito principale sia competente anche per il credito opposto in compensazione, con conseguente esclusione dell’eccezione di compensazione fondata su un credito la cui certezza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso.
Non solo la disciplina speciale contenuta nell’art. 1243 c.c., consente la sospensione cautelativa della decisione sul credito principale soltanto se il credito opposto in compensazione è di facile e pronta liquidazione, ma sia il conferimento di questo potere al giudice del credito principale, sia la finalità con esso perseguita, postulano che il giudizio prosegua dinanzi al giudice del credito principale per consentirgli di effettuare la valutazione e la liquidazione del controcredito prevista dalla norma.
E quindi, come nel caso in cui l’accertamento del credito opposto in compensazione non sia facile e pronto il giudice del credito principale, per espressa previsione normativa, non ha il potere di sospendere la decisione su quest’ultimo, ma deve immediatamente decidere su di esso, così a maggior ragione non può sospenderne la decisione a norma dell’art. 295 c.p.c., o art. 337 c.p.c., comma 2, che certamente gli precludono qualsiasi valutazione di pronta o facile liquidazione del controcredito in quanto spettante al giudice competente.
9.2.2– Dall’altro, l’interpretazione dell’art. 1243 c.c., comma 2, non solo non collide con la disposizione contenuta nell’art. 35 c.p.c., ma ne costituisce conferma.
Detta norma processuale prevede che se il giudice non è competente sull’eccepito controcredito contestato ed il credito principale è fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile, decide prontamente su di esso – (conformemente all’esigenza desumibile anche dall’art. 1243 c.c., comma 2, di decidere il più rapidamente possibile sul credito, se del caso subordinando la condanna ad una cauzione, analogamente alla sospensione cautelativa dell’art. 1243 c.c., comma 2) – e quindi non ne sospende la decisione, nè ai sensi dell’art. 295, nè ai sensi dell’art. 337 c.p.c., comma 2, e rimette la decisione sull’eccezione al giudice competente.
Se invece il credito principale non è fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile, rimette la decisione su entrambi i crediti al giudice competente sul credito opposto in compensazione, a norma dell’art. 34 c.p.c., a cui rinvia l’art. 35 c.p.c., u.c., – che così assume la configurazione di eccezione riconvenzionale di compensazione.
Riassumendo, sia l’art. 1243 c.c., comma 2, sia l’art. 35 c.p.c., prevedono che a decidere i contrapposti crediti sia il giudice dinanzi al quale essi sono contemporaneamente dedotti, mentre il meccanismo previsto dall’art. 35 c.p.c., è attivabile nel solo caso in cui il giudice del credito principale non possa conoscere di quello opposto in compensazione.
Pertanto, alla luce dell’esaminata disciplina, cade anche l’argomento contenuto nella sentenza n. 23573 del 2013 della disparità di trattamento tra credito opposto contestato nel giudizio sul credito principale e credito opposto già contestato in giudizio pendente davanti ad altro giudice. La disparità di trattamento non attiene a fattispecie identiche sul piano processuale; sussisterebbe laddove vi fossero norme che, contraddittoriamente, prevedessero la possibilità di dedurre un credito in compensazione non contestato e altre norme che escludessero tale possibilità per un credito contestato giudizialmente davanti ad un giudice competente per vagliare entrambe le posizioni.
Nè infine alcuna norma di quelle scrutinate dalla sentenza n. 23573/2013 prevede, in via analogica, che la causa in cui sia pronunciata condanna con riserva venga rimessa sul ruolo – il che presuppone sempre la competenza del giudice che ha deciso con riserva – per verificare l’esistenza delle condizioni della compensazione e poi sospendere la decisione ai sensi dell’art. 295 c.p.c., o art. 377 c.p.c., comma 2, in attesa della decisione incontrovertibile di altro giudice sul controcredito.
Senza sottacere che, poichè anche il credito accertato definitivamente potrebbe essere contestato dal creditore principale per fatti sopravvenuti, l’attività del giudice potrebbe nuovamente paralizzarsi se non competente a verificare la fondatezza del fatto sopravvenuto ed egli dovrebbe nuovamente sospendere il processo in attesa della decisione definitiva sul controcredito.
E poichè nell’attuale regime processuale – art. 42 c.p.c. – non vi è più spazio per una discrezionale, e non sindacabile, facoltà di sospensione del processo, esercitabile dal giudice al di fuori dei casi tassativi di sospensione legale, che, ove ammessa, si porrebbe in insanabile contrasto sia con il principio di eguaglianza e della tutela giurisdizionale sia con il canone della durata ragionevole, che la legge deve assicurare nel quadro del giusto processo (S.U. 14670 del 2003, 23906/2010 22324/2014), deve ritenersi preclusa la configurazione di una nuova ipotesi di sospensione del processo non prevista espressamente da una norma del rito civile, nemmeno in via di analogia, come invece ritiene la decisione n. 23573/2013.
10.– Si deve quindi concludere che le norme di cui agli artt. 34, 35, 36, 40, 295 e 337 c.p.c., sia che la controversia sull’esistenza del controcredito sorga nel giudizio sul credito principale, sia che già penda dinanzi ad un giudice di pari grado o superiore, non rilevano sulla speciale disciplina delineata dall’art. 1243 c.c., comma 2, perchè le norme sulla competenza per accertare l’esistenza del controcredito sono estranee alla compensazione giudiziale, come da tempo risalente avvertito da questa Corte.
Con la decisione n. 4129 del 1956 si rilevò infatti che: “Se il convenuto chiede non soltanto il rigetto della domanda dell’attore per compensazione con un suo credito di ammontare superiore, ma anche la condanna dell’attore a pagargli la differenza, ricorre l’ipotesi dell’art. 36 c.p.c., di domanda riconvenzionale che dipende dal titolo che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione. In tal caso, poichè la compensazione giudiziale prevista dal secondo comma dell’art. 1243 c.c., è ammessa solo se sussiste la facile e pronta liquidazione del credito opposto, egli, coordinando gli artt. 35, 36 e 112 c.p.c., deve emettere condanna per il credito principale certo e liquido, rigettare l’eccezione di compensazione giudiziale, ed iniziare l’istruttoria per il controcredito, ove competente, ovvero rimettere la causa su di esso al giudice competente non potendo allo stato il controcredito operare come compensativo, avendo il convenuto chiesto per esso la condanna dell’attore. Quindi il giudice, operata la valutazione insindacabile e discrezionale di non liquidabilità facile e pronta del controcredito, e per tale ragione respinta l’eccezione di compensazione, deve provvedere sulla domanda riconvenzionale di condanna per il controcredito”.
11.- Queste Sezioni Unite, confermano, in conformità alle conclusioni del P.M., il consolidato orientamento di legittimità e ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, affermano i seguenti principi di diritto:
A) “Le norme del codice civile sulla compensazione stabiliscono i presupposti sostanziali, oggettivi, del credito opposto in compensazione: liquidità – che include il requisito della certezza – ed esigibilità. Verificata la ricorrenza dei predetti requisiti, il giudice dichiara l’estinzione del credito principale per compensazione – legale – a decorrere dalla coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda.
B) Se il credito opposto in compensazione è certo, ma non liquido, nel senso di non determinato, in tutto o in parte, nel suo ammontare, il giudice può provvedere alla relativa liquidazione se è facile e pronta; quindi, o può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale fino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, o può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione.
C) Se è controversa, nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale, o in altro giudizio già pendente, l’esistenza del controcredito opposto in compensazione (art. 35 c.p.c.) il giudice non può pronunciare la compensazione, nè legale nè giudiziale.
D) La compensazione giudiziale, di cui all’art. 1243 c.c., comma 2, presuppone l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la medesima compensazione è fatta valere, mentre non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo. In tale ipotesi, pertanto, resta esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale, e va parimenti esclusa l’invocabilità della sospensione contemplata in via generale dall’art. 295 c.p.c., o dall’art. 337 c.p.c., comma 2, in considerazione della prevalenza della disciplina speciale del citato art. 1243 c.c.“.
12.– Sussistono ragioni per compensare le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Le Sezioni Unite dichiarano inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, affermano i seguenti principi di diritto:
A) “Le norme del codice civile sulla compensazione stabiliscono i presupposti sostanziali, oggettivi, del credito opposto in compensazione: liquidità – che include il requisito della certezza – ed esigibilità. Verificata la ricorrenza dei predetti requisiti, il giudice dichiara l’estinzione del credito principale per compensazione – legale – a decorrere dalla coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda.
B) Se il credito opposto in compensazione è certo, ma non liquido, nel senso di non determinato, in tutto o in parte, nel suo ammontare, il giudice può provvedere alla relativa liquidazione se è facile e pronta; quindi, o può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale fino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, o può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione.
C) Se è controversa, nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale, o in altro giudizio già pendente, l’esistenza del controcredito opposto in compensazione (art. 35 cod. proc. civ.) il giudice non può pronunciare la compensazione, nè legale nè giudiziale.
D) La compensazione giudiziale, di cui all’art. 1243 c.c., comma 2, presuppone l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la medesima compensazione è fatta valere, mentre non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo. In tale ipotesi, pertanto, resta esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale, e va parimenti esclusa l’invocabilità della sospensione contemplata in via generale dall’art. 295 c.p.c., o dall’art. 337 c.p.c., comma 2, in considerazione della prevalenza della disciplina speciale del citato art. 1243 c.c.“.
Così deciso in Roma, il 08 marzo 2016.
Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2016.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 11 settembre 2015, n. 18001, per SS.UU, 15 novembre 2016, n. 23225, in tema di eccezione di compensazione
SS.UU, 15 novembre 2016, n. 23225, in tema di eccezione di compensazione
In tema di falsus procurator – SS.UU, 03 giugno 2015, n. 11377
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –
Dott. CICALA Mario – Presidente Sezione –
Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –
Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –
Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –
Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –
Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15678/2013 proposto da:
R.J., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA VESCOVIO 21, presso lo studio dell’Avvocato MANFEROCE TOMMASO, che la rappresenta e difende unitamente agli Avvocati CLAUDIO CONSOLO e SILVIO MALOSSINI, per delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro H Y P O VORARLBERG LEASING S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo studio dell’Avvocato SASSANI BRUNO NICOLA, che l a rappresenta e difende unitamente agli Avvocati CHRISTOPH SENONER e LUCA MAZZEO, per procura speciale alle liti con autenticazione di firma del notaio Dott. Luca Barchi di Bolzano, rep. 25473 del 30/04/2015;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 12/2013 della CORTE D’APPELLO di Trento – Sezione distaccata di BOLZANO, depositata il 26/01/2013;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/05/2015 dal Consigliere Dott. ALBERTO GIUSTI;
uditi gli Avvocati CLAUDIO CONSOLO, CHRISTOPH SENONER e BRUNO NICOLA SASSANI;
udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1 . – I rappresentanti di F.A. (cioè i suoi due figli, F.C. e Ch., muniti di procura del padre) e Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a. hanno concluso, con due distinti contratti del 21 dicembre 2002, una compravendita immobiliare.
Non tutto il prezzo dovuto dall’acquirente società ad F.A. è stato versato: una quota è andata a compensare posizioni debitorie direttamente riferibili al venditore; altra parte del prezzo (Euro 1.075.019,74) è stata trattenuta da Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a., i n accordo con i rappresentanti del venditore, a compensazione di crediti che la società vantava nei confronti di società di capitali terze riferibili allo stesso F.A..
Quest’ultimo ha contestato, anche a mezzo del proprio legale, la legittimità della compensazione, ha chiesto la restituzione degli importi indebitamente trattenuti da Hypo e ha denunciato l’invalidità della intervenuta transazione, così qualificando il patto collaterale alla vendita immobiliare.
Ritenendosi tuttora creditore per quella quota parte di prezzo non versata ed impiegata per l’estinzione di debiti ad esso non riferibili, F.A. ha quindi ceduto la propria (ritenuta intatta) posizione creditoria a R.J. con contratto dell’11 maggio 2007.
2. – Con citazione in data 25 settembre 2007, R.J. – in qualità di cessionaria dei crediti di F.A., in virtù del citato contratto dell’11 maggio 2007, notificato alla debitrice contestualmente alla citazione – ha evocato in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bolzano, Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a. (d’ora in poi anche Hypo), chiedendone la condanna al pagamento del corrispettivo residuo delle compravendite immobiliari del 21 dicembre 2002, non versato in quanto indebitamente compensato per Euro 1.075.019,74 con debiti di società terze e per Euro 38.964,31 per l’IVA dovuta relativamente ad un debito dello stesso F.A..
La convenuta, costituitasi in data 12 febbraio 2008, h a dedotto l’insussistenza dei crediti azionati, allegandone l’estinzione in virtù di un patto di compensazione stipulato con Fo.Cl. e C., in qualità di rappresentanti di F.A..
3. – Con sentenza in data 20 dicembre 2010, il Tribunale di Bolzano, premessa l’inefficacia dell’accordo compensativo collaterale alla compravendita immobiliare, in quanto stipulato dai rappresentanti di F.A. eccedendo i limiti della procura, ha accolto la domanda relativamente alla somma di Euro 1.075.019,74.
Quanto al debito IVA di Euro 38.964,31, il Tribunale ha rilevato che esso era proprio di F.A. e non delle sue società: il meccanismo d i estinzione per compensazione, in tal caso, poteva, perciò, operare a prescindere dal patto collaterale alla vendita stipulato dai suoi rappresentanti.
Il debitore, inoltre, era tenuto all’adempimento in forza di una sentenza di condanna: egli, dunque, non poteva sottrarsi al pagamento in favore della parte creditrice.
In ordine all’importo principale (1.075.019,74) della domanda di condanna, la sentenza è così motivata:
– Hypo ha sempre ammesso di avere effettivamente utilizzato parte del corrispettivo d i vendita per risanare posizioni in sofferenza non solo di F.A., venditore e controparte contrattuale nel negozio di vendita immobiliare, ma anche per estinguere debiti di Forti Trans s.r.l., Alpe Spedition s.r.l. e Nord Truck s.r.l., tutte società di autotrasporti di cui F.A. era a capo;
– detta ammissione, contenuta nella comparsa di costituzione di Hypo, provenendo dal soggetto obbligato al pagamento, è sufficiente per privare di valore la quietanza di avvenuto pagamento, contenuta nei due contratti di compravendita;
– la quietanza si regge sul presupposto di una compensazione ritenuta correttamente operata tra posizioni debitorie e creditorie facenti capo alle parti dell’accordo negoziale di compravendita, ma “stanti le stesse dichiarazioni di parte Hypo detta compensazione deve ritenersi corrispondere a realtà solo in parte”, giacchè l’obbligazione estinta per compensazione deve esistere in capo al soggetto compensante”; nel caso in esame, non è contestato che il denaro dovuto ad F. A. per la vendita di suoi immobili sia stato dall’acquirente Hypo utilizzato non solo per l’estinzione di debiti del F., ma anche per estinguere debiti delle società a r.l. Forti Trans, Alpe Spedition e Nord Truck, soggetti giuridici diversi con autonomia patrimoniale propria distinta da quella del F.;
– del pari non è contestato che il F. non era obbligato in proprio, quale persona fisica, ad estinguere debiti societari, non risultando che lui avesse prestato fideiussione o garanzia alcuna in favore delle società partecipate, nè che si fosse accollato i debiti delle dette società;
– l’operazione compiuta dai procuratori speciali di F.A. può essere inquadrata non solo “nel negozio traslativo degli immobili già di proprietà di F.A. a Hypo, con incasso di una parte del prezzo a mezzo della compensazione con posizioni debitorie di F.A. nei confronti dell’acquirente”, ma anche “in un secondo accordo negoziale di rinuncia, da parte del venditore F.A., all’incasso della parte residua del prezzo, rinuncia questa attuata in favore dei terzi Forti Trans, Alpe Spedition e Nord Truck, a loro volta debitori di Hypo”;
– “sostiene la convenuta Hypo che i procuratori speciali di F. A. fossero muniti dei necessari poteri per attuare l’accordo negoziale di cui sopra e del quale vuole avvalersi. In atti, tuttavia, le procure notarili richiamate negli atti di vendita … non sono allegate, sicchè al Tribunale è preclusa la verifica dei poteri conferiti dal titolare del diritto ai procuratori speciali. Pacifico è che questi fossero muniti del potere di compiere sia l’atto traslativo che le attività di esecuzione dello stesso, incluso l’incasso del prezzo pattuito a nome del rappresentato. Che però fossero da questo autorizzati a compiere anche l’ulteriore negozio abdicativo, con rinuncia all’incasso di parte del prezzo i n favore di soggetti terzi, non risulta dai contratti di vendita, n è da altro atto scritto”;
– “il difetto di rappresentanza o anche l’eccesso di rappresentanza determinano entrambi la non operatività, nel patrimonio del rappresentato, dell’atto compiuto dal falsus procurator”;
– nel caso in esame, in cui parte attrice nega che siano mai stati conferiti ai procuratori speciali “poteri ulteriori rispetto a quelli necessari per concludere il negozio traslativo”, “la prova dell’esistenza del potere a validamente compiere l’atto abdicativo, in favore dei soggetti terzi summenzionati, spetta a chi vuole avvalersi del negozio, quindi a Hypo. Tale onere di prova non è stato ad oggi assolto dalla odierna convenuta; non risulta quindi che i poteri rappresentativi conferiti da F.A. ai propri procuratori coprissero alcun pagamento di debito altrui e quindi la possibilità, per Hypo, di procedere alla compensazione come in effetti attuata”.
4. – La sentenza di primo grado è stata impugnata in data 25 gennaio 2011 da Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a., che ha denunciato, tra l’altro, la violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo il Tribunale sollevato d’ufficio l’eccezione d’inefficacia dell’accordo compensativo in conseguenza del superamento dei limiti del potere di rappresentanza, mentre l’attrice non aveva mai dedotto che i rappresentanti d i F.A. avevano concluso questo accordo eccedendo i limiti del potere di rappresenta loro conferito dal rappresentato, ma si era limitata a sostenerne l’inefficacia sul rilievo che F.A. non doveva rispondere personalmente dei debiti delle sue società, e l’invalidità perchè il patto aveva natura transattiva e non era rivestito di forma scritta.
Nel giudizio di appello R.J., costituitasi in data 13 aprile 2011, ha contestato la fondatezza dell’impugnazione e ha proposto appello incidentale relativamente al rigetto della domanda di pagamento di Euro 38.964,31.
5. – Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 26 gennaio 2013, la Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in accoglimento dell’appello principale ed in riforma dell’impugnata pronuncia, ha rigettato la domanda, nonchè l’appello incidentale, e condannato l’attrice alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
5.1. – La Corte territoriale ha respinto innanzitutto il primo motivo di impugnazione della Hypo relativo alla legittimazione processuale della cessionaria, rilevando che, trattandosi “di far valere il diritto di credito di cui ha acquistato la titolarità”, la R. agisce “non quale sostituta processuale di F.A. al di fuori delle ipotesi normativamente previste”, ma “proprio per far valere un diritto che le appartiene in via esclusiva”.
Quanto alle altre censure dell’appellante principale, la Corte d’appello ha osservato che “la correttezza dell’osservazione circa il difetto di potere in capo ai rappresentanti di F.A. appare confermata anche alla luce della procura che Hypo ha prodotto nel presente grado d’appello”: “come si ricava dal dimesso documento del fascicolo di secondo grado dell’appellante, F.A. ha abilitato i suoi rappresentanti al compimento di atti di gestione del proprio patrimonio”, “non invece a porre in essere atti a titolo gratuito che ne provocassero il depauperamento”.
Tanto premesso, la Corte territoriale ha sottolineato che l’eccezione d’ inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator è riservata all’iniziativa di parte e non avrebbe potuto conseguentemente essere rilevata d’ufficio dal primo giudice.
Ha precisato in particolare la Sezione distaccata di Bolzano della Corte d’appello: “I rappresentanti di F.A., evidentemente previo accollo in capo al rappresentato dei debiti delle sue società, hanno accettato di portarli in detrazione al credito per il prezzo della vendita immobiliare. Poichè, dunque, l’effetto estintivo è stato ottenuto mediante un’attività negoziale posta in essere da falsi procuratores, essa è da ritenersi inefficace sino a quando il dominus decida definitivamente di ratificarla. Tale inefficacia è, tuttavia, deducibile solo con eccezione di parte. La quale, però, nel caso di specie non è stata sollevata dalla cessionaria del credito R.J.. Essa, infatti, si è limitata a dedurre che dei debiti societari F.A. non doveva rispondere personalmente. Ha poi soggiunto che l’accordo concluso dai suoi rappresentanti aveva natura transattiva ed era invalido, perchè privo di forma scritta”.
Infine, la Sezione distaccata di Bolzano ha rigettato l’appello incidentale della R. relativamente al mancato saldo del prezzo di acquisto degli immobili per l’ulteriore importo di Euro 38.964,31, pari al credito per rimborso IVA che la compratrice assumeva di vantare nei confronti del venditore in proprio e non nei confronti delle sue società.
6. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello R.J. ha proposto ricorso, con atto notificato il 13 giugno 2013, deducendo la violazione dell’art. 112 c.p.c.: in via principale per la qualifica di eccezione in senso stretto, anzichè in senso lato, e per il conseguente omesso rilievo d’ufficio dell’inefficacia del patto di compensazione, con accollo di debiti altrui, stipulato dai falsi rappresentanti; ed in via subordinata per l’omessa pronuncia, neppure i n punto di tardività, su detta eccezione, svolta dalla deducente nella comparsa di costituzione in appello.
In particolare, ad avviso della ricorrente, l’eccezione de qua, non essendo riservata dalla legge alla parte e non corrispondendo all’esercizio di un diritto potestativo, implicito solo nell’esercizio del potere di ratifica e, quindi, non nella negazione ma nell’attribuzione di efficacia al contratto, dovrebbe includersi nel novero delle eccezioni in senso lato, alla luce della giurisprudenza di legittimità più recente.
Tale conclusione – si sostiene – non contrasterebbe con il riconoscimento della legittimazione a far valere la temporanea inefficacia del contratto concluso solo in capo allo pseudo rappresentato (e non al terzo contraente), essendo detta legittimazione fondata, non già sulla natura di eccezione in senso stretto, ma sul fatto che tutte le volte che il falsamente rappresentato agisca dando vigore al contratto tale suo agire nel processo configura ratifica (pur se tacita).
La società Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a. ha resistito con controricorso, insistendo sulla configurazione dell’inefficacia del contratto per mancanza di poteri rappresentativi come eccezione in senso stretto, in considerazione del suo collegamento con il potere di ratifica attribuito al falsus procurator, di cui sarebbe precluso l’esercizio con il rilievo d’ufficio del giudice, ed in ogni caso negando, da un lato, l’asserita violazione dei limiti della procura da parte dei rappresentanti di F.A. e, dall’altro, la legittimazione della cessionaria del credito a formulare l’eccezione in esame.
Fissata l’udienza dinanzi alla Seconda Sezione civile, la ricorrente ha replicato alle deduzioni della controricorrente con la memoria ex art. 378 c.p.c., depositata il 3 giugno 2014.
7. – La Seconda Sezione civile, con ordinanza interlocutoria 27 giugno 2014, n. 14688, ha rimesso gli atti al primo presidente della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, sulla questione di massima di particolare importanza se l’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator sia rilevabile d’ufficio o solo su eccezione di parte.
L’ordinanza di rimessione ritiene il consolidato orientamento della giurisprudenza d i legittimità – secondo cui l’inefficacia (temporanea) del contratto concluso dal falsus procurator non è rilevabile d’ufficio, ma solo su eccezione del falso rappresentato, e conseguentemente non è proponibile per la prima volta in appello – non adeguatamente giustificato, alla luce dell’inesistenza del vincolo giuridico (inesistenza confermata dalla possibilità di ratifica e di actio interrogatoria), e potenzialmente confliggente con altri arresti giurisprudenziali (tra cui Sez. 2^, 23 marzo 1977, n. 1141, secondo cui il giudice del merito può rilevare d’ufficio, in base alle prove esistenti nel processo, la mancata conclusione del contratto per difetto d’incontro dei reciproci consensi, trattandosi della verifica dell’inesistenza di un elemento del diritto dedotto in giudizio e non dell’accertamento di un controdiritto, materia di eccezione in senso proprio).
8. – Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
Acquisita la relazione dell’Ufficio del massimario, e depositate da entrambe le parti memorie illustrative, il ricorso è stato discusso all’udienza pubblica del 12 maggio 2015.
Motivi della decisione
1 . – La questione di massima di particolare importanza rimessa all’esame delle Sezioni Unite è se la deduzione della inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator costituisca materia di eccezione in senso stretto, che come tale può essere sollevata solo dal falsamente rappresentato ed esclusivamente nella fase iniziale del processo di primo grado, o sia una eccezione in senso lato, dunque non solo rilevabile d’ufficio ma proponibile dalle parti per tutto il corso del giudizio di primo grado e finanche per la prima volta in appello.
2. – Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’inefficacia del contratto concluso dal rappresentante senza poteri o eccedendo i limiti dei poteri conferitigli non può rilevarsi d’ufficio ma solo su eccezione di parte, ed essendo volta a tutelare il falso rappresentato può essere fatta valere solo da quest’ultimo (o dai suoi eredi), mentre non è invocabile dal terzo contraente, il quale, ai sensi dell’art. 1398 c.c., può unicamente chiedere al falsus procurator il risarcimento dei danni sofferti per avere confidato senza propria colpa nell’operatività del contratto.
Questo principio di diritto ha dato vita ad un orientamento uniforme e consolidato nel tempo (Sez. 2^, 23 gennaio 1980, n. 570; Sez. 2^, 8 luglio 1983, n. 4601; Sez. 1^, 29 marzo 1991, n. 3435; Sez. 3^, 8 luglio 1993, n. 7501; Sez. 1^, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. 2^, 10 maggio 1999, n. 11396; Sez. 2^, 29 ottobre 1999, n. 12144; Sez. 1^, 13 dicembre 1999, n. 13954; Sez. 2^, 15 gennaio 2000, n. 410; Sez. 3^, 9 febbraio 2000, n. 1443; Sez. 3^, 26 febbraio 2004, n. 3872; Sez. 1^, 30 marzo 2005, n. 6711; Sez. 2^, 7 febbraio 2008, n. 2860; Sez. 2^, 17 giugno 2010, n. 14618; Sez. 3^, 20 giugno 2011, n. 13480; Sez. 2^, 26 luglio 2011, n. 16317; Sez. 2^, 24 ottobre 2013, n. 24133; Sez. Lav., 23 maggio 2014, n. 11582).
La conseguenza di tale indirizzo giurisprudenziale è che dell’inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator il giudice non può tenere conto se, pur emergendo dagli atti di causa il difetto del potere rappresentativo e la mancanza della intervenuta ratifica, lo pseudo rappresentato non solleva questa eccezione, o la solleva in ritardo rispetto al momento in cui avrebbe dovuto farlo.
Il fondamento dell’inquadramento dell’eccezione di inefficacia del contratto tra le eccezioni in senso stretto viene fatto risiedere:
(a) nella circostanza che, non vertendosi in ipotesi di nullità, non soccorre la regola dettata dall’art. 1421 c.c.;
(b) nel rilievo che si è di fronte ad una inefficacia asimmetrica (il terzo contraente è vincolato, mentre il falsamente rappresentato non lo è), e che l’improduttività di effetti è rivolta alla protezione della sfera giuridica della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito.
3. – La dottrina generalmente approva la soluzione della giurisprudenza.
Talora si sottolinea che l’inefficacia del contratto tutela il falso rappresentato: per questo può farsi valere solo da lui; non può rilevarsi d’ufficio; tanto meno può invocarsi dal terzo contraente, il quale è vincolato dal contratto.
Talaltra si rileva che, nella prospettiva normativa, il dominus si pone come arbitro delle sorti della fattispecie, in positivo e in negativo, potendo sia ratificare il negozio o farne al contrario dichiarare la definitiva inidoneità operativa: a differenza dell’eccezione di nullità, che si colloca in una dimensione statica, l’eccezione dello pseudo rappresentato si inserisce in una vicenda instabile e fluida, perchè l’assenza del vincolo è recuperabile ad libitum dell’interessato.
Ancora, si associa la natura in senso stretto dell’eccezione al fatto che la legittimazione ad agire per far valere l’inefficacia del contratto spetta soltanto allo pseudo rappresentato.
3.1. – Questo indirizzo interpretativo, che riconduce l’inefficacia del contratto nei confronti della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito nel novero delle eccezioni riservate alla disponibilità dell’interessato, è stato messo, di recente, in discussione da alcune voci dottrinali, che ne hanno evidenziato la non coerenza con il criterio generale in tema di distinzione fra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato nel frattempo elaborato, con riguardo alle fattispecie estintive, modificative o impeditive, dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite, a partire dalla sentenza 3 febbraio 1998, n. 1099, fino alla ordinanza 7 maggio 2013, n. 10531, passando per la sentenza 27 luglio 2005, n. 15661.
In base a tale criterio distintivo, di norma, tutti i fatti estintivi, modificativi od impeditivi, siano essi fatti semplici oppure fatti-diritti che potrebbero essere oggetto di accertamento in un autonomo giudizio, sono rilevabili d’ufficio, e dunque rappresentano eccezioni in senso lato; l’ambito della rilevabilità a istanza di parte (eccezioni in senso stretto) è confinato a i casi specificamente previsti dalla legge o a quelli in cui l’effetto estintivo, impeditivo o modificativo si ricollega all’esercizio di un diritto potestativo oppure si coordina con una fattispecie che potrebbe dar luogo all’esercizio di un’autonoma azione costitutiva.
Muovendosi in questa prospettiva – e premesso che per far valere il fatto impeditivo costituito dalla non operatività, per la sfera giuridica dello pseudo rappresentato, del contratto concluso dal rappresentante in carenza o in eccesso di potere rappresentativo, la legge non prevede espressamente l’indispensabile iniziativa della parte – una parte della dottrina ha appunto contestato che l’eccezione di inefficacia corrisponda all’esercizio di un potere costitutivo dello pseudo rappresentato.
Al riguardo si è rilevato che:
– (a) il codice civile non ha costruito la figura del contratto concluso dal rappresentante senza procura o travalicando i limiti della procura come una fattispecie temporaneamente vincolante anche per lo pseudo rappresentato, dotata quindi di un’efficacia precaria che questi possa rimuovere soltanto attraverso un recesso o un rifiuto eliminativo ovvero mediante l’esercizio, nel processo, con la proposizione dell’eccezione ad esso riservata, di un potere conformativo di scioglimento;
– (b) si è invece di fronte ad una non vincolatività che consegue automaticamente al difetto di legittimazione rappresentativa dello stipulante, secondo lo schema norma-fatto-effetto, e che non abbisogna, per dispiegarsi, dell’intermediazione necessaria dell’esercizio di un potere sostanziale rimesso al falsus dominus;
– (c) affinchè lo stato originario di inefficacia resti immutato, e sia riscontrabile dal giudice, non è richiesta allo pseudo rappresentato alcuna iniziativa: egli non deve esercitare alcun diritto potestativo per liberarsi da un contratto che è già, per lui, privo di ogni effetto;
– (d) il legislatore ha sì previsto, in capo al falsamente rappresentato, la titolarità, esclusiva e riservata, di un diritto potestativo: ma questo diritto è quello di imputarsi il contratto realizzando, attraverso la ratifica, la condizione esterna di efficacia dello stesso, non quello di sciogliersi dal vincolo.
Si è inoltre evidenziato che se l’eccezione di inefficacia del contratto è sottratta al rilievo officioso, pur quando la carenza o l’eccesso di potere di chi ha agito come rappresentante emerga ex actis, e la parte interessata, in ragione di una preclusione processuale, non possa più sollevarla in appello, il risultato che si otterrebbe è la ratifica tacita retta dal principio dell’imputet sibi, indipendentemente dall’effettiva ravvisabilità di comportamenti o atti, da parte dello pseudo rappresentato, che implichino necessariamente la volontà di ritenere per sè efficace quel contratto o che, comunque, siano incompatibili con il suo rifiuto.
Ma si tratterebbe – si è fatto notare – di un risultato contrario al diritto sostanziale.
Se si attribuisse valore di una ratifica al silenzio mantenuto, rispetto alla domanda giudiziale, dall’interessato che sia rimasto contumace o abbia adottato una strategia processuale che non necessariamente sottende la volontà di fare proprio il contratto rappresentativo, ciò significherebbe, per un verso, far discendere da un comportamento processuale un effetto diametralmente opposto a quello che si sarebbe avuto con l’interpello ai sensi dell’art. 1399 c.c., comma 4, e, per l’altro verso, ricollegare un effetto appropriativo del negozio, con la conseguente instaurazione di una situazione nuova, alla mancata risposta all’invito a difendersi, quando sul piano sostanziale il silenzio del dominus rispetto all’invito proveniente dal terzo contraente ha valore di negazione della ratifica dell’operato del falso rappresentante.
4. – La necessità di interrogarsi se, nella dinamica del processo, la inefficacia, nei confronti del dominus, del contratto concluso dal falsus procurator, costituisca una eccezione in senso lato o una eccezione in senso stretto, sorge ove si muova dalla premessa che la mancanza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui rappresenti un fatto impeditivo della pretesa azionata in giudizio dal terzo contraente.
Solo in tale prospettiva, infatti, si pone il problema se basti, al fine di far scattare la possibilità, per il giudice, di porlo a base della decisione, il presupposto minimo che detto fatto impeditivo risulti dagli atti legittimamente acquisiti in causa; o se occorra anche l’espressa e tempestiva istanza dello pseudo rappresentato affinchè gli effetti sostanziali del fatto impeditivo, ove riscontrato esistente sul piano sostanziale, possano essere utilizzati dal giudice come motivo di rigetto della domanda dell’attore.
5. – Ad avviso del Collegio, in tema di rappresentanza volontaria, la sussistenza del potere rappresentativo, con l’osservanza dei suoi limiti, costituisce una circostanza che ha la funzione specifica di rendere possibile che il contratto concluso dal rappresentante in nome del rappresentato produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato: come tale, essa è ricompresa nel nucleo della fattispecie posta a base della pretesa e integra un elemento costitutivo della domanda che il terzo contraente intenda esercitare nei confronti del rappresentato.
Quando si tratta di stabilire, non già semplicemente se il contratto s i sia perfezionato, ma se esso produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato, la situazione fenomenica assunta nello schema astratto della disciplina legale pone la legittimazione rappresentativa, accanto allo scambio dei consensi e alla spendita del nome altrui, come elemento strutturale e come ragione dell’operatività, per la sfera giuridica del rappresentato, del vincolo e degli effetti che da esso derivano.
E‘ noto che il fatto impeditivo si identifica con la mancanza di un presupposto di efficacia, che interrompe il normale ciclo del fenomeno giuridico: collocandosi in una posizione diaframmatica tra il momento della rilevanza e quello della efficacia, il fatto impeditivo, in quanto portatore di un interesse antitetico e prevalente rispetto a quello rappresentato dal fatto inibito, neutralizza, con la propria azione, l’operatività di una fattispecie già completa, impedendole, così, di liberare gli effetti cui avrebbe dato altrimenti luogo.
Ad avviso del Collegio, il terzo contraente che deduce in giudizio un contratto stipulato con il rappresentante per ottenere il riconoscimento e la tutela, nei confronti del rappresentato, di diritti che da quel contratto derivano, pone a fondamento della propria pretesa, non solo (a) gli elementi che l’art. 1325 c.c., richiede per il perfezionamento del contratto, ma anche (b) che detto contratto è stato concluso da un soggetto, il rappresentante, autorizzato dal rappresentato a stipulare in suo nome, o (b1) che lo pseudo rappresentato, attraverso la ratifica, ha attribuito ex post al falso rappresentante quella legittimazione a contrarre per lui, che gli mancava al tempo del contratto. Dunque, la presenza di quel potere rappresentativo (o la ratifica da parte dell’interessato) si pone come fatto costitutivo rilevante, come nucleo centrale del fenomeno giuridico di investitura specificamente considerato, in quanto coelemento di struttura previsto in funzione della regola di dispiegamento degli effetti negoziali diretti nei confronti del rappresentato.
5.1. – E’ il contesto di diritto sostanziale di riferimento, per come ricostruito dalla dottrina e declinato nelle regole applicative dagli orientamenti giurisprudenziali, che induce a questa soluzione.
Ai sensi dell’art. 1388 cod. civ., infatti, il contratto concluso dal rappresentante in nome del rappresentato produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato solo se concluso nei limiti delle facoltà conferite al rappresentante.
La legge condiziona dunque la verificazione dell’effetto negoziale diretto nei confronti del rappresentato alla sussistenza della legittimazione rappresentativa in capo al rappresentante.
Il contratto, già perfezionato nei suoi elementi essenziali, è pertinente al rappresentato soltanto se questi ha autorizzato che lo si stipulasse in suo nome.
Invece il negozio concluso da chi agisce come rappresentante senza essere tale oppure da chi, pur essendo titolare del potere rappresentativo, ne abbia ecceduto i limiti, non impegna la sfera giuridica del preteso rappresentato, cioè della persona il cui nome è stato illegittimamente speso.
Il contratto stipulato in difetto o in eccesso di rappresentanza non vincola il falsamente rappresentato verso il terzo, perchè chi ha agito non aveva il potere di farlo.
Si tratta di un contratto – non nullo e neppure annullabile – ma inefficace in assenza di ratifica (Sez. 2^, 15 dicembre 1984, n. 6584; Sez. 1^, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. 2^, 11 ottobre 1999, n. 11396; Sez. 2^, 7 febbraio 2008, n . 2860): il negozio stipulato, in rappresentanza di altri, da chi non aveva il relativo potere, è privo di ogni efficacia come tale, potendo acquistarla soltanto in seguito all’eventuale ratifica da parte dell’interessato (Sez. 2^, 26 novembre 2001, n. 14944).
Il terzo contraente, pertanto, non ha titolo per esercitare nei confronti dello pseudo rappresentato l’azione di inadempimento (Sez. 1^, 29 agosto 1995, n . 9061) nè quella per l’esecuzione del contratto (Sez. 3^, 23 marzo 1998, n. 3076).
Talvolta si afferma anche che l’inefficacia (temporanea) discende dal fatto che il contratto concluso dal falsus procurator costituisce una fattispecie soggettivamente complessa o a formazione progressiva, un negozio in itinere o in stato di pendenza, destinato a perfezionarsi con la ratifica del dominus (Sez. 2^, 8 luglio 1983, n. 4601; Sez. 2^, 17 giugno 2010, n. 14618).
Ove la spendita del nome non trovi giustificazione nel potere di rappresentanza (si legge in Sez. 1^, 9 dicembre 1976, n. 4581) “il negozio non si può ritenere concluso nè dal sostituto nè dal sostituito ed è perciò improduttivo degli effetti suoi propri, configurando … una fattispecie negoziale in itinere, al cui perfezionamento è necessario, ai sensi dell’art. 1399 c.c., l’ulteriore elemento della ratifica, solo in conseguenza della quale il regolamento diventa retroattivamente impegnativo anche per il dominus”; “il contratto – medio tempore, cioè tra il momento della conclusione e quello della ratifica – è in stato di quiescenza” (Sez. 1^, 24 giugno 1969, n. 2267).
5.1.1. – D’altra parte, quando si pone sul terreno dell’applicazione della regola dell’onere della prova, la giurisprudenza di questa Corte non esita a collocare il potere rappresentativo tra gli elementi della fattispecie costitutiva.
Si afferma, infatti, che, poichè il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato produce, a norma dell’art. 1388 cod. civ., direttamente i suoi effetti nei confronti di quest’ultimo solo in quanto il rappresentante abbia agito nei limiti delle facoltà conferitegli, ove il rappresentato neghi di avere rilasciato l’invocata procura, spetta al terzo che ha contrattato con il rappresentante l’onere di provare l’esistenza e i limiti della procura (Sez. 3^, 10 ottobre 1963, n. 2694; Sez. 3^, 7 gennaio 1964, n. 13; Sez. 1^, 13 dicembre 1966, n. 2898; Sez. 3^, 26 ottobre 1968, n. 3598; Sez. 3^, 30 maggio 1969, n. 1935; Sez. 3^, 8 febbraio 1974, n. 372; Sez. 3^, 25 novembre 1976, n. 4460; Sez. Lav., 29 luglio 1978, n. 3788).
6. – La deduzione della inefficacia del contratto stipulato in suo nome da un rappresentante senza poteri rappresenta, pertanto, non una eccezione, ma mera difesa, con la quale il convenuto non estende l’oggetto del processo al di là del diritto fatto valere dall’attore, nè allarga l’insieme dei fatti rilevanti allegati al giudizio.
6.1. – Trattandosi di mera difesa, varranno le seguenti regole processuali:
– (a) in linea di principio, per la formulazione di tale deduzione difensiva il codice di procedura civile non prevede alcuna specifica limitazione temporale (cfr. Sez. 3^, 16 luglio 2002, n. 10280; Sez. lav., 9 ottobre 2007, n. 21073; Sez. 3^, 17 maggio 2011, n. 10811; Sez. lav., 16 novembre 2012, n. 20157; Sez. 3^, 12 novembre 2013, n. 25415);
– (b) peraltro, la circostanza che l’interessato, costituito nel processo, ometta di prendere posizione circa la sussistenza del potere rappresentativo allegato dall’avversario a sostegno della propria domanda, o comunque ometta di contestare specificamente tale fatto, costituisce un comportamento processuale significativo e rilevante sul piano della prova del fatto medesimo, determinando, in applicazione del principio di non contestazione (per cui v., ora, l’art. 115 c.p.c., comma 1), una relevatio ab onere probandi;
– (b1) poichè la non contestazione è un comportamento processualmente significativo se riferito a un fatto da accertare nel processo e non alla determinazione della sua dimensione giuridica (cfr. Sez. Un., 23 gennaio 2002, n. 761), il difetto di specifica contestazione non spiega alcuna rilevanza quando la mancanza del potere rappresentativo dipenda, ad esempio, dalla nullità della procura, per difetto di forma prescritta per la sua validità;
– (b2) il mero difetto di contestazione specifica, ove rilevante, non impone in ogni caso al giudice un vincolo assoluto (per così dire, di piena conformazione), obbligandolo a considerare definitivamente come provata (e quindi come positivamente accertata in giudizio) la legittimazione rappresentativa non contestata, in quanto il giudice può sempre rilevare l’inesistenza del fatto allegato da una parte anche se non contestato dall’altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (cfr. Sez. lav., 6 dicembre 2004, n. 22829; Sez. lav., 8 agosto 2006, n. 17947; Sez. lav., 10 luglio 2009, n. 16201; Sez. lav., 4 aprile 2012, n. 5363);
– (c) allorchè la mancanza del potere rappresentativo sia acquisita agli atti, di essa il giudice può tenere conto anche in assenza di una specifica deduzione della parte interessata, giacchè la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda deve essere esaminata e verificata dal giudice anche d’ufficio (cfr. Sez. 1^, 5 agosto 1948, n. 1390; Sez. 2^, 15 febbraio 2002, n. 2214; Sez. 3^, 28 giugno 2010, n. 15375);
7. – Se poi sia lo pseudo rappresentato ad agire in giudizio con una domanda che presuppone l’efficacia del contratto concluso in suo nome dal rappresentante senza poteri (ad esempio, al fine di ottenere la condanna del terzo ad adempiere o la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte), certamente nè il terzo potrà difendersi opponendo la carenza del potere di rappresentanza, nè vi sarà spazio per un rilievo officioso di quella carenza di legittimazione.
Lo stesso superamento delle ragioni per una rilevabilità d a parte del giudice si avrà se lo stesso pseudo rappresentato, questa volta convenuto in giudizio, si difenda nel merito tenendo un comportamento da cui risulti in maniera chiara e univoca la volontà di fare proprio il contratto concluso in suo nome e conto dal falsus procurator (cfr. Sez. 2^, 15 novembre 1994, n. 9638; Sez. 1^, 8 aprile 2004, n. 6937).
Nell’uno e nell’altro caso, questo dipende dal fatto che il comportamento tenuto nel processo dal dominus opera anche sul terreno del diritto sostanziale, facendo venir meno, con la ratifica (pur se tacita), l’originaria carenza dei poteri di rappresentanza e, con essa, la non vincolatività, per la sfera giuridica della persona il cui nome è stato speso, del contratto stipulato dal falsus procurator.
8. – Conclusivamente, deve essere affermato il seguente principio di diritto: “Poichè la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base di detto negozio, non costituisce eccezione, e pertanto non ricade nelle preclusioni previste dagli artt. 167 e 345 c.p.c., la deduzione della inefficacia per lo pseudo rappresentato del contratto concluso dal falsus procurator; ne consegue che, ove il difetto di rappresentanza risulti dagli atti, di esso il giudice deve tener conto anche in mancanza di specifica richiesta della parte interessata, alla quale, a maggior ragione, non è preclusa la possibilità di far valere la mancanza del potere rappresentativo come mera difesa”.
9. – Sulla base dell’enunciato principio di diritto va esaminato il primo motivo del ricorso, con cui si denuncia la nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto che il difetto di potere in capo ai rappresentanti in ordine alla pattuita compensazione della posta debitoria di Euro 1.075.019,74, pari al prezzo residuo della compravendita immobiliare, non fosse rilevabile d’ufficio.
9.1. – Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha riconosciuto che l’effetto estintivo è stato ottenuto “mediante un’attività negoziale posta in essere da falsi procuratores”, giacchè dall’esame della procura emerge che i rappresentanti di F.A. non avevano il potere di accedere ad un accordo, collaterale ai contratti di vendita immobiliare, comportante la compensazione del prezzo della vendita con crediti che la società acquirente vantava nei confronti (non di F.A. ma) di società di capitali terze riferibili ad F.A.. D a ciò consegue l’inefficacia, ai sensi dell’art. 1398 c.c., del patto di compensazione collaterale ai contratti di compravendita immobiliare.
Ha tuttavia errato la Corte d’appello a ritenere che l’inefficacia del patto di compensazione fosse deducibile solo con eccezione di parte (non sollevata nella specie tempestivamente, nel rispetto delle ordinarie preclusioni processuali, dalla cessionaria R.).
Poichè la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha stipulato il contratto spendendo il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base di detto negozio, ben poteva il Tribunale, senza incorrere in extrapetizione, rilevare dalla documentazione risultante dagli atti la mancanza in capo ai procuratori speciali di poteri ulteriori rispetto a quelli necessari per concludere il negozio traslativo (“non risultando… che i poteri rappresentativi conferiti da F.A. ai propri procuratori coprissero alcun pagamento di debito altrui e quindi la possibilità, per Hypo Vorarlberg, di procedere alla compensazione come in effetti attuata”).
9.2. – La controricorrente Hypo ha dedotto ragioni di opposizione all’accoglimento del motivo di ricorso, deducendo:
(a) che la quietanza liberatoria apposta dai procuratori con la firma all’atto di compravendita era idonea a dare conferma dell’avvenuto pagamento del prezzo;
(b) che dall’esame della procura in atti si ricava “che i procuratori di F.A. erano senz’altro muniti dei necessari poteri per concludere un accordo negoziale di compensazione per una parte del prezzo di vendita”;
(c) che il Tribunale, omettendo di attivare il contraddittorio sulla eccezione sollevata d’ufficio, avrebbe “spiazzalo… la difesa della Hypo (ma forse della stessa difesa di controparte, la quale fino ad allora aveva semplicemente sostenuto che mancava la prova scritta della transazione conclusa, senza mettere mai in dubbio i poteri conferiti ai procuratori”);
(d) che “la cessionaria non è legittimata a sollevare questioni sui limiti dei poteri dei terzi, essendo estranea al rapporto che si era instaurato tra il rappresentato F.A. e i suoi procuratori generali F.C. e Cl.”.
Si tratta di profili che non possono trovare ingresso in questa sede.
Su alcuni di essi, infatti, vi sono altrettante statuizioni della Corte d’appello.
Infatti la sentenza impugnata:
ha escluso il valore confessorio delle quietanze (giacchè l’ammissione da parte di Hypo “di non aver saldato per intero il prezzo di acquisto degli immobili equivale ad aver controdichiarato che è solo apparente il relativo contenuto confessorio”);
ha convalidato, anche alla luce della procura prodotta da Hypo in sede di gravame, la conclusione circa il difetto di potere in capo ai rappresentanti di F.A.;
ha riconosciuto che la cessionaria ha “efficacemente acquistato il diritto di credito e con esso la legittimazione processuale ad agire per soddisfarlo”.
Rispetto a queste statuizioni la resistente non ha proposto alcun motivo di ricorso: non solo formalmente (l’atto notificato e depositato nel giudizio è denominato “controricorso” e conclude per il “rigetto” del ricorso proposto dalla controparte), ma nemmeno contestando la sentenza impugnata mediante l’articolazione di censure e l’individuazione delle norme che sarebbero state violate o falsamente applicate dal giudice d’appello.
Quanto, poi, al profilo della mancata sottoposizione al contraddittorio delle parti, da parte del Tribunale, della “eccezione”, rilevata d’ufficio, della carenza dei poteri dei rappresentanti, si tratta di questione ormai preclusa, ex art. 161 c.p.c., comma 1, perchè Hypo non ha svolto apposito motivo di appello per far valere la relativa violazione processuale ad opera del Tribunale; e si tratta, prima ancora, di deduzione che non ha ragion d’essere, posto che non è decisione “a sorpresa” il rilievo, da parte del giudice, della mancata prova di un elemento costitutivo del diritto azionato dalla parte.
9.2.1. – Nella memoria illustrativa, la difesa della controricorrente Hypo deduce ulteriormente che la cessionaria avrebbe “inequivocabilmente posto in essere un comportamento incompatibile con il disconoscimento della sua qualità d i destinatario degli effetti contrattuali” ed avrebbe “finito per esercitare il potere di ratificare, di esercitare cioè il proprio diritto potestativo di appropriarsi degli effetti del contratto rendendolo definitivamente efficace”.
Si tratta di rilievo non condivisibile.
Invero, di ratifica tacita può parlarsi solo ove l’atto o il comportamento, da cui risulti in maniera chiara la volontà di fare proprio il negozio concluso dal falsus procurator, provenga dall’interessato o dai suoi eredi (art. 1399 c.c., comma 1 e u.c., cod. civ.).
Nella specie, invece, il comportamento processuale a cui si vorrebbe dare rilevanza è quello del cessionario del credito derivato al cedente da un precedente contratto, quindi di un acquirente a titolo particolare dal dominus, al quale non spetta la facoltà di ratifica.
10. – Il ricorso contiene due ulteriori censure.
10.1. – Con il secondo motivo (nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c.) si censura nuovamente l’errata qualificazione della c.d. eccezione di inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator, in relazione, questa volta, all’appello incidentale svolto dalla R. con riferimento all’ulteriore importo della domanda di condanna pari a Euro 38.964,31, costituente l’IVA sull’importo di Euro 231.785,88.
10.1.1. – Il motivo è inammissibile.
Occorre rilevare che dalla sentenza impugnata si ricava che l’importo di Euro 38.964,31 corrisponde ad “un credito per rimborso IVA che la compratrice assumeva di vantare nei confronti del venditore in proprio e non nei confronti delle sue società”.
In sostanza – prosegue la sentenza – Hypo “ha pagato un corrispettivo, comprensivo di IVA, ad un terzo per una prestazione da lui resa. Ha, quindi, addebitato ad F.A. l’intero importo versato, IVA inclusa”.
Tanto premesso, la sentenza è giunta alla conclusione che, p e r questa posta, “l’effetto estintivo dell’obbligo di pagare il prezzo della vendita ha fonte in un duplice titolo”.
Per un verso, esso, secondo la Corte d’appello, rinviene il proprio fondamento “nella reciprocità di posizioni creditorie e debitorie tra F.A. e Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a.”.
Sotto questo profilo, i giudici del gravame hanno dato continuità alla ratio decidendi che sostiene la pronuncia del Tribunale: la quale – premesso che nella vicenda in esame Hypo è intervenuta rimborsando alla società Rigotti i costi di canalette per l’importo, risultante da una sentenza del Tribunale di Trento, di Euro 231.785,88 (IVA inclusa), e che per l’importo in questione la compensazione è stata operata “effettivamente tra debiti e crediti esistenti tra le stesse parti, quindi legittimamente” – ha rilevato che, essendo l’importo nel suo complesso determinato da titolo giudiziale tra la società Rigotti e F.A., esso era dovuto per intero, sicchè spettava a Rigotti inserire, nella contabilità IVA, la ricezione dell’importo e girarla non a F., ma alla competente amministrazione finanziaria.
Per l’altro verso, il titolo è rappresentato – prosegue la Corte d’appello – dal “patto compensativo collaterale alla vendita immobiliare. Sicchè per impedirlo è imprescindibile la declaratoria d’inefficacia del patto”, patto dalla cessionaria “infondatamente impugnato solo sotto il profilo del difetto della forma scritta che deve rivestire una transazione”.
Ora, con il motivo di ricorso la R. censura questa seconda ratio decidendi, lamentando che la Corte d’appello abbia affermato che l’accoglimento della domanda di condanna presuppone l’inefficacia del patto compensativo per carenza di poteri di rappresentanza, che non sarebbe rilevabile d’ufficio. Ma la ricorrente non muove alcuna doglianza con riferimento all’altra, e concorrente, ratio decidendi, relativa alla legittimità della compensazione in ragione della reciprocità di posizioni creditorie e debitorie tra il F. e Hypo.
Trova pertanto applicazione il principio secondo cui ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte e d autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto d i interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (Sez. lav., 11 febbraio 2011, n. 3386; Sez. Un., 29 marzo 2013, n. 7931).
10.2. – L’accoglimento del primo motivo e l’inammissibilità del secondo mezzo rendono assorbito l’esame del terzo motivo, con cui, denunciandosi la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, si lamenta l’omessa pronuncia della Corte d’appello sull’eccezione sollevata dalla R. a pag. 6 della sua comparsa di risposta con appello incidentale, relativa alla carenza di potere dei rappresentanti di F.A..
11. – La sentenza impugnata è cassata in relazione alla censura accolta.
11.1. – La causa non può essere decisa nel merito, essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto. Infatti, con l’atto di appello (ne dà conto la sentenza impugnata alle pagine 16 e 17) Hypo ha censurato la sentenza di primo grado perchè sul credito riconosciuto alla cessionaria sono stati attribuiti gli interessi dalla data della vendita immobiliare anzichè dalla data della successiva cessione, come stabilito dall’art. 1263 c.c., u.c..
L’esame di questo motivo di gravame è stato evidentemente ritenuto assorbito dalla Corte territoriale, la quale, avendo escluso (a causa della ravvisata extrapetizione) il diritto di credito al pagamento della somma capitale, non aveva ragione di occuparsi della decorrenza degli interessi.
La questione della decorrenza degli interessi torna invece di attualità per effetto dell’accoglimento del primo motivo dell’odierno ricorso per cassazione. Ma si tratta di questione il cui scrutinio deve essere rimesso alla Corte territoriale, occorrendo esaminare il negozio di cessione tra F. e R. al fine di stabilire se esso contenga il patto contrario alla disciplina sui frutti scaduti recata dall’art. 1263 c.c..
11.2 – Il giudice del rinvio – che si individua nella Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in diversa composizione – provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il secondo e assorbito l’esame del terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2015.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 27 giugno 2014, n. 14688, per SS.UU, 03 giugno 2015, n. 11377, in tema di falsus procurator
SS.UU, 03 giugno 2015, n. 11377, in tema di falsus procurator
In tema di responsabilità da custodia – SS.UU, 30 giugno 2022, n. 20943
Civile Ord. Sez. U Num. 20943 Anno 2022
Presidente: DI IASI CAMILLA
Relatore: CONTI ROBERTO GIOVANNI
Data pubblicazione: 30/06/2022
ORDINANZA
sul ricorso 24319-2020 proposto da:
EDISON S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE TRASTEVERE 209, presso lo studio dell’avvocato GENEROSO BLOISE, rappresentata e difesa dall’avvocato TROISE MANGONI WLADIMIRO;
– ricorrente –
contro
UNIPOLSAI ASSICURAZIONI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 22, presso lo studio dell’avvocato MARCO LORENZANI, rappresentata e difesa dall’avvocato MASSIMILIANO GHIGNONE;
CONSORZIO 1 TOSCANA NORD, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 18, presso lo STUDIO LEGALE LESSONA, rappresentato e difeso dall’avvocato VITTORIO CHIERRONI;
– controricorrenti –
BORGNA ANTONIO, BORGNA CLAUDIO, elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE B. BUOZZI 77, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO TORNABUONI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALFREDO BASSIONI;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
RUSCHI NOCETI CARLO, RUSCHI NOCETI FRANCESCO, RUSCHI NOCETI MARIA LUISA, DEL LUPO MARIA VITTORIA, elettivamente domiciliati in ROMA, LARGO MESSICO 7, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO TEDESCHINI, rappresentati e difesi dagli avvocati ROMEO VINCIGUERRA e DANIELE GRANARA;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
contro
EDISON S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE TRASTEVERE 209, presso lo studio dell’avvocato GENEROSO BLOISE, rappresentata e difesa dall’avvocato TROISE MANGONI WLADIMIRO;
CONSORZIO 1 TOSCANA NORD, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 18, presso lo STUDIO LEGALE LESSONA, rappresentato e difeso dall’avvocato VITTORIO CHIERRONI;
– controricorrenti all’incidentale
nonchè contro
AXA ASSICURAZIONI S.P.A., UNIPOLSAI ASSICURAZIONI S.P.A., GENERALI ITALIA S.P.A.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 61/2020 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE PUBBLICHE, depositata il 04/06/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/03/2022 dal Consigliere ROBERTO GIOVANNI CONTI.
FATTI DI CAUSA
Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria, sostenendo di aver subito danni alla loro proprietà per effetto dell’esondazione del fiume Teglia, avvenuta il 25 ottobre 2011, che aveva interessato i territori della Lunigiana e della Provincia de La Spezia, avevano adito il Trap presso la Corte di appello di Torino, chiedendo la condanna al risarcimento del danno nei confronti della società Edison spa che aveva manovrato la diga della Rocchetta, e dell’Unione dei comuni montani della Lunigiana (poi divenuta Consorzio 1 Toscana Nord), quale ente tenuto alla manutenzione dell’alveo del fiume anzidetto.
Disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti della Provincia di Massa Carrara, del Comune di Mulazzo, della regione Toscana, dell’Autorità di Bacino del fiume Magra, del Ministero delle infrastrutture e trasporti, di Borgna Claudio e Borgna Antonio, nonché delle società Generali spa, Unipol spa e Axa spa, il TRAP adito rigettava la domanda, ritenendo l’eccezionalità dell’evento.
Il Tribunale superiore delle acque pubbliche, con la sentenza n.61, pubblicata il 4 giugno 2020, in accoglimento dell’appello proposto da Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria ed in parziale riforma della sentenza impugnata condannava in solido la Edison spa, Borgna Antonio e Borgna Claudio al pagamento della somma di euro 126.340,34, maggiorata di rivalutazione e interessi, oltre al pagamento delle spese del giudizio, compensando le spese di lite fra il Consorzio e gli appellanti, nonché fra questi ultimi e le assicurazioni chiamate in causa.
Il TSAP, per quel che qui rileva, riteneva che: a) la domanda introduttiva del giudizio formulata dagli appellanti era riconducibile all’art. 2051 c.c., fondandosi sulla dedotta violazione degli obblighi di manutenzione, cura e gestione gravanti sia sul Consorzio 1 Toscana, con riguardo al fiume Teglia, sia su Edison, quale gestore della diga di Rocchetta, che su Borgna Antonio e Claudio, con riguardo al rilevato di loro proprietà; b) l’azione di responsabilità del custode prescindeva dal profilo del comportamento del custode, essendo estranea alla struttura della fattispecie normativa di cui all’art.2051 c.c., avendo il criterio di imputazione di tale responsabilità carattere obiettivo e richiedendo unicamente la dimostrazione, da arte dell’attore, del nesso di causalità tra la cosa in custodia e il danno, salva la prova liberatoria del caso fortuito, inteso come fattore escludente il nesso eziologico tra cosa e danno eventualmente ascrivibile anche alla vittima; c) la disciplina di cui all’art. 2051 c.c. si applica anche in tema di danni da custodia di beni demaniali, pur dovendosi precisare che la responsabilità del concessionario di tali beni viene meno con la prova del fortuito «…consistente non già nella dimostrazione dell’interruzione del nesso di causalità determinato da elementi esterni o dal fatto estraneo alla sfera di custodia…bensì anche dalla dimostrazione -in applicazione del principio di c.d. vicinanza della prova- di aver espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla funzione della cosa, in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo, di vigilanza e manutenzione su di esso gravanti in base a specifiche disposizioni normative e già del principio generale del neminem laedere, di modo che il sinistro appaia verificatosi per fatto non ascrivibile a sua colpa»; e ciò, proseguiva il TSAP, anche considerando che le dighe sono impianti che interagiscono con il territorio in modo rilevantissimo, sia dal punto di vista idraulico che ambientale e che i gestori sono tenuti ad un serie di adempimenti volti a garantire la sicurezza delle stesse, essendo inerenti al concetto di custodia di tali beni anche gli interventi tesi a neutralizzare gli elementi pericolosi non arginabili attraverso un’attività preventiva idonea ad evitare danni attinenti alla cosa in custodia; d) il danno lamentato dagli attori non era derivato dal mero evento meteorologico, essendo dovuto, come affermato dal CTU, al rilascio delle acque fluite a valle dalla diga della Rocchetta, nonché dall’impedimento dell’espansione del Teglia in sponda sinistra; e) il TRAP aveva erroneamente escluso che i bollettini regionali intervenuti nella giornata del 24 ottobre 2011 avessero rilievo per il gestore della diga con riguardo ai suoi specifici obblighi di custodia, da tali bollettini scaturendo invero, a carico del gestore, l’obbligo di attuare le prescrizioni contenute nel documento di protezione civile della diga, per cui soltanto il rispetto di tali obblighi avrebbe consentito di ritenere l’evento meteorologico quale caso fortuito idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra cosa in custodia e danno; f) dai bollettini regionali del 24 ottobre, secondo il TSAP, sarebbe stata possibile una valutazione ex ante di probabile criticità della quota di invaso, con conseguente onere del gestore di procedere secondo quanto previsto dal documento di protezione civile in ordine alle ipotesi di evento di piena significativo ed alle prescrizioni proprie della fase di preallerta vigilanza ordinaria e allerta vigilanza rinforzata -avviso tempestivo del Prefetto e dell’Ufficio periferico del servizio nazionale dighe competenti, comunicazioni successive ai Prefetti della prevista onda di piena, predisposizione piano di emergenza- capaci di salvaguardare la sicurezza dei territori interessati; h) lo stesso CTU aveva acclarato che già prima del black out temporaneo del 25 ottobre i dati relativi alla diga indicavano il prossimo superamento della quota massima di invaso e che ciò malgrado il gestore non aveva proceduto ad avvisare il Prefetto e l’Ufficio periferico del servizio nazionale dighe circa la possibile imminente apertura delle paratoie di superficie; i) andava dunque affermata la responsabilità della società Edison quale gestore della diga nella causazione dei danni, non essendo stata provata la speciale ed unica esimente del caso fortuito secondo i principi già espressi; l) anche il rilevato realizzato dei fratelli Borgna integrava una concausa nella produzione dei danni agli immobili degli appellanti, in base a quanto ritenuto dall’accertamento tecnico preventivo e dal CTU, in quanto aveva impedito l’espansione del fiume Teglia in sponda sinistra, risultando non decisivi gli elementi probatori offerti in primo grado dai predetti, nemmeno adeguatamente riproposti in sede di appello; m) non poteva per contro profilarsi una corresponsabilità del Consorzio 1 Toscana Nord poiché, anche in presenza di una capillare manutenzione ordinaria dell’alveo, non si sarebbe potuta escludere, in caso di piene significative, la fluitazione di tronchi provenienti da piante anche a distanza dell’alveo o comunque da zone esterne alla fascia di pertinenza fluviale; n) i danni subiti dai proprietari, in base alle valutazioni del CTU, andavano quantificati in euro 126.340,34 oltre rivalutazione ed interessi.
La Edison spa ha proposto ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 200 R.D. n.1775/1933, affidato a due motivi.
Borgna Claudio e Borgna Antonio si sono costituiti con controricorso e ricorso incidentale, affidato a due motivi.
Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria hanno depositato controricorso con ricorso incidentale, affidato ad un motivo.
Il Consorzio 1 Toscana Nord si è costituito con controricorso.
Lo stesso Consorzio 1 Toscana Nord e la Edison spa hanno proposto separati controricorsi al ricorso incidentale proposto da Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria.
La causa è stata posta in decisione all’udienza camerale dell’8.3.2022.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Con il primo motivo di ricorso principale la EDISON spa prospetta la violazione dell’art. 2051 c.c. e l’omessa motivazione delle risultanze istruttorie nonché dei fatti storici esaminati ed accertati dal C.T.U. Il TSAP, aderendo all’interpretazione della responsabilità da cose in custodia che richiede la prova del rispetto degli obblighi di diligenza in capo al custode, non avrebbe seguito l’indirizzo prevalente espresso da questa Corte, che qualifica la responsabilità del custode in termini di responsabilità oggettiva, elisa soltanto in caso di dimostrazione del caso fortuito, essendo estraneo alla natura dell’imputazione di cui all’art. 2051 c.c. il profilo del comportamento del responsabile. Secondo la ricorrente, peraltro, anche a volere condividere l’orientamento minoritario fatto proprio dal TSAP, il giudice di appello avrebbe tralasciato di considerare gli ulteriori accertamenti svolti dallo stesso CTU, idonei ad escludere ogni rilievo con riferimento all’omessa comunicazione al Prefetto ed all’Ufficio nazionale delle dighe rispetto alla causazione dei lamentati danni, in tal modo non considerando che tali comunicazioni non avrebbero potuto evitare il danno.
1.1.Secondo la ricorrente, inoltre, il TSAP avrebbe errato nel ritenere che il gestore fosse tenuto ad adempiere gli obblighi di comunicazione alle autorità pubbliche già in base ai bollettini diramati il 24 ottobre 2011. Non era stato, infatti, preso in considerazione quanto affermato dal CTU a proposito dell’insorgenza dell’obbligo informativo solo in prossimità del blackout verificatosi alle ore 16.15 del 25 ottobre 2011, mancando in precedenza l’esistenza di evenienze pluviometriche capaci di indurre a prevedere il picco catastrofico di piena verificatosi alle ore 17.00, caratterizzato da una portata con un tempo di ritorno millenario.
2.Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 2051 c.c., 40 e 41 c.p., nonché l’omessa valutazione delle risultanze istruttorie e dei fatti storici acclarati dal C.T.U. Il TSAP avrebbe travisato il senso delle conclusioni del CTU, laddove era stato affermato che la causa unica del danneggiamento era imputabile all’evento di piena del 25.10.2011. Tale passaggio argomentativo sarebbe stato tralasciato dal giudice di appello, al pari di quello successivo, nel quale era stato chiarito che la portata dell’acqua giunta a valle dalla diga durante la fase di apertura degli scarichi di superficie, quando si erano avuti i valori massimi di portata affluente alla diga, era stata sostanzialmente nulla. In definitiva, l’esito dell’istruttoria svolta in primo grado deporrebbe, secondo la ricorrente, nel senso di dover ritenere insussistente il nesso eziologico tra danno e cosa in custodia, con conseguente erroneità della pronunzia impugnata.
3.Borgna Claudio e Borgna Antonio, nel ricorso incidentale proposto e notificato in data 5 ottobre 2020 hanno dedotto, con il primo motivo, la violazione dell’art. 2051 c.c. Il TSAP avrebbe affermato la corresponsabilità dei predetti nella causazione dell’evento senza spiegarne le ragioni, visto che l’evento dannoso era derivato da un fatto meteorico di natura eccezionale e dalla negligente condotta del gestore della diga, rilevando, peraltro, che il terrapieno al quale si era riferito il TSAP era stato arretrato in esecuzione di una sentenza del Tribunale di Massa nell’ambito di un giudizio per danno temuto. Né essi proprietari avrebbero potuto fare alcunché nel lasso di tempo intercorso fra le previsioni emergenti dai bollettini e l’evento alluvionale.
4.Con il secondo motivo di ricorso incidentale i fratelli Borgna hanno dedotto la violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., sostenendo che il TSAP avrebbe affermato la responsabilità dei suddetti per l’evento dannoso, trascurando di verificare gli elementi probatori acquisiti al processo ed omettendo di considerare che nessun fatto materiale era stato provato in ordine al nesso causale.
5.Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria, con il loro controricorso, hanno dedotto l’inammissibilità del ricorso e l’infondatezza dei singoli motivi di ricorso proposti dalla società Edison, sostenendo che il ricorso sarebbe inammissibile in quanto : a) contenente la mescolanza di mezzi d’impugnazione eterogenei; b) privo del carattere dell’autosufficienza; c) tendente alla riedizione del giudizio di fatto operato dal TSAP; d) la sentenza impugnata sarebbe pienamente conforme alla giurisprudenza di questa Corte (art.360-bis n.1 c.p.c.).
5.1. I controricorrenti hanno poi dedotto l’infondatezza del primo motivo del ricorso principale, non avendo la Edison fornito la prova liberatoria a sé favorevole. Inoltre, secondo i controricorrenti il TSAP avrebbe espressamente riconosciuto che l’adempimento degli obblighi previsti dal documento di protezione civile avrebbe evitato i danni prodottisi, inoltre sostenendo l’inammissibilità del secondo motivo del ricorso principale, attenendo questo alla censura di un fatto.
5.2. I predetti Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria hanno poi dedotto la tardività del ricorso incidentale proposto dai fratelli Borgna, dovendosi applicare il termine di quarantacinque giorni dalla notifica della sentenza a cura della cancelleria ed avendo, per contro, essi controricorrenti ricevuto la notifica del ricorso incidentale soltanto il 5 ottobre 2020. Hanno poi dedotto l’inammissibilità del ricorso incidentale per violazione del principio di autosufficienza, lo stesso contenendo, inammissibilmente, una censura relativa alle valutazioni in fatto operate dal giudice di appello senza prospettare alcuna violazione di legge, nemmeno potendosi ritenere correttamente contestata la violazione dell’art. 2697 c.c. in quanto la doglianza censurava un apprezzamento sull’esito della prova, insindacabile in sede di legittimità al di fuori delle ipotesi di cui al n.5 dell’art. 360 c.p.c. Detti controricorrenti hanno ulteriormente prospettato l’inammissibilità del secondo motivo del ricorso principale per mescolanza di censure eterogenee di natura sostanziale e processuale, inoltre insistendo per l’infondatezza di entrambi i motivi.
6.Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria hanno poi proposto ricorso incidentale tardivo -essendo a loro dire insorto l’interesse dal ricorso principale avversario- affidato ad un motivo, censurando la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. Il TSAP avrebbe errato nel ritenere la genericità del rinvio alla consulenza tecnica di parte operato dai ricorrenti incidentali per la quantificazione dei danni, visto che in tale consulenza di parte erano state analiticamente contestate le quantificazioni dei danni operate per singola voce dal C.T.U.
7.Esaminando con priorità il ricorso principale della società Edison, sono anzitutto infondati i rilievi espressi dai controricorrenti Ruschi e Del Lupo in ordine all’inammissibilità dei due motivi di ricorso, ove si consideri che le censure dedotte nel primo motivo, ancorché inserite graficamente all’interno di un unico motivo, espongono in maniera chiara e sufficientemente precisa i due vizi prospettati dalla ricorrente ed i parametri normativi di riferimento -cfr., Cass. S.U., n.9100/2015-, l’uno correlato al ritenuto error iuris nel quale sarebbe incorso il TSAP per aver ritenuto la responsabilità della stessa sussumendola nell’ambito dell’art. 2051 c.c., e l’altro connesso all’omessa considerazione di parte degli elementi valutati dalla ctu, e dunque sussumibile nel vizio di cui al n.5 dell’art.360, c.1, c.p.c. Censure peraltro puntualmente indicate anche nella rubrica del primo motivo.
7.1. Parimenti infondata risulta la dedotta inammissibilità del primo motivo in relazione al n.5 dell’art. 360, c.1, c.p.c., pienamente ammissibile quanto alle sentenze rese dal TSAP, in sede di controllo innanzi alle Sezioni Unite, come già chiarito da Cass., S.U., n.28547/2008 e Cass., S.U., n.19881/2014.
7.2. Analogamente destituita di fondamento risulta la dedotta inammissibilità dei motivi per difetto di autosufficienza, contenendo gli stessi la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi su cui il ricorso si fonda.
7.3. Più delicata risulta la dedotta inammissibilità sotto il profilo della incensurabilità di accertamenti di fatto compiuti dal TSAP.
7.4. Ed invero, quanto alla prima censura esposta nel primo motivo di ricorso principale, la stessa più che sollecitare una diversa ponderazione dei fatti esaminati dal TSAP, prospetta l’errore in diritto dello stesso giudice per aver ritenuto sussistente la responsabilità di Edison sulla base di una interpretazione dei presupposti di cui all’art. 2051 c.c., a dire della ricorrente, errati.
7.5. La ricorrente principale, infatti, intende sollecitare una verifica in punto di non correttezza della ricostruzione in diritto operata dal TSAP per aver riconosciuto la responsabilità di EDISON pur in presenza della dimostrata eccezionalità dell’evento meteorico, valorizzando, a suo dire, erroneamente l’inosservanza di obblighi di diligenza del custode che non sarebbe pertinenti rispetto alle ipotesi della responsabilità da cose in custodia.
7.6. Parimenti infondato risulta il profilo di inammissibilità del ricorso principale in relazione all’art. 360-bis, n.1, c.p.c.
7.7. Ed invero, la prospettazione dalla quale prende le mosse la ricorrente principale muove dalla circostanza che il TSAP avrebbe fatto proprio un indirizzo giurisprudenziale minoritario espresso da questa Corte e nel dedurre ciò ha indicato l’indirizzo a suo dire prevalente in tema di art. 2051 c.c. con riferimento alla dimostrazione di ciò che è necessario dimostrare al custode per andare esente da responsabilità.
Tanto esclude in radice di poter ipotizzare l’ipotesi di inammissibilità fondata sulla violazione dell’art. 360-bis, n.1, c.p.c. che, al contrario, contempla il caso in cui il ricorso proposto si porrebbe in contrasto con un indirizzo consolidato della Cassazione che, anzi, è proprio la ricorrente a richiamare per sostenere l’errore nel quale sarebbe incorso il TSAP.
8. Ciò detto, passando all’esame del merito del primo motivo di ricorso principale, lo stesso è fondato nei termini di seguito precisati.
8.1. Ed invero, il TSAP, per giungere al riconoscimento della responsabilità del concessionario della diga, dopo aver riconosciuto il nesso di causalità fra il danno subito dalla proprietà dei signori Ruschi e Del Lupo e le acque provenienti dalla sovrastante diga, gestita da detta società, ha agganciato la responsabilità del concessionario della diga alla mancata dimostrazione del rispetto degli obblighi incombenti sullo stesso, in relazione alla ritenuta verificazione di uno stato di allerta-vigilanza rinforzata, evincibile sulla base dei bollettini del 24 ottobre 2011 che, secondo tale giudice, avrebbero dovuto determinare in capo al gestore l’attivazione degli obblighi di custodia come delineati nell’allegato 15 annesso alla CTU. Secondo il TSAP, infatti, solo la prova dell’assolvimento degli obblighi ivi previsti -comunicazione alle prefetture della prevista onda di piena- e non adempiuti né il 24 ottobre né il giorno successivo, già prima del blackout delle ore 16,36 che aveva temporaneamente impedito le comunicazioni, avrebbero integrato il caso fortuito idoneo ad interrompere il nesso causale.
8.2. Ora, a sostegno di tale conclusione il TSAP, in punto di responsabilità del custode in relazione al riversamento sul fondo degli attori delle acque provenienti dalla diga in custodia di Edison, ha evocato alcuni precedenti di questa Corte che, nella prospettiva della ricorrente, avrebbero configurato la responsabilità da cose in custodia in termini distonici rispetto all’orientamento prevalente nella giurisprudenza di questa Corte e favorevole alla ricostruzione in termini di responsabilità oggettiva del custode.
8.3. Occorre evidenziare che il cuore della decisione impugnata, nella parte in cui riconosce la responsabilità del concessionario della diga rispetto all’esondazione del fiume Teglia e ai danni cagionati alla proprietà dei Ruschi Noceti e Del Lupo, sta nel riconoscimento della circostanza che il danno per cui è causa non era conseguito al mero evento meteorologico -considerato di natura eccezionale dal TRAP, v.pag.14 2^ cpv. sent. impugnata-, ma anche dal rilascio dell’acqua dalla diga (per quel che riguarda la responsabilità di Edison) -pag.21, p.10, sent. impugnata-, tanto che per giungere a questa conclusione, il TSAP ha riconosciuto l’inosservanza da parte di Edison degli obblighi di custodia nascenti dai bollettini metereologici del 24 e del 25 ottobre 2011, ritenendo che solo la dimostrazione dell’osservanza di tali obblighi avrebbe giustificato l’esonero della responsabilità di Edison -cfr. pag.25, p.16 sent. impugnata, ove si afferma testualmente che “va affermata la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. dell’Edison spa quale gestore della diga, nella causazione dei danni in questione, non risultando dal custode provata la speciale ed unica esimente del caso fortuito secondo i principi di cui al punto 9.”-.
8.4. Si è visto come il TSAP sia giunto a tale esito interpretativo, richiamando alcuni precedenti di questa Corte, fra i quali quello di maggior rilievo risulta senz’altro essere Cass. n.2308/2007.
8.5. Con tale arresto la terza sezione di questa Corte ebbe ad enunciare, tra gli altri, il seguente principio di diritto:
«La disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ. si applica anche in tema di danni sofferti dagli utenti per la cattiva ed omessa manutenzione delle autostrade da parte dei concessionari, in ragione del particolare rapporto con la cosa che ad essi deriva dai poteri effettivi di disponibilità e controllo sulle medesime, salvo che dalla responsabilità presunta a loro carico i concessionari si liberino fornendo la prova del fortuito, consistente non già nella dimostrazione dell’interruzione del nesso di causalità determinato da elementi esterni o dal fatto estraneo alla sfera di custodia (ivi compreso il fatto del danneggiato o del terzo), bensì anche dalla dimostrazione – in applicazione del principio di c.d. vicinanza alla prova – di aver espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla funzione della cosa, in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo, di vigilanza e manutenzione su di essi gravanti in base a specifiche disposizioni normative e già del principio generale del “neminem laedere“, di modo che il sinistro appaia verificatosi per fatto non ascrivibile a sua colpa.»
8.6. Tale precedente, richiamando Cass. n.3651 del 20 febbraio 2006, ha sostenuto che, in materia di danni sofferti dagli utenti per la cattiva od omessa manutenzione delle strade (allora discutendosi di autostrade), pur essendo applicabile la disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ., il titolo di responsabilità ascrivibile all’ente titolare della strada o al relativo concessionario era da ricostruirsi in termini di responsabilità presunta con conseguente applicabilità del criterio di inversione dell’onere della prova. Ragion per cui incombe sul custode l’onere di liberarsi da tale responsabilità mediante l’assolvimento della prova liberatoria del fortuito, ovvero fornendo il riscontro che il danno si fosse verificato in modo imprevedibile e, comunque, non superabile con l’adeguata diligenza consona alle concrete circostanze del caso concreto.
8.7. Secondo Cass. n.3651/2006 «…l’art. 2051 cod. civ. determina infatti un’ipotesi (non già di responsabilità oggettiva bensì) caratterizzata da un criterio di inversione dell’onere della prova, ponendo (al secondo comma) a carico del custode la possibilità di liberarsi dalla responsabilità presunta a suo carico mediante la prova liberatoria del fortuito (c.d. responsabilità aggravata), dando cioè, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce cui fanno peraltro riscontro corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e diligenza (i quali impongono di adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto) nonché in ossequio al principio di c.d. vicinanza alla prova, la dimostrazione che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso. Il custode è cioè tenuto a provare la propria mancanza di colpa nella verificazione del sinistro – e non già la mancanza del nesso causale, il criterio di causalità essendo altro e diverso dal giudizio di diligenza (avere preso tutte le misure idonee) -, che si risolve sostanzialmente sul piano del raffronto tra lo sforzo diligente nel caso concreto dovuto e la condotta – caratterizzata da assenza di colpa – mantenuta. È allora sul piano del fortuito, quale esimente di responsabilità, che possono assumere rilievo (anche) i caratteri dell'”estensione” e dell'”uso diretto della cosa” da parte della collettività che, estranei alla “struttura” della fattispecie e pertanto non configurabili come presupposti di applicazione della disciplina ex art. 2051 cod. civ., possono valere ad escludere la presunzione di responsabilità ivi prevista ove il custode dimostri che l’evento dannoso presenta i caratteri dell’imprevedibilità e della inevitabilità non superabili con l’adeguata diligenza, come pure l’evitabilità del danno solamente con l’impiego di mezzi straordinari (e non già di entità meramente considerevole).»
8.8. Orbene, giova ricordare che detto indirizzo si poneva in contrasto con altro orientamento della medesima sezione terza di questa Corte, alla stregua del quale, ferma restando la configurabilità per i danni cagionati dai beni demaniali in effettiva custodia della P.A. (o dei suoi concessionari) della responsabilità di cui all’art. 2051 cod. civ., a quest’ultima viene riconosciuto un carattere non presunto ma oggettivo, di guisa che, ai fini della sua sussistenza, è sufficiente riscontrare l’esistenza del nesso causale tra il bene in custodia e la conseguenza dannosa, senza che assuma alcuna rilevanza la condotta del custode e l’osservanza o meno di uno specifico obbligo di vigilanza da parte sua, rimanendo la stessa esclusa solo nell’eventualità della verificazione del caso fortuito, ricollegabile, tuttavia, al profilo causale dell’evento in rapporto all’incidenza sul medesimo di un elemento esterno contraddistinto dagli elementi dell’oggettiva imprevedibilità ed inevitabilità -Cass. n.15383 del 6 luglio 2006-.
8.9. Analogamente Cass. n.20359 del 21 ottobre 2005 riteneva che «La responsabilità per i danni cagionati da una cosa in custodia, disciplinata dall’art. 2051 cod. civ., si fonda non su un comportamento od un’attività del custode, ma su una relazione intercorrente tra questi e la cosa dannosa; questa responsabilità, tuttavia, incorre in un limite, che risiede nell’intervento di un fattore, il caso fortuito, che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma ai modi con i quali si è verificato il danno. In altri termini, il convenuto, per liberarsi dell’obbligo risarcitorio, deve provare l’esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale e che, potendo consistere anche nel fatto di un terzo o dello stesso danneggiato, deve presentare i caratteri del fortuito e, quindi, dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità del fatto medesimo». In senso conforme si era ribadito che «…non rileva in sé la violazione dell’obbligo di custodire la cosa da parte del custode, la cui responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale dell’evento, riconducibile in tal caso non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno. Ne consegue che il vizio di costruzione della cosa in custodia, anche se ascrivibile al terzo costruttore, non esclude la responsabilità del custode nei confronti del terzo danneggiato, non costituendo caso fortuito, che interrompe il nesso eziologico, salva l’eventuale corresponsabilità del costruttore nei confronti del danneggiato e salva l’eventuale azione di rivalsa del danneggiante»- Cass. n.20317/2005 e Cass. n. 25243/2006-.
8.9. Ora, la diversità di indirizzi sulla conformazione della responsabilità del custode è peraltro proseguita anche nella giurisprudenza successiva determinando, alla fine, la presa di posizione della terza sezione civile che, con due sentenze rese in data 1 febbraio 2018, nn.2480 e 2481, ha affermato i seguenti principi:
a) “l’art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima”;
b) “la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso”;
c) “il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere”;
d) “il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione anche ufficiosa dell’art. 1227 c.c., comma 1; e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost. Pertanto, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso comportamento, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale”.
8.10. Con specifico riferimento al tema che qui viene in rilievo e cioè quello della rilevanza, all’interno della responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., degli obblighi di diligenza incombenti in capo al custode e del loro rilievo ai fini dell’esonero della responsabilità, il precedente appena ricordato ha ritenuto di chiarire che “…prospettato e provato dal danneggiato il nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, la colpa o l’assenza di colpa del custode resta del tutto irrilevante ai fini della sua responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c.”.
8.11. Principi, quelli appena qui riassunti, che si sono stabilizzati nella giurisprudenza della terza sezione, per effetto di Cass. n.2477/2018 -coeva alle appena ricordate sentenze nn.2480 e la n. 2481-, come è agevole constatare attraverso le indagini ricostruttive, rilevanti ai fini che qui interessano, svolte da Cass. n.27724/2018 e, più recentemente, da Cass. n.4588/2022- in particolare a p.6 e relativi richiami.
9.Fatte le superiori premesse in diritto, reputano queste Sezioni Unite che la sentenza impugnata non si sia uniformata ai superiori principi espressi in funzione nomofilattica dalla terza sezione civile di questa Corte.
9.1. In particolare, il TSAP, dopo aver riconosciuto l’incidenza causale sull’evento dannoso della condotta ascrivibile al gestore della diga dalla quale si sono accertate provenire le acque che determinarono l’ingrossamento dell’alveo del fiume, non si è uniformato alla giurisprudenza da ultimo richiamata onde verificare la sussistenza del caso fortuito come esimente idonea ad interrompere il nesso di causalità; verifica che avrebbe dovuto essere compiuta su un piano puramente oggettivo, per accertare se il nesso causale fosse stato eliso da fattori esterni imprevedibili e/o inevitabili e che, invece, ha erroneamente valorizzato profili di natura soggettiva (segnatamente, l’inosservanza del gestore rispetto ad alcuni obblighi di comunicazione alle autorità competenti che, secondo il TSAP, avrebbero potuto integrare, ove il concessionario avesse dimostrato di averli assolti, “l’unica esimente del caso fortuito”), in tal modo inserendo nel paradigma della responsabilità ex art. 2051 c.c. valutazioni sulla condotta del custode che sono ad esso estranee.
9.2. La seconda parte del primo motivo ed il secondo motivo di ricorso principale restano assorbiti nell’accoglimento della censura nei termini appena esposti.
10. Passando all’esame del ricorso incidentale proposto dai signori Ruschi e Del Lupo, affidato ad un motivo ed ammissibile rispetto alle modalità di proposizione dei motivi, involgendo capi della sentenza del TSAP che si riflettono anche su soggetti diversi dalla ricorrente principale, esso deve anzitutto ritenersi tempestivo.
10.1. Ed invero, giova ricordare che il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione avverso la sentenza del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche è disciplinato dalle norme del vigente codice di rito che regolamentano l’ordinario ricorso per Cassazione, atteso che il rinvio operato dall’art. 202 del r.d. n.1775 del 1933 alla disciplina del codice processuale del 1865 non deve intendersi come recettizio, ma come rinvio formale, ossia non alle specifiche norme richiamate, bensì al contenuto di esse come mutato nel tempo. Ne consegue che la parte cui sia stata notificata l’impugnazione, ove intenda, a sua volta, proporre controricorso o ricorso incidentale, deve farlo nei termini stabiliti dagli artt. 370 e 371 c.p.c. -cfr. Cass. S.U. n.26127/2016-.
10.2. Orbene, nel caso di specie, il ricorso incidentale proposto dai Ruschi e dalla Del Lupo dopo la notifica, in data 17.9.2020, del ricorso principale di Edison spa, è stato notificato con atti inviati a mezzo del servizio postale in data 27 ottobre 2020 e, dunque, entro il termine di quaranta giorni fissato dalla disciplina codicistica.
10.3. Passando all’esame del merito del motivo, lo stesso prospetta la violazione dell’art. 2697 c.c. e contesta la statuizione del TSAP laddove avrebbe considerato generico il rinvio alla consulenza tecnica di parte dei ricorrenti incidentali per la quantificazione dei danni.
10.4. I ricorrenti rilevano di aver esposto in appello le ragioni in ordine all’erroneità delle valutazioni espresse dal CTU attraverso il rinvio, contenuto nell’atto di appello, all’a.t.p. ed alla consulenza tecnica di parte integralmente ritrascritte nell’atto di appello e riportate nel ricorso incidentale ai fini dell’autosufficienza della censura. Secondo i ricorrenti, in definitiva, il TSAP avrebbe violato l’art. 2697 c.c. in quanto non avrebbe considerato la piena prova in ordine al quantum richiesto a titolo di risarcimento del danno, già esistente, dovendosi pertanto escludere la genericità della censura in punto di quantum risarcitorio.
Rilevano ancora i ricorrenti incidentali che ove l’atto di appello abbia denunciato l’erronea valutazione degli elementi probatori acquisiti in primo grado o delle conclusioni del ctu, la specificità dei motivi di appello risulterebbe meno rigorosa, essendo sufficiente il rinvio alla c.t. di parte contenente i rilievi critici all’elaborato della c.t.u.
11. Il motivo è inammissibile.
11.1. La censura, per un verso, attinge alle valutazioni meritali operate dal TSAP quanto al pregiudizio concretamente patito dai danneggianti, aggredibile unicamente sotto il profilo di cui all’art. 360, c.1, n.5 c.p.c. -cfr. Cass. n.10688 del 24/04/2008, con riferimento al sistema precedente alla modifica dell’art. 360, c.1, n.5. c.p.c., Cass. n.23637/2016; Cass. n.15147/2018; Cass. n.11917/2021-.
11.2. Peraltro, questa Corte è ferma nel ritenere che quando le doglianze, apparentemente esposte contro la c.t.u., si risolvano in realtà nella mera censura circa la dedotta erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi dalle loro aspettative (v. Cass. 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’assetto probatorio diversa da quella operata nel caso dai giudici di merito (cfr. Cass., 13/4/2006, n. 8932), le stesse risultano inammissibili in sede di legittimità, spettando unicamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento-cfr. Cass.n.5798/2019-.
Orbene, i ricorrenti incidentali prospettano la violazione di legge sotto il profilo dell’esistenza delle prove a sostegno della quantificazione del risarcimento del danno dagli stessi ritenuta congrua, a fronte della valutazione, ritenuta incongrua, operata dal TSAP, senza tuttavia rilevare alcun vizio di motivazione della sentenza per aver omesso di considerare gli elementi esposti nella consulenza tecnica di parte e per aver considerato generici detti rilievi, invece profilando un error iuris in ordine alla quantificazione del danno da parte del TSAP. Censura che non può, per converso, essere esaminata.
12. Il ricorso incidentale dei Signori Ruschi e della Del Lupo va quindi dichiarato inammissibile.
13. Borgna Antonio e Borgna Claudio hanno proposto, a loro volta, ricorso incidentale, affidato a due motivi.
13.1. Con il primo motivo essi lamentano la violazione dell’art. 2051 c.c. Il TSAP, riconoscendo la responsabilità dei ricorrenti incidentali accanto a quella del concessionario della diga (Edison) avrebbe tralasciato di considerare che il manufatto riscontrato in sede di ATP e di CTU era stato realizzato in base alla sentenza n.166/2000 del Tribunale di Massa, nell’ambito di un procedimento nel quale il CTU Simonelli aveva indicato l’arretramento del terrapieno di metri quattro, sostenendo che ciò avrebbe consentito il ripristino delle condizioni, in modo da risultare ininfluente rispetto al deflusso del torrente Teglia.
Il TSAP, secondo i ricorrenti incidentali, non avrebbe nemmeno considerato che, anche a voler ritenere la prevedibilità dell’evento, come riconosciuto dal TSAP, nessun addebito sarebbe stato possibile attribuire ad essi ricorrenti. Ove anche gli stessi fossero stati a conoscenza delle previsioni e dei bollettini meteo, non avrebbero potuto adottare alcuna condotta alternativa. Inoltre, il TSAP avrebbe dovuto escludere il nesso causale in base alla natura eccezionale dell’evento meteorico.
13.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. Il TSAP avrebbe errato nel ritenere sussistente il nesso causale fra l’evento dannoso e la condotta ascrivibile ai ricorrenti incidentali per l’esistenza del terrapieno, dopo aver riconosciuto l’esistenza, quali cause dei danni, dell’evento eccezionale e dell’inosservanza da parte del gestore degli obblighi previsti dal documento della protezione civile, peraltro tralasciando di ammettere la richiesta di acquisizione dei filmati dei carabinieri e della prova testimoniale.
13.3. In definitiva, secondo i ricorrenti incidentali, il ragionamento che aveva condotto all’affermazione di responsabilità, sulla base del ritenuto nesso causale, sarebbe “privo di riferimenti a fatti materiali”, fondando il giudizio di responsabilità non su prove, ma su mere ipotesi.
I due motivi che, stante la loro stretta connessione, meritano un esame congiunto, non colgono nel segno, risultando il primo infondato ed il secondo inammissibile.
13.4. Ed invero, mette conto rilevare che, secondo il TSAP, la questione relativa ai mezzi di prova proposti in primo grado -visione filmati e prove testimoniali- oltre a non essere stata riproposta in appello con volontà esplicita, non riguardava prove rilevanti né circostanziate.
13.5. Per altro verso, il TSAP ritenne che il CTU aveva “affermato che il rilevato artificiale era una possibile concausa, in quanto avrebbe impedito l’espansione del Teglia in sponda sinistra” aggiungendo che “il rilevato Borgna aveva un impatto altimetrico sui terreni circostanti e che vi era stato un arretramento (2004) del rilevato, effettuato a seguito di sentenza del Tribunale di Massa Carrara” per poi concludere che malgrado la responsabilità di Edison “…non può non concludersi che la collocazione del rilevato in questione, in ragione delle considerazioni di carattere tecnico svolte dal CTU, abbia avuto un pari concorso causale nella produzione dei danni agli immobili degli appellanti: ciò che fonda la corresponsabilità di coloro che di quel rilevato avevano appunto la custodia”.
13.6. Orbene, le censure che muovono i Borgna alla sentenza impugnata attengono al ritenuto nesso causale che il TSAP ha desunto dagli accertamenti di natura tecnica compiuti in sede di accertamento tecnico preventivo e di consulenza tecnica d’ufficio, ritenendo che la presenza del rilevato in custodia ai suddetti all’interno del fiume Teglia avesse contributo all’esondazione, impedendo l’espansione del fiume in sponda sinistra.
13.7. Pertanto, nel pervenire a tale conclusione il TSAP non ha commesso alcuna violazione di legge rispetto all’applicazione dell’art. 2051 c.c., escludendo l’esistenza di un caso fortuito idoneo ad elidere la responsabilità dei proprietari sulla base dei principi già sopra esposti e correttamente applicati quanto alla posizione dei suddetti.
13.8. Né sarebbe possibile rilevare il vizio prospettato in relazione alla sentenza del tribunale di Massa, relativa ad un contenzioso fra i Borgna ed altri soggetti, promosso nei confronti dei suddetti, non potendo le valutazioni espresse in quel procedimento ridondare in favore dei ricorrenti incidentali rispetto alla responsabilità nascente dal bene in loro custodia e dalla ritenuta efficienza causale rispetto alla verificazione del pregiudizio patito dai proprietari dei fondi. Né tantomeno di rilievo è la circostanza dell’assenza di colpa, se appunto si accede alla tesi per cui l’art. 2051 c.c. integra una ipotesi di responsabilità oggettiva che prescinde dal coefficiente psicologico in capo al danneggiante.
13.9. Risulta poi con evidenza inammissibile la seconda censura che finisce con l’attingere all’accertamento di fatto compiuto dal TSAP con riguardo all’incidenza causale del rilevato sulla esondazione del corso d’acqua.
13.10.Il ricorso incidentale proposto da Borgna Antonio e Borgna Claudio va quindi dichiarato inammissibile.
14. Sulla base delle superiori considerazioni, accolto per quanto di ragione il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo e dichiarato inammissibile il ricorso incidentale proposto dai Signori Ruschi e del Lupo e quello dei signori Borgna, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al TSAP in diversa composizione che pure provvederà sulle spese del giudizio relativo al ricorso principale, dovendosi compensare le spese relative ai ricorsi incidentali in relazione all’esito del giudizio definito in questa sede.
15.Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali Borgna Claudio e Borgna Antonio e da Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Maria Luisa, Del Lupo Maria Vittoria, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per i ricorsi incidentali, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
Accoglie per quanto di ragione il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo motivo.
Dichiara inammissibili i ricorsi incidentali proposti da Borgna Claudio e Borgna Antonio e da Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Maria Luisa, Del Lupo Maria Vittoria.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia al TSAP in diversa composizione che pure provvederà sulle spese del giudizio relativo al ricorso principale.
Compensa le spese fra i ricorrenti incidentali e le parti controricorrenti.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e dei i ricorrenti incidentali Ruschi Del Lupo e Borgna, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili in Roma
Allegati:
SS.UU, 30 giugno 2022, n. 20943, in tema di responsabilità da custodia
In tema di appalti pubblici – SS.UU, 09 marzo 2023, n. 7035
Civile Ord. Sez. U Num. 7035 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 09/03/2023
O R D I N A N Z A
sul ricorso iscritto al NRG 15196 del 2022 promosso da:
COMUNE DI TRECASTAGNI, rappresentato e difeso dagli Avvocati Andrea Scuderi e Giovanni Mandolfo;
– ricorrente –
contro
A.E. s.p.a., rappresentato e difeso dall’Avvocato Claudio Fiume;
– controricorrente –
per regolamento preventivo di giurisdizione nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Catania, iscritto al numero 236/2022 di ruolo generale.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7 marzo 2023 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giovanni Battista Nardecchia, che ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario.
FATTI DI CAUSA
1. – Con ricorso notificato l’11 febbraio 2022, la società A.E. s.p.a. ha chiesto al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Catania, la risoluzione della concessione del 16 giugno 2005, rep. 877, stipulata mediante scrittura privata, con la quale il Comune di Trecastagni ha concesso alla società ricorrente, allora denominata Medi-Etna Service s.p.a., i locali di proprietà comunale (un ex convento dei francescani), siti in piazza Vecchio Municipio, al fine di realizzarvi un centro museale, nonché dei successivi accordi del 30 giugno 2008 e del 4 gennaio 2016, con i quali sono state apportate modifiche alla concessione. La ricorrente ha domandato, inoltre, la condanna del Comune al risarcimento del danno, sia da perdita del finanziamento a valere sul P.O.R. 2000-2006, cui la società era stata ammessa, sia da lucro cessante per il mancato utilizzo dell’immobile, essendosi la società trovata nell’impossibilità di aprire il museo.
A fondamento della domanda, la società ha dedotto che la responsabilità della mancata apertura del centro museale è da ascrivere al Comune di Trecastagni, il quale avrebbe concesso in uso una struttura di fatto inagibile, priva dei necessari requisiti di sicurezza e, da ultimo, nemmeno ristrutturata dopo il sisma del 2018. In particolare, la struttura, da adibire a centro museale, non sarebbe dotata del certificato di agibilità, continuerebbe ad essere classificata come B/4 (ufficio) anziché B/6 (museo) e sarebbe dotata di impianto fognario ubicato in luogo diverso rispetto a quello indicato nel progetto presentato al Comune. La società concessionaria ha rappresentato di essersi dovuta far carico, nel corso del rapporto, di ingenti spese per lavori di vario genere senza per contro poter incassare i proventi derivanti dalla vendita dei biglietti d’ingresso al museo.
Nel giudizio dinanzi al TAR si è costituito il Comune di Trecastagni, resistendo ed eccependo preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore di quello ordinario.
2. – Nella pendenza del giudizio dinanzi al TAR, il Comune di Trecastagni ha sollevato, con atto notificato il 21 giugno 2022, ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, chiedendo dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario.
Ad avviso del ricorrente, la controversia sarebbe ricompresa nell’ambito della competenza giurisdizionale del giudice ordinario perché: non attiene alla fase pubblicistica di individuazione del concessionario, che inizia con la pubblicazione del bando di gara e si conclude con l’affidamento della concessione al soggetto vincitore dell’apposita sequenza ad evidenza pubblica; riguarda la fase di natura privatistica, meramente esecutiva del rapporto; ha ad oggetto l’asserito mancato adempimento, da parte del Comune, delle obbligazioni previste dalla convenzione sottoscritta dalle parti; la posizione giuridica della parte ricorrente nel giudizio a quo, qualificabile come diritto soggettivo, non afferisce all’esercizio di potestà amministrative discrezionali.
Il Comune osserva, inoltre, che l’immobile oggetto del rapporto non avrebbe una destinazione di pubblico generale interesse e non vi sarebbe alcuna previsione che imponga o contempli l’istituzione di un pubblico servizio gestito dall’amministrazione con vincoli istituzionali ed esercizio di potestà pubbliche.
3. – Si è costituita nel giudizio per regolamento preventivo, con controricorso, la società A.E., ricorrente nel giudizio a quo, concludendo per la giurisdizione dell’adito giudice amministrativo.
La controversia avrebbe ad oggetto atti relativi ad un rapporto di concessione di beni pubblici, sicché vi sarebbe la giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133 cod. proc. amm. La risoluzione della concessione amministrativa per inadempimento del concedente sarebbe riconducibile all’ambito pubblicistico. La controversia comporterebbe decisioni sulla durata o efficacia del rapporto concessorio.
Ad avviso della società controricorrente, sarebbe indifferente l’appartenenza del bene al patrimonio disponibile ovvero indisponibile. In ogni caso, l’immobile sarebbe da ricomprendere tra i beni del patrimonio indisponibile, essendo stato destinato a centro culturale museale.
Secondo la società, la controversia non riguarderebbe semplicemente la fase esecutiva del rapporto, bensì atterrebbe alla fase pubblicistica che inizia con la pubblicazione del bando e si conclude con l’affidamento della concessione.
4. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-ter cod. proc. civ., sulla base delle conclusioni scritte del Pubblico Ministero, che ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario.
Affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati a un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826, terzo comma, cod. civ., deve sussistere – ha rilevato l’Ufficio del Procuratore Generale – il doppio requisito, soggettivo e oggettivo, della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (quindi, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel bene determinato a un pubblico servizio) e dell’effettiva, attuale destinazione del bene al pubblico servizio.
In difetto di tali concorrenti condizioni, e della conseguente ascrivibilità del bene al patrimonio indisponibile, la cessione in godimento
dell’immobile in favore di privati non può essere ricondotta, ad avviso del Pubblico Ministero, a un rapporto di concessione amministrativa, ma, inerendo a un bene facente parte del patrimonio disponibile, al di là del nomen iuris che le parti contraenti abbiano inteso dare al rapporto, essa viene a inquadrarsi nello schema privatistico della locazione, con la conseguente devoluzione della cognizione della relativa controversia alla giurisdizione del giudice ordinario.
Nel caso di specie, la pariteticità del rapporto, la rilevanza puramente patrimoniale dei beni interessati, la circostanza, pacifica, che l’immobile non è attualmente destinato al pubblico servizio, sarebbero tutti elementi deponenti per la non riconducibilità del bene al patrimonio indisponibile.
5. – In prossimità della camera di consiglio entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Le Sezioni Unite sono investite del compito di stabilire a quale plesso giurisdizionale spetta conoscere della controversia promossa da un privato per ottenere la risoluzione, per responsabilità del Comune concedente, della convenzione con la quale l’Amministrazione ha concesso ad un privato l’uso e il godimento di un immobile di sua proprietà per adibirlo a centro museale, oltre al risarcimento del danno.
2. – La controversia ricade nella giurisdizione del giudice ordinario.
3. – La controversia attiene alla fase meramente esecutiva del rapporto. Si verte nell’ambito di un rapporto paritetico tra le parti che si colloca a valle della procedura ad evidenza pubblica per la scelta del contraente. La società ricorrente non chiede l’annullamento di un provvedimento amministrativo emesso dal Comune.
La domanda azionata, infatti, mira ad addebitare la mancata apertura del centro museale a “colpa grave, negligenza e malafede del Comune”; ad accertare e dichiarare “l’inadempimento del Comune resistente nell’aver dato in concessione un immobile privo del certificato di agibilità”, con destinazione d’uso “diversa da quella idonea alla realizzazione di una struttura museale”, privo del certificato di prevenzione incendi e con vizi che hanno comportato l’esecuzione di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria; ad accertare e dichiarare “l’inadempimento del Comune … per non aver ottenuto il certificato di prevenzione incendi”; a “dichiarare la risoluzione della concessione del 2005 … e dei successivi accordi integrativi … per inadempimento imputabile in via esclusiva al Comune”.
La domanda proposta è di “risoluzione” “per inadempimento imputabile in via esclusiva al Comune” e, su questa base, di condanna al risarcimento del danno.
La domanda riguarda la risoluzione per l’inadempimento delle obbligazioni assunte dal Comune, come risultanti dalle condizioni concordate nella convenzione stipulata in posizione di pariteticità, senza che venga in considerazione il potere autoritativo dell’Amministrazione comunale.
Tale potere non è ravvisabile in linea di principio quando, esaurita la fase pubblicistica della scelta del contraente, sia sorto il “vincolo” contrattuale e siano in contestazione la delimitazione del contenuto del rapporto, gli adempimenti delle obbligazioni contrattuali e i relativi effetti sul piano del rapporto, salvo che l’amministrazione intervenga con atti autoritativi che incidono direttamente, seppure successivamente all’aggiudicazione, sulla procedura di affidamento mediante esercizio del potere di annullamento d’ufficio o, comunque, nella fase esecutiva mediante altri poteri riconosciuti dalla legge.
Nel settore dell’attività negoziale della P.A., mentre appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo tutte le controversie che attengono alla fase preliminare, antecedente e prodromica al contratto, inerenti alla formazione della volontà e alla scelta del contraente privato in base alle regole della evidenza pubblica, quelle che invece radicano le loro ragioni, come nella specie, nella serie negoziale successiva, che va dalla stipulazione del contratto fino alle vicende del suo adempimento, e riguardano la disciplina dei rapporti scaturenti dal contratto, sono devolute al giudice ordinario (Cass., Sez. Un., 13 marzo 2020, n. 7219).
La controversia nella quale il petitum sostanziale è l’accertamento dell’adempimento o dell’inadempimento del Comune alle obbligazioni assunte nell’ambito del rapporto convenzionale, non coinvolge sotto alcun profilo un controllo sull’esercizio del potere pubblico, in relazione ai parametri di legittimità dell’azione amministrativa provvedimentale (Cass., Sez. Un., 24 maggio 2022, n. 16763).
Al giudice di merito è chiesto di valutare la corrispondenza al vero dei fatti di inadempimento dedotti a fondamento delle pretese e di qualificarli giuridicamente, per trarne le conseguenze sul piano privatistico, vertendosi in tema di diritti soggettivi vantati in posizione di parità dal privato nei confronti dell’ente pubblico (Cass., Sez. Un., 28 febbraio 2023, n. 5971).
Si è, pertanto, al di fuori dell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di concessione di beni pubblici, ai sensi dell’art. 133, lettera b), cod. proc. amm.
Queste Sezioni Unite hanno affermato che, affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili, in quanto destinati a un pubblico servizio ai sensi dell’art. 826, terzo comma, cod. civ., deve sussistere il doppio requisito (soggettivo e oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio) e dell’effettiva, concreta e attuale destinazione del bene al pubblico servizio. In difetto di tali condizioni e della conseguente ascrivibilità del bene al patrimonio indisponibile, la cessione in godimento del bene medesimo in favore di privati non può essere ricondotta a un rapporto di concessione amministrativa, ma, inerendo a un bene facente parte del patrimonio disponibile, al di là del nomen iuris che le parti contraenti hanno inteso dare al rapporto, essa viene a inquadrarsi nello schema privatistico della locazione (o del comodato), con conseguente giurisdizione del giudice ordinario (Cass., Sez. Un., 21 maggio 2019, n. 13664; Cass., Sez. Un., 12 ottobre 2020, n. 21991).
La richiesta del doppio requisito si giustifica in quanto soltanto così l’amministrazione può dimostrare la seria volontà e la necessità di destinare il bene ad un fine pubblico e di assoggettarlo ad un regime preferenziale rispetto a quello comune.
Esattamente il Pubblico Ministero evidenzia che il bene oggetto della scrittura privata, sicuramente non appartenente al demanio necessario, neppure riveste il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili, non essendo destinato a un pubblico servizio ai sensi dell’art. 826, terzo comma, cod. civ.
Difettano, infatti, sia il profilo formale-soggettivo della preordinata destinazione alla salvaguardia di interessi pubblici, sia quello materiale-oggettivo della effettività della destinazione impressa, come si desume dalla circostanza, pacifica, che l’immobile non è, attualmente, destinato concretamente a pubblico servizio.
Risulta inoltre per tabulas dalla scrittura privata del 16 giugno 2005 che il contratto parla di “comodato” (là dove prevede che a titolo di corrispettivo per la concessione “in comodato” dei locali di sua proprietà il Comune avrà diritto ad una percentuale del 10% da calcolarsi sul totale dei biglietti di ingresso venduti e comunque degli utili complessivi ricavati dall’utilizzo della struttura) e ribadisce che la de-tenzione dei locali di proprietà comunale da parte del concessionario è “a titolo di comodato”. Lo stesso bando di gara si riferisce alla “con-cessione in comodato del bene”.
La terminologia adottata nella convenzione, con il riferimento reiterato al modello privatistico e paritetico del comodato, conferma che si è al di fuori dello schema concessorio e che i locali in questione (“consegnati nello stato di fatto in cui si trovano con obbligo del concessionario di adeguarli a propria cura e spese alle normative vigenti” per la realizzazione, l’allestimento e la gestione di un centro museale) non appartengono alla categoria dei beni del patrimonio indisponibile, difettando la loro destinazione a svolgere in via immediata e diretta un servizio pubblico in forza di un atto di volontà amministrativa concretamente attuato.
5. – E’ dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.
La regolamentazione delle spese viene rimessa al giudice del merito.
P.Q.M.
dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, dinanzi al quale rimette le parti, anche per le spese del regolamento.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 marzo 2023.
Allegati:
SS.UU, 09 marzo 2023, n. 7035, in tema di appalti pubblici