In tema di trasporto di persone – SS.UU, 20 giugno 2023, n. 17541
Civile Sent. Sez. U Num. 17541 Anno 2023
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: FALASCHI MILENA
Data pubblicazione: 20/06/2023
SENTENZA
sul ricorso 31123-2018 proposto da:
VALTOLINA ANDREA, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MATTEO REPETTI;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI MILANO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE LEPORE, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANTONELLA FRASCHINI, VINCENZA PALMIERI, PAOLA MARIA CECCOLI ed ANTONELLO MANDARANO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3291/2017 del TRIBUNALE di MILANO, depositata il 26/03/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/11/2022 dal Consigliere MILENA FALASCHI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale FULVIO TRONCONE, il quale conclude affinché le Sezioni Unite della Corte, in relazione ai due dubbi interpretativi posti dall’ordinanza interlocutoria n. 6781 del 1° marzo 2022, accolgano il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
In data 17.05.2016 il Comune di Milano contestava ad Andrea Valtolina, nella qualità di titolare di autorizzazione per l’esercizio del servizio di autonoleggio con conducente, la violazione dell’art. 85, comma 4, del C.d.S. in quanto “acquisiva un servizio di trasporto senza effettuare il preventivo contratto con il cliente e trasporto effettuato senza partire dalla rimessa per detto servizio – rimessa sita nel Comune di Altavilla Vicentina – Importo tramite App Uber”.
Il Valtolina proponeva opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione, con ricorso proposto dinanzi al Giudice di pace di Milano, chiedendo l’annullamento del verbale e delle sanzioni comminategli. Deduceva la genericità della contestazione formulata. Sosteneva, inoltre, che il trasporto era stato regolarmente richiesto e concordato mediante l’applicazione Uber Black, di modo che l’incontro delle volontà era avvenuto tramite la piattaforma web; che non vi era mai stato uno stazionamento dell’auto nelle piazzole riservate ai taxi; che l’efficacia delle disposizioni di cui al D.L. n. 207/2008, modificative della legge n. 21/1992 (relative all’obbligo di partenza e rientro delle corse necessariamente presso la rimessa), ritenute da più autorità illogiche, era stata sospesa da più decreti legge succedutisi nel tempo (artt. 3, 11 e 13 legge n. 21 del 1992).
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del Comune di Milano, che chiedeva il rigetto dell’opposizione del Valtolina, il giudice adito, con sentenza n. 12279 del 2016, accoglieva il ricorso annullando il verbale impugnato, sul presupposto che, con l’emanazione del d.l. n. 5 del 2009 (art. 7 bis), l’efficacia degli artt. 3 e 11 legge n. 21 del 1992, nella nuova formulazione, era stata sospesa.
In virtù di impugnazione interposta dal Comune di Milano, il Tribunale di Milano, nella resistenza del Valtolina, con sentenza n. 3291 del 2018, accoglieva il gravame e, in riforma della sentenza di prime cure, rigettava il ricorso originariamente presentato dal Valtolina, condannandolo al pagamento delle spese del giudizio.
A sostegno della decisione il Tribunale esponeva che gli artt. 3 e 11 della legge n. 21 del 1992, come modificati dall’art. 29, comma 1 quater, del decreto-legge n. 207/2008, convertito con la legge n. 14/2009, erano applicabili nella fattispecie, in quanto la sospensione dell’efficacia delle suddette norme – disposta dall’art. 7 bis del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, inserito dalla legge di conversione 9 aprile 2009, n. 33 – era stata prorogata solo fino al 31.03.2010; di converso, sulla durata di tale sospensione non spiegava alcun effetto il termine, e le relative proroghe, fissato per l’adozione di disposizioni attuative del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti dall’art. 2, comma 3, del decreto-legge n. 40/2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 73/2010.
Avverso la sentenza del Tribunale di Milano ha proposto ricorso per cassazione Andrea Valtolina, sulla base di tre motivi, cui ha resistito con controricorso il Comune di Milano.
Fissata la trattazione della causa all’adunanza camerale del 04.03.2021, venivano acquisite le conclusioni della Procura Generale, motivate nel senso dell’accoglimento del ricorso, ritualmente comunicate alle parti, e veniva depositata memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c. dal solo ricorrente.
All’esito della camera di consiglio, la Seconda Sezione rimetteva la causa alla pubblica udienza per la rilevanza nomofilattica della questione.
Per la decisione sul ricorso, fissata la trattazione in udienza pubblica per il giorno 25.11.2021, è stato applicato lo speciale rito «cartolare» previsto dall’art.23, comma 8 bis, del d.l. 137 del 28-10-2020, convertito con modificazioni dalla legge 18-12-2020 n.176 e prorogato a tutto il 2022 dal d.l. 30-12-2021 n.228, convertito dalla legge 25 febbraio 2022, n. 15, non avendo alcuna delle parti depositato istanza per la trattazione orale della causa. Sono state acquisite nuove conclusioni della Procura Generale, motivate nel senso della declaratoria di inammissibilità, in subordine, per il rigetto del ricorso.
In prossimità della pubblica udienza entrambe le parti curavano il deposito di memorie ex art. 378 c.p.c.
All’esito della camera di consiglio, la Seconda Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 6781 del 2022, rimetteva gli atti al Primo Presidente, per la risoluzione di una questione di massima di particolare importanza, sia per la mancanza di precedenti univoci o pienamente convincenti, sia per la sentita esigenza nomofilattica caratterizzante l’interpretazione di norme disciplinanti la questione di diritto circa la vigenza o la sospensione alla data di maggio 2016 – epoca dei fatti contestati al ricorrente – delle modifiche recate al testo della legge n. 21 del 1992 (e, per quanto specificamente interessa la vicenda in esame, agli artt. 3 e 11 di tale legge) dall’art. 29, comma 1 quater, del d.l. n. 207 del 2008 (inserito dalla legge di conversione n. 14 del 2009), la cui soluzione reputava rilevante per la decisione del ricorso.
Il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e seguiva la fissazione dell’odierna udienza, in vista della quale venivano depositate conclusioni scritte del pubblico ministero nel senso dell’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 85, comma 4, C.d.S., dell’art. 3 Cost. per manifesta illogicità e travisamento, nonchè del principio di legalità di cui all’art. 1 legge n. 689 del 1981, ritenendo la sostanziale irriferibilità della normativa di cui alla legge n. 21 del 1992 alle nuove e non disciplinate modalità offerte dalle applicazioni informatiche. Ad avviso del ricorrente la normativa di cui alla legge n. 21 del 1992 – legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea – emanata in un’epoca in cui vi era il telefono cellulare ma con caratteristiche ben diverse rispetto agli attuali smartphone, sarebbe divenuta oggettivamente inapplicabile, facendo riferimento ad una realtà del tutto superata, come emergerebbe anche da recente segnalazione, AS1354 del 10.03.2017, al Parlamento e al Governo da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che ha riconosciuto la stessa oggettiva diversità dei servizi resi tramite piattaforma web e la conseguente irriferibilità delle previsioni normative di cui alla legge quadro. Al riguardo richiama anche il parere n. 3586 del 23.12.2015 reso dal Consiglio di Stato, Sez. Prima, su richiesta del Ministero dell’interno, proprio in siffatta materia, cui ha fatto seguito la successiva nota del Ministero dell’interno dell’11.03.2016, relativamente all’inapplicabilità dell’art. 85 C.d.S. ai nuovi servizi telematici di trasporto. Di converso la Polizia Municipale di Milano ha inopinatamente ritenuto di emettere la nota del 04.05.2016, che ha espressamente ad oggetto “Disposizioni attuative degli articoli 85 e 86 del Codice della Strada e della legge 21/1992”. Il ricorrente ricorda, inoltre, l’analogia che si era realizzata qualche decennio fa con il servizio di radiotaxi, preso in esame dalla sentenza gravata: sebbene non preso in considerazione dal legislatore, nessuna sanzione viene comminata ai sensi dell’art. 86 C.d.S. a chi recluta la clientela tramite le centrali di radiotaxi anziché stazionando sulle aree a ciò specificamente riservate.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dei principi generali di cui agli artt. 3 e 41 Cost. per avere i provvedimenti ed i comportamenti adottati dal Comune di Milano nella presente vicenda determinato una limitazione della libera attività economica privata non giustificata da alcun motivo di “utilità sociale”, conformemente alla pronuncia della Corte costituzionale n. 174 del 2014.
Nel senso della dubbia costituzionalità delle norme contenute nella legge n. 21 del 1992 si è già espresso il TAR Lombardia con il decreto n. 1105 del 2013.
Con il terzo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 3 e 11 legge n. 21 del 1992 per intervenuta sospensione legislativa dell’efficacia del disposto di cui all’art. 29, comma 1 quater d.l. n. 207 del 2008. Ad avviso del ricorrente, le disposizioni invocate dal Comune di Milano non riguarderebbero la presente vicenda, altrimenti si incorrerebbe nella violazione dei principi costituzionali di legalità, uguaglianza, ragionevolezza e libertà economica.
Lo stesso legislatore ha immediatamente sospeso l’efficacia della novella in oggetto, in particolare l’art. 7 bis legge n. 33 del 2009, specificamente reiterato dai dd.ll. nn. 78 e 194 del 2009, in quanto l’art. 1, comma 1136, legge n. 205 del 2017 espressamente afferma che “conseguentemente, la sospensione dell’efficacia disposta dall’art. 7 bis, comma 1, del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009 n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2018”, dissipando ogni residuo dubbio circa la perdurante sospensione – ab origine e senza soluzione di continuità – dell’efficacia delle disposizioni introdotte con il d.l. n. 207 del 2008. Nei medesimi termini si era in precedenza già espresso anche il d.l. n. 244 del 2016 c.d. Milleproroghe.
Ritiene il ricorrente che volga nello stesso senso la nota prot. n. 6446 del 31.03.2016 che ha ribadito come “in relazione alla questione se sia da ritenersi sospesa l’efficacia dell’art. 29 comma 1 quater (…) milita a favore di tale interpretazione il dato testuale del d.l. n. 40/2003 (art. 2, comma 3), in ragione del quale il Legislatore ha inteso subordinare l’attuazione della novella legislativa al decreto interministeriale de quo. Se ne desume che, almeno finchè legittimamente (e cioè fino allo scadere del 31.12.2016) il Decreto non sarà emanato, dovrebbe essere inibita l’efficacia dell’art. 29, comma 1 quater…”.
Rileva preliminarmente il Collegio che le tre censure vanno esaminate e trattate unitariamente, in quanto tutte volte alla pregiudiziale affermazione dell’applicabilità (o meno) alla fattispecie del noleggio di autovetture con conducente, di cui all’art. 7-bis, comma 1, del d.l. n. 5 del 2009, conv in legge n. 33 del 2009, della sospensione dell’efficacia delle modifiche previste agli artt. 3 e 11 della legge n. 21 del 1992, introdotte dall’art. 29, comma 1 quater del d.l. n. 207 del 2008 e dell’art. 9, comma 3 d.l. n. 244 del 2016, conv. in legge n. 19 del 2017.
Esse sono meritevoli di accoglimento nell’ambito dei confini che di seguito verranno illustrati.
L’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione, 1° marzo 2022 n. 6781, individua la questione di diritto alla stessa sottoposta nei seguenti termini: se, all’epoca dei fatti contestati al ricorrente (maggio 2016), le modifiche recate al testo della legge n. 21 del 1992 (e, per quanto specificamente interessa la vicenda in esame, agli artt. 3 e 11 di tale legge) dall’art. 29, comma 1 quater, del d.l. n. 207 del 2008 (inserito dalla legge di conversione n. 14 del 2009) dovessero ritenersi vigenti o sospese.
In particolare, osserva il Collegio remittente che, secondo il ricorrente, l’art. 9, comma 3, del decreto-legge 30 dicembre 2016, n. 244, convertito in legge 27 febbraio 2017, n. 19, là dove prevede (nel secondo periodo) che «la sospensione dell’efficacia disposta dall’articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2017», estenderebbe retroattivamente la sospensione di efficacia dell’art. 29, comma 1 quater del decreto-legge 30 dicembre 2007 n. 207 dalla data del 31 marzo 2010, fino alla quale essa era già stata prorogata, alla data del 31 dicembre 2017, così creando un continuum di sospensione di efficacia dal 2009 al 2017.
Così individuata la questione oggetto di scrutinio, l’ordinanza interlocutoria ritiene sia meritevole di un supplemento di riflessione l’approdo ermeneutico al quale è giunta la Corte con le sentenze n. 12679 del 2017 e n. 28077 del 2021.
Con tali pronunce si è affermato che la sospensione dell’efficacia delle modifiche alla disciplina di cui agli artt. 3 e 11 della legge n. 21 del 1992, introdotta dall’art. 29 del d.l. n. 207 del 2008, era cessata al 31 marzo 2010, secondo quanto previsto dall’art. 5, comma 3, del d.l. n. 194 del 2009, conv. in l. n. 25 del 2010, ponendosi tale norma come l’ultima (la precedente era l’art 23, comma 2 d.l. n. 78 del 2009, conv. in legge n. 102 del 2009) che aveva prorogato l’iniziale sospensione prevista dall’art. 7-bis del d.l. n. 5 del 2009 introdotto dalla legge di conversione n. 33 del 2009.
Secondo detto indirizzo, rispetto a tale cessazione, a nulla valeva l’individuazione del termine del 31 dicembre 2016 contenuto nell’art. 2, comma 3 del d.l. n. 40 del 2010, in quanto riferito all’adozione di un decreto ministeriale volto a impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, pratiche non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia, senza alcuna rinnovata sospensione della efficacia delle disposizioni di cui al d.l. n. 207 del 2008. Non poteva, infatti, ritenersi che il mero rinvio ad un decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, ancorché previa intesa con la Conferenza unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, contenuto nell’art. 2 cit. potesse avere l’effetto di impedire l’efficacia di una disciplina inserita nella legge-quadro per il trasporto dotata, peraltro, di indubbia idoneità prescrittiva.
La successiva pronuncia del 2021, riportando l’iter argomentativo della precedente del 2017, ha affermato che l’art. 9, comma 3, del decreto legge n. 244 del 2016, nel testo risultante dalla legge di conversione n. 19 del 2017, nella parte in cui prevede che «Conseguentemente, la sospensione dell’efficacia disposta dall’articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2017», ha inteso disporre una nuova sospensione delle disposizioni introdotte dall’art. 29, comma 1- quater, a far tempo dal 1° marzo 2017, data di entrata in vigore delle modifiche apportate con la legge di conversione, sino al 31 dicembre 2017, senza che a tale ius superveniens potesse attribuirsi il contenuto e la valenza di una legge retroattiva o di interpretazione autentica.
L’ordinanza di rimessione pone in luce come l’interpretazione della seconda parte del comma 3 dell’art. 9 del d.l. n. 244 del 2016 si presti ai seguenti dubbi.
In primo luogo essa non appare perfettamente coerente con il dato letterale della disposizione, là dove essa recita «la sospensione … si intende prorogata». Il senso letterale della parola “prorogata”, infatti, sembra alludere alla “protrazione” di una sospensione ancora in essere, non alla “riattivazione” di una sospensione cessata anni prima.
In secondo luogo, l’ordinanza riporta un passaggio della motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 56 del 2020 la quale, pur senza affrontare il tema oggetto del presente scrutinio (essendo stata sottoposta al suo esame la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.l. n. 135 del 2018), sembra, tuttavia, offrire una ricostruzione della disciplina in esame non del tutto coincidente con quella di cui ai citati precedenti di questa Corte. In particolare, l’iter argomentativo seguito dalla Consulta sulla questione alla stessa sottoposta si conclude al paragrafo 3.1 del Considerato in diritto con l’affermazione che «Per meglio comprendere l’assetto normativo vigente, va precisato che l’art. 10-bis ha a sua volta abrogato, a decorrere dal 10 gennaio 2019, sia il comma 3 dell’art. 2 del d.l. n. 40 del 2010 (al comma 5), che l’art. 7-bis del d.l. n. 5 del 2009 (al comma 7), che avevano sospeso l’efficacia della più stringente disciplina dettata dall’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2008. Di conseguenza, dalla indicata data del 10 gennaio 2019 hanno acquistato efficacia le disposizioni modificative della legge n. 21 del 1992 introdotte dall’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2008, come ulteriormente modificate dall’art. 10-bis del d.l. n. 135 del 2018, mentre è venuta meno la previsione di «urgenti disposizioni attuative» dirette a contrastare il fenomeno dell’abusivismo, da adottare con decreto ministeriale». Tale dictum, a parere del Collegio che ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, lascia «il dubbio che, nella ricostruzione normativa operata dalla Corte costituzionale, le disposizioni modificative della legge n. 21 del 1992 introdotte dall’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2008 non siano mai entrate in vigore prima del 10 gennaio 2019, quando esse entrarono in vigore con le modifiche recate dall’art. 10-bis del d.l. n. 135 del 2018».
La Sezione remittente ricorda che anche la giurisprudenza di merito, proprio alla luce delle considerazioni fin qui esposte e delle incertezze presenti (per l’interpretazione patrocinata dal ricorrente si veda Trib. Roma 26.05.2017), propende a favore della tesi che per l’intero periodo dal 1° marzo 2010 al 31 dicembre 2017 la materia disciplinata, prima, dal testo originario della legge n. 21/1992 e, poi, dal testo di tale legge come modificato dal decreto-legge n. 207/2008 deve intendersi come totalmente deregolata. Il giudice di merito ha, in primo luogo, rilevato come l’art. 29, comma 1-quater d.l. n. 207 del 2008, prevedendo la sostituzione integrale di commi e articoli di legge preesistenti, implichi il duplice effetto dell’abrogazione di tali disposizioni e, al tempo stesso, dell’introduzione nell’ordinamento giuridico di nuove disposizioni, inserite in luogo di quelle soppresse e nella medesima sede originariamente destinata a queste ultime; in secondo luogo, si è poi sottolineato come la sostituzione comporti l’eliminazione della sequenza testuale da un testo normativo e l’inserimento di una nuova sequenza al posto di quella, con conseguente unificazione dei momenti dell’abrogazione e dell’inserimento. Sulla scorta dei tali premesse, il Tribunale capitolino ha quindi richiamato Corte cost. n. 13/2012 (“il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate non opera in via generale e automatica e può essere ammesso soltanto in ipotesi tipiche e molto limitate”) e Cass., Sez. Un., n. 25551/2007 (“a questo proposito va in generale affermato che, nel regime di successione delle leggi, mentre l’abrogazione della disposizione che modifica o sostituisce quella precedente non comporta la sua reviviscenza, tale effetto può invece predicarsi in caso di abrogazione di una disposizione che abbia come contenuto quello di abrogare una disposizione precedente sicché ciò che viene meno è proprio l’effetto abrogativo”); per concludere che, nel periodo di sospensione dell’efficacia delle disposizioni recate dal decreto legge n. 207/2008, non ricorreva alcuna reviviscenza delle disposizioni contenute nel testo previgente della legge n. 21 del 1992.
Questo è, dunque, il perimetro oggettivo della remissione.
Per una riconsiderazione complessiva del tema da parte di queste Sezioni Unite e per una più chiara comprensione della questione rimessa è necessario premettere un sintetico quadro delle disposizioni di legge rilevanti.
L’intervento del legislatore nazionale sulla disciplina amministrativa del noleggio con conducente trova la propria fonte nella legge n. 21 del 1992 (Legge quadro per il trasposto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea). In particolare, per quanto specificatamente interessa la vicenda in esame, l’art. 3 (Servizio di noleggio con conducente) nella sua originaria formulazione prevedeva che «1. Il servizio di noleggio con conducente si rivolge all’utenza specifica che avanza, presso la sede del vettore, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. Lo stazionamento dei mezzi avviene all’interno delle rimesse o presso i pontili di attracco», mentre il successivo art. 11 (Obblighi dei titolari di licenza per l’esercizio del servizio di taxi e di autorizzazione per l’esercizio del servizio di noleggio con conducente) disponeva che «1. I veicoli o natanti adibiti al servizio di taxi possono circolare e sostare liberamente secondo quanto stabilito dai regolamenti comunali. 2. Il prelevamento dell’utente ovvero l’inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza per qualunque destinazione, previo assenso del conducente per le destinazioni oltre il limite comunale o comprensoriale, fatto salvo quanto disposto dal comma 5 dell’articolo 4. 3. Nel servizio di noleggio con conducente, esercìto a mezzo di autovetture, è vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico nei comuni ove sia esercìto il servizio di taxi. È tuttavia consentito l’uso delle corsie preferenziali e delle altre facilitazioni alla circolazione previste per i taxi e altri servizi pubblici. 4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso le rispettive rimesse. 5. I comuni in cui non è esercìto il servizio di taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. 6. I comuni, ferme restando le attribuzioni delle autorità competenti in materia di circolazione negli ambiti portuali, aeroportuali e ferroviari, ed in accordo con le organizzazioni sindacali di categoria dei comparti del trasporto di persone, possono, nei suddetti ambiti, derogare a quanto previsto dal comma 3, purché la sosta avvenga in aree diverse da quelle destinate al servizio di taxi e comunque da esse chiaramente distinte, delimitate e individuate come rimessa. 7. Il servizio di taxi, ove esercìto, ha comunque la precedenza nei varchi prospicienti il transito dei passeggeri».
Per effetto dell’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2008 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni finanziarie urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge n. 14 del 2009) l’art. 3 cit. è stato modificato nel seguente testo «1. Il servizio di noleggio con conducente si rivolge all’utenza specifica che avanza, presso la rimessa, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. 2. Lo stazionamento dei mezzi deve avvenire all’interno delle rimesse o presso i pontili di attracco. 3. La sede del vettore e la rimessa devono essere situate, esclusivamente, nel territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione» e l’art. 11 cit. nel seguente testo «1. I veicoli o natanti adibiti al servizio di taxi possono circolare e sostare liberamente secondo quanto stabilito dai regolamenti comunali. 2. Il prelevamento dell’utente ovvero l’inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza per qualunque destinazione, previo assenso del conducente per le destinazioni oltre il limite comunale o comprensoriale, fatto salvo quanto disposto dal comma 5 dell’articolo 4. 3. Nel servizio di noleggio con conducente, esercìto a mezzo di autovetture, è vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico nei comuni ove sia esercìto il servizio di taxi. In detti comuni i veicoli adibiti a servizio di noleggio con conducente possono sostare, a disposizione dell’utenza, esclusivamente all’interno della rimessa. I comuni in cui non è esercìto il servizio taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. Ai veicoli adibiti a servizio di noleggio con conducente è consentito l’uso delle corsie preferenziali e delle altre facilitazioni alla circolazione previste per i taxi e gli altri servizi pubblici. 4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso la rimessa. L’inizio ed il termine di ogni singolo servizio di noleggio con conducente devono avvenire alla rimessa, situata nel comune che ha rilasciato l’autorizzazione, con ritorno alla stessa, mentre il prelevamento e l’arrivo a destinazione dell’utente possono avvenire anche nel territorio di altri comuni. Nel servizio di noleggio con conducente è previsto l’obbligo di compilazione e tenuta da parte del conducente di un «foglio di servizio» completo dei seguenti dati: a) fogli vidimati e con progressione numerica; b) timbro dell’azienda e/o società titolare della licenza. La compilazione dovrà essere singola per ogni prestazione e prevedere l’indicazione di: 1) targa veicolo; 2) nome del conducente; 3) data, luogo e km. di partenza e arrivo; 4) orario di inizio servizio, destinazione e orario di fine servizio; 5) dati del committente. Tale documentazione dovrà essere tenuta a bordo del veicolo per un periodo di due settimane. 5. I comuni in cui non è esercìto il servizio di taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. 6. I comuni, ferme restando le attribuzioni delle autorità competenti in materia di circolazione negli ambiti portuali, aeroportuali e ferroviari, ed in accordo con le organizzazioni sindacali di categoria dei comparti del trasporto di persone, possono, nei suddetti ambiti, derogare a quanto previsto dal comma 3, purché la sosta avvenga in aree diverse da quelle destinate al servizio di taxi e comunque da esse chiaramente distinte, delimitate e individuate come rimessa. 7. Il servizio di taxi, ove esercìto, ha comunque la precedenza nei varchi prospicienti il transito dei passeggeri».
La normativa introdotta dall’art. 29, comma 1-quater d.l. n. 207 del 2008 (comma aggiunto dalla legge di conversione del 27 febbraio 2019 n. 14) ha ridisegnato la disciplina del servizio di noleggio con conducente (NCC) prevista dalla legge n. 21 del 1992 rendendo più stringenti i vincoli territoriali, aumentando anche i controlli sul loro rispetto e le sanzioni in caso di violazione. In particolare, sono stati introdotti a carico dei prestatori dei servizi di NCC: l’obbligo di avere la sede e la rimessa esclusivamente nel territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione; l’obbligo di iniziare ogni singolo servizio dalla rimessa e di ritornarvi al termine del servizio; l’obbligo di compilare e tenere il «foglio di servizio»; l’obbligo di sostare, a disposizione dell’utenza, esclusivamente all’interno della rimessa. È stato inoltre confermato l’obbligo, già previsto dalla legge n. 21 del 1992, di effettuazione presso le rimesse le prenotazioni di trasporto. Le modifiche apportate dall’art. 29 cit. hanno avuto applicazione per un brevissimo lasso di tempo (dal 1 marzo 2009, data di entrata in vigore della legge n. 14 del 2009, al 14 aprile 2009, data di entrata in vigore dell’art. 7-bis d.l. 10 febbraio 2009 n. 5, inserito dalla legge di conversione del 9 aprile 2009 n. 33).
In particolare, il legislatore ha inizialmente previsto una prima sospensione fino al 30 giugno 2009 (art. 7-bis cit., nel testo originario). Detto termine è stato successivamente prorogato al 31 dicembre 2009 dall’art. 23, comma 2, d.l. 1° luglio 2009 n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009 e, successivamente, al 31 marzo 2010, dall’art. 5, comma 3, d.l. 30 dicembre 2009 n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 25 del 2010. E’, poi, intervenuto l’art. 2, comma 3, d.l. 25 marzo 2010 n. 40 il quale, sempre nel testo applicabile ratione temporis, prevedeva che «3. Ai fini della rideterminazione dei principi fondamentali della disciplina di cui alla legge 15 gennaio 1992, n. 21, secondo quanto previsto dall’articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, ed allo scopo di assicurare omogeneità di applicazione di tale disciplina in ambito nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono adottate, entro e non oltre il 31 dicembre 2016, urgenti disposizioni attuative, tese ad impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia. Con il suddetto decreto sono, altresì, definiti gli indirizzi generali per l’attività di programmazione e di pianificazione delle regioni, ai fini del rilascio, da parte dei Comuni, dei titoli autorizzativi.»
L’art. 2, comma 3 cit. è stato, poi, fatto oggetto di successivo intervento da parte del legislatore ad opera dell’art. 9, comma 3 d.l. n. 244 del 2016, come modificato dalla legge di conversione n. 19 del 2017, con il quale si è disposto che «All’articolo 2, comma 3 del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2010, n. 73, le parole: «31 dicembre 2016» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre 2017».
La seconda parte del disposto dell’art 9, comma 3 cit. continua con la precisazione che «Conseguentemente, la sospensione dell’efficacia disposta dall’articolo 7-bis, comma 1 del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009 n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2017.»
Infine, sulla materia è intervenuto l’art. 10-bis d.l. n. 135 del 2018, che in sede di conversione, di cui alla legge n. 12 del 2019, ha riprodotto le disposizioni già contenute nel d.l. n. 143 del 2018 (di due soli articoli su “Misure urgenti in materia di autoservizi pubblici non di linea”), contestualmente abrogandole e che, per quanto qui di interesse, così dispone «1. Alla legge 15 gennaio 1992, n. 21, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 3, comma 1, le parole: «presso la rimessa» sono sostituite dalle seguenti: «presso la sede o la rimessa» e sono aggiunte, infine, le seguenti parole: «anche mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici»; b) all’articolo 3, il comma 3 è sostituito dal seguente: «3. La sede operativa del vettore e almeno una rimessa devono essere situate nel territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione. È possibile per il vettore disporre di ulteriori rimesse nel territorio di altri comuni della medesima provincia o area metropolitana in cui ricade il territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione, previa comunicazione ai comuni predetti, salvo diversa intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata entro il 28 febbraio 2019. In deroga a quanto previsto dal presente comma, in ragione delle specificità territoriali e delle carenze infrastrutturali, per le sole regioni Sicilia e Sardegna l’autorizzazione rilasciata in un comune della regione è valida sull’intero territorio regionale, entro il quale devono essere situate la sede operativa e almeno una rimessa»; all’articolo 11, il comma 4 è sostituito dal seguente: «4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso la rimessa o la sede, anche mediante l’utilizzo di strumenti tecnologici. L’inizio ed il termine di ogni singolo servizio di noleggio con conducente devono avvenire presso le rimesse di cui all’articolo 3, comma 3, con ritorno alle stesse. Il prelevamento e l’arrivo a destinazione dell’utente possono avvenire anche al di fuori della provincia o dell’area metropolitana in cui ricade il territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione. Nel servizio di noleggio con conducente è previsto l’obbligo di compilazione e tenuta da parte del conducente di un foglio di servizio in formato elettronico, le cui specifiche sono stabilite dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministero dell’interno. Il foglio di servizio in formato elettronico deve riportare: a) targa del veicolo; b) nome del conducente; c) data, luogo e chilometri di partenza e arrivo; d) orario di inizio servizio, destinazione e orario di fine servizio; e) dati del fruitore del servizio. Fino all’adozione del decreto di cui al presente comma, il foglio di servizio elettronico è sostituito da una versione cartacea dello stesso, caratterizzata da numerazione progressiva delle singole pagine da compilare, avente i medesimi contenuti previsti per quello in formato elettronico, e da tenere in originale a bordo del veicolo per un periodo non inferiore a quindici giorni, per essere esibito agli organi di controllo, con copia conforme depositata in rimessa»; f) all’articolo 11, dopo il comma 4 sono inseriti i seguenti: «4-bis. In deroga a quanto previsto dal comma 4, l’inizio di un nuovo servizio può avvenire senza il rientro in rimessa, quando sul foglio di servizio sono registrate, sin dalla partenza dalla rimessa o dal pontile d’attracco, più prenotazioni di servizio oltre la prima, con partenza o destinazione all’interno della provincia o dell’area metropolitana in cui ricade il territorio del comune che ha rilasciato l’autorizzazione. Per quanto riguarda le regioni Sicilia e Sardegna, partenze e destinazioni possono ricadere entro l’intero territorio regionale. 4-ter. Fermo restando quanto previsto dal comma 3, è in ogni caso consentita la fermata su suolo pubblico durante l’attesa del cliente che ha effettuato la prenotazione del servizio e nel corso dell’effettiva prestazione del servizio stesso».
Essendo la questione all’attenzione di queste Sezioni Unite costituita dalla definizione del limite temporale della sospensione dell’efficacia della riforma di settore (giova ribadirlo, se nel senso della sua permanenza nel periodo 1° aprile 2010 – 31 dicembre 2017 ovvero della sua negazione, con tutto ciò che ne consegue in termini di disciplina applicabile al caso di specie), onde poter assolvere al compito di interpretazione di siffatte norme, occorre prendere le mosse dai servizi disciplinati dalla legge quadro n. 21 del 1992, la quale – come sopra esposto – nel prevedere due tipologie di servizio, taxi e noleggio con conducente, con il d.l. 30 dicembre 2008 n. 207, in particolare con l’art. 29, comma 1-quater, ha provveduto a ridisegnare in larga parte la disciplina dello svolgimento dei servizi NCC prevedendo l’introduzione di una serie di vincoli a tale attività; tuttavia l’efficacia di tale disciplina è stata pacificamente ed in termini espliciti sospesa fino al marzo 2010 e, successivamente, dal 1° gennaio 2017 fino al 31 dicembre 2018, per cui permangono dubbi sul periodo compreso tra il 1° aprile 2010 ed il 31 dicembre 2016, non espressamente e dettagliatamente disciplinato.
L’esigenza di adeguare le disposizioni della legge n. 21 del 1992 – in considerazione sia di problematiche relative al rapporto tra i servizi di taxi e di noleggio con conducente (va ricordato che in origine gli obblighi di servizio pubblico discendevano solo per il servizio di taxi, i quali risultano disciplinati dalle leggi regionali, ai cui criteri devono attenersi i comuni nel regolamentarne l’esercizio, enti ai quali sono delegate le funzioni amministrative), sia per l’esigenza di rispondere alle nuove realtà economiche che offrivano servizi non immediatamente riconducibili a quelli previsti dalla regolamentazione nazionale, anche al fine di superare i dubbi riguardanti la loro legittimità – ha caratterizzato le ultime legislature, a ciò stimolate anche dagli interventi delle Autorità indipendenti di settore, quali l’Autorità di Regolazione dei Trasporti (che ha inviato al Governo ed al Parlamento il 21 maggio 2015 un atto di segnalazione sulla rilevanza economico-regolatoria dell’autotrasporto di persone non di linea) e l’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato (AGCM), intervenuta più volte proprio sul tema della riforma della disciplina del settore Taxi e NCC (da ultimo, il 10 marzo 2017, ha inviato una segnalazione al Parlamento ed al Governo in cui si sottolinea che il settore dalla mobilità non di linea – taxi e NCC – richiede una riforma complessiva, in quanto è ancora regolato dalla legge n. 21 del 15 gennaio 1992, oramai non più al passo con l’evoluzione del mercato).
Il profilo dell’autonomia privata di regolare a propria discrezione i fenomeni economici (associativi o di scambio) è stato certamente incentivato dalla globalizzazione e da internet. Basti pensare alla creazione della start up Uber, nota per avere creato nel 2010 l’omonima applicazione per mettere in contatto diretto gli automobilisti ed i passeggeri, offrendo così un servizio di trasporto automobilistico distinto dai tradizionali autoservizi pubblici di linea. L’irrompere sul mercato di questa nuova applicazione ha generato non poche frizioni tra le parti sociali che sono spesso sfociate in contenziosi giurisdizionali. Di qui – alla luce di quanto previsto nel decreto “milleproroghe” 2017 – la scelta del legislatore di posticipare almeno fino al gennaio 2018 l’entrata in vigore dell’art. 29, comma 1-quater legge 30.12.2008 n. 207.
Conseguentemente alla nuova disciplina per il NCC che viene delineata dal d.l. n. 143 del 2018, il comma 5 dell’art. 1 dispone l’abrogazione del comma 3 dell’art. 2 del decreto-legge n. 40 del 2010 che prevedeva l’adozione, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata, di disposizioni per impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia e per definire gli indirizzi generali per l’attività di programmazione e di pianificazione delle regioni, ai fini del rilascio, da parte dei Comuni, dei titoli autorizzativi. Il termine per l’emanazione di tale decreto interministeriale è stato differito 12 volte, da ultimo al 31 dicembre 2018 dall’art. art. 1, comma 1136, lettera b), della legge n. 205 del 2017, che – per quanto già esposto – ha anche confermato la sospensione dell’efficacia, per l’anno 2018, delle disposizioni del D.L. n. 207/2008. Analogamente, il comma 7 dispone, a decorrere dal 1° gennaio 2019, l’abrogazione dell’art. 7-bis d.l. n. 5 del 2009, cioè della norma che aveva disposto la sospensione fino al 31 marzo 2010 dell’operatività dell’art. 29, comma 1-quater, del decreto-legge 30 dicembre 2008 n. 207.
Va, infine, ricordato come l’art. 10-bis d.l. n. 135 del 2018 abbia abrogato, a decorrere dal 10 gennaio 2019, sia il comma 3 dell’art. 2 d.l. n. 40 del 2010, che l’art. 7-bis d.l. n. 5 del 2009, che avevano sospeso l’efficacia della disciplina dettata dall’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2018. Di conseguenza, dal 1° gennaio 2019 hanno acquistato efficacia le disposizioni modificative della legge n. 21 del 1992 introdotte dall’art. 29, comma 1-quater del d.l. n. 207 del 2008, come ulteriormente modificate dall’art. 10-bis del d.l. n. 135 del 2018, mentre è venuta meno la previsione di «urgenti disposizioni attuative» dirette a contrastare il fenomeno dell’abusivismo, da adottare con decreto ministeriale (cfr. testualmente, Corte cost. 56/2020, par. 3.1.).
Solo per completezza si osserva che la legge annuale per la concorrenza (legge n. 124 del 2017, art. 1, commi 179-182) conteneva la delega per l’emanazione di un decreto legislativo di riordino del settore taxi e NCC, da esercitare entro il 29 agosto 2018, ma tale delega non è stata mai esercitata.
Così ricostruito l’excursus storico della disciplina normativa, giova poi chiarire – sempre nell’ottica di una migliore interpretazione del testo normativo – che l’art. 9, comma 3, d.l. n. 244 del 2016, come modificato dalla legge di conversione n. 19 del 2017 che modifica parzialmente l’art. 2, comma 3 d.l. n. 40 del 2010, convertito dalla legge n. 73 del 2010, sostituendo le parole “31 dicembre 2016” con “31 dicembre 2017”, è stato approvato nella Prima Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente del Senato della Repubblica a seguito del recepimento dell’emendamento 9.20, ritirati gli emendamenti 9.16, 9.17, 9.18, 9.22, 9.23 e 9.25, respinti quelli recanti i numeri 9.15, 9.19, 9.21 e 9.24, che meglio rispondevano al quesito esegetico posto dall’ordinanza interlocutoria nel senso che la disposta sospensione opera per tutto il periodo 1° aprile 2010 – 31 dicembre 2017.
Siffatta impostazione tuttavia consente di collegare la disposizione citata all’art. 2, comma 3 d.l. n. 40 del 2010 (il quale stabiliva che: «3. Ai fini della rideterminazione dei principi fondamentali della disciplina di cui alla legge 15 gennaio 1992, n. 21, secondo quanto previsto dall’articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, ed allo scopo di assicurare omogeneità di applicazione di tale disciplina in ambito nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono adottate, entro e non oltre il termine di sessanta giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore del presente decreto, urgenti disposizioni attuative, tese ad impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia.
Con il suddetto decreto sono, altresì, definiti gli indirizzi generali per l’attività di programmazione e di pianificazione delle regioni, ai fini del rilascio, da parte dei Comuni, dei titoli autorizzativi.») all’art. 29, comma 1-quater del d.l. n. 207 del 2008, facendone conseguire la sospensione anche dell’efficacia della riforma che ridisegna i principi fondamentali del servizio del noleggio con conducente di cui alla legge n. 21 del 1992, in quanto il nuovo e più rigoroso regime postula la necessità dell’adozione di una disciplina complessiva (statale, regionale e comunale) con l’adozione di decreti ministeriali concertati tra i Ministeri interessati e previa intesa con la Conferenza Unificata di Stato, regioni e di comuni.
In altri termini, la maieutica dell’art. 9, comma 3 d.l. n. 244 del 2016, come modificato dalla legge di conversione n. 19 del 2017, non consente di dare attuazione alla nuova disciplina nella sua globalità senza la messa a regime dell’intero settore. Né a siffatta interpretazione è di ostacolo il principio secondo cui la norma di interpretazione autentica può essere adottata solo per ovviare ad una situazione di grave incertezza normativa o a forti contrasti giurisprudenziali, con la conseguenza che il legislatore sarebbe abilitato ad intervenire solamente al ricorrere di siffatti eventi, tali da giustificare, di conseguenza, l’esegesi legislativa. Infatti, si rischierebbe di affrontare la tematica dell’interpretazione autentica sulla base di un criterio approssimativo, ossia non considerando la giurisprudenza costituzionale in materia di leggi interpretative, attraverso la quale, seppur con esiti variabili, i giudici delle leggi sono giunti a riconoscere la legittimità dell’intervento (autenticamente) interpretativo, e quindi, retroattivo del legislatore, non solo in casi di incertezza normativa (v. Corte cost. n. 15 del 2012 che richiama le sent. nn. 271 e 257 del 2011, n. 209 del 2010, nn. 311 e 24 del 2009, nn. 162 e 74 del 2008; in tal senso vedi anche Corte cost. nn. 156 del 2014, n. 170 del 2013, n. 264 del 2012, n. 78 del 2012) o di anfibologie giurisprudenziali, ovvero nei casi in cui il legislatore si limiti a selezionare uno dei possibili significati che possono ricavarsi dalla disposizione interpretata (rimanendo entro i possibili confini interpretativi: v. Corte cost. sentenze n. 227 del 2014, n. 170 del 2008 e n. 234 del 2007), ma anche nell’ipotesi in cui il legislatore intervenga per contrastare un orientamento giurisprudenziale (c.d. diritto vivente) sfavorevole, sempre che l’opzione ermeneutica prescelta rinvenga il proprio fondamento nella cornice della norma interpretata (v. Corte cost. n. 271/2011 cit.). Così intesa, l’incertezza normativa cui il legislatore cercherebbe di far fronte mediante l’intervento esegetico potrebbe articolarsi nella diversa accezione oggettiva (oggettivo contrasto giurisprudenziale) ovvero soggettiva (indesiderato indirizzo giurisprudenziale). La Corte costituzionale rinviene il fondamento dell’adozione dello strumento legislativo interpretativo nella sussistenza di contrasti giurisprudenziali che diano luogo ad incertezza applicativa della norma ad oggetto ovvero nel consolidamento di uno specifico orientamento giurisprudenziale, la cui caratteristica sarebbe da rintracciarsi nella contrarietà a quanto disposto dal legislatore, costretto, al fine di imporre la propria interpretazione, ad un intervento correttivo.
Si è assistito ad un iniziale orientamento in cui si era tentato di tracciare – seppure a grandi linee – i contorni della norma di interpretazione autentica, ricercandone gli elementi costituzionalmente necessari affinchè la norma potesse considerarsi legittima, per poi passare ad una seconda fase, nella quale il giudice delle leggi si è allontanato dalla questione della specifica natura da riconoscere alle leggi interpretative, quali norme effettivamente interpretative ovvero innovative criptoretroattive (in tal senso v., tra le altre, Corte cost. n. 234 del 2007), concentrandosi piuttosto sulla ricerca del loro presupposto giustificativo. In linea di principio, dunque, la Corte costituzionale evidenzia la potenzialità retroattiva delle leggi di interpretazione autentica – la cui legittimità è ammessa nell’ordinamento costituzionale nazionale, con l’unico limite dell’art. 25, comma secondo Cost. in materia penale – nella prospettiva, però, di preservazione dei principi di certezza del diritto e di legittimo affidamento dei cittadini (v. Corte cost. n. 166 del 2012), da considerarsi come principi di “civiltà giuridica”. Pertanto, l’intervento legislativo interpretativo sembra essere ammissibile allorchè – sebbene destinato ad incidere sulle posizioni giuridiche soggettive dei singoli – sia tale da garantire una compensazione ragionevole allo svantaggio arrecato. Ed è proprio sulla ragionevolezza della norma interpretativa che sembra fondarsi il nucleo del sindacato di legittimità costituzionale cui aspira il giudice delle leggi. Al fine di risultare costituzionalmente legittima, l’esegesi normativa, infatti, dovrebbe essere ragionevolmente giustificata da motivi imperativi di interesse generale (v. Corte cost. n. 191 del 2014 e n. 170 del 2013), di modo da bilanciare gli effetti retroattivi anche a danno dei diritti acquisiti dai soggetti interessati.
Il giudice è, dunque, chiamato a valutare l’astratta idoneità interpretativa della norma che si pone come tale, attraverso la disamina degli elementi esteriori (rubrica, titolo, autoqualificazione …) ovvero rintracciandone il fine giustificativo (ratio legis …), fino a spingersi ad analizzare il contesto storico in cui la disposizione è stata approvata (volontà storica del legislatore) ovvero giovandosi di altre norme di analogo tenore (interpretazione analogica) o, ancora, rileggere la disposizione alla luce dell’evoluzione del quadro giuridico complessivo (interpretazione evolutiva), di modo che l’intervento interpretativo risulti capace di ricondurre a razionalità e a logicità le norme.
Ed è quanto occorso nella specie, in quanto proprio facendo applicazione di siffatti principi, in particolare quello dell’interpretazione evolutiva, va ravvisata la volontà del legislatore nel senso di estendere la sospensione dell’efficacia della disciplina di riforma – dopo averla disposta espressamente quasi nell’immediatezza dell’entrata in vigore della medesima e fino al 31 marzo 2010 – con la previsione contenuta nel comma 3 dell’art. 9 del d.l. n. 244 del 2016, per cui il termine del suo vigore è stato posticipato al 31 dicembre 2016 (divenuto successivamente 31 dicembre 2017) anche quanto alle disposizioni di cui all’art. 29, comma 1-quater, proprio per ricondurre a coerenza il complessivo quadro delle proroghe finalizzato all’adozione e alla creazione di un sistema unitario e complessivo.
Sotto siffatto profilo il ricorso va, pertanto, accolto per avere il Tribunale di Milano fatto applicazione di una norma i cui effetti al momento della commissione dell’illecito amministrativo erano sospesi e quindi inefficaci anche le norme regionali derivate dalla disciplina statale.
Permane, allora, la questione posta dall’ordinanza interlocutoria con il secondo dubbio interpretativo: «Se, durante il periodo di sospensione dell’efficacia delle disposizioni recate dall’art. 29, comma 1-quater, del d.l. n. 207 del 2008 debbano ritenersi reviviscenti le disposizioni dettate dalla legge n. 21/1992 (artt. 3 e 11) nel testo precedente alle modifiche recate dal menzionato articolo 29 del decreto-legge n. 207/2008 o se, al contrario, tali disposizioni non possano ritenersi tornate in vigore durante la sospensione dell’efficacia dell’art. 29, comma 1-quater, d.l. n. 207/2008, in quanto abrogate e non reviviscenti, con conseguente deregolazione della materia dalle stesse disciplinata».
Come è noto, il fenomeno della reviviscenza indica la condizione di ripresa di vigore della situazione giuridica – ovvero del rapporto – oggetto della vicenda di temporanea e/o permanente stasi, condizione che si verifica per il sopraggiungere di una nuova situazione normativa per la quale le norme abrogatrici vengono a mancare. Per quanto qui di interesse – anche se si è in presenza della diversa fattispecie di sospensione della efficacia della riforma, che comunque da taluni è ritenuta abrogativa della originaria disciplina, cui va assimilata per eadem ratio – si sarebbe in presenza di ipotesi di abrogazione legislativa (nella specie, peraltro, solo temporanea), che si suole ricondurre al brocardo latino lex posterior derogat priori.
L’abrogazione costituisce effetto dell’entrata in vigore di una norma contrastante con un’altra di pari grado, effetto che spetta al giudice interpretare, prendendo in considerazione ai fini della valutazione la norma da applicare alla fattispecie concreta. La questione controversa è quella degli effetti, nel senso se si tratti di un fenomeno istantaneo e irreversibile ovvero se esso sia comunque ravvisabile in ipotesi di contrasto tra due discipline che pur si susseguono nel tempo.
Al riguardo si osserva che alcune relativamente recenti pronunce della Corte costituzionale rese in sede di giudizio di legittimità della legge hanno investito disposizioni abrogatrici e i loro effetti sono stati pacificamente intesi dalla stessa Corte costituzionale e dalla giurisprudenza ordinaria successiva come comportanti il ripristino delle norme illegittimamente abrogate (v. Corte cost. sent. n. 162 del 2012, sent. nn. 5, 32 e 94 del 2014). In passato un esito di questo tipo era stato considerato in termini altamente critici sia in dottrina sia in giurisprudenza, mentre oggi si tende a riconoscere che il sistema di garanzia di conformità delle leggi alla Costituzione non sarebbe completo se non prevedesse la possibilità di estendere il sindacato della Corte anche sulle norme abrogatrici e non potesse implicare l’annullamento dell’abrogazione, qualora essa fosse ritenuta illegittima.
Ci si deve chiedere se la reviviscenza a seguito di abrogazione della norma abrogatrice sia, al pari dell’abrogazione stessa, un istituto autonomo o se, al contrario, essa costituisca un esito interpretativo che si impone per logiche che sono intrinseche allo stesso istituto dell’abrogazione. Il problema non sembra essere stato finora analizzato in questi termini in modo diffuso. La più attenta dottrina ha sempre affermato che la questione della reviviscenza consiste, in ultima analisi, in un problema di interpretazione di diritto positivo, dimostrando in tal modo di propendere per la ricostruzione del fenomeno in chiave di esito interpretativo e non quale istituto giuridico dotato di propria autonomia. Il verificarsi della reviviscenza nei casi concreti si ritiene che debba essere sempre frutto di un’attività interpretativa, poiché uno dei pochi caratteri comuni a tutte le ipotesi di reviviscenza consiste proprio nell’assenza, da parte del legislatore o eventualmente dell’organo che procede al controllo di validità dell’atto normativo, di una dichiarazione di ripristino in forma espressa e vincolante erga omnes. Si tratta di una condizione inevitabile proprio in ragione della circostanza che il legislatore italiano si è sempre disinteressato di porre una disciplina di qualunque tipo sul fenomeno. Nell’affrontare la questione della reviviscenza, pertanto, si prenderanno le mosse dalla ricostruzione delle questioni comuni a tutte le ipotesi, che riguardano principalmente la definizione dell’abrogazione e la questione delle lacune eventualmente colmabili mediante ripristino di norme abrogate.
La chiave di lettura che viene scelta per affrontare il problema è quella di valutare l’impatto della reviviscenza in relazione alla certezza del diritto e alla sua crisi. La reviviscenza, infatti, tende in concreto ad evitare che nell’ordinamento si formino lacune, privando di una disciplina positiva una materia già oggetto di regolamentazione legislativa.
Come già affermato da questa Suprema Corte, soprattutto in materia di espropri, nel riconoscere la reviviscenza della precedente disciplina, il giudice deve compiere un’attività interpretativa che parte dalla necessaria premessa “a meno che il legislatore non abbia stabilito una nuova disciplina” (v. Cass. n. 5550 del 2009; Cass. n. 28431 del 2008; Cass., Sez. Un., n. 26275 del 2007), che mostra l’attenzione del giudice nell’applicare le norme dell’ordinamento, verificandone la operatività. Tali decisioni confermano l’indirizzo secondo cui la reviviscenza di norme abrogate opera in via di eccezione e non automaticamente, descrivendo una ordinaria attività interpretativa del giudice che individuato un vuoto, mira a colmarlo, e ciò indipendentemente dalle ragioni che hanno causato la lacuna normativa. La Corte di legittimità con siffatte pronunce non solo ha riconosciuto la teoria della reviviscenza, l’ha anche applicata nel caso concreto, facendo l’analisi della stratificazione normativa e individuando quella vigente ed applicabile al caso in esame.
Chiaramente la giurisprudenza richiamata non costituisce una teorizzazione generale della reviviscenza di norme abrogate, tuttavia apre le porte al fenomeno per consentire a siffatto meccanismo di colmare una totale carenza di disciplina normativa venutasi a creare a seguito di vicende diverse che possono colpire l’effetto abrogativo. E poiché nel nostro ordinamento non ci sono disposizioni di rango costituzionale o legislativo che prevedano espressamente quali siano le conseguenze sul piano normativo nelle ipotesi di abrogazione di una norma, le norme sull’ammissibilità e sulle condizioni di reviviscenza devono essere necessariamente desunte per via interpretativa.
Al riguardo soccorrono l’interprete le Disposizioni sulla legge in generale (le c.d. “Preleggi”), che all’art. 11 stabiliscono che la legge dispone soltanto «per l’avvenire», vietando gli effetti retroattivi; salvo l’ambito penale, in cui sussiste un divieto costituzionale di retroattività in peius della legge successiva (art. 25, comma 2, Cost.), in ogni altro settore dell’ordinamento tale disposizione legislativa è derogabile, ma soltanto tramite una previsione espressa di norma legislativa. Si tratta di una tutela minima che la legge non sia retroattiva, salvo espressa previsione. Naturalmente si pongono problemi di diritto intertemporale che possono essere risolti proprio con la reviviscenza.
L’altra disposizione che ci viene in soccorso è l’art. 15, che indica i casi in cui le leggi devono considerarsi abrogate, sì da realizzare lo scopo che il mutamento del diritto si realizzi unicamente con un atto di volontà novativa da parte del legislatore, sul presupposto della configurazione in modo logico dell’abrogazione quale fenomeno obiettivo e automatico. La prassi, tuttavia, pare disegnare una distanza da questa impostazione, dovuta soprattutto alla difficoltà di separare con nettezza il riconoscimento dell’abrogazione dall’attività interpretativa.
Venendo al nostro caso, peraltro frequente nella prassi, e sempre che si voglia fare rientrare nel concetto di abrogazione in senso ampio, ci troviamo di fronte ad una abrogazione per novellazione della disciplina (come definita da avveduta recente dottrina), tramite sostituzione o modifica del testo di una disposizione previgente. In queste ipotesi il legislatore può preferire adeguare un preesistente corpus di norme intervenendo su singole parti, senza predisporre un nuovo atto normativo integralmente sostitutivo dei precedenti, riformando – anche solo in parte – un singolo istituto o più istituti previsti senza emanare un nuovo testo iuris. L’entrata in vigore della disposizione modificatrice ha una duplice conseguenza: da un lato introduce una nuova disciplina, dall’altro nello stesso tempo può abrogare quella precedente.
Una disposizione che innova l’ordinamento mediante la modifica di testi normativi previgenti pone questioni peculiari in relazione alle ipotesi di reviviscenza: il venir meno di una simile disposizione, infatti, potrebbe essere inteso come il venire meno della modifica da essa disposta, ripristinando la disposizione modificata nella sua formulazione anteriore. E del resto l’art. 15 delle preleggi afferma che una delle modalità di abrogazione consiste nella «incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti».
Nell’abrogazione c.d. tacita il compito di individuare la disciplina abrogata grava di fatto e di diritto sull’interprete: se più disposizioni, poste dal legislatore in tempi diversi, regolano la stessa materia senza che quelle posteriori abbiano espressamente previsto l’abrogazione di quelle anteriori, l’eventuale contrasto fra le stesse dovrà essere risolto riconoscendo l’abrogazione delle norme espresse dalle disposizioni più antiche da parte di quelle desunte dalle più recenti, per cui l’attività interpretativa deve avere ad oggetto entrambe le discipline.
Si deve tenere presente, però, che la vigenza di una norma può cessare anche senza che ne intervenga l’abrogazione da parte di una successiva. È il caso di leggi che dispongano autonomamente il tempo per cui resteranno vigenti e che pertanto possiamo definire come leggi temporanee. Un’altra ipotesi è quella in cui sia sopravvenuta, per cause materiali o per volontà anche solo temporanea del legislatore, l’impossibilità di dare esecuzione a una norma o a una serie di norme. Quest’ultima ipotesi appare integrare la fattispecie in esame in ordine alla quale il legislatore del 2008/2009 aveva espresso la volontà di un regime più rigoroso per differenziare il servizio taxi da quello di NCC, ponendo a carico di quest’ultimo maggiori limitazioni sanzionate come illeciti amministrativi più dettagliati, senza però far venire meno la disciplina di settore. Trovandoci di fronte a siffatta tecnica di normazione, poiché il legislatore non ha nel tempo completato l’intento dichiarato con il D.L. n. 207/2008 di predisporre una riforma unitaria per assicurare omogeneità di applicazione della disciplina dei trasporti non di linea in ambito nazionale, differendo per ben dodici volte il termine per l’emanazione del decreto interministeriale (decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281), previsto dall’articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, ciò costituisce prova che con il rinvio e la relativa sospensione – onde evitare di incorrere in un vuoto normativo in un settore particolarmente sensibile quale quello del trasporto su territorio nazionale, che proprio con la riforma vuole garantire la composizione di interessi di utilità sociale con quelli della libera attività economica privata, contrastando il fenomeno dell’abusivismo – non abbia voluto abrogare la disciplina previgente, che peraltro non appare abrogata ma al più rafforzata dalla previsione di nuovi illeciti amministrativi che si aggiungono a quelli di cui alla legge n. 21 del 15 gennaio 1992 nella originaria formulazione, oramai considerata non più al passo con l’evoluzione del mercato.
Su questo approccio di ricostruzione del fenomeno si fonda l’effetto ripristinatorio o meglio di permanenza della precedente disciplina, che si basa sull’analisi oggettiva delle vicende della norma abrogatrice in relazione alla norma previgente.
In conclusione, vanno affermati i seguenti principi di diritto: «Il legislatore, con la disposizione di interpretazione autentica, di cui al comma 3 dell’art. 9 del d.l. n. 244 del 2016, ha sospeso l’efficacia delle fattispecie introdotte con l’art. 29, comma 1-quater d.l. n. 2007/2008, inserito dalla legge di conversione n. 14/2009, posticipandola al 31 dicembre 2016 (divenuto successivamente 31 dicembre 2017).
Le fattispecie introdotte con il predetto art. 29, comma 1-quater cit. non abrogano le previgenti ipotesi di cui agli artt. 3 e 11 legge quadro n. 21 del 1992 (art. 3. Servizio di noleggio con conducente 1. Il servizio di noleggio con conducente si rivolge all’utenza specifica che avanza, presso la sede del vettore, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. Lo stazionamento dei mezzi avviene all’interno delle rimesse o presso i pontili di attracco.
Art. 11. Obblighi dei titolari di licenza per l’esercizio del servizio di taxi e di autorizzazione per l’esercizio del servizio di noleggio con conducente 1. I veicoli o natanti adibiti al servizio di taxi possono circolare e sostare liberamente secondo quanto stabilito dai regolamenti comunali. 2. Il prelevamento dell’utente ovvero l’inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza per qualunque destinazione, previo assenso del conducente per le destinazioni oltre il limite comunale o comprensoriale, fatto salvo quanto disposto dal comma 5 dell’articolo 4. 3. Nel servizio di noleggio con conducente, esercìto a mezzo di autovetture, è vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico nei comuni ove sia esercito il servizio di taxi. E’ tuttavia consentito l’uso delle corsie preferenziali e delle altre facilitazioni alla circolazione previste per i taxi e altri servizi pubblici. 4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso le rispettive rimesse. 5. I comuni in cui non è esercìto il servizio di taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. 6. I comuni, ferme restando le attribuzioni delle autorità competenti in materia di circolazione negli ambiti portuali, aeroportuali e ferroviari, ed in accordo con le organizzazioni sindacali di categoria dei comparti del trasporto di persone, possono, nei suddetti ambiti, derogare a quanto previsto dal comma 3, purchè la sosta avvenga in aree diverse da quelle destinate al servizio di taxi e comunque da esse chiaramente distinte, delimitate e individuate come rimessa. 7. Il servizio di taxi, ove esercito, ha comunque la precedenza nei varchi prospicienti il transito dei passeggeri), che vengono pertanto solo integrate dalla successiva previsione e comunque sono da ritenere vigenti al momento della commissione della violazione contestata».
Alla luce di quanto sopra affermato, la decisione di accoglimento dell’appello si pone, dunque, in contrasto con tali principi, sicché il ricorso va accolto; ne discende l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio del procedimento al Tribunale di Milano, in persona di diverso magistrato, affinché riesamini la vicenda alla luce dei principi sopra affermati e accerti se la condotta contestata integri o meno l’illecito amministrativo ai sensi e per gli effetti degli artt. 3 e 11 previsti dalla legge n. 21 del 1992 nella versione antecedente alla riforma di cui al d.l. n. 207 del 2008.
Al giudice del rinvio è rimessa anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 385 c.p.c.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso;
cassa la decisione impugnata e rinvia al Tribunale di Milano, in persona di diverso magistrato, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio delle Sezioni
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 01 marzo 2022, n. 6781, per SS.UU, 20 giugno 2023, n. 17541, in tema di trasporto di persone
SS.UU, 20 giugno 2023, n. 17541, in tema di trasporto di persone
In tema di responsabilità da custodia – SS.UU, 30 giugno 2022, n. 20943
Civile Ord. Sez. U Num. 20943 Anno 2022
Presidente: DI IASI CAMILLA
Relatore: CONTI ROBERTO GIOVANNI
Data pubblicazione: 30/06/2022
ORDINANZA
sul ricorso 24319-2020 proposto da:
EDISON S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE TRASTEVERE 209, presso lo studio dell’avvocato GENEROSO BLOISE, rappresentata e difesa dall’avvocato TROISE MANGONI WLADIMIRO;
– ricorrente –
contro
UNIPOLSAI ASSICURAZIONI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 22, presso lo studio dell’avvocato MARCO LORENZANI, rappresentata e difesa dall’avvocato MASSIMILIANO GHIGNONE;
CONSORZIO 1 TOSCANA NORD, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 18, presso lo STUDIO LEGALE LESSONA, rappresentato e difeso dall’avvocato VITTORIO CHIERRONI;
– controricorrenti –
BORGNA ANTONIO, BORGNA CLAUDIO, elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE B. BUOZZI 77, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO TORNABUONI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALFREDO BASSIONI;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
RUSCHI NOCETI CARLO, RUSCHI NOCETI FRANCESCO, RUSCHI NOCETI MARIA LUISA, DEL LUPO MARIA VITTORIA, elettivamente domiciliati in ROMA, LARGO MESSICO 7, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO TEDESCHINI, rappresentati e difesi dagli avvocati ROMEO VINCIGUERRA e DANIELE GRANARA;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
contro
EDISON S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE TRASTEVERE 209, presso lo studio dell’avvocato GENEROSO BLOISE, rappresentata e difesa dall’avvocato TROISE MANGONI WLADIMIRO;
CONSORZIO 1 TOSCANA NORD, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 18, presso lo STUDIO LEGALE LESSONA, rappresentato e difeso dall’avvocato VITTORIO CHIERRONI;
– controricorrenti all’incidentale
nonchè contro
AXA ASSICURAZIONI S.P.A., UNIPOLSAI ASSICURAZIONI S.P.A., GENERALI ITALIA S.P.A.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 61/2020 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE PUBBLICHE, depositata il 04/06/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/03/2022 dal Consigliere ROBERTO GIOVANNI CONTI.
FATTI DI CAUSA
Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria, sostenendo di aver subito danni alla loro proprietà per effetto dell’esondazione del fiume Teglia, avvenuta il 25 ottobre 2011, che aveva interessato i territori della Lunigiana e della Provincia de La Spezia, avevano adito il Trap presso la Corte di appello di Torino, chiedendo la condanna al risarcimento del danno nei confronti della società Edison spa che aveva manovrato la diga della Rocchetta, e dell’Unione dei comuni montani della Lunigiana (poi divenuta Consorzio 1 Toscana Nord), quale ente tenuto alla manutenzione dell’alveo del fiume anzidetto.
Disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti della Provincia di Massa Carrara, del Comune di Mulazzo, della regione Toscana, dell’Autorità di Bacino del fiume Magra, del Ministero delle infrastrutture e trasporti, di Borgna Claudio e Borgna Antonio, nonché delle società Generali spa, Unipol spa e Axa spa, il TRAP adito rigettava la domanda, ritenendo l’eccezionalità dell’evento.
Il Tribunale superiore delle acque pubbliche, con la sentenza n.61, pubblicata il 4 giugno 2020, in accoglimento dell’appello proposto da Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria ed in parziale riforma della sentenza impugnata condannava in solido la Edison spa, Borgna Antonio e Borgna Claudio al pagamento della somma di euro 126.340,34, maggiorata di rivalutazione e interessi, oltre al pagamento delle spese del giudizio, compensando le spese di lite fra il Consorzio e gli appellanti, nonché fra questi ultimi e le assicurazioni chiamate in causa.
Il TSAP, per quel che qui rileva, riteneva che: a) la domanda introduttiva del giudizio formulata dagli appellanti era riconducibile all’art. 2051 c.c., fondandosi sulla dedotta violazione degli obblighi di manutenzione, cura e gestione gravanti sia sul Consorzio 1 Toscana, con riguardo al fiume Teglia, sia su Edison, quale gestore della diga di Rocchetta, che su Borgna Antonio e Claudio, con riguardo al rilevato di loro proprietà; b) l’azione di responsabilità del custode prescindeva dal profilo del comportamento del custode, essendo estranea alla struttura della fattispecie normativa di cui all’art.2051 c.c., avendo il criterio di imputazione di tale responsabilità carattere obiettivo e richiedendo unicamente la dimostrazione, da arte dell’attore, del nesso di causalità tra la cosa in custodia e il danno, salva la prova liberatoria del caso fortuito, inteso come fattore escludente il nesso eziologico tra cosa e danno eventualmente ascrivibile anche alla vittima; c) la disciplina di cui all’art. 2051 c.c. si applica anche in tema di danni da custodia di beni demaniali, pur dovendosi precisare che la responsabilità del concessionario di tali beni viene meno con la prova del fortuito «…consistente non già nella dimostrazione dell’interruzione del nesso di causalità determinato da elementi esterni o dal fatto estraneo alla sfera di custodia…bensì anche dalla dimostrazione -in applicazione del principio di c.d. vicinanza della prova- di aver espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla funzione della cosa, in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo, di vigilanza e manutenzione su di esso gravanti in base a specifiche disposizioni normative e già del principio generale del neminem laedere, di modo che il sinistro appaia verificatosi per fatto non ascrivibile a sua colpa»; e ciò, proseguiva il TSAP, anche considerando che le dighe sono impianti che interagiscono con il territorio in modo rilevantissimo, sia dal punto di vista idraulico che ambientale e che i gestori sono tenuti ad un serie di adempimenti volti a garantire la sicurezza delle stesse, essendo inerenti al concetto di custodia di tali beni anche gli interventi tesi a neutralizzare gli elementi pericolosi non arginabili attraverso un’attività preventiva idonea ad evitare danni attinenti alla cosa in custodia; d) il danno lamentato dagli attori non era derivato dal mero evento meteorologico, essendo dovuto, come affermato dal CTU, al rilascio delle acque fluite a valle dalla diga della Rocchetta, nonché dall’impedimento dell’espansione del Teglia in sponda sinistra; e) il TRAP aveva erroneamente escluso che i bollettini regionali intervenuti nella giornata del 24 ottobre 2011 avessero rilievo per il gestore della diga con riguardo ai suoi specifici obblighi di custodia, da tali bollettini scaturendo invero, a carico del gestore, l’obbligo di attuare le prescrizioni contenute nel documento di protezione civile della diga, per cui soltanto il rispetto di tali obblighi avrebbe consentito di ritenere l’evento meteorologico quale caso fortuito idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra cosa in custodia e danno; f) dai bollettini regionali del 24 ottobre, secondo il TSAP, sarebbe stata possibile una valutazione ex ante di probabile criticità della quota di invaso, con conseguente onere del gestore di procedere secondo quanto previsto dal documento di protezione civile in ordine alle ipotesi di evento di piena significativo ed alle prescrizioni proprie della fase di preallerta vigilanza ordinaria e allerta vigilanza rinforzata -avviso tempestivo del Prefetto e dell’Ufficio periferico del servizio nazionale dighe competenti, comunicazioni successive ai Prefetti della prevista onda di piena, predisposizione piano di emergenza- capaci di salvaguardare la sicurezza dei territori interessati; h) lo stesso CTU aveva acclarato che già prima del black out temporaneo del 25 ottobre i dati relativi alla diga indicavano il prossimo superamento della quota massima di invaso e che ciò malgrado il gestore non aveva proceduto ad avvisare il Prefetto e l’Ufficio periferico del servizio nazionale dighe circa la possibile imminente apertura delle paratoie di superficie; i) andava dunque affermata la responsabilità della società Edison quale gestore della diga nella causazione dei danni, non essendo stata provata la speciale ed unica esimente del caso fortuito secondo i principi già espressi; l) anche il rilevato realizzato dei fratelli Borgna integrava una concausa nella produzione dei danni agli immobili degli appellanti, in base a quanto ritenuto dall’accertamento tecnico preventivo e dal CTU, in quanto aveva impedito l’espansione del fiume Teglia in sponda sinistra, risultando non decisivi gli elementi probatori offerti in primo grado dai predetti, nemmeno adeguatamente riproposti in sede di appello; m) non poteva per contro profilarsi una corresponsabilità del Consorzio 1 Toscana Nord poiché, anche in presenza di una capillare manutenzione ordinaria dell’alveo, non si sarebbe potuta escludere, in caso di piene significative, la fluitazione di tronchi provenienti da piante anche a distanza dell’alveo o comunque da zone esterne alla fascia di pertinenza fluviale; n) i danni subiti dai proprietari, in base alle valutazioni del CTU, andavano quantificati in euro 126.340,34 oltre rivalutazione ed interessi.
La Edison spa ha proposto ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 200 R.D. n.1775/1933, affidato a due motivi.
Borgna Claudio e Borgna Antonio si sono costituiti con controricorso e ricorso incidentale, affidato a due motivi.
Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria hanno depositato controricorso con ricorso incidentale, affidato ad un motivo.
Il Consorzio 1 Toscana Nord si è costituito con controricorso.
Lo stesso Consorzio 1 Toscana Nord e la Edison spa hanno proposto separati controricorsi al ricorso incidentale proposto da Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria.
La causa è stata posta in decisione all’udienza camerale dell’8.3.2022.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Con il primo motivo di ricorso principale la EDISON spa prospetta la violazione dell’art. 2051 c.c. e l’omessa motivazione delle risultanze istruttorie nonché dei fatti storici esaminati ed accertati dal C.T.U. Il TSAP, aderendo all’interpretazione della responsabilità da cose in custodia che richiede la prova del rispetto degli obblighi di diligenza in capo al custode, non avrebbe seguito l’indirizzo prevalente espresso da questa Corte, che qualifica la responsabilità del custode in termini di responsabilità oggettiva, elisa soltanto in caso di dimostrazione del caso fortuito, essendo estraneo alla natura dell’imputazione di cui all’art. 2051 c.c. il profilo del comportamento del responsabile. Secondo la ricorrente, peraltro, anche a volere condividere l’orientamento minoritario fatto proprio dal TSAP, il giudice di appello avrebbe tralasciato di considerare gli ulteriori accertamenti svolti dallo stesso CTU, idonei ad escludere ogni rilievo con riferimento all’omessa comunicazione al Prefetto ed all’Ufficio nazionale delle dighe rispetto alla causazione dei lamentati danni, in tal modo non considerando che tali comunicazioni non avrebbero potuto evitare il danno.
1.1.Secondo la ricorrente, inoltre, il TSAP avrebbe errato nel ritenere che il gestore fosse tenuto ad adempiere gli obblighi di comunicazione alle autorità pubbliche già in base ai bollettini diramati il 24 ottobre 2011. Non era stato, infatti, preso in considerazione quanto affermato dal CTU a proposito dell’insorgenza dell’obbligo informativo solo in prossimità del blackout verificatosi alle ore 16.15 del 25 ottobre 2011, mancando in precedenza l’esistenza di evenienze pluviometriche capaci di indurre a prevedere il picco catastrofico di piena verificatosi alle ore 17.00, caratterizzato da una portata con un tempo di ritorno millenario.
2.Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 2051 c.c., 40 e 41 c.p., nonché l’omessa valutazione delle risultanze istruttorie e dei fatti storici acclarati dal C.T.U. Il TSAP avrebbe travisato il senso delle conclusioni del CTU, laddove era stato affermato che la causa unica del danneggiamento era imputabile all’evento di piena del 25.10.2011. Tale passaggio argomentativo sarebbe stato tralasciato dal giudice di appello, al pari di quello successivo, nel quale era stato chiarito che la portata dell’acqua giunta a valle dalla diga durante la fase di apertura degli scarichi di superficie, quando si erano avuti i valori massimi di portata affluente alla diga, era stata sostanzialmente nulla. In definitiva, l’esito dell’istruttoria svolta in primo grado deporrebbe, secondo la ricorrente, nel senso di dover ritenere insussistente il nesso eziologico tra danno e cosa in custodia, con conseguente erroneità della pronunzia impugnata.
3.Borgna Claudio e Borgna Antonio, nel ricorso incidentale proposto e notificato in data 5 ottobre 2020 hanno dedotto, con il primo motivo, la violazione dell’art. 2051 c.c. Il TSAP avrebbe affermato la corresponsabilità dei predetti nella causazione dell’evento senza spiegarne le ragioni, visto che l’evento dannoso era derivato da un fatto meteorico di natura eccezionale e dalla negligente condotta del gestore della diga, rilevando, peraltro, che il terrapieno al quale si era riferito il TSAP era stato arretrato in esecuzione di una sentenza del Tribunale di Massa nell’ambito di un giudizio per danno temuto. Né essi proprietari avrebbero potuto fare alcunché nel lasso di tempo intercorso fra le previsioni emergenti dai bollettini e l’evento alluvionale.
4.Con il secondo motivo di ricorso incidentale i fratelli Borgna hanno dedotto la violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., sostenendo che il TSAP avrebbe affermato la responsabilità dei suddetti per l’evento dannoso, trascurando di verificare gli elementi probatori acquisiti al processo ed omettendo di considerare che nessun fatto materiale era stato provato in ordine al nesso causale.
5.Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria, con il loro controricorso, hanno dedotto l’inammissibilità del ricorso e l’infondatezza dei singoli motivi di ricorso proposti dalla società Edison, sostenendo che il ricorso sarebbe inammissibile in quanto : a) contenente la mescolanza di mezzi d’impugnazione eterogenei; b) privo del carattere dell’autosufficienza; c) tendente alla riedizione del giudizio di fatto operato dal TSAP; d) la sentenza impugnata sarebbe pienamente conforme alla giurisprudenza di questa Corte (art.360-bis n.1 c.p.c.).
5.1. I controricorrenti hanno poi dedotto l’infondatezza del primo motivo del ricorso principale, non avendo la Edison fornito la prova liberatoria a sé favorevole. Inoltre, secondo i controricorrenti il TSAP avrebbe espressamente riconosciuto che l’adempimento degli obblighi previsti dal documento di protezione civile avrebbe evitato i danni prodottisi, inoltre sostenendo l’inammissibilità del secondo motivo del ricorso principale, attenendo questo alla censura di un fatto.
5.2. I predetti Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria hanno poi dedotto la tardività del ricorso incidentale proposto dai fratelli Borgna, dovendosi applicare il termine di quarantacinque giorni dalla notifica della sentenza a cura della cancelleria ed avendo, per contro, essi controricorrenti ricevuto la notifica del ricorso incidentale soltanto il 5 ottobre 2020. Hanno poi dedotto l’inammissibilità del ricorso incidentale per violazione del principio di autosufficienza, lo stesso contenendo, inammissibilmente, una censura relativa alle valutazioni in fatto operate dal giudice di appello senza prospettare alcuna violazione di legge, nemmeno potendosi ritenere correttamente contestata la violazione dell’art. 2697 c.c. in quanto la doglianza censurava un apprezzamento sull’esito della prova, insindacabile in sede di legittimità al di fuori delle ipotesi di cui al n.5 dell’art. 360 c.p.c. Detti controricorrenti hanno ulteriormente prospettato l’inammissibilità del secondo motivo del ricorso principale per mescolanza di censure eterogenee di natura sostanziale e processuale, inoltre insistendo per l’infondatezza di entrambi i motivi.
6.Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Maria Luisa e Del Lupo Maria Vittoria hanno poi proposto ricorso incidentale tardivo -essendo a loro dire insorto l’interesse dal ricorso principale avversario- affidato ad un motivo, censurando la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. Il TSAP avrebbe errato nel ritenere la genericità del rinvio alla consulenza tecnica di parte operato dai ricorrenti incidentali per la quantificazione dei danni, visto che in tale consulenza di parte erano state analiticamente contestate le quantificazioni dei danni operate per singola voce dal C.T.U.
7.Esaminando con priorità il ricorso principale della società Edison, sono anzitutto infondati i rilievi espressi dai controricorrenti Ruschi e Del Lupo in ordine all’inammissibilità dei due motivi di ricorso, ove si consideri che le censure dedotte nel primo motivo, ancorché inserite graficamente all’interno di un unico motivo, espongono in maniera chiara e sufficientemente precisa i due vizi prospettati dalla ricorrente ed i parametri normativi di riferimento -cfr., Cass. S.U., n.9100/2015-, l’uno correlato al ritenuto error iuris nel quale sarebbe incorso il TSAP per aver ritenuto la responsabilità della stessa sussumendola nell’ambito dell’art. 2051 c.c., e l’altro connesso all’omessa considerazione di parte degli elementi valutati dalla ctu, e dunque sussumibile nel vizio di cui al n.5 dell’art.360, c.1, c.p.c. Censure peraltro puntualmente indicate anche nella rubrica del primo motivo.
7.1. Parimenti infondata risulta la dedotta inammissibilità del primo motivo in relazione al n.5 dell’art. 360, c.1, c.p.c., pienamente ammissibile quanto alle sentenze rese dal TSAP, in sede di controllo innanzi alle Sezioni Unite, come già chiarito da Cass., S.U., n.28547/2008 e Cass., S.U., n.19881/2014.
7.2. Analogamente destituita di fondamento risulta la dedotta inammissibilità dei motivi per difetto di autosufficienza, contenendo gli stessi la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi su cui il ricorso si fonda.
7.3. Più delicata risulta la dedotta inammissibilità sotto il profilo della incensurabilità di accertamenti di fatto compiuti dal TSAP.
7.4. Ed invero, quanto alla prima censura esposta nel primo motivo di ricorso principale, la stessa più che sollecitare una diversa ponderazione dei fatti esaminati dal TSAP, prospetta l’errore in diritto dello stesso giudice per aver ritenuto sussistente la responsabilità di Edison sulla base di una interpretazione dei presupposti di cui all’art. 2051 c.c., a dire della ricorrente, errati.
7.5. La ricorrente principale, infatti, intende sollecitare una verifica in punto di non correttezza della ricostruzione in diritto operata dal TSAP per aver riconosciuto la responsabilità di EDISON pur in presenza della dimostrata eccezionalità dell’evento meteorico, valorizzando, a suo dire, erroneamente l’inosservanza di obblighi di diligenza del custode che non sarebbe pertinenti rispetto alle ipotesi della responsabilità da cose in custodia.
7.6. Parimenti infondato risulta il profilo di inammissibilità del ricorso principale in relazione all’art. 360-bis, n.1, c.p.c.
7.7. Ed invero, la prospettazione dalla quale prende le mosse la ricorrente principale muove dalla circostanza che il TSAP avrebbe fatto proprio un indirizzo giurisprudenziale minoritario espresso da questa Corte e nel dedurre ciò ha indicato l’indirizzo a suo dire prevalente in tema di art. 2051 c.c. con riferimento alla dimostrazione di ciò che è necessario dimostrare al custode per andare esente da responsabilità.
Tanto esclude in radice di poter ipotizzare l’ipotesi di inammissibilità fondata sulla violazione dell’art. 360-bis, n.1, c.p.c. che, al contrario, contempla il caso in cui il ricorso proposto si porrebbe in contrasto con un indirizzo consolidato della Cassazione che, anzi, è proprio la ricorrente a richiamare per sostenere l’errore nel quale sarebbe incorso il TSAP.
8. Ciò detto, passando all’esame del merito del primo motivo di ricorso principale, lo stesso è fondato nei termini di seguito precisati.
8.1. Ed invero, il TSAP, per giungere al riconoscimento della responsabilità del concessionario della diga, dopo aver riconosciuto il nesso di causalità fra il danno subito dalla proprietà dei signori Ruschi e Del Lupo e le acque provenienti dalla sovrastante diga, gestita da detta società, ha agganciato la responsabilità del concessionario della diga alla mancata dimostrazione del rispetto degli obblighi incombenti sullo stesso, in relazione alla ritenuta verificazione di uno stato di allerta-vigilanza rinforzata, evincibile sulla base dei bollettini del 24 ottobre 2011 che, secondo tale giudice, avrebbero dovuto determinare in capo al gestore l’attivazione degli obblighi di custodia come delineati nell’allegato 15 annesso alla CTU. Secondo il TSAP, infatti, solo la prova dell’assolvimento degli obblighi ivi previsti -comunicazione alle prefetture della prevista onda di piena- e non adempiuti né il 24 ottobre né il giorno successivo, già prima del blackout delle ore 16,36 che aveva temporaneamente impedito le comunicazioni, avrebbero integrato il caso fortuito idoneo ad interrompere il nesso causale.
8.2. Ora, a sostegno di tale conclusione il TSAP, in punto di responsabilità del custode in relazione al riversamento sul fondo degli attori delle acque provenienti dalla diga in custodia di Edison, ha evocato alcuni precedenti di questa Corte che, nella prospettiva della ricorrente, avrebbero configurato la responsabilità da cose in custodia in termini distonici rispetto all’orientamento prevalente nella giurisprudenza di questa Corte e favorevole alla ricostruzione in termini di responsabilità oggettiva del custode.
8.3. Occorre evidenziare che il cuore della decisione impugnata, nella parte in cui riconosce la responsabilità del concessionario della diga rispetto all’esondazione del fiume Teglia e ai danni cagionati alla proprietà dei Ruschi Noceti e Del Lupo, sta nel riconoscimento della circostanza che il danno per cui è causa non era conseguito al mero evento meteorologico -considerato di natura eccezionale dal TRAP, v.pag.14 2^ cpv. sent. impugnata-, ma anche dal rilascio dell’acqua dalla diga (per quel che riguarda la responsabilità di Edison) -pag.21, p.10, sent. impugnata-, tanto che per giungere a questa conclusione, il TSAP ha riconosciuto l’inosservanza da parte di Edison degli obblighi di custodia nascenti dai bollettini metereologici del 24 e del 25 ottobre 2011, ritenendo che solo la dimostrazione dell’osservanza di tali obblighi avrebbe giustificato l’esonero della responsabilità di Edison -cfr. pag.25, p.16 sent. impugnata, ove si afferma testualmente che “va affermata la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. dell’Edison spa quale gestore della diga, nella causazione dei danni in questione, non risultando dal custode provata la speciale ed unica esimente del caso fortuito secondo i principi di cui al punto 9.”-.
8.4. Si è visto come il TSAP sia giunto a tale esito interpretativo, richiamando alcuni precedenti di questa Corte, fra i quali quello di maggior rilievo risulta senz’altro essere Cass. n.2308/2007.
8.5. Con tale arresto la terza sezione di questa Corte ebbe ad enunciare, tra gli altri, il seguente principio di diritto:
«La disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ. si applica anche in tema di danni sofferti dagli utenti per la cattiva ed omessa manutenzione delle autostrade da parte dei concessionari, in ragione del particolare rapporto con la cosa che ad essi deriva dai poteri effettivi di disponibilità e controllo sulle medesime, salvo che dalla responsabilità presunta a loro carico i concessionari si liberino fornendo la prova del fortuito, consistente non già nella dimostrazione dell’interruzione del nesso di causalità determinato da elementi esterni o dal fatto estraneo alla sfera di custodia (ivi compreso il fatto del danneggiato o del terzo), bensì anche dalla dimostrazione – in applicazione del principio di c.d. vicinanza alla prova – di aver espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla funzione della cosa, in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo, di vigilanza e manutenzione su di essi gravanti in base a specifiche disposizioni normative e già del principio generale del “neminem laedere“, di modo che il sinistro appaia verificatosi per fatto non ascrivibile a sua colpa.»
8.6. Tale precedente, richiamando Cass. n.3651 del 20 febbraio 2006, ha sostenuto che, in materia di danni sofferti dagli utenti per la cattiva od omessa manutenzione delle strade (allora discutendosi di autostrade), pur essendo applicabile la disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ., il titolo di responsabilità ascrivibile all’ente titolare della strada o al relativo concessionario era da ricostruirsi in termini di responsabilità presunta con conseguente applicabilità del criterio di inversione dell’onere della prova. Ragion per cui incombe sul custode l’onere di liberarsi da tale responsabilità mediante l’assolvimento della prova liberatoria del fortuito, ovvero fornendo il riscontro che il danno si fosse verificato in modo imprevedibile e, comunque, non superabile con l’adeguata diligenza consona alle concrete circostanze del caso concreto.
8.7. Secondo Cass. n.3651/2006 «…l’art. 2051 cod. civ. determina infatti un’ipotesi (non già di responsabilità oggettiva bensì) caratterizzata da un criterio di inversione dell’onere della prova, ponendo (al secondo comma) a carico del custode la possibilità di liberarsi dalla responsabilità presunta a suo carico mediante la prova liberatoria del fortuito (c.d. responsabilità aggravata), dando cioè, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce cui fanno peraltro riscontro corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e diligenza (i quali impongono di adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto) nonché in ossequio al principio di c.d. vicinanza alla prova, la dimostrazione che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso. Il custode è cioè tenuto a provare la propria mancanza di colpa nella verificazione del sinistro – e non già la mancanza del nesso causale, il criterio di causalità essendo altro e diverso dal giudizio di diligenza (avere preso tutte le misure idonee) -, che si risolve sostanzialmente sul piano del raffronto tra lo sforzo diligente nel caso concreto dovuto e la condotta – caratterizzata da assenza di colpa – mantenuta. È allora sul piano del fortuito, quale esimente di responsabilità, che possono assumere rilievo (anche) i caratteri dell'”estensione” e dell'”uso diretto della cosa” da parte della collettività che, estranei alla “struttura” della fattispecie e pertanto non configurabili come presupposti di applicazione della disciplina ex art. 2051 cod. civ., possono valere ad escludere la presunzione di responsabilità ivi prevista ove il custode dimostri che l’evento dannoso presenta i caratteri dell’imprevedibilità e della inevitabilità non superabili con l’adeguata diligenza, come pure l’evitabilità del danno solamente con l’impiego di mezzi straordinari (e non già di entità meramente considerevole).»
8.8. Orbene, giova ricordare che detto indirizzo si poneva in contrasto con altro orientamento della medesima sezione terza di questa Corte, alla stregua del quale, ferma restando la configurabilità per i danni cagionati dai beni demaniali in effettiva custodia della P.A. (o dei suoi concessionari) della responsabilità di cui all’art. 2051 cod. civ., a quest’ultima viene riconosciuto un carattere non presunto ma oggettivo, di guisa che, ai fini della sua sussistenza, è sufficiente riscontrare l’esistenza del nesso causale tra il bene in custodia e la conseguenza dannosa, senza che assuma alcuna rilevanza la condotta del custode e l’osservanza o meno di uno specifico obbligo di vigilanza da parte sua, rimanendo la stessa esclusa solo nell’eventualità della verificazione del caso fortuito, ricollegabile, tuttavia, al profilo causale dell’evento in rapporto all’incidenza sul medesimo di un elemento esterno contraddistinto dagli elementi dell’oggettiva imprevedibilità ed inevitabilità -Cass. n.15383 del 6 luglio 2006-.
8.9. Analogamente Cass. n.20359 del 21 ottobre 2005 riteneva che «La responsabilità per i danni cagionati da una cosa in custodia, disciplinata dall’art. 2051 cod. civ., si fonda non su un comportamento od un’attività del custode, ma su una relazione intercorrente tra questi e la cosa dannosa; questa responsabilità, tuttavia, incorre in un limite, che risiede nell’intervento di un fattore, il caso fortuito, che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma ai modi con i quali si è verificato il danno. In altri termini, il convenuto, per liberarsi dell’obbligo risarcitorio, deve provare l’esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale e che, potendo consistere anche nel fatto di un terzo o dello stesso danneggiato, deve presentare i caratteri del fortuito e, quindi, dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità del fatto medesimo». In senso conforme si era ribadito che «…non rileva in sé la violazione dell’obbligo di custodire la cosa da parte del custode, la cui responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale dell’evento, riconducibile in tal caso non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno. Ne consegue che il vizio di costruzione della cosa in custodia, anche se ascrivibile al terzo costruttore, non esclude la responsabilità del custode nei confronti del terzo danneggiato, non costituendo caso fortuito, che interrompe il nesso eziologico, salva l’eventuale corresponsabilità del costruttore nei confronti del danneggiato e salva l’eventuale azione di rivalsa del danneggiante»- Cass. n.20317/2005 e Cass. n. 25243/2006-.
8.9. Ora, la diversità di indirizzi sulla conformazione della responsabilità del custode è peraltro proseguita anche nella giurisprudenza successiva determinando, alla fine, la presa di posizione della terza sezione civile che, con due sentenze rese in data 1 febbraio 2018, nn.2480 e 2481, ha affermato i seguenti principi:
a) “l’art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima”;
b) “la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso”;
c) “il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere”;
d) “il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione anche ufficiosa dell’art. 1227 c.c., comma 1; e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost. Pertanto, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso comportamento, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale”.
8.10. Con specifico riferimento al tema che qui viene in rilievo e cioè quello della rilevanza, all’interno della responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., degli obblighi di diligenza incombenti in capo al custode e del loro rilievo ai fini dell’esonero della responsabilità, il precedente appena ricordato ha ritenuto di chiarire che “…prospettato e provato dal danneggiato il nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, la colpa o l’assenza di colpa del custode resta del tutto irrilevante ai fini della sua responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c.”.
8.11. Principi, quelli appena qui riassunti, che si sono stabilizzati nella giurisprudenza della terza sezione, per effetto di Cass. n.2477/2018 -coeva alle appena ricordate sentenze nn.2480 e la n. 2481-, come è agevole constatare attraverso le indagini ricostruttive, rilevanti ai fini che qui interessano, svolte da Cass. n.27724/2018 e, più recentemente, da Cass. n.4588/2022- in particolare a p.6 e relativi richiami.
9.Fatte le superiori premesse in diritto, reputano queste Sezioni Unite che la sentenza impugnata non si sia uniformata ai superiori principi espressi in funzione nomofilattica dalla terza sezione civile di questa Corte.
9.1. In particolare, il TSAP, dopo aver riconosciuto l’incidenza causale sull’evento dannoso della condotta ascrivibile al gestore della diga dalla quale si sono accertate provenire le acque che determinarono l’ingrossamento dell’alveo del fiume, non si è uniformato alla giurisprudenza da ultimo richiamata onde verificare la sussistenza del caso fortuito come esimente idonea ad interrompere il nesso di causalità; verifica che avrebbe dovuto essere compiuta su un piano puramente oggettivo, per accertare se il nesso causale fosse stato eliso da fattori esterni imprevedibili e/o inevitabili e che, invece, ha erroneamente valorizzato profili di natura soggettiva (segnatamente, l’inosservanza del gestore rispetto ad alcuni obblighi di comunicazione alle autorità competenti che, secondo il TSAP, avrebbero potuto integrare, ove il concessionario avesse dimostrato di averli assolti, “l’unica esimente del caso fortuito”), in tal modo inserendo nel paradigma della responsabilità ex art. 2051 c.c. valutazioni sulla condotta del custode che sono ad esso estranee.
9.2. La seconda parte del primo motivo ed il secondo motivo di ricorso principale restano assorbiti nell’accoglimento della censura nei termini appena esposti.
10. Passando all’esame del ricorso incidentale proposto dai signori Ruschi e Del Lupo, affidato ad un motivo ed ammissibile rispetto alle modalità di proposizione dei motivi, involgendo capi della sentenza del TSAP che si riflettono anche su soggetti diversi dalla ricorrente principale, esso deve anzitutto ritenersi tempestivo.
10.1. Ed invero, giova ricordare che il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione avverso la sentenza del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche è disciplinato dalle norme del vigente codice di rito che regolamentano l’ordinario ricorso per Cassazione, atteso che il rinvio operato dall’art. 202 del r.d. n.1775 del 1933 alla disciplina del codice processuale del 1865 non deve intendersi come recettizio, ma come rinvio formale, ossia non alle specifiche norme richiamate, bensì al contenuto di esse come mutato nel tempo. Ne consegue che la parte cui sia stata notificata l’impugnazione, ove intenda, a sua volta, proporre controricorso o ricorso incidentale, deve farlo nei termini stabiliti dagli artt. 370 e 371 c.p.c. -cfr. Cass. S.U. n.26127/2016-.
10.2. Orbene, nel caso di specie, il ricorso incidentale proposto dai Ruschi e dalla Del Lupo dopo la notifica, in data 17.9.2020, del ricorso principale di Edison spa, è stato notificato con atti inviati a mezzo del servizio postale in data 27 ottobre 2020 e, dunque, entro il termine di quaranta giorni fissato dalla disciplina codicistica.
10.3. Passando all’esame del merito del motivo, lo stesso prospetta la violazione dell’art. 2697 c.c. e contesta la statuizione del TSAP laddove avrebbe considerato generico il rinvio alla consulenza tecnica di parte dei ricorrenti incidentali per la quantificazione dei danni.
10.4. I ricorrenti rilevano di aver esposto in appello le ragioni in ordine all’erroneità delle valutazioni espresse dal CTU attraverso il rinvio, contenuto nell’atto di appello, all’a.t.p. ed alla consulenza tecnica di parte integralmente ritrascritte nell’atto di appello e riportate nel ricorso incidentale ai fini dell’autosufficienza della censura. Secondo i ricorrenti, in definitiva, il TSAP avrebbe violato l’art. 2697 c.c. in quanto non avrebbe considerato la piena prova in ordine al quantum richiesto a titolo di risarcimento del danno, già esistente, dovendosi pertanto escludere la genericità della censura in punto di quantum risarcitorio.
Rilevano ancora i ricorrenti incidentali che ove l’atto di appello abbia denunciato l’erronea valutazione degli elementi probatori acquisiti in primo grado o delle conclusioni del ctu, la specificità dei motivi di appello risulterebbe meno rigorosa, essendo sufficiente il rinvio alla c.t. di parte contenente i rilievi critici all’elaborato della c.t.u.
11. Il motivo è inammissibile.
11.1. La censura, per un verso, attinge alle valutazioni meritali operate dal TSAP quanto al pregiudizio concretamente patito dai danneggianti, aggredibile unicamente sotto il profilo di cui all’art. 360, c.1, n.5 c.p.c. -cfr. Cass. n.10688 del 24/04/2008, con riferimento al sistema precedente alla modifica dell’art. 360, c.1, n.5. c.p.c., Cass. n.23637/2016; Cass. n.15147/2018; Cass. n.11917/2021-.
11.2. Peraltro, questa Corte è ferma nel ritenere che quando le doglianze, apparentemente esposte contro la c.t.u., si risolvano in realtà nella mera censura circa la dedotta erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi dalle loro aspettative (v. Cass. 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’assetto probatorio diversa da quella operata nel caso dai giudici di merito (cfr. Cass., 13/4/2006, n. 8932), le stesse risultano inammissibili in sede di legittimità, spettando unicamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento-cfr. Cass.n.5798/2019-.
Orbene, i ricorrenti incidentali prospettano la violazione di legge sotto il profilo dell’esistenza delle prove a sostegno della quantificazione del risarcimento del danno dagli stessi ritenuta congrua, a fronte della valutazione, ritenuta incongrua, operata dal TSAP, senza tuttavia rilevare alcun vizio di motivazione della sentenza per aver omesso di considerare gli elementi esposti nella consulenza tecnica di parte e per aver considerato generici detti rilievi, invece profilando un error iuris in ordine alla quantificazione del danno da parte del TSAP. Censura che non può, per converso, essere esaminata.
12. Il ricorso incidentale dei Signori Ruschi e della Del Lupo va quindi dichiarato inammissibile.
13. Borgna Antonio e Borgna Claudio hanno proposto, a loro volta, ricorso incidentale, affidato a due motivi.
13.1. Con il primo motivo essi lamentano la violazione dell’art. 2051 c.c. Il TSAP, riconoscendo la responsabilità dei ricorrenti incidentali accanto a quella del concessionario della diga (Edison) avrebbe tralasciato di considerare che il manufatto riscontrato in sede di ATP e di CTU era stato realizzato in base alla sentenza n.166/2000 del Tribunale di Massa, nell’ambito di un procedimento nel quale il CTU Simonelli aveva indicato l’arretramento del terrapieno di metri quattro, sostenendo che ciò avrebbe consentito il ripristino delle condizioni, in modo da risultare ininfluente rispetto al deflusso del torrente Teglia.
Il TSAP, secondo i ricorrenti incidentali, non avrebbe nemmeno considerato che, anche a voler ritenere la prevedibilità dell’evento, come riconosciuto dal TSAP, nessun addebito sarebbe stato possibile attribuire ad essi ricorrenti. Ove anche gli stessi fossero stati a conoscenza delle previsioni e dei bollettini meteo, non avrebbero potuto adottare alcuna condotta alternativa. Inoltre, il TSAP avrebbe dovuto escludere il nesso causale in base alla natura eccezionale dell’evento meteorico.
13.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. Il TSAP avrebbe errato nel ritenere sussistente il nesso causale fra l’evento dannoso e la condotta ascrivibile ai ricorrenti incidentali per l’esistenza del terrapieno, dopo aver riconosciuto l’esistenza, quali cause dei danni, dell’evento eccezionale e dell’inosservanza da parte del gestore degli obblighi previsti dal documento della protezione civile, peraltro tralasciando di ammettere la richiesta di acquisizione dei filmati dei carabinieri e della prova testimoniale.
13.3. In definitiva, secondo i ricorrenti incidentali, il ragionamento che aveva condotto all’affermazione di responsabilità, sulla base del ritenuto nesso causale, sarebbe “privo di riferimenti a fatti materiali”, fondando il giudizio di responsabilità non su prove, ma su mere ipotesi.
I due motivi che, stante la loro stretta connessione, meritano un esame congiunto, non colgono nel segno, risultando il primo infondato ed il secondo inammissibile.
13.4. Ed invero, mette conto rilevare che, secondo il TSAP, la questione relativa ai mezzi di prova proposti in primo grado -visione filmati e prove testimoniali- oltre a non essere stata riproposta in appello con volontà esplicita, non riguardava prove rilevanti né circostanziate.
13.5. Per altro verso, il TSAP ritenne che il CTU aveva “affermato che il rilevato artificiale era una possibile concausa, in quanto avrebbe impedito l’espansione del Teglia in sponda sinistra” aggiungendo che “il rilevato Borgna aveva un impatto altimetrico sui terreni circostanti e che vi era stato un arretramento (2004) del rilevato, effettuato a seguito di sentenza del Tribunale di Massa Carrara” per poi concludere che malgrado la responsabilità di Edison “…non può non concludersi che la collocazione del rilevato in questione, in ragione delle considerazioni di carattere tecnico svolte dal CTU, abbia avuto un pari concorso causale nella produzione dei danni agli immobili degli appellanti: ciò che fonda la corresponsabilità di coloro che di quel rilevato avevano appunto la custodia”.
13.6. Orbene, le censure che muovono i Borgna alla sentenza impugnata attengono al ritenuto nesso causale che il TSAP ha desunto dagli accertamenti di natura tecnica compiuti in sede di accertamento tecnico preventivo e di consulenza tecnica d’ufficio, ritenendo che la presenza del rilevato in custodia ai suddetti all’interno del fiume Teglia avesse contributo all’esondazione, impedendo l’espansione del fiume in sponda sinistra.
13.7. Pertanto, nel pervenire a tale conclusione il TSAP non ha commesso alcuna violazione di legge rispetto all’applicazione dell’art. 2051 c.c., escludendo l’esistenza di un caso fortuito idoneo ad elidere la responsabilità dei proprietari sulla base dei principi già sopra esposti e correttamente applicati quanto alla posizione dei suddetti.
13.8. Né sarebbe possibile rilevare il vizio prospettato in relazione alla sentenza del tribunale di Massa, relativa ad un contenzioso fra i Borgna ed altri soggetti, promosso nei confronti dei suddetti, non potendo le valutazioni espresse in quel procedimento ridondare in favore dei ricorrenti incidentali rispetto alla responsabilità nascente dal bene in loro custodia e dalla ritenuta efficienza causale rispetto alla verificazione del pregiudizio patito dai proprietari dei fondi. Né tantomeno di rilievo è la circostanza dell’assenza di colpa, se appunto si accede alla tesi per cui l’art. 2051 c.c. integra una ipotesi di responsabilità oggettiva che prescinde dal coefficiente psicologico in capo al danneggiante.
13.9. Risulta poi con evidenza inammissibile la seconda censura che finisce con l’attingere all’accertamento di fatto compiuto dal TSAP con riguardo all’incidenza causale del rilevato sulla esondazione del corso d’acqua.
13.10.Il ricorso incidentale proposto da Borgna Antonio e Borgna Claudio va quindi dichiarato inammissibile.
14. Sulla base delle superiori considerazioni, accolto per quanto di ragione il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo e dichiarato inammissibile il ricorso incidentale proposto dai Signori Ruschi e del Lupo e quello dei signori Borgna, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al TSAP in diversa composizione che pure provvederà sulle spese del giudizio relativo al ricorso principale, dovendosi compensare le spese relative ai ricorsi incidentali in relazione all’esito del giudizio definito in questa sede.
15.Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali Borgna Claudio e Borgna Antonio e da Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Maria Luisa, Del Lupo Maria Vittoria, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per i ricorsi incidentali, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
Accoglie per quanto di ragione il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo motivo.
Dichiara inammissibili i ricorsi incidentali proposti da Borgna Claudio e Borgna Antonio e da Ruschi Noceti Carlo, Ruschi Noceti Francesco, Ruschi Noceti Maria Luisa, Del Lupo Maria Vittoria.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia al TSAP in diversa composizione che pure provvederà sulle spese del giudizio relativo al ricorso principale.
Compensa le spese fra i ricorrenti incidentali e le parti controricorrenti.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e dei i ricorrenti incidentali Ruschi Del Lupo e Borgna, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili in Roma
Allegati:
SS.UU, 30 giugno 2022, n. 20943, in tema di responsabilità da custodia
In tema di eccesso di potere giurisdizionale – SS.UU, 27 marzo 2023, n. 8676
Civile Ord. Sez. U Num. 8676 Anno 2023
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 27/03/2023
R.G. 16409/2022
C.C. 21/3/2023
ricorso avverso sentenza
del Consiglio di Stato
resa in sede di revocazione
O R D I N A N Z A
sul ricorso iscritto al N.R.G. 16409 del 2022 proposto da:
BERGAMI Karen, rappresentata e difesa dall’Avvocato Alessia Fiore, con domicilio eletto presso lo studio Pini & Partners in Roma, via della Giuliana, n. 82;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio presso la sede dell’Istituto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– resistente –
per la cassazione della sentenza del Consiglio di Stato n. 3258 del 2022, depositata il 27 aprile 2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 marzo 2023 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Rita Sanlorenzo, che ha chiesto dichiararsi il ricorso inammissibile.
FATTI DI CAUSA
1. – La dottoressa Karen Bergami ha partecipato al concorso per il conferimento di ottanta posti di commissario della Polizia di Stato, ma è stata dalla commissione medica del Ministero dell’interno giudicata inidonea al servizio, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del decreto ministeriale n. 198 del 2003, per la carenza dei requisiti psico-fisici, in particolare per la presenza di un tatuaggio in una zona del corpo non coperta dall’uniforme.
Avverso tale giudizio di inidoneità la dottoressa Bergami ha proposto ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sostenendo che si trattava, non di un tatuaggio in senso stretto, ma di un mero residuo cicatriziale, irrilevante anche perché coperto dalle calze dell’uniforme.
2. – Il TAR del Lazio ha accolto il ricorso con sentenza n. 1700 del 2020 e, per l’effetto, ha disposto l’annullamento del giudizio di non idoneità espresso dalla commissione medica. L’Amministrazione – ha rilevato il primo giudice – non può procedere all’automatica esclusione dal concorso per la sola presenza di un tatuaggio in una zona del corpo non coperta dall’uniforme, bensì deve specificamente motivare in che misura la visibilità è tale da determinare l’inidoneità al servizio nella Polizia, valutando la situazione nello specifico caso anche alla luce della previsione di favorevole evoluzione in relazione alla sottoposizione del tatuaggio al trattamento di completa rimozione, già in periodo anteriore alla data della visita medica concorsuale.
3. – Di diverso avviso è stato il Consiglio di Stato, il quale, con sentenza in data 8 giugno 2021, ha accolto l’appello spiegato dal Ministero dell’interno, riformando la pronuncia di primo grado.
Secondo il giudice amministrativo di ultima istanza, non ha rilievo il fatto che il tatuaggio sia stato completamente rimosso in un momento successivo all’accertamento concorsuale, perché i requisiti di idoneità devono essere posseduti entro la data di partecipazione alla selezione concorsuale e devono essere verificabili nei tempi previsti dal bando, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.
La circostanza per cui il tatuaggio fosse già allora in avanzato stato di rimozione, è smentita, secondo il Consiglio di Stato, dal verbale della seduta della commissione medica, la quale ha fatto riferimento alla documentazione fotografica, da cui è evidente la presenza del tatuaggio ancora percepibile nelle sue dimensioni complessive e nel soggetto raffigurato.
Il giudice amministrativo d’appello ha sottolineato che il tatuaggio non risulta coperto dall’uniforme e che, ai fini della corretta interpretazione dell’art. 3, comma 2, del d.m. n. 198 del 2003, non assume rilievo la circostanza che durante la visita medica non siano state fatte indossare le calze, non assimilabili ai capi di abbigliamento, quali pantaloni o giacche, ai quali la disposizione si riferisce.
In relazione alle considerazioni svolte dall’appellata sulla divisa e in particolare sulla natura delle calze in relazione all’uniforme, il Consiglio di Stato ha fatto richiamo ad un proprio precedente che, in analoga fattispecie, ha affermato che, con l’espressione “tatuaggi sulle parti del corpo non coperte dall’uniforme”, il citato decreto ministeriale ha inteso distinguere gli effetti dei tatuaggi in termini di idoneità al servizio nella Polizia di Stato: mentre i tatuaggi presenti sulle parti del corpo non coperte dalla divisa hanno valenza automaticamente escludente, di contro i tatuaggi sulle parti del corpo coperte dalla divisa determinano inidoneità solo ove, per sede e per natura, deturpanti o, per contenuto, indice di personalità “abnorme”.
4. – La dottoressa Bergami si è rivolta nuovamente al Consiglio di Stato, chiedendo la revocazione della sentenza pronunciata in grado di appello per errore di fatto, determinato, a suo avviso, dalla mancata considerazione della non visibilità del tatuaggio e dall’aver motivato la decisione esclusivamente in astratto, sulla base di precedenti giurisprudenziali intervenuti su casi simili.
5. – Con sentenza n. 3258 del 2022, pubblicata il 27 aprile 2022, il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione, escludendo la configurabilità dell’ipotesi di errore di fatto revocatorio denunciato dall’interessata.
Il giudice amministrativo ha osservato, al riguardo, che la visibilità dei residui del tatuaggio ha costituito il punto controverso, e “centrale”, sul quale la sentenza d’appello ha avuto modo di esprimersi, e ha rilevato che anche la documentazione fotografica prodotta dalla dottoressa Bergami, unitamente al verbale della commissione medica del Ministero dell’interno, è stata oggetto di valutazione in appello.
Secondo il Consiglio di Stato, le doglianze della ricorrente sono volte a censurare, al più, un error in iudicando, non essendo sindacabile in sede di revocazione il fatto che il giudice dell’appello non abbia ritenuto sussistenti i presupposti per accogliere la richiesta di verificazione.
6. – Per la cassazione della sentenza del Consiglio di Stato resa nel giudizio per revocazione, la dottoressa Bergami ha proposto ricorso, con atto notificato il 24 giugno 2022, sulla base di due motivi.
Il Ministero dell’interno non ha notificato controricorso, ma ha depositato un atto di costituzione ai soli fini della partecipazione alla eventuale discussione orale.
7. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
8. – Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte nel senso della inammissibilità del ricorso.
In prossimità della camera di consiglio, la difesa della ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Viene impugnata con due motivi di ricorso per cassazione la sentenza del Consiglio di Stato che ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione avverso la pronuncia dello stesso Consiglio che, accogliendo l’appello dell’Amministrazione, ha respinto la domanda della dottoressa Bergami di annullamento del giudizio di non idoneità al concorso per commissario della Polizia di Stato, espresso dalla commissione medica per la presenza di un tatuaggio in zona non coperta dall’uniforme.
2. – Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente censura il vizio di eccesso di potere giurisdizionale in cui sarebbe incorso il Consiglio di Stato in sede di revocazione, per avere operato uno sconfinamento nel potere della pubblica amministrazione là dove, entrando nel merito della controversia, ha affermato che essa aveva ad oggetto i residui di un tatuaggio, seppur in avanzata fase di rimozione, in una parte del corpo visibile con l’uniforme.
La pronuncia del Consiglio di Stato, là dove ha ritenuto che, ai fini della corretta interpretazione dell’art. 3, comma 2, del d.m. n. 198 del 2003, in tema di cause di esclusione, non rileva la circostanza che durante la visita medica non siano state fatte indossare le calze (poiché non assimilabili ai capi di abbigliamento in senso stretto), si sarebbe spinta al di là dell’esame richiesto in sede di revocazione.
La sentenza impugnata risulterebbe inficiata dal vizio di eccesso di potere sotto un duplice profilo.
In primo luogo, perché il Consiglio di Stato, nel condividere gli esiti della sentenza d’appello secondo cui la controversia aveva ad oggetto un tatuaggio posto in una parte del corpo visibile con l’uniforme (e non già i residui cicatriziali derivanti dalla precedente operazione di rimozione), avrebbe, di fatto, coniato una nuova norma sul sistema delle divise degli appartenenti alla Polizia di Stato. Ad avviso della ricorrente, il giudice della revocazione avrebbe arbitrariamente escluso le calze dai capi di abbigliamento, ignorando le regole già dettate dal Ministero dell’interno in materia ed ingerendosi nella potestà regolamentare attribuita a quest’ultimo dal legislatore.
In secondo luogo, perché il Consiglio di Stato, nel ritenere che l’omessa considerazione delle calze quale parte integrante dell’uniforme femminile non costituisce un “abbaglio dei sensi”, avrebbe finito con l’invadere la sfera della discrezionalità amministrativa, individuando quali capi di abbigliamento concorrono a formare la divisa da far indossare in sede di accertamento concorsuale, sostituendo, per l’effetto, la propria valutazione di opportunità dell’atto amministrativo al giudizio della pubblica amministrazione.
3. – Con il secondo motivo, la ricorrente si duole che il Consiglio di Stato, ribadendo, in sede di revocazione, l’irripetibilità degli accertamenti psico-fisici effettuati in sede concorsuale, abbia indebitamente rifiutato di esercitare la funzione giurisdizionale, omettendo di considerare la valenza della perizia di parte e non ammettendo la verificazione richiesta. Viene denunciata la violazione degli artt. 24, 103, 113 e 117 Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, degli artt. 1-3 e 64-67 cod. proc. amm., del codice delle pari opportunità (d.lgs. n. 198 del 2006), degli artt. 3, 15, 21, 23, 30, 31, 34 e 35 della CDFUE, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, dell’art. 267 TFUE, e degli artt. 2, 3, 4, 24, 35, 36, 37, 111 e 113 Cost. Ad avviso della ricorrente, il Consiglio di Stato avrebbe omesso di esercitare un sindacato giurisdizionale pieno, anche sotto il profilo istruttorio, sul provvedimento impugnato. L’eccesso di potere giurisdizionale per diniego o rifiuto di giurisdizione sarebbe configurabile anche per l’omessa verifica di applicazione e interpretazione del diritto dell’Unione europea in relazione a situazioni giuridiche soggettive fondamentali, quali la non discriminazione, la parità di accesso al lavoro, la tutela giurisdizionale e l’effettività del ricorso.
4. – Il ricorso è, con riferimento ad entrambi i motivi in cui si articola, inammissibile.
5. – Giova premettere che, con l’impugnata pronuncia, il Consiglio di Stato ha escluso che ricorra l’errore revocatorio.
Il rimedio – ha affermato il giudice speciale – non è stato esperito per eliminare l’ostacolo materiale frapposto tra la realtà del processo e la percezione che di questa abbia avuto il giudice amministrativo d’appello. Secondo il giudice amministrativo, le doglianze di parte ricorrente investono l’attività valutativa compiuta dal giudice in sede di appello e non la percezione – che si assume inesatta – di dati fattuali.
Affinché sia configurabile l’errore revocatorio – ha sottolineato il Consiglio di Stato – occorre che esso derivi da un “abbaglio dei sensi”, ossia da un’errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio che abbia indotto il giudice a ritenere come documentalmente provato un fatto inesistente o, viceversa, inesistente un fatto documentalmente provato.
Mentre l’errore revocatorio richiede che il fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza abbia pronunciato, nel caso di specie, ha osservato il Consiglio di Stato, la causa in sede di appello ha avuto ad oggetto proprio la visibilità in una parte del corpo, con l’uniforme, dei residui di un tatuaggio seppur in avanzata fase di rimozione. E – prosegue la sentenza – il giudice d’appello ha dato atto di aver valutato anche la documentazione fotografica del tatuaggio in questione, ritenendo decisivi non solo il verbale redatto dalla commissione medica, ma anche le risultanze fotografiche presenti agli atti.
6. – In sede di ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato pronunciate su impugnazione per revocazione, può sorgere questione di giurisdizione solo con riferimento al potere giurisdizionale in ordine alla statuizione sulla revocazione medesima, restando comunque esclusa la possibilità di rimettere in discussione detto potere con riguardo alla precedente decisione di merito (Cass., Sez. Un., 31 ottobre 2019, n. 28214; Cass., Sez. Un., 20 luglio 2021, n. 20688).
7. – Alla luce di tale principio, va rilevato che, con il proposto ricorso per cassazione, la ricorrente utilizza l’impugnazione della sentenza del Consiglio di Stato nel giudizio di revocazione per veicolare censure rivolte, in realtà, a contestare il potere giurisdizionale esercitato, dallo stesso giudice amministrativo, nella precedente decisione resa in sede di appello.
8. – Ciò è evidente là dove, con il primo motivo, la ricorrente si duole del superamento del limite esterno della giurisdizione per avere, il giudice amministrativo di ultima istanza, dettato le norme sulla costituzione dei capi di abbigliamento delle divise e, sotto altro profilo, per aver ritenuto di sostituire l’atto amministrativo con valutazioni di opportunità.
Lo sconfinamento del giudice amministrativo nel potere della pubblica amministrazione evidenzierebbe, ad avviso della ricorrente, la “abnormità della sentenza di appello anche in termini discriminatori là dove – escludendo addirittura le calze dai capi di abbigliamento dell’uniforme – ha ritenuto di adottare una nuova norma sulla costituzione dei capi delle divise” (così il ricorso, a pagina 9).
L’eccesso di potere (per essersi spinto, il giudice amministrativo, sino a “coniare una nuova norma che individua i capi di abbigliamento delle divise ed esclude le calze da questi ultimi”) riguarda, in prima battuta, secondo la stessa prospettazione della ricorrente, la sentenza di appello del Consiglio di Stato (cfr. pagina 10 del ricorso).
Soltanto formalmente la ricorrente estende il vizio alla sentenza resa in sede di revocazione. Si sostiene, infatti, nel ricorso, che “si è perpetrato anche in sede di revocazione un eccesso di potere giurisdizionale”; che “non rientra nel potere del giudice amministrativo (nella specie, il giudice della revocazione) di dettare le norme in materia di costituzione dell’uniforme”; che il giudice della revocazione “ha pianamente convalidato nel merito che l’esito cicatriziale del tatuaggio, essendo posizionato sul dorso del piede destro della dottoressa Bergami, fosse ex se visibile e ciò a prescindere dalla divisa e dalle calze dell’uniforme”.
9. – Ritiene il Collegio delle Sezioni Unite che, nel ricorso per cassazione contro una sentenza del Consiglio di Stato emessa su impugnazione per revocazione, non vi è spazio per una questione di giurisdizione quando il vizio di eccesso di potere denunciato (nella specie, per sconfinamento nel potere della pubblica amministrazione) in realtà si annidi, secondo la deduzione della stessa parte ricorrente, nella sentenza di appello del giudice amministrativo, per poi riflettersi per ricaduta – ma soltanto in conseguenza del non superamento di quell’esito decisorio per effetto della valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione – nella sentenza che dichiara inammissibile la revocazione.
Il che è coerente con il principio, più volte ribadito da questa Corte regolatrice (Cass., Sez. Un., 9 marzo 2021, n. 6471; Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2022, n. 1603; Cass., Sez. Un., 13 febbraio 2023, n. 4335), secondo cui, qualora vi sia stata la valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato, non è consentito il ricorso per cassazione, giacché con esso non verrebbe in rilievo la sussistenza o meno del potere giurisdizionale di operare detta valutazione e, dunque, una violazione di quei limiti esterni alla giurisdizione del giudice amministrativo, rispetto alla quale soltanto è ammesso ricorrere in sede di legittimità.
10. – Sono, pertanto, condivisibili le conclusioni del Pubblico Ministero, secondo cui non è configurabile alcuno sconfinamento di potere da parte del Consiglio di Stato, essendosi limitato il giudice della revocazione a constatare l’oggetto della controversia e a rilevare come non fosse configurabile un errore di fatto revocatorio, essendosi in presenza di una valutazione del giudice di appello che ha ritenuto determinanti, ai fini della decisione, le risultanze del verbale redatto dalla commissione. L’interpretazione del Consiglio di Stato relativa alle parti del corpo che devono essere considerate coperte in senso fisico da capi di abbigliamento, in virtù della quale non è stata attribuita valenza “coprente” alle calze della divisa, costituisce, dunque, un’attività ermeneutica che rappresenta il proprium dell’attività giurisdizionale, potendosi, al più, configurare un error in iudicando, come tale non censurabile innanzi alle Sezioni Unite.
11. – Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
12. – Con tale motivo la ricorrente si duole del fatto che, evocando i principi del tempus regit actum e della par condicio fra i candidati, il Consiglio di Stato avrebbe, da un lato, omesso ogni considerazione circa la perizia di parte, stante la sua natura necessariamente postuma rispetto agli accertamenti compiuti dalla commissione medica e, dall’altro, respinto l’istanza di verificazione avanzata dalla difesa della dottoressa Bergami, considerata la carenza di un corredo probatorio idoneo a mettere in dubbio l’attendibilità del giudizio di inidoneità. Lamenta la ricorrente che, tuttavia, così facendo, il Consiglio di Stato avrebbe posto la dottoressa Bergami in una posizione connotata dalla sostanziale impossibilità di fornire la prova contraria, generando una impasse nella possibilità fattuale di difesa rispetto alle risultanze dell’accertamento medico: ciò in quanto il giudizio di inidoneità diverrebbe, esclusivamente in virtù del momento in cui è stato emesso dalla commissione medica, sempre e comunque insindacabile, indipendentemente dalla bontà e correttezza del suo contenuto. Conseguentemente, l’impugnazione dell’atto amministrativo in sede giudiziale si risolverebbe in una mera formalità, una facoltà che, seppur virtualmente riconosciuta dall’ordinamento, si dimostra inidonea, in virtù del principio tempus regit actum, a tramutarsi in un sindacato pieno ed effettivo. Il giudice, opponendo al proprio sindacato l’irripetibilità degli accertamenti e revocando in dubbio l’attendibilità delle prove di parte, avrebbe omesso di considerare che la possibilità di contraddire del privato si basa su prove, quali perizie mediche ed accertamenti, necessariamente postume al provvedimento di esclusione dal concorso.
Secondo l’impostazione della ricorrente, una tale censura assumerebbe rilievo anche alla luce dei principi di tutela giurisdizionale effettiva, occupazione e accesso al lavoro, pari opportunità e non discriminazione e giusto processo.
La ricorrente, infatti, lamenta non solo l’esclusione dal concorso in ragione del rifiuto giurisdizionale denunciato, ma anche l’impossibilità di ripetere la selezione a causa del limite di età vigente.
Del pari, ella si duole che la questione non si sarebbe neppure posta per un candidato di sesso maschile, stante la prescrizione per il solo personale femminile di indossare, per le occasioni di gala, l’uniforme “ordinaria”, che pone problemi di visibilità del tatuaggio, costituita da gonna con calze e décolleté.
13. – Tale essendo la censura formulata dalla ricorrente con il secondo motivo, va rilevato che essa attinge, innanzitutto, una ratio aggiuntiva nel contesto delle argomentazioni che sostengono il decisum.
14. – Invero, con il ricorso per revocazione la ricorrente ha lamentato l’errore percettivo determinato dalla mancata considerazione della asserita non visibilità del tatuaggio e dall’aver motivato la decisione esclusivamente in astratto sulla base dei precedenti giurisprudenziali espressi su casi simili. A supporto della propria tesi, il gravame ha richiamato le fotografie depositate in primo grado dalla ricorrente, l’omesso esame della perizia di parte prodotta nel giudizio di appello e il mancato esperimento della richiesta verificazione.
La qui impugnata sentenza del Consiglio di Stato ha fondato la statuizione di inammissibilità del ricorso per revocazione sulla insussistenza di un errore di fatto revocatorio. Poiché la visibilità del tatuaggio e la sua ubicazione in una parte del corpo non coperta dall’uniforme hanno costituito il punto controverso sul quale la sentenza d’appello ha avuto modo di esprimersi in maniera esplicita, si è di fronte ad una ben precisa, per quanto criticabile dalla parte, valutazione del giudice di appello, il quale ha ritenuto decisive le risultanze del verbale e le relative fotografie presenti agli atti. Non c’è errore percettivo, non si è in presenza di un abbaglio dei sensi.
Dopo avere espresso questa ratio decidendi, il Consiglio di Stato ha esposto una motivazione ad abundantiam.
Una volta ricondotta la questione della visibilità del tatuaggio al punto controverso, e “centrale”, della sentenza d’appello ed esclusa, pertanto, la configurabilità dell’errore revocatorio, il giudice amministrativo di ultima istanza ha aggiunto una ulteriore argomentazione. Ha affermato, infatti, che, contrariamente a quanto ipotizzato dalla ricorrente, la sentenza d’appello non avrebbe potuto altrimenti tener conto della perizia di parte, necessariamente postuma, a suo tempo depositata dall’appellante, attesa la sostanziale irripetibilità, salvo casi limite, degli accertamenti psico-fisici esperiti in sede concorsuale, e considerata la necessità che i requisiti di partecipazione siano imprescindibilmente posseduti dai candidati entro la data di partecipazione alla selezione, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.
15. – L’afferenza della censura formulata dalla ricorrente ad una argomentazione svolta ad abundantiam ne preclude l’esame in questa sede.
È infatti inammissibile, in sede di ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione avverso una sentenza del Consiglio di Stato, il motivo che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam, in quanto la stessa, non costituendo una ratio decidendi, non spiega alcuna influenza sul dispositivo della pronuncia e, pertanto, essendo improduttiva di effetti giuridici, la sua impugnazione è priva di interesse. In altri termini, la censura mossa contro una motivazione di una sentenza del Consiglio di Stato formulata ad abundantiam non può comportare la cassazione di tale sentenza e deve, pertanto, essere dichiarata inammissibile in quanto inoperante.
16. – Del pari inammissibile è la doglianza con cui si contesta che il giudice amministrativo abbia escluso la sindacabilità in sede di revocazione, per non essere configurabile alcun errore percettivo, del fatto che, giudicando sull’appello, il Consiglio di Stato non abbia ritenuto sussistenti i presupposti per disporre la verificazione, richiesta per dimostrare la non visibilità sul corpo della donna dei residui del tatuaggio.
Con tale motivo di ricorso per cassazione, ancorché formalmente prospettato sotto il profilo del rifiuto di giurisdizione, si censura, infatti, la valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato. Non è posta una violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo. È denunciato un cattivo esercizio, da parte del Consiglio di Stato, della propria giurisdizione: vizio che, attenendo all’esplicazione interna del potere giurisdizionale conferito dalla legge al giudice amministrativo, non è deducibile dinanzi alle Sezioni Unite.
17. – Denunciando il rifiuto di giurisdizione, la ricorrente con il secondo motivo pone anche un problema di effettività della tutela giurisdizionale e, al contempo, di ambito, e di limiti, del sindacato delle Sezioni Unite sulle sentenze del giudice amministrativo.
È consolidato nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice il principio secondo cui, in materia di ricorso per cassazione avverso le sentenze del giudice amministrativo, integra il vizio di rifiuto dell’esercizio della giurisdizione l’affermazione, contro la regula iuris che attribuisce a quel giudice il potere di dicere ius sulla domanda, che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio è, in astratto, priva di tutela, allorché essa sia corredata dal rilievo della estraneità di tale situazione non solo alla propria giurisdizione ma anche a quella di ogni altro giudice. Tale vizio risulta il solo sindacabile dalla Corte di cassazione ex art. 111, ultimo comma, Cost., e ciò diversamente dall’erronea negazione, in concreto, della tutela alla situazione sog-gettiva azionata (v., per tutte, Cass., Sez. Un., 6 giugno 2017, n. 13976).
La negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non concreta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, ottavo comma, Cost., atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione.
Nella misura in cui riconduce ipotesi di errores in iudicando o in procedendo ai motivi inerenti alla giurisdizione, la tesi del concetto di giurisdizione inteso in senso dinamico – ha sottolineato la Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 – comporta una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso, ai sensi del settimo e dell’ottavo comma dell’art. 111 Cost., e si pone in contrasto con tale disposizione costituzionale e con l’assetto pluralistico delle giurisdizioni stabilito dalla Carta fondamentale che, appunto per questo, ha sottratto le sentenze del Consiglio di Stato (e della Corte dei conti) al controllo nomofilattico della Corte di cassazione, stabilendo una riserva di nomofilachia in favore dei rispettivi organi di vertice delle due giurisdizioni speciali.
18. – La ricorrente muove dalla tesi, in passato accolta dalle Sezioni Unite, secondo cui sarebbe norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto al potere stabilendo attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca. In particolare, la ricorrente sostiene che l’apertura a tale concezione della giurisdizione sarebbe nella specie giustificata dal coacervo e dal complesso di violazioni che sarebbero riscontrabili nella sentenza impugnata: per il duplice diniego sia alla considerazione della perizia di parte sia a dare sfogo alla richiesta di verificazione; per il sostanziale rifiuto di sindacare il giudizio di inidoneità impugnato; per la mancata adeguata considerazione dei diritti fondamentali, delle libertà e dei valori in gioco, anche di derivazione europea, dal diritto al lavoro al principio di non discriminazione.
19. – Il Collegio delle Sezioni Unite è consapevole del fatto che le disposizioni limitative in materia di tatuaggi coinvolgono il tema delle libertà costituzionali, in particolare della libertà di espressione, e che, proprio per questo, il giudice deve evitare, nel momento interpretativo, letture restrittive della normativa regolamentare che si risolvano in un esito discriminatorio per le donne che intendono accedere in Polizia di Stato, tenuto conto della diversa uniforme femminile che, in alcuni casi, non copre in modo identico ai pantaloni.
Il Collegio ritiene, tuttavia, la complessiva censura inammissibile, per una duplice ragione.
19.1. – In primo luogo, per la condivisibilità dell’indirizzo, costituente diritto vivente, sul quale si è attestata la giurisprudenza delle Sezioni Unite, in tema di limiti al sindacato delle sentenze del Consiglio di Stato, costituendo ipotesi estranea al perimetro del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione la denuncia di un diniego di giustizia da parte del giudice amministrativo di ultima istanza, derivante dallo stravolgimento delle norme di riferimento. L’insindacabilità, da parte della Corte di cassazione a Sezioni Unite, per eccesso di potere giurisdizionale, ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost., delle sentenze del Consiglio di Stato pronunciate in violazione del diritto anche dell’Unione europea, non si pone in contrasto con gli artt. 52, par. 1, e 47 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, in quanto l’ordinamento processuale italiano garantisce comunque ai singoli l’accesso a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, come quello amministrativo, non prevedendo alcuna limitazione all’esercizio, dinanzi a tale giudice, dei diritti e delle libertà fondamentali (Cass., Sez. Un., 30 agosto 2022, n. 25503).
L’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile con il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione – che si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento) – nonché di difetto relativo di giurisdizione, riscontrabile quando detto giudice abbia violato i c.d. limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici, senza che tale ambito possa estendersi, di per sé, ai casi di sentenze “abnormi”, “anomale” ovvero di uno “stravolgimento” radicale delle norme di riferimento.
Quindi, il ricorso, con il quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo, rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione soltanto se il rifiuto sia stato determinato dall’affermata estraneità alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice della domanda, che non possa essere da lui conosciuta (Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2023, n. 5862).
Al contrario, non può essere sindacato innanzi alle Sezioni Unite l’errore che non si risolva nel rifiuto di esercitare la giurisdizione, bensì nel suo cattivo esercizio. Invero, il cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che provveda perché investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione, e tuttavia nell’esercitarla applichi regole di giudizio che lo portino a negare tutela alla situazione giuridica azionata, si risolve soltanto nell’ipotetica commissione di un errore interno e, se tale errore porti a negare tutela alla situazione fatta valere, ciò costituisce mera valutazione di infondatezza della richiesta di tutela; e ciò, ancorché la statuizione, in quanto proveniente dal giudice di ultimo grado della giurisdizione adita, comporti che la situazione rimanga priva di tutela giurisdizionale.
Ciascuna giurisdizione si esercita, infatti, con l’attribuzione, all’organo di vertice interno al plesso giurisdizionale, del controllo e della statuizione finale sulla correttezza in facto ed in iure di tutte le valutazioni necessarie a decidere sulla controversia, onde non è possibile prospettare che il modo in cui tale controllo viene esercitato dall’organo di vertice della giurisdizione speciale – ove pure si sia risolto nel negare tutela alla situazione giuridica azionata – sia suscettibile del controllo da parte delle Sezioni Unite, assumendosi quindi che la negazione di tutela in concreto, con l’applicazione da parte del giudice speciale delle regole sostanziali e processuali interne alle controversie devolute alla sua giurisdizione, si sia risolta in un vizio di violazione delle regole di giurisdizione (Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2023, n. 5862, cit.).
19.2. – C’è, peraltro, una ragione concorrente che rende inammissibile la censura.
Il rifiuto di sindacare il giudizio di inidoneità e il sotteso accertamento medico – che è ciò di cui si duole la ricorrente, sotto il profilo dell’esclusione della valenza di apporti probatori (esami medici, verificazione) relativi ai requisiti fisici esaminati in sede concorsuale nonché sub specie di mancata verifica di compatibilità della disciplina regolamentare italiana con il diritto unionale e con i diritti fondamentali ivi connessi e coinvolti – risale, in realtà, secondo la prospettazione della parte, alla sentenza del Consiglio di Stato resa in sede di appello, che non è la pronuncia oggetto della presente impugnazione.
20. – Il ricorso è dichiarato inammissibile.
Non vi è luogo a statuizione sulle spese, non avendo il Ministero dell’interno, che si è limitato a depositare un atto di costituzione privo dei caratteri del controricorso, svolto attività difensiva in questa sede.
21. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, ricorrono i presupposti processuali per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore im-porto a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stes-sa impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, in-serito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorren-te, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 21 marzo
Allegati:
SS.UU, 27 marzo 2023, n. 8676, in tema di eccesso di potere giurisdizionale
In tema di appalti pubblici – SS.UU, 09 marzo 2023, n. 7035
Civile Ord. Sez. U Num. 7035 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 09/03/2023
O R D I N A N Z A
sul ricorso iscritto al NRG 15196 del 2022 promosso da:
COMUNE DI TRECASTAGNI, rappresentato e difeso dagli Avvocati Andrea Scuderi e Giovanni Mandolfo;
– ricorrente –
contro
A.E. s.p.a., rappresentato e difeso dall’Avvocato Claudio Fiume;
– controricorrente –
per regolamento preventivo di giurisdizione nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Catania, iscritto al numero 236/2022 di ruolo generale.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7 marzo 2023 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giovanni Battista Nardecchia, che ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario.
FATTI DI CAUSA
1. – Con ricorso notificato l’11 febbraio 2022, la società A.E. s.p.a. ha chiesto al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Catania, la risoluzione della concessione del 16 giugno 2005, rep. 877, stipulata mediante scrittura privata, con la quale il Comune di Trecastagni ha concesso alla società ricorrente, allora denominata Medi-Etna Service s.p.a., i locali di proprietà comunale (un ex convento dei francescani), siti in piazza Vecchio Municipio, al fine di realizzarvi un centro museale, nonché dei successivi accordi del 30 giugno 2008 e del 4 gennaio 2016, con i quali sono state apportate modifiche alla concessione. La ricorrente ha domandato, inoltre, la condanna del Comune al risarcimento del danno, sia da perdita del finanziamento a valere sul P.O.R. 2000-2006, cui la società era stata ammessa, sia da lucro cessante per il mancato utilizzo dell’immobile, essendosi la società trovata nell’impossibilità di aprire il museo.
A fondamento della domanda, la società ha dedotto che la responsabilità della mancata apertura del centro museale è da ascrivere al Comune di Trecastagni, il quale avrebbe concesso in uso una struttura di fatto inagibile, priva dei necessari requisiti di sicurezza e, da ultimo, nemmeno ristrutturata dopo il sisma del 2018. In particolare, la struttura, da adibire a centro museale, non sarebbe dotata del certificato di agibilità, continuerebbe ad essere classificata come B/4 (ufficio) anziché B/6 (museo) e sarebbe dotata di impianto fognario ubicato in luogo diverso rispetto a quello indicato nel progetto presentato al Comune. La società concessionaria ha rappresentato di essersi dovuta far carico, nel corso del rapporto, di ingenti spese per lavori di vario genere senza per contro poter incassare i proventi derivanti dalla vendita dei biglietti d’ingresso al museo.
Nel giudizio dinanzi al TAR si è costituito il Comune di Trecastagni, resistendo ed eccependo preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore di quello ordinario.
2. – Nella pendenza del giudizio dinanzi al TAR, il Comune di Trecastagni ha sollevato, con atto notificato il 21 giugno 2022, ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, chiedendo dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario.
Ad avviso del ricorrente, la controversia sarebbe ricompresa nell’ambito della competenza giurisdizionale del giudice ordinario perché: non attiene alla fase pubblicistica di individuazione del concessionario, che inizia con la pubblicazione del bando di gara e si conclude con l’affidamento della concessione al soggetto vincitore dell’apposita sequenza ad evidenza pubblica; riguarda la fase di natura privatistica, meramente esecutiva del rapporto; ha ad oggetto l’asserito mancato adempimento, da parte del Comune, delle obbligazioni previste dalla convenzione sottoscritta dalle parti; la posizione giuridica della parte ricorrente nel giudizio a quo, qualificabile come diritto soggettivo, non afferisce all’esercizio di potestà amministrative discrezionali.
Il Comune osserva, inoltre, che l’immobile oggetto del rapporto non avrebbe una destinazione di pubblico generale interesse e non vi sarebbe alcuna previsione che imponga o contempli l’istituzione di un pubblico servizio gestito dall’amministrazione con vincoli istituzionali ed esercizio di potestà pubbliche.
3. – Si è costituita nel giudizio per regolamento preventivo, con controricorso, la società A.E., ricorrente nel giudizio a quo, concludendo per la giurisdizione dell’adito giudice amministrativo.
La controversia avrebbe ad oggetto atti relativi ad un rapporto di concessione di beni pubblici, sicché vi sarebbe la giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133 cod. proc. amm. La risoluzione della concessione amministrativa per inadempimento del concedente sarebbe riconducibile all’ambito pubblicistico. La controversia comporterebbe decisioni sulla durata o efficacia del rapporto concessorio.
Ad avviso della società controricorrente, sarebbe indifferente l’appartenenza del bene al patrimonio disponibile ovvero indisponibile. In ogni caso, l’immobile sarebbe da ricomprendere tra i beni del patrimonio indisponibile, essendo stato destinato a centro culturale museale.
Secondo la società, la controversia non riguarderebbe semplicemente la fase esecutiva del rapporto, bensì atterrebbe alla fase pubblicistica che inizia con la pubblicazione del bando e si conclude con l’affidamento della concessione.
4. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-ter cod. proc. civ., sulla base delle conclusioni scritte del Pubblico Ministero, che ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario.
Affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati a un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826, terzo comma, cod. civ., deve sussistere – ha rilevato l’Ufficio del Procuratore Generale – il doppio requisito, soggettivo e oggettivo, della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (quindi, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel bene determinato a un pubblico servizio) e dell’effettiva, attuale destinazione del bene al pubblico servizio.
In difetto di tali concorrenti condizioni, e della conseguente ascrivibilità del bene al patrimonio indisponibile, la cessione in godimento
dell’immobile in favore di privati non può essere ricondotta, ad avviso del Pubblico Ministero, a un rapporto di concessione amministrativa, ma, inerendo a un bene facente parte del patrimonio disponibile, al di là del nomen iuris che le parti contraenti abbiano inteso dare al rapporto, essa viene a inquadrarsi nello schema privatistico della locazione, con la conseguente devoluzione della cognizione della relativa controversia alla giurisdizione del giudice ordinario.
Nel caso di specie, la pariteticità del rapporto, la rilevanza puramente patrimoniale dei beni interessati, la circostanza, pacifica, che l’immobile non è attualmente destinato al pubblico servizio, sarebbero tutti elementi deponenti per la non riconducibilità del bene al patrimonio indisponibile.
5. – In prossimità della camera di consiglio entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Le Sezioni Unite sono investite del compito di stabilire a quale plesso giurisdizionale spetta conoscere della controversia promossa da un privato per ottenere la risoluzione, per responsabilità del Comune concedente, della convenzione con la quale l’Amministrazione ha concesso ad un privato l’uso e il godimento di un immobile di sua proprietà per adibirlo a centro museale, oltre al risarcimento del danno.
2. – La controversia ricade nella giurisdizione del giudice ordinario.
3. – La controversia attiene alla fase meramente esecutiva del rapporto. Si verte nell’ambito di un rapporto paritetico tra le parti che si colloca a valle della procedura ad evidenza pubblica per la scelta del contraente. La società ricorrente non chiede l’annullamento di un provvedimento amministrativo emesso dal Comune.
La domanda azionata, infatti, mira ad addebitare la mancata apertura del centro museale a “colpa grave, negligenza e malafede del Comune”; ad accertare e dichiarare “l’inadempimento del Comune resistente nell’aver dato in concessione un immobile privo del certificato di agibilità”, con destinazione d’uso “diversa da quella idonea alla realizzazione di una struttura museale”, privo del certificato di prevenzione incendi e con vizi che hanno comportato l’esecuzione di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria; ad accertare e dichiarare “l’inadempimento del Comune … per non aver ottenuto il certificato di prevenzione incendi”; a “dichiarare la risoluzione della concessione del 2005 … e dei successivi accordi integrativi … per inadempimento imputabile in via esclusiva al Comune”.
La domanda proposta è di “risoluzione” “per inadempimento imputabile in via esclusiva al Comune” e, su questa base, di condanna al risarcimento del danno.
La domanda riguarda la risoluzione per l’inadempimento delle obbligazioni assunte dal Comune, come risultanti dalle condizioni concordate nella convenzione stipulata in posizione di pariteticità, senza che venga in considerazione il potere autoritativo dell’Amministrazione comunale.
Tale potere non è ravvisabile in linea di principio quando, esaurita la fase pubblicistica della scelta del contraente, sia sorto il “vincolo” contrattuale e siano in contestazione la delimitazione del contenuto del rapporto, gli adempimenti delle obbligazioni contrattuali e i relativi effetti sul piano del rapporto, salvo che l’amministrazione intervenga con atti autoritativi che incidono direttamente, seppure successivamente all’aggiudicazione, sulla procedura di affidamento mediante esercizio del potere di annullamento d’ufficio o, comunque, nella fase esecutiva mediante altri poteri riconosciuti dalla legge.
Nel settore dell’attività negoziale della P.A., mentre appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo tutte le controversie che attengono alla fase preliminare, antecedente e prodromica al contratto, inerenti alla formazione della volontà e alla scelta del contraente privato in base alle regole della evidenza pubblica, quelle che invece radicano le loro ragioni, come nella specie, nella serie negoziale successiva, che va dalla stipulazione del contratto fino alle vicende del suo adempimento, e riguardano la disciplina dei rapporti scaturenti dal contratto, sono devolute al giudice ordinario (Cass., Sez. Un., 13 marzo 2020, n. 7219).
La controversia nella quale il petitum sostanziale è l’accertamento dell’adempimento o dell’inadempimento del Comune alle obbligazioni assunte nell’ambito del rapporto convenzionale, non coinvolge sotto alcun profilo un controllo sull’esercizio del potere pubblico, in relazione ai parametri di legittimità dell’azione amministrativa provvedimentale (Cass., Sez. Un., 24 maggio 2022, n. 16763).
Al giudice di merito è chiesto di valutare la corrispondenza al vero dei fatti di inadempimento dedotti a fondamento delle pretese e di qualificarli giuridicamente, per trarne le conseguenze sul piano privatistico, vertendosi in tema di diritti soggettivi vantati in posizione di parità dal privato nei confronti dell’ente pubblico (Cass., Sez. Un., 28 febbraio 2023, n. 5971).
Si è, pertanto, al di fuori dell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di concessione di beni pubblici, ai sensi dell’art. 133, lettera b), cod. proc. amm.
Queste Sezioni Unite hanno affermato che, affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili, in quanto destinati a un pubblico servizio ai sensi dell’art. 826, terzo comma, cod. civ., deve sussistere il doppio requisito (soggettivo e oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio) e dell’effettiva, concreta e attuale destinazione del bene al pubblico servizio. In difetto di tali condizioni e della conseguente ascrivibilità del bene al patrimonio indisponibile, la cessione in godimento del bene medesimo in favore di privati non può essere ricondotta a un rapporto di concessione amministrativa, ma, inerendo a un bene facente parte del patrimonio disponibile, al di là del nomen iuris che le parti contraenti hanno inteso dare al rapporto, essa viene a inquadrarsi nello schema privatistico della locazione (o del comodato), con conseguente giurisdizione del giudice ordinario (Cass., Sez. Un., 21 maggio 2019, n. 13664; Cass., Sez. Un., 12 ottobre 2020, n. 21991).
La richiesta del doppio requisito si giustifica in quanto soltanto così l’amministrazione può dimostrare la seria volontà e la necessità di destinare il bene ad un fine pubblico e di assoggettarlo ad un regime preferenziale rispetto a quello comune.
Esattamente il Pubblico Ministero evidenzia che il bene oggetto della scrittura privata, sicuramente non appartenente al demanio necessario, neppure riveste il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili, non essendo destinato a un pubblico servizio ai sensi dell’art. 826, terzo comma, cod. civ.
Difettano, infatti, sia il profilo formale-soggettivo della preordinata destinazione alla salvaguardia di interessi pubblici, sia quello materiale-oggettivo della effettività della destinazione impressa, come si desume dalla circostanza, pacifica, che l’immobile non è, attualmente, destinato concretamente a pubblico servizio.
Risulta inoltre per tabulas dalla scrittura privata del 16 giugno 2005 che il contratto parla di “comodato” (là dove prevede che a titolo di corrispettivo per la concessione “in comodato” dei locali di sua proprietà il Comune avrà diritto ad una percentuale del 10% da calcolarsi sul totale dei biglietti di ingresso venduti e comunque degli utili complessivi ricavati dall’utilizzo della struttura) e ribadisce che la de-tenzione dei locali di proprietà comunale da parte del concessionario è “a titolo di comodato”. Lo stesso bando di gara si riferisce alla “con-cessione in comodato del bene”.
La terminologia adottata nella convenzione, con il riferimento reiterato al modello privatistico e paritetico del comodato, conferma che si è al di fuori dello schema concessorio e che i locali in questione (“consegnati nello stato di fatto in cui si trovano con obbligo del concessionario di adeguarli a propria cura e spese alle normative vigenti” per la realizzazione, l’allestimento e la gestione di un centro museale) non appartengono alla categoria dei beni del patrimonio indisponibile, difettando la loro destinazione a svolgere in via immediata e diretta un servizio pubblico in forza di un atto di volontà amministrativa concretamente attuato.
5. – E’ dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.
La regolamentazione delle spese viene rimessa al giudice del merito.
P.Q.M.
dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, dinanzi al quale rimette le parti, anche per le spese del regolamento.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7 marzo 2023.
Allegati:
SS.UU, 09 marzo 2023, n. 7035, in tema di appalti pubblici
In tema di responsabilità della p.a. – SS.UU, 24 aprile 2023, n. 10880
Civile Ord. Sez. U Num. 10880 Anno 2023
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: COSENTINO ANTONELLO
Data pubblicazione: 24/04/2023
ORDINANZA
sul ricorso 6325-2020 proposto da:
IMMOBILIARE ALON S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, sig. ONGARO MARCO, nonché quest’ultimo in proprio, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FERRERO DI CAMBIANO 82, presso lo studio dell’avvocato FABIO D’AMATO, che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
COMUNE DI MORICONE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 55, presso lo studio dell’avvocato CRISTIANO CASTROGIOVANNI, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4845/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/07/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/01/2023 dal Consigliere ANTONELLO COSENTINO.
RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Il sig. Marco Ongaro, in proprio e quale legale rappresentante della società IMMOBILIARE ALON s.r.l., ha chiesto la cassazione della sentenza con cui la Corte di appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado del Tribunale di Tivoli, ha affermato la giurisdizione del giudice amministrativo sulla controversia da lui introdotta nei confronti del Comune di Moricone per il risarcimento dei danni derivati alla IMMOBILIARE ALON ed a lui personalmente dall’annullamento in autotutela di tre permessi di costruire rilasciati alla società nelle date del 27 ottobre 2008, del 3 Marzo 2009 e del 5 giugno 2009 e dal conseguente ordine di demolizione di quanto costruito in base a tali permessi.
2. La Corte di appello ha affermato la giurisdizione del giudice amministrativo sull’assunto che l’illegittimità dei provvedimenti annullati in autotutela non deriverebbe da condotte ascrivibili al Comune, bensì dalla scoperta – in fase di esecuzione delle opere di lottizzazione – di rilevanti incongruenze progettuali, le quali avevano indotto in errore l’amministrazione nel rilascio dei permessi, nonché di difformità delle opere rispetto a quanto pattuito nella convenzione. Secondo la Corte distrettuale, quindi, non si tratterrebbe di incolpevole affidamento del privato nella legittimità di un provvedimento poi rimosso ma di una controversia inerente alla formazione, alla conclusione ed all’esecuzione di una convenzione di lottizzazione, appartenente alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 11 l. 241/1990, ora art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, c.p.a..
3. Quanto alla domanda di risarcimento avanzata dal Sig. Ongaro in proprio, la Corte capitolina rileva che egli aveva sempre agito a nome della società e che l’affidamento di cui si invocava la lesione non poteva che coincidere con quello della società destinataria dei provvedimenti amministrativi caducati.
4. Il Sig. Ongaro, in proprio e quale legale rappresentante di IMMOBILIARE ALON, ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza della Corte d’appello di Roma sulla scorta di un unico motivo, riferito all’articolo 360 n. 1 c.p.c., con il quale si censura il diniego di giurisdizione del giudice ordinario.
5. Il Comune di Moricone ha depositato controricorso, deducendo l’infondatezza del ricorso.
6. La causa è stata decisa nella camera di consiglio del 10 gennaio 2023, per la quale il Comune di Moricone ha depositato memoria.
7. La controversia in esame – avente ad oggetto la domanda di risarcimento dei danni asseritamente causati dall’inutile realizzazione di opere assentite da provvedimenti successivamente annullati in autotutela – è perfettamente sovrapponibile a quella decisa da queste Sezioni Unite con l’ordinanza SSUU n. 6594 del 23 marzo 2011, con la quale si affermò la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie aventi ad oggetto il risarcimento dei danni lamentati per la lesione dell’affidamento riposto nella legittimità di una concessione edilizia poi annullata in autotutela.
8. Come è noto, l’ordinanza n. 6594 del 23 marzo 2011 fu decisa da queste Sezioni Unite nella stessa udienza, del 12 ottobre 2010, in cui furono decise anche le ordinanze nn. 6595 e 6596, anch’esse depositate il 23 marzo 2011, con le quali si affermò la giurisdizione del giudice ordinario anche sulle controversie aventi ad oggetto, rispettivamente, il risarcimento dei danni lamentati per la lesione dell’affidamento riposto nella legittimità di una concessione edilizia poi annullata dal giudice amministrativo (ord. n. 6595/11) ed il risarcimento dei danni lamentati dall’aggiudicatario di una gara per la lesione dell’affidamento riposto nella legittimità del provvedimento di aggiudicazione poi annullato dal giudice amministrativo (ord. n. 6596/11).
9. Alla base delle suddette tre pronunce vi era, in sostanza, la considerazione che i privati che avevano instaurato i giudizi in cui le medesime sono state emesse non mettevano in discussione l’illegittimità degli atti amministrativi, ampliativi della loro sfera giuridica, annullati in via di autotutela o ope judicis, ma lamentavano la lesione del loro affidamento sulla legittimità degli atti annullati e chiedevano il risarcimento dei danni da loro subiti per aver orientato le proprie scelte negoziali o imprenditoriali confidando, fino all’annullamento di tali atti, nella legittimità di questi ultimi.
10. I principi espressi nelle tre menzionate ordinanze del 23 marzo 2011 hanno trovato ampio seguito – con qualche minoritario dissenso (ord. n. 8057/2016, sent. n. 13454/2017) – nella giurisprudenza del secondo decennio del secolo delle Sezioni Unite di questa Corte; si vedano le pronunce nn. 17586/2015, 12799/2017, 15640/2017, 19171/2017, 1654/2018, 4996/2018, 22435/2018, 32365/2018, 4889/2019, 6885/2019 e 12635/2019, nelle quali ricorre l’affermazione che la controversia relativa ai danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su di un provvedimento amministrativo ampliativo della propria sfera giuridica, legittimamente annullato, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario perché ha ad oggetto la lesione non già di un interesse legittimo pretensivo, bensì di un diritto soggettivo.
11. Il tema ha formato oggetto di una esplicita rimeditazione nella ordinanza di questa Corte n. 8236/2020. Tale ordinanza concerne una questione parzialmente diversa da quella trattata nelle ordinanze del 2011, ossia quella dell’affidamento ingenerato non da un provvedimento ampliativo della sfera del privato, ma dal comportamento tenuto dall’amministrazione nella conduzione del procedimento amministrativo conclusosi senza l’emanazione del richiesto provvedimento ampliativo. Nelle premesse argomentative dell’ordinanza n. 8236/2020, tuttavia, le Sezioni Unite hanno ritenuto «necessario tornare sulle ragioni che stanno alla base dell’orientamento inaugurato dalle ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011» (§ 22).
12. Nell’ordinanza n. 8236/2020, in particolare, si sottolinea che «Il rilievo, pur di per sé certamente condivisibile, che l’interesse legittimo consiste nella pretesa ad un provvedimento favorevole che derivi dall’attività legittima dell’amministrazione non significa, tuttavia, che il danno lamentato dal privato che abbia ottenuto un determinato bene della vita mediante un provvedimento amministrativo illegittimo, successivamente annullato, sia stato causato dall’atto favorevole illegittimo; quest’ultimo, in quanto favorevole, non ha prodotto alcun danno al suo destinatario, ancorché illegittimo. La fattispecie causativa del danno non consiste, pertanto, nella lesione dell’interesse legittimo del destinatario del provvedimento, bensì nella lesione dell’affidamento che costui ha riposto nella legittimità del provvedimento che gli ha attribuito il bene della vita» (§ 26).
13. Ancora, nell’ordinanza n. 8236/2020 si argomenta che: «Non appare dunque persuasivo l’argomento, sostenuto da una parte della dottrina, che – poiché il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque espressione del potere pubblico – la lesione che esso arreca dovrebbe essere ricondotta, almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva, alla cognizione del giudice amministrativo; tale argomento, infatti, trascura la considerazione … che la lesione di cui si discute non è causata dal provvedimento favorevole (illegittimo – e, perciò, giustamente annullato – ma non dannoso per il suo destinatario), bensì dalla fattispecie complessa costituita dall’emanazione dell’atto favorevole illegittimo, dall’incolpevole affidamento del beneficiario nella sua legittimità e dal successivo (legittimo) annullamento dell’atto stesso. La lesione, cioè, discende non dalla violazione delle regole di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo che si estrinseca nel provvedimento, bensì dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui si deve uniformare il comportamento dell’amministrazione; regole la cui violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità» (§ 26.1).
14. Infine, nell’ordinanza n. 8236/2020 si illustrano le ragioni che hanno indotto la Corte a ritenere che i principi fissati nelle tre ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011, rese con riferimento alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 80 del 1998, non avessero perso attualità a causa dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. n. 104 del 2010.
15. In particolare, quanto al disposto dell’articolo 7, primo comma, c.p.a., nell’ordinanza n. 8236/2020 si evidenzia come tale disposizione postuli che sia comunque in questione «l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» o comportamenti «riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere». Nel caso in cui – secondo la prospettazione dell’attore – «il comportamento della pubblica amministrazione abbia leso l’affidamento del privato, perché non conforme ai canoni di correttezza e buona fede, non sussiste alcun collegamento, nemmeno mediato, tra il comportamento dell’amministrazione e l’esercizio del potere. Il comportamento dell’amministrazione rilevante ai fini dell’affidamento del privato, infatti, si pone – e va valutato – su un piano diverso rispetto da quello della scansione degli atti procedimentali che conducono al provvedimento con cui viene esercitato il potere amministrativo. Detto comportamento si colloca in una dimensione relazionale complessiva tra l’amministrazione ed il privato, nel cui ambito un atto provvedimentale di esercizio del potere amministrativo potrebbe mancare del tutto… o, addirittura, essere legittimo» (§ 27.1).
16. Quanto al disposto dell’articolo 30, secondo comma, c.p.a., nell’ordinanza n. 8236/2020 si sottolinea che «anche nelle materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la giurisdizione amministrativa su diritti presuppone che questi ultimi risultino coinvolti nell’esplicazione della funzione pubblica, esercitata mediante provvedimenti o mediante accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento» e si evidenzia che, perché sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, in definitiva, «è necessario, anche nelle materie di giurisdizione esclusiva, che la controversia inerisca ad una situazione di potere dell’amministrazione. È necessario, cioè, che la causa petendi si radichi nelle modalità di esercizio del potere amministrativo. Ciò non accade quando la causa del danno di cui il privato chiede il risarcimento risieda non nel cattivo esercizio del potere amministrativo, bensì… in un comportamento (nel cui ambito l’atto di esercizio del potere amministrativo – provvedimentale o adottato secondo moduli convenzionali – rileva come mero fatto storico) la cui illiceità venga dedotta prescindendo dal modo in cui il potere è stato (o non è stato) esercitato e venga prospettata come violazione di regole comportamentali di buona fede e correttezza alla cui osservanza è tenuto qualunque soggetto, sia esso pubblico o privato» (§ 27.2).
17. La giurisprudenza di queste Sezioni Unite successiva all’ordinanza n. 8236/2020 ha ulteriormente dato seguito alle ordinanze del 23 marzo 2011; in conformità ai principi ivi fissati, infatti, si sono espresse le pronunce nn. 28979/2020, 12428/2021, 14231/2021, 14324/2021, 21768/2021 (a contrariis) e 13595 del 2022.
18. L’orientamento fin qui tratteggiato è stato criticato da parte della dottrina sul rilievo che, quando la lesione consegua al cattivo esercizio di un’attività provvedimentale, cioè al cattivo esercizio dei poteri attribuiti dalla legge all’amministrazione per curare gli interessi cui la stessa è preposta, risulterebbe artificioso distinguere tra responsabilità da comportamento e responsabilità da provvedimento. Si è cioè sostenuto che la lesione dell’affidamento causata da una attività provvedimentale estrinsecatasi in un provvedimento amministrativo poi caducato perché illegittimo sarebbe pur sempre una lesione causata dal cattivo esercizio del potere amministrativo; cosicché la situazione soggettiva lesa da tale cattivo esercizio non potrebbe che essere quella stessa situazione che fronteggia il potere, vale a dire l’interesse legittimo. Si è altresì sostenuto che l’orientamento espresso da queste Sezioni Unite nelle ordinanze del 2011 e nella giurisprudenza che alle stesse ha dato seguito incorrerebbe in un salto logico, perché scinderebbe il comportamento dell’amministrazione dal potere dalla stessa esercitato e, in definitiva, introdurrebbe un criterio di riparto della giurisdizione, fondato sulla natura delle regole violate – di correttezza o di legittimità – incompatibile con l’art. 103 Cost. e con il principio di concentrazione delle tutele.
19. Le riflessioni dottrinali sopra sintetizzate hanno trovato ampia eco nella sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 20 del 29 novembre 2021, che, in esplicito dissenso con l’orientamento di questa Corte sopra richiamato, ha affermato che compete al giudice amministrativo la giurisdizione sulla domanda di risarcimento dei danni subiti per avere confidato in buona fede nella legittimità di un permesso di costruire poi annullato in sede giurisdizionale, affermando il seguente principio di diritto: «È devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione sulle controversie in cui si faccia questione di danni da lesione dell’affidamento sul provvedimento favorevole, posto che in base al richiamato art. 7, comma 1, cod. proc. amm. la giurisdizione generale amministrativa di legittimità include i “comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”; ed inoltre che “nelle particolari materie indicate dalla legge” di giurisdizione esclusiva – quale quella sugli “atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia” di cui all’art. 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm. oggetto del presente giudizio – essa si manifesta “attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela”, anche dei diritti soggettivi, oltre che dell’affidamento sulla legittimità dei provvedimenti emessi dall’amministrazione».
20. Lo sviluppo argomentativo della motivazione (“DIRITTO”) della suddetta sentenza n. 20/2021 – per la parte, che qui interessa, relativa al riparto di giurisdizione – può essere sunteggiato come segue:
20.1. si nega che l’affidamento abbia consistenza di autonomo diritto soggettivo e si afferma che «esso non è infatti una posizione giuridica soggettiva autonoma distinta dalle due, sole considerate dalla Costituzione, ma ad esse può alternativamente riferirsi» (§ 5);
20.2. si afferma che, quando l’affidamento abbia ad oggetto la stabilità del rapporto amministrativo, costituito sulla base di un atto di esercizio di un potere pubblico, la giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo «perché la “fiducia” su cui riposava la relazione giuridica tra amministrazione e privato, asseritamente lesa, si riferisce non già ad un comportamento privato o materiale – a un “mero comportamento” – ma al potere pubblico, nell’esercizio del quale l’amministrazione è tenuta ad osservare le regole speciali che connotano il suo agire autoritativo e al quale si contrappongono situazioni soggettive del privato aventi la consistenza di interesse legittimo.» (§ 7);
20.3. si sottolinea che «anche quando il comportamento non si sia manifestato in atti amministrativi, nondimeno l’operato dell’amministrazione costituisce comunque espressione dei poteri ad essa attribuiti per il perseguimento delle finalità di carattere pubblico devolute alla sua cura.» (§ 8, in principio);
20.4. si puntualizza che la giurisdizione sulla domanda di risarcimento dei danni causati da un provvedimento amministrativo compete al giudice amministrativo «sia che si verta dell’interesse del soggetto leso dal provvedimento amministrativo, e come tale titolato a domandare il risarcimento del danno alternativamente o (come più spesso accade) cumulativamente all’annullamento del provvedimento lesivo, sia che si abbia riguardo all’interesse del soggetto invece beneficiato dal medesimo provvedimento. Anche quest’ultimo, infatti, vanta nei confronti dell’amministrazione un legittimo interesse alla sua conservazione, non solo rispetto all’azione giurisdizionale del ricorrente, ma anche rispetto al potere di autotutela dell’amministrazione stessa» (§ 8, in fine);
20.5. si giudica scorretto, infine, «interporre nel rapporto amministrativo costituito dal provvedimento un diritto soggettivo, avente ad oggetto l’affidamento alla stabilità del provvedimento medesimo… Attraverso la stabilità del provvedimento e del rapporto con esso costituito il privato beneficiario conserva l’utilità attribuitagli, che nella misura in cui è correlata ad un pubblico potere è e rimane oggetto di un interesse legittimo (pretensivo o oppositivo, secondo la terminologia invalsa al riguardo)» (§ 9, in principio).
21. In esito al percorso argomentativo sopra riportato, la sentenza 20/2021 conclude che «non sembra possa sostenersi, in assenza di base testuale, che l’ambito di applicazione dell’art. 7, comma 1, cod. proc. amm. sia circoscritto al solo risarcimento del danno da provvedimento sfavorevole, azionabile dal ricorrente con l’azione di annullamento, mentre nella situazione assolutamente simmetrica alla precedente e del pari inserita nella vicenda relazionale governata dal diritto amministrativo, sussisterebbe la giurisdizione ordinaria per i danni conseguenti all’annullamento del provvedimento favorevole, “degradato” a mero fatto» (§ 9, in fine).
22. A conferma del proprio orientamento il Consiglio di Stato evoca altresì la disposizione di cui all’art. 12, comma 1, lettera a), della legge 11 settembre 2020, n. 120, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, che ha introdotto nell’articolo 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, il comma 2-bis, che recita: «I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede». Tale disposizione, secondo l’Adunanza Plenaria, non consentirebbe di circoscrivere la rilevanza dei doveri in esame al diritto comune; al contrario, «la mancata osservanza del dovere di correttezza da parte dell’amministrazione in violazione del principio di affidamento può determinare una lesione della situazione soggettiva del privato che afferisce pur sempre all’esercizio del potere pubblico, si manifesti esso con un provvedimento tipico o con un comportamento pur sempre tenuto nell’esercizio di quel potere, e la cui natura quindi resta “qualificata” dall’inerenza al pubblico potere. Si tratta, quindi, di aspettative correlate ad “interessi legittimi (…) concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo” ai sensi dell’art. 7, comma 1, cod. proc. amm. sopra citato, la cui lesione rimane devoluta al giudice amministrativo» (§ 11).
23. La ricca trama argomentativa tessuta nella sentenza n. 20/2021 sollecita queste Sezioni Unite ad un supplemento di riflessione che, tuttavia, non induce a mutare l’orientamento fissato nelle menzionate ordinanze del 2011.
24. Va peraltro precisato, in via preliminare, che, in aderenza all’oggetto del presente ricorso per cassazione, le considerazioni che seguono saranno centrate sull’ipotesi della lesione dell’affidamento riposto dal privato nella legittimità di un provvedimento ampliativo della sua sfera giuridica, prima emesso e poi annullato – in autotutela o ope judicis – perché riconosciuto illegittimo. Resterà quindi fuori dal perimetro argomentativo della presente ordinanza il diverso tema – a cui si riferisce il rilievo sopra sintetizzato nel paragrafo 20.3 e che ha formato oggetto della citata ordinanza di questa Corte n. 8236/20 – della lesione dell’affidamento generato da un comportamento procedimentale dell’amministrazione non estrinsecatosi in alcun provvedimento.
25. Il nucleo centrale della posizione espressa dal Consiglio di Stato, con il conforto di ampia parte della dottrina amministrativistica, è quello tratteggiato nei precedenti paragrafi 20.4 e 20.5 ossia l’assunto che il titolare di un interesse legittimo al rilascio di un provvedimento ampliativo della sua sfera giuridica vedrebbe il proprio interesse legittimo ugualmente leso tanto nel caso in cui il bene della vita da lui richiesto sia stato illegittimamente negato, quanto nel caso in cui il bene della vita da lui richiesto sia stato illegittimamente concesso. In entrambe le ipotesi, infatti, l’illegittimità dell’azione dell’amministrazione determinerebbe la lesione dell’interesse legittimo del privato, differenziandosi i due casi solo sul piano del meccanismo causale generativo del danno. Nel primo caso il danno deriverebbe dalla mancata concessione del bene della vita; nel secondo, per contro, il danno deriverebbe dall’inutile svolgimento di un’attività effettuata sul fallace presupposto della legittimità dell’attribuzione del bene della vita; ma anche in questo secondo caso la situazione soggettiva lesa sarebbe comunque l’interesse legittimo.
26. Questo ragionamento, tuttavia, sembra trascurare il rilievo – evidenziato da queste Sezioni Unite già nella ordinanza n. 17586/2015 e poi ribadito nella ordinanza n. 8236/2020 (si vedano gli stralci di quest’ultima riportati nei paragrafi 12 e 13 che precedono) – che il provvedimento ampliativo, ancorché illegittimo, non produce ex se alcun danno al suo destinatario/beneficiario. In relazione agli interessi legittimi pretensivi, infatti, l’interesse del privato all’ampliamento della propria sfera giuridica è soddisfatto quando l’amministrazione, all’esito del procedimento, emani il provvedimento che produce l’effetto positivo, senza che rilevi, dal punto di vista del medesimo privato, se tale emanazione sia legittima o illegittima; al privato – come in dottrina non si è mancato di sottolineare – interessa soltanto poter vedere ampliata la propria sfera giuridica, cioè acquisire un bene della vita. Il danno patito dal beneficiario del provvedimento illegittimo, pertanto, deriva non dal provvedimento ma dalla caducazione del medesimo. La causa del danno, in altri termini, non è il provvedimento illegittimo (come accade quando il bene della vita sia stato illegittimamente negato) bensì il fatto storico della emissione di un provvedimento (di per sé stesso non dannoso per il destinatario) che, successivamente, è stato caducato perché illegittimo (detto diversamente: la “fattispecie complessa” evocata nello stralcio dell’ordinanza n. 8236/2020 trascritto nel paragrafo 13 che precede). Non si tratta, pare al Collegio, di degradare il provvedimento a mero fatto, bensì di individuare, ai fini dell’identificazione della situazione soggettiva lesa, il fatto dannoso, che è diverso a seconda che il provvedimento illegittimo abbia negato o abbia attribuito il bene della vita ambito dal privato.
27. Né sembra risolutiva la considerazione, pure avanzata in dottrina, che l’interesse legittimo pretensivo del privato avrebbe ad oggetto non soltanto la emissione ma anche la conservazione di un provvedimento al medesimo favorevole; cosicché l’annullamento di quest’ultimo lederebbe proprio il suddetto interesse legittimo pretensivo.
28. Tale ultima considerazione – che riecheggia anche nel riferimento della sentenza n. 20/2021 al «legittimo interesse alla sua (del provvedimento, n.d.r.) conservazione, non solo rispetto all’azione giurisdizionale del ricorrente, ma anche rispetto al potere di autotutela dell’amministrazione stessa» (si veda lo stralcio nel paragrafo 8 di tale sentenza, trascritto nel precedente paragrafo 19.4) – sembra non considerare che l’azione risarcitoria per la lesione dell’affidamento (mal) riposto nella legittimità di un provvedimento ampliativo della sfera giuridica del suo destinatario costituisce un posterius – sia cronologico che logico – rispetto all’accertamento della illegittimità di tale provvedimento implicato nella relativa caducazione, ope judicis o in autotutela.
29. Chi agisce, in sostanza, non mette in discussione l’illegittimità del provvedimento a sé favorevole, né deduce di essere titolare di un interesse legittimo al mantenimento del bene della vita acquisito con tale provvedimento (e perduto con la relativa caducazione). Egli non si duole, cioè, della lesione di una situazione soggettiva di interesse legittimo alla conservazione del bene della vita concessogli con il provvedimento illegittimo (e, perciò, successivamente caducato), ma si duole del fatto che l’amministrazione lo ha indotto, con l’emissione di un provvedimento illegittimo, a sostenere spese e a compiere attività che la successiva caducazione del medesimo provvedimento ha reso inutili.
30. Alla luce della considerazione svolta nel paragrafo che precede, il Collegio ritiene, dunque, di dover mantenere fermo il principio che la situazione giuridica la cui lesione costituisce la causa della pretesa del privato di vedersi risarciti i danni causati dall’annullamento di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica non è l’interesse legittimo alla conservazione del bene della vita acquisito con tale provvedimento, bensì l’affidamento (incolpevole) dal medesimo riposto nella legittimità di tale provvedimento.
31. Nella sentenza n. 20/2021, peraltro, l’Adunanza plenaria svolge – come sopra accennato nel precedente paragrafo 20.1. – una specifica disamina della natura giuridica dell’affidamento e, sulla scorta di tale disamina, afferma che, «quando l’affidamento abbia ad oggetto la stabilità del rapporto amministrativo, costituito sulla base di un atto di esercizio di un potere pubblico, e a fortiori quando questo atto afferisca ad una materia di giurisdizione esclusiva», la giurisdizione sarebbe devoluta al giudice amministrativo perché «la “fiducia” su cui riposava la relazione giuridica tra amministrazione e privato, asseritamente lesa, si riferisce non già ad un comportamento privato o materiale – a un “mero comportamento” – ma al potere pubblico, nell’esercizio del quale l’amministrazione è tenuta ad osservare le regole speciali che connotano il suo agire autoritativo e al quale si contrappongono situazioni soggettive del privato aventi la consistenza di interesse legittimo».
32. Al riguardo questo Collegio osserva che il fatto che nell’esercizio del proprio potere pubblico l’amministrazione sia tenuta ad osservare le regole speciali che connotano il suo agire autoritativo – ed al quale si contrappongono situazioni soggettive del privato aventi la consistenza di interesse legittimo – non esclude che essa sia tenuta ad osservare anche le regole generali di correttezza e buona fede. La tecnica di protezione giuridica dell’interesse all’altrui correttezza e buona fede, d’altra parte, è quella del diritto soggettivo. Del resto, che nell’ambito dell’attività autoritativa dell’amministrazione la situazione attiva a cui corrisponde, dal lato passivo, l’obbligo di correttezza abbia consistenza di diritto soggettivo sembra riconosciuto pure dalla sentenza n. 5 del 2018 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Tale sentenza, pur essendo centrata sull’attività negoziale della pubblica amministrazione, fa espresso riferimento al «diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali» quale situazione soggettiva lesa dalla violazione delle regole di correttezza anche nell’ambito dell’attività autoritativa; vedi § 32: «La giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha, infatti, in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 633; Cons. Stato, sez. IV, 6 marzo 2015, n. 1142; Cons. Stato, ad. plen., 5 settembre 2005, n. 6; Cass. civ., sez. un. 12 maggio 2008, n. 11656; Cass. civ., sez. I, 12 maggio 2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15250)».
33. Né a diversa conclusione sembra orientare il novum recato dalla legge n. 120/2020, con l’introduzione del comma 2-bis dell’articolo 1 della legge n. 241/1990. Come queste Sezioni Unite hanno già evidenziato nella sentenza n. 12428/2021, «il procedimento amministrativo costituisce un’interlocuzione fra l’Amministrazione ed il privato retta da norme per l’esercizio della funzione amministrativa. Rispetto a tale agere che si dispiega mediante atti formali e si colloca sul piano del diritto pubblico, deve essere individuato quale sia lo spazio del comportamento in violazione dei canoni di correttezza e buona fede perché lesivo dell’affidamento riposto nell’adozione di un provvedimento amministrativo. Deve in particolare meglio essere definito il campo di applicazione del diritto civile rispetto all’azione regolata dal diritto amministrativo. La buona fede che qui rileva non è quella che l’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo menziona, quale forma del rapporto fra cittadino e pubblica amministrazione unitamente alla collaborazione, e che corrisponde non alla regola di diritto civile, ma a un principio generale dell’ordinamento che ha la funzione, al pari della collaborazione, di modellare l’esercizio del potere fronteggiato dall’interesse legittimo (e di cui è espressione la previsione del “termine ragionevole comunque non superiore a diciotto mesi” nell’art. 21 nonies per l’annullamento d’ufficio del provvedimento amministrativo illegittimo, c.d. affidamento legittimo). La correttezza che emerge con la lesione dell’affidamento è quella cui si correla una posizione di diritto soggettivo» (pag. 11, ultimo capoverso, e segg.).
34. Che la protezione offerta all’affidamento dall’ordinamento giuridico abbia la forma del diritto soggettivo sembra trovare conferma, del resto, anche nel rilievo che la legittima aspettativa (“espérance légitime” o “legitimate expectation“) rientra nell’ambito dei beni protetti dal disposto dell’articolo 1 del Protocollo 1 alla CEDU (Protezione della proprietà), secondo l’interpretazione che di tale articolo la giurisprudenza della Corte EDU ha fornito fin dalla sentenza Pine Valley Developments Ltd e altri c. Irlanda del 29 novembre 1991. In tale sentenza, che ha inaugurato un orientamento consolidatosi nei decenni successivi, la Corte di Strasburgo ha affermato che, con il rilascio, da parte dell’autorità competente, dell’autorizzazione ad un progetto di urbanizzazione sulla cui base le società ricorrenti avevano acquistato dei terreni al fine di edificarli, in capo a dette società fosse sorta una “aspettativa legittima”, da considerare alla stregua di una componente dei beni delle società ricorrenti (cfr. § 51: «les requérants avaient pour le moins l’espérance légitime de pouvoir réaliser leur plan d’aménagement; il faut y voir, aux fins de l’article 1 du Protocole no 1 (P1-1), un élément de la propriété en question»).
35. La giurisprudenza di questa Corte regolatrice va altresì confermata anche in relazione alle controversie risarcitorie che traggano origine dalla caducazione di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del privato adottati in materie soggette alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il Collegio non vede, infatti, ragioni per discostarsi dal rilievo già svolto da queste Sezioni Unite nel paragrafo 27.2 della citata ordinanza n. 8236/2020, sopra trascritto nel precedente paragrafo 16.
36. Se infatti è vero, come è stato osservato in dottrina, che un provvedimento amministrativo illegittimamente emesso (e perciò successivamente caducato) costituisce comunque un atto di esercizio del potere amministrativo, è vero anche che nelle controversie aventi ad oggetto il risarcimento del danno da lesione dell’affidamento del privato nella legittimità di un provvedimento caducato perché illegittimo non è in questione l’esercizio del potere amministrativo (cfr. C. cost. 15 luglio 2022 n. 178, § 3.2, ove si richiama espressamente l’orientamento della stessa Corte costituzionale «secondo cui, affinché sia rispettato il limite costituzionale desumibile dall’art. 103 Cost., è decisivo che si tratti di comportamenti costituenti, comunque, “espressione di un potere amministrativo e non anche [di] quelli meramente materiali posti in essere dall’amministrazione al di fuori dell’esercizio di una attività autoritativa” [ex plurimis, sentenza n. 35 del 2010])». Le suddette controversie non hanno ad oggetto le modalità di esercizio del potere amministrativo e non ineriscono a situazioni soggettive che, ancorché aventi consistenza di diritti, siano state tuttavia incise dalla spendita di poteri pubblici; ma riguardano il complessivo modus agendi dell’amministrazione, che si assume contrario a regole comportamentali di buona fede e correttezza e nel cui ambito il provvedimento illegittimo e la sua caducazione (in autotutela o ope judicis) rilevano – lo si è già accennato nel precedente paragrafo 26 – come meri fatti storici.
37. In sintesi, l’oggetto del giudizio di risarcimento del danno da lesione dell’affidamento del privato nella legittimità di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica che sia stato annullato, in autotutela o dal giudice amministrativo, non è il modo in cui l’amministrazione ha esercitato il proprio potere con il provvedimento poi annullato, né è il modo in cui l’amministrazione ha esercitato il proprio potere con il provvedimento di annullamento del primo (ove l’annullamento sia avvenuto in autotutela e non in sede giurisdizionale). L’illegittimità del provvedimento annullato (e la legittimità dell’eventuale provvedimento di annullamento in autotutela) costituiscono, infatti, presupposti della lite, che restano all’esterno del perimetro della regiudicanda. L’oggetto del suddetto giudizio, invece, è il modo in cui l’amministrazione – nonché, va aggiunto, lo stesso privato destinatario del provvedimento – hanno o non hanno osservato le regole di correttezza nei reciproci rapporti. Tali regole, ricorda la stessa sentenza 20/2021 (§ 13), operano su piani distinti rispetto alle regole di legittimità amministrativa, «uno relativo alla validità degli atti amministrativi e l’altro fonte invece di responsabilità per l’amministrazione. Oltre che distinti, i profili in questione sono autonomi e non in rapporto di pregiudizialità, nella misura in cui l’accertamento di validità degli atti impugnati non implica che l’amministrazione sia esente da responsabilità per danni nondimeno subiti dal privato destinatario degli stessi, anche per violazione dei connessi obblighi di protezione inerenti al procedimento».
38. L’orientamento espresso con le ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 va dunque confermato. Pertanto, poiché il presente giudizio ha ad oggetto una pretesa risarcitoria fondata sulla deduzione di una lesione dell’affidamento dei ricorrenti nella legittimità di un provvedimento di un’amministrazione municipale, poi annullato in autotutela, va affermata, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria tanto sulla domanda risarcitoria della società IMMOBILIARE ALON s.r.l. quanto sulla domanda risarcitoria del sig. Marco Ongaro in proprio.
39. Non osta alla suddetta conclusione l’argomento speso nella sentenza impugnata (e ripreso dal Comune di Moricone ancora nella memoria depositata in questo giudizio ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c., specialmente a pag. 3) secondo cui, nella specie, non si tratterebbe di affidamento incolpevole del privato, «ma di una complessa controversia inerente alla formazione, alla conclusione ed all’esecuzione di una convenzione di lottizzazione» (pag. 4, quinto capoverso, della sentenza gravata), «avendo la p.a., in fase di esecuzione della convenzione di lottizzazione, da un lato rilevato, tramite il proprio direttore dei lavori, rilevanti incongruenze progettuali che avevano indotto in errore l’amministrazione stessa nel rilascio dei permessi di costruire (poiché a detta del Comune basati su una falsa rappresentazione della realtà imputabile all’impresa), dall’altro evidenziato veri e propri abusi edilizi (sfociati addirittura in un procedimento penale)» (pag. 4, quarto capoverso, della sentenza gravata).
40. Il suddetto argomento, in effetti, si risolve nella negazione dell’esistenza di un affidamento tutelabile in capo agli attori e, pertanto, attiene al merito della pretesa e non rileva ai fini del riparto di giurisdizione. Gli odierni ricorrenti, infatti, non hanno messo in discussione l’interpretazione o l’esecuzione della convenzione, né la illegittimità dei permessi di costruire, né la legittimità del relativo annullamento in autotutela (non impugnato); la causa petendi su cui si fonda la loro azione consiste nella (dedotta) lesione del loro affidamento nella legittimità dei permessi di costruire; se questo affidamento fosse o non fosse meritevole di tutela dev’essere deciso dal giudice ordinario.
41. Il ricorso merita dunque accoglimento e la sentenza impugnata va cassata; va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario e la causa va rinviata al giudice di primo grado, che regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Tivoli, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 24 aprile 2023, n. 10880, in tema di responsabilità della p.a.
In tema di fideiussione – SS.UU, 03 marzo 2023, n. 6537
Civile Ord. Sez. U Num. 6537 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: DI MARZIO MAURO
Data pubblicazione: 03/03/2023
ORDINANZA
sul ricorso 29078-2021 proposto da:
COMUNE DI GARLENDA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI VILLA SACCHETTI 27, presso lo studio dell’avvocato SERGIO SANTORO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURO VALLERGA;
– ricorrente –
contro
SOCIETA’ IMMOBILIARE GARLENDA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TAGLIAMENTO 76, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE NACCARATO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUIGI PISCITELLI e FRANCESCO TURRINI DERTENOIS;
– controricorrente –
nonchè contro
UNIPOLSAI ASSICURAZIONE S.P.A.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 3797/2021 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 14/05/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/12/2022 dal Consigliere MAURO DI MARZIO.
FATTI DI CAUSA
1. ― Il Comune di Garlenda ricorre per un mezzo, nei confronti di Società Immobiliare Garlenda S.r.l., contro la sentenza non definitiva del 14 maggio 2021, n. 3797, con cui il Consiglio di Stato ha accolto l’appello incidentale proposto dalla società avverso sentenza resa tra le parti dal Tar Liguria, dichiarando la sussistenza della giurisdizione amministrativa sulla domanda della medesima società volta ad accertare l’insussistenza dei presupposti per la richiesta di escussione di una polizza fideiussoria da parte del Comune.
2. ― Il ricorrente ha riferito in fatto quanto segue:
-) il Comune di Garlenda aveva stipulato con Società Immobiliare Garlenda S.r.l., quale attuatore, una convenzione urbanistica del 1° agosto 1996, con la quale quest’ultima si era impegnata alla realizzazione del comparto 1, come previsto nel piano particolareggiato del 30 maggio 1994, nonché di tutte le opere di urbanizzazione relative non solo a detto comparti ma anche al comparto 2 previsto dallo stesso piano particolareggiato;
-) nel 2013 le parti avevano sottoscritto un accordo quadro volto ad ottenere l’approvazione di una variante di detto piano particolareggiato, non ancora completato, accordo che, tuttavia, non aveva determinato un «superamento» dell’originario piano particolareggiato, «superamento» destinato a realizzarsi, appunto, solo con l’approvazione della variante;
-) la società non aveva ottemperato agli obblighi sanciti dall’accordo quadro, ma, indipendentemente da ciò, il Comune aveva escusso la polizza fideiussoria rilasciata a garanzia delle obbligazioni nascenti dalla convenzione del 1996, dal momento che Società Immobiliare Garlenda S.r.l. non aveva completato le opere di urbanizzazione ivi contemplate, così rendendosi inadempiente alla convenzione;
-) Società Immobiliare Garlenda S.r.l. aveva agito dinanzi al Tar Liguria, oltre che per l’annullamento di un provvedimento del Comune di archiviazione del procedimento di variante, per l’accertamento negativo del diritto dello stesso Comune di escutere la polizza, domanda, quest’ultima, sulla quale il giudice adito aveva pronunciato sentenza dichiarativa del proprio difetto di giurisdizione, accogliendo invece quella di annullamento;
-) la sentenza del Tar era stata appellata in via principale dal Comune e in via incidentale dalla società, ed il Consiglio di Stato, con la sentenza non definitiva qui impugnata, aveva accolto l’incidentale, dichiarando la giurisdizione del giudice amministrativo sulla menzionata domanda di accertamento negativo.
3. ― Il Consiglio di Stato ha così motivato l’accoglimento dell’appello incidentale: «Rilevano in materia i principi enunciati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 31 marzo 2021, n. 9005, la quale – nell’evidenziare quali siano i principi da essa enunciati per il caso in cui un’Amministrazione pubblica chieda l’escussione di una polizza fideiussoria – ha evidenziato che: – sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo, quando l’atto che disponga l’escussione sia impugnato deducendo l’insussistenza delle ragioni poste a sua base; – sussiste invece la giurisdizione del giudice civile, solo quando la controversia riguardi l’importo risultante dalla polizza, i tempi o le modalità del pagamento, o l’individuazione del soggetto obbligato al pagamento. Tale sentenza ha riguardato una domanda di escussione conseguente ad una esclusione da una gara d’appalto, ma ha affermato un principio di carattere generale, basato sulla stretta connessione sussistente tra le censure rivolte contro l’atto di esclusione dalla gara e quelle di illegittimità derivata, risolte avverso l’atto di escussione. Tale principio, a maggior ragione, risulta applicabile nella specie, poiché tale connessione riguarda le complessive censure rivolte avverso le determinazioni del Comune, poste in essere in sede di esecuzione degli accordi “di diritto pubblico” conclusi tra le parti (la convenzione urbanistica del 1996 e l’accordo quadro di data 21 febbraio 2014), e per i quali si applica anche l’art. 133, comma 1, lettera a), n. 2, del codice del processo amministrativo, sulla sussistenza della giurisdizione esclusiva per le controversie in materia di “esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo”».
4. ― Società Immobiliare Garlenda S.r.l. resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
5. ― Società Immobiliare Garlenda S.r.l. ha formulato eccezione di inammissibilità del ricorso in applicazione del terzo comma dell’articolo 360 c.p.c., che impedisce il ricorso per cassazione immediato avverso sentenze non definitive pronunciate su questioni.
Ma è evidente che tale disposizione è pensata per i ricorsi per cassazione rivolti avverso sentenze del giudice ordinario, nel qual caso essa è diretta ― nei limiti in cui, peraltro, questa Corte ne ammette l’operatività ― a far sì che la Corte di cassazione debba pronunciarsi una volta soltanto sia sulla non definitiva che ha deciso la sola questione, sia sulla definitiva che ha deciso il merito: ma è inapplicabile ai ricorsi per cassazione indirizzati contro sentenze del Consiglio di Stato che abbiano pronunciato esclusivamente sulla questione di giurisdizione, dal momento che le sentenze di quel giudice speciale sono impugnabili, appunto, soltanto per motivi di giurisdizione.
6. ― L’unico motivo di ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2 del d.lgs. 104/2010, sussistenza della giurisdizione ordinaria in merito alla domanda di accertamento negativo del diritto del Comune di Garlenda ad escutere la polizza fideiussoria Fondiaria-SAI 24/07/1997, n. D1700783500.
7. ― Il motivo è fondato.
Sulla scia della giurisprudenza ferma di queste Sezioni Unite, in un caso ― prossimo a quello qui in esame ― di escussione di una polizza fideiussoria emessa a garanzia degli obblighi sorgenti da un permesso di costruire, è stato di recente affermato: «La giurisdizione appartiene al giudice ordinario. Va infatti data continuità alla consolidata giurisprudenza di queste Sezioni Unite, richiamata anche nelle conclusioni del Procuratore generale, secondo cui la controversia avente ad oggetto l’escussione, da parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione, in relazione al rilascio di una concessione edilizia, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica ed edilizia: e ciò sia perché l’obbligazione di garanzia, oggetto di causa, è fondata su un rapporto, sorto per effetto della polizza, distinto rispetto a quello concernente gli oneri concessori; sia perché, nella specie, la P.A. agisce nell’ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri» (Cass., Sez. Un., 26 giugno 2020, n. 12866, con la giurisprudenza ivi richiamata).
Tale indirizzo è stato del resto condiviso dallo Stesso Consiglio di Stato, che ha fatto proprio «il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 4319 del 23 febbraio 2010, … esso si riferisce in senso generale alla diversità e autonomia dell’obbligazione del fideiussore e soprattutto alla natura non pubblicistica del “potere” di richiedere l’escussione della polizza fideiussoria» (Cons. Stato, Sez. IV, ord., 28 agosto 2014, n. 3335). Nello stesso senso, in precedenza, era stato evidenziato il carattere non decisivo del collegamento esistente tra fideiussione e convenzione di lottizzazione, giacché «il collegamento … non è riferito al pubblico potere, quanto, piuttosto alle obbligazioni scaturenti dall’accordo amministrativo, come tali involgenti posizioni paritarie di diritto soggettivo, non a caso rimesse alla giurisdizione esclusiva del G.A. Le ragioni che hanno consigliato di estendere quest’ultima anche alle controversie relative all’esecuzione dell’accordo, non possono, di per sé sole, giustificare l’ulteriore estensione anche ai rapporti accessori a quelli obbligatori citati. La dilatazione sarebbe troppo ampia e striderebbe con la natura squisitamente privatistica del rapporto di garanzia … Le Sezioni Unite, nella loro veste di giudice del riparto, hanno in più occasioni disatteso la tesi dello spostamento della giurisdizione per motivi di connessione (anche in presenza di connessione tra domande contestualmente proposte di fronte ad un unico giudice, ma devolute a diverse giurisdizioni), affermando l’opposto principio secondo cui salvo deroghe normative espresse, vige nell’ordinamento processuale il principio generale dell’inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione, potendosi risolvere i problemi di coordinamento posti dalla concomitante operatività della giurisdizione ordinaria e di quella amministrativa su rapporti diversi, ma interdipendenti, secondo le regole della sospensione del procedimento pregiudicato» (Cons. Stato, Sez. IV, 18 aprile 2014, n. 1998).
Né argomenti in contrario possono essere tratti da Cass., Sez. Un., 31 marzo 2021, n. 9005, concernente una fattispecie tutt’affatto distinta, quale quella disciplinata dall’articolo 48 del decreto legislativo n. 163/2006, secondo cui, quando il concorrente non abbia fornito la prova del possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di gara, «le stazioni appaltanti procedono all’esclusione del concorrente dalla gara, all’escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all’Autorità …».
In tale ipotesi, difatti, non soltanto tra l’esclusione dalla gara e l’escussione della garanzia è stabilito per disposizione legislativa un vincolo di automatica consequenzialità, tale da far sì che l’una e l’altra si collochino all’interno di un unico procedimento unitario, ma, soprattutto, l’escussione della garanzia non attiene alla fase esecutiva del rapporto, neppure perfezionatosi, ma alla fase deliberativa dell’aggiudicazione, in cui si configurano poteri pubblicistici della stazione appaltante, il cui esercizio conduce appunto all’escussione della garanzia: peculiarità, quella così riassunta, non riscontrabile nel caso di escussione della polizza fideiussoria prestata a garanzia dell’adempimento delle obbligazioni nascenti dalla convenzione urbanistica, tant’è che la citata Cass., Sez. Un., 31 marzo 2021, n. 9005, al § 15, ha richiamato tale ipotesi proprio per tenerla distinta da quella oggetto, in quella sede, del contendere.
8. ― Va in definitiva dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, mentre le spese meritano di essere compensate, tenuto conto dell’incertezza che può essere stata indotta dalla lettura di tale decisione.
PER QUESTI MOTIVI
dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2022.
Allegati:
SS.UU, 03 marzo 2023, n. 6537, in tema di fideiussione
In tema di cittadinanza onoraria – SS.UU, 01 giugno 2023, n. 15601
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
R.G. 24659/2022
Cron.
Rep.
C.C. 9/5/2023
regolamento pre-
ventivo di giurisdi-
zione
O R D I N A N Z A
– ricorrenti –
contro
– controricorrenti –
contro
– controricorrente –
– intimati –
FATTI DI CAUSA
1. – Con atto di citazione notificato il 26 gennaio 2022, Antonio Spada, Elena Bacchin, Gianfranco Milani, Lorenzo Maritan, Cinzia Trovò, Savino Segala, Luigi Polo e Alessandro Zambelli, cittadini elettori del Comune di Anguillara Veneta, hanno promosso un’azione popolare, ex art. 9 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (approvato con il d.lgs. n. 267 del 2000), dinanzi al Tribunale ordinario di Padova, chiedendo di accertare e dichiarare la nullità, l’illegittimità o, comunque, l’annullabilità della deliberazione in data 25 ottobre 2021 con cui il consiglio comunale di Anguillara Veneta ha conferito all’allora Presidente del Brasile Jair Messias Bolsonaro la cittadinanza onoraria del Comune.
La cittadinanza onoraria – si legge nella delibera del consiglio comunale – è stata conferita, su proposta del sindaco, per l’esemplare affezione ed interessamento del Presidente del Brasile verso le sue origini e verso tutta la comunità di Anguillara Veneta, a riconoscimento e rispetto dei suoi avi partiti nel 1888 proprio da Anguillara Veneta.
Gli attori hanno dichiarato di agire in sostituzione e a tutela dell’identità personale e dell’immagine del Comune.
L’attribuzione della cittadinanza onoraria – si afferma – crea un accostamento tra onorato e comunità locale. Il diritto del Comune alla propria identità personale e all’immagine sarebbe leso in conseguenza dell’abbinamento dell’immagine dell’Ente con una personalità, quella del Presidente Bolsonaro, i cui comportamenti e dichiarazioni di rilievo pubblico sarebbero espressione – si sostiene da parte degli attori – di valori confliggenti con i tradizionali riferimenti storici e culturali del Comune di Anguillara Veneta, espressi nello statuto comunale.
A tale riguardo, gli attori hanno richiamato alcune dichiarazioni attribuite al Presidente Bolsonaro riguardanti i diritti umani, i diritti civili e il rispetto della parità di genere e degli orientamenti sessuali (“dobbiamo dare i diritti umani agli esseri umani, non ai marginali”; “l’unico errore della dittatura militare brasiliana è stato torturare invece di uccidere”; “sarei incapace di amare un figlio omosessuale. Non sarò ipocrita: preferisco che mio figlio muoia in un incidente piuttosto che si presenti con un altro uomo. Per me sarebbe come se fosse morto, in ogni caso”).
Gli attori hanno chiesto al giudice ordinario, insieme alla declaratoria di nullità della deliberazione impugnata, l’adozione di ogni contrarius actus idoneo, in ottica ripristinatoria, a porre rimedio alla lesione che sarebbe stata inferta, in relazione all’art. 2 Cost. e agli artt. 6, 7 e 10 cod. civ., al diritto all’identità personale, storica e culturale dell’Ente e alla sua immagine.
Nel giudizio dinanzi al Tribunale di Padova si sono costituiti Alessandra Buoso, sindaco del Comune di Anguillara Veneta, e i consiglieri comunali Raffaella Magagna, Giampaolo Baccaglini, Chiara Renesto, Steve Scarietto, Ivo Bedon, Lauro Baretta, Alice Quinto e Alessandro Bisan, resistendo.
I convenuti hanno eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario.
Sempre in via pregiudiziale, i convenuti hanno eccepito l’inammissibilità dell’azione per difetto di legittimazione e carenza di interesse, giacché il Consiglio comunale di Anguillara Veneta avrebbe espresso in via legittima, formale e democratica la volontà del Comune. L’azione proposta si risolverebbe in una inammissibile impugnazione di atti emanati dal Consiglio comunale nell’esercizio del potere politico.
Si è costituito il Comune di Anguillara Veneta, concludendo per l’inammissibilità delle domande avversarie. Il Comune ha eccepito che l’azione popolare ha ad oggetto un atto politico e che l’azione popolare è stata proposta contro il Comune e non nell’interesse del Comune.
Nel giudizio a quo ha spiegato intervento la Federazione Europa Verde – Verdi, aderendo all’azione popolare intentata.
2. – Nella pendenza del giudizio dinanzi al Tribunale di Padova, Antonio Spada e la Federazione Europa Verde – Verdi hanno sollevato, con atto notificato il 21 ottobre 2022, ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, chiedendo dichiararsi la giurisdizione del giudice ordinario o, in via alternativa e subordinata, quella del giudice amministrativo.
Ad avviso dei ricorrenti, la controversia sarebbe ricompresa nell’ambito della competenza giurisdizionale del giudice ordinario, attesa la natura strettamente privatistica della deliberazione comunale impugnata, non assimilabile ad un atto adottato iure imperii conoscibile e sindacabile da parte del giudice amministrativo. Nell’adottare la deliberazione della quale si lamenta l’illegittimità, il Comune – sostengono i ricorrenti –, lungi dall’esercitare un’attività tipica, improntata al principio di legalità che informa l’agire e il potere amministrativo, avrebbe posto in essere un atto che esula dai confini della funzione pubblica, risolvendosi, al più, in un’onorificenza simbolica, accordata secondo i paradigmi tipici del diritto privato.
I ricorrenti, inoltre, avversando l’eccezione sollevata dai convenuti nel giudizio a quo, contestano che ci si trovi di fronte ad un atto politico e che, pertanto, ricorra un’ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione. Il provvedimento adottato dal consiglio comunale di Anguillara Veneta, non essendo libero nel fine, si discosterebbe dall’atto politico: il parametro giuridico alla stregua del quale vagliare, in sede giudiziale, l’attività espletata, per definizione assente in presenza di un atto politico, sussisterebbe invece nel caso di specie, e coinciderebbe con i limiti valoriali cristallizzati nello statuto del Comune.
L’azione del Comune risulterebbe, ad avviso dei ricorrenti, compressa dalle finalità espresse nella carta statutaria, che detta i limiti invalicabili dell’agire amministrativo. La decisione dell’organo comunale, nell’accordare la benemerenza ad un soggetto la cui condotta è ritenuta incompatibile con i valori professati dalla comunità anguillarese, si porrebbe in contrasto con la normativa statutaria, risultando, per l’effetto, illegittima.
I ricorrenti osservano infatti che lo statuto è destinato ad operare quale argine all’agire politico indipendentemente dall’indirizzo di governo contingente. Non si potrebbe ascrivere la deliberazione comunale censurata al perseguimento di un obiettivo politico di vertice, poiché il riconoscimento di un’onorificenza – specie in favore di un soggetto la cui condotta sarebbe incompatibile con i valori della comunità – non contribuirebbe in alcun modo all’attività di indirizzo e programmazione politica svolta in favore dei consociati.
Ancora, il diniego tout court di giurisdizione sulla vicenda si tradurrebbe in un’ingiustificata compressione del diritto ad una tutela giurisdizionale piena ed effettiva.
In via subordinata, per il caso in cui la concessione della cittadinanza venga ricondotta ad un atto amministrativo in senso proprio, non emesso iure privatorum, i ricorrenti sostengono che debba essere dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, al fine di ottenere comunque l’annullamento della deliberazione impugnata per difetto di istruttoria ed eccesso di potere nella forma dello sviamento.
3. – Si sono costituiti nel giudizio per regolamento preventivo, con controricorso, Alessandra Buoso e gli altri convenuti nel giudizio a quo, concludendo per il difetto assoluto di giurisdizione o, in subordine, per la giurisdizione del giudice amministrativo.
La controversia avrebbe ad oggetto un atto politico, sottratto, ai sensi dell’art. 7 cod. proc. amm., in virtù della sua fondamentale funzione di direzione ed indirizzo politico, a qualsivoglia sindacato giurisdizionale. Sarebbe, del resto, evidente l’intendimento degli attori di esercitare, per via giudiziale, una volontà politica, contraria a quella assunta dal consiglio comunale.
Ad avviso dei controricorrenti, non sarebbe sostenibile la tesi della non riferibilità della deliberazione comunale alle funzioni pubbliche dell’organo consiliare e della sua assunzione iure privatorum. Rientrerebbe, infatti, nell’autonomia politica del Comune, nonostante l’assenza di norme statali ad hoc, il potere di approvare un regolamento proprio, in base al quale poter concedere la cittadinanza onoraria (nel caso di specie, peraltro, simbolica e non incidente sulla posizione giuridica soggettiva del beneficiario).
Secondo i controricorrenti, saremmo di fronte ad una utilizzazione arbitraria dell’azione popolare. In base al disegno normativo, l’azione popolare sarebbe preordinata a rimediare alle situazioni di inerzia ed omissione da parte del Comune, e non già ad attribuire ai consociati uno strumento correttivo suscettibile di sovvertire le determinazioni assunte secondo il paradigma democratico-rappresentativo.
L’azione popolare nella specie esperita, promossa in sostituzione e per conto del Comune di Anguillara Veneta, non potrebbe essere legittimamente convertita in azione di annullamento, in ragione del difetto di legittimazione e di interesse in capo ai ricorrenti.
Ove tale conversione venga ritenuta possibile, i controricorrenti chiedono che, ai sensi dell’art. 7 cod. proc. amm., sia dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo.
4. – Anche il Comune di Anguillara Veneta, costituendosi con controricorso, ha eccepito il difetto assoluto di giurisdizione, sul rilievo che il conferimento della cittadinanza onoraria sarebbe un atto politico. Ad avviso del controricorrente, la politicità dell’atto emergerebbe da tre prospettive. La prima consiste nella circostanza che il beneficiario della cittadinanza è un rilevantissimo uomo politico che è stato democraticamente eletto presidente del Brasile alle elezioni del 2018. La seconda prospettiva consiste nella radicale assenza di concreti effetti giuridici derivanti dall’emanazione dell’atto contestato che è del tutto neutro per l’ordinamento. La terza prospettiva riguarda la natura dell’organo che ha concesso la cittadinanza onoraria: si tratta del consiglio comunale, che rappresenta uno degli organi di governo, quello definito di indirizzo e di controllo politico amministrativo del Comune. Osserva il controricorrente che gli atti politici sono per definizione insindacabili da qualunque giudice, essendo valutabili unicamente secondo logiche politiche e di opportunità (e non di legittimità).
5. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale.
6. – Il Pubblico Ministero ha concluso per il difetto assoluto di giurisdizione.
Secondo l’Ufficio del Procuratore Generale, l’onorificenza in questione assume un valore puramente simbolico, risulta inidonea ad accrescere o ledere la sfera giuridica del destinatario e viene disposta nell’ambito di un’attività libera ed autonoma, in quanto non regolata da alcuna norma di legge, attraverso le articolazioni istituzionali con le quali si realizza la rappresentanza, da parte del Comune, della comunità territoriale di riferimento.
L’assenza di una normativa applicabile e la natura simbolica della benemerenza in questione farebbero ritenere che nel caso si versi in materia nella quale è precluso l’intervento giurisdizionale, come peraltro avverrebbe nei casi di manifestazioni pubbliche puramente simboliche realizzate da autorità politiche per sottolineare il favore nei confronti di personalità o eventi, per assonanze politiche ideali o per dare rilievo ai legami familiari con il territorio e con la collettività locale rappresentata dall’ente comunale nelle sue articolazioni. Tali assonanze – osserva il Pubblico Ministero nella requisitoria scritta – potrebbero anche essere mutevoli nel tempo, per la decisione di chi ha concesso la benemerenza o per revoca disposta dallo stesso organo, all’esito di consultazione elettorale che abbia mutato la sua composizione e di conseguenza la sensibilità verso la personalità e gli eventi.
In particolare, il Pubblico Ministero sottolinea che il legislatore non ha predeterminato alcun canone di legalità per la concessione della cittadinanza onoraria.
7. – Tutte le parti hanno depositato, in prossimità della camera di consiglio, memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – La controversia è stata promossa dinanzi al giudice a quo per contestare la deliberazione del consiglio comunale di Anguillara Veneta che ha attribuito la cittadinanza onoraria del Comune all’allora Presidente della Repubblica federale del Brasile Jair Messias Bolsonaro.
Gli attori, cittadini elettori del Comune di Anguillara Veneta, hanno promosso un’azione popolare, ai sensi dell’art. 9 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con il d.lgs. n. 267 del 2000, in sostituzione e a tutela dell’identità personale e dell’immagine del Comune. Essi hanno lamentato la lesione del diritto dell’ente locale alla propria identità personale e all’immagine, derivante dall’abbinamento con la personalità del Presidente brasiliano, i cui comportamenti e le cui dichiarazioni pubbliche sarebbero, si sostiene da parte degli attori, confliggenti con i valori storici e culturali espressi nello statuto del Comune di Anguillara Veneta.
2. – Le Sezioni Unite sono investite del compito, non di risolvere il merito della vicenda, ma di pronunciare sulla giurisdizione: di stabilire, cioè, se vi sia spazio per un intervento giurisdizionale e, in caso di risposta affermativa, di ripartire la giurisdizione, dichiarando a quale giudice, ordinario o amministrativo, spetta risolvere la controversia.
3. – La prima questione da affrontare è se vi sia un giudice.
4. – Il difetto assoluto di giurisdizione è configurabile quando la domanda giudiziaria non è conoscibile, in astratto e non in concreto, da nessun giudice, sicché tutti i giudici sono tenuti ad arretrare, a farsi da parte rispetto ad una materia che non può formare oggetto di cognizione giurisdizionale (Cass., Sez. Un., 16 marzo 2022, n. 8600).
Il difetto assoluto di giurisdizione è ravvisabile quando manchi nell’ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l’interesse dedotto in giudizio, sì che non possa individuarsi alcun giudice titolare del potere di decidere; attiene, per contro, al merito della controversia ogni questione concernente l’idoneità di norme di diritto a tutelare il concreto interesse affermato dalla parte in giudizio (Cass., Sez. Un., 30 marzo 2005, n. 6635; Cass., Sez. Un., 31 marzo 2006, n. 7577; Cass., Sez. Un., 8 maggio 2007, n. 10375).
In particolare, si ha difetto assoluto di giurisdizione nel caso in cui manchi in astratto la giustiziabilità della pretesa azionata.
Così, per rimanere ad alcuni esempi tratti dalla casistica giurisprudenziale, la proposizione, in sede civile, di un’azione risarcitoria diretta contro un magistrato per fatti commessi nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, configura – ai sensi dell’art. 2 della legge n. 117 del 1988, in forza del quale l’azione diretta di danno può essere proposta unicamente nei confronti dello Stato, salva l’ipotesi disciplinata dall’art.13 della stessa legge – una fattispecie di improponibilità assoluta e definitiva della domanda, in quanto concernente un diritto non configurato in astratto a livello normativo dall’ordinamento (Cass., Sez. Un., 9 marzo 2020, n. 6690, cit.). Del pari, non è giustiziabile la pretesa relativa alle modalità e ai contenuti dell’esercizio della funzione legislativa, che necessariamente esula dall’ambito della giurisdizione, sia essa quella del giudice ordinario sia del giudice amministrativo, in quanto al giudice non compete sindacare il modo in cui lo Stato esplica le proprie funzioni sovrane, funzioni in rapporto alle quali non è dato configurare una situazione di interesse protetto a che gli atti in cui esse si manifestano assumano o non assumano un determinato contenuto (Cass., Sez. Un., 29 maggio 2023, n. 15058). Allo stesso modo, la domanda giudiziale volta a negare la sovranità dello Stato italiano su una porzione del proprio territorio, chiedendo al giudice ordinario di riconoscere l’esistenza di un’altra entità statuale, rientra nel perimetro del difetto assoluto di giurisdizione in quanto comporta, non già la delibazione di una posizione di diritto o di interesse legittimo, ma un sindacato sulla configurazione costituzionale dello Stato italiano, di cui viene messa in discussione, a monte, la stessa ridefinizione dei confini territoriali o, comunque, il loro assetto (Cass., Sez. Un., 16 marzo 2022, n. 8600, cit.). Nel medesimo ordine di idee, si è statuito che la pretesa del cittadino rivolta ad ottenere una quota proporzionale del “signoraggio” monetario esula dall’ambito della giurisdizione, sia del giudice ordinario che del giudice amministrativo, in quanto al giudice non compete sindacare il modo in cui lo Stato esplica le proprie funzioni sovrane, tra le quali sono indiscutibilmente comprese quelle di politica monetaria, di adesione a trattati internazionali e di partecipazione ad organismi sovranazionali, funzioni in rapporto alle quali non è dato configurare una situazione di interesse protetto a che gli atti in cui esse si manifestano assumano o non assumano un determinato contenuto (Cass., Sez. Un., 21 luglio 2006, n. 16751).
5. – Nella specie, il difetto assoluto di giurisdizione è stato prospettato dai controricorrenti evocando la natura politica dell’atto impugnato. L’azione non avrebbe un giudice perché sarebbe stata proposta contro un atto del Comune emanato nell’esercizio del potere politico. Il conferimento della cittadinanza onoraria comunale sarebbe un atto espressione di autonomia politica: la determinazione assunta dal Consiglio comunale potrebbe essere superata unicamente da un atto del medesimo tenore, dunque da altra delibera del consiglio comunale. Con l’azione proposta, sia pure richiamando lo statuto comunale ed i valori che lo imperniano, sarebbero formulate censure di carattere politico.
6. – Il Collegio delle Sezioni Unite esclude che nella deliberazione del Consiglio comunale di attribuzione della cittadinanza onoraria ricorrano i tratti tipologici dell’atto politico in senso proprio.
6.1. – L’articolo 7, comma 1, ultimo periodo, cod. proc. amm. – riprendendo una previsione già contenuta nell’art. 31 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato (approvato con il regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054) e, prima ancora, nell’art. 3, secondo comma, della legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (legge 31 marzo 1889, n. 5992) – esclude dall’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo gli atti ed i provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico.
Per qualificare un atto come politico, la giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 7 giugno 2022, n. 4636) richiede due requisiti: sotto il profilo soggettivo, l’atto deve provenire da un organo preposto all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello; sotto il profilo oggettivo, l’atto deve essere libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici, deve concernere, cioè, la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione. È ritenuto tale non l’atto amministrativo che sia stato emanato sulla base di valutazioni specificamente di ordine politico, ma solo l’atto che sia esercizio di un potere politico.
Gli atti politici sono gli atti posti in essere da un organo costituzionale nell’esercizio della funzione di governo, e quindi nell’attuazione dell’indirizzo politico (costituzionale o di maggioranza): non sono, quindi, espressione di una funzione amministrativa. Gli atti adottati nell’esercizio delle funzioni politiche del Governo sfuggono al sindacato giurisdizionale del giudice comune e attengono alla sfera della responsabilità politica del Governo. In ordine ad essi può essere promosso, se ve ne sono le condizioni, conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale.
La nozione di atto politico è di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale, perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale, che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità.
Il principio di giustiziabilità degli atti del pubblico potere, di soggezione del potere alla legge ogni qualvolta esso entra in rapporto con i cittadini, costituisce un profilo basilare della Costituzione italiana.
L’impugnabilità dell’atto è la regola: una regola orientata ad offrire al cittadino una concreta protezione della propria sfera soggettiva individuale contro le molteplici espressioni di potere in cui si concreta l’azione della pubblica amministrazione.
Il diritto vivente conferma la recessività della nozione di atto politico, che coincide con gli atti che attengono alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali.
L’esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale è confinata entro limiti rigorosi (Cass., Sez. Un., 2 maggio 2019, n. 11588, cit.).
Non è, quindi, soggetto a controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l’intervento del giudice determinerebbe un’interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri (Cons. Stato, Sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502).
È questo il caso, per esempio, del provvedimento con il quale il Governo ha autorizzato l’ampliamento di una base militare U.S.A. nel nostro Paese (Cons. Stato, Sez. V, 29 luglio 2008, n. 3992) o del diniego del Consiglio dei ministri sull’istanza finalizzata all’avvio delle procedure per la conclusione di un’intesa ai sensi dell’art. 8 Cost. (Cons. Stato, Sez. IV, 7 giugno 2022, n. 4636, cit.); o, ancora, della determina con cui i Presidenti dei due rami del Parlamento hanno provveduto a nominare, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 287 del 1990, il presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (TAR Lazio, 16 luglio 2020, n. 8162). Rientra nella categoria dell’atto politico la decisione di concentrare in un’unica data le elezioni amministrative ed europee (TAR Catania, 10 ottobre 2014, n. 2725, sulla base del rilievo che si tratta di una espressione della funzione di direzione e di indirizzo politico del Paese alla quale sono connesse pure esigenze di contenimento della spesa pubblica). Per contro, in molteplici casi nei quali si è posto il problema di applicare l’art. 7 cod. proc. amm. (o il precedente art. 31 del testo unico sul Consiglio di Stato) sull’atto politico a fronte di atti produttivi di effetti che pure presentavano elementi di politicità, si è escluso detto carattere, affermandone la sindacabilità in sede giurisdizionale.
E’ stata esclusa la natura di atto politico dell’atto di indizione delle elezioni regionali, venendo in rilievo un procedimento amministrativo caratterizzato dall’esercizio di potestà pubbliche vincolate sulla scorta di precetti legislativi puntuali relativi all’an e al quando dell’atto di indizione della procedura elettorale, in guisa da escludere il suum dell’atto politico, rappresentato dalla sussistenza di una libertà nel fine che impedisce, in ragione dell’assenza del necessario parametro giuridico, l’estrinsecazione del sindacato giurisdizionale (Cons. Stato, Sez. V, 27 novembre 2012, n. 6002). Ha natura non di atto politico ma di atto amministrativo la direttiva del Ministro dell’economia e delle finanze al direttore generale del Dipartimento del tesoro finalizzata ad ottenere che il presidente del consiglio d’amministrazione della RAI, partecipata per il 99,56% dal Ministro dell’economia, convochi l’assemblea dei soci per deliberare la revoca di un consigliere d’amministrazione della società e procedere alla sua sostituzione con un nuovo amministratore (TAR Lazio, 16 novembre 2007, n. 11271); ancora, non costituisce atto politico la nomina del segretario generale del Consiglio regionale (Cass., Sez. lav., 7 ottobre 2022, n. 29206), e neppure il provvedimento di scioglimento di un’associazione politica e di confisca dei suoi beni (Cons. Stato, Sez. IV, 21 giugno 1974, n. 452).
Dagli atti politici si distinguono gli atti di alta amministrazione, tradizionalmente definiti come atti di suprema direzione della pubblica amministrazione, di raccordo della funzione di indirizzo politico con quella amministrativa: non sono quindi liberi nel fine come gli atti politici ma vincolati a fini stabiliti a livello politico; di conseguenza essi non sfuggono al regime tipico del provvedimento amministrativo.
6.2. – Nella specie, la questione della natura giuridica dell’atto di conferimento della cittadinanza onoraria va affrontata tenendo conto che esso è stato posto in essere da un Comune: il che interseca il problema del ruolo delle autonomie nel nuovo assetto costituzionale delineato dal Titolo V della Costituzione.
Pur dovendosi riconoscere, su un piano generale, la titolarità in capo al Comune di una funzione di indirizzo politico e, di conseguenza, il potere di compiere, nel proprio ambito, atti politici su un piano di tendenziale parità concettuale con quelli posti in essere dagli altri enti costitutivi della Repubblica, l’attribuzione della cittadinanza onoraria da parte del Comune non costituisce un atto politico.
Dell’atto politico, sottratto al sindacato giurisdizionale, fa difetto il requisito oggettivo, perché il conferimento di quella onorificenza non è un atto riconducibile alle supreme scelte in materia di costituzione, salvaguardia e funzionamento dei pubblici poteri.
Conforta in questa direzione l’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa in tema di revoca dell’assessore comunale: atto che è stato ritenuto soggetto allo statuto del provvedimento amministrativo, non essendo “espressione della libertà politica attribuita ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze a questo inerenti” (Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2023, n. 2071).
7. – Secondo la requisitoria del Pubblico Ministero, al difetto assoluto di giurisdizione le Sezioni Unite dovrebbero pervenire seguendo un altro percorso: facendo leva sul valore meramente simbolico dell’onorificenza in questione, la quale viene concessa dal Comune, in rappresentanza della comunità territoriale di riferimento, nell’ambito di una attività libera ed autonoma in quanto non regolata da alcuna norma di legge.
L’Ufficio del Procuratore Generale sostiene che il conferimento della cittadinanza onoraria riveste una natura puramente simbolica: dalla concessione della cittadinanza onoraria non deriva alcun accrescimento della sfera giuridica del destinatario. Manca, soprattutto, una normativa applicabile, una norma di legge che regoli l’attività in questione, perché il legislatore non ha predeterminato alcun “canone di legalità” per la concessione della cittadinanza onoraria.
8. – Il Collegio condivide le conclusioni della requisitoria del Pubblico Ministero.
9. – La premessa dalla quale occorre muovere sta nel considerare dirimente, ai fini della giustiziabilità dell’atto, accanto ai caratteri del provvedimento, la dimensione sostanziale della legalità, la quale richiede che l’atto di esercizio del potere sia suscettibile di essere confrontato con le norme che lo disciplinano. Va inoltre valutata la presenza di interessi giuridicamente rilevanti: se mancano situazioni qualificate differenziate, in presenza di interessi di mero fatto, allora è possibile parlare di atto non sindacabile proprio perché non tocca direttamente situazioni giuridiche. Nel difetto di un interesse privato direttamente offeso manca la materia del giudizio, manca la persona cui possa riconoscersi l’azione per promuoverlo.
La chiave di volta ai fini del giudizio di insindacabilità di un atto del potere pubblico è costituita, in generale, dalla mancanza di specifici parametri giuridici protesi a riconoscere posizioni di vantaggio meritevoli di protezione.
Viene in rilievo, infatti, l’art. 101, secondo comma, Cost., il quale, nel fissare il principio della soggezione dei giudici soltanto alla legge, individua nella legge il fondamento e la misura del sindacato ad opera del giudice.
Ciò significa che, in assenza di un parametro giuridico alla politica, il sindacato deve arrestarsi: per statuto costituzionale, il giudice non può essere chiamato a fare politica in luogo degli organi di rappresentanza. Lo preclude il principio ordinamentale della separazione tra i poteri. La “zona franca” è il riflesso della presenza di una politicità dell’atto che non si presta ad una rilettura giuridica. L’insindacabilità è il predicato di un atto non sottoposto dall’ordinamento a vincoli di natura giuridica.
Ove, viceversa, vi sia predeterminazione dei canoni di legalità, quello stesso sindacato si appalesa doveroso. Il giudice, quale che sia il plesso di appartenenza, è non solo rispettoso degli ambiti di attribuzione dei poteri, ma anche, sempre per statuto costituzionale, garante della legalità, e quindi non arretra là dove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme che segnano i confini o indirizzano l’esercizio dell’azione di governo. La giustiziabilità dell’atto dipende dalla regolamentazione sostanziale del potere. Se dunque esiste una norma che disciplina il potere, che ne stabilisce limiti o regole di esercizio, per quella parte l’atto è suscettibile di sindacato.
Si tratta di una premessa coerente con gli approdi della giurisprudenza costituzionale.
Con la sentenza n. 81 del 2012, la Corte costituzionale ha stabilito che gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate.
Il principio è stato ribadito nella successiva sentenza n. 52 del 2016, con la quale la Corte costituzionale ha sottolineato che la scelta di avviare le trattative con le confessioni religiose non è oggetto di alcuna disciplina specifica che rechi una puntuale regolazione del procedimento di stipulazione delle intese e che, in mancanza di essa, la giustiziabilità del diniego opposto all’avvio delle trattative costituirebbe un elemento dissonante. Da questa premessa la Corte ha fatto discendere l’insussistenza della configurabilità nel nostro ordinamento di una pretesa giustiziabile all’avvio delle trattative, risolvendo il conflitto in favore del Governo e affermando l’insindacabilità del diniego.
Questa prospettiva metodologica informa gli svolgimenti della giurisprudenza, del Consiglio di Stato e di questa Corte regolatrice.
Il giudice amministrativo è giunto alla conclusione che l’insindacabilità in sede giurisdizionale dell’atto va esclusa in presenza di una norma che predetermina le modalità di esercizio della discrezionalità politica o che comunque la circoscriva: è impugnabile l’atto, pur promanante dall’autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica, la cui fonte normativa riconosce l’esistenza di una situazione giuridica attiva protetta dall’ordinamento riferita ad un bene della vita oggetto della funzione svolta dall’amministrazione (Cons. Stato, Sez. I, 19 settembre 2019, n. 2483).
E queste Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 2 maggio 2019, n. 11588, cit.) hanno statuito che la richiesta di promovimento del conflitto di attribuzioni rivolta da un consigliere regionale alla Regione non è sorretta da un interesse protetto dall’ordinamento giuridico, attenendo tale conflitto alla delimitazione dei poteri costituzionalmente riservati all’ente, al quale soltanto spetta la decisione, contraddistinta da ampia discrezionalità e da connotati di politicità, di proporre il ricorso ex art. 134 Cost.; e ne hanno fatto derivare che la pretesa del terzo di ottenere l’esercizio di tale prerogativa non è azionabile in giudizio, senza che sia ravvisabile la lesione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dal momento che il diritto di accesso ad un tribunale postula l’esistenza di una posizione giuridica tutelata nell’ordinamento interno.
10. – Poste queste premesse, il primo aspetto che al Collegio preme evidenziare è l’inidoneità dell’atto impugnato a provocare un’effettiva vicenda giuridica soggettiva.
La concessione della cittadinanza onoraria concretizza una manifestazione di riconoscimento e di gratitudine da parte di una determinata collettività locale nei confronti di una persona in virtù di particolari benemerenze acquisite in campi culturali, scientifici, umanitari o per altre motivazioni.
Si tratta di un titolo meramente onorifico e non dell’acquisizione dello status civitatis. La benemerenza in questione ha natura puramente simbolica e sottolinea il favore nei confronti di personalità o eventi per assonanze ideali o per sottolineare i legami familiari con il territorio o con la collettività locale rappresentata dall’ente comunale nelle sue articolazioni.
L’onorificenza in questione risulta inidonea ad accrescere o ledere la sfera del destinatario e viene disposta nell’ambito di un’attività libera ed autonoma in quanto non regolata da alcuna norma di legge.
È pacifico che l’atto con cui si conferisce questo onore è una concessione. Ma si tratta di un atto assolutamente discrezionale che non incide in situazioni giuridiche tutelate né ne costituisce. La cittadinanza onoraria non influisce in alcun modo neppure sulla posizione anagrafica del beneficiario.
Negli atti amministrativi ciò che è sindacabile non è la valutazione di opportunità, ma le conseguenze giuridiche dell’atto. L’atto è sindacabile perché innova l’ordinamento giuridico: ciò che deve essere conforme al diritto non è il nucleo politico dell’atto ma le conseguenze giuridiche che produce.
L’atto di conferimento della cittadinanza onoraria non accresce o limita la sfera giuridica (del destinatario, dell’ente comunale che lo attribuisce, dei membri della comunità di cui l’ente è esponente).
Non accade nulla di nuovo sul piano dell’ordinamento giuridico di cui si debba verificare la conformità ad un diritto che funga da criterio di legittimità delle conseguenze giuridiche, che per l’appunto mancano.
10.1. – Il conferimento della cittadinanza onoraria è affidato, dal regolamento adottato dal Comune di Anguillara Veneta, al consiglio comunale, ossia all’organo di indirizzo politico-amministrativo dell’ente locale.
Con il regolamento comunale per il conferimento della cittadinanza onoraria e le altre civiche benemerenze, approvato con la deliberazione 25 ottobre 2021, n. 26, il Comune di Anguillara Veneta ha inteso comprendere tra i propri compiti quello di sottoporre alla pubblica stima le persone che, senza distinzione di nazionalità, di razza, di sesso e di religione, abbiano giovato direttamente con opere concrete alla realtà locale oppure possano essere ricordate quali esempio e riferimento per il Comune. La cittadinanza onoraria può essere attribuita dal consiglio comunale, altresì, per riconoscere e premiare l’impegno e le opere nel campo delle scienze, delle lettere, delle arti, dell’industria, del lavoro, dell’istruzione, dello sport, l’impegno per la realizzazione di iniziative di carattere sociale, assistenziale e filantropico, condotte con particolare spirito di collaborazione all’attività della pubblica amministrazione. Il conferimento della cittadinanza può essere rivolto a premiare gli atti di coraggio e di abnegazione civica.
In base al citato regolamento, sono degni della cittadinanza onoraria tutti coloro che hanno comunque dato lustro al Comune e alla sua comunità.
L’onorificenza della cittadinanza onoraria è attribuita dal consiglio comunale, in quanto organo di rappresentanza diretta dei cittadini e perciò interprete dei sentimenti e dei desideri della comunità.
La cittadinanza onoraria può consistere in una targa in cui è rappresentato lo stemma del Comune con sotto la dicitura cittadinanza onoraria, la data, il nome e il cognome del beneficiario e una pergamena con le motivazioni dell’onorificenza e le generalità del beneficiario.
10.2. – Il conferimento della cittadinanza onoraria non è soggetto ad alcuna normazione ma forma oggetto di una libera ed autonoma determinazione del consiglio comunale.
L’azione del Comune non è vincolata a norme specifiche. Il legislatore non ha predeterminato alcun canone di legalità per la concessione della cittadinanza onoraria.
Come non è configurabile, in capo a chi aspira al conferimento della cittadinanza onoraria, l’esistenza di una situazione giuridica protetta dall’ordinamento, riferita ad un bene della vita oggetto dell’attività svolta dall’Amministrazione comunale, così, allo stesso modo, non è predicabile un interesse giuridico qualificato e differenziato in capo al civis membro della comunità territoriale.
È il consiglio comunale – organo di rappresentanza diretta dei cittadini, nel quale si confrontano democraticamente le forze politiche, di maggioranza e di minoranza, investite del mandato popolare attraverso libere elezioni – a farsi interprete dei sentimenti e dei desideri della comunità.
I meccanismi di controllo della concessione della cittadinanza onoraria si esplicano tramite la dialettica politica, dentro e fuori la sede in cui quell’atto è stato assunto.
11. – Preme, inoltre, sottolineare che gli attori non hanno introdotto il giudizio a quo per far valere una loro differenziata posizione giuridica soggettiva.
Il sistema di tutela giurisdizionale ha il carattere di giurisdizione soggettiva e non di difesa dell’oggettiva legittimità dell’azione amministrativa. Fatta eccezione per ipotesi specifiche, non è consentito adire il giudice unicamente al fine di conseguire la legalità e la legittimità dell’azione amministrativa, ove ciò non si traduca anche in uno specifico beneficio in favore di chi la propone, il quale, a sua volta, deve trovarsi in una situazione differenziata rispetto al resto della collettività e non deve essere un quisque de populo (Cons. Stato, Sez. IV, 6 dicembre 2013, n. 5830).
Gli attori hanno promosso un’azione popolare, ai sensi dell’art. 9 del testo unico degli enti locali, che si caratterizza per il suo contenuto oggettivo, al fine di tutelare i diritti all’immagine, alla reputazione, all’identità storica e culturale del Comune di Anguillara Veneta.
Sennonché, l’azione popolare comunale consente a ciascun elettore di “far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al Comune”. Si tratta di un’azione a carattere sostitutivo e non correttivo: non è utilizzabile al fine di rimuovere errori o irregolarità commessi in danno dell’interesse di cui l’ente è portatore, può essere esperita contro un soggetto terzo e non contro il Comune per far valere l’illegittimità di atti riferibili a detto ente, e risulta quindi ammissibile solo in caso di inerzia dell’ente locale e non qualora esso abbia provveduto. Diversamente opinando, il cittadino si verrebbe a sostituire all’espressa volontà di un ente elettivo rappresentativo della volontà dei cittadini, con un evidente vulnus del principio democratico.
Il presupposto necessario dell’azione popolare di cui al citato art. 9 va rinvenuto soltanto nell’omissione da parte dell’ente dell’esercizio delle proprie azioni o nell’inerzia da vicariare.
L’azione popolare ai sensi dell’art. 9 del testo unico non può essere diretta a contestare la validità degli atti del Comune per conto del quale si dichiara di agire.
Le qualità allegate dai ricorrenti nella premessa in fatto dell’atto introduttivo – l’essere cittadini residenti del Comune di Anguillara Veneta – non costituiscono titolo di accesso alla legittimazione a ricorrere avverso l’atto in questa sede impugnato, perché non connotano in termini di specifica qualificazione e differenziazione la posizione giuridica dei ricorrenti rispetto a quella di altri cittadini residenti nel medesimo Comune, né, sotto l’altro profilo, fanno assurgere a rango di interesse collettivo, che pertiene cioè all’intera comunità territoriale, l’interesse, di natura peraltro squisitamente politica, perseguito dalla Federazione intervenuta ad adiuvandum.
Non può essere invocata la titolarità dell’azione prevista dall’art. 9, perché questa norma, che configura un caso di azione popolare in sostituzione dell’ente locale da parte del cittadino elettore, riguarda azioni di tipo sostitutivo e non correttivo, in cui gli attori si pongano in contrasto con l’ente stesso.
Proprio perché la posizione dell’elettore è quella sin qui descritta, occorre che l’azione e il ricorso siano volti alla tutela di posizioni giuridiche dell’ente locale (cui egli si sostituisce), nei confronti di possibili pregiudizi derivanti da azioni od omissioni di terzi, da fatti od atti compiuti da privati o anche da altre pubbliche amministrazioni.
Non è, invece, possibile che l’elettore insorga, in luogo dell’ente (da lui considerato inadempiente), avverso atti adottati dall’ente medesimo, potendo in tali casi quest’ultimo, ove sussistano i presupposti, agire in autotutela, e non essendo l’azione ex art. 9 cit. (come già chiarito dalla giurisprudenza) di tipo “correttivo”.
12. – Va, pertanto, affermato il seguente principio di diritto:
“La cittadinanza onoraria, essendo un titolo onorifico, con valenza meramente simbolica, non costituisce alcuna posizione soggettiva in capo al destinatario, in termini di status civitatis o anche semplicemente di residenza anagrafica, e neppure incide nella posizione dei cives, venendo essa conferita dal consiglio comunale – organo di rappresentanza della comunità territoriale di riferimento – nell’ambito di una attività libera ed autonoma, non soggetta ad alcuna normazione e non vincolata ad un fine desumibile dal sistema; ne consegue che il cittadino elettore non ha una pretesa giustiziabile a far valere vizi di legittimità della relativa deliberazione di conferimento, neppure con l’azione popolare di cui all’art. 9 del testo unico sugli enti locali, riguardando essa azioni di tipo sostitutivo e non correttivo, in cui gli attori si pongano in contrasto con l’ente stesso”.
13. – Il difetto assoluto di giurisdizione fotografa il ritrarsi della giurisdizione da un atto, il conferimento della cittadinanza onoraria, non perimetrato da una disciplina di legge, improduttivo di effetti nella sfera giuridica del beneficiario e di soggetti terzi e disposto sulla base
di scelte libere ed autonome da parte di un organo, il consiglio comunale, rappresentativo della comunità territoriale e investito di funzioni di indirizzo politico.
14. – I meccanismi di controllo non passano, dunque, attraverso la giustiziabilità dell’atto, ma sono affidati alla discussione libera e democratica: dentro l’aula del consiglio comunale, dove si confrontano dialetticamente le forze di maggioranza e di minoranza liberamente elette, portatrici di diversi ideali; fuori del palazzo municipale, sui giornali, nei dibattiti televisivi e nelle piazze, anche virtuali, delle nostre città.
Il cittadino elettore che, sulla base delle proprie convinzioni ideali o della appartenenza politica, dissenta dalla deliberazione del consiglio comunale attributiva della civica benemerenza ad una personalità che egli ritenga non meritevole dell’onorificenza, ha, a propria disposizione, gli strumenti delle libertà costituzionali, dei diritti fondamentali, della democrazia e del pluralismo, in un contesto che assegna alla loro garanzia, promozione e tutela una dimensione anche internazionale e sovranazionale. Egli ha il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, in un sistema che assicura la libertà di stampa e il pluralismo delle fonti di informazione e delle notizie; può sollecitare, con petizioni o campagne di sensibilizzazione, la revoca del beneficio; ha il diritto di riunirsi ed associarsi con altri per collaborare in vista di uno scopo comune; ha il diritto di partecipare attivamente alla vita di un partito o all’azione politica, per concorrere a determinare la politica nazionale o del Comune in cui vive; ha il diritto di esercitare il diritto di voto, che è anche un dovere civico.
15. – Tuttavia, anche a fronte di una benemerenza conferita per operare esclusivamente sul piano simbolico, non può essere esclusa, in casi estremi (si pensi, per esempio, alla cittadinanza onoraria che venisse conferita ad una persona assolutamente indegna perché condannata per gravi crimini), la garanzia della giustiziabilità e dell’intervento del giudice comune: non per esercitare un sindacato su un atto di per sé normalmente improduttivo di effetti nella sfera giudica di soggetti terzi, ma per sanzionare le conseguenze di un fatto illecito, perché offensivo di quel comune sentimento di giustizia rappresentato dal tessuto di principi attraverso i quali si esprimono, secondo la Costituzione, le condizioni della convivenza, in relazione ai valori della persona e delle libertà democratiche.
16. – È dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione.
La complessità e la novità della questione trattata giustificano la compensazione tra le parti delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
dichiara il difetto assoluto di giurisdizione e la compensazione delle spese dell’intero giudizio.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 9 maggio 2023.
Il Presidente
Guido Raimondi
Allegati:
SS.UU, 01 giugno 2023, n. 15601, in tema di cittadinanza onoraria
In tema di responsabilità del notaio – SS.UU, 24 maggio 2023, n. 14432
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto:
imposta di registro –
avviso di liquidazione –
verbale di assemblea
straordinaria societaria-
atti enunciati –
tassazione
SENTENZA
– ricorrente –
contro
– controricorrente –
FATTI DI CAUSA
1. Con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale della Campania rigettava l’appello proposto da Nicola Capuano avverso la sentenza n. 31535/29/2014 della Commissione tributaria provinciale di Napoli, che ne aveva respinto il ricorso contro l’avviso di liquidazione per imposta di registro e sanzioni relative ad un atto che aveva rogato in qualità di notaio, registrato in via telematica.
2. La CTR osservava in particolare:
-che l’atto de quo riguardava un’assemblea straordinaria dei soci di Jengo spa nella quale era stato deliberato l’aumento del capitale sociale, anche mediante rinuncia di uno dei soci, per l’importo di euro 93.000, ad un proprio credito, già contabilmente appostato quale “finanziamento” alla società, con contestuale estinzione per equivalente del più ampio debito per tale titolo della società;
-che nel rogito si erano quindi “enunciati”, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 22, dPR 131/1986 (in seguito, TUR), il contratto di finanziamento alla società e la parziale rinuncia al credito di restituzione relativo;
-che per l’imposta proporzionale di registro così generata doveva rispondere, anche, il notaio rogante, come preteso con l’atto impositivo impugnato.
3. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il Capuano deducendo tre motivi.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate, che successivamente ha depositato una memoria.
4. Con ordinanza n. 11118/2022, depositata il 6 aprile 2022, la Sezione tributaria ha rimesso la causa al Primo Presidente per valutare l’opportunità dell’assegnazione della medesima alle Sezioni Unite civili, in quanto riguardante una questione di massima di particolare importanza, posta con il terzo motivo del ricorso, in ordine alla responsabilità del notaio rogante un atto pubblico ovvero autenticante una scrittura privata relativamente agli atti “enunciati” ex artt. 22, comma 1, e 57, comma 1, TUR.
Il Primo Presidente ha quindi disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo –ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.- il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per vizio motivazionale (motivazione apparente).
La censura è infondata.
Va infatti ribadito che «La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (tra le molte, Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526 – 01).
La motivazione della sentenza impugnata non corrisponde ai paradigmi invalidanti di cui al citato consolidato arresto giurisprudenziale, contenendo una puntuale argomentazione circa le statuizioni assunte, così collocandosi al di sopra del “minimo costituzionale” richiesto (v. Sez. U, 8053/2014).
Il giudice tributario di appello infatti ha basato la propria statuizione di rigetto dell’appello, quindi, per l’effetto, del ricorso introduttivo della lite, sulla considerazione, chiaramente espressa, che gli atti “enunciati” nel verbale di assemblea straordinaria di Jengo spa dovessero sussumersi nella fattispecie astratta di cui agli artt. 22, TUR, e 9, tariffa allegata al TUR98, anche per il principio di autonomia dei singoli negozi, sicché non risulta carente la valutazione in fatto della fattispecie concreta, spostandosi necessariamente la critica della decisione sul piano della valutazione in diritto, come del resto il ricorrente deduce con il terzo motivo.
Ne deriva l’irrilevanza della coincidenza formale delle motivazioni della CTP e della CTR.
2. Con il secondo motivo –ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.- il ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione dell’art. 112, cod. proc. civ., poiché la CTR ha omesso di pronunciarsi sulla propria eccezione di mancanza di responsabilità rispetto a detti atti “enunciati”.
La censura è manifestamente infondata.
Come già rilevato in relazione al dedotto vizio motivazionale, la CTR campana, diversamente da quanto opinato dal ricorrente, ha chiaramente ed univocamente espresso il proprio convincimento in relazione a tale eccezione, dedotta sia come motivo di impugnazione dell’atto impositivo sia come motivo di gravame della pronuncia della CTP napoletana.
3. Con il terzo motivo –ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.- il ricorrente si duole della violazione/falsa applicazione degli artt. 10, 22, 57, TUR, poiché la CTR ha affermato la sussistenza dell’obbligazione tributaria dedotta nell’avviso di liquidazione impugnato, appunto in relazione ad atti “enunciati” nel rogito in questione.
La censura è infondata.
Emerge dagli atti che:
-in data 29 dicembre 2011 il ricorrente ha rogato un verbale di assemblea straordinaria della Jengo spa nella quale si deliberava l’aumento di euro 93.000 del capitale sociale, che veniva contestualmente sottoscritto dal socio Bruno De Maio, mediante rinuncia per l’importo equivalente ad un maggior credito di euro 693.307 appostato nel bilancio societario a titolo di finanziamento;
-che il rogito è stato registrato telematicamente il 12 gennaio 2012;
-che con l’atto impositivo impugnato l’Agenzia delle entrate, ufficio locale, in relazione alla “enunciazione” del finanziamento alla società e della remissione parziale del debito societario correlativo pretende dal ricorrente l’imposta di registro proporzionale (rispettivamente 3 e 0,5 %), in base agli artt. 22, TUR, 9, 6, tariffa allegata al TUR.
4. Ciò posto in fatto, risulta necessario sviluppare alcune sintetiche premesse generali in ordine alla responsabilità fiscale del notaio a titolo di imposta di registro.
Anzitutto non può esservi dubbio circa l’estraneità del professionista rispetto al “presupposto” di tale imposta, essendo chiaro che lo stesso va riferito – esclusivamente – ai soggetti che a lui si rivolgono per ottenerne il ministero, in quanto “parti” degli atti notarili richiesti, che quindi sono gli unici ad assumere la qualità di “soggetti passivi” -in senso stretto- dell’imposta medesima (tra le molte, v. Sez. 5 – , Ordinanza n. 17357 del 19/08/2020, Rv. 659509 – 01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5016 del 12/03/2015, Rv. 634742 – 01).
Al notaio va invece attribuita la qualifica di “responsabile di imposta” (tra le molte, v. Sez. 5 -, Ordinanza n. 9538 del 24/03/2022, Rv. 664153 – 01), assumendo la posizione di «Chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento dell’imposta insieme con altri, per fatti o situazioni esclusivamente riferibili a questi» (secondo la concettualizzazione normativa generale di cui all’art. 64, terzo comma, dPR 600/1973).
Pacificamente tale situazione giuridica soggettiva passiva, ingenerante una obbligazione solidale “dipendente” (v. tra le molte, Sez. 5, Sentenza n. 12759 del 21/06/2016, Rv. 640163 – 01; successiva conforme, Sez. 5, n. 18113/2021), trova fondamento nel profilo di garanzia ordinamentale della funzione pubblica notarile, che, tra l’altro, si concretizza nel presidio diretto dell’esazione dei crediti fiscali originati nell’esercizio della medesima.
A tale specifico fine, l’art. 57, TUR, nelle parti che rilevano ai fini del presente giudizio, prevede che «Oltre ai pubblici ufficiali, che hanno redatto, ricevuto o autenticato l’atto, e ai soggetti nel cui interesse fu richiesta la registrazione, sono solidalmente obbligati al pagamento dell’imposta le parti contraenti…» e che «La responsabilità dei pubblici ufficiali non si estende al pagamento delle imposte complementari e suppletive».
Vi è dunque una responsabilità solidale tra le parti ed il notaio, in quanto pubblico ufficiale costituito “fideiussore ex lege“, relativamente agli atti che ha «redatto, ricevuto o autenticato», ma limitatamente all’imposta principale, essendone espressamente escluse quella complementare e quella suppletiva.
Questa tripartizione tipologica dell’imposta di registro è data dall’art. 42, comma 1, TUR, che appunto prevede che «E’ principale l’imposta applicata al momento della registrazione e quella richiesta dall’ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione per via telematica; e’ suppletiva l’imposta applicata successivamente se diretta a correggere errori od omissioni dell’ufficio; e’ complementare l’imposta applicata in ogni altro caso».
Oltre a tali disposizioni legislative generali, nel caso di specie viene peraltro in rilievo quella di cui all’art. 22, TUR, secondo il quale «1. Se in un atto sono enunciate disposizioni contenute in atti scritti o contratti verbali non registrati e posti in essere fra le stesse parti intervenute nell’atto che contiene la enunciazione, l’imposta si applica anche alle disposizioni enunciate. Se l’atto enunciato era soggetto a registrazione in termine fisso è dovuta anche la pena pecuniaria di cui all’art. 69. 2. L’enunciazione di contratti verbali non soggetti a registrazione in termine fisso non da’ luogo all’applicazione dell’imposta quando gli effetti delle disposizioni enunciate sono già cessati o cessano in virtu’ dell’atto che contiene l’enunciazione».
5. Ciò posto, la tesi agenziale è che il ricorrente debba considerarsi debitore solidale, in quanto responsabile di imposta, per il pagamento delle imposte proporzionali di registro relative a due atti “enunciati” nell’atto rogato (verbale di assemblea straordinaria societaria) ossia il contratto di finanziamento infruttifero del socio De Maio alla Jengo spa e la remissione parziale del correlativo debito, contestualmente imputato a sottoscrizione dell’aumento di capitale (oggetto della deliberazione di detta assemblea) da parte dello stesso De Maio.
Tali pretese risultano fondate.
Va rilevato in tal senso anzitutto che nel caso di specie gli atti “enunciati” oggetto della ripresa fiscale non sono scritti, ma verbali, non risultando altrimenti la prima forma e peraltro non essendo la medesima imposta dalla legge ad substantiam; altresì pacifico è che, come tali, non si tratta di atti per i quali il notaio rogante ha prestato direttamente il proprio ministero, ma appunto invece li ha solo “formalizzati” (ricevuti) nel verbale di assemblea straordinaria societaria de quo.
Si è -condivisibilmente- affermato nella giurisprudenza di questa Corte che l’ art. 22, TUR, pone tre presupposti per la sua applicabilità ossia l’autonomia giuridica oggettuale dell’ “enunciazione” (delle disposizioni enunciate), l’identità delle parti dell’atto “enunciante” e dell’atto “enunciato”, la permanenza degli effetti di quest’ultimo (v., in termini, da ultimo, Sez. 5, nn. 3839-3841/2023; in senso conforme, Sez. 5, nn. 32516/2019, 15585/2010).
La valutazione di detti presupposti si pone dunque come questione pregiudiziale alla soluzione del caso in esame.
6. In tal senso va in primo luogo rilevato che, come accertato in fatto dal giudice tributario di appello, gli atti emersi nel rogito de quo hanno forma e contenuto del tutto chiari, che pertanto la loro enunciazione deve considerarsi giuridicamente autonoma ed anche autosufficiente. Si tratta invero di un finanziamento soci, corrispondente al tipo contrattuale del mutuo, da un lato, di una parziale rinuncia al correlato credito di restituzione, da un altro.
Tali atti risultano dunque apprezzabili ab intrinseco, senza ulteriori accertamenti di fatto o comunque extratestuali né valutazioni di particolare complessità giuridica, ché altrimenti, quantomeno, si renderebbe necessaria l’adozione di una forma provvedimentale impositiva diversa da quella adottata in concreto (avviso di liquidazione) ossia l’emissione di un avviso di accertamento (in tal senso, v. Sez. 5, nn. 6617/2022, 18113-15998/2021, 15450/2019).
In tale, diverso, caso però l’imposta richiesta avrebbe chiara natura di imposta “complementare”, in quanto fondata non sulla rettifica de plano dell’imposta autoliquidata, ma sulla contestazione funditus di essa, con la determinazione autoritativa di un maggior credito tributario correlato al presupposto.
Nel caso che occupa, invece, per dette caratteristiche oggettive degli atti “enunciati”, deve affermarsi che l’atto impositivo estrinseca una pretesa creditoria che, di per sé, deve essere ascritta alla categoria dell’imposta di registro “principale”, sicché ne risulta pienamente legittima la forma prescelta.
7. In secondo luogo le parti dell’atto enunciante e dell’atto enunciato devono considerarsi le medesime ossia la società ed i suoi soci nell’uno e nell’altro caso, dovendosi in questo particolare contesto impositivo attribuire al termine “parte”, utilizzato dall’art. 22, TUR, un significato lato e sostanziale, stante la chiara ratio antielusiva della disposizione legislativa. Ampia e condivisibile è in tal senso la giurisprudenza di questa Corte (v. le citate Sez. 5, nn. 3839-3841/2023, anche per i riferimenti ad un orientamento ermeneutico consolidato).
Pur a fronte della correlativa contestazione dottrinale e della perplessità in ordine alla questione manifestata nell’ordinanza interlocutoria di rimessione, il Collegio ritiene quindi che il dato normativo letterale «parti intervenute nell’atto che contiene l’enunciazione» debba essere interpretato nel senso, appunto, lato e non “contrattualistico”, di soggetti rispetto ai quali si realizzano gli effetti degli atti contenuti nell’atto di “emersione”, così peraltro attribuendo al verbale di assemblea straordinaria societaria la sua funzione “propria”, che è appunto quella di un resoconto di avvenimenti storici al quale il notaio attribuisce, per legge, fede pubblica (cfr., puntualmente, Sez. 5, n. 3839/2023).
Nel caso in esame (ed in quelli omologhi) si deve pertanto affermare che la presenza dei soci in assemblea giuridicamente “contiene” la loro, anche individuale, qualità di “parte” degli atti “enunciati” (in relazione ad essi, in senso tecnico negoziale), secondo il canone logico ermeneutico del “più che comprende (necessariamente) il meno” e, allo stesso tempo, secondo la ratio antievasiva dell’art. 22, TUR. Sotto questo profilo va soggiunto che non vi è alcuna “terzietà” dei soci che non sono “parti” degli atti emersi, posto che gli stessi esplicano effetti patrimoniali favorevoli per la società partecipata, sicché senz’altro anche a loro, pur in via mediata, deve essere riferito il correlato indice di capacità contributiva, conformemente al principio generale di cui all’art. 53, Cost.
8. In terzo luogo nel caso di specie non possono considerarsi cessati gli effetti degli atti enunciati, posto che, da un lato, il finanziamento del socio De Maio all’esito dell’assemblea societaria risulta tuttora valido ed efficace de residuo (euro 600.700), da un altro lato, proprio nell’assemblea stessa si sono realizzati gli effetti della rinuncia parziale al correlativo credito restitutorio del socio finanziatore.
Conclusivamente sul punto, devono pertanto affermarsi pienamente sussistenti i presupposti giuridici per la tassazione degli atti enunciati, come preteso dall’agenzia fiscale.
9. Peraltro in questo giudizio, più specificamente, è in contestazione la responsabilità fiscale del ricorrente, quale notaio che ha rogato l’atto “enunciante”.
Al fine di dirimere giuridicamente tale questione non è dunque sufficiente affermare l’applicabilità dell’imposta di registro agli atti “enunciati” in detto atto, ma è necessario stabilire se questo titolo impositivo rientri nel perimetro applicativo delle disposizioni legislative che configurano e delimitano l’obbligazione solidale del notaio in relazione all’imposta medesima.
Per un verso infatti l’art. 22, TUR non determina -in astratto- di quale “tipo” di imposta di registro si tratta nel caso della tassabilità di atti per “enunciazione”, per altro verso la responsabilità d’imposta del notaio, fondata sull’ art. 57, TUR, da tale disposizione legislativa è tuttavia limitata all’imposta di registro “principale”, escludendosene quella “supletiva” e quella “complementare”.
Risulta perciò dirimente la qualificazione dell’imposta pretesa con l’atto impositivo impugnato ed è quindi decisiva l’ermeneutica “in concreto” dell’art. 42, TUR, che è appunto la “norma base” che guida tale qualificazione giuridica, in stretta correlazione con quella dell’art. 22, TUR.
10. Orbene, ritiene il Collegio che nel caso di specie la pretesa creditoria erariale va intesa a titolo di imposta “principale” di registro.
Anzitutto per la ragione esposta sopra, in dipendenza della ontologia concreta degli atti “enunciati”.
In secondo luogo, con riguardo al modulo attuativo specifico correlativamente adottato dall’agenzia fiscale, perché l’art. 42, TUR, tra l’altro, indica come tale appunto quella «.. richiesta dall’ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione per via telematica».
È infatti pacifico che:
-la registrazione dell’ atto “enunciante” è stata richiesta dal ricorrente per via telematica, mediante modello unico su supporto informatico (MUI), secondo la previsione di cui all’art. 3 bis, comma 2, d.lgs. 463/1997;
-contestualmente, come pure previsto dalla medesima disposizione legislativa, il ricorrente ha proceduto alla “autoliquidazione” ed al pagamento dell’imposta di registro, peraltro concernente il (e limitata al) solo atto presentato per la registrazione (verbale di assemblea straordinaria della Jengo spa).
L’azione rettificativa/impositrice dell’agenzia fiscale non può quindi che essere ricondotta alla previsione di cui all’art. 3 ter, comma 1, primo periodo, d.lgs. 463/1997, secondo il quale «Gli uffici controllano la regolarità dell’autoliquidazione e del versamento delle imposte e qualora, sulla base degli elementi desumibili dall’atto, risulti dovuta una maggiore imposta, notificano, anche per via telematica, entro il termine di sessanta giorni dalla presentazione del modello unico informatico, apposito avviso di liquidazione per l’integrazione dell’imposta versata».
Nel caso in esame ed in quelli omologhi, risultando «desumibili dall’atto» altri atti («elementi») tassabili, come sopra rilevato, secondo la previsione di cui all’art. 22, TUR, l’agenzia fiscale, avvalendosi del potere di rettifica de quo, ha “corretto” la relativa “omissione”; quindi, con l’avviso di liquidazione impugnato, ha preteso dal notaio presentante il MUI il pagamento di un’imposta di registro senz’altro qualificabile “principale” (sia pure nella forma c.d. “postuma”) ex art. 42, comma 1, primo periodo, TUR, evocandone la responsabilità solidale ex art. 57, comma 1, TUR.
Al notaio è stata infatti richiesta, né più né meno (al netto delle sanzioni), la medesima imposta principale che le parti degli atti “enunciati” avrebbero dovuto e devono versare per la registrazione degli stessi e che il notaio medesimo, quale responsabile d’imposta, avrebbe dovuto autoliquidare e versare in sede di presentazione del MUI (in tal senso, quindi condivisibilmente, Sez. 5, 18113/2021).
Così, più precisamente, ricostruita, in astratto ed in concreto, la fattispecie impositiva oggetto del giudizio, la statuizione della sentenza impugnata risulta dunque conforme al diritto, integrandosene la motivazione nei termini precisati.
Ritiene pertanto il Collegio di dare seguito, con le puntualizzazioni che precedono, all’indirizzo emergente dall’ordinanza della Sezione tributaria n. 18113/2021, poi, nella linea di principio, sostanzialmente seguito da altre pronunce della medesima Sezione (v. Sez. 5, nn. 3839-3841/2023; 5859-6617/2022).
11. Va infine puntualizzato che quanto considerato non si pone affatto in contrasto con la natura dell’ imposta di registro quale “imposta d’ atto”, come affermata nella costante giurisprudenza di questa Corte (puntualmente richiamata nell’ordinanza di rimessione, alla quale si rinvia) e della Corte costituzionale (sentenze nn. 158/2020, 39/2021).
L’atto in questione è infatti un “atto -fiscalmente- cumulativo”, di per sé autonomamente imponibile in relazione al suo oggetto principale (aumento di capitale societario), ma contenente (“enunciante”) altri atti (disposizioni di), la cui imponibilità, “per attrazione”, è sancita dall’art. 22, TUR. Tale disposizione legislativa è quindi la “base normativa” necessaria al rispetto del principio generale di legalità (riserva relativa di legge) dell’imposizione fiscale sancito dall’art. 23, Cost.
In questa fattispecie impositiva complessa ogni singolo atto (enunciante/enunciato) è dunque separatamente ed individualmente soggetto ad imposta, appunto secondo la logica, anche costituzionale, della tipologia fiscale che titola le pretese fiscali azionate ossia -esattamente- quella dell’ “imposta d’atto”.
Ciò chiarito, non può quindi condividersi il dubbio del Collegio rimettente circa la possibile violazione degli artt. 10, lett. b), 57, comma 1, TUR, quanto al lato “soggettivo” dell’obbligazione tributaria in questione, trattandosi di un atto «redatto e ricevuto» dal notaio ricorrente sia nella parte enunciativa del verbale di assemblea straordinaria societaria per aumento del capitale sociale sia nella parte enunciata del finanziamento soci e della rinuncia parziale al correlato credito restitutorio, sicché in particolare la seconda disposizione legislativa non è affatto violata dalla statuizione della sentenza impugnata confermativa della pretesa fiscale.
12. Nemmeno risulta decisivo l’ argomento, ulteriormente addotto nell’ordinanza di rimessione, desunto dall’art. 1, comma 63, lett. a), legge 147/2013, che disciplina gli obblighi di versamento dei notai.
La corretta ricostruzione della fattispecie impositiva/obbligatoria de qua induce infatti ad affermare che, qualora debba rogare atti enunciativi di atti “chiari ed autosufficienti” ossia desumibili ex se nella loro ontologia giuridica, il notaio, per sua cautela, dovrà/potrà richiedere alle parti del rogito il previo versamento dell’imposta di registro “principale” sia in relazione all’atto enunciante sia in relazione all’atto eventualmente enunciato, ben potendo il notaio medesimo in caso di mancato riscontro positivo di tale richiesta rifiutare il proprio ministero in virtù dell’art. 28, comma 4, legge 89/1913 («Il notaro può ricusare il suo ministero se le parti non depositino presso di lui l’importo delle tasse, degli onorari e delle spese dell’atto, salvo che si tratti di persone ammesse al beneficio del gratuito patrocinio, oppure di testamenti»).
13. All’esito delle considerazioni che precedono, ritiene il Collegio di affermare il seguente principio di diritto:
«In tema di imposta di registro, qualora in un atto notarile, anche registrato telematicamente, vengano enunciate disposizioni di altri atti, scritti o verbali, posti in essere dalle medesime parti, ma non già registrati, la cui configurazione giuridica non richiede accertamenti di fatto ovvero extratestuali nè valutazioni interpretative particolarmente complesse, purché, trattandosi di contratti verbali non soggetti a registrazione in termine fisso, gli effetti dei medesimi non siano già cessati o cessino con l’atto che li enuncia, l’imposta dovuta per tali atti in virtù della previsione di cui all’art. 22, dPR 131/1986 deve qualificarsi come imposta principale e, per richiederla in rettifica dell’autoliquidazione, l’Ente impositore può legittimamente emettere un avviso di liquidazione ai sensi degli artt. 42, comma 1, primo periodo, dPR 131/1986 e 3 ter, comma 1, d.lgs. 463/1997; in tal caso, ai sensi dell’art. 57, comma 1, dPR 131/1986, il notaio che ha ricevuto l’atto enunciante, pur in via dipendente, è responsabile per il pagamento dell’imposta solidalmente con le parti dell’ atto stesso»
14. In conclusione il ricorso va rigettato.
Tenuto conto della recente evoluzione della giurisprudenza in ordine alla questione di massima in esame, le spese del giudizio possono essere compensate.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Cosi deciso in Roma 9 maggio 2023
Il presidente
Il consigliere est.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 06 aprile 2022, n. 11118, per SS.UU, 24 maggio 2023, n. 14432, in tema di responsabilità del notaio
SS.UU, 24 maggio 2023, n. 14432, in tema di responsabilità del notaio
In tema di tutela dei consumatori – SS.UU, 06 aprile 2023, n. 9479
SS.UU, 06 aprile 2023, n. 9479, in tema di tutela dei consumatori
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 24533-2021 R.G. proposto da:
A.A., domiciliata ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati N.S. e G.C.;
– ricorrente –
contro
xxx Srl e per essa yyy Spa ;
xxx S.C. e per essa yyy Spa ;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1184-2021 del TRIBUNALE di BUSTO ARSIZIO, depositata il 23/07/2021. Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2023 dal Consigliere E.V.;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale G.B.N., che ha concluso per la declaratoria di estinzione del giudizio, previa affermazione del principio di diritto ex art. 363, comma 3, c.p.c.;
uditi gli avvocati G.C. e N.S.
Svolgimento del processo
1. – A.A. stipulò, il 21 marzo 2007, un contratto di fideiussione con il Credito Valtellinese, in forza del quale essa si costituì garante delle obbligazioni assunte dalla Magnus Costruzioni Srl verso l’Istituto di credito. In conseguenza della escussione senza esito della garanzia, il Credito Valtellinese chiese al Tribunale di Sondrio decreto ingiuntivo per le somme dovute dalla A.A.; provvedimento monitorio (n. 706-2011) che il ricorrente ottenne dal Tribunale adito e che l’ingiunta non oppose.
1.1. – In base a quel titolo il Credito Valtellinese intervenne, quindi, nella procedura di espropriazione immobiliare (r.g.e. n. 417-2014) che era stata intrapresa, nei confronti della A.A. davanti al Tribunale di Busto Arsizio, da altro creditore (xxx Spa) in forza di contratto di mutuo ipotecario rimasto inadempiuto. Il Credito Valtellinese cedette, poi, il proprio credito verso la A.A. a xxx Srl, che in veste di cessionaria intervenne (il 23 ottobre 2017) nella medesima anzidetta procedura esecutiva.
1.2. – Disposta la vendita dei beni immobili oggetto di espropriazione, che venivano trasferiti (l’11 giugno 2019) una volta intervenuta l’aggiudicazione e il versamento del prezzo (di Euro 265.000,00), il giudice dell’esecuzione procedeva a depositare il progetto di distribuzione della somma ricavata, che l’esecutata contestava, adducendo l’insussistenza del diritto di credito della cessionaria xxx Srl in ragione della nullità del titolo costituito dal decreto ingiuntivo n. 706-2011, giacchè emesso da giudice territorialmente incompetente. Il giudice dell’esecuzione, con ordinanza del 24 ottobre 2020, dichiarava esecutivo il progetto di distribuzione depositato.
2. – Avverso tale ordinanza A.A. proponeva opposizione ex art. 617 c.p.c., ribadendo la precedente contestazione sulla nullità del titolo azionato esecutivamente, per essere stato il decreto ingiuntivo emesso da giudice territorialmente incompetente, in quanto adito sulla scorta di una clausola del contratto di fideiussione illegittimamente derogatrice del foro del consumatore (ossia, il Tribunale di Busto Arsizio, comune di residenza dell’ingiunta), qualità che essa poteva vantare anche come fideiussore alla luce del mutamento di giurisprudenza nella materia.
2.1. – Il Tribunale di Busto Arsizio rigettava l’opposizione ex art. 617 c.p.c. con sentenza resa pubblica il 23 luglio 2021.
2.1.1. – Il giudice dell’opposizione, pur riconoscendo alla A.A. l’anzidetta qualità e individuando nell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. il rimedio per farla valere compatibilmente con il diritto Europeo, escludeva che la stessa avesse tempestivamente utilizzato detto strumento; di qui, il rigetto dell’opposizione ex art. 617 c.p.c..
3. – Per la cassazione di tale sentenza A.A. ha proposto, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., ricorso straordinario affidato a due motivi.
3.1. – Con entrambi i motivi ha dedotto la violazione e/o errata interpretazione della direttiva 93-13 e dell’art. 19 del TUE, con riferimento al principio di effettività della tutela del consumatore, mettendo in discussione l’impossibilità, a fronte di decreto ingiuntivo non opposto, sia di “un secondo controllo d’ufficio nella fase dell’esecuzione sulla abusività delle clausole contrattuali”, sia di “una successiva tutela, una volta spirato il termine per proporre opposizione nei confronti del decreto ingiuntivo”.
3.2. – Le intimate Credito Valtellinese S.C., e per essa la yyy Spa, nonchè la xxx Srl , e per essa la yyy Spa, non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
3.3. – Ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, artt. 23, comma 8-bis, (convertito, con modificazioni, nella L. n. 176 del 2020) e del D.L. n. 228 del 2021, art. 16 (convertito, con modificazioni, nella L. n. 15 del 2022), e su istanza della ricorrente, è stata fissata udienza pubblica, con discussione in presenza, per il giorno 13 luglio 2022 dinanzi alla Terza Sezione civile di questa Corte.
3.4. – Con atto depositato il 6 luglio 2022, A.A. ha rinunciato al ricorso.
3.5. – Con atto in pari data, il pubblico ministero ha depositato le proprie conclusioni scritte, con le quali ha chiesto che il giudizio venga dichiarato estinto, sollecitando, però, la Corte ad enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., reputando ciò necessario “a fronte della particolare rilevanza della questione e della situazione di grave incertezza interpretativa determinata dalle quattro recenti sentenze del 17 maggio 2022 della Corte di Giustizia, tutte relative ad analoghe vicende, inerenti le sorti del giudicato nazionale dinanzi alla normativa Eurounitaria qualificata inderogabile dalla CGUE”.
3.6. – Con provvedimento in data 7 luglio 2022, il Presidente titolare della Terza sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente, evidenziando che il ricorso pone una questione di massima di particolare importanza e coinvolge materie di competenza tabellare di diverse Sezioni civili della Corte, così da rendersi necessaria una pronuncia delle Sezioni Unite.
4. – Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite civili.
5. – Su istanza della ricorrente e del pubblico ministero, è stata fissata udienza pubblica, con discussione in presenza, in data odierna.
5.1. – Il pubblico ministero ha depositato le proprie conclusioni scritte, ribadendo, con ulteriori argomentazioni, quanto in precedenza sostenuto e chiedendo che, con la pronuncia di estinzione del giudizio, sia enunciato, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., il principio di diritto, il quale, in sintesi, dovrebbe essere così orientato: il giudice del monitorio deve motivare sul compiuto esame d’ufficio in ordine alla assenza di clausole abusive in contratto concluso tra professionista e consumatore, con relativo avvertimento a quest’ultimo sugli effetti della mancata opposizione; diversamente, il controllo officioso sulla abusività delle clausole va effettuato in fase esecutiva, dovendo il giudice dell’esecuzione indicare al consumatore esecutato il rimedio in suo favore, da individuarsi in un’ordinaria azione di accertamento (c.d. actio nullitatis).
5.2. – La ricorrente ha depositato memoria con la quale chiede, anch’essa, che sia enunciato il principio di diritto nell’interesse della legge, proponendo, in sintesi, che esso sia declinato nel senso di intestare al giudice dell’esecuzione sia il rilievo officioso, che l’accertamento sull’abusività delle clausole e di mantenere nell’ambito delle opposizioni esecutive anche l’eventuale formazione del giudicato al riguardo.
5.3. – Il Pubblico ministero e la parte ricorrente hanno diffusamente argomentato le rispettive posizioni nella discussione in pubblica udienza.
Motivi della decisione
L’estinzione del giudizio.
1. – Alla rituale rinuncia al ricorso per cassazione (ex art. 390 c.p.c.) da parte di A.A., che non richiede l’accettazione delle controparti per essere produttiva di effetti processuali, segue l’estinzione del giudizio di legittimità (ex art. 391 c.p.c.) introdotto con il medesimo atto di impugnazione. In assenza di attività difensiva delle parti intimate non occorre provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità. L’estinzione del giudizio di legittimità per rinuncia al ricorso esclude la sussistenza dei presupposti per il pagamento del c.d. “doppio contributo unificato”, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17. L’esercizio del potere conferito alla Corte di cassazione dall’art. 363 c.p.c..
2. – Il Collegio reputa, tuttavia, di doversi soffermare su una questione di particolare importanza che trova origine proprio dalla proposizione del ricorso e di utilizzare, così, il potere, che l’art. 363, comma 3, c.p.c., assegna alla Corte di Cassazione, di enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge; ciò che la declaratoria di estinzione conseguente alla rinuncia al ricorso non impedisce (SS.UU, 6 settembre 2010, n. 19051; SS.UU, 24 settembre 2018, n. 22438).
2.1. – Si tratta della questione che – come evidenziato sia dalla ricorrente, che dal pubblico ministero – è sorta a seguito di quattro coeve pronunce della CGUE, emesse dal Collegio della Grande Sezione in data 17 maggio 2022 (sentenza in C-600/19, Ibercaja Banco; sentenza in cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C831/19, Banco di Desio e della Brianza; sentenza in C-725/19, Impuls Leasing Romania; sentenza in C-869/19, Unicaja Banco), una delle quali (sentenza in cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C831/19, Banco di Desio e della Brianza) a seguito di rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Milano con ordinanze del 10 agosto 2019 e del 31 ottobre 2019.
2.2. – La questione di diritto che scaturisce dalle citate sentenze del Giudice di Lussemburgo – e, segnatamente, dalla pronuncia da ultimo citata (di seguito anche soltanto: sentenza “SPV/Banco di Desio”) – riveste una rilevanza davvero peculiare, pari alla complessità dei temi che essa intercetta, così da fornire evidente giustificazione all’intervento nomofilattico che queste Sezioni Unite intendono assumere ai sensi dell’art. 363 c.p.c..
2.3. – Essa, per i connotati che la caratterizzano e per le implicazioni che ne discendono, si presta, altresì, ad essere esempio paradigmatico di come possa trovare virtuosa applicazione l’istituto, di nuovo conio, del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 363 bis c.p.c. (introdotto dal D.Lgs. n. 10 ottobre 2022, n. 149, art. 3, comma 27, lett. c, con decorrenza dal 1 gennaio 2023 per effetto del citato D.Lgs. n. 149 del 2022, art. 35, comma 7, come sostituito dalla L. 29 dicembre 2022, n. 197, art. 1, comma 380, lett. a)), rimesso alla valutazione del giudice di merito in base a concorrenti presupposti (questione di diritto, necessaria alla definizione anche parziale del giudizio non ancora risolta da questa Corte di cassazione, che presenta gravi difficoltà interpretativa e che è suscettibile di porsi in numerosi giudizi), tutti ricorrenti nel caso in esame.
Il perimetro della pronuncia di queste Sezioni Unite ai sensi dell’art. 363 c.p.c..
3. – L’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge, exart. 363 c.p.c., non ha “un carattere meramente esplorativo o preventivo”, ma si lega necessariamente alla fattispecie concreta oggetto di cognizione (Cass., S.U., n. 404/2011 e Cass., S.U., n. 23469/2016). E ciò anche là dove la norma anzidetta intesta tale potere direttamente in capo alla Corte di Cassazione (comma 3 dell’art. 363 c.p.c.) e ne attiva, dunque, la funzione nomofilattica pur a prescindere, eccezionalmente, dalla decisione sul fondo delle censure con effetti sul concreto diritto dedotto in giudizio. Dunque, anche nell’applicazione dell’istituto del principio di diritto nell’interesse della legge rimane viva e vitale quella necessaria compenetrazione tra l’esercizio dei compiti di nomofilachia e i “fatti della vita” portati dalle parti dinanzi al giudice. Ciò dà fondamento alle ragioni di una disciplina che, a fronte di questioni di diritto e di fatto rivestenti particolare importanza, consente di pronunciare una regola di giudizio che, sebbene non influente sulla concreta vicenda processuale, serva tuttavia come criterio di decisione di casi analoghi o simili (tra le altre, SS.UU, n. 27187/2007 e SS.UU, n. 19051/2010).
3.1. – La fattispecie che qui rileva ha riguardo – in estrema sintesi – all’emissione di un decreto ingiuntivo in favore di un professionista che il consumatore non ha opposto, lamentando, però, in sede di procedura esecutiva per il soddisfo del credito ingiunto, l’omesso rilievo officioso del giudice del procedimento monitorio su una clausola abusiva (nella specie, di deroga del foro del consumatore) presente nel contratto fonte di quel credito e, quindi, chiedendo al giudice dell’esecuzione di farsi carico del controllo sull’abusività della clausola contrattuale.
Le strette coordinate della pronuncia da adottare ai sensi dell’art. 363 c.p.c. sono, dunque, quelle, soltanto, della tutela consumeristica di cui alla direttiva 93/13/CEE, concernente l’abusività di clausole presenti in contratto concluso con professionista, nel contesto dell’anzidetta specifica scansione processuale di diritto nazionale.
La sentenza della CGUE in cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C-831/19, Banco di Desio e della Brianza.
4. – Così circoscritti i confini della presente pronuncia nomofilattica, è affatto palese la peculiare rilevanza che per essa assume, nel novero delle quattro decisioni adottate dalla CGUE il 17 maggio 2022, la sentenza “SPV/Banco di Desio”, in quanto resa all’esito di un rinvio pregiudiziale disposto da un giudice italiano nel contesto di controversie similari alla presente e, dunque, della comune disciplina, segnatamente processuale, di diritto interno.
4.1. – E’ – beninteso – una rilevanza che si colloca armonicamente nel contesto del tradizionale perimetro entro il quale, in conformità a quanto disposto dagli artt. 19, p. 1, TUE e 267 TFUE, si svolge, al fine di garantire un’interpretazione unitaria delle norme dell’ordinamento dell’Unione (quale obiettivo imprescindibile per la stessa sopravvivenza di tale ordinamento), l’esercizio della competenza attribuita alla Corte di Lussemburgo e si assegna valore di ulteriori e vincolanti fonti del diritto Eurounitario (ai sensi della Cost., artt. 11 e 117, comma 1: così, segnatamente, Corte Cost., sentenza n. 263 del 2022) alle sentenze della medesima Corte, la cui interpretazione, avente efficacia erga omnes nell’ambito dell’Unione, chiarisce e fissa il significato, nonchè i limiti di applicazione, delle norme di quel diritto nel senso in cui deve o avrebbe dovuto essere inteso e applicato sin dalla data della sua entrata in vigore (tra le altre, CGUE, sentenza 22.11.2017, in C-251/16, Cussens; CGUE, sentenza 7.8.2018, in C-300/17, Hochtief; CGUE, sentenza 10.3.2022, in C-177/20, Grossmania; così anche Corte Cost., sentenze n. 113 del 1985, n. 285 del 1993, n. 227 del 2010, n. 54 del 2022, n. 263 del 2022, citata; Cass., 11 dicembre 2012, n. 22577 e Cass., 3 marzo 2017, n. 5381).
Ai nostri fini, quindi, rendendosi cogente l’interpretazione fornita dalla CGUE (ovviamente, non soltanto con la sentenza “SPV/Banco di Desio”) degli artt. 6 e 7 della citata direttiva 93/13/CEE.
4.2. – E’, dunque, da ribadirsi quel rapporto di complementarietà – messo in risalto da SS.UU, 30 ottobre 2020, n. 24107 (con estesi richiami alla giurisprudenza Eurounitaria) – che si instaura, in funzione cooperativa, tra la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e il giudice nazionale, tale da costituire quest’ultimo non solo quale “giudice comunitario di diritto comune”, ma anche di riservagli, in via esclusiva, il potere sia di interpretare il diritto interno – rendendolo, però, conforme al diritto dell’Unione o anche di disapplicarlo, ove ciò sia consentito -, sia di applicare, nel caso concreto, il diritto unionale come interpretato dalla Corte di Giustizia (CGUE, sentenza 5.4.2016, in C-689/13, PFE; CGUE, sentenza 24.9.2019, in C-573/17, Poplawski; CGUE, Grossmania, cit.).
4.3. – Giova, dunque, rammentare quale è stata la risposta della CGUE alle questioni pregiudiziali sollevate con le già menzionate ordinanze del Tribunale di Milano e, in sintesi, quali argomentazioni sorreggono quella risposta.
4.3.1. – La CGUE, con la sentenza “SPV/Banco di Desio”, ha, dapprima, riformulato (cfr. p. 50) la richiesta pregiudiziale del Tribunale di Milano nei seguenti termini: “(…) se l’art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa – per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità – successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. Nella causa C-831/19, esso chiede altresì se la circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come “consumatore” ai sensi di tale direttiva abbia una qualsivoglia rilevanza al riguardo”.
4.3.2. – In coerenza con il complessivo quesito come sopra riformulato, la Corte di giustizia ha, poi, dato la seguente risposta: “L’art. 6, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa – per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità – successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole. La circostanza che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorava di poter essere qualificato come “consumatore” ai sensi di tale direttiva è irrilevante a tale riguardo”.
4.3.3. – Così si snoda, nella sua essenzialità, l’iter giustificativo della decisione:
– al fine di ovviare allo squilibrio esistente tra consumatore e professionista, il giudice nazionale è tenuto a esaminare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale che ricade nell’ambito di applicazione della direttiva 93/13 (clausola abusiva che, ai sensi della norma imperativa di cui all’art. 6, par. 1, non vincola il consumatore), laddove disponga degli elementi di diritto e di fatto a tal riguardo necessari (p.p. 51-53);
– l’art. 7, par. 1, della direttiva 93/13 impone agli Stati membri di “fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e i consumatori” e, tuttavia, in assenza di armonizzazione delle procedure applicabili a tal fine, tali procedure, in forza del principio dell’autonomia processuale, rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, “a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività)” (p.p. 53-54);
– il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste importanza sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali (p. 57) e la stessa tutela del consumatore “non è assoluta”, non imponendo il diritto dell’Unione “di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata a una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione di una disposizione, di qualsiasi natura essa sia, contenuta nella direttiva 93/13… fatto salvo tuttavia… il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività” (p. 58);
– il principio di equivalenza è nella specie rispettato, poiché “il diritto nazionale non consente al giudice dell’esecuzione di riesaminare un decreto ingiuntivo avente autorità di cosa giudicata, anche in presenza di un’eventuale violazione delle norme nazionali di ordine pubblico” (p. 59);
– quanto al principio di effettività:
a) esso, pur non potendo “supplire integralmente alla completa passività del consumatore interessato”, impone di garantire l’effettività dei diritti spettanti ai singoli, nella specie, in base alla direttiva 93/13 ed implica “un’esigenza di tutela giurisdizionale effettiva”, secondo quanto previsto dal citato art. 7, par. 1, nonché dall’art. 47 CDFUE, “che si applica, tra l’altro, alla definizione delle modalità procedurali relative alle azioni giudiziarie fondate su tali diritti”;
b) “in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto di cui trattasi, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere garantito”;
c) “le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali, alle quali si riferisce l’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 93-13, non possono pregiudicare la sostanza del diritto spettante ai consumatori in forza di tale disposizione… di non essere vincolati da una clausola reputata abusiva” (p.p. 60-63);
– “una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93-13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali” (p. 65);
– “in un caso del genere, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell’esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione” (p. 66).
Le premesse al “seguito” da assicurare alla sentenza “SPV/Banco di Desio”
5. – E’ opportuno muovere dal principio di autonomia procedurale degli Stati membri (ribadito dalla sentenza “SPV/Banco di Desio” ai p.p. 53-54) che, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza di Lussemburgo (dalle sentenze del 16.12.1976 – in C-33/76, Rewe e in C-45/76, Comet – in poi), va letto sotto la lente di quella interrelazione necessaria che l’ordinamento dell’Unione viene a comporre tra situazioni giuridiche soggettive da esso stabilite e la disciplina processuale degli Stati membri, quest’ultima – in assenza di misure di armonizzazione assunte da quell’ordinamento – deputata ad assicurare, alle prime, i rimedi atti a garantire una tutela giurisdizionale effettiva (art. 19, p. 1, comma 2, TUE), quale principio generale di diritto dell’Unione derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e che, attualmente, trova affermazione nell’art. 47 CDFUE (tra le altre, CGUE, sentenza 5.11.2019, in C-192/18, Commissione c. Polonia).
Ha, quindi, preso corpo, nel contesto di un assetto complessivo che vede primeggiare l’ordinamento sovranazionale, un meccanismo di complementarietà funzionale delle norme processuali nazionali rispetto al diritto Europeo sostanziale che, orientato dai principi di equivalenza ed effettività – nella calibrazione data ad essi, di volta in volta, dall’interpretazione della Corte di giustizia -, trova svolgimento in un processo dinamico e complesso di integrazione, tale che la disciplina interna sul processo, ove necessario, si debba flettere sino al punto di mostrarsi adeguata e congruente rispetto agli standard di garanzia richiesti dal diritto Eurounitario.
L’autonomia procedurale degli Stati membri, in materia di armonizzazione minima come quella regolata dalla direttiva 93/13/CEE, è, dunque, un valore che la stessa CGUE si preoccupa di tenere ben fermo, configurandolo come recessivo solo a certe condizioni, ossia per dare piena espansione ai principi di equivalenza ed effettività della tutela giurisdizionale. Ciò sta a significare che le categorie e gli istituti di diritto processuale interno potranno mantenere intatto il proprio fisiologico spazio applicativo là dove sia possibile rinvenire nel sistema, e fintanto che lo sia, l’apparato di tutela giurisdizionale che garantisca appieno l’effettività del diritto Eurounitario, per come interpretato dalla CGUE nel suo ruolo di fonte del diritto e, dunque, nell’esercizio della sua funzione nomogenetica. E’ una prospettiva, quindi, che porta ad individuare nell’ordinamento processuale interno la disciplina adeguata a quello scopo, nel rispetto della struttura e funzione degli istituti che essa configura (e, dunque, delle categorie giuridiche in tanto implicate), operando, però, su di essa, ove necessario, quegli adattamenti che sono imposti dal diritto unionale in funzione della tutela della posizione soggettiva da esso regolata. Di qui, come detto, il compito, cruciale, affidato al giudice nazionale/giudice comune Europeo, che, in siffatta opera di coordinamento ed integrazione attraverso gli strumenti (ormai istituzionali) dell’interpretazione conforme (sin dalla sentenza 10.4.1984, in C-14/83, Von Colson, e proprio in riferimento all’interpretazione di una direttiva, da intendersi alla luce della lettera e dello scopo di quest’ultima, al fine di conseguire il risultato indicato dall’art. 189 CEE e ora dall’art. 288 TFUE) e, se del caso (poichè la relativa attivazione si pone come sussidiaria rispetto all’interpretazione conforme: CGUE, sentenza 24.1.2012, in C282/10, Dominguez), della disapplicazione, dà, al fine, concretezza al principio di leale collaborazione di cui all’art. 4 TUE, in forza del quale gli Stati membri sono tenuti ad assicurare la conformità dell’ordinamento interno al diritto dell’Unione.
5.1. – E’, dunque, questo il terreno, giuridico e culturale, su cui deve misurarsi il seguito che occorre assicurare alla sentenza della CGUE del 17 maggio 2022 in cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C831/19, Banco di Desio e della Brianza, la quale – in estrema sintesi – ha affermato che, ove il consumatore non abbia fatto opposizione avverso un decreto ingiuntivo non sorretto da alcuna motivazione in ordine alla vessatorietà delle clausole presenti nel contratto concluso con il professionista e posto a fondamento del credito azionato da quest’ultimo, la “valutazione” (il “controllo”) sull’eventuale carattere abusivo di dette clausole deve poter essere effettuata dal giudice dell’esecuzione dinanzi al quale si procede per la soddisfazione di quel credito.
5.2. – Il dictum della CGUE, per la sua portata incidente – nella specifica materia implicata – sull’efficacia di giudicato che, alla luce del diritto vivente (tra le molte: Cass., 7 ottobre 1967, n. 2326; Cass., 7 luglio 1969, n. 2508; Cass., 20 aprile 1996, n. 3757; Cass., 11 giugno 1998, n. 5801; SS.UU, 16 novembre 1998, n. 11549; Cass., 24 novembre 2000, n. 15178; Cass., 24 marzo 2006, n. 6628; Cass., 6 settembre 2007, n. 18725; Cass., 28 agosto 2009, n. 18791; Cass., 11 maggio 2010, n. 11360; Cass., 25 ottobre 2017, n. 25317; Cass., 28 novembre 2017, n. 28318; Cass., 18 luglio 2018, n. 19113; Cass., 24 settembre 2018, n. 22465; Cass., 4 novembre 2021, n. 31636), si viene a determinare, in conseguenza della mancata opposizione al decreto ingiuntivo, non solo sulla pronuncia esplicita della decisione, ma anche sugli accertamenti che ne costituiscono i necessari e inscindibili antecedenti o presupposti logico-giuridici, non pone affatto in crisi gli equilibri di quel rapporto, stabile e fecondo, tra ordinamenti, i quali – soprattutto a partire dal Trattato di Maastricht e con l’avvento della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) e, quindi, del Trattato di Lisbona – mirano ad una integrazione sempre più profonda, i cui orizzonti si aprono ad un territorio più vasto di quello, tradizionale, in cui rivestiva centralità assorbente l’efficienza del mercato, per annettervi, non soltanto in via mediata, le esigenze di tutela della persona e, quindi, per costruire una “comunità di diritti”.
5.2.1. – Un siffatto contesto, sempre più maturo, ha alimentato una declinazione anche in termini personalistici della figura del consumatore, alla quale i Trattati assegnano un ruolo centrale “nella definizione e nell’attuazione di altre politiche o attività dell’Unione” (art. 12 TFUE), tale da garantirne un elevato livello di protezione che va oltre gli interessi strettamente economici (pur presenti e rilevanti), per estendersi alla salute e alla sicurezza (art. 169 TFUE), in un’ottica che la Carta di Nizza complessivamente ascrive al principio di solidarietà (art. 38 CDFUE), ossia a quel paradigma comune alle tradizioni costituzionali degli Stati membri che, come malta preziosa, fa da collante tra i diritti e i doveri del singolo nell’ambito di una collettività.
E’ una prospettiva alla cui concretezza cooperano anche gli obiettivi e l’economia generale della direttiva 93/13/CEE, la quale, in armonia con le previsioni dei Trattati e della CDFUE, “nel suo complesso, costituisce un provvedimento indispensabile per l’adempimento dei compiti affidati all’Unione e, in particolare, per l’innalzamento del livello e della qualità della vita all’interno di quest’ultima” (CGUE, sentenze: del 26.10.2006, in C-168/05, Mostaza Claro; del 4.6.2009, in C-243/08, Pannon GSM; del 6.10.2009, in C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones; del 14.6.2012, in C-618/10, Banco Español de Crèdito).
Trattasi, quindi, di obiettivi valoriali comuni ai Paesi dell’Unione e che, in ambito nazionale, possono rinvenirsi in quella correlazione – cui dà risalto, segnatamente, la giurisprudenza costituzionale in sintonia con le coordinate dell’ordinamento sovranazionale – tra protezione degli interessi dei consumatori e utilità sociale, nonchè sicurezza, libertà, dignità umana (alle quali la legge costituzionale n. 1 del 2022 ha aggiunto salute ed ambiente), che la Cost., comma 2 dell’art. 41 ha assunto a limiti generali della libertà di iniziativa economica garantita dal comma 1 della stessa norma della Carta fondamentale (tra le altre: Corte Cost., sentenze n. 270 del 2010 e n. 210 del 2015 e, in precedenza, la sentenza n. 241 del 1990; cfr. anche, per la giurisprudenza di legittimità, SS.UU, 12 dicembre 2014, n. 26242 e n. 26243).
5.2.2. – Pertanto, è proprio tramite gli artt. 6 e 7 della citata direttiva, alla stregua della lettura che ne ha dato la CGUE con la sentenza “SPV/Banco di Desio”, nel solco dei propri precedenti in materia (oltre a quelli citati al p. 5.1., cfr. CGUE: sentenza 14.3.2013, in C-415/11, Aziz; sentenza 13.9.2018, in C-176/17, Profi Credit Polska; sentenza 20.9.2018, in C-448/17, EOS KSI; inoltre, successivamente al 17 maggio 2022, v. anche: CGUE, sentenza 30.6.2022, in C-170/21, Profi Credit Bulgaria), che si impone, nel contesto del rapporto contrattuale instauratosi tra professionista e consumatore, il riequilibrio della posizione strutturalmente minorata di quest’ultimo sia sotto il profilo del potere negoziale, che per il livello di informazione, così da esserne vulnerata la scelta, consapevole e razionale, volta a soddisfare, attraverso quel contratto, le esigenze quotidiane della vita. Ciò che può ottenersi “solo grazie a un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto contrattuale” (così già CGUE, sentenza 27.6.2000, in cause riunite C-240/98 e C-244/98, Ocèano; successivamente, tra le altre, le citate sentenze Mostaza Claro e Asturcom Telecomunicaciones, nonchè CGUE: sentenza 9.11.2010, in C-137/08, VB Pènzügyi Lizing e sentenza 14.6.2012, C-618/10, Banco E Spa Piol de Crèdito), ossia, nella sede processuale, tramite il dovere del giudice investito dell’istanza di ingiunzione di esaminare d’ufficio il carattere abusivo della clausola contrattuale e di dare conto degli esiti di siffatto controllo.
Sicchè, l’inattività del giudice del procedimento monitorio, ove non rimediabile in una sede successiva (si veda anche la citata sentenza EOS KSI e, segnatamente, la sentenza in C-600/19, Ibercaja Banco, del 17.5.2022), impedirebbe definitivamente di colmare proprio nel processo quel dislivello sostanziale esistente tra i contraenti, facendo gravare la violazione dell’obbligo del rilievo officioso della abusività della clausola negoziale sul consumatore, sebbene questi sia rimasto privo di tutte le “informazioni” che gli sono dovute per porlo in condizione di determinare la portata dei suoi diritti (cfr. le citate sentenze Banco Espanol de Crèdito ed EOS KSI, nonchè CGUE, sentenza 18.2.2016, in C-49/14, Finanmadrid) al fine di poter esercitare, per la prima volta, la propria difesa in sede di opposizione al decreto ingiuntivo “con piena cognizione di causa” (così la citata sentenza Ibercaja Banco).
E, tuttavia, è proprio la carente attivazione del giudice del monitorio – mancato rilievo officioso e omessa motivazione, imposti da norma imperativa (art. 6, par. 1, della direttiva 93/13/CEE) – che comporta, secondo il diritto dell’Unione (nell’interpretazione vincolante della CGUE: cfr. anche sentenza Ibercaja Banco), che la decisione adottata, sebbene non fatta oggetto di opposizione, è comunque insuscettibile di dar luogo alla formazione, stabile e intangibile, di un giudicato, così da consentire anche nella contigua sede esecutiva, dove si procede per l’attuazione del diritto accertato, una riattivazione del contraddittorio impedito sulla questione pregiudiziale pretermessa (concernente, per l’appunto, l’assenza di vessatorietà delle clausole del contratto) e, quindi, di un meccanismo processuale (come si vedrà nel prosieguo) che possa rimettere in discussione anche l’accertamento sul bene della vita implicato dal decreto ingiuntivo, ossia il credito riconosciuto giudizialmente.
In altri termini – ove si legga una tale vicenda attraverso la lente di una tradizionale e icastica descrizione della scansione processuale del procedimento monitorio -, sarebbe monca la provocatio ad opponendum (ossia la “provocazione a contraddire”: SS.UU, 01 marzo 2006, n. 4510) che il decreto ingiuntivo innesca, richiedendo che il debitore si attivi entro un certo termine per evitare altrimenti la c.d. impositio silentii (il giudicato o la c.d. “preclusione da giudicato”: la citata Cass., SS.UU, n. 4510/2006) sul provvedimento d’ingiunzione emesso.
Dunque, nel nostro caso (ma analogamente in quello di cui alla coeva sentenza Ibercaja Banco), è proprio l’impedimento al contraddittorio, differito, sulla pregiudiziale dell’abusività delle clausole, conseguente all’omissione del giudice, che frustra il diritto di azione e difesa del consumatore, vulnerandone in modo insostenibile la tutela giurisdizionale effettiva, così da rendere vuota prescrizione anche quella, dettata dall’art. 7, par. 1, della direttiva 93/13/CEE (in ragione del 24 Considerando), che impone agli Stati membri di predisporre “mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e i consumatori”.
5.3. – Come già in precedenza nella materia in esame (le citate sentenze Finanmadrid e Ibercaja Banco; inoltre, CGUE, sentenza 26.1.2017, in C-421/14, Banco Primus), tale esito è frutto di un bilanciamento che la Corte di Lussemburgo ha effettuato, anche nel caso specifico, secondo una visione scevra da concettualizzazioni e orientata dal c.d. “canone di adeguatezza tra esigenze di tutela e forme di tutela disponibili”, saggiando il punto di rottura tra le esigenze di certezza dei rapporti giuridici, presidiate dal principio di immutabilità della decisione, e quelle di effettività della tutela del consumatore imposte dalla direttiva 93/13/CEE, assegnando, per le ragioni anzidette, prevalenza a quest’ultime.
Nè un siffatto bilanciamento è tale da elidere, alla luce della prospettiva che ha ispirato la giurisprudenza della CGUE, l’importanza dell’istituto processuale del giudicato nazionale, nella sua ambivalente declinazione sostanziale (art. 2909 c.c.) e processuale (art. 324 c.p.c.), che si rinviene anche nel diritto dell’Unione in consonanza con le tradizioni giuridiche degli Stati membri, dalle cui fondamenta, tuttavia, trova con vigore emersione la profondità di senso che permea la funzione servente del processo rispetto all’attuazione dei diritti, il suo essere mezzo e non fine.
La tutela effettiva rimediale configurata, nella specie, dalla CGUE a fronte della violazione di una disciplina dal carattere imperativo specificamente dettata dal diritto dell’Unione (direttiva 93/13/CEE), che quella tutela intende assicurare appieno, trova, infatti, radicamento in principi – del contraddittorio e del pieno dispiegamento del diritto di azione e di difesa in giudizio – che rappresentano, insieme all’imparzialità e terzietà del giudice, nonché alla motivazione dei provvedimenti giudiziari, i cardini del “giusto processo” di cui agli artt. 47 CDFUE e 6 CEDU e che, del pari, costituiscono il nucleo indefettibile delle garanzie fondamentali somministrate anche dalla Cost., artt. 24 e 111, quali “principi supremi dell’ordine costituzionale italiano” (Corte Cost., sentenza n. 238 del 2014) che attengono all’esercizio della giurisdizione.
Il “seguito” alla sentenza “SPV/Banco di Desio”
6. – Al fine di dare il necessario seguito ai dicta della CGUE, la comunità degli interpreti – dai giudici territoriali (con le loro prime pronunce in medias res) all’avvocatura (e con essa la difesa della ricorrente), dall’accademia (con i contributi, numerosi, al dibattito giuridico) alla procura generale (nella sua funzione istituzionale di compartecipe alla costruzione della nomofilachia), cui le Sezioni Unite di questa Corte hanno posto attento ascolto prima di adottare la presente pronuncia nomofilattica ex art. 363-bis c.p.c. – ha individuato una pluralità di soluzioni, pur rimarcando che nessuna di esse si presenta piana e che ciascuna sconta un margine differenziale rispetto all’assetto del nostro ordinamento processuale, nel suo proporsi come diritto vivente frutto della attuale compenetrazione tra formante legislativo e quello giurisprudenziale.
La via che questa Corte intende percorrere nel dettare i principi nell’interesse della legge è quella – già illustrata in precedenza (cfr. p. 5) – che si presta, anzitutto, ad operare, con convinzione, la necessaria saldatura tra ordinamenti, sovranazionale e interno, che è la cifra, anche culturale, attraverso la quale rendere concretamente operante il principio di effettività della tutela nella sua duplice declinazione, presente nelle pieghe della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, negativa (volta a superare gli ostacoli che, in ambito nazionale, si frappongono alla piena realizzazioni delle libertà e dei diritti riconosciuti dall’Unione) e pro-attiva (diretta ad individuare le misure e i rimedi idonei alla piena espansione della tutela di quelle libertà e di quei diritti). Una via, che, al tempo stesso, sia però tale da preservare, sin dove il principio preminente anzidetto lo renda possibile, i doverosi margini di autonomia procedurale, ambito nel quale è dato tradurre, nei termini cooperativi innanzi evidenziati (sempre al p. 5), il valore persistente dell’ordinamento processuale nazionale.
A) la fase monitoria (ovvero il c.d. “seguito pro futuro”)
7. – Secondo la giurisprudenza della CGUE (tra le altre: le citate sentenze Pannon, Banco Espanol de Credito, Aziz, Profi Credit Polska; inoltre, le sentenze: 9.11.2010, in C-137/08, VB Pènzügyi Lizing; 11.3.2020, in C-511/17, Lintner; 4.6.2020, in C-495/19, Kancelaria Medius; 30.6.2022, in C-170/21, Profi Credit Bulgaria), il giudice nazionale è tenuto ad esaminare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale, connessa all’oggetto della controversia, purchè gli elementi di diritto e di fatto già in suo possesso suscitino seri dubbi al riguardo, dovendo, quindi, adottare d’ufficio misure istruttorie necessarie per completare il fascicolo, chiedendo alle parti di fornirgli informazioni aggiuntive a tale scopo. Sono principi enunciati anche in riferimento al procedimento d’ingiunzione e, del resto, avuto riguardo proprio all’ingiunzione di pagamento Europea (IPE), disciplinata dal regolamento n. 1896-2006, la Corte di Lussemburgo ha affermato che il giudice investito della domanda del creditore può richiedere, anche d’ufficio, ed al fine di procedere all’esame del carattere eventualmente abusivo di alcune clausole, informazioni complementari ovvero la produzione di ulteriori documenti dalla parte interessata e che, pertanto, va considerata contraria al diritto dell’UE una normativa nazionale che qualifichi come irricevibili tali documenti aggiuntivi (sentenza 19.12.2019, in cause riunite C-453/18 e C-494/18, Bondora AS).
Sempre nel contesto del procedimento d’ingiunzione, nel quale, per l’appunto la partecipazione del debitore consumatore è consentita solo nella fase dell’opposizione al decreto monitorio, la CGUE ha affermato che il dover e del giudice di disapplicazione una clausola contrattuale abusiva può riguardare anche soltanto “una parte del credito fatto valere” e, in tale ipotesi, “il giudice dispone della facoltà di respingere parzialmente detta domanda, a condizione che il contratto possa sussistere senza nessun’altra modifica o revisione o integrazione, circostanza che spetta a detto giudice verificare” (così la citata sentenza Profi Credit Bulgaria).
7.1. – Gli approdi della giurisprudenza Eurounitaria – come anche messo in risalto dal pubblico ministero, nelle sue conclusioni scritte, e dalla stessa dottrina – non pongono soverchi problemi di compatibilità con l’assetto processuale interno, delineato dagli artt. 633-644 c.p.c., il quale rende certamente praticabile il doveroso controllo, da parte del giudice, sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore, così, in ragione degli esiti del rilievo d’ufficio (sussistenza o meno della vessatorietà incidente, in tutto o in parte, sull’oggetto della domanda monitoria), da addivenire al rigetto del ricorso (che non preclude la riproposizione della domanda: art. 640, ultimo comma, c.p.c.), ovvero al suo consentito accoglimento parziale (per tutte, Cass., S.U., n. 4510/2006, citata; in armonia, quindi, con la surrichiamata sentenza della CGUE Profi Credit Bulgaria).
7.1.1. – Non può, infatti, seguirsi la diversa tesi secondo la quale il c.d. “diritto all’interpello” del consumatore imporrebbe al giudice di emettere il decreto ingiuntivo, evidenziando la presenza di uno o più profili di abusività delle clausole contrattuale, per invitare, poi, il consumatore stesso a prendere posizione sul punto mediante la proposizione dell’opposizione.
Si tratta, anzitutto, di orientamento che non collima, in linea più generale, con l’indirizzo della CGUE (cfr. le citate sentenze Pannon e Lintner; inoltre, le sentenze: 21.2.2013, in C-472/11, Banif Plus; 21.12.2016, in cause riunite C-154/15, C- 307/15, C-308/15, Guterriez Naranjo; 3.10.2019, C-260/18, Dziubak) per cui, sebbene il giudice nazionale non sia tenuto, in forza della direttiva 93/13/CEE, a disapplicare le clausole contrattuali qualora il consumatore, dopo essere stato avvisato, non intenda invocarne la natura abusiva e non vincolante, tuttavia, una volta che abbia accertato d’ufficio il carattere abusivo di una clausola, può trarre tutte le conseguenze derivanti da tale accertamento, senza attendere che il consumatore, informato dei suoi diritti, presenti una dichiarazione diretta ad ottenere l’annullamento di detta clausola.
Ma ancor prima, nel costringere il consumatore a proporre l’opposizione per far valere i propri diritti, si pone in contrasto con lo stesso principio del rilievo d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali che anche nell’ambito del procedimento monitorio è funzionale all’effettività della tutela del consumatore sotto il profilo della non vincolatività delle clausole medesime, ai sensi dell’art. 6, par. 1, della anzidetta direttiva.
7.2. – Strumentali rispetto all’esercizio del controllo officioso cui è tenuto il giudice del monitorio sono i poteri istruttori consentiti dall’art. 640, comma 1, c.p.c. (poteri, del resto, già valorizzati, sebbene in un diverso ambito, dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 410 del 2005); ciò, dunque, al fine di risolvere i seri dubbi, sorti in base agli elementi già in suo possesso, sulla presenza di clausole vessatorie (ovviamente anche in punto di competenza territoriale in violazione del foro, inderogabile, del consumatore di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, comma 2, lett. u), che rendono “insufficientemente giustificata la domanda”, impedendone l’accoglimento in tutto o in parte. Il giudice dovrà, quindi, sollecitare il ricorrente a “provvedere alla prova” del credito anche sotto il profilo che la relativa spettanza, in parte o per l’intero, non sia esclusa dai profili di abusività negoziale rilevati, a tal fine richiedendo che sia prodotta pertinente documentazione (anzitutto, il contratto su cui si basa il credito azionato) e/o che siano forniti i chiarimenti necessari.
7.2.1. – Tuttavia, l’obbligo del rilievo officioso del giudice del monitorio in funzione dell’effettività della tutela del consumatore non si spinge sino a richiedere che l’esercizio dei poteri istruttori, in capo al medesimo giudice, sia tale da rendersi esorbitante rispetto alla struttura, funzione e finalità della fase inaudita altera parte come configurata dal legislatore nazionale, in cui condizione di ammissibilità della domanda d’ingiunzione è pur sempre la “prova scritta” (artt. 633, comma 1, n. 1, e 634 c.p.c.). Sicchè, ove l’accertamento sulla vessatorietà imponga, per la sua complessità, un’istruzione probatoria non coerente con detta configurazione (ad es., richiedendosi l’assunzione di testimonianze o l’espletamento di c.t.u.), il giudice dovrà rigettare l’istanza d’ingiunzione, che il ricorrente, se riterrà, potrà comunque riproporre (evidentemente sulla scorta di ulteriori e più congruenti elementi probanti), o, invece, affidarsi alla “via ordinaria” (art. 640, ultimo comma, c.p.c.). Così letto il sistema, l’istanza di tutela che il diritto dell’Unione impone di soddisfare non trova ostacoli nel modello processuale di diritto interno, il quale con detta istanza verrebbe, invece, a confliggere ove interpretato nel senso che il controllo sull’abusività delle clausole non possa compiersi nel procedimento d’ingiunzione, poichè esso implicherebbe necessariamente il contraddittorio delle parti, sia in ragione delle circostanze di fatto su cui si basa (art. 34, comma 1, del codice del consumo), sia in ragione della perdita di celerità propria del rito che tale valutazione richiederebbe, con la conseguenza che il decreto dovrebbe essere comunque emesso e quel controllo rinviato in sede di giudizio di opposizione.
7.3. – L’art. 641 c.p.c. richiede che il decreto ingiuntivo sia “motivato”.
Tale previsione è, in riferimento a credito vantato da professionista in forza di contratto stipulato con un consumatore, da leggersi in conformità al diritto dell’Unione e dunque – secondo l’interpretazione fornita dalla CGUE proprio nella sentenza “SPV/Banco di Desio” e in quella, coeva, Ibercaja Banco (dalla quale sentenza sono tratte le citazioni che seguono) – necessitando il provvedimento che accoglie la domanda di ingiunzione di una motivazione che, pur “sommariamente,… dia atto della sussistenza dell’esame” in base al quale il giudice “ha ritenuto che le clausole in discussione non avessero carattere abusivo”, in modo da consentire al debitore consumatore di “valutare con piena cognizione di causa” (così la citata sentenza Ibercaja Banco) se occorra proporre opposizione avverso il decreto ingiuntivo.
Si tratta, dunque, di un obbligo di motivazione funzionale a dare al consumatore l’informazione circa l’assolvimento, da parte del giudice adito in via monitoria, del controllo officioso sulla presenza di clausole vessatorie a fondamento del contratto fonte del credito azionato dal professionista e che siano rilevanti rispetto all’oggetto della domanda di ingiunzione.
In quanto strumentale rispetto all’esercizio del diritto di difesa del consumatore nella fase processuale a contraddittorio pieno, una tale motivazione esige che nel decreto sia individuata, con chiarezza, la clausola del contratto (o le clausole) che abbia(no) incidenza sull’accoglimento, integrale o parziale, della domanda del creditore e che se ne escluda, quindi, il carattere vessatorio. E’, dunque, la chiara individuazione dei profili di abusività rilevanti rispetto all’oggetto dell’ingiunzione che assume centralità nell’assolvimento di detto obbligo motivazionale, questo ben potendo esprimersi in un apparato argomentativo estremamente sintetico (ad una sommaria motivazione, come detto, fa riferimento la CGUE), semmai strutturato anche per relationem al ricorso monitorio ove questo si presti allo scopo.
7.4. – L’art. 641, comma 1, c.p.c., inoltre, rende necessario che il decreto ingiuntivo contenga l’avvertimento che, nel termine di quaranta giorni, può essere fatta opposizione al decreto ingiuntivo “e che, in mancanza di opposizione, si procederà ad esecuzione forzata”.
La disposizione, in parte qua, deve essere interpretata in senso conforme al diritto Eurounitario di cui alla direttiva 93/13/CEE e, dunque, quell’avvertimento dovrà, altresì, rendere edotto il consumatore che, in assenza di opposizione, “decadrà dalla possibilità di far valere l’eventuale carattere abusivo” delle clausole del contratto (così la citata sentenza Ibercaja Banco).
Si tratta di una specificazione armonica rispetto alla ratio della norma, della quale è estesa la virtualità di significato già in nuce, che è nel senso di mettere sull’avviso il debitore circa l’immutabilità della decisione che troverà soddisfazione come tale.
7.5. – Come anche rilevato dallo stesso pubblico ministero tramite un puntuale riferimento alla sentenza Ibercaja Banco, una volta che il decreto ingiuntivo presenti la motivazione e l’avvertimento anzidetti, la tutela del consumatore è da reputarsi rispettosa del canone dell’effettività e la maturazione del termine di cui all’art. 641 c.p.c., senza che sia stata proposta opposizione, non consentirà più successive contestazioni sulla questione di abusività delle clausole contrattuali.
B) il c.d. “seguito per il passato” (ovvero anche “per il futuro” ove il giudice del monitorio non osservi quanto indicato al punto A).
8. – La portata retroattiva delle sentenze interpretative della CGUE (rammentata al p. 4.1., che precede) impone di rinvenire anche per il “passato” – ossia a fronte di decreti ingiuntivi in precedenza emessi in difetto di quanto indicato sub A) e divenuti irrevocabili, nonché di conseguenti procedimenti esecutivi ancora in corso (rispetto ai quali, dunque, il bene staggito o il credito pignorato non sia stato, rispettivamente, trasferito o assegnato, giacché in tal caso il consumatore potrà soltanto attivare, in altro giudizio, il rimedio risarcitorio: così la sentenza Ibercaja Banco) – la soluzione che, nell’ambito dell’ordinamento processuale interno, assicuri al consumatore stesso tutela effettiva alla luce dei dicta della Corte di Lussemburgo. Soluzione che, del pari, s’impone nell’ipotesi in cui il decreto ingiuntivo venga ancora emesso senza rispettare le indicazioni di cui al precedente punto A) e, come tale, divenga irrevocabile.
Si tratta, all’evidenza, della scelta ermeneutica maggiormente problematica, rispetto alla quale le proposte che la comunità degli interpreti ha individuato sono davvero plurime e articolate: da quelle che fanno appello essenzialmente a rimedi tipici della cognizione piena, lasciando al giudice dell’esecuzione soltanto il potere di rilevazione dei profili di abusività delle clausole contrattuali al fine esclusivo di sanare il difetto di controllo determinatosi nella fase monitoria; a quelle che, invece, prediligono un ruolo attivo del giudice dell’esecuzione anche nell’accertamento della vessatorietà, sebbene con efficacia circoscritta al processo esecutivo in corso.
8.1. – La risposta che queste Sezioni Unite ritengono di dover privilegiare e, quindi, declinare in principio nomofilattico è quella che, a valle del rilievo sui profili di abusività della clausola contrattuale ad opera del giudice dell’esecuzione, fa applicazione della disciplina dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo dettata dall’art. 650 c.p.c., con gli adeguamenti che per essa si rendono necessari in ragione di una piena conformazione al diritto unionale di cui alla direttiva 93/13/CEE, secondo l’interpretazione della CGUE.
L’opzione interpretativa dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. si fa preferire perchè – in armonia con la prospettiva in precedenza evidenziata (p.p. 5 e 6) – è capace di coniugare, meglio di altre (come si darà ragione più avanti), l’esigenza preminente della tutela effettiva del consumatore con l’esigenza, pur garantita dall’ordinamento sovranazionale, di rendere operante nella maggiore espansione possibile il principio di autonomia procedurale.
8.2. – Queste le relative scansioni processuali.
8.2.1. – In assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole, il giudice dell’esecuzione (G.E.), sino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito, ha il potere/dovere di rilevare d’ufficio l’esistenza di una clausola abusiva che incida sulla sussistenza o sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo.
A tal fine, il G.E., nelle forme proprie del processo esecutivo – ossia secondo un modello strutturalmente deformalizzato (artt. 484487 c.p.c.) -, dovrà, nel contraddittorio delle parti, provvedere, ove detto rilievo non sia possibile solo in base agli elementi di diritto e di fatto già in atti, ad una sommaria istruttoria, rispetto alla quale si presenterà, sovente, la necessità di acquisire anzitutto il contratto fonte del credito ingiunto. In particolare, ove non sia adito prima dalle parti, il G.E. potrà dare atto, nel provvedimento di fissazione, rispettivamente, dell’udienza ex art. 530 c.p.c. (nel caso di vendita o assegnazione dei beni pignorati) o ex art. 543 c.p.c. (nel caso di espropriazione presso terzi), che il decreto ingiuntivo non è motivato e invitare il creditore procedente o intervenuto a produrre, in un certo termine prima dell’udienza, il contratto fonte del credito azionato in via monitoria, così da instaurare, nell’udienza stessa, il contraddittorio delle parti sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto.
All’esito, il G.E., se rileva il possibile carattere abusivo di una clausola contrattuale, ma anche se ritenga che ciò non sussista, ne informa le parti e avvisa il debitore consumatore (ciò che varrà come interpello sull’intenzione di avvalersi o meno della nullità di protezione) che entro 40 giorni da tale informazione – che nel caso di esecutato non comparso è da rendersi con comunicazione di cancelleria – può proporre opposizione a decreto ingiuntivo e così far valere (soltanto ed esclusivamente) il carattere abusivo delle clausole contrattuali incidenti sul riconoscimento del credito oggetto di ingiunzione. Prima della maturazione del predetto termine, il G.E. si asterrà dal procedere alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito.
8.2.1.1. – Va, peraltro, evidenziato che potrebbero porsi casi in cui il debitore consumatore abbia già proposto un’opposizione all’esecuzione ex art. 615, comma 1, c.p.c. – dunque, prima dell’inizio dell’esecuzione, a seguito della notificazione del precetto – intendendo elidere il titolo esecutivo costituito dal decreto ingiuntivo divenuto irrevocabile proprio a motivo dell’abusività delle clausole contrattuali incidenti sul riconoscimento del credito del professionista.
In tale evenienza (possibile soprattutto dopo la pubblicazione delle sentenze della CGUE del 17 maggio 2022), il giudice adito riqualificherà l’opposizione come opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa, fissando un termine non inferiore a 40 giorni per la riassunzione (in applicazione dell’art. 50 c.p.c., in forza di interpretazione adeguatrice).
8.2.1.2. – Se, poi, sia, allo stato, già in corso un’opposizione esecutiva ed emerga un problema di abusività delle clausole del contratto concluso tra consumatore e professionista, il giudice dell’opposizione rileverà d’ufficio la questione e interpellerà il consumatore se intende avvalersi della nullità di protezione. Ove il consumatore voglia avvalersene, il giudice darà al consumatore termine di 40 giorni per proporre l’opposizione tardiva e x art. 650 c.p.c. e, nel frattempo, il G.E. si asterrà dal disporre la vendita o l’assegnazione del bene o del credito.
8.2.2. – Il giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, una volta investito, avrà il potere, ex art. 649 c.p.c. (quale disposizione richiamata dal comma 2 dell’art. 650 c.p.c.), di sospendere l’esecutorietà del decreto ingiuntivo in modo totale o parziale, a seconda degli effetti che potrebbe comportare l’accertamento sulla abusività clausola che viene in rilievo.
Sicchè, in via meramente esemplificativa, se si tratta di clausola derogatoria del foro del consumatore la sospensione sarà totale; se, invece, si discute unicamente di una clausola determinativa di interessi moratori eccessivi, la sospensione ben può essere parziale, mantenendo intatta l’esecutorietà del titolo per la sorte capitale, rispetto alla quale proseguirà l’esecuzione forzata già intrapresa dal creditore professionista.
Il giudizio di opposizione procederà, quindi, secondo il rito.
8.3. – Come si evince chiaramente dalle illustrate scansioni processuali, la soluzione dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, per poter operare nei termini anzidetti, presuppone taluni adeguamenti del diritto processuale interno, che si rendono possibili attraverso gli strumenti, in precedenza richiamati (cfr. p. 5), dell’interpretazione conforme e della disapplicazione.
8.3.1. – In primo luogo, attraverso un’interpretazione conforme del comma 1 dell’art. 650 c.p.c., è dato ritenere che l’assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in punto di valutazione della vessatorietà delle clausole e (specialmente) il mancato avvertimento circa la possibilità di far valere detta abusività solo entro un certo termine configurino un’ipotesi riconducibile alla previsione normativa del “caso fortuito o forza maggiore”, la quale dà facoltà al debitore consumatore, sebbene destinatario della notificazione del decreto ingiuntivo, di fare opposizione tardiva pur avendo avuto conoscenza del decreto ingiuntivo della cui rituale notificazione è stato destinatario (e ciò secondo l’addizione alla disposizione originaria resa dalla sentenza n. 120 del 1976 della Corte costituzionale). Operazione ermeneutica che non è inibita dall’enunciato legislativo ed è sorretta dalle ragioni, già evidenziate, di effettività della tutela del consumatore per la sua strutturale posizione di debolezza dovuta – non solo, ma in modo significativo – per un deficit informativo superabile solo grazie ad un intervento esterno: quello del rilievo officioso del giudice.
In tale specifica prospettiva, quindi, le indicate carenze formali del decreto monitorio vengono a configurare per il consumatore, privo della necessaria informazione per esercitare con piena consapevolezza i propri diritti, una causa non imputabile impeditiva della proposizione tempestiva dell’opposizione sul profilo della abusività delle clausole contrattuali e, dunque, il requisito richiesto dall’art. 650 c.p.c. per accedere all’opposizione tardiva.
E’ una lettura che, nel conformare al diritto dell’Unione la disposizione di legge nazionale che contempla le anzidette clausole generali, non decampa, tuttavia, dalla portata prescrittiva ascrivibile plausibilmente allo stesso comma 1 dell’art. 650 c.p.c., poichè il “caso fortuito” o la “forza maggiore” ivi previsti sono stati assunti dalla citata sentenza n. 120 del 1976 proprio nel significato di “causa… non imputabile” o di “circostanze non dipendenti dalla… volontà” impeditive dell’esercizio del diritto di azione e difesa in giudizio (e nell’interpretazione, non confliggente, di questa Corte come “forza esterna ostativa” e “fatto di carattere oggettivo avulso dall’umana volontà”: tra le altre, Cass., 20 novembre 1996, n. 10170 e Cass., 4 luglio 2019, n. 17922), in contrapposizione ad una condotta (quella, per l’appunto, di far “decorrere inutilmente il termine per proporre opposizione”) posta in essere “volontariamente o colposamente”.
8.3.2. – L’ulteriore adeguamento del diritto processuale interno riguarda il termine entro il quale proporre l’opposizione tardiva, poichè l’ultimo comma dell’art. 650 c.p.c., nello stabilire che l’”opposizione non è più ammessa decorsi dieci giorni dal primo atto di esecuzione”, reca una disposizione che, diversamente da quella del comma 1 della stessa norma, non consente – secondo i criteri ermeneutici utilizzabili anche per dare ingresso ad una lettura conforme al diritto sovranazionale – un’interpretazione che si possa discostare dal tenore dell’enunciato che definisce strettamente il perimetro nel quale è possibile proporre l’opposizione, tale da pregiudicarne la facoltà di esercizio in ogni diversa ipotesi.
A tal fine è, pertanto, necessario procedere alla disapplicazione dell’ultimo comma dell’art. 650 c.p.c. e rinvenire il termine di 40 giorni dall’art. 641 c.p.c., ossia un termine che è pur sempre tratto dall’interno della disciplina dettata per l’opposizione a decreto ingiuntivo e della cui rispondenza al criterio di effettività non è dato dubitare.
B.1) le ragioni della scelta dettata per il c.d. “seguito per il passato” (ovvero anche “per il futuro” come indicato sub B).
9. – Le ragioni che hanno concorso a determinare il Collegio per la soluzione prescelta, e a preferirla ad altre pur autorevolmente proposte, sono plurime e possono essere sintetizzate nei termini seguenti.
9.1. – Anzitutto, esse riguardano il profilo – come detto, preminente – della tutela effettiva del consumatore.
– L’opposizione ex art. 650 c.p.c. è rimedio idoneo a garantirla anzitutto perchè è esperibile non solo dopo , ma anche anteriormente all’inizio dell’esecuzione e, segnatamente, pure in momento antecedente alla stessa notificazione del precetto, così da evitare al consumatore di trovarsi nell’eventualità – non remota – di subire l’esecuzione e, quindi, il vincolo del pignoramento sui propri beni, ancor prima di poter dare ingresso ad un controllo sulla vessatorietà delle clausole del contratto fonte del credito ingiunto.
– Inoltre, assume una valenza pregnante il potere del giudice dell’opposizione tardiva di sospendere l’esecutorietà del titolo giudiziale (art. 649 e 650, comma 2, c.p.c.), che concreta l’ipotesi di sospensione di cui all’art. 623 c.p.c. (tra le altre, Cass., 16 gennaio 2006, n. 709 e Cass., 22 dicembre 2022, n. 37558; sospensione che ha effetti favorevoli anche rispetto alla comunque pregiudizievole iscrizione di ipoteca ex art. 655 c.p.c.), così da evitare al debitore consumatore di dover ottenere la sospensione di ciascuna procedura esecutiva nella quale il creditore professionista (in forza di una facoltà che può ben esercitare: tra le altre, Cass., 18 settembre 2008, n. 23847) lo coinvolga sulla base del medesimo titolo esecutivo costituito dal decreto ingiuntivo non opposto.
In tal modo, per il consumatore esecutato verrebbe meno anche il rischio che il bene sia venduto o il credito assegnato da uno (o più) dei GG.EE. aditi che rigettino l’istanza di sospensione della procedura, con la conseguenza che al consumatore stesso rimarrebbe, semmai, la possibilità di attivare rimedi non altrettanto effettivi, come quello risarcitorio.
– Ed ancora, l’opposizione ex art. 650 c.p.c. è attivabile entro uno spatium deliberandi di 40 giorni e, dunque, entro un termine certo, ciò che, invece, non sarebbe possibile per l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., alla quale, in mancanza di un termine per la sua proposizione, si potrebbe fare ricorso durante tutto lo svolgimento della fase di liquidazione giudiziale e fino alla apertura della fase distributiva. Ed analogo rilievo, ossia l’assenza di un termine per la proposizione, vale a maggior ragione per il rimedio dell’actio nullitatis.
– L’opposizione tardiva consente al debitore consumatore di recuperare la tutela, piena ed effettiva, di cui non ha potuto usufruire e permette al giudice di svolgere, in una sede di cognizione piena e nel pieno rispetto del principio del contraddittorio, quella delibazione integrale non effettuata in precedenza, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo, totale o parziale, sia quando la nullità riguardi una clausola che inficia solo il quantum debeatur, sia quando essa incida integralmente sull’an debeatur, sempre che a tale declaratoria il consumatore non si opponga, giacchè trattasi comunque di nullità relativa e “a vantaggio” (cfr. SS.UU, 4 novembre 2019, n. 28314; analogamente, SS.UU, n. 26242 e n. 26243 del 2014, citate).
– E’ proprio quel principio del pieno contraddittorio, quale nucleo essenziale della tutela giurisdizionale, che non potrebbe trovare adeguata garanzia dinanzi ad un G.E. al quale venga affidato anche l’accertamento e la declaratoria di abusività delle clausole contrattuali, poichè, come detto, il rito è essenzialmente deformalizzato e i poteri cognitivi ad esso attribuiti, sebbene arricchiti dalle più recenti riforme legislative rispetto all’assetto originario, sono pur sempre funzionali allo svolgimento della procedura esecutiva.
– Del resto, in questa stessa prospettiva, il rilievo officioso del G.E. avrebbe un valore soltanto endoprocedimentale e anche l’eventuale ordinanza di chiusura della procedura in caso di accertata abusività della clausola non potrebbe essere idonea alla formazione di un giudicato, per cui il consumatore sarebbe ancora esposto al rischio di nuove procedure esecutive (anche sullo stesso bene), senza poter far valere la precedente decisione a lui favorevole.
– Peraltro, anche in caso di sentenza emessa all’esito di opposizione ex art. 617 c.p.c., essendo un tale provvedimento ricorribile soltanto per cassazione, il debitore consumatore non avrebbe a disposizione un grado di giudizio per far valere le proprie ragioni e, pertanto, sebbene il rimedio del “doppio grado” non sia necessario presidio di effettività della tutela anche alla luce dell’art. 47 CDFUE (tra le altre, CGUE, sentenza 26.9.2018, in C-180/17) e neppure oggetto, di per sè, di copertura costituzionale (tra le molte, Corte Cost., ord. n. 190 del 2013), si verrebbe, comunque, a determinare un vulnus del criterio, Eurounitario, di equivalenza, poichè l’ordinamento interno disciplina rimedi – e ciò anche in riferimento all’opposizione ex art. 650 c.p.c. – che di quel doppio grado di giudizio fanno beneficiare.
– E’ pur vero, invece, che nel caso in cui il rilievo officioso riguardi la clausola abusiva di deroga del foro del consumatore, l’opposizione tardiva imporrebbe a quest’ultimo di difendersi in giudizio in una sede diversa da quella del suo domicilio.
Tuttavia, l’opposizione ex art. 650 c.p.c. è rimedio che, per le già evidenziate caratteristiche, è tale da prevalere, tra varie opzioni possibili, in un bilanciamento il quale ha come obiettivo il più ampio livello di tutela effettiva del consumatore, là dove, del resto, neppure le prospettate soluzioni endoesecutive potrebbero, sempre e comunque, ovviare all’anzidetta situazione, che avrebbe modo di proporsi in forza di quanto dettato, in materia di competenza territoriale, dagli artt. 26 e 27 c.p.c. per l’espropriazione forzata di bene immobile e per l’espropriazione presso terzi, allorquando, rispettivamente, il bene e il terzo pignorato non si trovino nel domicilio del debitore.
– Nondimeno, sul piano della garanzia fondamentale della ragionevole durata del processo, anch’essa principio funzionale (e, dunque, mezzo) rispetto al fine dell’effettività della tutela giurisdizionale, occorre che i meccanismi procedurali delineati dal legislatore nazionale siano coerenti in vista dello scopo.
L’obbligatorietà del processo telematico, di recente ribadita a regime dalla riforma recata dal D.Lgs. n. 149 del 2022, cospira in tale direzione e rende sicuramente più agevole e celere la difesa in giudizio anche del consumatore quanto alla prima fase di opposizione, del deposito del ricorso e al rilievo circa il foro del consumatore, che ben può essere supportato, almeno per l’istanza di sospensione, da idonea documentazione (certificato anagrafico/residenza).
– Nè può dirsi che l’opposizione ex art. 650 c.p.c. sia rimedio non aderente ai principi espressi dalla giurisprudenza della CGUE (anche con le sentenze del 17 maggio 2022), adducendo che esso, pur garantendo il necessario controllo officioso sul carattere abusivo delle clausole contrattuali ad opera del giudice dell’esecuzione, demanda, però, ad una sede giudiziale distinta la declaratoria di nullità di esse.
La Corte di Lussemburgo, infatti, non impone di tenere insieme, nella stessa sede processuale esecutiva, il rilievo d’ufficio e la dichiarazione di abusività delle clausole contrattuali, con i relativi effetti sull’azione monitoria intrapresa dal professionista.
Come in precedenza evidenziato, nella materia disciplinata dalla direttiva 93/13/CEE rimane intatto il principio di autonomia procedurale se gli istituti di diritto nazionale assicurino l’effettività della tutela del consumatore.
Con la sentenza “SPV/Banco di Desio”, nonostante che il quesito interpretativo avesse di mira (cfr. p. 24 della sentenza, dove si auspica che il G.E. posa “superare gli effetti del giudicato implicito”) anche una soluzione di una concentrazione dei poteri (di rilevazione e dichiarazione) nel G.E., la CGUE si è arrestata al potere di rilievo – di “valutazione”, di “controllo” -, senza affermare che lo stesso G.E. debba, altresì, accertare e dichiarare l’abusività (o meno) della clausola.
Nella sentenza Impuls Leasing Romania (del 17 maggio 2022, in C-725/19: cfr. p.p. 51-58) – come anche messo in rilievo nelle conclusioni scritte del pubblico ministero – la contrarietà della normativa processuale nazionale alla direttiva 93/13/CEE è stata valutata in ragione del fatto che, in assenza del rilievo officioso dell’abusività della clausola contrattuale ad opera del G.E., la declaratoria di nullità della stessa rimessa successivamente ad altro giudice di merito non consente di garantire al consumatore tutela effettiva (tale non essendo quella soltanto risarcitoria a posteriori) in quanto quest’ultimo giudice ha il potere di sospendere il procedimento di esecuzione, ma soltanto “su cauzione calcolata sulla base del valore dell’oggetto del ricorso”.
Un elemento, quest’ultimo, che, dunque, è risultato decisivo per la delibazione sulla mancanza di una tutela effettiva, poichè tale da scoraggiare il consumatore stesso dall’adire quel giudice di merito; elemento che, però, nel nostro caso, non sussiste, giacchè la sospensione ex art. 649 c.p.c. non è condizionata da alcuna cauzione.
9.2. – Viene, poi, in rilievo – nei termini in precedenza delineati (p.p. 5, 6 e 8.1.) – il piano che intercetta il principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri.
– Sotto questo profilo, l’opposizione tardiva si lascia preferire perché è rimedio che l’ordinamento stesso appresta contro il giudicato (cfr. SS.UU, 16 novembre 1998, n. 11549; Cass., 6 ottobre 2005, n. 19429; Cass., 24 marzo 2021, n. 8299) e, quindi, consente, anzitutto, di mantenere ferma la configurazione del decreto ingiuntivo non opposto quale provvedimento idoneo a passare in giudicato formale e a produrre effetti di giudicato sostanziale.
– Inoltre, in quanto rimedio di sistema contro il giudicato, tale soluzione permette, anche nel limitato campo del decreto ingiuntivo non opposto in materia consumeristica, di fare salvo il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
– Al tempo stesso, l’opposizione ex art. 650 c.p.c. si presenta come risposta coerente rispetto ai dicta della CGUE, giacchè è idonea a rimettere in discussione il risultato di condanna conseguito dal creditore con il decreto ingiuntivo non opposto proprio in ragione del carattere abusivo della clausola del contratto fonte del diritto azionato in via monitoria, così da poter determinare la caducazione di quel decreto ovvero la riduzione del suo importo quale conseguenza della dichiarazione della natura abusiva di una o più clausole, con sentenza – come detto – suscettibile di passare in giudicato formale e con attitudine al giudicato sostanziale.
– Ed ancora, tale soluzione consente di non derogare alla regola (tra le tante, Cass., 18 febbraio 2015, n. 3277 e Cass., 14 febbraio 2020, n. 3716) secondo cui in sede di opposizione all’esecuzione, ove alla base dell’opposizione sia posto un titolo esecutivo giudiziale, non possono farsi valere fatti impeditivi anteriori alla formazione del titolo, così da non mettere in discussione la natura di titolo esecutivo giudiziale del decreto ingiuntivo non opposto.
– Nondimeno, l’individuazione di una tipica sede di cognizione permette di circoscrivere nei limiti consentiti dal diritto dell’Unione la deroga alla distinzione, propria della tradizione del nostro ordinamento processuale, tra il piano della cognizione e quello dell’esecuzione (tra le molte, Cass., 24 febbraio 2011, n. 4505), di cui – come già evidenziato (p. 9.1.) – rimane tuttora espressione il fatto che i poteri cognitivi riconosciuti dal codice di rito al giudice dell’esecuzione siano, comunque, funzionali all’espletamento dell’esecuzione stessa.
– Non essendo la soluzione della revocazione ex art. 395 c.p.c. (disposizione richiamata dall’art. 656 c.p.c. in materia di decreto d’ingiunzione) praticabile in via interpretativa, per essere riservato al legislatore il potere di ampliare il catalogo delle ipotesi (numeri da 1 a 5) ad ulteriori casi che ne consentano l’attivazione (Corte Cost., n. 123 del 2017; Cass., 27 ottobre 2015, n. 21912; cfr. la recente introduzione del D.Lgs. n. 149 del 2022, art. 391-quater c.p.c., ad opera, dell’ipotesi di revocazione per contrarietà alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo), l’opposizione tardiva si fa preferire anche alla soluzione, pur pertinente alla sede della cognizione piena, dell’”actio nullitatis”. Opzione, questa, auspicata dallo stesso pubblico ministero nelle sue conclusioni scritte, dove le complessive argomentazioni spese si sono fatte carico, comunque, e pur a prescindere dalla soluzione privilegiata, di salvaguardare la duplice esigenza, coltivata dal Collegio, di preservare, al contempo, l’effettività della tutela del consumatore e, fin dove possibile, il principio di autonomia procedurale. L’actio nullitatis non solo – come detto (p. 9.1.) – è priva di un termine per la sua proposizione e, altresì, impone, per ottenere il necessario risultato della sospensione dell’esecutorietà del titolo giudiziale, di attivare il percorso, non così agevole e diretto (soprattutto ad esecuzione non iniziata), dello strumento cautelare disciplinato dall’art. 700 c.p.c., il quale, comunque, contempla anche la possibilità di disporre una cauzione, che la CGUE intende come fattore idoneo ad ostacolare il pieno dispiegamento della tutela del consumatore.
Ma ancor più rileva il fatto che si tratta di uno strumento di creazione pretoria – peraltro legato a presupposti (la cd. inesistenza giuridica o la nullità radicale di un provvedimento decisorio dal contenuto abnorme: tra le altre, più di recente, Cass., 15 aprile 2021, n. 9910 e Cass., 7 febbraio 2022, n. 3810) non riscontrabili nella fattispecie – il quale, nel collocarsi al di fuori del sistema della disciplina processuale dettata dall’ordinamento interno, si atteggia, come tale, a risposta che tradisce, nelle pieghe, il suo ergersi ad “extrema ratio” e, dunque, di non essere in grado, sino in fondo, di mettersi in sintonia con quel contesto, richiamato più volte in precedenza, di complementarietà funzionale tra ordinamenti, nel quale deve svolgersi l’opera, cruciale, affidata al giudice nazionale/giudice comune Europeo.
I principi di diritto da enunciarsi ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c..
10. – Alla luce delle considerazioni che precedono vanno enunciati, nell’interesse della legge, i principi dettagliatamente riportati nel dispositivo della presente sentenza.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, dichiara l’estinzione del giudizio di legittimità per intervenuta rinuncia e, nell’interesse della legge, enuncia i seguenti principi di diritto:
Fase monitoria
Il giudice del monitorio:
a) deve svolgere, d’ufficio, il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore in relazione all’oggetto della controversia;
b) a tal fine procede in base agli elementi di fatto e di diritto in suo possesso, integrabili, ai sensi dell’art. 640 c.p.c., con il potere istruttorio d’ufficio, da esercitarsi in armonia con la struttura e funzione del procedimento d’ingiunzione:
b.1.) potrà, quindi, chiedere al ricorrente di produrre il contratto e di fornire gli eventuali chiarimenti necessari anche in ordine alla qualifica di consumatore del debitore;
b.2) ove l’accertamento si presenti complesso, non potendo egli far ricorso ad un’istruttoria eccedente la funzione e la finalità del procedimento (ad es. disporre c.t.u.), dovrà rigettare l’istanza d’ingiunzione;
c) all’esito del controllo:
comma 1) se rileva l’abusività della clausola, ne trarrà le conseguenze in ordine al rigetto o all’accoglimento parziale del ricorso;
comma 2) se, invece, il controllo sull’abusività delle clausole incidenti sul credito azionato in via monitoria desse esito negativo, pronuncerà decreto motivato, ai sensi dell’art. 641 c.p.c., anche in relazione alla anzidetta effettuata delibazione; comma 3) il decreto ingiuntivo conterrà l’avvertimento indicato dall’art. 641 c.p.c., nonchè l’espresso avvertimento che in mancanza di opposizione il debitore-consumatore non potrà più far valere l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto e il decreto non opposto diventerà irrevocabile.
Fase esecutiva
Il giudice dell’esecuzione:
a) in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole, ha il dovere – da esercitarsi sino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito – di controllare la presenza di eventuali clausole abusive che abbiano effetti sull’esistenza e/o sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo;
b) ove tale controllo non sia possibile in base agli elementi di diritto e fatto già in atti, dovrà provvedere, nelle forme proprie del processo esecutivo, ad una sommaria istruttoria funzionale a tal fine;
c) dell’esito di tale controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole – sia positivo, che negativo – informerà le parti e avviserà il debitore esecutato che entro 40 giorni può proporre opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 650 c.p.c. per fare accertare (solo ed esclusivamente) l’eventuale abusività delle clausole, con effetti sull’emesso decreto ingiuntivo;
d) fino alle determinazioni del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 649 c.p.c., non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito;
e) se il debitore ha proposto opposizione all’esecuzione ex art. 615, comma 1, c.p.c., al fine di far valere l’abusività delle clausole del contratto fonte del credito ingiunto, il giudice adito la riqualificherà in termini di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa (translatio iudicii);
f) se il debitore ha proposto un’opposizione esecutiva per far valere l’abusività di una clausola, il giudice darà termine di 40 giorni per proporre l’opposizione tardiva – se del caso rilevando l’abusività di altra clausola – e non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito sino alle determinazioni del giudice dell’opposizione tardiva sull’istanza ex art. 649 c.p.c. del debitore consumatore.
Fase di cognizione
Il giudice dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c.:
a) una volta investito dell’opposizione (solo ed esclusivamente sul profilo di abusività delle clausole contrattuali), avrà il potere di sospendere, ex art. 649 c.p.c., l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, in tutto o in parte, a seconda degli effetti che l’accertamento sull’abusività delle clausole potrebbe comportare sul titolo giudiziale;
b) procederà, quindi, secondo le forme di rito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, il 7 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2023
Allegati:
SS.UU, 06 aprile 2023, n. 9479, in tema di tutela dei consumatori
In tema di tutela della salute – SS.UU, 14 aprile 2023, n. 10063
SS.UU, 14 aprile 2023, n. 10063, in tema di tutela della salute
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ORDINANZA
sul conflitto negativo di giurisdizione, iscritto al n. 22628-2022 R.G., sollevato dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria sezione staccata di Reggio Calabria, con ordinanza n. 618 in data 23 settembre 2022,
nel procedimento vertente tra
A.A. e B.B.;
– ricorrenti non costituitisi in questa sede –
e COMUNE DI (Omissis);
– resistente non costituito in questa sede –
Udita la relazione della causa nella camera di consiglio del 21 marzo 2023 dal Consigliere G.F.T.;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale A.C., che ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo.
Svolgimento del processo
1. Con atto di citazione notificato il 31 gennaio 2018, A.A. e B.B. convenivano in giudizio il Comune di (Omissis) dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria esponendo in fatto che:
– l’area urbana di ubicazione dell’immobile di loro abitazione era stata oggetto di procedura di esproprio per riqualificazione e sistemazione della zona;
– la procedura non si era conclusa e da ciò era derivato, per l’indifferenza del Comune e l’omissione dei doverosi controlli sul territorio ad esso incombenti, il degrado dell’area, trasformata in discarica abusiva per lo smaltimento illecito di rifiuti e con edifici fatiscenti e abbandonati;
– nonostante reiterate segnalazioni e richieste di intervento, il Comune, in violazione dei doveri di vigilanza e controllo sulla salubrità dell’area, era rimasto inerte, omettendo di adottare qualsiasi azione diretta alla rimozione dei rifiuti, alla sistemazione degli immobili precari (che presentavano soffitti crollati) e alla riparazione delle strade, con un aggravamento della situazione fino allo sviluppo, a causa dei rifiuti abbandonati, di un incendio, che aveva provocato danni all’immobile e alla salute degli attori, essendo stato il sig. A.A. ricoverato in via d’urgenza presso il locale ospedale per intossicazione da inalazioni di fumo.
2. Chiedevano, pertanto, la condanna del Comune al risarcimento dei danni alla salute, alla persona e alla proprietà, la cui responsabilità derivava dall’inosservanza dei doveri ed obblighi di intervento ex D.Lgs. n. 18 agosto 2000, n. 267, art. 50.
3. Nel giudizio si costituiva il Comune di (Omissis), che eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di controversia concernente danni derivati dalla cattiva e carente gestione del servizio di raccolta dei rifiuti urbani, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
4. Il Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza n. 321-2020, declinava la propria giurisdizione, appartenendo la causa a quella esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. p), cod. proc. amm., in materia di organizzazione del servizio pubblico di raccolta e smaltimento dei rifiuti, anche le controversie “aventi ad oggetto il risarcimento dei danni conseguenti all’omessa adozione dei provvedimenti necessari a prevenire o impedire l’abbandono di rifiuti sulle strade ovvero a rimuoverne gli effetti”, senza che assumesse rilievo, a tal fine, che la domanda risarcitoria avesse ad oggetto danni alla salute e alla proprietà.
5. Riassunta tempestivamente la causa ad opera di A.A. e B.B. con riproposizione delle medesime domande innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, questo, con ordinanza n. 238 del 23 settembre 2022, dubitando a sua volta della propria giurisdizione, ha sollevato conflitto negativo di giurisdizione ai sensi della L. 18 giugno 2009, n. 69, artt. 59, comma 3, e 11, comma 3, cod. proc. amm..
6. Ad avviso del TAR remittente, la prospettazione attorea non avrebbe ad oggetto provvedimenti adottati dal Comune di (Omissis), nè scelte di tipo autoritativo o discrezionale della pubblica amministrazione, ma riguarderebbe comportamenti materiali posti in essere in violazione dei canoni di diligenza del principio del neminem ledere, slegati dall’esercizio di un pubblico potere, mentre l’attinenza al servizio pubblico relativo al ciclo di gestione dei rifiuti non varrebbe a fondare la giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lett. p) cod. proc. amm., per mancanza del collegamento, anche solo in via mediata, con un provvedimento adottato dall’amministrazione e con l’esercizio di un pubblico potere.
La controversia apparterebbe quindi alla cognizione del giudice ordinario, non vantando i ricorrenti alcun interesse legittimo ma esclusivamente diritti soggettivi, che si assumono violati da un asserito comportamento materiale omissivo dell’ente locale e non da scelte discrezionali dello stesso.
7. Nessuna delle parti si è costituita nel presente giudizio per conflitto negativo.
8. Il Procuratore generale ha presentato conclusioni scritte, chiedendo dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo posto che la domanda si fonda su comportamenti omissivi dell’ente locale nella gestione di una zona abbandonata, in ispecie nello sgombero dei rifiuti abbandonati nelle aree private, e già sottoposta a procedura di espropriazione per pubblica utilità.
Motivi della decisione
1. Il sollevato conflitto negativo pone la questione se spetti al giudice ordinario o al giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto l’accertamento dell’illiceità della gestione della zona urbana e del servizio di raccolta dei rifiuti nell’area in cui insiste l’immobile di proprietà dei ricorrenti, già oggetto di una procedura di esproprio avviata dal Comune di (Omissis) per la riqualificazione, il cui mancato positivo esito aveva determinato una situazione di degrado diffuso, con abbandono e accumulo di rifiuti, culminata in un incendio a causa dei rifiuti stessi, con risarcimento dei conseguenti danni alla salute, all’integrità fisica e al patrimonio dei soggetti.
2. Occorre premettere che la giurisdizione va determinata sulla base della domanda e che, ai fini del relativo riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione compiuta dalla parte bensì il petitum sostanziale, il quale deve essere identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, quanto in funzione della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati (v. Sez. U., n. 23908 del 28/10/2020; Sez. U, n. 416 del 14/01/2020).
3. Nella vicenda in giudizio, invero, l’indagine in ordine al petitum sostanziale deve essere compiuta considerando che nella specie viene in rilievo il diritto alla salute nei rapporti con l’amministrazione pubblica.
4. Come recentemente affermato da queste Sezioni Unite (Sez. U, n. 23436 del 27 luglio 2022, poi ripresa da Sez. U, n. 5668 del 23 febbraio 2023) “la tutela della salute, sotto la specie della tutela dell’integrità psico-fisica e della salubrità dell’ambiente, è un interesse obiettivo dell’ordinamento. La Costituzione (art. 32) assicura ad essa una garanzia diretta: tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Nella Costituzione il diritto alla salute è tutelato innanzitutto come diritto alla propria integrità psico-fisica. Si tratta di una situazione soggettiva che si declina e si compendia nella pretesa, anche a prescindere da qualunque intermediazione legislativa o amministrativa, a che i terzi non pongano in essere atti che possano pregiudicarla. La protezione costituzionale del diritto all’ambiente salubre – ora riconosciuta esplicitamente, a seguito della legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. l, recante “Modifiche alla Costituzione, artt. 9 e 41 in materia di tutela dell’ambiente” – si ricollega direttamente ed immediatamente alla protezione costituzionale del diritto alla salute come diritto alla propria integrità psico-fisica, della quale rappresenta il prolungamento e la naturale evoluzione, giacchè la salute di un organismo è legata al contesto in cui esso vive. Tra salute e ambiente c’è non solo interazione semantica, ma anche convergenza valoriale: la salute può subire danni dalla degradazione dell’ambiente e al contempo la conservazione dell’ambiente contribuisce alla tutela e alla promozione della salute. L’insieme dei soggetti governanti – la Repubblica, come proclama l’incipit della Cost., art. 32 – è senz’altro tenuto ad attivarsi per far sì che quel bene, la cui tutela è di importanza primaria, non corra, nel suo nucleo essenziale, pericoli di compromissione.”.
5. Per la peculiarità della situazione in rilievo, che vede coinvolti fondamentali diritti della persona, il criterio di riparto della giurisdizione – in continuità con quanto già precisato dalle Sezioni Unite con la citata sentenza n. 23436 del 2022 – va quindi determinato nel senso che se la controversia è introdotta dal privato per ottenere il risarcimento del danno conseguente all’omesso esercizio di un potere discrezionale, ai sensi dell’art. 7 cod. proc. amm. la giurisdizione è devoluta al giudice amministrativo poichè rispetto all’esercizio di questo potere la posizione soggettiva vantata dal privato assume la natura di interesse legittimo; appartiene, invece, alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda risarcitoria nei confronti della P.A. per i danni derivanti da comportamenti colposi che non si siano tradotti in scelte od atti autoritativi dell’amministrazione.
6. Orbene, nel caso di specie, con la domanda introduttiva gli attori – nel lamentare “un repentino stato di abbandono dell’intera zona, oramai destinata, nell’indifferenza della pubblica amministrazione e di tutti gli organi deputati al controllo del territorio, a discarica abusiva per smaltimento illegittimo di rifiuti” e nel dedurre che “l’apparente formale intestazione a terzi della proprietà ovvero l’effettiva titolarità di terzi proprietari dei beni ricadenti sull’area non possono essere ostativi all’obbligo dell’ente pubblico di garantire il rispetto dei servizi essenziali… posti a tutela dell’ordine pubblico come il diritto alla salute” a fronte del quale “la risposta del Comune di (Omissis) è stata il silenzio e l’omissione di ogni intervento”, hanno concluso che “è proprio il mancato intervento da parte del Comune di (Omissis), dapprima con il mancato completamento della procedura di esproprio e successivamente e comunque con l’omissione di ogni attività, con la totale incuria per lo stato di abbandono della zona urbana e con l’omesso intervento per il ripristino delle aree e il controllo della legittimità dei comportamenti e dello status quo” che giustifica la richiesta di risarcimento dei danni – hanno chiesto la tutela della propria situazione di diritto soggettivo, lesa dalla condotta non iure e contra ius della convenuta.
6.1. In altri termini, A.A. e B.B. nel dedurre la sussistenza di un illecito civile hanno contestato al Comune di (Omissis), nella sua qualità di responsabile dei servizi di gestione del sistema di smaltimento dei rifiuti e, più in generale, di controllo del territorio, l’inerte e omissivo comportamento dell’ente nell’adozione di provvedimenti doverosi a tutela del diritto alla salute e all’ambiente salubre.
6.2. Si tratta all’evidenza di condotte – l’abbandono ripetuto di rifiuti, fino alla realizzazione di una “discarica”, lo stato fatiscente di immobili di proprietà di terzi, il conseguente degrado dell’intera area urbana – che, nel cagionare asseritamente un pregiudizio ai diritti alla salute (e alla proprietà) dei ricorrenti, trovano come concausa l’inerzia dell’autorità pubblica, come tale lesiva del principio generale del neminem ledere.
6.3. Nessuna doglianza, del resto, è rivolta contro atti amministrativi sulla scelte e sulle modalità di gestione del servizio di smaltimento dei rifiuti o, anche, su scelte di tipo autoritativo e discrezionale della pubblica amministrazione: la stessa mancata adozione di provvedimenti e le omissioni sull’adozione di misure ripristinatorie e/o di dirette a evitare il degrado ambientale rilevano non come illegittimità dell’esercizio negativo del potere ma – come evidenziato – come “incuria”, “indifferenza” dell’amministrazione, ossia come un comportamento materiale negligente nella doverosa tutela della salute.
6.4. Inoltre, come risulta dall’atto di citazione introduttivo del giudizio, gli attori hanno chiaramente sostenuto che l’amministrazione, nonostante le ripetute diffide e sollecitazioni (e-mail 15/11/2016; email 19/11/2016; lettera inviata il 23/08/2017 a seguito dell’incendio generatosi dai rifiuti, che aveva determinato il ricovero d’urgenza del sig. A.A.) e l’accertamento della locale Azienda Sanitaria Provinciale (per la quale – v. relazione del 27/04/2017 – “… si rende necessario, a tutela della salute pubblica, effettuare interventi tendenti alla eliminazione degli inconvenienti igienico sanitari accertati, non trascurando di effettuare disinfezione, disinfestazione e derattizzazione… si valutino, a tutela dell’incolumità pubblica, i summenzionati manufatti sotto il profilo statico”), era rimasta silente, inattiva, limitandosi a sostenere la propria incompetenza ad intervenire nelle proprietà private, incurante del grave degrado urbano in atto, finanche a seguito dell’incendio e, da ultimo, nonostante l’esperito tentativo di conciliazione preventiva della controversia ex D.Lgs. n. 28 del 2010, cui il Comune non si era presentato.
6.6. Alla pubblica amministrazione, anche quando sia destinataria del potere di conformare e regolare l’esercizio di un diritto, in ispecie fondamentale come il diritto alla salute, per la migliore realizzazione dell’interesse pubblico, è riconosciuta, in realtà, una discrezionalità attiva, attinente alla scelta delle misure più idonee per il perseguimento degli interessi pubblici, ma “non anche la discrezionalità del non agire, perchè quest’ultima è incompatibile con la natura inviolabile del diritto fondamentale, soprattutto quando sia a rischio il nucleo essenziale del diritto medesimo” (v. Sez. U., n. 23436-2022).
7. Non ha poi rilievo che le controversie relative alla gestione dei rifiuti rientrino, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. p), cod. proc. amm, nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, posto che, sin dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non tutte le controversie relative a concessione di pubblici servizi ma solo quelle nelle quali la pubblica amministrazione agisca come autorità, e dunque abbiano ad oggetto la valutazione sulla legittimità di provvedimenti amministrativi espressione di pubblici poteri, mentre, in difetto, la vicenda neppure è sussumibile nell’ambito di applicazione della norma e rientra nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria (v. specificamente in tema di servizio di smaltimento dei rifiuti Corte Cost. n. 35 del 2010, secondo la quale “è richiesto che l’amministrazione agisca, in tali ambiti predefiniti, come autorità e cioè attraverso la spendita di poteri amministrativi che possono essere esercitati sia mediante atti unilaterali e autoritativi sia mediante moduli consensuali…, sia infine mediante comportamenti, purchè questi ultimi siano posti in essere nell’esercizio di un potere pubblico e non consistano, invece, in meri comportamenti materiali avulsi da tale esercizio. In tale ultimo caso, infatti, la cognizione delle controversie nascenti da siffatti comportamenti spetta alla giurisdizione del giudice ordinario”; v. anche ord. n. 167 del 2011 Corte Cost.; da ultimo v. anche Corte Cost. n. 178 del 2022; del tutto coerente è, poi, il consolidato orientamento delle Sezioni Unite sul riparto della giurisdizione, formatosi già in relazione al previgente D.L. n. 90 del 2008, art. 4, comma 1, v. Sez. U., n. 16032 del 07/07/2010 e Sez. U, n. 14126 del 11/06/2010, poi confermato con riguardo all’art. 133, comma 1, lettera p), cod. proc. amm., v. Sez. U, n. 20824 del 21/07/2021, Sez. U, n. 20539 del 19/07/2021, Sez. U, n. 16456 del 30/07/2020).
8. Contrariamente a quanto affermato dal P.G. e dal Tribunale di Reggio Calabria, inoltre, i principi sopra riportati non contrastano con quanto affermato in talune decisioni solo apparentemente di segno contrario (in ispecie, Sez. U. n. 16304 del 28/06/2013 e Sez. n. 22009 del 21/09/2017) le quali, anzi, costituiscono ulteriore conferma degli anzidetti principi attesa la non sovrapponibilità delle vicende portate al vaglio del giudice, che riguardavano domande con cui il privato contestava la complessiva gestione comunale del ciclo dei rifiuti (ovvero le scelte sulla “giusta” collocazione dei cassonetti per la raccolta degli stessi), alla quale, dunque, si addebitava di avere leso, in definitiva, la salubrità del territorio comunale (v. anche Sez. U, n. 20824 del 21/07/2021).
9. Infine, privo di incidenza è il mancato completamento, a monte, della procedura espropriativa di (talune) aree nella zona in questione, la cui indicazione – meramente generica ed esclusa ogni prospettazione ai fini risarcitori specifici, mai dedotti – assume rilievo, in evidenza, solo come mera premessa di ordine storico-fattuale e quale indice, ulteriore, del comportamento inerte dell’ente locale.
10. In conclusione, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.
11. Nessun provvedimento sulle spese deve essere adottato trattandosi di regolamento sollevato d’ufficio e non avendo le parti svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e rimette le parti innanzi al Tribunale di Reggio Calabria.
Così deciso in Roma, innanzi alle Sezioni Unite, il 21 marzo 2023.
Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2023
Allegati:
SS.UU, 14 aprile 2023, n. 10063, in tema di tutela della salute