In tema di società in house – SS.UU, 19 febbraio 2024, n. 4413
Civile Ord. Sez. U Num. 4413 Anno 2024
Presidente: CASSANO MARGHERITA
Relatore: CRISCUOLO MAURO
Data pubblicazione: 19/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso 12016-2023 proposto da:
PUTZU ALESSIO, rappresentato e difeso dagli avvocati BALLERO BENEDETTO e BALLERO FRANCESCO, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI ORISTANO, PERRA BARBARA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 4067/2023 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 21/04/2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/02/2024 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
FATTI DI CAUSA
1. Alessio Putzu ha proposto appello avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda), 00866/2022, con cui era stata declinata la giurisdizione in favore di quella del giudice ordinario in relazione al ricorso avente ad oggetto l’impugnazione del provvedimento n. 53614 del 20.08.2022 del sindaco del Comune di Oristano, con cui era stata disposta la revoca del ricorrente, con decorrenza immediata, dall’incarico di amministratore unico della società Oristano Servizi Comunali S.r.l., quale società in house a capitale interamente pubblico, nonché l’impugnazione della Determina del Sindaco di Oristano n. 23 del 02.09.2022, che aveva disposto la nomina del nuovo amministratore unico della Società Oristano Servizi.
La sentenza appellata aveva fatto applicazione dell’art. 2449 c.c., facendo richiamo al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 16335 del 18.06.2019 nel caso relativo alla revoca dell’amministratore della società Milano Ristorazione s.p.a. da parte dell’Ente Pubblico.
Secondo l’appellante, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, lo Statuto della società Milano Ristorazione Spa riportava un espresso riferimento al potere dell’Ente pubblico di disporre la revoca dell’amministratore, ai sensi dell’art. 2449 c.c., mentre tale richiamo non era presente nello Statuto della società Oristano Servizi comunali S.r.l., il che escludeva che la controversia in esame rientrasse nella giurisdizione del giudice ordinario, venendo in effetti in rilievo un normale potere di imperio ed un correlato interesse legittimo in capo all’amministratore revocato.
Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4067 del 21 aprile 2023 ha rigettato l‘appello.
Richiamata la regola per cui la giurisdizione si determina in base alla domanda, a prescindere dal vaglio della sua fondatezza, e che, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il “petitum” sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della “causa petendi“, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione, ha osservato che nella specie non poteva trovare accoglimento la tesi di parte appellante secondo la quale, in difetto di un espresso richiamo contenuto nello Statuto comunale all’art. 2449 c.c., i poteri dell’Ente pubblico avrebbero carattere autoritativo.
In realtà doveva ritenersi che il potere di nomina dell’amministratore, previsto nell’ipotesi di specie dallo statuto (art. 7 ed 8), era attuazione di quanto previsto dall’art. 2449 c.c. e che a detto potere privatistico si accompagni quello contrario, avente del pari carattere paritetico, di revoca, nella cui logica si inscrive anche il potere previsto dall’art. 50 del TUEL, secondo quanto ritenuto dalla Suprema Corte con la pronuncia Sez. Un., 18/06/2019, n.16335, con cui si è affermato che i commi 8 e 9 dell’articolo 50 TUEL sono norme etero-integrative dell’articolo 2449 c.c., che, nei limiti temporali previsti, consentono all’ente pubblico, in deroga alla previsione statutaria di durata minima dell’incarico, di revocare i componenti dell’organo di gestione in precedenza nominati.
La stessa giurisprudenza di legittimità aveva affermato (Cass. Sez. Un. 6 maggio 1995, n. 4989; Cass., Sez. un., 26 agosto 1998, n. 8454; Cass., Sez. un., ord. 3 ottobre 2016, n. 19676; Cass., Sez. un., ord. 14 settembre 2017, n. 21299; Cass., Sez. un., ord. 1 dicembre 2016, n. 24591) – che “una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale”, e ciò in quanto il rapporto che lega la società e l’ente pubblico è di assoluta autonomia, “posto che l’ente può incidere sul funzionamento e sull’attività della società non già attraverso l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei componenti degli organi sociali di sua nomina”.
Invero, la PA quando nomina o revoca gli amministratori “non esercita un potere a titolo proprio ma esercita l’ordinario potere dell’assemblea, ad essa surrogandosi, quale organo della società, per autorizzazione della legge o dello statuto”. Inoltre, “l’amministratore di designazione pubblica non è soggetto agli ordini dell’ente nominante ed anzi, per testuale previsione del codice civile (articolo 2449 c.c.), ha i medesimi diritti ed i medesimi obblighi dell’amministratore di nomina assembleare”. Infine, l’equiparazione tra amministratori di nomina assembleare e quelli designati dall’ente pubblico si riscontra anche nella forma di tutela a cui possono accedere, atteso che entrambi possono giovarsi solo della “monetizzazione della funzione” ai sensi dell’art. 2383 c.c.
Da ciò discende, “l’inquadramento privatistico delle società in mano pubblica, col relativo assoggettamento alla giurisdizione ordinaria”, come del resto evincibile dall’art. 1 comma 3 del D.Lgs. n. 175/2016 (c.d. TUSP).
Confortava tale conclusione anche l’art. 2449, comma 1, c.c., che chiarisce che la facoltà del compimento dei predetti atti deve essere “conferita al socio pubblico dallo statuto, cioè da un atto fondamentale di natura negoziale (articolo 2328 c.c., comma 3) e che, con l’abrogazione (…) dell’articolo 2450 c.c. – a norma del quale la legge o lo statuto potevano attribuire la nomina e la revoca ad un ente pubblico estraneo al capitale sociale – è stato posto in chiaro che gli atti in questione competono all’ente pubblico uti socius, e dunque iure privatorum e non iure imperii”. In particolare in materia di società partecipate da enti pubblici, al giudice amministrativo vanno attribuite le controversie relative ai provvedimenti unilaterali di natura autoritativa, che sono, di fatto, preliminari rispetto alle successive deliberazioni societarie, “con i quali l’ente pubblico delibera di costituire la società o di parteciparvi o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della stessa o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della medesima”, mentre spettano al giudice ordinario le cause “aventi ad oggetto gli atti societari “a valle” della scelta di fondo dell’utilizzazione del modello societario”, ovvero quelle connesse con l’esercizio da parte dell’ente pubblico delle facoltà proprie del socio, “fra le quali rientrano quelle volte ad accertare l’intera gamma delle patologie e delle inefficacie negoziali inerenti la struttura del contratto sociale, ancorché ad essa estranee e/o sopravvenute e derivanti da irregolarità- illegittimità della procedura amministrativa a monte”
Ove si dibatta della legittimità dell’atto di revoca degli amministratori di una partecipata emesso dal Sindaco neoeletto entro quarantacinque giorni dal suo insediamento, la lite deve essere devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di atto che è esercizio di quanto previsto dall’art. 50 del TUEL, e che attiene ad una fase successiva alla costituzione della società e, in quanto idoneo ad incidere sulla struttura societaria, deve essere ricondotto alla “potestà di diritto privato ascrivibile all’ente pubblico uti socius, che il Sindaco esercita in conformità degli indirizzi, di natura politico-amministrativa stabiliti dal consiglio”.
Le Sezioni unite hanno poi precisato che l’art. 50 TUEL risponde all’esigenza “della nuova amministrazione di poter contare sull’immediata disponibilità di soggetti che si rendano interpreti delle sue nuove linee di indirizzo e delle diverse finalità della gestione, senza dover sottostare ai tempi lunghi occorrenti per verificare se gli amministratori in carica, “ereditati'” del precedente governo cittadino, siano in grado di corrispondere a tali mutate esigenze”.
I principi affermati dal giudice di legittimità risultavano poi applicabili alla fattispecie, in quanto, come evidenziato dal Comune appellato, lo Statuto della Oristano Servizi s.r.l. contiene numerosi richiami alle norme privatistiche. In particolare, l’art. 7 co. 1 dello Statuto espressamente riserva alla competenza del socio unico le decisioni nelle materie di cui agli artt. 2479 e 2487 c.c.; la prima di dette norme, rubricata “decisione dei soci” al comma 2, numero 2, prevede che: “In ogni caso sono riservate alla competenza dei soci: … 2) la nomina, se prevista nell’atto costitutivo, degli amministratori”. L’art. 8 prevede che la società può essere amministrata, alternativamente, su decisione del socio unico, da un amministratore unico o da un consiglio di amministrazione.
Era, pertanto, evidente come il potere di nomina del socio unico si inquadrasse nel disposto dell’art. 2449 c.c., il cui comma 2 prevede che “gli amministratori e i sindaci …nominati a norma del primo comma possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati”.
Poiché il Comune di Oristano è socio unico della Oristano Servizi s.r.l., al potere di nomina previsto dallo statuto non può che accompagnarsi anche quello contrario di revoca, a norma dell’art. 2449 comma 2 c.c., essendo quest’ultimo contrarius actus rispetto alla nomina.
Inoltre, l’art. 19 dello Statuto dispone che: “ Per quanto non espressamente disciplinato dal presente Statuto, valgono le norme dettate dal codice civile e dalle leggi in materia” (in coerenza con la clausola ermeneutica generale di cui all’art. 1 co. 3 D.Lgs. n. 175 del 19 agosto 2016 (TUSP) secondo la quale: “Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”), con la conseguenza che doveva ravvisarsi il carattere paritetico di tale potere, come rilevato anche da Cass. S.U., n. 34473 del 27.12.2019.
La sentenza aggiungeva, poi, che il definitivo transito delle società partecipate nell’orbita del diritto comune si evinceva anche da tre disposizioni, ed in primo luogo, dall’art. 1 comma 3, TUSP (D.lgs. 175/2016) a mente del quale “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali del diritto privato”.
In secondo luogo l’art. 12 del D.lgs. 175/2016 sposta il baricentro della responsabilità degli organi di governance verso il diritto civile, prevedendo che “i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali”, con la sola salvezza della giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house.
Infine, l’art. 14 del T.U. società partecipate, in tema di crisi d’impresa, afferma in maniera netta che tutte le compagini pubbliche (anche in house) “sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39”.
Andava perciò riaffermata la natura giuridica privata delle società in cui le Amministrazioni detengono delle partecipazioni, come precisato anche nel Parere del Consiglio di stato n. 968/2016 reso sul Testo Unico società partecipate.
La costruzione in chiave civilistica delle società partecipate era anche avvalorata dall’art. 2449 c.c., il quale, con riferimento alle società per azioni che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio in cui lo Stato o gli enti pubblici detengono partecipazioni, prevede esclusivamente un “particolare” potere di nomina (e revoca) degli organi di governance, con la conseguenza che per tutti gli altri profili si applica la disciplina del diritto comune.
Ne discende che, quando l’ente pubblico nomina e revoca gli amministratori della partecipata, non esercita un proprio potere, ma si surroga al potere che ordinariamente spetterebbe all’assemblea, in quanto la facoltà attribuita all’ente si qualifica come “sostitutiva della generale competenza dell’assemblea ordinaria, trovando la sua giustificazione nella peculiarità di quella tipologia di soci, e deve essere qualificata estrinsecazione non di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di diritto privato, in quanto espressiva di una potestà attinente ad una situazione giuridica societaria, restando esclusa qualsiasi sua valenza amministrativa” (Cass., Sez. un., ordinanza 23 gennaio 2015, n. 1237).
Tale esito trovava, poi, anche il conforto della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE sentenza 23 ottobre 2007, nella causa C-112/05; CGUE sentenza 6 dicembre 2007 nelle cause riunite C-463/04 C-464/04; CGUE sentenza 26 marzo 2009, causa C-326/07), a mente della quale il c.d. principio di neutralità delle forme giuridiche, sancito all’art. 345 TFUE, implica che “i trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri rendendo ininfluente la proprietà pubblica o privata del capitale sociale”.
2. Avverso la sentenza del Consiglio di Stato è stato proposto ricorso per cassazione da Putzu Alessio sulla base di un Gli intimati non hanno svolto difese in questa fase.
La Prima Presidente, in data 7 settembre 2023, ha formulato proposta di definizione del giudizio ex art. 380-bis c.p.c., nel testo novellato dal D. Lgs. n. 149/2022, avendone rilevato l’inammissibilità.
Parte ricorrente ha però chiesto la decisione del ricorso, formulando apposita istanza nel termine di cui al secondo comma dell’art. 380 bis c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli 2449, 2479 e 2479-bis c.c., sotto il profilo dell’art. 103 Cost. e dell’art. 7 c.p.a., nonché degli artt. 1 e 9 del D. Lgs. n. 175/2016.
Si deduce che la sentenza impugnata ha inteso radicare la giurisdizione del giudice ordinario con il richiamo all’art. 2449 c.c., sebbene gli artt. 7 ed 8 dello Statuto della società non contengano un esplicito riferimento alla norma de qua ma all’art. 2479 c.c. Inoltre, non si è tenuto conto che quella interessata dal presente giudizio non è una società per azioni, ma una società a responsabilità limitata, né di quanto previsto dall’art. 9, co. 7, del D. Lgs. n. 175/2016, dal quale si evince che, per radicare la giurisdizione del giudice ordinario è necessario che lo statuto societario faccia un esplicito richiamo al testo dell’art. 2449 c.c.
In definitiva, ad avviso del ricorrente, l’atto con il quale è stato revocato è atto esterno all’assemblea, cui competeva il potere di nomina o revoca dell’amministratore, e si qualifica alla stregua di un atto iure imperii, sottoposto quindi alla giurisdizione del giudice amministrativo.
2. Il motivo è manifestamente infondato.
Già nella proposta di definizione depositata in corso di causa è stato compiuto il puntuale richiamo ai precedenti di questa Corte che hanno reiteratamente affermato che la giurisdizione per la domanda in questa sede avanzata compete al giudice ordinario.
Questa Corte ha, infatti, affermato che spetta al giudice ordinario, e non al giudice amministrativo, la cognizione della controversia relativa all’impugnazione dell’atto con il quale il sindaco, nella specie, abbia espresso un giudizio di non idoneità nei confronti di un candidato alla nomina, riservata al Comune, di componente del consiglio di amministrazione di una fondazione, trattandosi di atto che – come avviene per la nomina (e la revoca) di amministratori e sindaci delle società a partecipazione pubblica (anche costituite secondo il modello delle società “in house providing“) – non è riconducibile all’esercizio di alcun pubblico potere e riguarda un soggetto di diritto privato, non rientrando le fondazioni nella pur ampia nozione di pubblica amministrazione, di cui all’art. 7, comma 2, d.lgs. n. 104 del 2010 (Cass. S.U. n. 34473 del 27/12/2019).
Con specifico riferimento alle società per azioni con partecipazione pubblica, è stata ribadita la giurisdizione del giudice ordinario, quanto alla controversia relativa alla revoca dell’amministratore nominato ai sensi dell’art. 2449 c.c., in quanto trattasi di atto posto in essere dall’ente pubblico “a valle” della scelta iniziale di avvalersi dello strumento societario, emanato avvalendosi degli strumenti che il diritto comune attribuisce al socio e dunque interamente regolato dal diritto privato, come si evince chiaramente dal testo del richiamato art. 2449 c.c., il quale individua nello statuto sociale, e dunque in un atto fondamentale di natura negoziale, la fonte esclusiva dell’attribuzione al socio pubblico della facoltà di nominare un numero di amministratori proporzionale alla sua partecipazione, con la correlata facoltà di revocarli (Cass. S.U. n. 29078 del 11/11/2019).
I principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite (cfr., tra le molte: Cass. S.U. n.4989/1995; n. 7799/2005; n. 30167/2011; n. 1237/2015; n. 19676/2016; n. 24591/2016; n. 21299/2017; n. 16335/2019), oltre che dello stesso Consiglio di Stato (cfr. Adunanza Plenaria 3 giugno 2011 n.10), confermano il fatto che la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto privato solo perché l’Ente pubblico ne possegga, in tutto o in parte, le azioni: il rapporto tra società ed ente pubblico azionista è, in altri termini, di assoluta autonomia.
Ciò significa che all’ente pubblico non è consentito incidere unilateralmente sugli atti di gestione e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario dei quali dispone nella sua qualità di socio. Del resto, il richiamo alla disciplina del codice civile in materia di società di capitali per quanto non diversamente stabilito dalla legge – e salve deroghe espresse -, trova esplicita e chiara conferma normativa nell’art. 4, comma 13, quarto periodo, del D.L. n. 95/2012 convertito nella L. n. 135/2012, oltre che nell’analogo art. 1, comma 3, del D. Lgs. n. 175/2016.
Trattasi di previsioni normative che fungono da “clausola ermeneutica generale” di chiusura (in senso privatistico) e che entrambe esprimono rilevanza significativa.
Il profilo involgente la disciplina di diritto pubblico, segnato dall’agire dell’ente pubblico come autorità, si esaurisce nella scelta iniziale dell’ente di costituire una società, o di parteciparvi, nel mentre il profilo privatistico è relativo alla adozione, durante lo svolgimento dell’attività sociale, degli atti (c.d. “a valle” di quella scelta iniziale) che l’ente pone in essere avvalendosi degli strumenti che il diritto comune gli attribuisce nella sua qualità di socio.
Quello posto in essere dal Comune di Oristano, proprio alla luce delle previsioni contenute nello Statuto della Oristano Servizi Comunali S.r.l. (che prevedono sia il potere di nomina che di revoca dell’amministratore unico ad opera del socio unico), si pone come atto da collocare “a valle” della scelta iniziale di avvalersi dello strumento societario, e quindi resta interamente regolato dal diritto privato
Tale conclusione non muta anche nel caso in cui la revoca sia stata dettata dall’applicazione della previsione dell’art. 50, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 267 del 2000, che attribuisce al Sindaco il potere di revoca degli amministratori delle società partecipate dal Comune entro 45 giorni dal suo insediamento, (Cass. S.U. n. 16335 del 18/06/2019, che ribadisce che si radica la giurisdizione ordinaria, poiché quello di revoca resta un provvedimento attinente ad una situazione giuridica successiva alla costituzione della società stessa, idoneo ad incidere internamente sulla sua struttura ed espressione di una potestà di diritto privato ascrivibile all’ente pubblico “uti socius” ed esercitata dal medesimo Sindaco in conformità degli indirizzi stabiliti dal Consiglio comunale).
3. Va pertanto riaffermata la giurisdizione del giudice ordinario (in termini nella giurisprudenza meno recente si veda anche S.U. n. 21299/2017; Cass. S.U. n. 24591/2016; Cass. S.U. n. 1237/2015), senza che possa influire sulla correttezza di tale conclusione la circostanza che nella specie la società dalla cui carica è stato revocato il ricorrente era una società a responsabilità limitata, anziché una società per azioni.
Tale differenza che, come ricordato da Cass. S.U. n. 4309/2010, non preclude di estendere alle società a responsabilità limitata i principi dettati per le società per azioni a partecipazione pubblica, ove tale partecipazione assuma connotazioni analoghe per le prime, consente di affermare come non sia esigibile un espresso richiamo alla previsione di cui all’art. 2449 c.c., norma dettata specificamente per le società per azioni con partecipazione dello Stato o di enti pubblici.
Piuttosto, è proprio il richiamo alla disciplina di cui all’art. 2468 co. 3, c.c., che consente l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società, a far concludere che le previsioni statutarie che dispongano in tal senso (come appunto l’art. 8 dello statuto della società per cui è causa) legittimano l’adozione di un potere di revoca che resta però nell’ambito della sfera privatistica (peccando di eccessivo formalismo la tesi sostenuta dal ricorrente, che pretende che la previsione statutaria debba necessariamente accompagnarsi ad un esplicito richiamo alla norma codicistica).
Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile.
4. Nulla a disporre quanto alle spese nei confronti delle parti intimate.
5. Considerato che la trattazione del ricorso è stata chiesta ai sensi dell’art. 380-bis p.c., ultimo comma, a seguito di proposta di inammissibilità a firma della Prima Presidente, la Corte, considerato che il giudizio è stato definito in conformità della proposta, deve applicare il terzo e il quarto comma dell’articolo 96, come previsto dal citato art. 380-bis, ultimo comma.
Trattasi di una novità normativa (introdotta dall’art. 3, comma 28, lett. g, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a decorrere dal 18 ottobre 2022, ai sensi di quanto disposto dall’art. 52, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 149/2022) che contiene, nei casi di conformità tra proposta e decisione finale, una valutazione legale tipica, ad opera del legislatore, della sussistenza dei presupposti per la condanna di una somma equitativamente determinata a favore della controparte (art. 96, terzo comma) e di una ulteriore somma di denaro non inferiore ad euro 500,00 e non superiore ad euro 5.000,00 (art. 96 quarto comma).
In tal modo, risulta codificata una ipotesi di abuso del processo, peraltro da iscrivere nel generale istituto del divieto di lite temeraria nel sistema processuale (cfr. Cass. S.U. nn. 27195 e 27433 del 2023).
Quanto alla disciplina intertemporale sull’applicazione ai giudizi di cassazione delle disposizioni di cui all’art. 96, terzo e quarto comma, per effetto del rinvio operato dall’ultimo comma dell’art. 380-bis nel testo riformato, rileva la Corte che la predetta normativa – in deroga alla previsione generale contenuta nell’art. 35 comma 1 del Lgs. n. 149/2022 – sia immediatamente applicabile a seguito dell’adozione di una decisione conforme alla proposta, sebbene per giudizi già pendenti alla data del 28 febbraio 2023 (Cass. S.U. n. 27195/2023).
Sulla scorta di quanto esposto, ed in assenza di indici che possano far propendere per una diversa applicazione della norma, la parte ricorrente va condannata al pagamento della somma di €. 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
6. Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Condanna il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di € 2.000,00;
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 13 febbraio
Allegati:
SS.UU, 19 febbraio 2024, n. 4413, in tema di società in house
In tema di interessi legali – SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
OPPOSIZIONE
ESECUZIONE
R.G.N. 16260/2023
Cron.
Rep.
Ud. 26/03/2024
PU
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
e
Fatti di causa
- Cordusio Società Fiduciaria per Azioni propose innanzi al Tribunale di Milano opposizione al precetto, notificato sulla base di sentenza emessa dal medesimo Tribunale, per il pagamento della somma di 116.819,15, oltre agli interessi maturandi sulla sorte capitale, denunciando l’erroneo calcolo degli interessi di mora dal momento in cui era stata proposta la domanda giudiziale, nonostante il titolo esecutivo giudiziale non recasse la condanna al pagamento degli stessi con la decorrenza indicata (né vi era stata domanda in tal senso) ed il credito riconosciuto dal titolo giudiziale escludesse l’applicazione dell’art. 1284, comma 4, cod. , trattandosi di credito risarcitorio ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. Aggiunse che il giudice dell’esecuzione non poteva integrare il titolo esecutivo giudiziale della previsione mancante circa gli interessi.
- Con ordinanza di data 25 luglio 2023, il Tribunale adito ha disposto rinvio pregiudiziale degli atti ai sensi dell’art. 363 bis proc. civ. per la risoluzione della seguente questione di diritto: «se in tema di esecuzione forzata – anche solo minacciata – fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore, limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di “interessi legali” o “di legge” ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si debbano ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284 primo comma c.c. o – a partire dalla data di proposizione della domanda – possano ritenersi liquidati quelli di cui al quarto comma del predetto articolo».
- Con decreto di data 18 settembre 2023, la Prima Presidente ha assegnato la questione alle Sezioni Unite per l’enunciazione del principio di diritto.
Il Pubblico Ministero ha depositato la requisitoria scritta, concludendo nei termini che gli interessi di cui all’art. 1284, comma 4, cod. civ. devono ritenersi computati dalla data di proposizione della domanda giudiziale fino al soddisfo. E’ stata depositata memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
- La questione di diritto, assegnata a queste Sezioni unite a seguito di rinvio pregiudiziale disposto dal giudice del merito ai sensi dell’art. 363 bis proc. civ., è se la mera previsione degli «interessi legali» nella pronuncia di condanna da parte del giudice della cognizione, possa essere interpretata, per la parte di interessi decorrenti dopo il momento della proposizione della domanda giudiziale, nei termini del saggio di interessi previsto dal comma quarto dell’art. 1284 cod. civ., oppure se, per l’assenza di specificazioni nella decisione, il saggio degli interessi debba restare limitato a quello previsto dal primo comma della medesima disposizione.
Preliminare è il tema dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale, tema trattato anche dal Pubblico Ministero, alla luce del fatto che trattasi di questione già affrontata dalla giurisprudenza di questa Corte. L’assegnazione della questione da parte della Prima Presidente per l’enunciazione del principio di diritto non preclude la valutazione di ammissibilità del rinvio pregiudiziale da parte del Collegio investito della decisione, secondo quanto emerge dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite (cfr. Cass. Sez. U. 13 dicembre 2023, n. 34851).
Secondo un indirizzo emerso in questa Corte, in presenza di esecuzione forzata fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi che ha comminato, limitandosi alla generica qualificazione degli stessi in termini di «interessi legali» o «di legge», si devono ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284, comma 1, in ragione della portata generale di questa disposizione, rispetto alla quale le altre ipotesi di interessi previste dalla legge hanno natura speciale, atteso che l’applicazione di una qualsiasi delle varie ipotesi di interessi legali, diversi da quelli previsti dalla disposizione citata, presuppone l’avvenuto accertamento degli elementi costitutivi della relativa fattispecie speciale, ed ove dal titolo non emerga un siffatto accertamento non è consentita l’integrazione in sede esecutiva, ma è esperibile soltanto il rimedio dell’impugnazione (Cass. 27 settembre 2017, n. 22457). Trattasi di opzione ermeneutica che risulta condivisa da una serie di pronunce delle sezioni semplici di questa Corte (Cass. 23 aprile 2020, n. 8128; 25 luglio 2022, n. 23125; 14 luglio 2023, n. 20273; 4 agosto 2023, n. 23846). La particolarità dell’indirizzo in esame è che esso è sorto in relazione al rapporto fra il primo comma dell’art. 1284 e la legge speciale (d. lgs. n. 231 del 2002), ma non con riferimento alla relazione fra il primo ed il quarto comma dell’art. 1284, salvo la pronuncia più recente (Cass. n. 23846 del 2023), la quale si è limitata puramente e semplicemente ad affermare che il tasso che trova applicazione è quello del primo comma.
Vi è tuttavia un altro indirizzo, soggiacente una serie di pronunce della Corte (essenzialmente della Sezione lavoro), non emerso al livello di principio di diritto, secondo cui la formula dei commi 4 e 5 dell’art. 1284 è chiara nel predeterminare la misura degli interessi legali, nel caso in cui il credito venga riconosciuto da una sentenza a seguito di un giudizio anche arbitrale, senza necessità di apposita precisazione del loro saggio in sentenza (Cass. 20 gennaio 2021, n. 943; 23 settembre 2020, n. 19906; 12 novembre 2019, n. 9212; 25 marzo 2019, n. 8289; 7 novembre 2018, n. 28409). In relazione ad impugnazioni che denunciavano l’omesso riconoscimento, da parte del giudice del merito, degli interessi legali di cui al quarto comma, si è risposto che il provvedimento doveva ritenersi integrato da quest’ultima previsione.
La formazione del primo indirizzo in un contesto normativo nel quale non veniva in rilievo il comma quarto dell’art. 1284, ma soltanto la legge speciale, da una parte, ed il contrasto latente fra i due orientamenti, dall’altra, inducono a far concludere nel senso dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale. L’art. 363 bis, comma 1, prevede quale condizione di ammissibilità del rinvio, fra l’altro, che la questione non sia stata ancora «risolta» dalla Corte di Cassazione. E’ significativa la differenza di formulazione fra la disposizione del codice processuale e la previsione della legge delega, che parlava di questione di diritto non «ancora affrontata dalla Corte di Cassazione». Ai fini dell’ammissibilità del rinvio è perciò ora necessario che la questione, pur affrontata dalla Corte, non sia stata dalla stessa ancora risolta.
La mancata risoluzione emerge, nel presente caso, sulla base del concorso dei due profili sopra evidenziati: la formazione di un indirizzo di legittimità sulla base di un contesto normativo non direttamente ed immediatamente riconducibile alla norma oggetto di interpretazione in sede di rinvio pregiudiziale – ossia la legge speciale, la cui applicabilità, si noti, non è condizionata dalla domanda giudiziale, come per il quarto comma dell’art. 1284, ma da un presupposto sostanziale – e la presenza di una latente divergenza di valutazioni fra sezioni della Corte. Dal punto di vista della funzione dell’istituto del rinvio pregiudiziale, che deve consentire al giudice di merito di concludere nel senso di una questione già risolta dalla Corte di Cassazione, il concorso dei due profili evidenziati esclude che ad una tale conclusione possa pervenirsi. Ricorre pertanto la condizione di ammissibilità di cui al n. 1 dell’art. 363 bis, unitamente alle ulteriori condizioni già valutate dal provvedimento presidenziale.
- Alla trattazione della questione di diritto deve essere premesso il richiamo dell’intera disposizione di cui all’art. 1284 (“Saggio degli interessi”):
«1. Il saggio degli interessi legali è determinato in misura pari al 5 per cento in ragione d’anno. Il Ministro del tesoro, con proprio decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana non oltre il 15 dicembre dell’anno precedente a quello cui il saggio si riferisce, può modificarne annualmente la misura, sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell’anno. Qualora entro il 15 dicembre non sia fissata una nuova misura del saggio, questo rimane invariato per l’anno successivo.
2. Allo stesso saggio si computano gli interessi convenzionali, se le parti non ne hanno determinato la
3. Gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto; altrimenti sono dovuti nella misura
4. Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni
5. La disposizione del quarto comma si applica anche all’atto con cui si promuove il procedimento arbitrale».
L’evidenza della questione di diritto risiede nel fatto che il giudice dell’esecuzione, al cospetto del titolo esecutivo giudiziale, non ha poteri di cognizione, ma deve limitarsi a dare attuazione al comando contenuto nel titolo esecutivo medesimo, mediante un’attività che ha, sul punto, natura rigorosamente esecutiva. Si tratta pertanto di attività di interpretazione (latu sensu, perché svolta in sede esecutiva), e non di integrazione, in quanto volta ad estrarre il contenuto precettivo già incluso nel titolo esecutivo ed in funzione non di risoluzione di controversia, e cioè cognitiva in senso stretto, ma di esecuzione del comando disposto dal titolo. Se dunque il richiamo agli “interessi legali” nel titolo esecutivo giudiziale possa avere – dopo la proposizione della domanda – la valenza del saggio previsto per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, è questione che attiene a ciò che deve intendersi già incluso nel titolo esecutivo, senza che il suo riconoscimento da parte del giudice dell’esecuzione possa avere una valenza integrativa derivante da cognizione. Si tratta di un potere, in definitiva, che non è di accertamento (cognizione) in senso proprio, ma di precisazione dell’oggetto del titolo esecutivo, allo scopo di dare attuazione al relativo comando. Come ricorda Cass. Sez. U. 6 aprile 2023, n. 9479, la distinzione fra il piano della cognizione e quello dell’esecuzione comporta che i poteri cognitivi riconosciuti dal codice di rito al giudice dell’esecuzione sono, comunque, funzionali all’espletamento dell’esecuzione stessa. La questione posta attiene, così, rigorosamente al profilo di identificazione del contenuto del titolo esecutivo giudiziale in funzione della sua esecuzione.
- La premessa da cui partire, per la risoluzione della questione di diritto, è che il quarto comma dell’art. 1284 non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi (cui la legge collega la relativa misura), ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono per una parte certamente rinvenibili in quelli cui la legge in generale collega l’effetto della spettanza degli interessi legali, ma per l’altra è integrata da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale. Entro tali limiti, viene a stabilirsi una soluzione di continuità fra la fattispecie costitutiva dell’effetto della spettanza degli interessi legali in generale e quella degli interessi legali contemplati dal quarto comma dell’art. 1284.
La relativa autonomia della fattispecie produttiva dei c.d. super-interessi (relativa perché contenente ulteriori elementi di specificazione), rispetto a quella produttiva degli ordinari effetti legali, fa sì che uno dei diversi profili oggetto di accertamento giurisdizionale, a seguito della introduzione della controversia con la deduzione in giudizio di un determinato rapporto giuridico, sia anche quello della ricorrenza dei presupposti applicativi dell’art. 1284, comma 4. Con la domanda giudiziale insorge una controversia ed è parte di questa controversia anche la spettanza, dopo la domanda giudiziale, del saggio degli interessi legali previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La controversia, sul punto, per il generale obbligo del giudice di provvedere sulla domanda, deve essere risolta con uno specifico accertamento giurisdizionale.
La necessità della risoluzione di questa specifica controversia, nell’ambito del complessivo rapporto dedotto in giudizio, è la conseguenza, come si è appena detto, della relativa autonomia della fattispecie costitutiva della spettanza dei c.d. super-interessi rispetto a quella produttiva degli ordinari interessi legali, il cui saggio è previsto dal primo comma dell’art. 1284. L’attenzione va così rivolta alla varietà dei presupposti applicativi degli interessi maggiorati che deve essere oggetto dell’attività di accertamento del giudice della cognizione, il quale emetterà il titolo esecutivo. Fra i presupposti applicativi che possono emergere, se ne possono qui enumerare i seguenti.
In primo luogo, la natura della fonte dell’obbligazione, la quale, in base all’art. 1173 cod. civ., può essere la più varia. Vengono in rilievo la generale distinzione fra obbligazioni contrattuali ed obbligazioni derivanti da responsabilità extracontrattuale e l’area dei crediti di lavoro (con la specifica disciplina di cui all’art. 429, comma 3, cod. civ.), ma anche, a titolo soltanto esemplificativo, una congerie di crediti, quali quelli in materia di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo di cui alla legge n. 89 del 2001, i crediti per gli alimenti (dovuti, in base all’art. 445 cod. civ., proprio dal giorno della domanda giudiziale) ed in generale i crediti derivanti da obblighi familiari, nonché, in questo quadro, i crediti non preesistenti al processo, tutti crediti, questi ultimi, per i quali può indubbiamente essere controversa la spettanza degli interessi in questione. Che l’obbligazione dedotta in giudizio, e destinata ad entrare nel titolo esecutivo giudiziale, sia suscettibile di produrre i super-interessi, in relazione a ciascuna delle tipologie di obbligazioni sommariamente indicate, deve essere oggetto di specifico accertamento da parte del giudice della cognizione, il che implica anche la compiuta qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio.
Vi è poi da accertare se vi sia una (valida ed efficace) determinazione contrattuale della misura degli interessi, prevista dall’art. 1284, comma 4, quale circostanza la cui esistenza impedisce la produzione degli interessi nella misura prevista dalla legge speciale richiamata. Ulteriore profilo meritevole di accertamento potrebbe essere quello dell’identificazione della domanda giudiziale, quale momento rilevante per la decorrenza degli interessi legali in discorso. Se non vi sono dubbi circa la rilevanza della data di notifica dell’atto di citazione o del deposito del ricorso introduttivo, può essere controverso se l’epoca della domanda giudiziale debba risalire ad una domanda cautelare, quale l’istanza di sequestro conservativo di cui all’art. 671 cod. proc. civ. o di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art. 696 bis cod. proc. civ.), ma si pensi anche alla domanda di accertamento tecnico preventivo obbligatorio di cui all’art. 445 bis cod. proc. civ.. Potrebbe, ancora, essere oggetto di controversia, ad esempio, se i super-interessi spettino durante lo svolgimento del procedimento di mediazione, ai sensi del d. lgs. n. 28 del 2010, introdotto dopo la domanda giudiziale per il mancato previo esperimento da parte del creditore.
Si tratta, in definitiva, di svolgere l’accertamento, propriamente giurisdizionale, di corrispondenza della fattispecie concreta a quella astratta di spettanza degli interessi maggiorati. Il giudizio sussuntivo, risolutivo sul punto della controversia, ricade nell’attività di cognizione, che fonda il titolo esecutivo giudiziale e che deve essere necessariamente svolta ai fini del provvedimento da emettere sulla domanda.
L’esigenza di cognizione dei presupposti applicativi della misura degli interessi previsti dal quarto comma dell’art. 1284 comporta che il titolo esecutivo giudiziale contenga l’accertamento di spettanza degli interessi legali nella misura indicata. Dal punto di vista del giudice dell’esecuzione, la mera previsione, nel dispositivo e/o nella motivazione del titolo esecutivo, degli “interessi legali” è inidonea ad integrare il detto accertamento, in ragione della evidenziata autonomia relativa della fattispecie produttiva degli interessi maggiorati rispetto alla ordinaria produzione degli interessi legali. Si tratta, come si è ormai più volte detto, di una fattispecie (relativamente) autonoma, che cade nella controversia da risolvere e rispetto alla quale l’accertamento, suscettibile di diventare cosa giudicata, deve essere specificatamente svolto.
Se il titolo esecutivo è silente, il creditore non può conseguire in sede di esecuzione forzata il pagamento degli interessi maggiorati, stante il divieto per il giudice dell’esecuzione di integrare il titolo, ma deve affidarsi al rimedio impugnatorio. Il titolo esecutivo giudiziale, nel dispositivo e/o nella motivazione, alla luce del principio di necessaria integrazione di dispositivo e motivazione ai fini dell’interpretazione della portata del titolo, deve così contenere la previsione della spettanza degli interessi maggiorati.
- Va in conclusione enunciato il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
- Va disposta la restituzione degli atti al Tribunale di Milano, anche per la regolamentazione delle spese per l’attività difensiva svolta nella presente sede.
P. Q. M.
La Corte, a Sezioni Unite, pronunciando sul rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363 bis cod. proc. civ, disposto dal Tribunale di Milano con ordinanza di data 25 luglio 2023, enuncia il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
Spese al merito.
Dispone la restituzione degli atti al Tribunale di Milano.
Così deciso in Roma il giorno 26 marzo 2024
Il consigliere estensore
Dott. Enrico Scoditti
Il Presidente
Dott. Pasquale D’Ascola
Allegati:
Decreto, 18 settembre 2023, per SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449, in tema di interessi legali
SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449, in tema di interessi legali
In tema di fallimento – SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337
Civile Sent. Sez. U Num. 7337 Anno 2024
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO
Data pubblicazione: 19/03/2024
FALLIMENTO
preliminare di
vendita
immobiliare –
prima casa –
subentro del
curatore –
cancellazione
di gravami –
art. 108 l.f. –
R.G.N. 7704/2021
Cron. Rep.
Ud. 12/12/2023
PU
SENTENZA
sul ricorso 7704-2021 proposto da:
LEVITICUS SPV S.R.L., CF LIBERTY SERVICING S.P.A., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI 7, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO SILVETTI, rappresentate e difese dagli avvocati EDOARDO STAUNOVO POLACCO e GIORGIO TARZIA;
– ricorrenti –
contro
FALLIMENTO GLI ARTIGIANI SOC. COOP. EDILIZIA S.C. A R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 19, presso lo studio dell’avvocato LUCA IACOPINI, rappresentata e difesa dall’avvocato BARBARA ROVATI;
DE ANGELIS LUCA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell’avvocato PAOLA PETRILLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA FOLCO;
– controricorrenti –
avverso il decreto del TRIBUNALE di MONZA emesso il 13/01/2021 (r.g. 136-2018).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/12/2023 dal Consigliere FRANCESCO TERRUSI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Edoardo Staunovo Polacco, Giorgio Tarzia, Paola Petrilli e Barbara Rovati.
Fatti di causa
La Leviticus SPV s.r.l. propose reclamo contro il decreto col quale il giudice delegato al fallimento de Gli Artigiani soc. coop. edilizia in liquidazione, dopo aver autorizzato il curatore a subentrare in un contratto preliminare di assegnazione in proprietà della porzione di un immobile a un socio, Luca De Angelis, aveva disposto la cancellazione dei gravami insistenti sul bene. Tra i detti gravami era compresa un’ipoteca iscritta in data 30-10-2006 a favore della Banca popolare di Milano, la quale prima del fallimento aveva promosso l’azione esecutiva a mezzo di pignoramento trascritto il 17-7-2018. La Leviticus si era resa cessionaria del credito garantito.
Nel proporre il reclamo la cessionaria evidenziò che il contratto preliminare era stato trascritto in data anteriore al fallimento e che il prezzo dovuto dal promissario acquirente era stato già interamente versato alla società cooperativa, sempre in epoca anteriore alla sentenza dichiarativa. Sostenne che alla fattispecie non fosse applicabile l’art. 108, secondo comma, legge fall., essendosi trattato di un mero subentro ex lege del curatore nel contratto preliminare (trascritto) di un immobile destinato a costituire abitazione principale dell’acquirente, e quindi non di una vendita forzata bensì di un atto consequenziale al preliminare, di natura totalmente privatistica.
L’adito tribunale di Monza ha respinto il reclamo, e per motivare la decisione ha osservato che secondo l’orientamento evinto da una sentenza di questa Corte (Cass. Sez. 1 n. 3310-17) la vendita ex art. 72, ultimo comma, legge fall., sebbene attuata con forme privatistiche, rimane una vendita fallimentare. E questo perché la vendita avviene comunque coattivamente, ossia a prescindere dalla volontà del titolare del diritto sul bene (l’impresa fallita), e all’interno di un procedimento di liquidazione concorsuale mediante un atto del curatore, soggetto rappresentante la massa dei creditori e lo stesso fallito.
Richiamando un conforme indirizzo di merito, il tribunale di Monza ha evidenziato che l’unica differenza rispetto agli altri atti di liquidazione fallimentare risiede, in tal caso, nel fatto che la scelta su come liquidare il bene è compiuta direttamente dal legislatore. Il quale ha inteso accordare al promissario acquirente della casa di abitazione una tutela privilegiata, facendo prevalere il suo diritto alla stipula del contratto definitivo sul diritto alla migliore soddisfazione economica delle ragioni del creditore ipotecario. Sicché invece l’accoglimento della diversa tesi della società reclamante avrebbe determinato un’abrogazione di fatto della tutela riconosciuta dall’art. 72 legge fall.
Il tribunale ha infine ritenuto non ostativo il diverso principio espresso da altra più recente decisione di questa Corte (Cass. Sez. 1 n. 23139-20), in quanto relativo alla fattispecie del concordato, e ha richiamato a ulteriore supporto della propria tesi la disciplina introdotta dall’art. 173, quarto comma, del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (breviter CCII), per la quale spetta al giudice delegato la potestà di cancellare, per l’appunto, le ipoteche gravanti sull’immobile venduto al promissario acquirente dal curatore subentrato nel contratto preliminare salva l’inopponibilità della metà degli acconti già versati.
La Leviticus SPV, tramite la mandataria CF Liberty Servicing s.p.a., ha proposto ricorso per cassazione contro il decreto del tribunale di Monza, deducendo un solo motivo.
Il Fallimento e il De Angelis hanno resistito con distinti controricorsi.
Le parti hanno depositato memorie.
La causa è stata chiamata in adunanza camerale dinanzi alla Prima sezione civile.
La Prima sezione, con ordinanza interlocutoria n. 16166 del 2023, dopo aver ritenuto il ricorso ammissibile perché proposto contro un provvedimento di natura decisoria in tema di cancellazione delle ipoteche, ai sensi dell’art. 108, secondo comma, legge fall. (v. già Cass. Sez. 1 n. 30454-19, Cass. Sez. 1 n. 3310-17), ha disposto la rimessione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Ha rilevato che si è dinanzi a una questione di massima di particolare importanza, molto dibattuta e oggetto di contrasto, integrata dall’interrogativo se l’art. 108, secondo comma, legge fall. sia o meno applicabile anche alla vendita attuata non all’esito di una procedura competitiva pubblicizzata e svoltasi sulla base di valori di stima, ma in forma contrattuale, in adempimento di un contratto preliminare in cui il curatore sia subentrato ex lege in applicazione del disposto dell’art. 72, ottavo comma, stessa legge.
La Prima Presidente ha disposto in conformità.
Ragioni della decisione
I. – Con l’unico motivo la ricorrente, denunziando la violazione o falsa applicazione degli 72 e 108 legge fall., anche in relazione agli artt. 2645-bis, 2808, 2878 e 2882 cod. civ., assume errata la decisione del tribunale sotto entrambi i profili: (a) della qualificazione come vendita concorsuale del contratto definitivo concluso dal curatore in esecuzione del preliminare trascritto ex art. 72, ultimo comma, legge fall., ai fini dell’art. 108 stessa legge; (b) della presunta esistenza di una ragione di prevalenza del fine di tutela dei diritti del promissario acquirente rispetto ai diritti del creditore ipotecario, da tutelare mediante l’esercizio del potere di purgazione.
Dal primo punto di vista la ricorrente sottolinea che l’art. 108 legge fall. si inserisce nell’alveo della liquidazione dell’attivo, mentre la trascrizione del preliminare, per i conseguenti effetti prenotativi, esclude che in esito al definitivo il bene che ne forma oggetto entri a far parte della massa attiva concorsuale.
Dal secondo punto di vista segnala che la tutela del promissario acquirente rispetto ai diritti del creditore ipotecario rimane, nell’ordinamento, affidata alla pubblicità immobiliare e alla possibilità di conoscere le iscrizioni pregiudizievoli gravanti sul bene che egli intenda acquistare, mentre l’interpretazione condivisa dal tribunale di Monza avrebbe come conseguenza la soppressione sostanziale del diritto di sequela riconosciuto dall’art. 2808 cod. civ. al creditore ipotecario, cosa inammissibile in difetto di un’espressa previsione normativa. Invero il creditore si troverebbe a concorrere solo sulla frazione di prezzo dell’immobile eventualmente suscettibile di esser pagato dal promissario acquirente al curatore (cosa che peraltro nella specie è esclusa dall’avere il promissario integralmente pagato il prezzo prima del fallimento), e subirebbe la cancellazione fuori dalla disciplina dell’estinzione delle ipoteche prevista dagli artt. 2878 e 2882 cod. civ., non essendo l’esecuzione del contratto pendente equiparabile a un esproprio.
Secondo la ricorrente, non sarebbe possibile trarre conferma della bontà del ragionamento del tribunale dalla disciplina offerta al riguardo dal CCII (art. 173, quarto comma), poiché codesta ha introdotto una regola completamente innovativa di bilanciamento tra la tutela del promissario acquirente e quella del creditore ipotecario, a condizioni del tutto diverse e come tali inestensibili alla legge fallimentare.
II. – La questione controversa attiene al fatto se possa o meno considerarsi come vendita concorsuale, ai fini dell’art. 108 legge fall. e delle conseguenze da esso stabilite, la modalità dell’alienazione che si realizza in esito al subentro ex lege del curatore fallimentare nel contratto preliminare di vendita di un immobile da adibire ad abitazione principale del promissario, trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis civ.; o, il che è lo stesso, del contratto preliminare di assegnazione del bene al socio di una cooperativa edilizia.
III. – L’art. 108, secondo comma, legge fall., quanto ai beni immobili (e agli altri beni iscritti in pubblici registri), prevede – all’esito del lgs. n. 5 del 2006 e poi del d.lgs. n. 169 del 2007 – che “una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, il giudice delegato ordina, con decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo”.
Nella visione del tribunale di Monza questa norma – sebbene inserita tra quelle relative (all’esercizio provvisorio e) alla liquidazione dell’attivo – andrebbe coniugata con la disciplina degli effetti del fallimento sui rapporti pendenti.
Per i rapporti pendenti l’art. 72 legge fall. stabilisce, al primo comma, la regola generale secondo cui “se un contratto è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento, l’esecuzione del contratto, fatte salve le diverse disposizioni della presente Sezione, rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto”. Come poi precisato dal terzo comma, la previsione si applica anche al contratto preliminare di vendita immobiliare, fatto salvo quanto previsto nell’art. 72-bis per i contratti relativi a immobili da costruire.
Per la vendita immobiliare soccorre inoltre – in generale – il settimo comma dell’art. 72, il quale prevede che, ove a fronte di un preliminare trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ. vi sia stato lo scioglimento da parte del curatore, “l’acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno e gode del privilegio di cui all’articolo 2775-bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento.”.
È bene rammentare a tal riguardo che questa Corte ha chiarito che l’afferente privilegio speciale sul bene immobile, che assiste ai sensi dell’art. 2775-bis cod. civ. i crediti del promissario acquirente conseguenti alla mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ., essendo subordinato a una particolare forma di pubblicità costitutiva (come previsto dall’ultima parte dell’art. 2745 cod. civ.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza del privilegio sull’ipoteca, sancita, se non diversamente disposto, dal secondo comma dell’art. 2748 cod. civ., e soggiace agli ordinari principi in tema di pubblicità degli atti. Sicché, nel caso in cui il curatore del fallimento della società costruttrice dell’immobile scelga lo scioglimento del contratto preliminare (ai sensi dell’art. 72 della legge fall.), il conseguente credito del promissario acquirente per la restituzione di caparre o acconti, benché assistito da privilegio speciale, è collocato in grado inferiore rispetto a quello dell’istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull’immobile stesso ipoteca a garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice (v. Cass. Sez. U n. 21045-09 e poi anche Cass. Sez. 1 n. 4195-12, Cass. Sez. 1 n. 17270-14, Cass. Sez. 1 n. 17141-16).
In sostanza è principio fondamentale che in ipotesi di scioglimento dal contratto resta prevalente il diritto derivante dall’iscrizione ipotecaria.
IV. – Sempre sul piano della disciplina normativa il dato diverge nel caso del preliminare avente a oggetto un immobile per uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero un immobile per uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente stesso.
In questa situazione l’ultimo comma dell’art. 72 ha introdotto una deroga rispetto alla potestà del curatore di sciogliersi dal vincolo: “le disposizioni di cui al primo comma non si applicano al contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’articolo 2645-bis del codice civile avente ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado ovvero un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente”.
È bene ribadire che la deroga non attiene (ovviamente) al meccanismo tipico del preliminare, ma solo alla dianzi citata (ordinaria) potestà di scioglimento dal contratto.
Come esattamente osservato dall’ordinanza interlocutoria, l’effetto che ne deriva è che il curatore, in presenza di un contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ., avente a oggetto un immobile con la destinazione suddetta, non ha possibilità di scegliere se subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendosi tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo. Egli succede necessariamente nel contratto, ex lege, e quindi è tenuto a darvi esecuzione.
V. – Da qui il problema se, considerata l’esistenza di un simile obbligo di legge, possa dirsi che l’alienazione effettuata in questi casi dal curatore fallimentare sia tale da rientrare essa stessa – ancora ex lege – nell’ambito dell’attività liquidatoria: di quell’attività, cioè, che il curatore è tenuto a compiere nel corso della procedura concorsuale.
La risposta affermativa si basa sul rilievo che la vendita fatta dal curatore è da considerare come tale anche se non effettuata secondo le regole della esecuzione concorsuale, o (come dice l’ordinanza interlocutoria) a mezzo di procedure competitive.
VI. – Il tema è stato fin qui variamente considerato nelle sedi di merito, in adesione ora all’una ora all’altra delle possibili soluzioni.
Su di esso si è registrato un contrasto anche nella giurisprudenza di questa Corte, contrasto che per vero non ha risparmiato neppure la dottrina a valle della considerazione in ordine alla ratio di favore che governa l’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Si allude al fatto che con l’art. 72, ultimo comma, la legge fallimentare ha inteso accordare una tutela rafforzata – in forma specifica – al diritto alla proprietà del bene destinato alla prima abitazione del promissario acquirente che abbia trascritto il preliminare prima del fallimento; sicché il diritto del promissario sarebbe per tale ragione assoggettabile a una regolazione indiretta in ambito concorsuale.
Un orientamento di tal genere è quello fatto proprio dal tribunale di Monza.
La premessa di tale orientamento è che sono da qualificare come vendite concorsuali quelle che, comunque attuate, possiedono natura coattiva perché avvengono invito domino in un ambito procedimentalizzato.
Anche queste vendite sarebbero soggette all’efficacia purgativa.
In particolare, la vendita immobiliare fatta in esecuzione di un preliminare stipulato dal fallito e previamente trascritto diventerebbe vendita concorsuale, ai fini dell’art. 108 legge fall., perché disposta dal curatore fallimentare con la autorizzazione del comitato dei creditori.
Nella prospettiva così – appunto – “procedimentalizzata”, essa stessa parteciperebbe dell’ambito dell’attività liquidatoria che il curatore è tenuto a compiere nel corso della procedura concorsuale, anche se concretizzata al di fuori delle regole di cui alla Sezione II (“Della vendita dei beni”) alle quali, come detto all’inizio, la norma si riferisce.
L’indirizzo interpretativo ha trovato avallo nella sentenza della Prima sezione di questa Corte citata sia dal tribunale di Monza che dall’ordinanza interlocutoria.
La sentenza ha affermato il principio secondo cui, in tema di vendita fallimentare, anche se attuata nelle forme contrattuali e non tramite esecuzione coattiva, trova applicazione l’art. 108, secondo comma, legge fall., con la conseguente cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione a opera del giudice delegato e ammissione del creditore ipotecario al concorso, con rango privilegiato, sull’intero prezzo pagato, ivi compreso l’acconto eventualmente versato al venditore ancora in bonis (Cass. Sez. 1 n. 3320-17).
L’indirizzo che si riallaccia a tale orientamento segnala che non si giustificherebbe altrimenti la rilevanza assunta dal bene protetto – e cioè la casa di abitazione – quale fondamento dell’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 72 cit.
VII. – A questa tesi si è contrapposta quella per cui, invece, il risultato al quale tende l’art. 108, secondo comma, legge fall. non è concepibile al di fuori di una procedura coattiva aperta al mercato e finalizzata al realizzo dell’intero (e anzi del migliore) prezzo di vendita del bene acquisito all’attivo.
Ciò sarebbe in certa misura presupposto dalla norma, per essere codesta riferibile al profilo di necessaria competizione nell’ambito di una procedura pubblica di dismissione dei beni. La quale procedura pubblica dovrebbe sempre muovere da un prezzo di stima e favorire la massima informazione e partecipazione di tutti i soggetti interessati, al fine di assicurare il conseguimento del maggior risultato possibile e con esso la miglior soddisfazione dei creditori.
In tale diversa prospettiva, alla quale si riferisce l’ordinanza interlocutoria, la base di riferimento delle vendite fallimentari sarebbe dunque solo quella delineata dalla norma sulla vendita propriamente procedimentalizzata, e solo in tal guisa si giustificherebbe l’effetto purgativo.
Espressione di simile differente criterio di giudizio è l’ordinanza della Prima sezione n. 23139-20 che, sebbene in tema di concordato preventivo con continuità aziendale, ha affermato che l’assegnazione dell’immobile al socio di una cooperativa, che avvenga in esecuzione di un piano gestionale teso all’ultimazione degli alloggi rimasti incompiuti, non può essere accompagnata dalla cancellazione ex art. 108 legge fall. delle iscrizioni pregiudizievoli, dal momento che i detti effetti purgativi si giustificano solo qualora la vendita si compia in esito a una procedura competitiva a evidenza pubblica secondo le regole di cui agli artt. 105 e ss. legge fall. richiamate dall’art. 182, quinto comma, legge fall., non anche quando essa sia il frutto della continuazione dell’attività di impresa.
VIII. – Occorre dire che vanamente il tribunale di Monza, da un lato, e parte della dottrina dall’altro, hanno tentato di sminuire la rilevanza di codesto precedente in esito alla citata ultima frase (“non anche quando essa sia il frutto della continuazione dell’attività di impresa”).
Si è detto che quel precedente è relativo alla liquidazione condotta in sede concordataria e in relazione alla prevista continuità aziendale (e v. peraltro anche Cass. Sez. 1 n. 30454-19); quindi vale solo per essa.
Può osservarsi che non è dubbio che il principio di diritto enunciato da Cass. Sez. 1 n. 23139-20 attenga alla situazione del concordato in continuità aziendale, il quale è istituto orientato alla prosecuzione dell’attività d’impresa a opera di chi, essendone titolare, non abbia subito lo spossessamento.
Ma è evidente che non da ciò può giustificarsi la convivenza del diversamente argomentato margine di valutazione reso da quel precedente a proposito della operatività della regola di cui all’art. 108, secondo comma, legge fall., attesa l’analogia di disciplina dettata per le modalità della cessione dei beni nel concordato dall’art. 182 legge fall. (nel rinvio agli artt. da 105 a 108-ter stessa legge).
Del resto, anche l’ordinanza interlocutoria n. 16166-23 mostra di non voler ribadire l’indirizzo assunto con la sentenza n. 3310 del 2017. Per cui è innegabile che il contrasto di giurisprudenza sussiste in modo netto presso questa Corte a proposito della coordinazione dei principi fondamentali in materia.
E in ogni caso la questione di massima è indubbiamente di particolare importanza.
IX. – Il contrasto va risolto affermando il principio per cui nel sistema della legge fallimentare l’art. 108, secondo comma, prevede il potere purgativo del giudice delegato in stretta ed esclusiva consonanza con l’espletamento della liquidazione concorsuale dell’attivo disciplinata nella Sezione II del Capo VI secondo le alternative indicate nell’art. 107, perché in essa il curatore esercita la funzione di legge secondo il parametro di legalità dettato nell’interesse esclusivo del ceto creditorio mediante gli appositi procedimenti destinati al fine; mentre è da escludere che la norma possa essere applicata – e il potere purgativo esercitato dal giudice delegato – nei diversi casi in cui il curatore agisca nell’ambito dell’art. 72, ultimo comma, legge fall. quale semplice sostituto del fallito, nell’adempimento di obblighi contrattuali da questo assunti con un preliminare di vendita.
X. – È necessario partire dalla considerazione che quanto previsto dall’art. 108, secondo comma, legge fall. trae diretto fondamento dalla funzione liquidatoria della vendita espropriativa, esattamente come accade per l’esecuzione individuale con l’art. 586 cod. proc. civ.
Ciò costituisce riflesso della natura giuridica della vendita fallimentare secondo un modello acquisito già prima della riforma.
Nel vigore del testo antecedente al d.lgs. n. 5 del 2006 la cosa era agevolmente desunta dall’art. 105 legge fall., il cui senso onnicomprensivo risaltava per l’espresso richiamo alle norme del codice di procedura civile, base dell’inquadramento delle vendite fallimentari nell’ambito delle vendite giudiziali o, come anche si dice, forzate.
In coerenza con tale inquadramento, era acquisito il principio secondo cui nella procedura fallimentare l’alienazione degli immobili non potesse avvenire che nelle forme della vendita forzata, con o senza incanto, culminante nel decreto di trasferimento, senza alcuna possibilità di una vendita a trattativa privata. E quindi che l’art. 108 legge fall. non consentisse mai la vendita di un bene immobile a trattativa privata, ma solo – si diceva comunemente – l’alienazione nelle forme della vendita forzata, con o senza incanto, che si concludono col decreto di trasferimento del bene. Era in vero considerato illegittimo il provvedimento del giudice delegato che autorizzasse una vendita non pienamente corrispondente a uno dei due tipi, con o senza incanto, espressamente previsti e disciplinati (ex multis Cass. Sez. 1 n. 5751- 93, Cass. Sez. 1 n. 3624-04, Cass. Sez. 1 n. 26954-16, Cass. Sez. 1 n. 11464-17).
XI. – È da puntualizzare che, prima della riforma attuata col lgs. n. 5 del 2006 e completata col d.lgs. n. 169 del 2007, la natura propriamente esecutiva delle vendite era un dato acquisito anche rispetto al concordato previdente la cessione dei beni, tanto da aver costituito elemento di comparazione per l’esegesi delle norme afferenti seppur declinate in relazione ai poteri del commissario.
In relazione alle vecchie norme le Sezioni Unite di questa Corte ne hanno precisato il senso rispondendo affermativamente al quesito se sia o meno possibile assoggettare a ricorso straordinario per cassazione il provvedimento con cui il tribunale abbia accolto o rigettato un reclamo proposto contro il decreto emesso dal giudice delegato in tema di vendita dei beni del debitore nella fase esecutiva del concordato preventivo con cessione.
Netta è stata l’affermazione che anche nel procedimento liquidatorio dei beni del debitore, per quanto avente in ambito concordatario un fondamento originario di natura negoziale, la vendita deve dirsi sottesa da una finalità satisfattoria dei creditori del tutto analoga a quelle della procedura esecutiva fallimentare, tanto da muoversi in un ambito di controlli pubblici del pari destinati a garantire il raggiungimento di tale finalità.
Anche la fase esecutiva del concordato per cessione dei beni – è stato precisato – deve considerarsi riconducibile “a una più vasta categoria di procedimenti di esecuzione forzata (in senso lato) al pari della procedura fallimentare”, tanto che pure la liquidazione concordataria, proprio come quella fallimentare, risulta disciplinata “da rigorose disposizioni sul cui rispetto gli organi della procedura sono chiamati a vigilare” (Cass. Sez. U n. 19506-08).
Questa correlazione è suscettibile di essere mantenuta anche dopo la riforma del diritto concorsuale del 2006-2007.
Già nella sentenza citata è stato invero rimarcato che nel contesto della riforma “nulla suggerisce che il legislatore abbia inteso modificare la natura e le caratteristiche essenziali della procedura di concordato – e tanto meno far perdere ad essa i suoi connotati originariamente negoziali in favore di un impianto pubblicistico prima non configurabile”. E al tempo stesso è stato convincentemente segnalato il carattere confermativo di una tale conclusione nelle pertinenti norme dovute al d.lgs. n. 169 del 2007, giacché pure in queste è stato oggettivato l’accostamento delle funzioni del liquidatore concordatario a quelle del curatore del fallimento.
In sostanza, e in relazione al tema che qui rileva, la riforma del diritto concorsuale del 2006-2007 si è mossa – sia per il concordato che per il fallimento – nel solco di un medesimo schema procedimentalizzato. Per riprendere le parole della citata sentenza delle Sezioni Unite, nel prescrivere che alla vendita dei beni oggetto della cessione ai creditori si debbano applicare (sia pure con la clausola della compatibilità) le disposizioni della stessa legge fall., art. 105 e seg., ivi compreso l’art. 107 in ordine alle modalità attuative, la nuova disciplina rafforza la convinzione “che la liquidazione concordataria sia, proprio come quella fallimentare, disciplinata da rigorose disposizioni sul cui rispetto gli organi della procedura sono chiamati a vigilare” (così testualmente Cass. Sez. U n. 19506-08). E tali rigorose disposizioni, senza modificare la natura e le caratteristiche essenziali della procedura di concordato, confermano la preesistente assimilabilità tra la fase esecutiva del concordato per cessione dei beni del debitore (pur con la sua origine negoziale e con le sue ovvie peculiarità) e “il procedimento di vendita coatta di detti beni” sotteso dalla vendita fallimentare propriamente intesa.
XII. – Una duplice conseguenza è possibile trarre dal sintetizzato percorso giurisprudenziale: se da un lato l’applicazione dell’art. 108 legge presuppone la cd. vendita fallimentare, dall’altro l’elemento centrale di una tale vendita è ravvisabile nella natura esecutiva (e procedimentale) della vendita coattiva (forzata); cosa data per acquisita dalla ripetuta sentenza n. 19506-08 delle Sezioni Unite al punto da farne un elemento di comparazione idoneo a coordinare (alla sua stessa stregua) le norme relative alla cessione dei beni nel concordato preventivo.
Un simile modello di ragionamento è stato contraddetto (soltanto) dalla ripetuta sentenza della Prima sezione n. 3310-17.
Codesta ha posto la base dell’estensione del concetto di vendita fallimentare oltre lo steccato delle modalità di cui all’art. 107, seppur richiamate (quelle modalità) anche per la vendita di aziende, di rami, di beni e di rapporti in blocco dall’art. 105, secondo comma, legge fall.
Tanto ha fatto riferendosi alla successiva e conseguente necessità di ammissione del creditore ipotecario al concorso, con rango privilegiato, “sull’intero prezzo pagato, ivi compreso l’acconto eventualmente versato” dal promissario acquirente.
Epperò senza che di tale e asseritamente consequenziale assunto sia individuabile un minimo riscontro sul piano normativo.
XIII. – Ora va detto che dopo la riforma del 2006-2007 l’art. 107 legge fall. disciplina le “Modalità delle vendite”, e lo fa mediante un ridimensionamento dei rinvii al processo esecutivo previsto dal codice di procedura civile.
Nel testo dell’art. 107 è oggi declinata una trama ripartibile in tre modalità di vendita, in nessuna delle quali rientra l’ipotesi (mera) della cessione per atto negoziale.
Le vendite e gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione possono essere effettuate alternativamente (i) dal curatore, ma tramite procedure competitive, (ii) dal giudice delegato, secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili, (iii) ancora secondo le disposizioni del codice di procedura civile ove il curatore decida di subentrare nelle procedure esecutive che siano pendenti alla data della dichiarazione di fallimento.
Per i fini del conseguente art. 108, la comune caratteristica delle vendite fallimentari non è stata messa in discussione nell’alveo della normativa riformata, nel senso che quanto ai provvedimenti purgativi il legislatore, anche dopo la riscrittura delle norme, ha mostrato di non voler dissociare i provvedimenti stessi dal tipo di vendita forzata presupposta, che è e resta una vendita procedimentalizzata.
E difatti nella Relazione ministeriale illustrativa si legge: “per ciò che riguarda le forme delle vendite ed i loro effetti, si è innovato molto e si è ritenuto di eliminare ogni rinvio alla disciplina del processo esecutivo individuale, fermo restando, comunque, il fondamentale effetto purgativo delle vendite forzate”.
In altre parole, la maggiore flessibilità dei parametri di riferimento non ha determinato effetti a proposito del presupposto di adozione del decreto del giudice delegato conseguente alla vendita e alla riscossione per intero del prezzo, tale essendo sempre la vendita esecutiva procedimentalizzata in funzione liquidatoria di cui alle alternative ipotesi disciplinate nell’art. 107, perché questa – e solo questa – è la “vendita forzata”.
XIV. – L’orientamento teso a ritenere l’estensione del potere del giudice delegato di ordinare la cancellazione delle ipoteche e degli altri vincoli al caso ulteriore (rispetto a quello sotteso al procedimento ex 107) della vendita effettuata dal curatore (subentrato ex lege) in adempimento del preliminare stipulato dal fallito muove da un profilo di similitudine.
Il profilo si assume rinvenibile in ciò: che l’atto di vendita (in adempimento del preliminare) sarebbe comunque posto in essere da un organo del fallimento, non proprietario del bene, né delegato a vendere dal proprietario. Donde si sarebbe in presenza di un soggetto (il curatore) che agisce mettendo in pratica un potere proprio, che gli deriva dal fallimento e che partecipa della natura del potere di liquidare il patrimonio, a prescindere dalla volontà del titolare del diritto di proprietà (il fallito).
Da questa constatazione trarrebbe forza la similitudine, perché – ancora si dice – quale che sia la forma con la quale l’alienazione si realizza, l’atto finale è pur sempre qualificabile come atto traslativo di un bene, e solo questo conta, poiché per riconoscere natura di vendita forzata alla vicenda traslativa di diritti rileva la natura del potere e non la forma del suo esercizio.
XV. – Questa conclusione così come il ragionamento che la sottende non possono essere condivisi.
La vendita effettuata dal curatore in adempimento del preliminare stipulato dal fallito non possiede natura coattiva, né funzione liquidatoria dell’attivo, neppure quando il preliminare abbia riguardato la casa di abitazione del promissario e sia stato trascritto prima del fallimento.
Nel caso disciplinato dall’art. 72, ultimo comma, legge fall. rileva il subentro del curatore nel contratto preliminare, al quale consegue (art. 72, primo comma) l’assunzione di “tutti i relativi obblighi”.
L’unica particolarità (rispetto alla disciplina del primo comma) è che il subentro, in questo caso, è obbligatorio per legge.
In tale evenienza il curatore è tenuto a eseguire la vendita; ed è tenuto anche a adempiere all’eventuale obbligazione accessoria di far conseguire il bene al promissario libero dalle ipoteche, obbligazione che sia stata assunta già dal promittente venditore.
Tutto questo, però, è l’effetto (ovvio) del subentro.
Non consente alcun accostamento con la vendita forzata perché nel caso dell’art. 72, ultimo comma, si rimane nell’ambito delle obbligazioni negoziali, anche a proposito della garanzia dell’evizione (art. 1483 cod. civ.).
Quella che legittima l’effetto purgativo discendente dall’art. 108 legge fall. è una cosa ben diversa.
Per codificare l’effetto purgativo e giungere al decreto del giudice delegato non basta l’obbligazione del curatore di stipulare una vendita come conseguenza del subentro (volontario o ex lege) in un anteriore obbligo assunto dal fallito in bonis, e neppure quella di garantire la liberazione del bene secondo la promessa fatta dal fallito medesimo.
Non basta perché l’art. 108 riguarda – in sé e per sé – la vendita esecutiva.
Codesta è la vera vendita forzata e non ogni vendita che avviene in ambito fallimentare può esser considerata tale.
L’incontestabilità di tale fatto è testimoniata dalla diversità di schema sotteso all’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Per ripetere il concetto: (i) nel caso dell’art. 72, ultimo comma, legge fall. viene in risalto il mero subentro ex lege del curatore nel preliminare stipulato dal fallito; (ii) l’atto col quale è poi eseguita la vendita resta avvinto dalla ordinaria funzione di adempimento delle obbligazioni discendenti dal preliminare; (iii) per tale ragione la vendita non costituisce un atto esecutivo di liquidazione dell’attivo fallimentare, a prescindere dal fatto che il prezzo sia stato – come emblematicamente si dice essere accaduto nella specie – versato interamente o meno, e che il curatore, in luogo del fallito, possa ottenere a sua volta il pagamento di un residuo.
Invero nemmeno quando prima del fallimento il promissario acquirente abbia versato semplici acconti può dirsi sussistere, nella vendita negoziale fatta in esecuzione del contratto preliminare, una finalità propriamente liquidatoria dell’attivo concorsuale, perché la finalità vera è sempre quella di adempiere l’obbligo a contrarre.
La funzione liquidatoria esclude di contro il vincolo negoziale, essendo l’organo fallimentare astretto all’osservanza delle (sole) modalità procedimentali dettate per il legittimo esercizio del potere di realizzazione coattiva.
XVI. – Non può allora forzarsi il concetto di “procedimentalizzazione” della vendita in nome della maggiore elasticità del sistema delineato dagli attuali 105 e seg. legge fall., così da farne un denominatore comune di una generica finalità liquidatoria.
La vendita procedimentalizzata è altra rispetto alla vendita negoziale semplicemente autorizzata dal comitato dei creditori.
La finalità liquidatoria non implica una procedimentalizzazione purchessia (del tipo di quella evincibile dall’eventuale necessità di previa autorizzazione del comitato dei creditori alla stipula di un contratto), ma la procedimentalizzazione dettata dall’art. 107 legge fall. in vista del miglior soddisfacimento delle ragioni creditorie.
Tale è la spiegazione del collegamento esistente tra l’art. 108 e l’art. 107 legge fall., anche considerando la natura necessariamente competitiva delle procedure tramite le quali deve avvenire la vendita ove non si ricorra alle alternative parimenti indicate nella norma.
Si rivela così inappropriato svilire il profilo formale della vendita forzata in nome di una presunta rilevanza dell’aspetto “sostanziale” del potere esercitato dall’organo del fallimento.
Ben vero nell’adempimento del preliminare, nel quale è subentrato, il curatore non esercita alcun potere.
A ogni modo, non si disconosce che l’art. 107 legge fall., nella riscrittura delle norme sulla vendita dei beni (art. 105 e seg.), abbia attuato il passaggio da una disciplina irrigidita dal rinvio alle norme del codice di procedura relative al processo esecutivo a una ispirata, invece, a maggiore elasticità.
Ma per quanto ciò sia vero, e per quanto la norma sia ispirata a un più elastico principio di libertà di forme, è evidente che tale libertà è perseguita alla condizione specificamente considerata, e cioè che “le vendite e gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione” siano svolti dal curatore “tramite procedure competitive”.
In altre parole, è la procedura competitiva il limite intrinseco del pur canonizzato (nel nuovo testo dell’art. 107 legge fall.) principio di libertà delle forme (e v. infatti Cass. Sez. 1 n. 22383-19, Cass. Sez. 1 n. 21007-22).
Sicché, fatte salve le concorrenti previsioni del medesimo art. 107, l’elasticità esiste – certo – ma rimane confinata all’interno del concetto di competitività.
Questa nozione (la procedura competitiva) non è astretta a uno schema predefinito, ma ai fattori ritenuti essenziali allo scopo: la stima, la pubblicità, la possibilità di gara, quali presupposti inderogabili di trasparenza e correttezza anche a salvaguardia della parità fra gli offerenti (v. Cass. Sez. 1 n. 26076-22).
Ai fini dell’effetto purgativo è perciò necessario che la vendita sia stata attivata nel senso indicato dall’art. 107, perché questo rende la vendita declinabile in senso procedimentale come atto di liquidazione dell’attivo, per effetto della messa in esecuzione di un programma di liquidazione all’esito delle conseguenti possibilità offerte dalla norma.
E poiché in situazioni del genere può discorrersi di vendita procedimentalizzata, l’art. 108 coerentemente prevede che, “una volta riscosso interamente il prezzo”, il giudice delegato ordini, con suo decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione e delle trascrizioni dei pignoramenti, dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo incidente sul bene.
XVII. – Se si tiene a mente tutto questo, è abbastanza chiaro che né la struttura giuridica del fenomeno, né la sua caratterizzazione funzionale, né l’attitudine a perseguire l’effetto pratico possono ragionevolmente confluire in un elemento di similitudine per l’ipotesi di semplice esecuzione di un contratto preliminare.
Un parallelismo del genere non è sostenibile nemmeno quando, per mero accidente, il prezzo di stipula indicato nel preliminare si riveli essere poi, in base alle peculiari condizioni di mercato, quello più vantaggioso.
La differenza resta radicale, perché il curatore, essendo la stipulazione del definitivo obbligatoria a seguito del subentro nella posizione del fallito previsto per legge, si trova a operare, ai fini del definitivo, come sostituto del fallito, non in rappresentanza della massa e a tutela delle ragioni di questa. Egli non può che vendere al prezzo indicato nel preliminare e non può recuperare in alcun modo gli acconti già versati, così che la massa resta esposta finanche all’eventualità di non ricevere proprio niente ove, come nella specie, prima del fallimento risulti che sia stato versato dal promissario l’intero prezzo.
XVIII. – Le superiori considerazioni dimostrano che, indipendentemente dal riconoscimento o meno della facoltà del curatore fallimentare di sciogliersi dal contratto, e indipendentemente dalla natura più o meno vantaggiosa della vendita, l’esecuzione del preliminare, da un lato, è sempre tecnicamente qualificabile come vendita negoziale (e non come vendita esecutiva concorsuale), e dall’altro non è in grado (ontologicamente) di garantire la realizzazione dell’effetto pratico che la vendita concorsuale persegue per il tramite della sua procedimentalizzazione.
L’atto al quale è tenuto il curatore, dopo il subentro ex lege nel preliminare, esaurisce la sua funzione nel contesto del preesistente rapporto obbligatorio, cosa che ne impedisce la ventilata comune prospettiva funzionale rispetto alla disciplina dei trasferimenti coattivi, quali che siano.
Ciò è d’altronde palpabile conseguenza del fatto che un trasferimento coattivo – come esattamente osservato in dottrina – non è mai fine a sé stesso.
Punta sempre a conseguire un fine pratico distinto, rispetto al quale semplicemente si pone come mezzo: il mezzo astrattamente più idoneo per giungere, coattivamente, ad avere ciò che è necessario alla realizzazione dei diritti patrimoniali dei creditori.
Mancando un tale requisito, cui è paradigmaticamente funzionale il procedimento che conduce alla vendita secondo l’art. 107 legge fall., non può invocarsi il successivo art. 108, e dunque non può discorrersi di potere purgativo del giudice delegato.
XIX. – Il tribunale di Monza, riprendendo argomentazioni più volte utilizzate dalla giurisprudenza di merito, ha richiamato, quale dato esegetico asseritamente rafforzativo della diversa tesi, la disciplina dell’art. 173, quarto comma, del CCII.
Questa norma, nei casi di subentro del curatore nel contratto preliminare di vendita, riconosce esplicitamente la possibilità del giudice delegato di ordinare con decreto la cancellazione delle iscrizioni pregiudizievoli.
La previsione dell’art. 173 del CCII non è applicabile al caso di specie, ratione temporis. Ma secondo il tribunale potrebbe essere impiegata quale corrispondente esegetico, a conferma della bontà dell’orientamento sostenuto in ordine al nesso tra l’art. 108 e l’art. 72, ultimo comma, legge fall.
A una simile possibilità di interpretazione evolutiva ha fatto ampio riferimento anche il procuratore generale nelle sue conclusioni.
Ed eguale associazione è stata ipotizzata dall’ordinanza interlocutoria, per il fine di verificare – s’è detto – “se ricorra un ambito di continuità tra il regime fallimentare e quello successivo e se la nuova norma sia quindi idonea a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare”, secondo le possibilità offerte dalla giurisprudenza formatasi dinanzi a queste Sezioni Unite in merito al limite e alle condizioni di rilevanza di una simile pratica (Cass. Sez. U n. 12476-20, Cass. Sez. U n. 2061-21, Cass. Sez. n. 8504-21, Cass. Sez. U n. 42093-21, e infine anche Cass. Sez. U n. 8557-23).
XX. – In verità il richiamo all’art. 173 del CCII non è risolutivo nel senso indicato dal tribunale di Monza; a tutto concedere dimostra semmai il contrario.
In ogni caso tale richiamo non è un elemento di raffronto utile sul versante esegetico perché l’effetto che si pretende finisce con l’interferire sul terreno della vigenza della legge, connesso alla sua entrata in vigore e al correlato ambito di applicazione temporale.
XXI. – L’art. 173, sebbene nella relazione di accompagnamento ne sia illustrata la finalità in termini congiunti, di tutela dell’ “interesse del promissario acquirente ad acquistare un bene libero da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli” e di risoluzione dei “contrasti giurisprudenziali in ordine alla natura – coattiva o meno – della vendita effettuata dal curatore in adempimento del contratto preliminare”, non ha revisionato la disciplina anteriormente rinvenibile nell’art. 72 legge fall. mediante una previsione di estensione mera del potere purgativo del giudice delegato.
L’art. 173 ha introdotto un precetto nuovo all’interno della disciplina degli interessi in gioco.
Il curatore può sempre sciogliersi dal contratto preliminare di vendita immobiliare anche quando il promissario acquirente abbia proposto e trascritto prima dell’apertura della liquidazione giudiziale una domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’articolo 2932 cod. civ., fermo che “lo scioglimento non è opponibile al promissario acquirente se la domanda viene successivamente accolta”.
Dopodiché, quanto alla situazione del contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ. avente a oggetto un immobile a uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale del promissario acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero un immobile a uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa del promissario acquirente, il contratto non si scioglie – dice l’art. 173 – “sempre che gli effetti della trascrizione non siano cessati anteriormente alla data dell’apertura della liquidazione giudiziale e il promissario acquirente ne chieda l’esecuzione nel termine e secondo le modalità stabilite per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi sui beni compresi nella procedura”.
In concorrenza di codeste ulteriori condizioni – la seconda del tutto innovativa – il preliminare di vendita relativo a immobili di tal genere è postulato come oggetto di un subentro ex lege.
In tal prospettiva l’art. 173, quarto comma, ha introdotto la terza, e ancor più innovativa, regola, involgente la falcidia degli acconti versati: “nei casi di subentro del curatore nel contratto preliminare di vendita, l’immobile è trasferito e consegnato al promissario acquirente nello stato in cui si trova” e “gli acconti corrisposti prima dell’apertura della liquidazione giudiziale sono opponibili alla massa in misura pari alla metà dell’importo che il promissario acquirente dimostra di aver versato”.
Come conseguenza della falcidia “il giudice delegato, una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, ordina con decreto la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo”.
XXII. – L’esito fondamentale è questo.
Da un lato, la disciplina non si pone in linea di continuità con quella della legge fallimentare, secondo l’ottica alla quale invece le citate decisioni delle Sezioni Unite hanno inteso doversi riferire il legittimo utilizzo del CCII quale dato comparativo funzionale a dirimere dubbi esistenti a proposito delle vecchie norme. Non si pone in linea di continuità perché l’art. 173 innova completamente il testo che caratterizza l’antecedente art. 72 legge fall. nel momento stesso in cui enfatizza una condizione che in quello non era data: e cioè che, non essendo gli effetti della trascrizione cessati prima dell’apertura della procedura, il promissario acquirente richieda l’esecuzione del preliminare nel termine e con le modalità per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi su beni compresi nella procedura stessa.
Dall’altro, non è vero che la previsione finale di cui al quarto comma dell’art. 173 sia confermativa della bontà dell’indirizzo giurisprudenziale sostenuto dal tribunale di Monza quanto all’art. 72 legge fall. (e all’art. 108 stessa legge).
Non è così perché l’art. 173, quarto comma, non ha previsto il potere purgativo quale semplice effetto del subentro del curatore nel contratto preliminare e della conseguente vendita.
L’art. 173 ha invece ritenuto di coniugare l’ambito delle tutele facendo perno proprio sulla necessità di garantire (per quanto parzialmente) i diritti di prelazione, tanto è vero che ha previsto il potere purgativo a valle della opponibilità alla massa degli acconti, nella misura pari alla metà dell’importo che il promissario acquirente possa dimostrare di aver versato prima dell’apertura della liquidazione giudiziale.
Nel CCII non viene in considerazione il fatto (mero) della vendita obbligatoria, e non trova diritto di cittadinanza neppure l’assunto che ogni vendita fatta in ambito concorsuale sia una vendita forzata.
Vengono in considerazione invece l’onere del promissario di conformarsi a un ben preciso schema procedimentale (la domanda di adempimento da fare con le modalità e nel termine stabilito per ordinarie le domande di accertamento dei diritti dei terzi) e il legame con la falcidia degli acconti già versati; la quale è l’unica che, sebbene limitatamente, consente di attuare un (parziale) soddisfacimento del creditore ipotecario, e che quindi permette (ancorché in questa misura) di prospettare l’effetto purgativo come sintonico alle caratteristiche effettuali di una vendita forzata.
È quindi vero che l’intervento sopra menzionato ha avuto (anche) il fine di risolvere in qualche modo il problema che interessa; ma è altrettanto vero che la soluzione è stata incentrata sulla codificazione della potestà di purgare le ipoteche (e di cancellare le iscrizioni, le trascrizioni o gli altri vincoli) come effetto di una accurata regolamentazione del tutto nuova.
XXIII. – Ora qui deve essere fatta una puntualizzazione a chiarimento.
Che il legislatore del CCII abbia inteso declinare in modo diverso il rischio dell’insolvenza quanto alla fattispecie del preliminare di vendita relativo alla casa di abitazione (o a quelle equiparate), per modo da estenderlo (parzialmente) anche al creditore ipotecario, è un fatto (per certi versi problematico, se lo si pone a paragone con la disciplina dell’esecuzione individuale) che in sé non aggiunge niente al caso di specie, e che soprattutto non può essere considerato per i fini di un’interpretazione evolutiva delle diverse previsioni della legge fallimentare del tutto silenti al riguardo.
Sono messi in gioco i limiti dell’interpretazione, ai quali il giudice è inevitabilmente astretto.
L’attività di interpretazione delle norme non può superare i limiti che si impongono nel contesto del suo svolgimento, perché sono codesti limiti a dare il senso della distinzione dei piani.
Il legislatore, fatto salvo il rispetto dei canoni costituzionali di ragionevolezza, è libero di modulare le tutele introducendo precetti nuovi; viceversa, il giudice non può che applicare al caso concreto “la legge intesa secondo le comuni regole dell’ermeneutica” (cfr. C. cost. n. 155 del 1990), per modo da disvelarne sì il corretto significato, ma purché codesto possa considerarsi insito in essa.
Questa cosa influisce sulla funzione dichiarativa della giurisprudenza – anche di legittimità – da contenere all’interno del confine proprio (v. già Cass. Sez. U n. 21095-04, Cass. Sez. U n. 4135- 19, Cass. Sez. U n. 2061-21).
L’attività di interpretazione, per quanto la si voglia dilatare in funzione “evolutiva” (e in molti casi è opportuno dilatarla in tale chiave onde superare altrimenti inaccettabili lacune dell’ordinamento), non può mai spingersi fino a superare il limite di tolleranza e di elasticità di un enunciato, ossia – come efficacemente è stato detto – del significante testuale della disposizione che il legislatore ha posto, giacché da quel significante, previamente individuato, non può che muovere la dinamica di inveramento della norma nella concretezza del suo operare.
Ecco perché insistere sulla diversa scelta operata dal CCII non è produttivo nel caso di specie.
XXIV. – Naturalmente la Corte deve farsi carico del problema che il tribunale di Monza ha rappresentato quanto alla finalità di tutela sottesa alla disciplina dell’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Si tratta di stabilire se il riferimento a una simile finalità consenta o imponga una soluzione diversa da quella fin qui indicata.
La risposta deve essere negativa.
La norma citata ha avuto (e ha) l’obiettivo di tutelare il promissario acquirente che abbia trascritto il preliminare di acquisto della casa di abitazione.
E tuttavia questa finalità rileva solo a fronte del rischio di sopravvenienza del fallimento.
Nella legge fallimentare il promissario acquirente resta tutelato dalla anteriorità della trascrizione del preliminare in vista dell’eventualità della dichiarazione di fallimento del promittente, non in rapporto alla posizione dei terzi titolari di anteriori diritti di prelazione.
La trascrizione del preliminare neutralizza quel rischio nel senso che, ai fini dell’adempimento degli obblighi discendenti dal preliminare, il fallimento è come se non ci fosse.
La tutela rispetto al creditore ipotecario è cosa diversa.
È diversa da quella presupposta dall’art. 72, e nella legge fallimentare non è considerata affatto. E non perché sussista una lacuna, ma molto semplicemente perché una simile ulteriore tutela si basa – come sempre accade nelle vendite immobiliari – sugli effetti della pubblicità costitutiva, che è materia del codice civile, non della legge fallimentare.
Ne deriva che l’anteriorità della trascrizione del preliminare secondo il regime dell’art. 2645-bis cod. civ. scongiura il rischio correlato all’eventualità del fallimento del promittente ma non può indurre a prospettare di per sé, in mancanza di una specifica previsione di legge, un’alterazione dei nessi di priorità delle iscrizioni ipotecarie già esistenti.
Quindi la ratio di tutela, sottesa all’art. 72, ultimo comma, legge fall., non è idonea a sostenere l’estensione del potere purgativo in caso di attuazione degli obblighi discendenti dal subentro del curatore nel contratto preliminare.
Né lo è il fatto che il promittente venditore, poi fallito, si sia assunto l’obbligo, col preliminare, di assicurare la liberazione del bene dalle ipoteche.
Tanto di dice avvenuto nella specie.
Ma neppure quest’obbligo, nel quale pur subentra ex lege lo stesso curatore per effetto della regola dettata dall’art. 72, ultimo comma, legge fall., sposta i termini del problema.
Esso non trasforma la vendita privatistica (e negoziale) in vendita attuata nell’alveo di un procedimento officioso finalizzato alla liquidazione dell’attivo fallimentare.
Suppone invece che ogni questione abbia a risolversi nell’ordinario operare dei rimedi privatistici, ivi compresa la garanzia per il caso di evizione (artt. 1482, ultimo comma, e 1483 cod. civ.).
XXV. – Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso della società Leviticus deve essere accolto e il decreto del tribunale di Monza cassato.
Segue il rinvio al medesimo tribunale il quale, in diversa composizione, si uniformerà al principio all’inizio esposto.
Il tribunale provvederà sulle spese del giudizio di merito.
Quelle del giudizio di legittimità possono essere interamente compensate, ravvisandosi gravi motivi della intrinseca complessità della questione di massima oggetto di contrasto.
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa al tribunale di Monza anche per le spese del giudizio di merito; compensa le spese del giudizio di cassazione.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili,
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 08 giugno 2023, n. 16166, per SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337, in tema di fallimento
SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337, in tema di fallimento
In tema di concessioni demaniali – SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736
Civile Ord. Sez. U Num. 3736 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: BERTUZZI MARIO
Data pubblicazione: 09/02/2024
O R D I N A N Z A
sul ricorso N. 16978/2017 proposto da:
Stabilimento Balneare D’Aquila s.r.l., in persona dell’amministratore unico sig. Giampaolo D’Aquila, rappresentata e difesa dall’Avvocato Silvio Pinna, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avvocato Giorgio Carta in Roma, viale Parioli n. 55.
Ricorrente
contro
Regione Autonoma della Sardegna, in persona del suo Presidente, rappresentata e difesa dagli Avvocati Andrea Secchi e Mattia Pani, elettivamente domiciliata presso l’Ufficio di rappresentanza della Regione medesima in Roma, via Lucullo n. 21.
Controricorrente
avverso la sentenza n. 435/2017 della Corte di appello di Cagliari, depositata il 26. 5. 2017.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21. 11. 2023 dal consigliere Mario Beruzzi.
Fatti di causa
Con sentenza n. 435 del 26. 5. 2017 la Corte di appello di Cagliari, accogliendo l’appello incidentale proposto dalla Regione Autonoma della Sardegna, dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in favore del giudice amministrativo, sulla domanda proposta, ai sensi dell’art. 702 bis cod. proc. civ., dallo Stabilimento Balneare D’Aquila s.r.l. nei confronti della Regione per la restituzione della somma di euro 479.998,00, corrisposta a titolo di sovracanone dal 2004 al 2012.
La società Stabilimento Balneare D’Aquila, titolare di una concessione su porzione di demanio marittimo, aveva motivato la domanda di ripetizione esponendo che il pagamento del sovracanone era stato previsto dalla Regione con determinazioni nn. 2081/D del 28. 12. 2001 e 2220/D del 29. 12. 2003, emanate ai sensi dell’art. 46 del d.P.R. n. 348 del 1979, e che tale obbligo era stato poi riprodotto nell’atto di concessione demaniale; tuttavia, su ricorso di altro concessionario, la società cooperativa Golfo degli Aranci, il Tar Sardegna, con sentenza 14. 12. 2012, n. 1122, aveva annullato ” a causa della carenza del necessario presupposto normativo o legittimazione della pretesa impositiva “ non solo il provvedimento del comune che imponeva il sovracanone ma anche i suindicati atti regionali presupposti, facendo così venire meno il titolo per ottenere la sua corresponsione.
La Regione Autonoma della Sardegna aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e l’infondatezza nel merito della domanda.
Con ordinanza del 20. 10. 2015 il Tribunale di Cagliari affermò la propria giurisdizione ma rigettò la domanda, negando ogni rilevanza alla sentenza del giudice amministrativo invocata dalla parte privata, per essere la debenza del sovracanone prevista dalla convenzione n. 1176 del 2004 stipulata dalla società attrice in sede di concessione del bene demaniale, non oggetto di impugnativa.
La Corte di appello di Cagliari, investita da appello in via principale dalla società attrice ed in via incidentale dalla Regione Autonoma della Sardegna, dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario affermando che, ai sensi dell’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., le controversie in materia di concessione di beni pubblici sottratte alla giurisdizione del giudice amministrativo e quindi sottoposte a quella del giudice ordinario sono solo quelle di contenuto meramente patrimoniale che attengono all’ammontare del canone, nelle quali non viene in rilievo l’esercizio dei poteri discrezionali spettanti alla pubblica amministrazione, mentre nel caso di specie la società concessionaria aveva contestato proprio il corretto esercizio del potere della Regione nella imposizione del sovracanone.
Per la cassazione di questa sentenza, con atto notificato a mezzo posta con invio il 28. 6. 2017, ha proposto ricorso la s.r.l. Stabilimento Balneare D’Aquila, affidandosi ad un unico motivo.
La Regione Autonoma della Sardegna ha notificato controricorso e depositato successiva memoria.
Con ordinanza interlocutoria n. 16368 del 2023, la prima Sezione di questa Corte ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per la sua trattazione da parte delle Sezioni unite.
Ragioni della decisione
1.Con l’unico motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 1), cod. proc. civ.
La ricorrente assume che la statuizione di diniego della giurisdizione del giudice ordinario adottata dalla Corte di appello è errata, non conformandosi al modello legale di ripartizione stabilito dalla disposizione di legge citata. Ciò in quanto la esponente non aveva “ affatto contestato dinanzi al Tribunale l’azione autoritativa della Regione Sardegna “, e neppure “ contestato la concessione demaniale nella parte in cui (art. 4) imponeva il pagamento del sovracanone regionale “, ma aveva “ inteso esclusivamente azionare il proprio diritto soggettivo alla ripetizione delle somme riscosse sine titulo nel corso degli anni dalla Regione Sardegna a titolo di sovracanone, a seguito e per l’effetto della declaratoria di illegittimità da parte del TAR Sardegna non sentenza n. 1122 del 14 dicembre 2012 del medesimo sovracanone e dell’efficacia erga omnes di tale sentenza “.
La causa petendi dell’azione proposta non aveva pertanto ad oggetto la contestazione dell’esercizio di poteri discrezionali dell’amministrazione concedente, bensì il diritto di ripetere quanto versato in ragione del venir meno, in forza dell’annullamento disposto dal giudice amministrativo, degli atti amministrativi che avevano imposto il sovracanone.
Si aggiunge che, come emerge chiaramente dalla lettura dell’art. 4 dell’atto di concessione demaniale, in esso non si era formato alcun accordo, neppure mediato, tra concedente e concessionario in ordine al pagamento del sovracanone, la cui imposizione era pertanto diretta conseguenza della autoritativa applicazione da parte della Regione della determinazione, ivi richiamata, n. 2220/D del 29. 12. 2003.
2. Il ricorso è fondato.
2.1. L’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., stabilisce che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “ le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche“.
Questa Corte ha chiarito che le controversie concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, riservate, in materia di concessioni amministrative, alla giurisdizione del giudice ordinario, sono solo quelle con un contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo, cioè, il potere d’intervento della Pubblica Amministrazione a tutela di interessi generali; quando, invece, la controversia coinvolge la verifica dell’azione autoritativa della P.A. sull’intera economia del rapporto concessorio, la medesima è attratta nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo.
Sulla base di questo criterio distintivo è stato più volte sottolineato che ricorre la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della legittimità del provvedimento di determinazione del canone di concessione, in relazione al quale è ravvisabile un potere discrezionale della amministrazione concedente (Cass. Sez. un. 16459 del 2020; Cass. Sez. un. n. 11687 del 2020; Cass. Sez. un. n. 13903 del 2011; Cass. Sez. un. n. 15644 del 2010 ).
2.2. Ai sensi dell’art. 5 cod. proc. civ. si desume che la giurisdizione si determina sulla base della domanda, avuto riguardo al c.d. petitum sostanziale ed alla causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio ed individuata dal giudice stesso con riguardo ai fatti allegati ( Cass. Sez. un. n. 21677 del 2013; Cass. Sez. un. n. 10375 del 2007; Cass. Sez. un. n. 17461 del 2006 ). In sede di applicazione dell’art. 133 cod. dir. amm. il riparto della giurisdizione deve pertanto prendere in considerazioni le ragioni che il concessionario pone a fondamento della propria pretesa riguardante il canone concessorio.
Nel caso di specie, la società concessionaria ha avanzato la sua domanda di restituzione dei sovracanoni versati deducendo che essi erano stati previsti nell’atto concessorio senza che si fosse formata sul punto alcuna convenzione o accordo tra le parti, in virtù della mera applicazione ed esecuzione delle determinazioni regionali sopra menzionate e che, essendo esse state annullate con efficacia erga omnes dal Tar Sardegna, era venuto meno il titolo in forza del quale l’Amministrazione concedente potesse trattenere le somme versate. La pretesa azionata in giudizio va pertanto qualificata come domanda di ripetizione di indebito per sopravvenuta mancanza del titolo, fondata sull’efficacia ultra partes dell’invocato giudicato amministrativo di annullamento.
L’esame dei fatti costitutivi dell’azione dedotti dalla società attrice porta a ritenere che la presente controversia sia annoverabile tra quelle a contenuto patrimoniale aventi a oggetto le indennità i canoni o gli altri corrispettivi, devolute al giudice ordinario.
Ed invero l’azione si fonda non già sulla contestazione della legittimità dei provvedimenti che hanno imposto la prestazione che si assume non dovuta, bensì sulla mera richiesta di accertare che gli stessi sono venuti meno in forza di un giudicato amministrativo. Ciò che viene eccepito non è quindi un non corretto esercizio dei poteri discrezionali spettanti alla amministrazione concedente, prodromo al sindacato tipico del giudice amministrativo, ma la loro inefficacia ai fini della regolamentazione del rapporto di concessione. La domanda ha quindi ad oggetto la tutela di un diritto soggettivo patrimoniale a fronte della dedotta inesistenza del potere del concedente di imporre la corresponsione di una prestazione pecuniaria aggiuntiva a titolo di canone, esercitabile come tale dinanzi al giudice ordinario ( Cass. Sez. un. n. 13193 del 2018; Cass. Sez. un. n. 2295 del 2014 ). Mentre, è da aggiungere, appartengono al merito della controversia e non sono pertanto scrutinabili in sede di decisione sulla giurisdizione, le questioni inerenti alla estensione dell’efficacia del dedotto giudicato amministrativo al rapporto in essere tra le parti ed alla ricostruzione della regolamentazione dello stesso alla luce delle clausole e condizioni presenti nell’atto di concessione.
3. Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche a liquidare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; rinvia la causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche a liquidare le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite il 21 novembre
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 09 giugno 2023, n. 16368, per SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736, in tema di concessioni demaniali
SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736, in tema di concessioni demaniali
In tema di appalti pubblici – SS.UU, 29 febbraio 2024, n. 5441
Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Civile Ord. Sez. U Num. 5441 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: FALABELLA MASSIMO
Data pubblicazione: 29/02/2024
Oggetto
REGOLAMENTI
DI GIURISDIZIONE
R.G.N. 12066/2023
Cron.
Rep.
Ud. 05/12/2023
CC
ORDINANZA
sul ricorso 12066-2023 proposto da:
Geko s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gerolamo Taccogna e Luigi Cocchi;
– ricorrente –
contro
Sacyr Industrial SL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, piazza d’Ara Coeli 1, presso lo studio legale Osborne Clarke, rappresentata e difesa dagli avvocati Giorgio Lezzi e Federico Banti;
nonché contro
Iren Acqua s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avvocati Daniela Anselmi, Alessio Anselmi e Paolo Canepa;
– controricorrenti –
nonchè contro
Depuracion de Aguas del Mediterraneo SL, Infratech Consorzio Stabile s.c. a r.l.;
– intimate –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 796/2022 del TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE di GENOVA.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/12/2023 dal Consigliere MASSIMO FALABELLA;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale MAURO VITIELLO, il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso e l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario.
FATTI DI CAUSA
1. ― Iren s.p.a., quale stazione appaltante, ha espletato per Iren Acqua s.p.a. una procedura di gara per l’aggiudicazione dell’appalto relativo alla progettazione e realizzazione di un nuovo depuratore delle acque di scarico nell’area centrale di Genova.
L’appalto è stato aggiudicato a un raggruppamento temporaneo di imprese con mandataria Sacyr Industrial SL e mandanti Geko s.p.a., Depuracion de Aguas del Mediterrano SL – DAM S.L. e Infratech Consorzio Stabile s.c. a r.l.
L’aggiudicazione è stata impugnata innanzi al TAR della Liguria da parte di Veolia Water Technologies Italia s.p.a. che, quale mandataria di altro raggruppamento di imprese, era risultata seconda classificata in esito alla gara. Veolia ha lamentato che Sacyr Industrial avesse perso i requisiti di partecipazione e che, quindi, l’aggiudicazione ad essa ed al suo raggruppamento fosse illegittima.
Prima che tale ricorso fosse deciso, Iren s.p.a. ha revocato l’aggiudicazione al raggruppamento di imprese di cui era mandataria Sacyr, con un atto che non è stato impugnato.
Ha fatto seguito una nuova aggiudicazione a Veolia ed al suo raggruppamento.
2. ― Con successivo ricorso Iren Acqua ha agito innanzi al TAR della Liguria nei confronti di Sacyr e delle mandanti. Ha domandato, in particolare, la declaratoria del diritto della ricorrente al risarcimento dei danni derivanti dalla mancata stipula del contratto (visto che l’appalto era stato definitivamente aggiudicato al raggruppamento di imprese facente capo a Veolia a un corrispettivo superiore) e la conseguente condanna delle convenute, nonché, in via subordinata, l’accertamento del proprio diritto ad ottenere il pagamento della somma dovuta per cauzione, con relativa condanna.
Geko, Sacyr e le altre imprese del raggruppamento aggiudicatario, in origine, dell’appalto, si sono costituite, resistendo al ricorso ed eccependo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
3. ― Prima dell’udienza pubblica fissata per la discussione del ricorso Geko ha proposto un regolamento preventivo di giurisdizione.
Avanti a questa Corte hanno rassegnato difese Iren Acqua e Sacyr. Il Pubblico Mistero ha concluso chiedendo la declaratoria di giurisdizione del giudice ordinario. Sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. ― La ricorrente assume che l’azione di controparte avrebbe dovuto essere proposta avanti al giudice ordinario. Deduce, in sintesi, che la controversia non inerisce alla fase pubblicistica della gara ma a una fase precontrattuale, in cui i contendenti si trovavano su di un piano di assoluta parità.
2. ― Il ricorso per regolamento è fondato.
Come è noto, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva il petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione (Cass. Sez. U. 31 luglio 2018, n. 20350; cfr. pure, tra le tante: Cass. Sez. U. 7 settembre 2018, n. 21928; Cass. Sez. U. 15 settembre 2017, n. 21522; Cass. Sez. U. 11 ottobre 2011, n. 20902).
Col ricorso al TAR della Liguria Iren Acqua ebbe a fondare le proprie pretese di risarcimento del danno e di incameramento della cauzione provvisoria sulla mancata stipula del contratto per fatto imputabile all’aggiudicataria, la quale, a suo avviso, aveva mancato di adempiere l’obbligo di mantenere per tutta la durata della procedura il possesso dei requisiti dichiarati, oltre che di informare l’Amministrazione del venir meno di tali requisiti (pag. 11 dell’atto in questione). L’odierna ricorrente fece dunque valere una responsabilità precontrattuale della controparte.
Ciò detto, il fatto che le domande proposte presentassero un collegamento con una procedura di evidenza pubblica ─ posto che, come si è visto, il raggruppamento di imprese di cui era mandataria Sacyr risultò aggiudicatario dell’appalto e proprio in conseguenza della condotta delle imprese risultate vincitrici della gara l’odierna istante intese procedere alla revoca dell’aggiudicazione ─ non appare decisivo ai fini che qui interessano.
Non rileva, in particolare, che abbia avuto luogo l’aggiudicazione, e nemmeno che si sia provveduto alla revoca della stessa, dal momento che il giudizio non verte sull’accertamento della legittimità o illegittimità di tali atti.
E’ da ricordare, in linea generale, che ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, le norme che attribuiscono al giudice amministrativo la giurisdizione in particolari materie ― nella specie che qui interessa: l’art. 133, lett. e1), c.p.a., in tema di procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture ― si devono interpretare nel senso che non vi rientra ogni controversia che in qualche modo riguardi una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva, non essendo sufficiente il dato della mera attinenza della controversia con la materia, ma soltanto le controversie che abbiano ad oggetto, in concreto, la valutazione di legittimità di provvedimenti amministrativi che siano espressione di pubblici poteri (Cass. Sez. U. 25 febbraio 2011, n. 4614).
In fattispecie analoga a quella in esame, in cui veniva in questione la decadenza di un’aggiudicazione per mancata consegna di tutta la documentazione amministrativa necessaria ai fini della stipulazione del contratto, queste Sezioni Unite si sono pronunciate nel senso che la vicenda attinente alla scelta dell’aggiudicatario contraente nella procedura ad evidenza pubblica rimaneva sullo sfondo rispetto alla controversia risarcitoria introdotta dalla stazione appaltante, la quale aveva lamentato il comportamento precontrattuale illecito della società aggiudicataria domandando il risarcimento dei danni derivati dalla mancata stipula del contratto e dalla assegnazione del servizio, con scorrimento della graduatoria, all’impresa seconda classificata, a condizioni ritenute peggiorative per la medesima committente. In tal senso si è ritenuto che la domanda non inerisse alla fase pubblicistica della gara, ma a un ambito precontrattuale, in cui le parti di trovavano su un piano di perfetta parità (Cass. Sez. U. 4 gennaio 2023, n. 111, non massimata in CED).
Le stesse considerazioni possono svolgersi con riguardo alla presente lite, nella quale non è implicato, come si è detto, alcun giudizio circa la legittimità dell’esercizio di potestà pubblicistiche.
Infatti, una volta appurato che la proposta domanda si fonda, come si è visto, sulla prospettata responsabilità precontrattuale di Sacyr, la quale aveva taciuto il venir meno di alcune condizioni richieste per addivenire alla conclusione del contratto, deve trovare applicazione il principio per cui la domanda di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale proposta da una stazione appaltante nei confronti del soggetto affidatario di lavori o servizi pubblici appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di richiesta afferente non alla fase pubblicistica della gara ma a quella prodromíca, nella quale si lamenta la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza: in tale ipotesi, infatti, il giudice predetto è chiamato a decidere di una controversia avente ad oggetto un diritto soggettivo la cui lesione sia stata non conseguente, bensì soltanto occasionata da un procedimento amministrativo di affidamento di lavori o servizi (Cass. Sez. U. 4 luglio 2017 n. 16419; in tema cfr. pure Cass. Sez. U. 17 giugno 2021, n. 17329).
Né assume rilievo, ai presenti fini, la modifica dell’art. 124 c.p.a.. Quale che sia la portata di tale norma, invocata da Iren Acqua, è certo che, ratione temporis, essa non possa regolare la giurisdizione della presente causa. Infatti, l’art. 209 d.lgs. n. 36/2003, con cui è stato modificato il cit. art. 124, ha acquistato efficacia il 1 luglio 2023: dopo, quindi, l’introduzione del giudizio avanti al TAR.
3. ─ Le spese del regolamento sono rimesse al merito.
P.Q.M.
La Corte
dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; rimette al giudizio di merito le spese del regolamento di giurisdizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 29 febbraio 2024, n. 5441, in tema di appalti pubblici
In tema di responsabilità dell’amministratore – SS.UU, 12 ottobre 2011, n. 20941
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
Giurisdizione
e società
R . G . N . 21337/2010
Cron. 20941
Rep. CI
Ud. 27/09/2011
CC
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAOLO VITTORIA – Primo Pres.te f. f. –
Dott. FERNANDO LUPI – Presidente di Sezione –
Dott. MAURIZIO MASSERA – Consigliere –
Dott. RENATO RORDORF – Rel. Consigliere –
Dott. ALDO CECCHERINI – Consigliere –
Dott. ALFONSO AMATUCCI – Consigliere –
Dott. SALVATORE DI PALMA – Consigliere –
Dott. GIOVANNI AMOROSO – Consigliere –
Dott. STEFANO PETITTI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 21337-2010 proposto da:
DE CAPITANI STEFANO, elettivamente domiciliato in ROMA, V1A PACUVIO 34, presso lo studio dell’avvocato ROMANELLI GUIDO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FUSCO RENATO, per delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE REGIONALE PRESSO LA SEZIONE GIURISDIZIONALE DELLA CORTE DEI CONTI DEL FRIULI VENEZIA GIULIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BAIAMONTI 25;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 12855/2010 della CORTE dei CONTI per il FRIULI VENEZIA GIULIA;
udito l’avvocato Renato FUSCO;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/09/2011 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott. Maurizio VELARDI, il quale chiede che la Corte, in camera di consiglio, dichiari la giurisdizione del giudice ordinario.
Premesso in fatto che:
– il Procuratore regionale presso la Sezione della Corte dei conti della Regione Friuli Venezia Giulia ha citato in giudizio dinanzi a detta sezione il sig. Stefano De Capitani, amministratore delegato della INSIEL s.p.a., società partecipata interamente dalla regione, chìedendone la condanna al pagamento di euro 232.000;
– la domanda muove dal presupposto che, senza necessità alcuna e quindi illegittimamente, il sig. De Capitani, nella suindicata veste, ha stipulato con un proprio predecessore un contratto di consulenza per effetto del quale la società partecipata dalla regione ha dovuto erogare un ingiustificato corrispettivo subendo quindi un corrispondente danno;
– il sig. De Capitani ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, illustrato poi anche con memoria, sostenendo che la vertenza esula dalla competenza giurisdizionale della Corte dei conti; nel medesimo senso ha concluso anche il Procuratore generale.
Considerato in diritto che:
– si ritiene di dover dare continuità all’orientamento da ultimo manifestato dalle sezioni unite di questa corte nelle pronunce n. 14957/ 1 1, n. 14655/11, n. 16286/10, n. 8429/ 10, n. 519/10 e n. 26806/09, pur essendosi registrate anche alcune decisioni di segno parzialmente diverso (si vedano, ad esempio, le pronunce n. 10062/ 11 e n. 10063/11), che appaiono però giustificate dalla specificità delle singole fattispecie e che, comunque, non sembrano fondate su un compiuto riesame critico delle argomentazioni poste a base dell‘orientamento sopra richiamato;
– in particolare, appare decisivo il rilievo secondo cui, quando l’amministrazione per l’espletamento di propri compiti istituzionali si avvale di società di diritto privato da essa partecipate, l’esistenza di un rapporto di servizio idoneo a fondare la giurisdizione del giudice contabile può essere configurata in capo alla società, ma non anche personalmente in capo ai soggetti (organi o dipendenti) della stessa, essendo questa dotata di autonoma personalità giuridica;
– del pari non sembra superabile il rilievo secondo cui, sempre per effetto della distinta personalità di cui la società è dotata e della sua conseguente autonomia patrimoniale rispetto ai propri soci (e, quindi, rispetto all’ente pubblico partecipante), i danni eventualmente ad essa cagionati dalla mala gestio degli organi sociali o comunque da atti illeciti imputabili a tali organi o a dipendenti non integrano gli estremi del cosiddetto danno erariale, in quanto si risolvono in un pregiudizio gravante sul patrimonio della società, che è un ente soggetto alle regole del diritto privato, e non su quello del socio pubblico;
– la circostanza che l’ente pubblico partecipante possa tuttavia risentire del danno inferto al patrimonio della società partecipata, quando esso sia tale da incidere sul valore o sulla redditività della partecipazione, può eventualmente legittimare un‘azione di responsabilità della procura contabile nei confronti di chi, essendo incaricato di gestire tale partecipazione, non abbia esercitato i poteri ed i diritti sociali spettanti al socio pubblico al fine d’indirizzare correttamente l’azione degli organi sociali o di reagire opportunamente agli illeciti da questi ultimi perpetrati, ma non consente di saltare a pie’ pari la distinzione tra patrimonio della società e patrimonio dell’ente partecipante né, quindi, di investire la Corte dei conti con un‘azione di responsabilità per danno erariale quando il danno dedotto si riferisce al patrimonio sociale e non direttamente a quello del socio pubblico;
– nel caso di specie, pertanto, non appaiono ravvisabili i presupposti per affermare la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti, trattandosi di una controversia per risarcimento del danno subito da una società per a2ioni, partecipata da un ente pubblico ma operante in regime di diritto privato, in conseguenza di atti di mala gestio imputati al suo amministratore.
P.q.m.
La corte, pronunciando sul ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario.
Cosi deciso, in Roma, il 27 settembre 2011
Il Presidente
Allegati:
SS.UU, 12 ottobre 2011, n. 20941, in tema di responsabilità dell’amministratore
In tema di responsabilità dell’amministratore – SS.UU, 12 ottobre 2011, n. 20940
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
Giurisdizione
e società
R . G . N . 1644/2011
Cron. 20340
Rep. 8564
Ud. 27/09/2011
PU
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAOLO VITTORIA – Primo Pres.te f. f. –
Dott. FERNANDO LUPI – Presidente di Sezione –
Dott. MAURIZIO MASSERA – Consigliere –
Dott. RENATO RORDORF – Rel. Consigliere –
Dott. ALDO CECCHERINI – Consigliere –
Dott. ALFONSO AMATUCCI – Consigliere –
Dott. SALVATORE DI PALMA – Consigliere –
Dott. GIOVANNI AMOROSO – Consigliere –
Dott. STEFANO PETITTI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 1644-2011 proposto da:
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE DEI CONTI, elettivamente domiciliato in ROMA, VTA BAIAMONTI 25;
– ricorrente –
contro
PULEO GIOVANNI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIA COLONEA,32, presso lo studio dell’avvocato BONACCORSI DI PATTI DOMENICO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato STAGNO D’ALCONTRES ALBERTO, per delega in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 201/2010 della CORTE CONTI – Sezione Giurisdizionale d’Appello per la regione SICILIA – PALERMO, depositata il 30/07/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/09/2011 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;
udito l’Avvocato Domenico BONACCORSI DI PATTI;
udito iI P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. RAFFAELE CENICCOLA, che ha concluso per la giurisdizione della Corte dei conti.
Svolgimento del processo
Con atto depositato il 19 gennaio 2009 il Procuratore regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana citò in giudizio dinanzi a detta sezione il sig. Giovanni Puleo riferendo che, a seguito di una convenzione stipulata dal competente assessorato regionale con il locale comitato della Croce Rossa italiana (in prosieguo indicata come CRI), quest’ultima aveva affidato il servizio di trasporto sanitario d‘urgenza ad una società interamente partecipata dalla stessa CRI, denominata Siciliana Servizi Emergenza s.p.a. (in prosieguo SISE). Il sig. Puleo, col voto espresso nell‘assemblea della SISE in veste di rappresentante della socia unica CRI, aveva determinato l’attribuzione dell‘incarico di revisore contabile di detta società ad un soggetto privo dei requisiti di eleggibilità prescritti dagli artt. 2399 e 2409-quinquies c.c. Pertanto, il Procuratore regionale chiese che il medesimo sig. Puleo fosse condannato, in faVore della Regione Sicilia o, in subordine, della SISE, al risarcimento del danno, commisurato agli emolumenti indebitamente corrisposti al revisore ineleggibile.
L’adita sezione regionale accolse la domanda proposta in Via subordinata e condannò il convenuto a risarcire il danno subito dalla SISE, liquidato in euro 22.009,43.
Chiamata a pronunciarsi sulI’impugnazione principale, proposta dal sig. Puleo, e su quella incidentale, proposta dal procuratore generale, la Sezione g iurisdizionale d’appello della Corte dei conti presso la Regione Siciliana dichiarò il proprio difetto di giurisdizione, osservando che non risultava alcun rapporto di servizio direttamente intercorso tra la Regione e la SISE, società di diritto privato danneggiata daII’operato del sig. Puleo, onde l’azione risarcitoria avrebbe dovuto essere promossa dinanzi al giudice ordinario.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il Procuratore generale presso la Corte dei conti, chiedendo che sia affermata la competenza giurisdizionale del giudice contabile.
Il sig. Puleo ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Il Procuratore geneFale presso la Corte dei conti censura l’impugnata sentenza per violazione dell‘art. 1 della legge n. 20 del 1994, in relazione all‘art. 103, secondo comma, cost.
Egli muove dal presupposto che risulti irrilevante, ai fini del riparto di giurisdizione, discutere se il soggetto danneggiato dalI’iIIegittimo comportamento del sig. Puleo sia la Regione, da cui provengono i fondi pubblici occorrenti per la copertura finanziaria del servizio di trasporto sanitario d’urgenza gestito dalla CRI attraverso la partecipata SISE, oppure se sia stata quest’ultima ad essere danneggiata dalla nomina di un revisore ineleggibile. Essendo il capitale di detta società interamente in mano al socio pubblico CRI, è infatti pur sempre denaro pubblico quello che è stato mal speso per remunerare il summenzionato revisore. Insiste poi il ricorrente nel sostenere che tra l’ente regionale e la SISE, per il tramite della CRI, intercorse un rapporto di servizio, ravvisabile in ogni ipotesi di relazione funzionale tra la pubblica amministrazione ed il soggetto privato al quale siano stati affidati compiti istituzionali facenti capo all‘amministrazione medesima, della quale la SISE costituirebbe un ente strumentale, o organo indiretto, essendo sovvenzionata e controllata dalla Regione Siciliana. Né potrebbe sostenersi che il rapporto di servizio fa capo alla società, ma non al sig. Puleo, dovendosi in contrario ritenere che I‘instaurazione di un tale rapporto si verifichi con chiunque, in seno alla società, ponga in essere i presupposti per la distrazione del denaro pubblico dal fine per cui è stato erogato. Del resto, il sig. Puleo — osserva ancora il ricorrente – era un dipendente dell’ente pubblico CRI ed in tale veste ha partecipato all‘assemblea della società partecipata, determinandone col proprio voto l’esito illegittimo, sicché la giurisdizione della Corte dei conti troverebbe qui fondamento pure nella previsione del quarto comma del citato art. 1 della Iegge n. 20/94, che tale giurisdizione estende alla responsabilità per i danni cagionati dal dipendente anche ad amministrazioni o ad enti diversi da quelli di appartenenza.
2. Le sezioni unite sono intervenute ripetutamente, negli ultimi anni, sul tema del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice contabile nelle controversie aventi ad oggetto la responsabilità di organi o dipendenti di società a partecipazione pubblica.
Il tema è stato particolarmente approfondito nella sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806, la quale ha affermato che spetta al giudice ordinario la giurisdizione sull‘azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amminìstratori o dei dipendenti, non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo aIl‘autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l’agente e l’ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. La giurisdizione di quest‘ultima sussiste, invece, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti di dette società i cui comportamenti abbiano compromesso la ragione stessa della partecipazione sociale dell‘ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l’impiego di risorse pubbliche, così da arrecare pregiudizio al patrimonio del socio pubblico direttamente e non come mero riflesso del danno al patrimonio sociale; e sussiste altresì, nei confronti del Fappresentante dell‘ente partecipante (o comunque del titolare del potere dì decidere per esso) che abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione.
Tale orientamento è stato poi seguito dalla prevalente giurisprudenza (si vedano, tra le altre, le pronunce delle sezioni unite n. 14957/11, n. 14655/1 1, n. 16286/10, n. 8429/10, e n. 519/ 10), pur essendosi registrate anche alcune decisioni di segno parzialmente diverso (ad esempio, le pronunce n. 10062/11 e n. 10063/1 1), che appaiono però giustificate dalla specificità delle singole fattispecie e che, comunque, non sembrano fondate su un compiuto riesame critico delle argomentazioni poste a base dell’orientamento sopra richiamato.
A siffatto orientamento giova fare riferimento anche nel caso in esame, poiché neppure i rilievi contenuti nel ricorso valgono a porne in discussione i presupposti logici e giuridici, essenzialmente fondati sulla non superabile dìstinzione della personalità giuridica della società partecipata tanto da quella del socio partecipante, che dunque non è il diretto titolare del patrimonio sociale e non è perciò direttamente danneggiato dal pregiudizio eventualmente arrecato a detto patrimonio, quanto da quella degli organi e dei dipendenti della società medesima, ai quali quindi non si estende automaticamente il rapporto di servizio che sotto il profilo funzionale lega la società alla pubblica amministrazione.
2.1. Ciò posto, e venendo alla vicenda in esame, giova sottolineare che qui l’azione di responsabilità è stata esercitata dalla procura contabile non già nei confronti di un organo o di un dipendente della società per azioni partecipata dalla CRI, bensì nei confronti di colui il quale aveva rappresentato la medesima CRI nell‘assemblea di detta società, determinando col proprio voto la nomina illegittima di un revisore contabile, con un conseguente ingiustificato pregiudizio per il patrimonio sociale.
L’individuazione del rapporto di servizio, quale presupposto della giurisdizione del giudice contabile, si pone quindi in termini diversi da quelli che ricorrono in caso di azione esercitata nei confronti di organi sociali accusati di mala gestio. Il soggetto passivo dell’azione in esame è, infatti, pacificamente un dipendente della CRI, o comunque un incaricato da essa di svolgere una funzione inerente ai suoi compiti istituzionali. Non occorre perciò ipotizzare che il rapporto di servizio facente capo al sig. Puleo sia mediato da quello che funzionalmente lega alla pubblica amministrazione o ad altro ente pubblico la società cui è stata demandata la gestione del serViziO di trasporto sanitario d’emergenza, esponendosi così però alI‘obiezione che un siffatto rapporto, per le ragioni già sopra dette, non potrebbe trasferirsi in capo agli amministratori della società e, tanto meno, ai soci o a chi li rappresenta in assemblea. Il rapporto di servizio discende qui invece, in modo immediato e diretto, dalla circostanza che il medesimo sig. Puleo era inquadrato nel personale della CRI e che questa ha statuto di ente pubblico (non economico).
Appare perciò indiscutibile che il dipendente ben possa esser c:hiamato a rispondere dinanzi al giudice contabile del danno eventualmente cagionato nell‘esercizio delle proprie mansioni.
2.2. L‘attenzione va spostata, allora, proprio sull‘elemento del danno, per esaminare il quale si rende però necessaria una premessa.
Nell‘esercitare l’azione di responsabilità di cui si discute, il procuratore contabile ha formulato due domande: la prima, proposta in via principale, mirava al risarcimento del danno subito dalla Regione Siciliana; la seconda, subordinata, aveva invece riguardo al danno patito dalla società SISE. Essendosi concluso il giudizio di primo grado con l’accoglimento della domanda subordinata ed avendo il sig. Puleo proposto appello, il medesimo procuratore ha formulato a propria volta un gravame incidentale insistendo perché la condanna al risarcimento deì danni fosse pronunciata in favore dell’amministrazione regionale. La Sezione giurisdizionale d’appello, nella motivazione della sentenza in questa sede impugnata, ha prima ipotizzato l’inammissibilità di tale gravame incidentale, per difetto del requisito della soccombenza (sentenza cit., pag. 9), ma ha poi proceduto ugualmente ad esaminare la domanda di risarcimento per il danno subito dalla Fegione, distintamente dalla domanda di risarcimento del danno in favore della SISE, concludendo per il proprio difetto di giurisdizione al riguardo (sentenza cit., pag. 12), ed il dispositivo registra unicamente quest‘ultima statuizione. Sembra potersene desumere che l’ipotizzata inammissibilità del gravame incidentale per difetto di soccombenza abbia avuto, nell’econc›mia della decisione d’appello, il valore di un mero obiter dictum, poiché non si comprenderebbe altrimenti la ragione dell‘esame della questione di giurisdizione negli ampi termini sopra riferiti, né il fatto che solo la declinatoria della giurisdizione abbia poi trovato spazio nel dispositivo.
Il tema della giurisdizione va quindi esaminato avendo riguardo all’intera estensione delle domande originariamente proposte.
2.21. S’è detto sopra che non compete al giudice contabile di pronunciarsi su un danno inferto al patrimonio di una società per azioni, che resta un soggetto di diritto privato pur quando sia partecif›ata da un ente pubblico. Fa eccezione l’ipotesi in cui si tratti di una società di diritto speciale, soggetta ad un regime normativo che, al di là della veste esteriore di società azionaria, valga ad assimilarla ad un vero e proprio ente pubblico (come nel caso della RAI: cfr. Sez. un. n. 27092 del 2009). Ma un tale regime speciale non si ravvisa, quanto alla SISE, che è interamente regolata dalla Iegge comune; né giova richiamarsi in proposito ai finanziamenti erogati in favore di detta società dalla Regione Siciliana ed ai controlli da quest’ultima esercitati: poiché ciò si colloca su un piano meramente convenzionale, che non è idoneo ad incidere sulla natura giuridica privata dell‘ente, così come non vi incide la circostanza che il suo azionariato sia costituito da un unico socio pubblico, nulla ovviamente escludendo che possa formarsi in avvenire una compagine sociale più ampia e diversamente composta, senza che ne risultino modificate la struttura e la natura giuridica della società.
La conseguenza è che, in base ai principi già dianzi richiamati, deve essere certamente esclusa la giurisdizione contabile in ordine all’azione proposta per il ristoro del danno subito dal patrimonio della SISE, società per azioni di diritto privato, in conseguenza del voto espresso in assemblea dal rappresentante del socio pubblico CRI.
2.2.2. L‘azione, come s’è detto, è stata però proposta anche facendo riferimento al danno subito dal medesimo socio pubblico, la CRI, e da questo traslato a carico dell’amministrazione regionale. Ovviamente, lo stabilire se siffatta prospettazione sia o meno fondata attiene al merito, ed esula perciò dal presente giudizio di legittimità, circoscritto al tema della Proprio in punto di giurisdizione va allora richiamata una considerazione già espressa dalle sezioni unite nella citata sentenza n. 26806 del 2009, ove è stato posto bene in luce come sia certamente prospettabile l‘esercizio dell‘azione risarcitoria dinanzi al giudice contabile nei confronti del rappresentante dell‘ente, titolare di una partecipazione in una società di capita li, il quale abbia colpevolmente trdscurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione. In quella sentenza quest‘argomentazione – specificamente riferita all’ipotesi del mancato esercizio dei poteri del socio nel proporre egli stesso l’azione sociale di responsabilità contro gli organi sociali — aveVa essenzialmente lo scopo di rafforzare la conclusione negativa in ordine alla giurisdizione contabile riferita al ristoro del danno subito dalla società, servendo a dimostrare che detta conclusione non provoca un‘illogica lacuna nella tutela dell’interesse pubblico. Qui, invece, la medesima argomentazione assume una valenza decisiva, perché proprio di questo si tratta: del rappresentante del socio pubblico accusato di aver esercitato i diritti e le facoltà inerenti alla partecipazione sociale in modo non conforme al dovere di diligente cura del valore di tale partecipazione, che si sostiene esserne stata perciò pregiudicata. Entro questi limìti, sussiste quindi la giurisdizione contabile e l’impugnata sentenza deve essere perciò cassata, con rinvio alla Sezione giurisdizionale d’appello della Regione siciliana (in diversa composizione), che procederà ad esaminare nel merito la sola domanda di risarcimento dei danni asseritamente provocati dal sig. Puleo alla Regione Sicilia col comportamento da lui tenuto, quale rappresentante della Croce Rossa Italiana, nell’assemblea della società da quest‘ultima partecipata.
P.Q.M.
La corte, pronunciando a sezioni unite, accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, dichiara la giurisdizione della Corte dei conti limitatamente alla domanda di risarcimento dei danni asseritamente provocati dal sig. Puleo alla Regione Sicilia col comportamento da lui tenuto, quale rappresentante della Croce Rossa Italiana, nell’assemblea della società Siciliana Servizi Emergenza s.p.a., cassa l’impugnata sentenza in relazione al profilo di censura accolto e rinvia la causa alla Sezione giurisdizionale d’appello della Regione siciliana
Così deciso, in Roma, il 27 settembre 2011.
L’estensore
(Renato Rordorf)
Il presidente
(Paolo Vittoria)
Allegati:
SS.UU, 12 ottobre 2011, n. 20940, in tema di responsabilità dell’amministratore
In tema di responsabilità dell’amministratore – SS.UU, 19 dicembre 2009, n. 26806
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
S.P.A. e
giurisdizione
Corte de Conti
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VINCENZO CARBONE – Primo Presidente –
Dott. SALVATORE SENESE – Presidente di Sezione –
Dott. ANTONINO ELEFANTE – Presidente di Sezione –
Dott. GUIDO VIDIRI – Consigliere –
Dott. MASSIMO ODDO – Consigliere –
Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO – Consigliere –
Dott. ANTONIO SEGRETO – Rel. Consigliere –
Dott. SALVATORE SALVAGO – Consigliere –
Dott. FABRIZIO FORTE – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C. A. , elettivamente domiciliato in ROMA.
– ricorrente –
contro
A. V. , elettivamente domiciliato in ROMA
– controricorrente e ricorrente incidentale –
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE DEI
– controricorrente –
nonchè contro
PROCURATORE REGIONALE PRESSO LA CORTE DEI CONTI PER LA LOMBARDIA, C. G., G. L., S.P.A., S.P.A., S.P.A.;
– intimati –
sul ricorso proposto da:
C G, elettivamente domiciliato in ROMA
ricorrente
contro
A. V), elettivamente domiciliato in ROMA
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MIEITERO PRESSO LA CORTE DEI CONTI IN ROMA,
– controricorrente –
nonchè contro
PROCURATORE REGIONALE CORTE DEI CONTI LOMBARDIA, C.A, G.L;
– intimati –
sul ricorso proposto da:
G. l. , elettivamente domiciliato in ROMA,
– ricorrente –
contro
A. V. elettivamente domiciliato in ROMA
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE DEI CONTI IN ROMA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BAIAMONTI 25;
– controricorrente –
nonchè
, PROCURATORE REGIONALE CORTE DEI CONTI LOMBARDIA
– intimati –
avverso la sentenza della CORTE DEI CONTI di ROMA, depositata il 03/12/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dal Consigliere Dott. ANTONIO SEGRETO;
uditi gli avvocati
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. che ha concluso preliminarmente per l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale, nel merito per il rigetto.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione depositato in data 8 aprile 2005 la Procura regionale della Corte dei Conti per la Lombardia evocava in giudizio G. L., in qualità di amministratore delegato di s.p.a., C. A., in qualità di amministratore delegato di s.p.a., C. G., in qualità di vicepresidente pro tempore di s.p.a. ed A. V., dipendente di s.p.a. fino al 30.11.2000 e poi in rapporto di collaborazione coordinata con spa fino all’11.6.2003, e ne chiedeva la condanna al risarcimento per complessivi f. 62.442.681,01, in relazione a molteplici condotte illecite dai medesimi tenute, consistenti ne1l’avere concordato ed accettato indebite dazioni di denaro al fine di favorire le imprese costruttrici nell’aggiudicazione e successiva gestione di appalti in danno di società pubbliche. I fatti venivano desunti dagli atti del procedimento penale e dalle dichiarazioni confessorie rese dai convenuti.
Con sentenza del 9.11.2005, la Sezione regionale di I grado della Corte dei Conti accoglieva solo parzialmente la domanda risarcitoria, sia con riferimento al danno patrimoniale diretto che al danno all’immagine.
Proponevano appello i convenuti ed appello incidentale il Procuratore regionale.
La Sezione giurisdizionale centrale della Corte dei Conti, con sentenza depositata il 3.12.2008, rigettava gli appelli dei convenuti, accogliendo solo parzialmente l’appello dell’A., quanto al danno all’immagine, condannando lo stesso per tale titolo al pagamento di €. 100.000,00.
La Sezione centrale della Corte dei conti affermava, come già il I giudice, la sua giurisdizione, ritenendo ipotizzabile la responsabilità amministrativa degli amministratori e dipendenti di s.p.a a partecipazione azionaria pubblica ed effettivamente sussistente la stessa nella
Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione G. L., C. A., C. G., nonché ricorso incidentale A. V.
Resiste con controricorso il P.G. presso la Corte dei Conti.
Motivi della decisione.
1.1.Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.
Con il primo motivo dei rispettivi ricorsi, sostanzialmente simili, i ricorrenti C, G e C, lamentano, ai sensi dell’art. 360 n. 1, c.p.c., la violazione degli artt. n. 20/1994, 3 e 7 , 1. n. 97/2001, dell’art. 81, r.d. n. 2440/1923 e 52 r.d.1234/1214, per avere la Corte dei conti affermato la sussistenza della responsabilità amministrativa di essi amministratori di s.p.a. a partecipazione pubblica, mentre tale responsabilità non era ipotizzabile, segnatamente tenuto conto che l’E. svolgeva attività di impresa su mercati liberi e concorrenziali, esercitata con finalità di lucro e senza finalità pubbliche, con conseguente difetto di giurisdizione della Corte dei Conti.
1.2. Con il primo motivo del ricorso incidentale l’A. lamenta la violazione delle norme che disciplinano la giurisdizione della Corte dei Conti (artt. l 1. n. 20/1994, 3 e 7 , 1. n. 97/2001, dell’art. 81, r.d. n. 2440/1923 e 52 r.d.1234/1214), assumendo il difetto di giurisdizione del giudice contabile nei confronti di esso incaricato di una s.p.a., per quanto facente parte di un gruppo societario la cui capogruppo, sempre una s.p.a., sia qualificabile come impresa pubblica.
2. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi a norma dell’art. 335 c . p . c . .
Il problema che si pone è quello relativo alla questione se agli amministratori e dipendenti di una s.p.a. cosiddetta “in mano pubblica” si applichino le norme di diritto societario o se dalla presenza di capitali pubblici consegua invece l’assoggettamento di questi soggetti alle norme proprie della responsabilità amministrativa, con la conseguente giurisdizione della Corte dei Conti.
Il problema non è quello di definire se, come e quando una s.p.a. “pubblica” risponda , come persona giuridica per danno erariale ad una P.A., ma si tratta di stabilire sulla base di quale statuto gli amministratori o i dipendenti di una s,p.a. “pubblica” rispondano dei danni ad essa direttamente prodotti ed indirettamente riflessi sulla p.a., in quanto titolare della partecipazione azionaria.
La differenza è rilevante, se si considera che nel primo caso la s.p.a. “pubblica” è il soggetto responsabile del danno che deve risarcire con il proprio patrimonio sociale, nel secondo caso essa diviene il soggetto danneggiato il cui patrimonio deve essere reintegrato.
Vanno, quindi, fissati alcuni principi generali.
3.1. Com’è noto, il limite esterno della giurisdizione della Corte dei conti, sul quale le sezioni unite della Corte di cassazione sono chiamate a pronunciarsi, ha rilevanza costituzionale: discende dal disposto dell’art. 103, comma secondo, della Costituzione, a tenore del quale “la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabìlìtà pubblica e nelle altre specifìcate dalla legge“. Al di fuori delle materie di contabilità pubblica, e quindi anche in tema di responsabilità, occorre dunque che la giurisdizione della Corte dei conti abbia il suo fondamento in una specifica disposizione di legge.
In termini generali, il contenuto ed i limiti della giurisdizione della Corte dei conti in tema di responsabilità trovano la loro base normativa nella previsione dell’art. 13 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, secondo cui la corte giudica sulla responsabilità per danni arrecati all’erario da pubblici funzionari nell’esercizio delle loro funzioni. Tali limiti sono stati successivamente ampliati dall’art. l, quarto comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, che ha esteso il giudizio della Corte dei conti alla responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici anche per danni cagionati ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza. La giurisdizione di detta corte non è quindi circoscritta alla sola ipotesi di responsabilità contrattuale dell’agente, ma puó esplicarsi anche in caso di responsabilità aquiliana.
3.2. In passato i limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti, al pari di quella del giudice amministrativo, erano però (relativamente) più agevoli da tracciare: la più netta distinzione tra l’area del pubblico e quella del privato, la normale corrispondenza tra la natura pubblica dell’attività svolta dall’agente ed il suo organico inserimento nei ranghi della pubblica amministrazione, la conseguente più agevole demarcazione di confini tra l’agire dell’amministrazione in forza della potestà pubblica ad essa spettante e per le finalità tipicamente a questa connesse ed il suo agire invece iure privatorum: erano tutti elementi che facilitavano anche l’individuazione dei limiti esterni della giurisdizione in esame.
La più recente evoluzione dell’ordinamento ha reeo ora questi confini assai meno chiari, da un lato incanalando sovente le finalità della pubblica amministrazione in ambiti tipicamente privatistici, dall’altro afiidando con maggiore frequenza a soggetti privati la realizzazione di finalità una volta ritenute di pertinenza esclusiva degli organi pubblici.
In quest’ottica anche le sezioni unite della Cassazione, per evitare il rischio di un sostanziale svuotamento – o almeno di un grave indebolimento – della giurisdizione della corte contabile in punto di responsabilitá, ha teso a privilegiare un approccio piü “sostanzialistico”, sostituendo ad un criterio eminentemente soggettivo, che identificava l’elemento fondante della giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica dell’agente, un criterio oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie a tal fine adoperate.
Si è perciò affermato che, quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei conti e giudice ordinario, occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l’agente e la pubblica amministrazione, ma che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fattO di investire un soggetto, altrimenti estraneo all’amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece un’attività, senza che rilevi né la natura giuridica dell’atto di investitura – provvedimento, convenzione o contratto – né quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica (Sez. un. 3 luglio 2009, n. 15599; 31 gennaio 2008, n. 2289; 22 febbraio 2007, n. 4112; 20 ottobre 2006, n. 22513; 5 giugno 2000, n. 400; Sez. un., 30 marzo 1990, n. 2611, ed altre conformi).
L’affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della gestione di un servizio pubblico integra quindi una relazione funzionale incentrata sull’inserimento del soggetto medesimo nell’organizzazione funzionale dell’ente pubblico e ne implica, conseguentemente, l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, a prescindere dalla natura privatistica dello stesso soggetto e dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il rapporto (Sez. un. 27 settembre 2006, n. 20886;1 aprile 2008, n. 8409; l marzo 2006, n. 4511; 19 febbraio 2004, 2004, n. 3351), anche se l’estraneo venga investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in favore della pubblica amministrazione (Sez. un. 9 settembre 2008, n. 22652) ed anche se difetti una gestione del danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di rendicontazione proprie della giurisdizione contabile in aenso stretto (Sez. un. 12 ottobre 2004, n. 20132). Lo stesso dicasi per l’accertamento della responsabilità erariale conseguente a1l’illecito o indebito utilizzo, da parte di una società privata, di finanziamenti pubblici (Sez. un. 5 giugno 2008, n. 14825, e Sez. un., n. 4511/06, cit.); o per la responsabilitá in cui puó incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un’opera pubblica, quando la concessione investe il privato dell’esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche, attribuendogli la qualifica di organo indiretto dell’amministrazione, onde egli agisce per le finalità proprie di quest’ultima (Sez. un., n. 4112/07, cit.).
Nella medesima ottica, a partire dal 2003, le sezioni unite di questa corte hanno ritenuto spettare alla Corte dei conti, dopo l’entrata in vigore dell’art. 1, ultimo comma, della legge n. 20 del 1994, la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto la responsabilità di privati funzionari di enti pubblici economici (quali, ad esempio, i consorzi per la gestione di opere) anche per i danni conseguenti allo svolgimento dell’ordinaria attività imprenditoriale e non soltanto per quelli cagionati nell’espletamento di funzioni pubbliche o comunque di poteri pubblicistici (Sez. un., 22 dicembre 2003, n. 19667). Si è sottolineato che si esercita attività amministrativa non solo quando si svolgono pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, si perseguono le finalità istituzionali proprie dell’amministrazione pubblica mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato; con la conseguenza – si è precisato – che, nell’attuale assetto normativo, il dato essenziale che radica la giurisdizione della corte contabile è rappresentato dall’evento dannoso verificatosi a carico di una pubblica amministrazione e non più dal quadro di riferimento – pubblico o privato – nel quale si colloca la condotta produttiva del danno (Sez. un., 25 maggio 2005, n. 10973; 20 giugno 2006, n. 14101; 1 marzo 2006, n. 4511; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3367).
3.3. Se quanto appena osservato vale certamente per gli enti pubblici economici, i quali restano nell’alveo della pubblica amministrazione pur quando eventualmente operino imprenditorialmente con strumenti privatistici, è da stabilire entro quali limiti alla medesima conclusione si debba pervenire anche nel diverso caso della responsabilità di amministratori di società di diritto privato partecipate da un ente pubblico. Le quali non perdono la loro natura di enti privati per il solo fatto che il loro capitale sia alimentato anche da conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico.
Il codice civile dedica alla società per azioni a partecipazione pubblica solo alcune scarne disposizioni, oggi contenute nell’art. 2449 (come modificato dall’art. 13 della legge 25 febbraio 2008, n. 34, a seguito della pronuncia della Corte giustizia delle Comunità europee, 6 dicembre 2007, n. 463/04), essendo stato il successivo art. 2450 ormai abrogato dall’art. 3, primo comma, del d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito con modificazioni dalla legge 6 aprile 2007, n. 46. Ma siffatte residue disposizioni del codice non valgono a configurare uno statuto speciale per dette società (spesso, viceversa, interessate da norme speciali, non sempre tra loro ben coordinate), salvo per i profili inerenti alla nomina e revoca degli organi sociali, specificamente ivi contemplati, né comunque investono il tema della responsabilità di detti organi, che resta quindi diBCiplinato dalle ordinarie norme previste dal codice civile a questo riguardo, com’è confermato dalla immutata indicazione del secondo comma del citato art. 2449, a tenore del quale anche i componenti degli organi amministrativi e di controllo di nomina pubblica ”hanno i diritti e gli obblighi dei membrì nominati dall’assemblea”. Né pare dubbio che quest’ultimo principio valga anche per le società a responsabilità limitata eventualmente partecipate da un ente pubblico, in difetto di qualsiasi specifica disposizione del codice che se ne occupi.
Se ne è desunto – anche alla luce di quanto espressamente indicato nella relazione (“È lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici“) – che la scelta della pubblica amministrazione di acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta. Dall’identità dei diritti e degli obblighi facenti capo ai componenti degli organi sociali di una società a partecipazione pubblica, pur quando direttamente designati dal socio pubblico, logicamente perciò discende la responsabilità di detti organi nei confronti della società, dei 6oci, dei creditori e dei terzi in genere, nei medesimi termini – contemplati dagli artt. 2392 e segg. del codice – in cui tali diverse possibili proiezioni della responsabilità sono configurabili per gli amministratori e per gli organi di controllo di qualsivoglia altra società privata.
3.4. È innegabile, nondimeno, che si possano determinare dei problemi quando il modello giuridico-formale prescelto entra in tensione con il fenomeno economico sottoatante, come non di rado accade proprio nel caso in cui lo Stato o altro ente pubblico assume una partecipazione in una società per perseguire in tal modo finalità di rilevanza pubblica.
Ne è testimone, in certa misura, la sentenza delle sezioni unite 26 febbraio 2004, n. 3899, che, dopo aver ribadito il principio per cui una società per azioni costituita con capitale maggioritario del comune in vista dello svolgimento di un servizio pubblico ha una relazione funzionale con l’ente territoriale, caratterizzata dall’inserimento della società medesima nell’iter procedimentale dell’ente locale e dal conseguente rapporto di servizio venutosi cosi a determinare, ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti nelle controversie in materia di responsabilità patrimoniale per danno erariale riguardanti gli amministratori ed i dipendenti di una siffatta società. La portata di tale affermazione non risulta però del tutto univoca: perché nella medesima sentenza si ha cura di specificare, per un verso, che l’elemento determinante della decisione era costituito, in quel caso, dal rapporto di servizio intercorrente tra la società privata ed il comune (piuttosto che dal rapporto partecipativo e dal conseguente investimento di risorse finanziarie pubbliche nel patrimonio della società privata) e, per altro verso, che la questione se il danno subito dal comune partecipante alla società fosse diretto, o meramente riflesso, rispetto a quello arrecato al patrimonio sociale, costituiva un profilo estraneo al giudizio sui limiti della giurisdizione.
Proprio quest’ultimo profilo sembra invece meritare un ulteriore approfondimento, potendo assumere carattere decisivo ai fini che qui interesano.
3.5. In primo luogo, non sembra si possa prescindere dalla distinzione tra la posizione della società partecipata, cui eventualmente fa capo il rapporto di servizio instaurato con la pubblica amministrazione, e quella personale degli amministratori (nonché dei sindaci o degli organi di controllo della stessa società): i quali, ovviamente, non s’identificano con la società, sicché nulla consente di riferire loro, sic et simpliciter, il rapporto di servizio di cui la società medesima sia parte.
Quanto appena osservato non vale peró a chiudere ogni possibile spazio alla giurisdizione della Corte dei conti in ordine ad eventuali comportamenti illegittimi imputabili agli organi delle società a partecipazione pubblica, dai quali sia scaturito un danno per il socio pubblico.
S’è già prima accennato vuoi alla possibilità che tale giurisdizione sia riferita anche ad ipotesi di responsabilità aquiliana, vuoi alla possibilità che essa si configuri pure in difetto di una formale investitura pubblico dell’agente. Entra allora in gioco un ulteriore importante elemento normativo, cui finora non si è fatto riferimento ma che occorre adesso prendere in considerazione. Si allude alla disposizione dell’art. 16 bis della legge 28 febbraio 2008, n. 31 (che ha convertito il d.1. 31 dicembre 2007, n. 248), cosí concepita: “Per le società con azioni quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici, inferiore al 50 per cento, nonchè per le loro controllate,la responabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla glurisdizìone del giudice ordinario” .
Tale norma, benché la sua applicazione ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione sia espressamente esclusa, assume un evidente significato retrospettivo, nella misura in cui lascia chiaramente intendere che, in ordine alla responsabilità di amministratori e dipendenti di società a partecipazione pubblica, vi sia una naturale area di competenza giurisdizionale diversa da quella ordinaria. Non si capirebbe, altrimenti, la ragione per la quale il legislatore ha inteso stabilire che, per l’avvenire (e limitatamente alle società quotate, o loro controllate, con partecipazione pubblica inferiore al 50%), la giurisdizione spetta invece in via esclusiva proprio al giudice ordinario.
Resta però da verificare entro guali limiti, al di fuori del ristretto campo d’applicazione della disposizione da ultimo richiamata, sia davvero configurabile la giurisdizione del giudice contabile che il legislatore ha in tal modo presupposto in rapporto ad atti di mala gestio degli organi di società a partecipazione pubblica.
In difetto di norme esplicite in tal senso (e fatta salva la specifìcità di singole società a partecipazione pubblica il cui statuto sia soggetto a regole legali sui generis, come nel caso della Rai), è ai principi generali ed alle linee portanti del sistema che occorre aver riguardo. Ed è proprio in quest’ottica che a6aume rilievo decisivo la già accennata distinzione tra la responsabilità in cui gli organi sociali possono incorrere nei confronti della società (prevista e disciplinata, per le società azionarie, dagli artt. 2393 e segg. e, per le società a responsabilità limitata, dal primo, terzo, quarto e quinto comma dell’art. 2476 c.c.) e la responsabilità che essi possono assumere direttamente nei confronti di singoli soci o terzi (prevista e disciplinata, per le società azionarie, dall’art. 2395 e, per le società a responsabilità limitata, dal aesto comma del citato art. 2476) .
3.6. In tale ultimo caso la configurabilità dell’azione del procuratore contabile, tesa a far valere la responsabilità dell’amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall’ente pubblico quando questo sia stato direttamente danneggiato dall’azione illegittima, non incontra particolari ostacoli (né si pongono difficoltà derivanti dalla possibile concorrenza di siffatta azione con quella ipotizzata in sede civile dai citati artt. 2395 e 2476, sesto comma, poiché l’una e l’altra mirerebbero in definitiva al medesimo risultato). Non importa qui indagare sulla natura dell’indicata responsabilità: se essa abbia carattere extracontrattuale (come la giurisprudenza è per lo più incline a ritenere: si vedano, tra le altre, Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 25 luglio 2007, n. 16416; e 3 aprile 2007, n.8359) o se pur sempre pre6upponga la violazione di un preesistente obbligo di corretto comportamento dell’amministratore e del componente dell’organo di controllo anche nei diretti confronti di ciascun singolo socio (onde alcune autorevoli voci di dottrina ravvi6ano anche in tal caso un’ipotesi di responsabilità almeno 2ato sensu contrattuale). Quel che appare certo è che la presenza dell’ente pubblico all’interno della compagine sociale ed il fatto che la aua partecipazione sia strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed abbia implicato l’impiego di pubbliche risorse non può sfuggire agli organi della società e non può non comportare, per loro, una peculiare cura nell’evitare comportamenti tali da compromettere la ragione stessa di detta partecipazione sociale dell’ente pubblico o che possano comunque direttamente cagionare un pregiudizio al patrimonio di quest’ultimo.
Tipico esempio di questa situazione è il danno all’immagine dell’ente pubblico (su cui si veda Sez. un. 20 giugno 2007, n. 14297) che derivi da atti illegittimi posti in essere dagli organi della società partecipata: danno che puó eventualmente prodursi immediatamente in capo a detto ente pubblico, per il fatto stesso di essere partecipe di una società in cui quei comportamenti illegittimi si siano manifestati, e che non s’identifica con il mero riflesso di un pregiudizio arrecato al patrimonio sociale (indipendentemente dall’essere o meno configurabile e risarcibile anche un autonomo e distinto danno all’immagine della medesima società).
Nessun dubbio, quindi, sulla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti in un’ipotesi siffatta; e se ne trae conferma anche dal disposto dell’art. 17, comma 30-ter, della legge 3 agosto 2009, n. 102 (quale rigulta dopo le modifiche apportate dal d.l. in pari data, n. 103, convertito con ulteriori modificazioni nella legge 3 ottobre 2009, n. 141), che disciplina e limita le modalità dell’azione della magistratura contabile appunto in caso di danno all’immagine, nelle ipotesi previste dall’art. 7 della legge 27 marzo 20o1 n. 9 ossia in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nel precedente art. 3 della stessa legge, compresi quelli “di enti a prevalente partecipazione pubblica”. Non si vede come la medesima regola stabilita per i dipendenti non debba valere anche per gli amministratori e gli orgni di controllo della società a partecipazione pubblica.
3.7. Ad opposta conclusione si deve invece pervenire nel caso in cui l’azione sia proposta per reagire ad un danno cagionato al patrimonio della società.
Non solo, come detto, non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l’ente pubblico partecipante e l’amministratore (o componente di un organo di controllo) della società partecipata, il cui patrimonio sia stato leso dall’atto di mala gestio, ma neppure sussiste in tale ipotesi un danno qualificabile come danno erariale, inteso come pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della suindicata società sia socio. La ben nota distinzione tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell’una rispetto agli altri non consentono di riferire al patrimonio del socio pubblico il danno che l’illegittimo comportamento degli organi sociali abbia eventualmente arrecato al patrimonio dell’ente: patrimonio che è e resta privato.
E’ certo vero che il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a ripercuotersi anche sui soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro quota di partecipazione; ma – fatte salve le limitate eccezioni oggi introdotte dall’art. 2497 c.c. (come modificato dal d. lgs n. 6 del 2003), in tema di responsabilità dell’ente posto a capo di un gruppo di imprese societarie, che qui non rilevano – il sistema del diritto Societario impone di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo) da quelli che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società.
Dei danni diretti, cioè di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico-patrimoniale del socio e che non consistano nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società, solo il socio stesso è legittimato a dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società compete il risarcimento, di modo che per il socio anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui ai è prodotto il suo pregiudizio (principio pacifico: si vedano, ex multis, Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 3 aprile 2007, n. 8359; 27 giugno 1998, n. 6364; e 28 febbraio 1998, n. 2251).
Si capisce, allora, come il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel sistema del codice civile puó dar vita all’azione sociale di responaabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, non è idoneo a configurare anche un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti: perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci – pubblici o privati – i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui originari conferimenti restano confusi ed assorbiti nell’unico patrimonio sociale.
L’esattezza di tale conclusione trova conferma anche nell’impossibilità di realizzare, altrimenti, un soddisfacente coordinamento sistematico tra l’ipotizzata azione di responsabilità dinanzi giudice contabile e l’esercizio delle surriferite azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate dal codice civile. L’azione del procuratore contabile ha presupposti e caratteristiche completamente diverse dalle azioni di responsabilità sociale e dei creditori sociali contemplate dal codice civile: basta dire che l’una è obbligatoria, le altre discrezionali; l’una ha finalità essenzialmente sanzionatoria (onde non implica necessariamente il ristoro completo del pregiudizio subito dal patrimonio danneggiato dalla mala gestio dell’amministratore o da1l’omesso controllo del vigilante), le altre hanno scopo ripristinatorio; l’una richiede ìl dolo o la colpa grave, e solo in determinati casi è esercitabile anche contro gli eredi del soggetto responsabile del danno; per le altre è sufficiente anche la colpa lieve ed il debito risarcitorio è pienamente trasmissibile agli eredi.
D’altronde, almeno in tutti i casi nei quali vi siano anche soci privati la cui partecipazione è suscettibile di subire danno per effetto del comportamento illegittimo degli organi sociali, sarebbe impossibile escludere l’esperibilità degli ordinari strumenti di tutela approntati dal codice civile a beneficio della società (e dei soci privati, nonché eventualmente dei creditori).
E peró, se si ipotizzasse il possibile concorso tra l’azione del procuratore contabile e l’azione sociale di responsabilità contemplata dal codice civile, occorrerebbe poter individuare il modo di disciplinare tale concorso, stante la descritta diversità delle rispettive caratteristiche delle differenti azioni. L’assenza del benché minimo abbozzo di coordinamento normativo in proposito suona palese conferma della non configurabilità, in simili situazioni, di un’azione diversa da quelle previste dal codice civile, che aia destinata a ricadere nella giurisdizione del giudice contabile.
3.7. Giova ancora aggiungere che l’esclusione dell’ipotizzata giurisdizione del giudice contabile per l’azione di risarcimento di danni cagionati al patrimonio della società partecipata da un ente pubblico neppure provoca, a ben vedere, il rischio di una lacuna nella tutela dell’interresse pubblico coinvolto nella descritta situazione.
Nell’attuale disciplina della società azionaria – ed in misura ancor maggiore in quella della società a responsabilità limitata – l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, in caso di ma2a gestìo imputabile agli organi della società, non è più monopolio dell’assemblea e non è più, quindi, unicamente rimessa alla discrezionalità della maggioranza dei soci. Una minoranza qualificata dei partecipanti alla società azionaria (art. 2393-bis c.c.) ed addirittura ciascun singolo socio della società a responsabilità limitata (art. 2476, terzo comma, c.c.) sono infatti legittimati ad esercitare tale azione (anche nel proprio interesse, ma a beneficio della societã) eventualmente sopperendo all’inerzia della maggioranza. Ne consegue che, trattandosi di società a partecipazione pubblica, il socio pubblico è di regola in grado di tutelare egli stesso i propri interessi sociali mediante 1’esercizio delle suindicate azioni civili. Se ciõ non faccia e se, in conseguenza di tale omissione, l’ente pubblico abbia a subire un pregiudizio derivante dalla perdita di valore della partecipazione, è sicuramente prospettabile l’azione del procuratore contabile nei confronti (non già dell’amministratore della società partecipata, per il danno arrecato al patrimonio sociale, bensi nei confronti) di chi, quale rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio ed abbia perció pregiudicato il valore della partecipazione. Ed è ovvio che, con riguardo ad un’azione siffatta, vi sia piena competenza giurisdizionale della Corte dei conti.
4.1. Sulla base dei suddetti principi la questione della giurisdizione ha semplice soluzione.
La Corte dei conti ha pronunziato sentenza nei confronti degli attuali ricorrenti C., G., e C. per danni diretti al patrimonio delle Societã, conseguenti all’aggiudicazione delle gare d’appalto, a condizioni meno vantaggiose per l’impresa appaltante ovvero al recupero da parte dell’impresa aggiudicataria della dazione illecita nel corso dell’esecuzione del contratto ovvero mediante la c.d. retrocessione dei corrispettivi contrattuali convenuti, nonché per il danno patrimoniale da disservizio costituito dalle spese sostenute dalle società (E o E) per ripristinare l’efficienza lesa.
Quanto all’A., questi egualmente è stato condannato al risarcimento di danni subiti direttamente dal patrimonio della società E in relazione a consulenze, ad aoutsorcing e ad un contratto dell’E con la società croata Cpd.
Tutti e quattro i ricorrenti sono stati poi condannati al pagamento del danno all’immagine subito E s.p.a., a. ed s.p.a..
Si tratta, all’evidenza, di tutti danni direttamente subiti dalla società.
4.2. Ne consegue che per le domande relative a tali danni va esclusa la giurisdizione della corte dei conti, dovendosi affermare la giurisdizione del giudice ordinario.
La giurisdizione della Corte dei conti era configurabile nei confronti di chi, all’interno dell’ente pubblico partecipante, avesse omesso di adottare, essendo chiamato a farlo, un comportamento volto all’esercizio da parte del socio -pubblica amministrazione- dell’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori, con conseguente danno della società partecipata e, dunque, dell’ente pubblico partecipante.
5.1. Invece va affermata la giurisdizione delle Corte dei conti solo relativamente alla condanna di risarcimento del danno all’immagine subita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Rientra nella giurisdizione della Corte dei conti l’azione di responsabilità per il danno arrecato all’immagine dell’ente da organi della società partecipata. Infatti, tale danno, anche se non comporta apparentemente una diminuzione patrimoniale alla pubblica amministrazione, è suscettibile di una valutazione economica finalizzata al ripristino del bene giuridico leso (Cass. civ., Sez. Unite, 02/04/2007, n. 8098).
5.2. Non può essere accolta la tesi sostenuta dai ricorrenti G. e C, secondo cui, in applicazione dell’art. 1 del l. n 103/2009, contenente modificazioni al d.l. n. 78/2009, va dichiarato il difetto di giurisdizione per ogni tipo di danno all’immagine, in quanto tale danno potrebbe essere liquidato solo nei casi e nei modi di cui all’art. 7 l. n. 97/2001, e cioè in presenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna per delitto contro la p.a., che nella fattispecie mancherebbe.
Infatti, a parte altri rilievi, come rilevano gli ste6si ricorrenti la norma nella sua formulazione letteraria fa salvi gli atti posti in essere dalla procura della Corte dei Conti nel caso in cui, alla data di entrata in vigore del decreto legge convertito, fosse già intervenuta una sentenza nell’ambito del giudizio sottoposto alla cognizione del giudice contabile.
6. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente C. lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., dell’art. 1 1. 20/1994, artt. 3 e 7 1. n. 97/2001, art. 81 r.d. n. 2440/1923 e dell’art. 52 r.d.n. 1234/1214.
Assume il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che egli fosse stato dipendente anche di E, avendo svolto solo funzioni per E.
7. Il motivo è inammissibile.
Anche dopo l’inserimento della garanzia del giusto processo nella formulazione dell’art. 111 Cost., il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni della Corte dei conti in sede giurisdizionale continua ad essere circoscritto al controllo dell’eventuale violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice contabile, ovvero all’esistenza dei vizi che attengono a1l’essenza della funzione giurisdizionale e non si estende al modo del suo esercizio. (Caas. Sez. Unite, 16/02/2007, n. 3615).
Nella fattispecie il ricorrente prospetta profili che attengono al merito del giudizio promosso davanti alla Corte dei Conti, negando il rapporto di servizio intrattenuto con Enelpower e la sua partecipazione agli illeciti in danno di società del gruppo Enel, nonché il nesso causale tra la sua condotta ed i plurimi eventi dannoai. I vizi lamentati attengono, quindi, a pretesi errores in iudicando della Corte dei Conti, per cui la loro prospettazione è inammissibile in questa sede.
8. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente incidentale A. lamenta la carenza di giurisdizione della Corte dei conti per violazione delle disposizioni che disciplinano l’ambito della giurisdizione contabile nei confronti di collaboratori esterni consulenti di s.p.a. aventi natura pubblicistica (art. 1 1. n. 20/1994; artt. 3 e 7 1. n. 97/2001, art. 81 r.d. n. 2440/1923; art. 52 r.d. n. 1214/1934). Assume il ricorrente che all’epoca dei fatti oggetto di causa egli non era dipendente di EPW, ma era legato ad essa solo da un contratto di collaborazione e poi di consulenza, donde il difetto di giurisdizione della Corte dei conti nei suoi confronti.
9.1. Il motivo è infondato.
In tema di responsabilità per danno erariale, l’esistenza di un rapporto di servizio, quale presupposto per un addebito di responsabilità al detto titolo, non è limitata al rapporto organico o al rapporto di impiego pubblico, ma è configurabile anche quando il soggetto, benché estraneo alla Pubblica Amministrazione, venga investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della Pubblica Amministrazione, con inserimento nell’organizzazione della medesima, e con particolari vincoli ed obblighi diretti ad assicurare la rispondenza dell’attività stessa alle esigenze generali cui è preordinata. (Cass. Sez. Unite, 12/03/2004, n. 5163; Cass. S.U. n. 19661/2003).
9.2. Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ravvisato tale inserimento dell’A. nell’organizzazione della s.p.a. E, con l’assunzione di vincoli ed obblighi funzionali, poichè questi agiva nell’espletamento dell’attività consulenziale per conto di E , sulla base di lettera di incarico e di due disposizioni interne.
Ne consegue che le censure mosse dal ricorrente sul punto attengono a vizi in iudicando che non possono trovare ingresso in queata sede, poiché rientrano nei limiti interni della giurisdizione, estranei al sindacato di questa Corte di cassazione(Cass. civ. (Ord.), Sez. Unite, 16/12/2008, n. 29348).
10.In definitiva va accolto, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso, per cui va dichiarato il difetto di giuriBdizione della Corte dei Conti in merito alla domanda proposta dalla Procura della Corte dei Conti limitatamente ai soli danni attinenti alle società, con esclusione della domanda attinente al risarcimento del danno all’immagine subita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Vanno rigettati i restanti motivi dei ricorsi del C e dell’A. Va causata senza rinvio, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza.
Esistono giusti motivi per compensare per intero tra le parti, le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi. Accoglie, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ciascun ricorso. Dichiara il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti limitatamente ai soli danni attinenti al patrimonio delle società. Rigetta i restanti motivi dei ricorsi del C. e dell’A.. Cassa senza rinvio, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza.
Compensa per intero tra le parti, le spese del giudizio di cassazione.
Cosi deciso in Roma, 11 27 ottobre 2009.
In tema di trust – SS.UU,12 febbraio 2019, n. 18831
Civile Ord. Sez. U Num. 18831 Anno 2019
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 12/07/2019
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al N.R.G. 4738 del 2017 proposto da:
POLI Paola, rappresentata e difesa dagli Avvocati Francesco Gianni, Alberto Nanni, Emanuele Rimini e Antonio Auricchio, con domicilio eletto presso lo studio legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners in Roma, via delle Quattro Fontane, n. 20;
– ricorrente –
contro
POLI Elena, rappresentata e difesa dall’Avvocato Cristina Rossello, con domicilio eletto nel suo studio in Roma, piazza di Spagna, n. 31;
– controricorrente –
contro
MASSIMO Claudio, rappresentato e difeso dall’Avvocato Ettore Maria Negro;
– controricorrente –
e nei confronti di
POLI GROUP HOLDING s.r.I.;
– intimata –
per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio pendente dinanzi al Tribunale ordinario di Milano, iscritto al N.R.G. 31946 del 2016.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18 giugno 2019 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giovanni Giacalone, depositate in cancelleria il 13 maggio 2019, con cui l’Ufficio del Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
FATTI DI CAUSA
1. – Elena Poli e Paola Poli, entrambe cittadine italiane residenti in Italia, sono le uniche eredi nonché beneficiarie del 50% ciascuna del patrimonio del padre Stefano Poli, importante esponente dell’industria farmaceutica, cittadino italiano nato a Varese 1’8 luglio 1946, già residente in Svizzera e deceduto in Italia il 10 dicembre 2009.
In data 15 maggio 2007 Stefano Poli, in qualità di settlor, costituiva un trust, denominato The Pale Trust, a cui trasferiva la proprietà del Gruppo Poli; trustee di tale trust, poi sottoposto alla legge neozelandese, veniva nominata, per effetto di variazione in data 14 agosto 2007, la Intrust Trustees, una società della Nuova Zelanda, mentre beneficiari erano designati lo stesso Stefano Poli e, in caso di suo decesso, le figlie Elena e Paola Poli, in parti uguali.
Con testamento pubblico ricevuto in data 20 giugno 2007 dal notaio Fabio Bernasconi di Chiasso e integrazione olografa del 15 novembre 2009, Stefano Poli nominava eredi del suo patrimonio, sempre in parti uguali, le due figlie Elena e Paola, scegliendo che la sua successione fosse regolata (“nella misura in cui ciò sia possibile”) dal diritto svizzero e designando esecutore testamentario Claudio Massimo e, in caso di suo impedimento o di non accettazione, quale esecutore testamentario sostituto, Paolo Mondia.
Deceduto il de cuius, in data 3 giugno 2013 le beneficiarie del trust hanno sottoscritto a Lugano, insieme al trustee, il Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue (ovvero Accordo, Indennizzo, Rilascio e Impegno ad astenersi dall’iniziare azioni legali), in cui le sorelle Poli hanno, tra l’altro, riconosciuto, concordato ed accettato che la distribuzione di Paola e la distribuzione di Elena sono di pari valore e costituiscono pari beneficio per ciascuna di esse. Tale accordo è stato sottoposto, come il trust, alla legge neozelandese. In attuazione del Deed, il trustee, senza sciogliere il trust, ha disposto un’assegnazione dei beni in trust anticipata rispetto al termine di durata dello stesso, assegnando a Elena Poli 81 milioni di euro, pari alla metà del valore del Gruppo Poli, e attribuendo l’intero capitale sociale della holding lussemburghese Polilux Holding s. à r.l. (Gruppo Poli) a Paola Poli.
2. – A seguito della cessione, da parte di Paola Poli in data 30 novembre 2015, del Gruppo Poli a una società spagnola (il Gruppo Almirall) per il controvalore di 365 milioni di euro, oltre a 35 milioni di euro in forza di una clausola di earn out, Elena Poli, con atto di citazione notificato il 18 maggio 2016, ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la sorella Paola Poli, chiedendo accertarsi e dichiararsi la sussistenza del diritto di credito in capo all’attrice alla maggior somma dovuta, oltre a quella di euro 81 milioni già incamerata, impregiudicata ad ogni effetto, fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli, da ricalcolarsi per effetto dell’annullamento per dolo, ex art. 761 cod. civ., e, in subordine, della rescissione per lesione ultra quartum, ex art. 763 cod. civ., dell’atto di “apporzionamento” del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli calcolato sulla base dei multipli impliciti nelle transazioni di società similari nel periodo 2002/2012, e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli come riveniente dalla cessione al Gruppo Almirall, con l’emissione della conseguente pronuncia di condanna, in subordine anche a titolo di risarcimento del danno o di indebito arricchimento.
A sostegno delle domande, l’attrice ha dedotto, in particolare, che la quota in denaro ricevuta da Elena Poli sarebbe frutto di una “sottovalutazione ad arte del Gruppo Poli legata alla strategia di Paola Poli che … ha voluto che ci si avvalesse del criterio di stima del valore del Gruppo che il padre aveva dettato per il solo caso in cui al termine della durata del trust il Gruppo fosse ancora in attività e una sola delle figlie desiderasse proseguire nell’attività e l’altra volesse essere liquidata in denaro”. Secondo l’attrice, il principio dell’eguale beneficio doveva essere rispettato sino alla scadenza della durata del trust e se Paola Poli, senza preannunciarlo al trustee né all’altra beneficiaria, aveva deciso di vendere quanto acquisito, le posizioni delle due beneficiarie dovevano essere riportate ad equilibrio. Ad avviso di Elena Poli, la sorella Paola era legittimata passiva all’obbligo restitutorio e risarcitorio nel determinando ammontare, atteso che, indipendentemente dai passaggi societari realizzati per procedere alla vendita del Gruppo Poli, restava sottoposta al principio della equiparazione delle posizioni delle beneficiarie del trust.
2.1. – Costituendosi in giudizio, Paola Poli ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano e la sussistenza della giurisdizione esclusiva dell’arbitro unico previsto dall’art. 15 del Deed sottoscritto tra la stesse Paola Poli ed Elena Poli e dal trustee Intrust il 3 giugno 2013, arbitro da nominarsi secondo le norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera.
2.2. – E’ intervenuto in giudizio Claudio Massimo, in qualità di esecutore testamentario del de cuius Stefano Poli, sostenendo le ragioni dell’attrice.
3. – Nella pendenza del giudizio dinanzi al Tribunale ordinario di Milano, Paola Poli ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, con atto notificato il 21 febbraio 2017, chiedendo dichiararsi il difetto di giurisdizione del Tribunale di Milano e di qualsiasi altro giudice italiano, richiamando la clausola n. 15 del Deed prevedente l’arbitrato svizzero (“qualunque lite, controversia o istanza che scaturisca da o in relazione al presente Atto, comprese la validità, l’invalidità o le violazioni del presente Atto, sarà composta come tra le parti a mezzo di arbitrato ai sensi delle Norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera”: così nella traduzione giurata in atti).
4. – Ha resistito, con controricorso, Elena Poli, chiedendo il rigetto del ricorso per regolamento preventivo e la declaratoria della giurisdizione del giudice italiano.
Ad avviso della controricorrente, la materia del contendere verte – tenuto conto anche della circostanza che petitum e causa petendi sono stati emendati dall’attrice con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ., depositata il 17 febbraio 2017, quattro giorni prima della notifica del ricorso per regolamento preventivo in cassazione – non sulla caducazione del Deed, ma sull’attuazione della divisione della massa ereditaria secondo il criterio dell’eguale beneficio dettato dal de cuius Stefano Poli, cittadino italiano, deceduto a Milano il 10 dicembre 2009. Le singole attribuzioni dei cespiti ereditari non infirmerebbero la natura successoria della controversia di scioglimento della comunione tra coeredi: la clausola per arbitrato estero (con arbitro svizzero, sede a Lugano e applicazione del diritto neozelandese per successione di cittadino italiano), inerente all’attribuzione di un singolo cespite che compone l’asse ereditario, non osterebbe alla giurisdizione italiana in materia successoria, quale sancita dall’art. 50 della legge 31 maggio 1995, n. 218. Difatti il Deed avrebbe assolto la sola funzione di attribuire un cespite dell’asse da dividere, nel quadro e nel contesto del complessivo scioglimento della comunione ereditaria ancora in corso sotto le cure dell’esecutore testamentario Claudio Massimo; la lesione subita da Elena Poli attraverso il Deed ben potrebbe e dovrebbe essere conosciuta íncidenter tantum in funzione del complesso oggetto successorio e divisionale della controversia di cui il Deed costituirebbe soltanto una singola parte; e sussisterebbe controversia divisionale ereditaria anche quando, come nella specie, ferme le quote testamentarie fissate dal de cuius, si controverta sui valori dei beni rispettivamente attribuiti, qui manifestamente distanti rispetto alla volontà del testatore di ripartire il suo patrimonio tra le due figlie in eguale misura.
5. – Ha resistito, con separato controricorso, Claudio Massimo.
Preliminarmente, ha dedotto l’inammissibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione per due ordini di motivi: perché esso è stato proposto prima della scadenza del termine per il deposito della memoria ex art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., quindi antecedentemente all’accertamento istruttorio necessario ai fini della statuizione sulla giurisdizione; perché nel caso di specie tutte le parti sono italiane e quindi soggette alla giurisdizione italiana, con la conseguenza che il giudizio arbitrale, sia estero o interno, comporta necessariamente una questione di competenza, ai sensi dell’art. 819-ter cod. proc. civ.
Quanto al merito della questione di giurisdizione, il controricorrente, a sostegno delle conclusioni di sussistenza della giurisdizione italiana, rileva che la clausola compromissoria di cui all’art. 15 del Deed non sarebbe applicabile alla controversia oggetto del giudizio di merito, il quale non avrebbe ad oggetto la validità del Deed in sé considerato – unica ipotesi per la quale sarebbe stata pattuita la clausola compromissoria – bensì l’esito della divisione ereditaria operata per mezzo dello stesso e la conseguente violazione delle disposizioni testamentarie dettate dal padre defunto con la letter of wishes del 5 maggio 2007, lettera indirizzata, pochi giorni prima dell’istituzione del trust, anche al Massimo, nella duplice veste di esecutore testamentario e di protector, affinché questi vegliasse sul rispetto delle sue volontà.
6. – La società Poli Group Holding è rimasta intimata.
7. – Nelle conclusioni scritte ex art. 380-ter cod. proc. civ. depositate il 30 ottobre 2017, il pubblico ministero ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, sul rilievo che tutte le parti della causa sono residenti o hanno sede in Italia.
8. – Con ordinanza 20 novembre 2018, n. 29879, le Sezioni Unite hanno dichiarato ammissibile l’istanza di regolamento preventivo, respingendo le eccezioni preliminari sollevate dal pubblico ministero e dal controricorrente Massimo, e hanno richiesto all’Ufficio del Massimario una relazione di approfondimento sulle questioni attinenti al fondo della questione di giurisdizione.
Nel respingere le eccezioni preliminari, le Sezioni Unite hanno affermato:
– che il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto per sollevare una questione concernente il difetto di giurisdizione del giudice italiano non solo allorché convenuto nella causa di merito sia un soggetto domiciliato o residente all’estero, ma anche quando il convenuto, domiciliato e residente in Italia, abbia contestato la giurisdizione italiana in forza di deroga convenzionale a favore di un arbitrato estero;
– che il controricorrente Massimo non ha indicato in che cosa avrebbe dovuto consistere l’accertamento istruttorio, utile ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione, che sarebbe
stato vanificato dalla proposizione “anticipata” del regolamento preventivo;
– che, in presenza di clausola compromissoria di arbitrato estero, l’eccezione di compromesso dà luogo ad una questione di giurisdizione e non di competenza ai sensi dell’art. 819-ter cod. proc. civ.
9. – In prossimità della camera di consiglio, fissata per il 18 giugno 2019, il pubblico ministero ha depositato nuove conclusioni scritte, concludendo per il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
L’Ufficio del Procuratore Generale ha evidenziato che il trust in questione deve essere qualificato come donazione indiretta ex art. 809 cod. civ., rientrante nell’ambito dei negozi transmorte inter vivos, sicché la comunione insorta tra i beneficiari va configurata come ordinaria e non successoria, con conseguente impossibilità d’includere l’istituto in esame nel campo di applicazione dell’art. 50 della legge n. 218 del 1995, dettato in tema di giurisdizione con esclusivo riguardo alla “materia successoria”.
Dopo avere sottolineato che le norme di applicazione necessaria operano esclusivamente come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato dalla norma di conflitto, senza incidere sul diverso problema dell’individuazione dei criteri dai quali dipende la competenza giurisdizionale, il pubblico ministero ha affermato che le esercitate azioni di cui agli artt. 761 e 763 cod. civ. non sono poste a presidio di diritti indisponibili, sottratti in quanto tali all’ambito applicativo dell’art. 4, comma 2, della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato.
10. – In prossimità della camera di consiglio tutte le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Deve essere preliminarmente disattesa l’istanza, avanzata dalla difesa di Elena Poli, di riunione del presente giudizio per regolamento preventivo a quello, pendente tra le stesse parti, iscritto al N. R.G. 11328 del 2017 e fissato per la decisione nella stessa adunanza camerale del 18 giugno 2019. I due ricorsi si riferiscono infatti a giudizi di merito diversi, non confluiti in un unico procedimento a quo.
2. – Passando al fondo della questione di giurisdizione, si tratta di stabilire, innanzitutto, se vi siano criteri di collegamento che consentano di ricondurre alla giurisdizione dello Stato italiano la controversia riguardante l’apporzionamento tra i beneficiari del bene conferito in trust e, in particolare, se la detta controversia sia suscettibile di essere ricompresa tra quelle concernenti la divisione ereditaria, per le quali la giurisdizione del giudice italiano e’ regolata dalla L. n. 218 del 1995, articolo 50.
3. – Nello svolgere tale indagine, occorre muovere dall’esame delle domande azionate nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Milano, risultanti dal petitum e dalla causa petendi dell’atto di citazione, come emendati con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ.
Questo esame deve essere condotto alla luce dell’orientamento invalso nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice anche nelle questioni di diritto internazionale privato – per il quale la giurisdizione del giudice italiano e quella del giudice straniero vanno determinate non gia’ in base al criterio della prospettazione della domanda (ossia in base alla qualificazione soggettiva che l’istante dà all’interesse di cui chiede domanda la tutela), ma in base al diverso criterio secondo cui, ai fini del relativo riparto, non è sufficiente e decisivo avere riguardo alle deduzioni ed alle richieste formalmente avanzate dalle parti, ma occorre tener conto della vera natura della controversia, da stabilire con riferimento alle concrete posizioni soggettive delle parti in relazione alla disciplina legale della materia (Cass., Sez. U., 24 luglio 2007, n. 16296; Cass., Sez. U., 26 maggio 2015, n. 10800).
4. – Oggetto della controversia promossa e’ la pretesa creditoria di Elena Poli alla maggiore somma (oltre a quella di Euro 81 milioni, gia’ incamerata), fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli, da ricalcolarsi per effetto dell’annullamento per dolo o della rescissione per lesione ultra quartum dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013, ovvero, in via subordinata, per effetto della condotta dannosa e ingannevole posta in essere dalla sorella o dell’indebito arricchimento di costei.
L’attrice ha infatti domandato la condanna di Paola Poli al pagamento in proprio favore “della maggior somma dovuta, oltre a quella di Euro 81.000.000 gia’ incamerata, impregiudicata ad ogni effetto, fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli… e/o fino a concorrenza del 50% del valore del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013], calcolato sulla base dei multipli impliciti nelle transazioni di societa’ similari nel periodo 2002/2012, e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli come riveniente dalla cessione al Gruppo Almirall””.
Questa domanda di condanna al pagamento della maggior somma e’ stata avanzata, in via principale, “per effetto dell’annullamento ex art. 761 cod. civ. dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013]” e, in via subordinata, “per effetto della rescissione ex art. 763 cod. civ. dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013]”.
In ulteriore subordine, l’attrice ha chiesto la condanna della convenuta, “previo accertamento dell’elemento soggettivo incidente”, al risarcimento in proprio favore dei danni come provati in corso di giudizio o, in subordine, come ritenuti in via equitativa e, comunque, in misura mai inferiore a Euro 120.000.000″, ovvero, in via ulteriormente subordinata, “in forza dell’articolo 2043 e/o dell’articolo 1375 e/o dell’articolo 1440 c.c.”. Ha poi domandato la condanna al risarcimento del danno patrimoniale da perdita di chance e, in estremo subordine, la condanna “al pagamento a titolo di indennizzo ex art. 2041 cod. civ… della maggior somma, rispetto a quanto gia’ incamerato, che resta impregiudicato ad ogni effetto, fino a concorrenza del 50% del Gruppo Poli”.
In sostanza, l’attrice ha lamentato: (a) di avere prestato in buona fede il consenso a ricevere la somma di euro 81 milioni determinata con l’applicazione del criterio indicato dal padre per il caso in cui almeno una figlia intendesse proseguire la gestione del Gruppo Poli, atteso che tanto la sorella Paola Poli aveva dichiarato di volere fare (“celando … di avere in corso già delle trattative con diversi potenziali acquirenti”); (b) che il criterio valutativo immaginato dal de cuius, basato su un metodo patrimoniale misto che considerasse un modesto avviamento, aveva lo scopo di preservare risorse per il processo di sviluppo del Gruppo nell’ipotesi che una delle figlie mantenesse il controllo, laddove con la cessione in data 30 novembre 2015 ad Almirall – per un importo pari a 400 milioni di euro, tra cash ed earn out – Paola Poli “ha abbandonato il ruolo imprenditoriale che fu del padre e che aveva dichiarato in allora di voler conservare”; (c) che alla data del 3 giugno 2013 Elena Poli “ha manifestato un consenso all’apporzionamento de quo viziato in quanto determinato” da “artifizi” e da “raggiri”, “senza i quali non lo avrebbe mai espresso”; (d) che “l’apporzionamento del 3 giugno 2013 non corrisponde per ben più di un quarto al valore effettivo del 50% della quota” spettante ad Elena Poli, “essendo addirittura pari al solo 19%”. Ed in via subordinata l’attrice ha dedotto: (e) di avere in ogni caso “il diritto di ottenere, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1440 cod. civ., dalla sorella Paola Poli il risarcimento del danno subito, il cui ammontare dovrà … ricomprendere anche il mutamento delle condizioni contrattuali, tenuto conto del possibile contenuto dell’accordo che sarebbe stato concluso in difetto del comportamento dannoso serbato dalla convenuta”; (f) che Paola Poli ha conseguito, con l’apporzionamento del 3 giugno 2013, in difetto di una giusta causa, un vantaggio di natura patrimoniale in danno della sorella, che, a seguito del medesimo atto, ha subito un correlativo ingiustificato depauperamento.
5. – Ad avviso del Collegio, la controversia così introdotta non rientra nella materia successoria.
5.1. – Occorre premettere che anche la divisione ereditaria afferisce alla materia successoria, come è dimostrato, per un verso, dalla collocazione delle norme del codice civile rivolte a disciplinare la divisione (art. 713 e ss.) nel titolo IV del Libro II “Delle successioni”, e, per l’altro verso, dalle norme di conflitto e di giurisdizione dettate, nel sistema italiano di diritto internazionale privato, dalla legge n. 218 del 1995, la quale, all’art. 46, comma 3, inserito nel capo VII “Successioni”, detta una disposizione apposita rivolta a ricomprendervi tutte le ipotesi di divisione ereditaria, e dunque anche quella amichevole o contrattuale.
Ciò posto, deve tuttavia escludersi che il consenso espresso dalle beneficiarie all’apporzionamento tra le stesse, ad opera del trustee, dei beni conferiti in vita dal disponente Stefano Poli nel Pale Trust (il Gruppo Poli), integri un atto avente ad oggetto un bene caduto in successione ereditaria.
Invero, sotto quest’ultimo profilo, va rilevato – in conformità delle conclusioni alle quali è pervenuto il pubblico ministero con la requisitoria depositata il 13 maggio 2019 – che con il Pale Trust non si è realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente Stefano Poli.
Il Pale Trust è stato infatti costituito con atto inter vivos e, durante la vita del settlor, si è avuto il passaggio della proprietà del Gruppo Poli nella sfera giuridica del trustee, investito del compito fiduciario di gestire le partecipazioni societarie nell’interesse dei beneficiari e di devolvere ad essi detto patrimonio al termine del trust.
Tali beni non sono caduti in successione perche’ essi si trovavano, al tempo dell’apertura della stessa, già fuori del patrimonio del disponente, avendone costui trasferito la proprieta’ in via definitiva e per atto inter vivos al trustee; i beneficiari finali – le figlie Elena e Paola – hanno acquistato i beni direttamente dal trustee e non già per successione mortis causa dal de cuius.
In altri termini, nel caso di trust liberale tra vivi (qual è il Pale Trust) che produce effetti, sul piano beneficiario, dopo la morte del disponente, quel che il disponente ha pienamente trasferito in vita non concorre a formare l’asse ereditario.
Il Collegio condivide l’opinione, espressa dalla prevalente dottrina, che qualifica una vicenda attributiva come quella di specie (nella quale il settlor, istituendo con atto inter vivos il trust e conferendovi la proprietà del Gruppo Poli, ha utilizzato lo strumento per finalità che attengono alla trasmissione alle figlie, con effetti post mortem, del proprio patrimonio avente ad oggetto le partecipazioni societarie), in termini di donazione indiretta, riconducibile nell’ambito della categoria delle liberalita’ non donative, di cui all’articolo 809 cod. civ. Infatti, l’arricchimento dei beneficiari e’ stato realizzato dal disponente mediante un meccanismo indiretto, prevedente la creazione di un ufficio di diritto privato (quello del trustee), il titolare del quale – titolare, altresi’, del patrimonio separato costituente la dotazione del trust – è stato investito del compito di far pervenire ai beneficiari i vantaggi patrimoniali previsti dall’atto istitutivo.
Va quindi esclusa la natura mortis causa del trasferimento dal trustee ai beneficiari finali, che costituisce il secondo segmento dell’operazione, perchè – come e’ stato rilevato – tale atto traslativo ha investito ormai sfere giuridiche diverse da quelle dell’originario disponente: rispetto a tale trasferimento, la morte del settlor non ha alcuna rilevanza causale, potendo al piu’ individuare il momento di esecuzione dell’attribuzione finale.
5.1.2. – Questo approdo interpretativo è confermato dal regolamento UE n. 650/2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 luglio 2012 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato Europeo, non applicabile ratione temporis (il regolamento si applica, ex art. 83, alle successioni delle persone decedute alla data o dopo il 17 agosto 2015, mentre il Dott. Stefano Poli è deceduto anteriormente, il 10 dicembre 2009), e tuttavia significativo per ricostruire le linee di tendenza del quadro normativo di riferimento. Infatti, l’ambito d’applicazione del regolamento si estende a tutti gli aspetti di diritto civile della successione a causa di morte, ma ne sono esclusi non solo le questioni inerenti alla costituzione, al funzionamento e allo scioglimento di trust (e con la precisazione che in caso di costituzione di trust testamentari o legali in connessione con una successione legittima si applica la legge applicabile alla successione per quanto riguarda la devoluzione dei beni e la determinazione dei beneficiari), bensi’ anche i diritti e i beni trasferiti con strumenti diversi dalla successione, quali le donazioni, fatto salvo quanto previsto in tema di collazione e di riduzione ai fini del calcolo delle quote dei beneficiari secondo la legge applicabile alla successione (v. considerando 9, 13 e 14, nonche’ articolo 1, paragrafi 1 e 2, lettere g e j, e articolo 23, paragrafo 2, lettera i).
5.2. – La difesa della controricorrente Elena Poli, a sostegno della diversa tesi della natura ereditaria della controversia, sottolinea alcune circostanze di fatto che, a suo avviso, dimostrerebbero l’unitarietà e la continuità dell’intento del defunto nel ricondurre il tutto – testamento e trust – a una sola, perfetta e solenne unità volitiva. In particolare, viene richiamata la lettera olografa del 5 maggio 2007, scritta di pugno dal de cuius e indirizzata al suo commercialista, Dott. Claudio Massimo, fiduciario, esecutore testamentario e protector del Pale Trust. In tale documento, (Stefano Poli espresse al Massimo, “in aggiunta e complemento a quanto stabilito nel testamento”, e “in considerazione del fatto” che sarebbe stato lui il suo “esecutore testamentario”, il desiderio che il patrimonio venisse pariteticamente ripartito tra le figlie anche in relazione al costituendo trust successorio (“i beneficiari dovranno essere, dopo la mia morte, le mie figlie Elena e Paola Poli”; “il protector del Trust dovrai essere Tu”).
5.2.1. – Il Collegio ritiene che tale deduzione difensiva non sia idonea a dimostrare che con il Pale Trust si sia realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente.
Com’e’ noto, infatti, l’atto mortis causa è diretto a regolare i rapporti patrimoniali e non patrimoniali del soggetto per il tempo e in dipendenza della sua morte: nessun effetto, nemmeno prodromico o preliminare, esso è perciò destinato a produrre, e produce, prima di tale evento. L’evento della morte riveste un ruolo diverso nell’atto post mortem, perchè qui l’attribuzione è attuale nella sua consistenza patrimoniale e non è limitata ai beni rimasti nel patrimonio del disponente al momento della morte.
Seguendo tale insegnamento, va ribadito che, nella specie, con l’istituzione del Pale Trust – nel quale il settlor ha conferito le proprietà azionarie del Gruppo chimico-farmaceutico, indicando se stesso quale beneficiario in vita e, dopo la sua morte, le due figlie quali beneficiarie paritetiche – si è determinato un immediato passaggio nella sfera giuridica del trustee, realizzandosi così il dato dell’attualità dello spoglio da parte del disponente; e la di lui morte non ha costituito il punto di origine della situazione regolata né è penetrata nella giustificazione causale dell’attribuzione, ma ha rappresentato soltanto termine o condizione, e dunque modalità della stessa.
5.3. – Né la controversia può dirsi successoria in applicazione dei precedenti di questa Corte nei casi Agnelli e Corsini.
Nel primo caso (Cass., Sez. U., 27 ottobre 2008, n. 25875), infatti, si trattava di una controversia avente ad oggetto, quale domanda principale, la petizione di eredità e il conseguente scioglimento della comunione ereditaria, e proprio in ragione di tali domande svolte in via principale la giurisdizione italiana è stata riconosciuta, in applicazione dell’art. 50 della legge n. 218 del 1995, essendosi aperta in Italia la successione; e la giurisdizione italiana è stata ritenuta sussistente anche in relazione all’azione di rendiconto svolta nei confronti di più professionisti, in considerazione del carattere pregiudiziale rispetto a quella principale di petizione di eredità esercitata nei confronti del coerede, attesa la funzione unitariamente ricostruttiva di un altrettanto unitario asse ereditario cui l’azione esperita mirava in concreto.
Analogamente, nel secondo caso, questa Corte (Cass., Sez. U., 15 marzo 2012, n. 4132) ha affermato che qualora la figlia proponga un’unica azione per l’accertamento della propria qualità di erede e di divisione dell’asse ereditario contro la moglie del padre, cittadino italiano defunto nel Principato di Monaco, nonché contro i trustee dei trust di Jersey, istituiti dal de cuius, per la resa del conto e il risarcimento del danno, sussiste la giurisdizione del giudice italiano ex art. 50 della legge n. 218 del 1995, essendo il de cuius cittadino italiano al momento della morte, tanto sulla domanda principale di petitio hereditatis quanto sulla causa di rendiconto, che può essere riconosciuta incidenter tantum.
Nell’una e nell’altra vicenda, pertanto, le domande svolte in via principale miravano ad accertare e dichiarare la qualità di erede dell’attrice e a ottenere la divisione dell’asse ereditario, sicché la verifica della giurisdizione italiana è stata compiuta tenendo conto delle questioni dedotte con tali domande che vertevano in materia successoria.
Nell’odierna causa promossa dinanzi al Tribunale di Milano (R.G. n. 31946 del 2016) non è stata invece proposta nessuna domanda di petizione di eredità né di scioglimento della comunione ereditaria: l’oggetto della domanda – quale risulta in particolare dalle precisazioni e dalle modificazioni contenute nella memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ. – riguarda la pretesa creditoria nei rapporti interni tra le beneficiarie dell’apporzionamento nascente dalla dedotta sproporzione delle due attribuzioni (l’assegnazione di 81 milioni di euro a Elena Poli e l’attribuzione dell’intero capitale sociale della holding lussemburghese Polilux Holdings s.à.r.l. a Paola Poli), secondo l’attrice determinato dal dolo e comunque dal comportamento illegittimo della sorella nella stipulazione tra di esse dell’atto “divisionale”, asseritamente in contrasto con la volontà paterna, il quale, con la lettera di istruzioni al protector del 5 maggio 2007, aveva richiamato l’esigenza di un’effettiva parità tra le due figlie nella ripartizione del proprio patrimonio. La domanda – nel contestare la vincolatività dell’atto di scioglimento della comunione, evidentemente ordinaria e non ereditaria, realizzatosi attraverso il Deed tra le sorelle beneficiarie del Pale Trust, e nel tendere alla ricostruzione, determinazione e revisione del valore complessivo dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 – si riallaccia, secondo la prospettazione dell’attrice, al criterio dell’egual beneficio espressamente voluto dal padre, avendo costui previsto una deroga di favore (nella valutazione del valore del patrimonio del trust per quanto riguarda le società, con l’applicazione di un metodo patrimoniale misto che considerasse un moderato avviamento) alla continuatrice di stirpe aziendale, deroga che – si sostiene – nella specie non sarebbe applicabile, stante l’asserito comportamento doloso di Paola, che non avrebbe rilevato alla sorella le proprie reali intenzioni di non volere neanch’essa proseguire le attività paterne.
6. – Poiché, dunque, la presente controversia concerne gli esiti di una attribuzione inter vivos e non mortis causa discendente dall’apporzionamento di beni conferiti in trust e non fanno parte dell’oggetto della causa i meccanismi di riequilibrio – tipici della materia successoria – della collazione e della riduzione delle liberalità indirette, il titolo di giurisdizione, nel rapporto tra la giurisdizione italiana e quella degli altri Stati, va ricercato, non secondo i criteri speciali dettati dall’art. 50 della legge n. 218 del 1995, ma in base al criterio generale di cui all’art. 3 della stessa legge.
In applicazione di quest’ultima disposizione, la causa rientra nell’ambito della giurisdizione italiana, essendo la convenuta Paola Poli domiciliata e residente in Italia.
La causa rientra nell’ambito della giurisdizione italiana anche in applicazione della disposizione generale sulla competenza dettata dall’art. 4 del regolamento UE n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale («A norma del presente regolamento, le persone domiciliate nel territorio di un determinato Stato membro sono convenute, a prescindere dalla loro cittadinanza, davanti alle autorità giurisdizionali di tale Stato membro»).
7. – Si tratta a questo punto di stabilire se il titolo di giurisdizione italiana sia o meno neutralizzato dalla convenzione derogatoria a favore dell’arbitrato svizzero contenuta nell’art. 15 del Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue.
8. – A tale quesito deve darsi risposta positiva.
8.1. – Con la clausola compromissoria contenuta nell’art. 15 del Deed le parti hanno stabilito di risolvere “qualunque lite, controversia o istanza che scaturisca da o in relazione al presente Atto, comprese la validità, l’invalidità o la violazione delle condizioni del presente Atto” a mezzo di “arbitrato ai sensi delle Norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera (le ‘Norme’) vigenti alla data in cui l’Avviso di arbitrato viene presentato ai sensi delle Norme” (prevedendosi che “Il numero di arbitri sarà uno, la sede dell’arbitrato sarà Lugano e il procedimento arbitrale sarà condotto in inglese”; con tale clausola le parti hanno anche rinunciato “a qualunque obiezione in merito alla sede di tale procedura arbitrale e a ogni contestazione in ordine alla competenza del foro adito”). (nell’originale: “The parties to this Deed: Agree that any dispute, controversy or claim arising out of or in relabon to this Deed, including the validity, invalidity or breach of the terms of this Deed, shall be resolved as between the parties by arbitration in accordance with the Swiss Rules of International Arbitration of the Swiss Chambers of Commerce (the ‘Rules’) in force on the date when the Notice of Arbitration is submitted in accordance with the Ru/es. The number of arbitrators shall be one, the seat of arbitration shall be Lugano and the arbitrai proceedings shall be concluded in English. Hereby waive any objection to the laying of venue of any such arbitration proceedings and any claim that such proceedings have been brought in an inconvenient forum“).
Con il Deed – che ha visto come parti la Intrust Trustees, da un lato, ed Elena Poli e Paola Poli, dall’altro, queste ultime in veste di promittenti – le promittenti hanno premesso di avere richiesto ad Intrust di esercitare i suoi poteri ai sensi del Pale Trust, inclusi il potere di distribuzione e il potere di anticipazione.
Le promittenti hanno inoltre riconosciuto, concordato ed accettato (secondo quanto prevede l’art. 3): di avere piena conoscenza di tutti i fatti materiali relativi alle azioni indennizzate; di stipulare l’atto senza fare affidamento su garanzie, dichiarazioni o altro, sia in relazione alla natura che al merito delle azioni indennizzate che altrimenti; che la valutazione inclusa nella relazione di valutazione del Gruppo Poli è una stima accurata del valore del Gruppo Poli alla data dell’atto, fermo restando che tale valutazione è basata su informazioni contabili del Gruppo Poli del 2011; che la distribuzione di Paola e la distribuzione di Elena sono di pari valore e costituiscono pari beneficio per ciascuna di esse, in generale e ai fini del Pale Trust; che esse sono a conoscenza del fatto che Intrust non può al momento essere certa che non ci sia alcuna probabilità che le autorità tributarie procedano ad investigazioni in relazione al Pale Trust; che Intrust ha determinato di trattenere la riserva fiscale sino alla data di cessazione della riserva fiscale; che Intrust ha determinato di esercitare i propri poteri sul Trust Margot e sul Trust Mirtilla in modo da far sì che, fino alla data specificata, il fondo di ciascun trust sia trattenuto nel trust al fine, tra gli altri, di proteggere gli interessi dei beneficiari successivi e di far sì che la responsabilità del trustee del Pale Trust siano adempiute dal fondo dei Trust Margot e Mirtilla.
8.2. – Le domande articolate dall’attrice, tanto in via principale quanto in via subordinata, investono tutte direttamente il Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue del 3 giugno 2013, ossia l’accordo di attribuzione con cui, insieme al trustee, Elena e Paola Poli, quali uniche beneficiarie del Pale Trust, hanno pattuito il riparto, nella misura del 50% ciascuna, dello specifico bene rappresentato dal compendio societario costituito in trust, attraverso la liquidazione anticipata dei diritti economici ad Elena Poli, con l’assegnazione di 81 milioni di euro, e l’attribuzione della proprietà del Gruppo a Paola Poli.
Non è questa la sede per stabilire se il Deed sia un atto divisionale o un atto che abbia semplicemente permesso di definire e di perfezionare la liberalità indiretta a favore di ciascuna delle due beneficiarie, l’una e l’altra liberalità poi suscettibili di essere considerate, per effetto della collazione, nella successiva fase della divisione ereditaria.
La scelta processuale dell’attrice è stata nel primo senso: proponendo la “domanda ai sensi dell’art. 761 cod. civ.” e la “domanda ai sensi dell’art. 763 cod. civ.” (così, espressamente, a pag. 16 e a pag. 26 della memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1, cod. proc. civ.), ella ha contestato la vincolatività dell’esito dell’accordo divisorio tra le sorelle”. In tal modo Elena Poli ha configurato il Deed come un atto avente ad oggetto la divisione del patrimonio costituito nel Pale Trust e, su questa base, ha dedotto, a sostegno della richiesta di annullamento per dolo, che “non avrebbe prestato il proprio consenso all’apporzionamento de quo, qualora già allora la sorella Paola Poli avesse disvelato le sue reali intenzioni circa il futuro del Gruppo Poli” (pag. 17 della citata memoria), e, a supporto della domanda di rescissione per lesione, che “lo squilibrio della ripartizione” ha comportato “un oggettivo difetto funzionale della divisione” (pag. 27 del medesimo atto).
Quantunque la controricorrente Elena Poli abbia esplicitato di non avere inteso mettere in discussione la validità del Deed, in realtà, avuto riguardo al petitum sostanziale, l’annullamento o la rescissione dell’apporzionamento ovvero, ancora e in via subordinata, l’accertamento che senza i dedotti raggiri usati dalla sorella l’accordo sarebbe stato concluso da Elena Poli a condizioni diverse e per lei più vantaggiose o che l’apporzionamento stesso sarebbe privo di causa e avrebbe determinato un ingiustificato depauperamento per una delle stipulanti, costituiscono la fonte della pretesa creditoria avanzata in giudizio da Elena Poli.
8.3. – Non è condivisibile la tesi della controricorrente secondo cui l’invalidità e la rescindibilità del Deed potrebbero essere rilevate e conosciute incidenter tantum.
E’ sufficiente osservare che sono oggetto di cognizione incidenter tantum, ai sensi dell’art. 34 cod. proc. civ., solo le questioni pregiudiziali in senso tecnico. Queste ricorrono allorché le parti controvertano su di un antecedente giuridico non necessitato in senso logico dalla decisione e potenzialmente idoneo a riprodursi tra le stesse parti in relazione ad ulteriori e distinte controversie, di guisa che la statuizione su di esso, per la pluralità di effetti derivabili, possa lasciarne impregiudicata la riemersione in altra sede processuale (Cass., Sez. II, 26 marzo 2015, n. 6172).
Nella specie, l’invalidità per dolo e la rescindibilità per lesione del Deed, in quanto contenente una valutazione del Gruppo Poli asseritamente inadeguata e la cui applicazione sarebbe frutto del dolo o del comportamento illegittimo di Paola Poli, rientrano nell’oggetto della domanda e del processo e sono al di fuori del perimetro della pregiudizialità: esse costituiscono la fonte della pretesa creditoria vantata da Elena Poli e la causa petendi della domanda avente come petitum l’accertamento del credito e la condanna della sorella a soddisfarlo. Non esistono, in altri termini, due temi controversi, uno dei quali – l’asserito credito – possa essere oggetto di decisione, e l’altro – l’invalidità per dolo o la rescindibilità per lesione del Deed – oggetto di cognizione incidenter tantum.
8.4. – Né, d’altra parte, può dubitarsi della validità della detta clausola compromissoria, trattandosi di accordo di deroga della giurisdizione italiana che verte su diritti disponibili, ai sensi dell’art. 4, comma 2, della legge n. 218 del 1995: esso, infatti, è contenuto in un atto, il Deed, che concerne una situazione avente natura patrimoniale.
Ritiene questa Corte che la previsione del citato art. 4, comma 2, della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato debba essere ricollegata, in via sistematica: (a) all’art. 1966, secondo comma, cod. civ., con cui si sancisce esplicitamente come non possano formare oggetto di transazione i diritti che, «per loro natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti»; (b) all’art. 806 cod. proc. civ., che, salvo espresso divieto di legge, consente alle parti di «far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili»; (c) all’art. H della Convenzione per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, adottata a New York il 10 giugno 1958 (l’adesione alla quale è stata autorizzata con la legge 19 gennaio 1968, n. 62), disposizione che fa riferimento ad una questione suscettiva di essere regolata in via arbitrale («une question susceptible d’étre réglée par voie d’arbitrage») (cfr. Cass., Sez. U., 4 maggio 2006, n. 10219).
Questa Corte ha in proposito chiarito che l’area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determini una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte (Cass., Sez. I, 12 settembre 2011, n. 18600); e ha precisato che l’indisponibilità del diritto costituisce il limite al ricorso alla clausola compromissoria e non va confusa con l’inderogabilità della normativa applicabile al rapporto giuridico, la quale non impedisce la compromissione in arbitrato, con cui si potrà accertare la violazione della norma imperativa senza determinare con il lodo effetti vietati dalla legge (Cass., Sez. VI-1, 16 aprile 2018, n. 9344).
Si tratta di una conclusione conforme all’elaborazione della dottrina, la quale ha evidenziato che la disponibilità del diritto si concreta nella facoltà che una parte ha di incidere su un proprio diritto soggettivo, determinandone il destino, e che, di conseguenza, il concetto di diritti indisponibili si riferisce a situazioni accertabili, se controverse, solo da parte dell’autorità giudiziaria.
A ciò aggiungasi che l’eventuale presenza, nella fattispecie, di norme di applicazione necessaria (nell’accezione datane dall’art. 17 della legge n. 218 del 1995) – ossia di norme della lex fori operanti
come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato da una norma di conflitto – non incide sul diverso problema della possibilità di compromettere in arbitrato estero la controversia, non potendosi presumere che il lodo dell’arbitrato estero si porrà in concreto contrasto con la norma italiana di ordine pubblico (cfr. Cass., Sez. U., 20 febbraio 2007, n. 3841).
8.5. – Il Deed reca, oltre alla clausola arbitrale (art. 15), gli artt. 16 e 17, con la previsione della giurisdizione del giudice straniero, delle Corti d’Inghilterra e del Galles (art. 16) e di quella della Nuova Zelanda (art. 17).
Sotto la rubrica “Jurisdiction“, infatti, l’art. 16 prevede che “ai sensi della clausola 15, le parti in questo Atto scelgono irrevocabilmente quale foro competente in via non esclusiva il Tribunale d’Inghilterra e del Galles” (così nella traduzione giurata in atti; nell’originale: “Subject to clause 15, the parties to this Deed irrevocably submit to the non-exclusive jurisdiction of the Courts of England and Wales); a sua volta, l’art. 17, rubricato “No intention to oust Court’s jurísdiction“, prevede che “Nulla nelle clausole 15 o 16 del presente Atto sarà letto o interpretato come inteso a escludere la competenza dell’Alta Corte della Nuova Zelanda” (nell’originale: “Nothing in clauses 15 or 16 of this Deed shall be read or construed as intended to oust the inherent jurisdiction of the High Court of New Zealand”)..
8.5.1. – La difesa della controricorrente Elena Poli, nella memoria depositata in prossimità della camera di consiglio del 18 giugno 2019, ha prospettato che un’interpretazione cauta e non demolitoria degli artt. 15, 16 e 17 del Deed debba condurre a concludere che le parti, consapevoli che le eventuali controversie sulla successione e sulla divisione del patrimonio del de cuius avrebbero presentato un legame stretto con l’ordinamento italiano e con la restante materia successoria dell’eredità Poli, abbiano voluto non già escludere la giurisdizione italiana sul Deed, ma semmai affiancarvi altre giurisdizioni, prima tra tutte l’arbitrale svizzera, lasciate tuttavia alle scelta libera di ciascun contraente e ferma, per le controversie in materia di amministrazione del Pale Trust, la giurisdizione neozelandese. La deduzione difensiva muove dal rilievo che le clausole del Deed sulla scelta del foro competente (artt. 15, 16 e 17), dato il loro contenuto “palesemente non esclusivo”, non potrebbero avere reale portata derogatoria della giurisdizione italiana, che rimarrebbe quella con il maggior numero di connessioni con la fattispecie controversa.
8.5.2. – Il Collegio non condivide detta interpretazione.
Essa muove dall’erroneo presupposto che, poiché la scelta dell’autorità giudiziaria inglese (e del Galles) è espressamente definita “non-esclusiva”, con ciò le parti avrebbero inteso ammettere proprio “la possibilità che la jurisdiction sul Deed spettasse, oltre che all’arbitrato svizzero e al foro inglese, a ogni altra giurisdizione virtualmente competente, compresa quella del giudice italiano”.
In realtà, una lettura complessiva del tenore delle tre clausole, ancorata al loro significato letterale e rispettosa della volontà dei paciscenti, induce a scartare la tesi che l’espressa qualificazione come “non-esclusiva” della giurisdizione inglese valga a renderla concorrente con ogni altra autorità giudiziaria munita per legge di competenza giurisdizionale (compresa, quindi, quella italiana). La giurisdizione dei giudici inglesi (e del Galles) è “non-esclusiva” perché essa concorre con la giurisdizione statale dell’Alta Corte della Nuova Zelanda, la cui “inherent jurisdiction” in tema di administration del Pale Trust è ribadita e fatta salva con l’articolo immediatamente successivo.
In sostanza, la piana lettura, consecutiva ed integrata, delle tre clausole sopra citate (artt. 15, 16 e 17 del Deed) offre alle parti un ventaglio di possibilità, rimesse alla scelta di chi promuove il giudizio, ma all’interno dei tre fori alternativamente previsti: l’arbitrato svizzero (amministrato, con sede a Lugano, essendo pattuita la rinuncia a qualunque obiezione in merito alla sede di tale procedura arbitrale e a ogni contestazione in ordine alla competenza del foro adito); l’autorità giudiziaria inglese; e, venendo in considerazione un atto di amministrazione del Pale Trust, l'”inherent jurisdiction” dell’Alta Corte della Nuova Zelanda.
Questo sistema, aperto all’interno, è chiuso ed esclusivo all’esterno, e pertanto, in sé autosufficiente e completo, non ammette integrazioni “ortopediche” ab extra derivanti dall’innesto, sulle scelte operate dall’autonomia privata, di (tutte le) altre giurisdizioni statali munite, in base alla legge, di un criterio di collegamento con la fattispecie controversa.
In altri termini, la giurisdizione arbitrale svizzera, mentre è affiancata dalla (concorrente) giurisdizione inglese e da quella neozelandese e non deroga ad esse, deroga a tutti gli effetti a quella italiana sul Deed.
9. – Dovendo escludersi che l’arbitro svizzero non possa conoscere della causa (ai sensi dell’art. 4, comma 3, della legge n. 218 del 1995) o che la convenzione arbitrale sia «caduque, inopérante ou non susceptible d’étre appliquée» (agli effetti di quanto previsto dall’art. II, paragrafo 3, della Convenzione di New York del 10 giugno 1958), va dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
Tale declaratoria non è preclusa dalla pendenza in Italia, tra le stesse parti, di altri giudizi connessi: dovendosi dare continuità al principio secondo cui la clausola compromissoria per arbitrato estero, che sia stata validamente stipulata a norma dell’art. II della citata Convenzione di New York del 10 giugno 1958, comporta una deroga alla giurisdizione italiana che non viene meno per ragioni di connessione fra la controversia devoluta ad arbitri stranieri ed altra spettante alla cognizione del giudice italiano, salva restando l’eventuale sospensione di quest’ultima per ragioni di pregiudizialità (Cass., Sez. U., 12 gennaio 1982, n. 124).
10. – Sulle conformi conclusioni del pubblico ministero, è dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
11. – La complessità e la novità delle questioni trattate giustificano la compensazione tra le parti delle spese dell’intero processo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano e compensa tra le parti le spese dell’intero processo.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 3 luglio 2019.
Allegati:
SS.UU, 12 febbraio 2019, n. 18831, in tema di trust
In tema di responsabilità della p.a. – SS.UU, 12 febbraio 2024, n. 3755
Civile Ord. Sez. U Num. 3755 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: NAPOLITANO LUCIO
Data pubblicazione: 12/02/2024
Oggetto
RESPONSABILITA’
CIVILE P.A.
R.G.N. 2226/2023
Cron.
Rep.
Ud. 21/11/2023
CC
ORDINANZA
sul ricorso 2226-2023 proposto da:
BELGIOVINE DAMIANO E CO. S.A.S., in persona del socio accomandatario, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BOCCA DI LEONE 78, presso lo studio dell’avvocato CURZIO CICALA (Studio BDL), rappresentata e difesa dall’avvocato MAURO GADALETA;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI BISCEGLIE;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1781/2022 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 13/12/2022.
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/11/2023 dal Consigliere LUCIO NAPOLITANO;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, il quale chiede che le Sezioni Unite rigettino il ricorso.
Rilevato che:
L’Impresa Edile dott. Damiano Belgiovine & Co. S.a.s. (di seguito la società), in persona del socio accomandatario e legale rappresentante pro-tempore dott. Damiano Belgiovine, convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Trani il Comune di Bisceglie per sentirne affermare la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale per l’inerzia e totale disinteresse nel portare a termine le opere urbane ivi descritte, inerenti al mancato completamento di una rotatoria e del relativo collegamento viario con la rete cittadina, ciò che impediva l’accesso diretto dalla strada principale agli immobili destinati ad uso commerciale utilizzati in leasing dalla società, posti alle spalle di detta rotatoria, con conseguente domanda di condanna dell’ente locale al risarcimento dei danni subiti, non quantificati nell’atto introduttivo del giudizio.
Costituitosi il Comune, che eccepì il proprio difetto di legittimazione passiva rispetto alla domanda proposta, il Tribunale adito, rilevata d’ufficio e sottoposta al contraddittorio tra le parti la questione di giurisdizione, con sentenza n. 1223/2019, depositata il 20 maggio 2019, declinò la giurisdizione, in favore di quella del giudice amministrativo (Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia – Bari).
Il Tribunale di Trani, richiamando l’art. 7, comma 1, del d. lgs. n. 104/2010 (cod. proc. amm.), affermò la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, essendo la controversia attinente al dedotto comportamento omissivo della P.A. nell’esercizio del potere di gestione e conformazione del territorio, rientrante nella materia urbanistica.
Detta pronuncia fu impugnata dalla società dinanzi alla Corte d’appello di Bari, che, con sentenza n. 1781/2022, depositata il 13 dicembre 2022 e notificata il 20 dicembre 2012, respinse il gravame.
La Corte d’appello rilevò che entrambe le doglianze esposte dall’attrice a fondamento della domanda risarcitoria proposta ricadevano nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
La prima, riferita agli insostenibili ritardi del Comune di Bisceglie nel completamento della viabilità della zona nella quale erano compresi gli immobili commerciali sopra indicati, ricadeva nell’ambito della previsione normativa di cui all’art. 133, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 104/2010, a mente del quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di risarcimento del danno ingiusto causato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo.
La seconda, riferita al ritardo nella conclusione del procedimento per l’espropriazione e la demolizione di un vecchio rudere di proprietà di terzi ubicato sulla direttrice stradale incompiuta, ugualmente dipendente, secondo l’assunto della società, dal ritardo del Comune nell’attività destinata a concludersi con la demolizione del succitato manufatto, riconducibile, invece, secondo la Corte d’appello, all’art. 133, comma 1, lett. f), del citato d.lgs. n. 104/2010.
Avverso detta sentenza la società ricorre per cassazione sulla base di un solo motivo.
Il Comune di Bisceglie è rimasto intimato.
Disposta la trattazione della controversia in adunanza camerale, in prossimità della stessa, nel rispetto dei termini, il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, concludendo per il rigetto del ricorso e parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 – bis.1, cod. proc. civ.
Considerato che:
1. Con l’unico motivo di ricorso la società denuncia «violazione dell’art. 360 n. 1 c.p.c. con riferimento all’art. 2043 c.c. ed alla violazione della legge n. 69 del 2009, art. 59, comma 3, e art. 11 comma 3, c.p.a. Anche con riguardo alla pretesa violazione del d.lgs. 104/2010, art. 133, comma 1, lettera a) e n. 1».
La ricorrente – ribadito di avere agito a tutela di un proprio diritto soggettivo in qualità di locataria degli immobili de quibus, azionando la pretesa risarcitoria sia sotto l’aspetto contrattuale come derivante da detta indicata qualità, sia sotto l’aspetto della responsabilità extracontrattuale per violazione dell’art. 2043 cod. civ. per lesione del generale principio del neminem laedere – rilevava che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto della circostanza, pur allegata in atti sin dal primo grado di giudizio, che il procedimento amministrativo riferito all’espropriazione dell’area contestata si era concluso con l’immissione del Comune nel possesso della medesima e con l’esecuzione delle opere residue, sicché, da parte del giudice ordinario adito, non restava che decidere sul fondamento e sulla quantificazione della domanda risarcitoria proposta.
2. Giova premettere una sintetica ricostruzione, in fatto, della vicenda dalla quale è scaturita l’odierna controversia.
Le opere viarie delle quali la società ha lamentato la tardiva realizzazione da parte del Comune di Bisceglie rientravano nelle opere di urbanizzazione primaria previste nella nuova zona P.e.e.p., 167, del PRG di detto Comune.
Esse furono disciplinate da apposita convenzione,
intercorsa tra il Comune di Bisceglie ed il Consorzio Bisceglie 167, di cui era parte la società Fratellanza Soc. Coop. Edilizia a r.l. (di seguito Fratellanza), disponendo la convenzione che le opere di urbanizzazione primaria fossero a carico del Consorzio.
La società Fratellanza cedette, quindi, in proprietà, nel 2012, a Fineco Leasing, gli immobili destinati ad uso commerciale realizzati nell’area, dei quali quelli descritti nell’originario atto di citazione furono ceduti in leasing all’odierna ricorrente.
2.1. Ciò premesso, deve rilevarsi che, sebbene la ricorrente tenda a collegare la domanda risarcitoria ad un comportamento materiale di mera inerzia e totale disinteresse nel portare a termine le opere urbane sopra descritte, secondo le conclusioni rassegnate nel libello introduttivo del giudizio di merito, non vi è dubbio che, viceversa, l’azione risarcitoria proposta sia riconducibile, sul piano eziologico, al cattivo esercizio, implicitamente lamentato dal medesimo atto di citazione, del potere amministrativo, in materia riferita al governo del territorio.
In tale contesto, deve ribadirsi che la cognizione sulla domanda risarcitoria del privato per i danni asseritamente causati da atti illegittimi – ovvero anche dalla mancata adozione di atti che avrebbero dovuto essere emanati da parte dell’autorità amministrativa competente – spetti alla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. Cass. SU, ord. 8 novembre 2016, n. 22650; Cass. SU, 2 luglio 2015, n. 13568).
2.2. Nella fattispecie in esame, secondo la ricorrente, avrebbero avuto rilevanza decisiva al fine di radicare la giurisdizione del giudice ordinario, le circostanze della conclusione del procedimento amministrativo afferente all’immissione in possesso del Comune nell’area occupata dal rudere di proprietà di terzi, che impediva il completamento della rotatoria, e del conseguente collegamento alla rete viaria preesistente, con realizzazione quindi dell’opera, come precisato in atti nel corso del giudizio di primo grado, e delle quali entrambe le pronunce rese nei gradi di merito non hanno tenuto conto.
2.2.1. Ciò non incide, peraltro, sulla natura della doglianza rappresentata dalla società nell’atto di citazione, atteso che essa si risolve nella contestazione che l’amministrazione non abbia esercitato un dato potere nella situazione legata all’esecuzione delle opere di urbanizzazione intercorsa tra il Comune ed il Consorzio Bisceglie 167, ovvero che l’abbia esercitato in tempi e modi non congrui, donde la posizione giuridica soggettiva del privato si pone in termini di interesse legittimo al corretto esercizio del potere (cfr. Cass. SU, ord. 18 maggio 2015, n. 10095; Cass. SU, 11 maggio 2021, n. 21678).
2.2.2. Né il fatto che dalla situazione esposta si faccia dipendere un danno ingiusto, lamentato dall’attrice con riferimento al depauperamento delle potenzialità commerciali degli immobili destinati a detto uso per l’impedimento all’accesso ai medesimi dalla via principale può radicare la giurisdizione del giudice ordinario, rientrando la controversia in oggetto nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativa, sia, per quanto già osservato dalla Corte d’appello, in relazione all’art. 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm., (controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti della pubbliche amministrazioni in materia urbanistica ed edilizia, concernenti tutti gli aspetti dell’uso del territorio) sia, più specificamente, perché il lamentato cattivo esercizio del potere amministrativo è riferito – in relazione al mancato completamento della rotatoria in oggetto, come inserita nel contesto delle opere di urbanizzazione primaria della zona P.e.e.p. 167 del Comune di Bisceglie – alla fase esecutiva di accordi integrativi di provvedimenti amministrativi (nella specie la Convenzione per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria riguardanti la zona menzionata di cui all’ Atto pubblico 6.10.2008 intercorso tra il Comune di Bisceglie ed il Consorzio Bisceglie 167); donde risulta attratta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche in relazione al disposto dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, del cod. proc. amm. (cfr., più di recente, Cass. SU, ord. 4 maggio 2023, n. 11713 per l’affermazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in tema di accordi sostitutivi in materia urbanistica e loro esecuzione; si veda anche Cass. SU, ord. 24 luglio 2023, n. 22144, ove si è affermato che la controversia relativa ad un contratto di permuta tra la P.A. ed un privato, alternativo ad un procedimento di espropriazione, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a, n. 2, del d. lgs. n. 104 del 2010, rappresentando detto accordo uno strumento di pianificazione territoriale attraverso il quale il soggetto pubblico assolve ai propri compiti istituzionali).
2.3. In tale contesto deve infine rilevarsi come i precedenti delle Sezioni Unite di questa Corte, solo genericamente, peraltro, indicati dalla ricorrente in memoria, addotti dalla ricorrente medesima a supporto della propria tesi, in realtà non siano conferenti con la fattispecie in esame, atteso che riguardano, per lo più, diverse fattispecie nelle quali questa Corte ha avuto modo di affermare la giurisdizione del giudice ordinario in tema di responsabilità civile della P.A. per lesione del legittimo affidamento del privato da contatto sociale “qualificato” (ad esempio, tra le altre, Cass. SU, ord. 19 gennaio 2023, n. 1567), ovvero fattispecie in cui, sebbene l’inerzia della P.A. sia collegata al mancato esercizio di attività provvedimentale, la stessa assume natura di attività vincolata, come nel caso di omesso sgombero di immobile abusivamente occupato (si veda, ad esempio, Cass. SU, 16 marzo 2023, n. 7737).
2.4. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere pertanto respinto, sussistendo in materia la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, come correttamente affermato dalla sentenza impugnata.
3. Non vi è luogo a pronunciare sulle spese del giudizio di legittimità, non avendo svolto difese il Comune di Bisceglie.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio delle Sezioni
Allegati:
SS.UU, 12 febbraio 2024, n. 3755, in tema di responsabilità della p.a.