In tema di ricorso per cassazione – SS.UU, 12 marzo 2024, n. 6477
Civile Sent. Sez. U Num. 6477 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: VINCENTI ENZO
Data pubblicazione: 12/03/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 5062/2020 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
-ricorrente-
contro
UNICAR S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 1, presso lo studio dell’avvocato PAOLO VITALI, che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso la sentenza n. 3852/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL LAZIO – SEZIONE STACCATA di LATINA, depositata il 25/06/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/01/2024 dal Consigliere ENZO VINCENTI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale ROBERTO MUCCI, che ha concluso per l’ammissibilità del ricorso, con restituzione alla Sezione Tributaria, e, in subordine, per l’accoglimento;
uditi l’avvocato dello Stato GIANNI DE BELLIS e l’avvocato PAOLO VITALI.
FATTI DI CAUSA
- – Con ricorso affidato a due motivi, l’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale (C.T.R.) del Lazio, sezione staccata di Latina, resa pubblica in data 25 giugno 2019, che, in riforma della decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone del 7 novembre 2017, accoglieva l’appello della Unicar s.r.l. e annullava, di conseguenza, l’avviso di accertamento emesso nei confronti di detta società con il quale, per l’anno di imposta 2013, era contestata la detrazione di I.V.A. per l’acquisto di n. 12 autovetture usate, giacché attinente ad operazioni soggettivamente inesistenti in ragione dell’interposizione fittizia della società “cartiera” Blue Eagle di Costa M. & C. s.a.s.
- – La T.R. del Lazio, con la sentenza impugnata in questa sede, accoglieva l’appello del contribuente reputando che il comportamento da esso tenuto non dimostrasse “la sua consapevolezza nella partecipazione ad un meccanismo di frode”, non essendo egli “nella possibilità di sapere o di dover sapere” e ciò in forza di una pluralità di elementi, ossia: l’acquisto di veicoli che, al momento della consegna, sono soggetti a registrazione; il mancato coinvolgimento (desumibile dalle “intercettazioni telefoniche”) del legale rappresentante della Unicar s.r.l. “nel meccanismo criminoso”; il numero esiguo di autoveicoli acquistati, “pari ad una irrisoria percentuale del totale”; l’incidenza sull’acquisto “ad un prezzo inferiore” delle “politiche aziendali, che mirano ad ottenere un maggior profitto”.
- – L’Agenzia delle Entrate, con il primo motivo di ricorso, ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli 2697, 2727 e 2729 c.c., nonché degli artt. 19 e 21 del d.P.R. n. 633/1972, per aver la C.T.R. utilizzato a sostegno della decisione argomentazioni “fuorvianti e ultronee”, nonché prove “inesistenti, inconsistenti, ininfluenti, non allegate dalle parti”, così da invertire lo stesso onere probatorio incombente su di esse, gravando sul contribuente la dimostrazione della propria buona fede, una volta provata dall’amministrazione (come nella specie) “la natura di cartiera della società a monte” dell’operazione in frode.
Con il secondo motivo è, quindi, censurata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 19 e 21, comma settimo, del d.P.R. n. 633/1972, per aver la C.T.R. infranto i principi dettati dalla giurisprudenza eurounitaria e nazionale sull’onere di “diligenza esigibile da un operatore accorto”, in assenza di dimostrazione, da parte della Unicar s.r.l., impresa con “esperienza pluriennale maturata nel settore del commercio degli autoveicoli”, di essersi comportata, nella vicenda, in conformità a detto parametro.
- – Ha resistito con controricorso l’intimata Unicar s.r.l., la quale, oltre ad argomentare sull’infondatezza dell’impugnazione, ne ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità per “inesistenza” del ricorso, redatto in originale informatico, in quanto privo di sottoscrizione digitale del difensore.
- – La trattazione del ricorso è stata rimessa alla pubblica udienza della Sezione Tributaria con ordinanza interlocutoria 13879 del 2022 adottata, ai sensi del terzo comma dell’art. 380-bis c.p.c. (ratione temporis vigente), dalla Sezione Sesta Tributaria, dinanzi alla quale la controricorrente aveva depositato memoria, insistendo nell’anzidetta eccezione preliminare.
- – All’esito dell’udienza pubblica, preceduta dal deposito delle conclusioni scritte del pubblico ministero (nel senso dell’accoglimento del ricorso) e delle memorie di entrambe le parti, la Sezione Tributaria, con ordinanza interlocutoria 16454 del 2023, reputando sussistente una questione di massima di particolare importanza in ordine al vizio ravvisabile nel ricorso per cassazione nativo digitale privo della firma digitale del difensore (nella specie, dell’avvocato dello Stato il cui nominativo è indicato in calce al ricorso stesso), ha trasmesso gli atti al Primo Presidente ai sensi dell’art. 374 c.p.c., il quale ha assegnato la causa a queste Sezioni Unite.
- – La Unicar r.l. ha depositato ulteriore memoria ex art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
- – Queste Sezioni Unite, su sollecitazione della Sezione Tributaria, sono chiamate a pronunciarsi sulla questione di diritto, di massima di particolare importanza, che attiene ad un requisito di forma del ricorso per cassazione redatto in originale informatico, ossia, se mancando la sottoscrizione con firma digitale del difensore (come nel caso in esame, quale circostanza incontestata dalla stessa difesa erariale dell’Agenzia delle Entrate), un tale vizio sia da ricondursi alla categoria dell’inesistenza, in applicazione del principio generale desumibile dall’art. 161, secondo comma, c.p.c., ovvero a quella della nullità suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, terzo comma, c.p.c.
- – La Sezione rimettente evidenzia che, nel caso, trova rilievo “un possibile deficit strutturale dell’atto processuale”, richiedendo l’art. 365 p.c. (in coerenza con la regola generale posta dall’art. 125 c.p.c.) che il ricorso per cassazione sia “sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto in apposito albo”, là dove la causa dell’inammissibilità – come ritenuto, segnatamente, da Cass. n. 18623/2016 – “non può essere trattata come una causa di nullità cui applicare il criterio del raggiungimento dello scopo”.
L’ordinanza interlocutoria, richiamando la decisione di questa Corte evocata dalla controricorrente (Cass. n. 3379/2019), espressione di un orientamento consolidato in relazione a ricorso redatto in modalità analogica (tra le altre: Cass. n. 4078/1986; Cass. n. 2691/1994; Cass. n. 6111/1999; Cass. n. 4116/2001; Cass., S.U., n. 11632/2003; Cass. n. 1275/2011), cui si oppone soltanto una pronuncia “assolutamente isolata” (Cass. n. 9490/2007), ricorda che il difetto di sottoscrizione degli atti da parte del difensore (o della parte abilitata a stare in giudizio personalmente) è riconducibile alla categoria dell’inesistenza, in applicazione del “principio generale circa la sorte della sentenza priva di sottoscrizione del giudice, ex art. 161, comma 2, c.p.c.”, essendo la sottoscrizione “elemento indispensabile per la formazione” dell’atto processuale.
Quanto, poi, al caso di specie, di ricorso nativo digitale privo di sottoscrizione digitale, la giurisprudenza di questa Corte in medias res – dal Collegio rimettente richiamata – si concentra in due (sole) pronunce: Cass. n. 14338/2017 e Cass., S.U., n. 22438/2018.
Secondo Cass. n. 14338/2017, che “si muove senz’altro nell’egida dell’orientamento tradizionale”, la mancanza della firma digitale comporta la nullità del ricorso, essendo la stessa equiparata dal d.lgs. n. 82/2005 alla sottoscrizione autografa, la quale, ai sensi dell’art. 125 c.p.c., costituisce “requisito dell’atto introduttivo (anche del processo di impugnazione) in formato analogico”.
Con Cass., S.U., n. 22438/2018 si è affermato (sebbene – come riconosce l’ordinanza n. 16454/2023 – quale “snodo logico- giuridico” dell’approdo nomofilattico ex art. 363 c.p.c. sulla questione, diversa, della improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c.) il principio secondo cui il ricorso predisposto in originale in forma di documento informatico e notificato in via telematica deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell’atto stesso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo.
La Sezione rimettente, pur dando atto della specifica portata nomofilattica di quel principio, anche ai sensi del terzo comma dell’art. 374 c.p.c., ritiene meritevole di approfondimento la questione di diritto alla luce di una serie di argomentate considerazioni.
Anzitutto, l’inserirsi del precedente del 2018 in contesto giurisprudenziale in cui il vizio attinente al requisito della sottoscrizione del ricorso, dettato ai fini dell’ammissibilità dello stesso atto, è ricondotto alla categoria dell’inesistenza e non della nullità.
Ed ancora, l’ordinanza interlocutoria evidenzia che proprio attraverso il richiamo della nullità le citate Sezioni Unite ipotizzano “il ricorso alla sanatoria del vizio, ove sia possibile attribuire la paternità dell’atto”, pur non soffermandosi – per non essere nel caso allora esaminato necessario – ad approfondire se detta paternità “debba pur sempre ricollegarsi ad una sottoscrizione comunque apposta sull’atto, anche se ad altri fini” oppure “una simile indagine possa anche condursi in forza di altri elementi, esterni all’atto processuale”.
La Sezione rimettente sostiene, quindi, che, sebbene “diverse disposizioni normative esprimono il c.d. principio di non discriminazione del documento informatico, rispetto a quello
analogico o tradizionale” (artt. 20 e 23, comma 2, del C.A.D.; art. 25, parr. 1 e 2, del Reg. UE n. 910/2014), il documento informatico, alla stregua di una sorta di “discriminazione al contrario”, “non può di per sé supplire al deficit strutturale da cui esso sia eventualmente affetto, rispetto ai requisiti di forma richiesti dalla norma, salvo che detti requisiti siano direttamente evincibili dal suo corredo informativo”.
E nel caso della mancanza della firma digitale – soggiunge l’ordinanza interlocutoria – è ben difficile che la paternità del ricorso possa desumersi aliunde dalle “proprietà” del documento stesso o “dall’utilizzo di una casella PEC inequivocabilmente riferibile all’avvocato che avrebbe apparentemente redatto il ricorso”. In quest’ultima ipotesi, non potrebbe “comunque escludersi un accesso alla medesima casella PEC del mittente da parte di soggetto diverso dal suo titolare”, là dove, poi, “è solo l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale a determinare la presunzione (relativa) di riconducibilità della stessa al suo titolare, ex art. 20, comma 1-ter, del C.A.D., non anche l’uso della casella PEC del mittente, per quanto ovviamente personale”.
La Sezione Tributaria, infine, assume, con specifico riferimento all’Avvocatura dello Stato, che, sebbene la relativa difesa abbia carattere impersonale, è “imprescindibile”, tuttavia, “che l’atto processuale debba essere comunque riferibile con certezza ad avvocato dello Stato perfettamente identificabile”. Difatti, il patrocinio assunto dall’Avvocatura erariale esclude soltanto la necessità del rilascio della procura speciale ex art. 365 c.p.c., ma non “l’assunzione di paternità circa il contenuto dell’atto, riconducibile evidentemente alla sottoscrizione”, a tal fine non potendosi neppure ricorrere alla firma per autentica di detta procura, per l’appunto non necessaria nel caso in cui la parte sia abilitata ad avvalersi del suo patrocinio. - – L’impugnazione proposta dall’Agenzia delle Entrate, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, contro la Unicar s.r.l. per la cassazione della sentenza emessa il 25 giugno 2019 dalla C.T.R. del Lazio, sezione staccata di Latina, è ammissibile.
3.1. – Viene in rilievo un ricorso redatto in forma di documento informatico, privo di firma digitale, e, come tale, notificato a mezzo p.e.c. (dall’indirizzo del mittente:_____________) il 27 gennaio 2020, ma depositato in copia analogica l’11 febbraio 2020 (unitamente alle copie cartacee dei messaggi di p.e.c. e della relata di notificazione) e munito di attestazione di conformità, ex art. 9 della legge n. 53 del 1994, con sottoscrizione autografa dell’Avvocato dello Stato Salvatore Faraci.
Tale, dunque, è la fattispecie processuale che – nell’ottica di necessaria compenetrazione tra l’esercizio dei compiti di nomofilachia e la vicenda portata alla cognizione del giudice – segna il perimetro entro il quale si colloca la decisione di ammissibilità.
3.2. – Nella specie occorre tenere conto, pertanto, del regime precedente a quello che si è venuto a determinare, dapprima, con la facoltatività, dal 31 marzo 2021, del deposito telematico a valore legale degli atti di parte nel giudizio di cassazione (e ciò per effetto del decreto direttoriale DGSIA del 27 gennaio 2021, pubblicato sulla G.U. 28 gennaio 2021, n. 22 ed emanato ai sensi dell’art. 221, comma 5, del d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020) e, quindi, a definire con l’obbligatorietà di detto deposito a partire dal 1° gennaio 2023 (in virtù dell’art. 196-quater disp. att. cod. proc. civ., introdotto dall’art. 4 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149).
Il contesto è, dunque, quello in cui, non potendosi procedere in cassazione al deposito telematico del ricorso nativo digitale come tale notificato, era affidato alla parte l’onere di attestare, ai sensi dell’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994 (e successive modificazioni), la conformità al predetto atto processuale originale della copia analogica depositata.
Ed è in siffatto contesto che la sentenza n. 22438 del 2018 di queste Sezioni Unite ha avuto modo di affermare – nello sviluppo dell’iter argomentativo avente ad oggetto, segnatamente, la questione di procedibilità ex art. 369, primo comma, c.p.c. di ricorso nativo digitale notificato a mezzo p.e.c. e depositato in copia analogica priva di asseverazione ai sensi del citato art. 9 della legge n. 53/1994 – che la mancanza di sottoscrizione digitale del ricorso nativo digitale notificato (ossia, del documento informatico originale) costituisce un “vizio che potrebbe determinare la nullità dell’atto, se non fosse possibile aliunde ascriverne la paternità certa, in ragione del principio del raggiungimento dello scopo”.
3.3. – A tal riguardo varrà rammentare che la giurisprudenza di questa Corte (tra cui quella stessa indicata dall’ordinanza interlocutoria n. 16454/2023) assegna all’elemento formale della sottoscrizione la funzione di nesso tra il testo ed il suo apparente autore, affinché possa dirsi certa la paternità dell’atto processuale.
A tal fine, dunque, la sottoscrizione si rivela elemento indispensabile per la formazione dell’atto stesso, il cui difetto ne comporta (come, per l’appunto, sovente affermato) l’inesistenza (in forza dell’estensione del principio della nullità insanabile stabilito dal secondo comma dell’art. 161 c.p.c.), qualora, però, non ne sia desumibile la paternità da altri elementi, come, in particolare, la sottoscrizione per autentica della firma della procura in calce o a margine dello stesso (tra le altre: Cass. n. 4078/1986; Cass. n. 6225/2005; Cass. n. 9490/2007; Cass. n. 1275/2011; Cass. n. 19434/2019; Cass. n. 32176/2022).
La funzione di rendere certa la paternità dell’atto processuale può, quindi, essere assolta tramite elementi, qualificanti, diversi dalla sottoscrizione dell’atto stesso, che consentano, tuttavia, di avere certezza su chi ne sia l’autore; uno scopo, dunque, che, in siffatti stretti termini, è conseguibile aliunde.
3.3.1. – Un orientamento, questo, che la citata Cass., S.U., n. 22438/2018, muovendosi nella ricordata realtà ‘ibrida’ del processo civile telematico di legittimità (in cui, come detto, il ricorso, nativo digitale e notificato a mezzo p.e.c., doveva necessariamente essere depositato in formato analogico corredato da attestazione di conformità), ha ribadito alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU) il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (così anche: Cass., S.U., n. 25513/2016; Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024).
Di qui, pertanto, anche la rinnovata vitalità assegnata al principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo, dalla legge prescritte non per la realizzazione di un valore in sé o per il perseguimento di un fine proprio ed autonomo, ma in quanto strumento più idoneo per la realizzazione di un certo risultato, il quale si pone come il traguardo che la norma disciplinante la forma dell’atto intende conseguire (tra le molte: Cass. n. 9772/2016; Cass., S.U., n. 14916/2016; Cass., S.U., n. 10937/2017; Cass. n. 8873/2020; Cass. n. 31085/2022; Cass. n. 14692/2023).
3.4. – L’atto su cui, pertanto, queste Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è la copia cartacea del ricorso per cassazione depositata dall’Agenzia delle Entrate e asseverata, unitamente alle copie cartacee dei messaggi di p.e.c., dall’Avvocato dello Stato Salvatore Faraci.
3.4.1. – Nella specie, non è in discussione la conformità della copia al contenuto del ricorso nativo digitale, perché nulla è stato eccepito sul punto dal controricorrente.
I rilievi della Unicar s.r.l., infatti, si concentrano soltanto sull’assenza di firma digitale sull’originale del documento informatico, contestandosi, altresì, che l’apposta asseverazione ex art. 9 della legge n. 53/1994 sulla copia in formato analogico possa assolvere allo scopo di riferire l’atto al suo autore e cioè all’Avvocato dello Stato Faraci, anche perché in essa è attestato “un fatto non vero: ovverosia il fatto che il ricorso fosse stato sottoscritto digitalmente” (così a p. 9 della memoria depositata per l’udienza del 16 gennaio 2024; ma la contestazione era già presente a p. 3 della memoria depositata per l’udienza del 29 settembre 2022).
3.4.2. – Invero, pur essendo pacifica la circostanza della mancanza di sottoscrizione del ricorso nativo digitale notificato via p.e.c., non è, anzitutto, in discussione (neppure da parte della società controricorrente) la riferibilità del ricorso stesso alla difesa erariale dell’Avvocatura generale dello Stato in quanto tale, essendo ciò comprovato, comunque, dalla relativa notificazione eseguita dall’indirizzo p.e.c. (____________________) censito nei pubblici registri e riferibile alla medesima Avvocatura, alla quale, in forza dell’art. 1, comma primo, del r.d. n. 1611 del 1933, spettano “(l)a rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo”.
E tanto è consentito ritenere proprio in forza della natura impersonale del relativo patrocinio dalla legge stabilita e che viene a configurare un “unicum” rispetto alla difesa in giudizio di tutti gli altri enti pubblici che si avvalgano di avvocati del libero foro o dei propri uffici legali, essendo in questi casi il mandato difensivo sempre conferito al singolo avvocato in rappresentanza dell’ente.
Di ciò se ne ha ora conferma esplicita in base alle modifiche recentemente apportate al d.m. 44/2011 dal d.m. n. 217/2023 (modifiche entrate in vigore il 14 gennaio 2024), per cui l’Avvocatura dello Stato è espressamente menzionata, anche nelle sue articolazioni distrettuali, all’art. 2, comma 1, lettera m), n. 4, tra i soggetti abilitati esterni pubblici. Pertanto, è l’Avvocatura dello Stato in quanto tale ad essere censita sul registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della giustizia (c.d. REGINDE: art. 7 del d.m. n. 44/2011), quale difensore abilitato a operare nell’ambito del p.c.t., non i singoli avvocati e procuratori dello Stato e tanto in ragione proprio della ricordata natura impersonale del relativo patrocinio.
Del resto, il carattere impersonale della difesa dell’Avvocatura dello Stato è profilo più volte rimarcato dalla giurisprudenza di questa Corte che, anche in riferimento alla rappresentanza e difesa in giudizio delle Agenzie fiscali, ha affermato che gli avvocati dello Stato sono pienamente fungibili nel compimento di atti processuali relativi ad un medesimo giudizio, per cui l’atto introduttivo di questo è valido anche se la sottoscrizione è apposta da avvocato diverso da quello che materialmente ha redatto l’atto, unica condizione richiesta essendo la spendita della qualità professionale abilitante alla difesa (tra le altre: Cass. n. 4950/2012; Cass. n. 13627/2018). E nella stessa prospettiva si è, altresì, precisato che, nel caso di ricorso proposto per conto di un’amministrazione dello Stato, se non si contesta che la sottoscrizione provenga da un legale dell’Avvocatura generale dello Stato, non rileva neanche se lo stesso si identifichi o meno con il nominativo indicato nell’epigrafe o in calce al ricorso (Cass., S.U., n. 59/1999; Cass. n. 21473/2007).
3.4.3. – Quanto, poi, alla necessità della sottoscrizione del ricorso nativo digitale depositato in modalità analogica da un determinato avvocato dello Stato, una siffatta esigenza è, nella specie, da ritenersi soddisfatta dall’attestazione di conformità sottoscritta dall’avvocato dello Stato Faraci, di cui non è affatto contestata tale qualità.
L’asseverazione datata 29 gennaio 2020, nonostante attesti, in contrasto con la realtà fenomenica, che l’originale informatico dell’atto sia “sottoscritto con firma digitale dall’Avvocato dello stato Avv. Salvatore Faraci”, risulta comunque chiaramente riferita al ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate contro la Unicar s.r.l. e agli allegati messaggi di p.e.c. relativi alla notificazione del ricorso medesimo in data 27 gennaio 2020. E la inequivoca riferibilità dell’attestazione anzidetta al ricorso per cui è causa è circostanza che, invero, non è messa in discussione neppure dalla parte controricorrente, le cui difese, come detto, insistono sul profilo giuridico dell’inesistenza di ricorso nativo digitale privo di sottoscrizione e sulla inidoneità dell’attestazione ex lege n. 53/1994 a supplire a tale carenza.
Contrariamente, dunque, a quanto ritenuto dalla Unicar s.r.l., detta asseverazione esprime la paternità certa dell’atto, proveniente dall’Avvocatura generale dello Stato, in capo allo stesso avvocato dello Stato Faraci, operando in termini che, nello specifico contesto dato, possono ben essere assimilati alla certificazione dell’autografia della sottoscrizione della procura alle liti, palesando anzi, in maniera anche più evidente di quest’ultima (che si riferisce indirettamente all’atto cui accede), il nesso tra l’atto e il suo autore.
3.5. – Pertanto, nella peculiarità della delineata situazione processuale ‘ibrida’ e in continuità con l’indirizzo, ribadito anche da Cass., S.U., n. 22438/2018 (alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale, cui si raccorda quello di strumentalità delle forme processuali), per cui è possibile desumere aliunde, da elementi qualificanti, la paternità certa dell’atto processuale, va ritenuto che la notificazione del ricorso nativo digitale dalla casella p.e.c. dell’Avvocatura generale dello Stato censita nel REGINDE e il deposito della copia di esso in modalità analogica con attestazione di conformità sottoscritta dall’avvocato dello Stato, rappresentano elementi univoci da cui desumere la paternità dell’atto, rimanendo così superato l’eccepito vizio in ordine alla mancata sottoscrizione digitale dell’originale informatico del ricorso. - – Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate va, dunque, dichiarato ammissibile e il relativo esame rimesso alla Sezione Tributaria.
P.Q.M.
dichiara ammissibile il ricorso e ne rimette l’esame alla Sezione Tributaria.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 09 giugno 2023, n. 16454, per SS.UU, 12 marzo 2024, n. 6477, in tema di ricorso per cassazione
SS.UU, 12 marzo 2024, n. 6477, in tema di ricorso per cassazione
In tema di sospensione feriale dei termini – SS.UU, 13 maggio 2024, n. 12946
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sig.ri Magistrati:
Oggetto
SEPARAZIONE DIVORZIO –
oscuramento
R.G.N. 28091/2021
Cron.
Rep.
Ud. 30/01/2024
PU
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 28091-2021 proposto da:
T. D., rappresentata e difesa dagli avvocati ROBERTO BOCCHINI e GIANLUCA BIANCAMANO;
-ricorrente –
contro
M. L. rappresentato e difeso dall’avvocato SABRINA VARRICCHIO;
-controricorrente –
avverso il DECRETO della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositato il 23/06/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2024 dal Consigliere FRANCESCO TERRUSI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Luisa De Renzis, che ha concluso perché il ricorso sia dichiarato ammissibile; in subordine, perché sia disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea;
udito l’Avvocato Roberto Bocchini.
Fatti di causa
M. L. ha chiesto, ai sensi dell’art. 9 legge div., di essere esonerato dall’obbligo di versare all’ex coniuge T. D. l’assegno di mantenimento delle figlie, S. e L. , stabilito nel giudizio di divorzio in 5.000,00 EUR.
Il tribunale di Napoli ha respinto il ricorso osservando che le giovani, per quanto maggiorenni e laureate, erano ancora in una condizione di permanenza temporanea fuori sede, con conseguente conservazione della legittimazione della madre a ricevere l’assegno.
La decisione è stata riformata dalla corte d’appello di Napoli perché la mancanza di convivenza delle figlie con la madre aveva costituito una condizione determinativa del venir meno della di lei legittimazione a chiedere e ottenere, iure proprio, l’assegno.
Specificamente la corte d’appello ha ritenuto che l’età delle figlie, i percorsi intrapresi in conformità degli studi e le esperienze lavorative e professionali successivamente svolte fossero tali da sostenere la conclusione della possibilità di accesso ad altre esperienze lavorative qualificanti, in linea con le prospettive di ognuna, del contesto familiare e dell’ambiente socioeconomico nel quale esse erano inserite; sicché la residenza di entrambe a Milano doveva essere considerata come oramai non più temporanea. Era quindi venuto meno il presupposto della convivenza delle figlie con la madre e di conseguenza non poteva ritenersi esistente neppure la legittimazione di quest’ultima a pretendere l’assegno in nome delle stesse, salva rimanendo la loro eventuale iniziativa diretta.
La T. D. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi.
Il M. L. ha resistito con controricorso.
Con ordinanza interlocutoria n. 27514 del 2023 la Prima sezione civile di questa Corte ha chiesto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite sulla pregiudiziale questione relativa alla tempestività del mezzo, perché il ricorso è stato notificato il 26-10-2021 a fronte di decreto a sua volta notificato, per ammissione della stessa parte, il 27-7-2021. Ne deriverebbe la necessità di stabilire se alle liti in materia di mantenimento per i figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti sia applicabile, o meno, la sospensione dei termini processuali prevista dagli artt. 3 della l. n. 742 del 1969 e 92, primo comma, dell’ord. giud.; soluzione condizionata dal significato da annettere alla locuzione “cause civili relative ad alimenti” prevista da tale seconda norma quanto agli affari civili da trattare in periodo feriale, perché sottratti alla sospensione dei termini.
A tal riguardo il collegio rimettente ha ravvisato l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza insorto per effetto di una recente ordinanza della stessa Prima sezione (la n. 18044 del 2023) che, mutando il quadro dei principi fin a ora espressi in modo all’apparenza consolidato, ha stabilito che nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori non è più applicabile la sospensione feriale dei termini processuali; sicché tali cause sarebbero ormai tutte assimilabili a quelle in materia di alimenti, per definizione urgenti e non soggette a pause processuali obbligatorie.
La Prima Presidente ha disposto in conformità.
Le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
I.- In esito alla citata recente decisione n. 18044-23, la Primasezione ha chiesto che fosse riservata alle Sezioni Unite una questione divenuta di particolare importanza per due ordini di ragioni: perché correlata a un tentativo di mutamento di giurisprudenza ritenuto necessario dal tenore della normativa europea asseritamente rilevante (il regolamento CE n. 4 del 2009 del Consiglio in data 18-12-2008); e perché coinvolgente, negli effetti potenziali, un numero indeterminato di controversie familiari.
II.- L’ordinanza n. 18044-23 ha fissato il seguente principio: “intema di obbligazioni alimentari come regolate dall’art. 1, comma 1, del Regolamento CE n. 4/2009 del Consiglio del 18 dicembre 2008 (relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari), a norma dell’art. 83, comma 3, del d. l. n. 18 del 2020, convertito nella l. n. 27 del 2020, che della prima costituisce una derivazione, nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori non è più applicabile la sospensione feriale dei termini processuali, di cui agli artt. 1 e 3 l. n. 742 del 1969; tali cause sono ormai tutte assimilabili a quelle in materia di alimenti, per definizione urgenti e non soggette a pause processuali obbligatorie; ove pertanto si controverta di siffatte obbligazioni, la sospensione dei termini non si applica parimenti ai casi in cui la causa comprenda, in connessione, anche altre questioni familiari o riguardanti i minori, pur se non espressamente contemplate dall’art. 92 del decreto regio n. 12/1941”.
III.- In effetti il principio si pone in discontinuità rispetto a unpanorama giurisprudenziale consolidato in senso opposto, incentrato sull’affermazione per cui al procedimento di revisione del contributo di mantenimento dei figli è applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale in quanto il diritto dei figli al mantenimento da parte dei genitori, anche dopo la separazione o il divorzio, previsto rispettivamente dagli artt. 155 cod. civ. e 6 della l. n. 898 del 1970, non ha natura alimentare (ex artt. 433 e seg. cod. civ.), neppure per assimilazione (Cass. Sez. 1 n. 8417-00, Cass. Sez. 1 n. 8567-91, Cass. Sez. 1 n. 2050-88; e v. pure Cass. Sez. 1 n. 1874-19).
Poiché l’assegno divorzile non si può equiparare all’assegno alimentare, essendo diverse la natura e le finalità proprie dei due tipi di assegno, in nessuna delle controversie concernenti l’assegno divorzile può trovare applicazione – si dice – l’esclusione dalla sospensione dei termini durante il periodo feriale prevista dall’art. 3 della legge n. 742 del 1969, in relazione all’art. 92, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, riguardo alle cause relative agli alimenti. Per dette controversie può escludersi la sospensione soltanto ove consegua, a norma del secondo comma dell’art. 92, il decreto di riconoscimento dell’urgenza della controversia, nel presupposto – previsto dallo stesso primo comma dell’art. 92 da intendersi richiamato dal citato art. 3 – che la ritardata trattazione possa provocare un grave pregiudizio alle parti (v. Cass. Sez. 1 n. 5862-99).
IV.– Occorre dire che nel solco del menzionato orientamento larilevanza della distinzione è stata ribadita anche di recente, in relazione alla normativa emergenziale di contrasto all’epidemia da Covid-19.
A questa normativa ha fatto riferimento anche l’ordinanza n. 18044-23, per giungere (tuttavia) a una conclusione opposta.
Secondo la tesi prevalente, alle cause relative ad alimenti o a obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, considerate rilevanti ai fini dell’eccezione alla sospensione generalizzata dei termini processuali per effetto dell’art. 83, terzo comma, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020, convertito con modificazioni in l. n. 27 del 2020, non possono essere equiparate le cause relative all’assegno divorzile, sempre per l’impossibilità di correlare l’assegno divorzile all’assegno alimentare, stante l’evidente diversità dei fini e della natura dei due assegni (Cass. Sez. 1 n. 5393-23, Cass. Sez. 1 n. 6639-23).
V.- L’ordinanza della Prima sezione n. 18044 del 2023 ha espressoil suo diverso convincimento sulla scorta dei seguenti passaggi argomentativi:
(i)l’art. 83, terzo comma, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020 ai finidell’emergenza pandemica ha distinto – è vero – le due fattispecie (quella delle cause relative agli alimenti, riferibile all’art. 433 e seg. cod. civ., e quella relativa all’obbligazione alimentare), ma le ha poi assoggettate alla medesima disciplina;
(ii)così facendo la norma ha recepito la più ampia accezionecontemplata dall’art. 1, primo comma, del regolamento (CE) n. 4/2009 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari;
(iii)la stessa relazione illustrativa del d.l. n. 18 del 2020 hacorrelato la locuzione “cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio odi affinità” al significato che a essa viene dato nella normativacomunitaria, e in particolare nell’art. 1 del citato regolamento (CE) n. 4/2009;
(iv)quindi, anche ai fini interpretativi delle norme sullasospensione dei termini processuali, la nozione di obbligazioni alimentari, siccome accolta nel diritto della UE, dovrebbe essere intesa nell’accezione “autonoma” declinata dal Considerando n. 11 del suddetto regolamento, con estensione a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, in senso comprensivo dei diversi istituti che coinvolgono le obbligazioni di mantenimento.
Ne deriverebbe la necessità di un mutamento radicale di assetti quanto agli indirizzi giurisprudenziali anteriori, perché “la norma sull’emergenza Covid-19, per il suo chiaro tenore letterale, sottrae entrambe le fattispecie alla sospensione dei termini processuali e stabilisce per le due tipologie di accertamento (concernenti l’alimentare puro e l’alimentare da mantenimento da valere nell’ambito familiare) una trattazione in sede giurisdizionale destinata ad operare anche durante la sospensione feriale e pur in un periodo segnato dalla necessità di contenimento del rischio pandemico”.
La normativa emergenziale costituirebbe – così – un’espressione della discrezionalità del legislatore eurounitario volta a bilanciare gli interessi da tutelare mediante un’innovativa ratio, diretta ad accomunare, seppure ai fini della disciplina della sospensione dei termini processuali, due istituti (l’obbligazione alimentare e l’obbligazione di mantenimento) da sempre oggetto di differente regolamentazione per antica tradizione dommatica.
VI.- L’orientamento sostenuto dalla Prima sezione con l’ordinanzan.18044-23 non può essere condiviso.
A composizione del contrasto va fissato, in coerenza con l’indirizzo tradizionale, il principio per cui ai giudizi o ai procedimenti di revisione delle condizioni di separazione o di divorzio, nei quali si discuta del contributo di mantenimento o dell’assegno divorzile nelle varie forme, resta applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, salvo che non ricorra il decreto di riconoscimento dell’urgenza della controversia (art. 92 ord. giud.) nel presupposto che la sua ritardata trattazione possa provocare grave pregiudizio alle parti.
VII.– È necessario prender le mosse dalla ratio della sospensione feriale, che è strettamente correlata alla tutela giurisdizionale dei diritti.
L’istituto della sospensione dei termini processuali in periodo feriale costituisce un presidio della tutela giurisdizionale dei diritti.
Quando l’azione giudiziaria sia l’unico rimedio funzionale a far valere un diritto che si assuma leso, la sospensione dei termini in periodo feriale, per il tramite della necessità di assicurare riposo agli avvocati, garantisce altresì che non sia menomato il diritto alla tutela giurisdizionale secondo quanto previsto in generale dall’art. 24 cost. (v. tra le varie C. cost. n. 380 del 1992, C. cost. n. 61 del 1990, C. cost. n. 49 del 1990).
In guisa di tale ratio, la l. n. 742 del 1969 ha dettato come regola generale, in relazione all’art. 92 ord. giud., quella della sospensione degli affari civili in periodo feriale, salvo l’elenco tassativo dei casi (eccezionali) nei quali invece una certa tipologia di cause, specificamente indicate, va considerata urgente per definizione, così da risultare sottratta alla medesima regola (v. Cass. Sez. 1 n. 8567-91, Cass. Sez. 1 n. 12964-02).
VIII.- Nell’elenco delle cause alle quali la sospensione non èapplicabile compaiono quelle “relative ad alimenti” (art. 92 ord. giud. come richiamato nell’art. 3 della l. n. 742 del 1969).
Codeste sono però distinte – ontologicamente – dalle cause di separazione o di divorzio nelle quali semplicemente si discuta dell’obbligazione alimentare o dell’assegno di mantenimento o divorzile.
Queste ultime attengono a obbligazioni avvinte dal fine di solidarietà familiare o post-familiare considerato rilevante nella crisi della famiglia. Le relative prestazioni possono certo rispondere alla necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, ma in un’accezione più ampia di (e indiscutibilmente differente da) quella sottesa alla prestazione alimentare strettamente intesa, non essendo necessario lo stato di indigenza o di bisogno al quale allude, invece, l’art. 438 cod. civ.
Simile constatazione distintiva è del tutto ovvia e non è punto messa in discussione dall’ordinanza n. 18044-23.
Essa d’altronde trova riscontro, per i giudizi divorzili o per quelli di cui all’art. 9 della legge div. che qui specificamente interessano, nella funzione polivalente riconosciuta all’assegno nelle sue varie declinazioni:
-natura assistenziale e anche perequativo-compensativa quantoall’ex-coniuge, diretta conseguenza del principio costituzionale di solidarietà, che conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (Cass. Sez. U n. 18287-18);
-concretizzazione, quanto al figlio, del diritto di ricevere daigenitori, sia se minore, sia se maggiorenne ma non economicamente indipendente, l’adempimento degli obblighi di mantenimento, istruzione, educazione e assistenza morale e materiale (artt. 147, artt. 155 e 337-bis e seg. cod. civ.).
Ciò vuol dire che, sempre in rapporto ai figli, al diritto ritenuto preminente fa da contraltare un obbligo che a sua volta si impone come dovere preminente: un dovere che sul genitore grava anche ove l’altro non possa o non voglia adempiere al proprio eguale dovere, nell’essenziale interesse dei figli stessi e onde far fronte comunque e per intero alle loro esigenze con tutte le sostanze patrimoniali e con la propria capacità di lavoro – salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui.
Con riguardo al contributo relativo alla prole, che nella presente causa interessa specificamente, questa constatazione prescinde in toto dal cd. stato di bisogno e – radicata nella giurisprudenza in modo pressoché costante – induce a precisare che l’ammontare del contributo dovuto dal genitore per il mantenimento dei figli, minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, implica semmai l’osservanza del principio di proporzionalità (art. 337-ter cod. civ.); il quale richiede la valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori nella considerazione non delle necessità di mera prestazione alimentare –art. 438 cod. civ. -, bensì delle esigenze attuali del figlio e del tenoredi vita da lui goduto (tra le più recenti Cass. Sez. 1 n. 4811-18; Cass. Sez. 1 n. 19299-20, Cass. Sez. 1 n. 32466-23).
IX.- Per incidens può osservarsi che il riscontro di una distinta eben più articolata funzione di tutte le menzionate prestazioni, rispetto a quella alimentare in senso stretto, è al fondo della recente sottolineatura fatta da queste Sezioni Unite a proposito dell’operare della regola della condictio indebiti.
Per l’assegno di mantenimento nella separazione o per l’assegno divorzile, la condictio è stata riconosciuta come espressione di regola generale ove risulti accertata – nella sentenza di primo o di secondo grado – l’insussistenza ab origine, in capo all’avente diritto, dei presupposti per il versamento del contributo (ancorché riconosciuto in sede presidenziale o dal giudice istruttore in sede di conferma o modifica).
E tuttavia questa stessa regola può essere derogata, si è detto, con conseguente applicazione del principio di irripetibilità, nelle due ipotesi (a) dell’esclusione della debenza del contributo in virtù di una diversa valutazione con effetto ex tunc delle sole condizioni economiche dell’obbligato già esistenti al tempo della pronuncia e (b) della rimodulazione al ribasso di una misura originaria idonea a soddisfare esclusivamente i bisogni essenziali del richiedente, sempre che la modifica avvenga nell’ambito di somme modeste, presumibilmente destinate al consumo da un coniuge, o ex coniuge, in condizioni di debolezza economica (Cass. Sez. U n. 32914-22).
Nel dire questo è stata dalla giurisprudenza valorizzata proprio l’esistenza delle differenze funzionali (e in parte anche strutturali) tra ciò che costituisce oggetto di alimenti (nel presupposto unico e specifico dello stato di bisogno dell’avente diritto e dell’impossibilità di provvedere altrimenti a tale stato) e ciò che invece, in termini compositi, integra la cifra del diritto al mantenimento, sia del coniuge, o dell’ex coniuge, che della prole, e sia nella separazione che nel divorzio.
X.– Ora, da tale excursus ben può dirsi dimostrata la solidamatrice di riferimento della tesi restrittiva a proposito del correlato ambito di applicazione dell’art. 3 della l. n. 742 del 1967 in relazione all’art. 92 ord. giud.
L’esigenza di certezza, che sempre si impone laddove si discuta di garanzie di difesa giurisdizionale, implica che quella matrice sia individuata nel testo di legge in rapporto alla constatata differenza tra le fattispecie, giacché il testo del richiamato art. 92, parlando di cause “relative ad alimenti”, sottende un rinvio alla prestazione alimentare strettamente intesa, quella di cui agli artt. 433 e seg. cod. civ., così che un simile rinvio possa infine ritenersi refrattario a qualunque fraintendimento.
XI.- L’ordinanza n. 18044-23, senza porre in dubbio l’effettivitàdella differenza tra le sottostanti fattispecie, ha ritenuto di individuare un diverso margine valutativo facendo leva su due argomenti: la normativa da Covid-19 e il regolamento (CE) n. 4 del 2009 al quale la prima si sarebbe ispirata.
Nessuno di essi è decisivo.
XII.- Non lo è innanzi tutto quello incentrato sulla normativaemergenziale da Covid-19.
È vero che codesta, ai fini dell’eccezione alla sospensione generalizzata dei termini processuali dopo la modifica dell’art. 83 del d.l. n.18 del 2020 fatta in sede di conversione, ha sostituito (a decorreredal 30-6-2020) l’originaria formulazione, contemplante le “cause relative alla tutela dei minori, ad alimenti”, con la frase “cause relative ai diritti delle persone minorenni, al diritto all’assegno di mantenimento, agli alimenti e all’assegno divorzile”.
Ma non è ravvisabile una concreta incidenza di un simile fatto sull’assetto di principi che concernono la l. n. 742 del 1967.
Nel d.l. n. 18 del 2020 e nella relativa legge di conversione è da rinvenire niente altro che una disciplina temporanea (per la cui ricostruzione può rinviarsi a Cass. Sez. 1 n. 5393-23).
La disciplina è stata indirizzata a stabilire quali fossero, in relazione all’andamento dei contagi e delle misure di distanziamento sociale nelle varie fasi del contrasto alla pandemia, le eccezioni alla regola di sospensione generalizzata dell’attività giudiziaria; regola riguardante i procedimenti e i termini processuali in vista della medesima unica esigenza di contenimento degli effetti della diffusione epidemica.
S’è trattato dunque di una normativa specifica e a termine, non avente altre finalità che la tutela della salute pubblica in un contesto eccezionale e provvisorio – e peraltro cessato prima delle date essenziali che in questa sede interessano (e che – per vero – interessavano anche la fattispecie risolta da Cass. Sez. 1 n. 18044-23) per stabilire la tempestività del ricorso. Una normativa nella quale, oltre tutto, sebbene nell’ampliamento delle fattispecie sottratte alla sospensione generalizzata ex lege lì rilevante, risulta esplicitata la piena consapevolezza del legislatore in ordine alla diversità di ambito tra le cause relative agli alimenti in senso stretto (da un lato) e quelle relative alle prestazioni di mantenimento o alimentari nell’ambito dei giudizi di separazione e divorzio (dall’altro).
La menzionata diversità è stata tenuta da conto al punto da indurre infatti – pur nella logica dell’emergenza – all’estensione dei diritti processuali previsti dall’originaria formulazione dell’art. 83; estensione alla categoria delle prestazioni da assolvere nei giudizi di separazione o di divorzio, attraverso una modifica del testo altrimenti inspiegabile.
L’elemento di specialità insito nella normativa richiamata testimonia che nessun effetto è da attribuire al divenire delle formulazioni dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 per ciò che riguarda l’esegesi degli artt. 3 della l. n. 742 del 1967 e 92 ord. giud. a proposito del diverso operare della regola da tali articoli desumibile.
XIII.- Quanto al regolamento (CE) n. 4 del 2009, si tratta inquesto caso della fissazione in ambito UE delle regole relative alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari.
Anche qui è indubbiamente vero che il regolamento ha adottato una propria nozione di obbligazione alimentare; ed è vero che codesta non è rapportabile a quella sottesa agli artt. 433 e seg. cod. civ.
Ma, per quanto il regolamento già nel Considerando n. 11 (richiamato dall’ordinanza n. 18044-23) abbia enunciato che la nozione di obbligazione alimentare “dovrebbe essere interpretata in maniera autonoma”, vi è che poi nell’art. 1.1 ha precisato che l’ambito di applicazione del testo è quello delle “obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità” solo in rapporto al fine.
Detto altrimenti: il complesso delle previsioni del regolamento, ivi compreso l’ambito delle definizioni, è da intendere circoscritto dal fine del regolamento stesso. E il fine è quello di “istituire specifiche norme procedurali comuni speciali per semplificare e accelerare la composizione delle cause transfrontaliere riguardanti in particolare i crediti alimentari”.
Questa cosa è stata fatta mediante soppressione delle misure intermedie necessarie per permettere il riconoscimento e l’esecuzione nello Stato richiesto di una decisione emessa in un altro Stato membro, e in particolare una decisione riguardante – giustappunto – un credito alimentare (v. i Considerando 4 e 9).
Sicché in tal modo il regolamento citato ha perseguito lo scopo di consentire a un creditore di alimenti – qualunque ne sia il contesto e la fonte di diritto interno – “di ottenere facilmente in uno Stato membro una decisione che sia automaticamente esecutiva in un altro Stato membro senza ulteriori formalità”, così preservando l’obiettivo mediante la creazione di uno strumento comunitario in materia di obbligazioni alimentari teso a raggruppare le disposizioni concernenti i conflitti di giurisdizione, i conflitti di leggi, il riconoscimento e l’esecutività, l’esecuzione, il patrocinio a spese dello Stato nonché la cooperazione tra le autorità centrali (v. il Considerando 10).
XIV.- Solo, quindi, in rapporto a questa specifica funzione sispiega la precisazione alla quale ha alluso l’ordinanza n. 18044 del 2023.
Erroneamente quella precisazione è stata valorizzata in modo assoluto.
L’ambito di applicazione del regolamento deve estendersi “a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità”. E però “al fine di garantire la parità di trattamento tra tutti i creditori di alimenti”, onde preservare gli interessi dei creditori di alimenti e favorire la corretta amministrazione della giustizia all’interno dell’Unione europea, tanto da venir simultaneamente auspicato un adattamento delle stesse norme eurounitarie sulla competenza (pro tempore, il regolamento (CE) n. 44/2001).
Sicché la circostanza che un convenuto abbia la residenza abituale in uno Stato terzo non deve escludere – come ancora si dice nel regolamento n. 4 del 2009 – l’applicazione delle norme comunitarie in materia di competenza, così da non rendere necessario un ulteriore rinvio alle norme in materia di competenza contemplate dal diritto nazionale.
Per questo, e non per altro, nel Considerando n. 11 si rinviene la specificazione che “ai fini del presente regolamento”, la nozione di «obbligazione alimentare» dovrebbe essere interpretata “in maniera autonoma”.
XV.- Ne deriva che le previsioni del citato regolamento (CE) n. 4del 2009 non incidono affatto sulle modalità con le quali le legislazioni dei singoli Stati (e tra queste in particolare la legislazione nazionale italiana) abbiano ritenuto – e ritengano – di disciplinare gli istituti di riferimento sul piano dei presupposti, degli effetti e delle modalità di tutela.
Il regolamento viene in considerazione solo ove si discuta del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni o della competenza in materia di obbligazioni alimentari.
L’ampliamento del concetto di obbligazione alimentare declinato dal regolamento non fuoriesce dai casi in cui sia in discussione il suo ambito specifico di applicazione. Ed è quindi ininfluente rispetto alla disciplina della sospensione dei termini feriali quanto ai giudizi di diritto interno. Ciò anche perché la stessa (sottesa) esigenza di una più celere definizione di tali giudizi è dagli istituti di diritto interno comunque assicurata, stante la possibilità offerta dall’art. 92 ord. giud. di dichiarare urgente – e come tale sottratta alla sospensione feriale – la singola causa quando la ritardata trattazione potrebbe provocare un grave pregiudizio alle parti.
XVI.- Nel caso concreto risulta che il decreto impugnato è statonotificato il 27-7-2021 e che il ricorso per cassazione a sua volta è stato notificato il 26-10-2021 a fronte della sospensione dei termini in periodo feriale.
Deve concludersi che il ricorso medesimo è ammissibile perché tempestivo.
XVII.- Fissato nel senso indicato al superiore punto VI il principiodi diritto volto a comporre il contrasto di giurisprudenza, e stabilito che il ricorso è ammissibile, gli atti possono essere restituiti alla sezione rimettente per l’esame delle censure consegnate ai singoli motivi.
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, dichiara ammissibile il ricorso e rimette gli atti alla Prima sezione civile per l’esame dei singoli motivi.
Dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, addì 30 gennaio 2024.
Il Presidente
Pasquale D’Ascola
Il Consigliere estensore
Francesco Terrusi
Allegati:
SS.UU, 13 maggio 2024, n. 12946, in tema di sospensione feriale dei termini
In tema di società in house – SS.UU, 19 febbraio 2024, n. 4413
Civile Ord. Sez. U Num. 4413 Anno 2024
Presidente: CASSANO MARGHERITA
Relatore: CRISCUOLO MAURO
Data pubblicazione: 19/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso 12016-2023 proposto da:
PUTZU ALESSIO, rappresentato e difeso dagli avvocati BALLERO BENEDETTO e BALLERO FRANCESCO, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI ORISTANO, PERRA BARBARA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 4067/2023 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 21/04/2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/02/2024 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
FATTI DI CAUSA
1. Alessio Putzu ha proposto appello avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda), 00866/2022, con cui era stata declinata la giurisdizione in favore di quella del giudice ordinario in relazione al ricorso avente ad oggetto l’impugnazione del provvedimento n. 53614 del 20.08.2022 del sindaco del Comune di Oristano, con cui era stata disposta la revoca del ricorrente, con decorrenza immediata, dall’incarico di amministratore unico della società Oristano Servizi Comunali S.r.l., quale società in house a capitale interamente pubblico, nonché l’impugnazione della Determina del Sindaco di Oristano n. 23 del 02.09.2022, che aveva disposto la nomina del nuovo amministratore unico della Società Oristano Servizi.
La sentenza appellata aveva fatto applicazione dell’art. 2449 c.c., facendo richiamo al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 16335 del 18.06.2019 nel caso relativo alla revoca dell’amministratore della società Milano Ristorazione s.p.a. da parte dell’Ente Pubblico.
Secondo l’appellante, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, lo Statuto della società Milano Ristorazione Spa riportava un espresso riferimento al potere dell’Ente pubblico di disporre la revoca dell’amministratore, ai sensi dell’art. 2449 c.c., mentre tale richiamo non era presente nello Statuto della società Oristano Servizi comunali S.r.l., il che escludeva che la controversia in esame rientrasse nella giurisdizione del giudice ordinario, venendo in effetti in rilievo un normale potere di imperio ed un correlato interesse legittimo in capo all’amministratore revocato.
Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4067 del 21 aprile 2023 ha rigettato l‘appello.
Richiamata la regola per cui la giurisdizione si determina in base alla domanda, a prescindere dal vaglio della sua fondatezza, e che, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il “petitum” sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della “causa petendi“, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione, ha osservato che nella specie non poteva trovare accoglimento la tesi di parte appellante secondo la quale, in difetto di un espresso richiamo contenuto nello Statuto comunale all’art. 2449 c.c., i poteri dell’Ente pubblico avrebbero carattere autoritativo.
In realtà doveva ritenersi che il potere di nomina dell’amministratore, previsto nell’ipotesi di specie dallo statuto (art. 7 ed 8), era attuazione di quanto previsto dall’art. 2449 c.c. e che a detto potere privatistico si accompagni quello contrario, avente del pari carattere paritetico, di revoca, nella cui logica si inscrive anche il potere previsto dall’art. 50 del TUEL, secondo quanto ritenuto dalla Suprema Corte con la pronuncia Sez. Un., 18/06/2019, n.16335, con cui si è affermato che i commi 8 e 9 dell’articolo 50 TUEL sono norme etero-integrative dell’articolo 2449 c.c., che, nei limiti temporali previsti, consentono all’ente pubblico, in deroga alla previsione statutaria di durata minima dell’incarico, di revocare i componenti dell’organo di gestione in precedenza nominati.
La stessa giurisprudenza di legittimità aveva affermato (Cass. Sez. Un. 6 maggio 1995, n. 4989; Cass., Sez. un., 26 agosto 1998, n. 8454; Cass., Sez. un., ord. 3 ottobre 2016, n. 19676; Cass., Sez. un., ord. 14 settembre 2017, n. 21299; Cass., Sez. un., ord. 1 dicembre 2016, n. 24591) – che “una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale”, e ciò in quanto il rapporto che lega la società e l’ente pubblico è di assoluta autonomia, “posto che l’ente può incidere sul funzionamento e sull’attività della società non già attraverso l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei componenti degli organi sociali di sua nomina”.
Invero, la PA quando nomina o revoca gli amministratori “non esercita un potere a titolo proprio ma esercita l’ordinario potere dell’assemblea, ad essa surrogandosi, quale organo della società, per autorizzazione della legge o dello statuto”. Inoltre, “l’amministratore di designazione pubblica non è soggetto agli ordini dell’ente nominante ed anzi, per testuale previsione del codice civile (articolo 2449 c.c.), ha i medesimi diritti ed i medesimi obblighi dell’amministratore di nomina assembleare”. Infine, l’equiparazione tra amministratori di nomina assembleare e quelli designati dall’ente pubblico si riscontra anche nella forma di tutela a cui possono accedere, atteso che entrambi possono giovarsi solo della “monetizzazione della funzione” ai sensi dell’art. 2383 c.c.
Da ciò discende, “l’inquadramento privatistico delle società in mano pubblica, col relativo assoggettamento alla giurisdizione ordinaria”, come del resto evincibile dall’art. 1 comma 3 del D.Lgs. n. 175/2016 (c.d. TUSP).
Confortava tale conclusione anche l’art. 2449, comma 1, c.c., che chiarisce che la facoltà del compimento dei predetti atti deve essere “conferita al socio pubblico dallo statuto, cioè da un atto fondamentale di natura negoziale (articolo 2328 c.c., comma 3) e che, con l’abrogazione (…) dell’articolo 2450 c.c. – a norma del quale la legge o lo statuto potevano attribuire la nomina e la revoca ad un ente pubblico estraneo al capitale sociale – è stato posto in chiaro che gli atti in questione competono all’ente pubblico uti socius, e dunque iure privatorum e non iure imperii”. In particolare in materia di società partecipate da enti pubblici, al giudice amministrativo vanno attribuite le controversie relative ai provvedimenti unilaterali di natura autoritativa, che sono, di fatto, preliminari rispetto alle successive deliberazioni societarie, “con i quali l’ente pubblico delibera di costituire la società o di parteciparvi o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della stessa o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della medesima”, mentre spettano al giudice ordinario le cause “aventi ad oggetto gli atti societari “a valle” della scelta di fondo dell’utilizzazione del modello societario”, ovvero quelle connesse con l’esercizio da parte dell’ente pubblico delle facoltà proprie del socio, “fra le quali rientrano quelle volte ad accertare l’intera gamma delle patologie e delle inefficacie negoziali inerenti la struttura del contratto sociale, ancorché ad essa estranee e/o sopravvenute e derivanti da irregolarità- illegittimità della procedura amministrativa a monte”
Ove si dibatta della legittimità dell’atto di revoca degli amministratori di una partecipata emesso dal Sindaco neoeletto entro quarantacinque giorni dal suo insediamento, la lite deve essere devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di atto che è esercizio di quanto previsto dall’art. 50 del TUEL, e che attiene ad una fase successiva alla costituzione della società e, in quanto idoneo ad incidere sulla struttura societaria, deve essere ricondotto alla “potestà di diritto privato ascrivibile all’ente pubblico uti socius, che il Sindaco esercita in conformità degli indirizzi, di natura politico-amministrativa stabiliti dal consiglio”.
Le Sezioni unite hanno poi precisato che l’art. 50 TUEL risponde all’esigenza “della nuova amministrazione di poter contare sull’immediata disponibilità di soggetti che si rendano interpreti delle sue nuove linee di indirizzo e delle diverse finalità della gestione, senza dover sottostare ai tempi lunghi occorrenti per verificare se gli amministratori in carica, “ereditati'” del precedente governo cittadino, siano in grado di corrispondere a tali mutate esigenze”.
I principi affermati dal giudice di legittimità risultavano poi applicabili alla fattispecie, in quanto, come evidenziato dal Comune appellato, lo Statuto della Oristano Servizi s.r.l. contiene numerosi richiami alle norme privatistiche. In particolare, l’art. 7 co. 1 dello Statuto espressamente riserva alla competenza del socio unico le decisioni nelle materie di cui agli artt. 2479 e 2487 c.c.; la prima di dette norme, rubricata “decisione dei soci” al comma 2, numero 2, prevede che: “In ogni caso sono riservate alla competenza dei soci: … 2) la nomina, se prevista nell’atto costitutivo, degli amministratori”. L’art. 8 prevede che la società può essere amministrata, alternativamente, su decisione del socio unico, da un amministratore unico o da un consiglio di amministrazione.
Era, pertanto, evidente come il potere di nomina del socio unico si inquadrasse nel disposto dell’art. 2449 c.c., il cui comma 2 prevede che “gli amministratori e i sindaci …nominati a norma del primo comma possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati”.
Poiché il Comune di Oristano è socio unico della Oristano Servizi s.r.l., al potere di nomina previsto dallo statuto non può che accompagnarsi anche quello contrario di revoca, a norma dell’art. 2449 comma 2 c.c., essendo quest’ultimo contrarius actus rispetto alla nomina.
Inoltre, l’art. 19 dello Statuto dispone che: “ Per quanto non espressamente disciplinato dal presente Statuto, valgono le norme dettate dal codice civile e dalle leggi in materia” (in coerenza con la clausola ermeneutica generale di cui all’art. 1 co. 3 D.Lgs. n. 175 del 19 agosto 2016 (TUSP) secondo la quale: “Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”), con la conseguenza che doveva ravvisarsi il carattere paritetico di tale potere, come rilevato anche da Cass. S.U., n. 34473 del 27.12.2019.
La sentenza aggiungeva, poi, che il definitivo transito delle società partecipate nell’orbita del diritto comune si evinceva anche da tre disposizioni, ed in primo luogo, dall’art. 1 comma 3, TUSP (D.lgs. 175/2016) a mente del quale “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali del diritto privato”.
In secondo luogo l’art. 12 del D.lgs. 175/2016 sposta il baricentro della responsabilità degli organi di governance verso il diritto civile, prevedendo che “i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali”, con la sola salvezza della giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house.
Infine, l’art. 14 del T.U. società partecipate, in tema di crisi d’impresa, afferma in maniera netta che tutte le compagini pubbliche (anche in house) “sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39”.
Andava perciò riaffermata la natura giuridica privata delle società in cui le Amministrazioni detengono delle partecipazioni, come precisato anche nel Parere del Consiglio di stato n. 968/2016 reso sul Testo Unico società partecipate.
La costruzione in chiave civilistica delle società partecipate era anche avvalorata dall’art. 2449 c.c., il quale, con riferimento alle società per azioni che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio in cui lo Stato o gli enti pubblici detengono partecipazioni, prevede esclusivamente un “particolare” potere di nomina (e revoca) degli organi di governance, con la conseguenza che per tutti gli altri profili si applica la disciplina del diritto comune.
Ne discende che, quando l’ente pubblico nomina e revoca gli amministratori della partecipata, non esercita un proprio potere, ma si surroga al potere che ordinariamente spetterebbe all’assemblea, in quanto la facoltà attribuita all’ente si qualifica come “sostitutiva della generale competenza dell’assemblea ordinaria, trovando la sua giustificazione nella peculiarità di quella tipologia di soci, e deve essere qualificata estrinsecazione non di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di diritto privato, in quanto espressiva di una potestà attinente ad una situazione giuridica societaria, restando esclusa qualsiasi sua valenza amministrativa” (Cass., Sez. un., ordinanza 23 gennaio 2015, n. 1237).
Tale esito trovava, poi, anche il conforto della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE sentenza 23 ottobre 2007, nella causa C-112/05; CGUE sentenza 6 dicembre 2007 nelle cause riunite C-463/04 C-464/04; CGUE sentenza 26 marzo 2009, causa C-326/07), a mente della quale il c.d. principio di neutralità delle forme giuridiche, sancito all’art. 345 TFUE, implica che “i trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri rendendo ininfluente la proprietà pubblica o privata del capitale sociale”.
2. Avverso la sentenza del Consiglio di Stato è stato proposto ricorso per cassazione da Putzu Alessio sulla base di un Gli intimati non hanno svolto difese in questa fase.
La Prima Presidente, in data 7 settembre 2023, ha formulato proposta di definizione del giudizio ex art. 380-bis c.p.c., nel testo novellato dal D. Lgs. n. 149/2022, avendone rilevato l’inammissibilità.
Parte ricorrente ha però chiesto la decisione del ricorso, formulando apposita istanza nel termine di cui al secondo comma dell’art. 380 bis c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli 2449, 2479 e 2479-bis c.c., sotto il profilo dell’art. 103 Cost. e dell’art. 7 c.p.a., nonché degli artt. 1 e 9 del D. Lgs. n. 175/2016.
Si deduce che la sentenza impugnata ha inteso radicare la giurisdizione del giudice ordinario con il richiamo all’art. 2449 c.c., sebbene gli artt. 7 ed 8 dello Statuto della società non contengano un esplicito riferimento alla norma de qua ma all’art. 2479 c.c. Inoltre, non si è tenuto conto che quella interessata dal presente giudizio non è una società per azioni, ma una società a responsabilità limitata, né di quanto previsto dall’art. 9, co. 7, del D. Lgs. n. 175/2016, dal quale si evince che, per radicare la giurisdizione del giudice ordinario è necessario che lo statuto societario faccia un esplicito richiamo al testo dell’art. 2449 c.c.
In definitiva, ad avviso del ricorrente, l’atto con il quale è stato revocato è atto esterno all’assemblea, cui competeva il potere di nomina o revoca dell’amministratore, e si qualifica alla stregua di un atto iure imperii, sottoposto quindi alla giurisdizione del giudice amministrativo.
2. Il motivo è manifestamente infondato.
Già nella proposta di definizione depositata in corso di causa è stato compiuto il puntuale richiamo ai precedenti di questa Corte che hanno reiteratamente affermato che la giurisdizione per la domanda in questa sede avanzata compete al giudice ordinario.
Questa Corte ha, infatti, affermato che spetta al giudice ordinario, e non al giudice amministrativo, la cognizione della controversia relativa all’impugnazione dell’atto con il quale il sindaco, nella specie, abbia espresso un giudizio di non idoneità nei confronti di un candidato alla nomina, riservata al Comune, di componente del consiglio di amministrazione di una fondazione, trattandosi di atto che – come avviene per la nomina (e la revoca) di amministratori e sindaci delle società a partecipazione pubblica (anche costituite secondo il modello delle società “in house providing“) – non è riconducibile all’esercizio di alcun pubblico potere e riguarda un soggetto di diritto privato, non rientrando le fondazioni nella pur ampia nozione di pubblica amministrazione, di cui all’art. 7, comma 2, d.lgs. n. 104 del 2010 (Cass. S.U. n. 34473 del 27/12/2019).
Con specifico riferimento alle società per azioni con partecipazione pubblica, è stata ribadita la giurisdizione del giudice ordinario, quanto alla controversia relativa alla revoca dell’amministratore nominato ai sensi dell’art. 2449 c.c., in quanto trattasi di atto posto in essere dall’ente pubblico “a valle” della scelta iniziale di avvalersi dello strumento societario, emanato avvalendosi degli strumenti che il diritto comune attribuisce al socio e dunque interamente regolato dal diritto privato, come si evince chiaramente dal testo del richiamato art. 2449 c.c., il quale individua nello statuto sociale, e dunque in un atto fondamentale di natura negoziale, la fonte esclusiva dell’attribuzione al socio pubblico della facoltà di nominare un numero di amministratori proporzionale alla sua partecipazione, con la correlata facoltà di revocarli (Cass. S.U. n. 29078 del 11/11/2019).
I principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite (cfr., tra le molte: Cass. S.U. n.4989/1995; n. 7799/2005; n. 30167/2011; n. 1237/2015; n. 19676/2016; n. 24591/2016; n. 21299/2017; n. 16335/2019), oltre che dello stesso Consiglio di Stato (cfr. Adunanza Plenaria 3 giugno 2011 n.10), confermano il fatto che la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto privato solo perché l’Ente pubblico ne possegga, in tutto o in parte, le azioni: il rapporto tra società ed ente pubblico azionista è, in altri termini, di assoluta autonomia.
Ciò significa che all’ente pubblico non è consentito incidere unilateralmente sugli atti di gestione e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario dei quali dispone nella sua qualità di socio. Del resto, il richiamo alla disciplina del codice civile in materia di società di capitali per quanto non diversamente stabilito dalla legge – e salve deroghe espresse -, trova esplicita e chiara conferma normativa nell’art. 4, comma 13, quarto periodo, del D.L. n. 95/2012 convertito nella L. n. 135/2012, oltre che nell’analogo art. 1, comma 3, del D. Lgs. n. 175/2016.
Trattasi di previsioni normative che fungono da “clausola ermeneutica generale” di chiusura (in senso privatistico) e che entrambe esprimono rilevanza significativa.
Il profilo involgente la disciplina di diritto pubblico, segnato dall’agire dell’ente pubblico come autorità, si esaurisce nella scelta iniziale dell’ente di costituire una società, o di parteciparvi, nel mentre il profilo privatistico è relativo alla adozione, durante lo svolgimento dell’attività sociale, degli atti (c.d. “a valle” di quella scelta iniziale) che l’ente pone in essere avvalendosi degli strumenti che il diritto comune gli attribuisce nella sua qualità di socio.
Quello posto in essere dal Comune di Oristano, proprio alla luce delle previsioni contenute nello Statuto della Oristano Servizi Comunali S.r.l. (che prevedono sia il potere di nomina che di revoca dell’amministratore unico ad opera del socio unico), si pone come atto da collocare “a valle” della scelta iniziale di avvalersi dello strumento societario, e quindi resta interamente regolato dal diritto privato
Tale conclusione non muta anche nel caso in cui la revoca sia stata dettata dall’applicazione della previsione dell’art. 50, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 267 del 2000, che attribuisce al Sindaco il potere di revoca degli amministratori delle società partecipate dal Comune entro 45 giorni dal suo insediamento, (Cass. S.U. n. 16335 del 18/06/2019, che ribadisce che si radica la giurisdizione ordinaria, poiché quello di revoca resta un provvedimento attinente ad una situazione giuridica successiva alla costituzione della società stessa, idoneo ad incidere internamente sulla sua struttura ed espressione di una potestà di diritto privato ascrivibile all’ente pubblico “uti socius” ed esercitata dal medesimo Sindaco in conformità degli indirizzi stabiliti dal Consiglio comunale).
3. Va pertanto riaffermata la giurisdizione del giudice ordinario (in termini nella giurisprudenza meno recente si veda anche S.U. n. 21299/2017; Cass. S.U. n. 24591/2016; Cass. S.U. n. 1237/2015), senza che possa influire sulla correttezza di tale conclusione la circostanza che nella specie la società dalla cui carica è stato revocato il ricorrente era una società a responsabilità limitata, anziché una società per azioni.
Tale differenza che, come ricordato da Cass. S.U. n. 4309/2010, non preclude di estendere alle società a responsabilità limitata i principi dettati per le società per azioni a partecipazione pubblica, ove tale partecipazione assuma connotazioni analoghe per le prime, consente di affermare come non sia esigibile un espresso richiamo alla previsione di cui all’art. 2449 c.c., norma dettata specificamente per le società per azioni con partecipazione dello Stato o di enti pubblici.
Piuttosto, è proprio il richiamo alla disciplina di cui all’art. 2468 co. 3, c.c., che consente l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società, a far concludere che le previsioni statutarie che dispongano in tal senso (come appunto l’art. 8 dello statuto della società per cui è causa) legittimano l’adozione di un potere di revoca che resta però nell’ambito della sfera privatistica (peccando di eccessivo formalismo la tesi sostenuta dal ricorrente, che pretende che la previsione statutaria debba necessariamente accompagnarsi ad un esplicito richiamo alla norma codicistica).
Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile.
4. Nulla a disporre quanto alle spese nei confronti delle parti intimate.
5. Considerato che la trattazione del ricorso è stata chiesta ai sensi dell’art. 380-bis p.c., ultimo comma, a seguito di proposta di inammissibilità a firma della Prima Presidente, la Corte, considerato che il giudizio è stato definito in conformità della proposta, deve applicare il terzo e il quarto comma dell’articolo 96, come previsto dal citato art. 380-bis, ultimo comma.
Trattasi di una novità normativa (introdotta dall’art. 3, comma 28, lett. g, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a decorrere dal 18 ottobre 2022, ai sensi di quanto disposto dall’art. 52, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 149/2022) che contiene, nei casi di conformità tra proposta e decisione finale, una valutazione legale tipica, ad opera del legislatore, della sussistenza dei presupposti per la condanna di una somma equitativamente determinata a favore della controparte (art. 96, terzo comma) e di una ulteriore somma di denaro non inferiore ad euro 500,00 e non superiore ad euro 5.000,00 (art. 96 quarto comma).
In tal modo, risulta codificata una ipotesi di abuso del processo, peraltro da iscrivere nel generale istituto del divieto di lite temeraria nel sistema processuale (cfr. Cass. S.U. nn. 27195 e 27433 del 2023).
Quanto alla disciplina intertemporale sull’applicazione ai giudizi di cassazione delle disposizioni di cui all’art. 96, terzo e quarto comma, per effetto del rinvio operato dall’ultimo comma dell’art. 380-bis nel testo riformato, rileva la Corte che la predetta normativa – in deroga alla previsione generale contenuta nell’art. 35 comma 1 del Lgs. n. 149/2022 – sia immediatamente applicabile a seguito dell’adozione di una decisione conforme alla proposta, sebbene per giudizi già pendenti alla data del 28 febbraio 2023 (Cass. S.U. n. 27195/2023).
Sulla scorta di quanto esposto, ed in assenza di indici che possano far propendere per una diversa applicazione della norma, la parte ricorrente va condannata al pagamento della somma di €. 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
6. Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Condanna il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di € 2.000,00;
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 13 febbraio
Allegati:
SS.UU, 19 febbraio 2024, n. 4413, in tema di società in house
In tema di impugnazioni – SS.UU, 28 marzo 2024, n. 8486
Civile Sent. Sez. U Num. 8486 Anno 2024
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: CARRATO ALDO
Data pubblicazione: 28/03/2024
Oggetto
Azione di
risarcimento danno
– questione di
massima di
particolare
importanza
sull’interpretazione
dell’art. 334 cpc in
materia di
obbligazioni
solidali
R.G.N. 23425/2016
Cron.
Rep.
Ud. 13/02/2024
PU
SENTENZA
sul ricorso 23425-2016 proposto da:
LEONESSA INVESTIMENTI S.R.L. a socio unico, assuntrice del Concordato Fallimentare del Fallimento Addventure s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PASUBIO 4, presso lo studio dell’avvocato PIETRO SARROCCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LINO GERVASONI;
– ricorrente –
contro
CARLO ALBERTO CARNEVALE MAFFE’, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TRIONFALE 5637, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE FERABECOLI, rappresentato e difeso dall’avvocato ANDREA RODOLFO MASERA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2346/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 14/06/2016.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/02/2024 dal Consigliere ALDO CARRATO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale CARMELO CELENTANO, che ha chiesto l’enunciazione dei principi di diritto, nonostante l’istanza di rinuncia.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Il Tribunale di Varese, con sentenza n. 281 del 2011, in accoglimento della domanda proposta dal fallimento di Addventure s.p.a., in liquidazione, condannava Pietro Pozzobon, Carlo Alberto Carnevale Maffè e Stefano Perboni, in solido fra loro, a pagare, in favore dell’attore, la somma di € 2.413.810,63, oltre accessori fino alla concorrenza di € 2.500.000,00 per il danno arrecato, nella loro qualità di amministratori delegati, alla società e ai creditori sociali per la perdita di bancali non rinvenuti dal Curatore.
La Curatela del citato Fallimento aveva originariamente convenuto in giudizio anche altri amministratori e i sindaci, con i quali, però, nelle more del giudizio di primo grado, erano intervenute una serie di transazioni pro quota.
1.1. Avverso la sentenza di primo grado formulava appello principale Pietro Pozzobon (con atto di citazione notificato anche ai condebitori), a seguito del quale Stefano Perboni, nel costituirsi in giudizio (con comparsa del 29 dicembre 2011), avanzava appello incidentale, chiedendo, a sua volta, in riforma della sentenza del Tribunale, il rigetto delle domande del menzionato Fallimento nonché della domanda di manleva spiegata dal Pozzobon nei suoi confronti.
Nel giudizio di appello interveniva la Leonessa Investimenti s.r.l., quale assuntrice del concordato fallimentare di Addventure s.p.a. in liquidazione, proponendo appello incidentale condizionato, con cui invocava la condanna del Pozzobon e del Perboni in solido, nei limiti della somma di euro 2.500.000,00, in ragione delle ulteriori condotte addebitate con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado e disattese dalla sentenza di primo grado.
All’udienza (del 25 gennaio 2012, differita ex art. 168-bis, comma 4, c.p.c. al 26 gennaio 2012) fissata per la prima comparizione delle parti, si costituiva in giudizio anche Carlo Alberto Carnevale Maffè, attraverso una comparsa “contenente di fatto” un’impugnazione incidentale (così qualificata dalla Corte di appello ed adesiva a quella dell’appellante principale Pozzobon).
Inoltre, lo stesso Carlo Alberto Carnevale Maffè, con autonomo atto di citazione notificato a Leonessa Investimenti s.r.l. (costituitasi nel giudizio di appello, nella qualità di assuntore del Concordato fallimentare del Fallimento Addventure s.p.a.), impugnava la sentenza di primo grado sollecitando il rigetto delle pretese risarcitorie del Fallimento.
La Corte d’appello di Milano, riunite le impugnazioni proposte contro la medesima sentenza, con sentenza n. 2346 del 2016 (depositata il 14 giugno 2016) , in accoglimento degli appelli proposti da Pietro Pozzobon, Carlo Alberto Carnevale Maffè e Stefano Perboni, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava che gli stessi nulla dovevano al predetto Fallimento per essere il relativo credito già estinto in conseguenza dell’intervenuto pagamento da parte degli originari coobbligati, nonché, conseguentemente, assorbita la domanda di manleva proposta dal Pozzobon nei confronti del Perboni.
Con la medesima sentenza la Corte d’appello riteneva infondate le eccezioni di inammissibilità dell’impugnazione proposta da Carlo Alberto Carnevale Maffè, sollevate da Leonessa Investimenti s.r.l., in ragione del fatto che il suo interesse all’impugnazione sarebbe sorto dall’appello incidentale del coobbligato Perboni.
Al riguardo, nella sentenza della Corte d’appello si legge (alle pagg. 17-18) testualmente: «…Discende da quanto argomentato che Stefano Perboni ha, comunque, impugnato tempestivamente la sentenza de qua. Benché analoghe conclusioni non si possano trarre nei confronti di Carlo Alberto Carnevale Maffè posto che la sua costituzione nell’ambito dell’appello iscritto al N. R.G. 3322/2011 (ancorché allo stesso modo contenente di fatto impugnazione incidentale) è avvenuta direttamente all’udienza, quindi senza il rispetto dei termini di cui all’art. 334, comma 1, c.p.c., ritiene tuttavia la Corte che l’impugnazione notificata a Leonessa il 26/01/2012 possa valere quale impugnazione incidentale tardiva, ex art. 334, comma 2, c.p.c. e sia perciò da ritenersi ammissibile. Ciò sul rilievo che l’impugnazione incidentale del coobbligato Stefano Perboni (nel procedimento N. R.G. 3322/2011) ha determinato l’insorgere in capo a Carlo Aberto Carnevale Maffè di nuovo ed autonomo interesse ad impugnare la sentenza nei confronti di Leonessa s.r.l., conseguendo ad essa la possibilità – in caso di accoglimento (anche) del gravame proposto da detto coobbligato – di vedere definitivamente perso il vincolo della solidarietà e di trovarsi perciò esposto, da solo e per l’intero, alla pesante condanna emessa dal tribunale (arg. ex Cass. S.U. 24627/2007)».
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.2. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione Leonessa Investimenti r.l., quale assuntrice del Concordato fallimentare del Fallimento Addventure s.p.a., nei confronti del solo Carlo Alberto Carnevale Maffè, censurandola, nella sostanza, per avere ritenuto ammissibile il relativo appello incidentale avverso la sentenza di primo grado sulla base del percorso motivazionale poc’anzi riportato.
1.2.1 Con il primo motivo si denuncia – ai sensi dell’art. 360, comma 1, 3, c.p.c. – la violazione e falsa applicazione degli artt. 343, comma 2, e 100 c.p.c., deducendo che, essendo stato introdotto l’appello principale, proposto nei confronti della Curatela, dal Pozzobon, Carnevale Maffè avrebbe dovuto proporre il proprio gravame in via incidentale, nelle modalità previste dall’art. 343, comma 1, c.p.c. o notificando un atto introduttivo nel termine di venti giorni prima dell’udienza fissata; l’appellato, non avendo rispettato questo termine, avrebbe dovuto essere considerato decaduto dalla possibilità di impugnare, non potendo trovare applicazione il comma 2 dell’art. 343 c.p.c., in quanto – contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello – nessun “nuovo e autonomo” interesse ad impugnare sarebbe sorto dall’impugnazione incidentale del Perboni.
Si sostiene che, d’altra parte, il precedente delle Sezioni unite n. 24627 del 2007 (evocato nella sentenza impugnata), che ha ritenuto ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva e adesiva del coobbligato, nel caso di impugnazione principale esperita dall’altro coobbligato avverso la sentenza di condanna in solido, sarebbe stato erroneamente posto a sostegno della conclusione di ammissibilità dell’appello del Carnevale Maffè, in quanto da esso non potrebbe trarsi alcun argomento ai fini dell’applicabilità, al caso di specie, dell’art. 343, comma 2, c.p.c.
Si evidenzia che la citata pronuncia delle Sezioni unite, infatti, da un lato si riferirebbe a una diversa norma, l’art. 334 c.p.c., e, quindi, all’appello incidentale tardivo in senso stretto, e, dall’altro lato, risolvendo il contrasto sull’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva adesiva, individuerebbe proprio nell’impugnazione principale la fonte dell’interesse all’impugnazione.
Si precisa che, nel caso di specie, invece, avrebbe dovuto escludersi che l’interesse all’impugnazione di Carnevale Maffè, tesa ad ottenere la riforma della sentenza di primo grado per gli stessi motivi dedotti a sostegno dell’impugnazione principale proposta dal Pozzobon, e quindi adesiva alla principale, fosse sorto dall’impugnazione incidentale (anch’essa adesiva alla principale) del Perboni «perché solo l’impugnazione principale segna, a tutto concedere, il discrimine tra la definitività dell’assetto stabilito in sentenza, che potrebbe essere accettata dalle parti soccombenti (di qui la ratio dell’art. 334 c.p.c.) e un possibile diverso assetto del rapporto, che può evidentemente essere anche di natura quantitativa».
Si aggiunge che a ragionare diversamente, cioè individuando nell’appello incidentale tempestivo del coobbligato (nel giudizio di impugnazione promosso da altro coobbligato) un fatto idoneo a far sorgere un nuovo e distinto interesse di un terzo coobbligato (nel caso di specie il Carnevale Maffè), consentendone l’appello incidentale tardivo nel termine di cui all’art. 343, comma 2, c.p.c., si sovvertirebbe il sistema di preclusioni delineato dal codice di procedura civile in tema di impugnazioni, rendendosi ammissibili appelli incidentali tardivi “a catena”, tanti quanti sono gli obbligati, con successive fissazioni di udienze, tante quante sono le parti in lite.
Si segnala, inoltre, che lo stesso precedente delle Sezioni unite del 2007 è stato superato dalla successiva giurisprudenza di questa Corte, che è tornata ad affermare l’inammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva adesiva (si citano Cass. 25 febbraio 2008, n. 1610; Cass. 28 aprile 2014, n. 9369; Cass. 23 luglio 2014, n. 16787).
1.2.2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta – con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione e falsa applicazione degli 333, 334 e 343 c.p.c., perché la Corte di merito, dichiarando tardivo l’appello incidentale proposto da Carnevale Maffè nella comparsa depositata all’udienza del 26 gennaio 2012 e, viceversa, tempestivo l’appello incidentale proposto con citazione notificata nella stessa data, sarebbe contraddittoria e non avrebbe considerato che, stante la natura incidentale dell’impugnazione, l’atto di citazione con cui la stessa era stata introdotta doveva essere notificato entro il termine previsto dall’art. 343, comma 1, c.p.c. (vale a dire entro il 5 gennaio 2012).
1.2.3. Con il terzo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., si deduce – per il caso in cui non si ritenesse che la Corte di merito, nel riferirsi all’art. 334 c.p.c., anziché all’art. 343 c.p.c., sia incorsa in un mero errore materiale – la violazione e falsa applicazione dell’art. 334 c.p.c., in quanto tale norma non stabilisce il termine per la proposizione dell’appello incidentale, ma solo la possibilità per le parti convenute di proporlo.
1.3. Ha resistito con controricorso l’intimato Carnevale Maffè, il quale deduce l’applicabilità al caso di specie del principio enunciato dalle Sezioni Unite nella già indicata sentenza 24627 del 2007, ritenendo irrilevante il fatto che nella pronuncia la Corte di legittimità si sia specificamente occupata di stabilire l’ammissibilità dell’impugnazione ai sensi dell’art 334 c.p.c. e che abbia individuato nell’impugnazione principale la fonte dell’interesse ad impugnare. Con tale sentenza, infatti, la Corte di cassazione ha affermato il principio secondo cui «l’impugnazione incidentale tardiva va sempre concessa contro le sentenze di condanna di coobbligati solidali, anche quando le loro posizioni siano sicuramente coincidenti e non si verifichi tra esse alcun rapporto di interrelazione che dia luogo a cause dipendenti». Non vi sarebbe, pertanto, ragione di distinguere tra impugnazione incidentale tardiva, perché proposta successivamente alla scadenza dei termini ex art. 325 e ss., ed impugnazione incidentale tardiva ex art. 343, comma 2, c.p.c., né tra l’ipotesi in cui l’interesse derivi dall’impugnazione principale e quella in cui l’interesse derivi da altra impugnazione incidentale di un coobbligato in solido.
Quanto allo specifico interesse all’impugnazione sorto dall’impugnazione del Perboni, lo stesso controricorrente rappresenta che l’accoglimento del gravame di Perboni avrebbe per lui comportato il venir meno di coobbligati solidali con cui ripartire l’esito negativo della soccombenza. Ritiene che la proposizione dell’impugnazione adesiva del secondo coobbligato (a quella principale proposta dal primo coobbligato) aggraverebbe la posizione personale del terzo coobbligato, ulteriormente rispetto a quanto determinato dall’impugnazione principale, perché rischierebbe di far venir meno un altro (e ultimo) coobbligato.
In ordine al secondo motivo di ricorso, oltre a dedurne l’inammissibilità riproponendo la censura già svolta con il primo motivo, il medesimo controricorrente ne sostiene l’infondatezza nel merito. Rileva che non corrisponde al vero che la Corte d’appello abbia dichiarato tardivo l’appello incidentale proposto con la comparsa depositata all’udienza, essendosi limitata ad accertare che la costituzione era avvenuta senza il rispetto dei termini di cui all’art. 343, comma 1, c.p.c. qualificando ammissibile il suo appello quale impugnazione incidentale tardiva ex art. 343, comma 2, c.p.c.
Infine, con riferimento al terzo motivo di ricorso, il controricorrente riconosce che la Corte d’appello è incorsa in errore materiale e che, pertanto, il richiamo all’art. 334 c.p.c. va inteso come richiamo all’art. 343 c.p.c., e conclude, quindi, per l’inammissibilità del motivo.
2. Fissata la trattazione del ricorso dinanzi alla I Sezione civile, il collegio designato per la stabilita adunanza camerale del 30 maggio 2023 adottava, all’esito, l’ordinanza interlocutoria 20588 del 2023 (pubblicata il 17 luglio 2023), con la quale si ravvisava la necessità del “superamento della distonia tuttora persistente nella giurisprudenza di questa Corte” (di cui – si rammenta – ha già dato atto Cass., Sez. 3, n. 26139 del 5/09/2022) sulla disciplina delle impugnazioni incidentali tardive prevista, in via generale, dall’art. 334 c.p.c., anche in relazione agli artt. 331 e 332 c.p.c.
L’ordinanza parte dall’evocazione dei principi sanciti sulla questione dalle Sezioni unite con la citata sentenza n. 24627/2007, ma evidenzia che – nel successivo sviluppo giurisprudenziale – sono state emesse decisioni contrastanti (si richiama, in particolare, l’ordinanza della Sesta Sezione civile-1 n. 12584 del 22/05/2018), le quali implicano l’esigenza di ritornare sulla portata e sull’impianto motivazionale addotto a sostegno della suddetta sentenza e sulle relative conseguenze applicative con riguardo ad una serie di tematiche correlate
Nella stessa ordinanza di rimessione si rileva, infatti, che la decisione della Corte di appello sull’ammissibilità del ricorso incidentale tardivo adesivo del Carnevale Maffè si è fondata sull’esplicito richiamo alla sentenza delle Sezioni unite n. 24627 del 27/11/2007, nonché sulla considerazione che i principi in essa affermati siano applicabili con riferimento non solo all’appello principale di un coobbligato, ma anche all’appello incidentale di un diverso coobbligato, che avrebbe determinato l’insorgere in capo al terzo coobbligato di un nuovo e autonomo interesse a impugnare, in conseguenza della possibile ulteriore restrizione del novero degli obbligati solidali.
2.1. Secondo il collegio rimettente, il primo problema posto dai motivi di ricorso è dato dal fatto che il principio affermato dalle Sezioni unite del 2007, riguardo all’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva adesiva nel processo con pluralità di parti, non appare univoco e incontroverso, essendosi registrato un più recente approdo interpretativo non del tutto in linea con il citato arresto delle Sezioni unite con la pronuncia 24627 del 2007, riconducibile alla sentenza n. 23903 del 29/10/2020 delle stesse Sezioni unite.
Viene, perciò, individuata una prima questione consistente nel «verificare se l’impugnazione incidentale tardiva sia ammissibile anche quando rivesta le forme dell’impugnazione adesiva rivolta contro la parte investita dell’impugnazione principale, in ragione del fatto che l’interesse alla sua proposizione sorge dall’impugnazione principale (la quale, se accolta, comporterebbe una modifica dell’assetto delle situazioni giuridiche originariamente accettate dal coobbligato solidale), oppure se la stessa possa essere esperita (tenuto conto del tenore letterale dell’art. 334, comma 1, cod. proc. civ. e del carattere riflesso, e non diretto, dell’interesse suscitato nell’obbligato solidale dall’impugnazione principale del coobbligato) soltanto dalla parte “contro” la quale è stata proposta l’impugnazione principale o da quella chiamata ad integrare il contraddittorio a norma dell’art. 331 cod. proc. civ.».
2.2. Quindi, l’ordinanza di rimessione, rilevando che il principio affermato dalle Sezioni Unite nel 2007 si riferisce all’ipotesi in cui l’impugnazione principale metta in discussione l’assetto di interessi derivante dalla sentenza alla quale il coobbligato solidale aveva prestato acquiescenza (e quindi all’ipotesi di cui all’art. 343, comma 1, c.p.c., in cui un coobbligato aderisca, con l’impugnazione incidentale, all’appello principale di altro coobbligato), segnala che la sentenza impugnata ha applicato tale principio alla diversa ipotesi in cui un terzo coobbligato aderisca, con l’impugnazione incidentale tardiva, all’appello incidentale del secondo coobbligato, adesivo all’appello principale del primo coobbligato.
Tale diversa ipotesi sarebbe riconducibile al secondo comma dell’art. 343 c.p.c., che contempla il caso in cui l’interesse all’impugnazione incidentale sorga dall’impugnazione proposta da “altra parte che non sia l’appellante principale”, quindi necessariamente da un appellante incidentale.
La I Sezione civile rileva, quindi, la necessità di verificare non solo se il principio fissato dalle Sezioni Unite, nella sentenza n. 24627 del 2007, possa essere confermato, ma anche – così ponendo una seconda specifica questione – se lo stesso «possa essere applicato con riferimento all’interesse insorto a seguito di un’impugnazione non principale, ma incidentale adesiva».
2.3. L’ordinanza di rimessione ritiene, inoltre, indispensabile considerare se una simile impugnazione incidentale tardiva, ove ammissibile, possa essere introdotta non solo “nella prima udienza successiva alla proposizione dell’impugnazione stessa”, come prevede la norma, ma anche con autonomo atto di citazione, come avvenuto nel caso di specie.
2.4. Infine, muovendo dalla considerazione che l’impugnazione proposta in risposta all’appello principale del Pozzobon (per quanto adesiva rispetto a questa, in base alla sintesi dei relativi contenuti evincibili dalla impugnata sentenza di appello) è stata ritenuta inammissibile, perché tardiva, da una statuizione che non è stata impugnata, l’ordinanza ritiene – così ponendo un terza questione – che si debba, altresì, verificare «se, una volta dichiarata inammissibile l’impugnazione incidentale tardiva proposta reagendo all’impugnazione principale, debba considerarsi inammissibile, per consumazione del diritto di impugnazione, una seconda impugnazione incidentale presentata dalla stessa parte in relazione all’impugnazione incidentale di un differente coobbligato solidale».
Ciò in applicazione, nel particolare ambito per cui è causa, del principio – fissato dalla richiamata ordinanza della Sesta Sezione civile-1 n. 12584 del 22/05/2018 – secondo cui «è inammissibile l’appello incidentale tardivo che riproponga le medesime censure già presentate dalla stessa parte mediante l’appello principale, sebbene proposto prima che l’originario gravame sia dichiarato inammissibile, perché, qualora sia decorso il termine utile per l’impugnazione principale, non trova applicazione il principio desumibile dall’art. 358 cod. proc. civ., secondo cui la consumazione del diritto di impugnazione si verifica solo se, al momento dell’introduzione del nuovo gravame, sia già intervenuta la dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità di quello precedente».
3. Occorre, innanzitutto, rilevare che la ricorrente Mael s.p.a. (già Leonessa Investimenti s.r.l. a socio unico) ha depositato in cancelleria dichiarazione – sottoscritta dal suo legale rappresentante oltre che dal suo difensore – del 6 febbraio 2024, con la quale ha rinunciato al ricorso e agli atti del giudizio.
Il controricorrente Carnevale Maffè Carlo Alberto ha, di seguito, depositato, a sua volta, dichiarazione del 7 febbraio 2024 – dal medesimo sottoscritta, congiuntamente al suo difensore – con la quale ha accettato la suddetta rinuncia della ricorrente.
Sussistono, pertanto, le condizioni per dichiarare – ai sensi dell’art. 391 c.p.c. – l’estinzione del giudizio di cassazione senza far luogo ad alcuna pronuncia sulle spese, ricorrendo le condizioni di cui al comma 4 della citata norma e rimanendo, altresì, esclusa la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, in funzione dell’attestazione della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Ciò malgrado, queste Sezioni unite ritengono che – alla stregua della particolare rilevanza delle questioni processuali (specialmente di quella riferita all’interpretazione dell’art. 334, comma 1, c.p.c.) poste con l’ordinanza di rimessione, anche per effetto della sollecitata possibile rimeditazione della conclusione raggiunta (in tempi ormai non più recenti) dalle Sezioni unite con la più volte menzionata sentenza n. 24627/2007 (sottoposta a critica da parte di un certo orientamento di questa Corte e particolarmente dibattuta anche in dottrina, soprattutto con riguardo alle conseguenze derivanti in tema di obbligazioni solidali) e della notevole incidenza riconducibile alla sua soluzione (anche per gli effetti correlati che può produrre su questioni processuali dipendenti) – emerga una effettiva opportunità di enunciare i correlati principi di diritto ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., ovviamente all’esito di un percorso logico-giuridico- argomentativo che supporti la soluzione che si riterrà conferente rispetto alle plurime questioni poste con l’ordinanza di rimessione.
Occorre, peraltro, rimarcare che, pur facendo la norma appena richiamata specifico riferimento alla possibilità di pronunciare il principio di diritto, anche d’ufficio, quando il ricorso proposto è inammissibile, tale potere – in continuità con l’evoluzione giurisprudenziale di questa Corte (cfr., ad es., Cass. SU, ordinanza 6 settembre 2010, n. 19051; Cass. SU, sentenza 24 settembre 2018, n. 22438 e, da ultimo, Cass. Sezione 1, ordinanza 28 febbraio 2023, n. 6074, nonché Cass. SU, sentenza 6 aprile 2023, n. 9479) – deve ritenersi esercitabile anche in caso di declaratoria di estinzione conseguente alla rinuncia al ricorso, sulla scorta della valorizzazione della ratio sottesa a tale norma, la quale è stata concepita in funzione dell’attivazione della funzione nomofilattica pur a prescindere, eccezionalmente, dalla decisione sul fondo delle censure con effetti sul concreto diritto dedotto in giudizio.
Questa esigenza viene, infatti, certamente in rilievo anche nel caso di estinzione del giudizio di cassazione qualora la questione da risolvere sia di particolare importanza o, ancor di più, se riguarda una questione oggetto di contrasto giurisprudenziale (al limite rinnovatosi nel tempo dopo una già intervenuta decisione delle Sezioni unite) all’interno delle Sezioni civili della Corte, e, quindi, soprattutto quando la decisione è rimessa alle Sezioni unite, nella sussistenza delle condizioni previste dall’art. 374, comma 2, c.p.c. (come verificatosi nel caso di specie).
Si è, al riguardo, opportunamente sottolineato che, nell’applicazione dell’istituto del principio di diritto nell’interesse della legge, rimane viva e vitale quella necessaria compenetrazione tra l’esercizio dei compiti di nomofilachia e i “fatti della vita” portati dalle parti dinanzi al giudice; ciò dà fondamento alle ragioni di una disciplina che, a fronte di questioni di diritto e di fatto rivestenti particolare importanza, consente di pronunciare una regola di giudizio che, sebbene non influente sulla concreta vicenda processuale, serva tuttavia come criterio di decisioni di casi analoghi o simili (v. Cass. SU n. 27187/2007; Cass. SU n. 19051/2010 e Cass. SU n. 9479/2023, cit.), finalità che si prospetta ancora più avvertita quando trattasi di pronunciarsi su questione processuale di carattere generale, come quella che viene in rilievo nella presente sede.
4. Tutto ciò premesso, si può, dunque, passare allo svolgimento motivazionale supportante le risposte risolutive delle importanti e controverse questioni poste con la su richiamata ordinanza interlocutoria.
Quanto al tema dei limiti oggettivi dell’impugnazione incidentale tardiva (anche se tale non costituisce un aspetto sollecitato con l’ordinanza di rimessione, ma che – tuttavia – risulta connesso a quello dei “limiti soggettivi” di tale forma di impugnazione e che si ritiene opportuno richiamare), si osserva quanto segue. La giurisprudenza di questa Corte – dopo un lungo periodo in cui aveva imposto rigorosi confini oggettivi alla possibilità di esperire l’impugnazione incidentale tardiva, ritenendola ammissibile solo in quanto rimanesse nell’ambito del capo della sentenza investita dall’impugnazione principale o riguardasse un capo connesso con quest’ultimo o da questo dipendente – a partire dagli anni ottanta del secolo scorso aveva avviato un percorso di ripensamento, consacrato dalla sentenza delle SU n. 4640 del 7/11/1989, con la quale venne affermato il seguente principio di diritto: «l’art. 334 cod. proc. civ., che consente alla parte, contro cui è stata proposta impugnazione (o chiamata ad integrare il contraddittorio a norma dell’art. 331 cod. proc. civ.), di esperire impugnazione incidentale tardiva, senza subire gli effetti dello spirare del termine ordinario o della propria acquiescenza, è rivolto a rendere possibile l’accettazione della sentenza, in situazione di reciproca soccombenza, solo quando anche l’avversario tenga analogo comportamento, e, pertanto, in difetto di limitazioni oggettive, trova applicazione con riguardo a qualsiasi capo della sentenza medesima, ancorché autonomo rispetto a quello investito dall’impugnazione principale».
Con questa pronuncia si ritenne che:
(a) la ratio dell’art. 334 c.p.c. è una finalità “transattivo- ritorsiva”: la norma, infatti, ha lo scopo di indurre la parte parzialmente vittoriosa a rinunciare all’impugnazione, per non correre il rischio che l’appellato, attraverso l’impugnazione tardiva, possa rimettere in discussione anche le parti della sentenza favorevoli all’appellante principale;
(b) se questa è la ratio della norma, essa sarebbe frustrata se si impedisse all’appellato di impugnare tardivamente anche capi di sentenza diversi da quelli impugnati in via principale, perché l’esigenza di favorire la definitiva composizione della lite, dissuadendo le parti dall’impugnazione, sussiste anche in questa ipotesi;
(c) pertanto, l’interesse a proporre l’impugnazione tardiva non coincide con quello che sorge dalla mera soccombenza, ma è un interesse diverso e sorge dall’impugnazione altrui, “che tende a modificare l’assetto di interessi che l’impugnato, in mancanza dell’altrui impugnazione principale, avrebbe accettato”. Per effetto della sentenza appena ricordata, cadde il limite all’impugnazione incidentale tardiva rappresentato dalla medesimezza o dipendenza tra il capo di sentenza impugnato dall’impugnante principale e quello impugnato dall’impugnante incidentale. A quest’ultimo, di conseguenza, si è consentito impugnare qualsiasi capo della sentenza, anche se diverso da quello investito dall’impugnazione principale (cfr., ad , Cass., Sez. 3, n. 14596 del 9/07/2020) e anche se autonomo rispetto a questo (v. Cass., Sez. 3, n. 26139 del 5/09/2022).
E’ importante rimarcare che questo principio è stato recepito nell’art. 96 del d. lgs. n. 104/2010 – che reca la nuova disciplina sul processo amministrativo – prevedendosi proprio, al comma 4, che «Con l’impugnazione incidentale proposta ai sensi dell’art. 334 del codice di procedura civile possono essere impugnati anche capi autonomi della sentenza; tuttavia, se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione incidentale perde ogni efficacia», impugnazione che la giurisprudenza amministrativa ha denominato come impugnazione incidentale tardiva c.d. “impropria”.
5. La prima questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite coinvolge, direttamente, i temi della legittimazione attiva e passiva all’impugnazione incidentale tardiva e quello – comunque correlato – dei limiti oggettivi di tale impugnazione, nei processi con pluralità di parti, nella peculiare fattispecie delle obbligazioni solidali cd. “paritarie” o “a interesse comune”.
L’impugnazione incidentale tardiva c.d. adesiva, nella fattispecie oggetto del ricorso oggi rimesso alle Sezioni Unite, infatti:
- proviene da un soggetto (il coobbligato condannato in solido) diverso da quello contro il quale è rivolta l’impugnazione principale (proposta dall’altro coobbligato, pure condannato in solido, nei confronti del creditore), e coinvolge, pertanto, il tema della legittimazione attiva all’impugnazione incidentale tardiva;
- è rivolta contro una parte diversa da quella che ha proposto l’impugnazione principale, e coinvolge, pertanto, anche sotto questo profilo, il problema della legittimazione passiva all’impugnazione incidentale tardiva;
- ha ad oggetto un capo diverso della sentenza (la condanna dell’impugnante incidentale) rispetto a quello oggetto dell’impugnazione principale (la condanna dell’impugnante principale).
5.1. Con riferimento a tale questione si registrava nella giurisprudenza di questa Corte un contrasto – persistito per un tempo considerevole – che fu risolto dal successivo intervento delle Sezioni unite, con la (più volte indicata) sentenza 24627 del 27/11/2007.
Questa pronuncia venne emessa con riferimento ad una causa avente ad oggetto un caso in cui, rimasti soccombenti due coobbligati solidali, solo uno di essi impugnò tempestivamente la sentenza, mentre l’altro l’impugnò tardivamente in via incidentale. Tutte e due le impugnazioni erano ovviamente rivolte contro il creditore comune. Chiamate a stabilire se l’impugnazione incidentale tardiva fosse in questo caso ammissibile, le Sezioni Unite dettero a tale quesito risposta affermativa, facendo leva sul concetto di “interesse” all’impugnazione e sulla necessità soddisfare l’esigenza della tutela dell’«assetto comune» dell’interesse delle parti e della conservazione dell’unitarietà del rapporto sostanziale già dedotto in giudizio in primo grado.
Nella motivazione, infatti, si affermò che sussiste un interesse all’impugnazione tardiva, meritevole di tutela, tutte le volte che l’impugnazione proposta da uno qualsiasi dei litisconsorti, se accolta, comporterebbe una modifica dell’assetto delle situazioni giuridiche accettate da uno qualsiasi degli altri, poiché darebbe luogo o ad una soccombenza totale, oppure ad una soccombenza più grave di quella stabilita dalla sentenza impugnata.
Con questa sentenza le Sezioni unite stabilirono, quindi, che l’impugnazione incidentale tardiva potesse essere rivolta anche contro parti diverse dall’impugnante principale (conformandosi come “adesiva”). Peraltro, fu precisato che questa ammissibilità non è automatica e non sussiste sempre e comunque, ma esige che il giudice valuti se l’interesse all’impugnazione tardiva, nel caso concreto, possa davvero reputarsi sorto per effetto dell’impugnazione principale: dunque si tratterà di stabilire caso per caso se l’accoglimento eventuale di quest’ultima possa pregiudicare o meno l’impugnante incidentale tardivo. In caso affermativo l’impugnazione tardiva sarà ammissibile, nel caso contrario no.
Così ricostruito il contrasto, le Sezioni Unite del 2007 ritennero di dover sottoporre a revisione «l’orientamento dominante – secondo cui l’impugnazione principale fissa immodificabilmente l’oggetto del giudizio determinando in modo automatico l’ambito dell’eventuale impugnazione incidentale in considerazione dei limiti derivanti dalla decadenza, dall’acquiescenza e dalla mancata riproposizione delle domande e delle eccezioni non espressamente riproposte» perché messo in crisi dalla enorme casistica con la quale viene valorizzato un diverso elemento, e cioè la ricerca dell’interesse all’impugnazione.
Il principio definitivamente statuito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 24627 del 2007 è stato condensato nella massima ufficiale di seguito riportata: «Sulla base del principio dell’interesse all’impugnazione, l’impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile, a tutela della reale utilità della parte, tutte le volte che l’impugnazione principale metta in discussione l’assetto di interessi derivante dalla sentenza alla quale il coobbligato solidale aveva prestato acquiescenza; conseguentemente, è ammissibile, sia quando rivesta la forma della controimpugnazione rivolta contro il ricorrente principale, sia quando rivesta le forme della impugnazione adesiva rivolta contro la parte investita dell’impugnazione principale, anche se fondata sugli stessi motivi fatti valere dal ricorrente principale, atteso che, anche nelle cause scindibili, il suddetto interesse sorge dall’impugnazione principale, la quale, se accolta, comporterebbe una modifica dell’assetto delle situazioni giuridiche originariamente accettate dal coobbligato solidale».
5.2. Nello sviluppo successivo della giurisprudenza di questa Corte si è, tuttavia, constatato che:
– mentre un orientamento ha continuato a fare applicazione dei principi espressi dalle citate Sezioni Unite del 2007 – e, quindi a ritenere ammissibile, sotto il profilo della legittimazione attiva, l’impugnazione incidentale tardiva anche proveniente da parte diversa da quella contro la quale è rivolta l’impugnazione principale o chiamata ad integrare il contraddittorio ex art. 331 c.p.c. -, un diverso orientamento della Corte ha negato che l’art. 334 c.p.c. sia applicabile al di fuori delle ipotesi ivi espressamente previste e quindi che sia ammissibile, in ipotesi di cause scindibili, l’impugnazione incidentale tardiva di un soggetto diverso da quelli indicati da tale norma.
Il contrasto sulla legittimazione attiva a proporre impugnazione incidentale tardiva assume rilievo soprattutto, nel campo delle obbligazioni solidali a “interesse comune”, in quanto in ambiti in cui la connessione di cause è meno rilevante la giurisprudenza della Corte, sulla base dei diversi principi affermati, è giunta a conclusioni non contrastanti.
Tale contrasto può, peraltro, assumere rilievo anche nei settori delle obbligazioni solidali a interesse unisoggettivo e, in generale, delle cause connesse per pregiudizialità-dipendenza, ove non ricondotte sotto la disciplina di cui all’art. 331 c.p.c., come ad esempio nel caso in cui il debitore principale condannato in primo grado in solido con il condebitore (o il convenuto, nel caso di accoglimento tanto della domanda principale quanto quella di garanzia) proponga impugnazione nei soli confronti dell’attore, essendo, in tal caso, il condebitore o il terzo chiamato condannati parti diverse da quelle a cui l’art. 334 c.p.c. consente espressamente l’impugnazione incidentale tardiva.
I principi affermati dalle Sezioni Unite del 2007 sembrano, invece, essere rimasti consolidati nella giurisprudenza della Corte quanto all’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva nei confronti di soggetti diversi da quello che ha proposto impugnazione principale.
D’altra parte, la giurisprudenza di questa Corte esclude pianamente tanto che la riforma della sentenza di condanna di un coobbligato in solido abbia efficacia nei confronti del condebitore non impugnante, sia che il giudicato formatosi nei confronti di un condebitore in solido all’esito di un giudizio a cui non abbia partecipato un altro condebitore, possa esplicare efficacia nel successivo giudizio di regresso tra costoro, in ragione dei limiti soggettivi del giudicato.
5.3. Le Sezioni unite del 2007 avevano, quindi, affrontato e risolto due questioni distinte: – quella dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva rivolta contro una parte diversa dall’impugnante principale, che attiene ai limiti della “legittimazione passiva” del gravame ex 334 c.p.c., che ritengono diversa da quella su cui vi era il contrasto; – quella dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva adesiva proposta dal coobbligato nelle cause scindibili, a fronte dell’impugnazione di altro coobbligato, relativamente ai limiti della legittimazione attiva del medesimo gravame, in quanto proveniente da soggetto diverso da quello contro il quale è proposta l’impugnazione principale.
L’ampiezza dei temi sottostanti alla specifica questione dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva adesiva proposta dal coobbligato in solido a seguito dell’impugnazione proposta in via principale da altro coobbligato fu immediatamente sottoposta dalla dottrina alla sua attenzione.
5.3.1. L’eliminazione ad opera delle Sezioni Unite dei limiti soggettivi, sotto il profilo della “legittimazione passiva”, dell’impugnazione incidentale tardiva proposta dalla parte contro la quale è proposta l’impugnazione principale, è stata accolta con favore da una parte della dottrina, secondo cui tali limiti non sono previsti dall’art. 334 c.p.c. La soluzione è stata ritenuta coerente con la ratio di tale norma, che è quella di evitare la “corsa” all’impugnazione e di consentire alla parte parzialmente soccombente disposta ad accettare l’esito complessivo della lite di stare “alla finestra” sapendo che se la sentenza, nella parte ad essa favorevole, sarà impugnata, potrà a sua volta impugnare nei termini ordinari, qualunque sia la ragione del cumulo nello stesso processo di più cause tra parti differenti.
La parte contro la quale è stata proposta l’impugnazione avrebbe, infatti, un concreto interesse a proporre l’impugnazione incidentale tardiva, anche nei confronti di una parte diversa da quella che ha proposto l’impugnazione principale, derivante dalla circostanza che l’impugnazione (principale) rimette in discussione il risultato pratico complessivamente determinato dalla sentenza impugnata, potendo condurre ad una soccombenza «più grave» di quella che l’impugnante incidentale era disposto ad accettare.
Tale indirizzo dottrinale ha illustrato i positivi effetti della eliminazione dei limiti soggettivi in questione, nel settore delle obbligazioni solidali, nel caso in cui, avendo il creditore ottenuto la condanna di taluno soltanto dei più condebitori convenuti (che tuttavia potrebbe soddisfarlo pienamente, qualora egli faccia affidamento sulla solvibilità del soccombente), la sentenza sia impugnata da quest’ultimo, con il conseguente rischio per l’attore di un rigetto totale della domanda, che lo abilita ad avvalersi dell’impugnazione incidentale tardiva nei confronti degli altri coobbligati risultati vittoriosi in primo grado. Effetti altrettanto positivi – come rilevato dalla stessa decisione delle Sezioni Unite del 2007 – conseguirebbero con riferimento alle fattispecie di garanzia c.d. impropria (facendo l’esempio della vendita a catena, in cui l’ultimo acquirente faccia valere i vizi della cosa nei confronti dell’ultimo venditore, e questi chiami a sua volta in causa il proprio dante causa), allorché, avendo la sentenza accolto tanto la domanda principale quanto quella di rivalsa, l’impugnazione (principale) sia proposta dal garante, con l’evidente effetto di porre a rischio il risultato pratico derivante al convenuto-garantito dalla sentenza impugnata, che ha perciò interesse a proporre tardivamente l’impugnazione nei confronti dell’originario attore, senza che rilevi la circostanza che il garante abbia censurato la sentenza impugnata solo nella parte relativa alla sussistenza ed ai limiti dell’obbligo di garanzia ovvero anche per ragioni concernenti l’esistenza dell’obbligazione principale in capo al convenuto.
5.3.2. Altra parte della dottrina ha, invece, criticato la sentenza delle Sezioni Unite 24627 del 2007 per aver ritenuto ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva proposta dal coobbligato soccombente a fronte dell’impugnazione principale proposta da altro coobbligato pure soccombente, sia perché proveniente da una parte diversa da quella contro la quale è proposta l’obbligazione principale, in contrasto con la lettera dell’art. 334 c.p.c., sia perché, con detta pronuncia, si sarebbe data per scontata l’efficacia dell’eventuale riforma della sentenza di primo grado in accoglimento dell’impugnazione principale, nel successivo giudizio di regresso tra i condebitori, che sarebbe, invece, da escludersi.
Altri indirizzi teorici sembrano far leva sui limiti soggettivi del giudicato, escludendo tale efficacia «in quanto quella sentenza non ha avuto alla base un giudizio che vedesse davvero ancora come parte il condebitore solidale inerte», perché la notifica, dell’impugnante principale, nei casi di cui all’art. 332 c.p.c., dovrebbe considerarsi una mera litis denuntiatio, con la conseguenza di doversi recisamente negare in apicibus il fatto che chi riceve questa notifica diventi parte del giudizio di gravame e possa subire un qualsivoglia tipo di deterioramento della sua complessiva situazione giuridica quale fuoriuscente dalla sentenza di primo grado che egli ha espressamente, o tacitamente, o semplicemente facendo decorrere i termini, sostanzialmente accettato, facendo sì che si consolidi il capo di sentenza scindibile relativo alla propria condanna.
Si è, infine, ritenuto che la soluzione tracciata dalle Sezioni Unite con la più volte citata sentenza del 2007 finisca per prestare eccessiva attenzione alla posizione dei coobbligati (in vista di un diritto, quello di regresso, non ancora esercitato) a scapito della posizione del creditore che, per essere certo della propria vittoria, non dovrebbe soltanto attendere il decorso dei termini brevi o lunghi per l’impugnazione, ma anche chiedersi se, in ragione del gravame proposto da un coobbligato, l’altro o gli altri coobbligati rimasti inerti possano subire un qualche pregiudizio, sia pure di mero fatto, tali da legittimarli all’esercizio dell’impugnazione incidentale tardiva, in contrasto con la funzione stessa della solidarietà, intesa quale istituto che tutela, in via prioritaria, la posizione del creditore.
6. Il principio di diritto enunciato con la sentenza delle Sezioni unite 24627 del 2007 è stato ribadito dalla prevalente successiva giurisprudenza di questa Corte che ha valorizzato la sussistenza in capo al condebitore solidale di un suo reale interesse a proporre impugnazione incidentale tardiva congiuntamente al soddisfacimento – innanzi ricordato – dell’esigenza di garantire l’assetto complessivo delle situazioni giuridiche dedotte in causa fin dalla sua introduzione nell’ottica di addivenire ad una soluzione riguardante un rapporto comune nella sua unitarietà (cfr., tra quelle massimate ufficialmente, come conformi Cass., Sez. L, n. 9264 del 9/04/2008; Cass., Sez. 3, n. 10125 del 30/04/2009; Cass., Sez. L, n. 15050 del 26/06/2009; Cass., SU, n. 18049 del 4/08/2010, ancorché in modo solamente reiterativo; Cass., Sez. 1, n. 5146 del 30/03/2011; Cass., Sez. L, n. 5086 del 29/03/2012; Cass. SU, n. 18752 del 7/08/2013, sempre in senso soltanto reiterativo; Cass., Sez. 3, n. 25848 del 9/12/2014; Cass., Sez. 1, n. 23396 del 16 novembre 2015; nonché, tre le più recenti, Cass., Sez. 2, n. 1879 del 25/01/2018; Cass., Sez. 2, n. 5876 del 12/03/2018; Cass., Sez. 2, n. 14596 del 9/07/2020; Cass., Sez. 3, n. 25285 dell’11/11/2020; Cass., Sez. 3, n. 26139 del 5/09/2022).
Si è, in special modo, affermato – ad es., con Cass., Sez. 3, n. 25285 dell’11/11/2020, cit. (ampiamente motivata sulla questione in oggetto) – che l’impugnazione incidentale tardiva del coobbligato in solido, rivolta contro la parte investita dell’impugnazione principale, è ammissibile anche se fondata su motivi diversi da quelli fatti valere dal ricorrente principale, rilevandosi che «una diversa e più restrittiva interpretazione indurrebbe ciascuna parte a cautelarsi proponendo un’autonoma impugnazione tempestiva sulla statuizione rispetto alla quale è rimasta soccombente, con inevitabile proliferazione dei processi d’impugnazione».
Sotto il profilo dell’interesse all’impugnazione, con la stessa Cass. n. 25285 del 2020, si è, poi, osservato che «nel caso delle obbligazioni solidali l’interesse è dato dal possibile mutamento dell’ampiezza della propria responsabilità, a nulla valendo la circostanza che la decisione da impugnare abbia, come nell’ipotesi, lasciato impregiudicato il profilo dei rapporti interni tra coobbligati, ovvero che, astrattamente, l’intera responsabilità, in sede di rivalsa (trattandosi di titoli differenti), potrebbe essere imputata a un solo soggetto: infatti, proprio perché il profilo in parola è impregiudicato, e proprio perché il soggetto in questione potrebbe essere o meno pregiudicato dalla rivalsa, è evidente che ha un interesse specifico che sorge dall’impugnazione del coobbligato, poiché quella vuole incidere sull’assetto regolato dalla decisione oggetto di censura e che lo coinvolge».
Quanto alla compatibilità con la lettera dell’art. 334 c.p.c. dell’interpretazione che, in base al principio dell’interesse all’impugnazione, ritiene ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva adesiva del coobbligato in solido, con la medesima pronuncia è stato evidenziato che mancano «limitazioni letterali evincibili dall’art. 334, primo comma, cod. proc. civ., dovendosi intendere per “parte contro cui è proposto” il gravame ogni parte che ne potrebbe subire effetti pregiudizievoli dall’accoglimento dell’impugnazione proposta da altri» (in termini omologhi v., da ultimo Cass., Sez. 3, n. 26139 del 5/09/2022, anch’essa diffusamente motivata sulla questione, con il riesame di tutto il pregresso stato giurisprudenziale e la riaffermazione della condivisibilità dell’impianto logico-giuridico-argomentativo della sentenza delle SU n. 24627/2007: è opportuno segnalare che con quest’ultima ordinanza citata si era ritenuto non necessario investire nuovamente della specifica questione le Sezioni Unite, giacché quello che si era definito come “orientamento minoritario” poteva in realtà ascriversi a fisiologiche oscillazioni giurisprudenziali, non convincenti nell’elaborazione dei presupposti ed in ogni caso non tali da ingenerare un autentico contrasto o contrapposizione tra indirizzi consolidati).
6.1. All’orientamento giurisprudenziale, adesivo alla sentenza delle Sezioni Unite 24627 del 2007, se ne è contrapposto un altro secondo cui, a fronte dell’impugnazione principale, proposta da un coobbligato contro la sentenza di condanna in solido, l’altro coobbligato, pur avendo il potere di impugnare in via incidentale adesiva, non può farlo quando siano spirati i termini lungo o breve per proporre impugnazione (tra quelle massimate si richiamano Cass., Sez. 5, n. 1610 del 25/01/2008; Cass., Sez. 3, n. 1120 del 21/01/2014; Cass., Sez. 5, n. 20040 del 7/10/2015; Cass., Sez. 3, n. 17614 del 24/08/2020 e Cass., SU, n. 23903 del 29/10/2020). E’ stata esclusa l’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva del coobbligato in solido, sulla base del principio secondo cui «l’art. 334 cod. proc. civ., che consente di proporre l’impugnazione incidentale tardiva nei confronti di qualsiasi capo della sentenza impugnata dalla controparte, si riferisce infatti esclusivamente all’impugnazione incidentale in senso stretto, ovverosia a quella proveniente dalla parte contro la quale è stata proposta l’impugnazione principale o che sia stata chiamata ad integrare il contraddittorio, a norma dell’art. 331 cod. proc. civ.: quando invece il ricorso incidentale abbia contenuto adesivo a quello principale, la parte che lo propone è tenuta a rispettare il termine lungo di cui all’art. 327, primo comma, cod. proc. civ.».
Occorre evidenziare che l’ordinanza della Sez. 6-1 n. 12584 del 22/05/2018 evocata nell’ordinanza interlocutoria si è pronunciata, infatti, in una fattispecie in cui, pubblicata una sentenza di divorzio che aveva altresì disposto un assegno a carico del marito in favore della moglie, entrambi i coniugi avevano proposto impugnazione in via principale, ma mentre quello della moglie era tempestivo, quello del marito era tardivo. Il marito, quindi, aveva altresì riproposto lo stesso appello in via incidentale tardiva a seguito dell’appello principale proposto dalla moglie, e prima che venisse dichiarata l’inammissibilità dell’appello da lui proposto in via principale.
Con tale pronuncia è stato ritenuto inapplicabile, al caso di specie, l’orientamento assolutamente prevalente della Corte sopra descritto, in ragione del fatto che, con riferimento all’appello principale, tale principio richiede che, al momento della proposizione del nuovo gravame, non sia ancora decorso il termine per l’impugnazione, mentre, nel caso al suo esame, tale termine era decorso tanto al momento della proposizione dell’appello principale del marito, quanto al tempo della proposizione dell’appello incidentale da parte dello stesso.
Nella sostanza, quindi, parrebbe che tale pronuncia sia stata determinata dalla necessità di evitare che in base ad un principio consolidato nella giurisprudenza della Corte si potesse consentire alla parte di eludere i termini previsti dalla legge per il suo appello principale.
Va segnalato, inoltre, che tale decisione non si è pronunciata sulla questione relativa alla possibilità di conversione dell’appello principale del marito, successivo a quello della moglie, in appello incidentale tardivo (paragonabile a quella che si pone nel giudizio oggi rimesso a queste Sezioni unite), perché con il ricorso era stata rimessa la diversa questione dell’ammissibilità dell’appello incidentale tardivo, nonostante l’inammissibilità di quello principale per tardività.
Il caso oggetto del ricorso oggi rimesso alle Sezioni Unite si presenta, quindi, ben diverso, perché non viene in gioco la questione della recuperabilità, attraverso la conversione in appello incidentale tardivo, di un appello principale tardivamente proposto, bensì quella, diversa, dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva proposta, anziché attraverso un’impugnazione incidentale, nelle forme di un’impugnazione autonoma, peraltro con l’osservanza dei termini previsti per tale impugnazione, ai sensi dell’art. 343, comma 2, c.p.c., ove ritenuta ammissibile.
L’ordinanza interlocutoria di rimessione della questione pone riferimento anche alla più recente pronuncia delle Sezioni unite n. 23903 del 2020, con cui è stata negata l’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva del coobbligato in solido al risarcimento del danno erariale, aderendo all’orientamento più restrittivo, sul rilievo del carattere reciprocamente scindibile e indipendente dei distinti rapporti processuali.
Detta decisione delle Sezioni unite riguardava, in effetti, la particolare ipotesi della responsabilità contabile (nell’ambito della risoluzione di un questione di giurisdizione), che è connotata, in virtù degli interessi pubblici coinvolti nell’azione di responsabilità, da caratteristiche precipue, quali la distinzione fra le figure dell’obbligato principale e del coobbligato secondario o la non operatività della c.d. rinunzia alla solidarietà da parte del creditore-Erario, a favore di uno dei condebitori.
7. La giurisprudenza di questa Corte ha sempre inquadrato il caso delle obbligazioni solidali a interesse comune nelle cause «scindibili» ex 332 c.p.c. (v., tra le tante, Cass., SU, n. 14700 del 18/06/2010; Cass., Sez. 3, n. 11795 del 30/08/2011; Cass., Sez. 2, n. 2854 del 12/02/2016), a condizione che non sia stata da alcuna parte richiesta la pronuncia sulle pretese di regresso o sulla «ripartizione» nei rapporti interni.
Questa posizione è stata fondata sul presupposto che l’obbligazione solidale determina la costituzione di tanti rapporti obbligatori (plasticamente si discorre di “fascio di rapporti”), quanti sono i condebitori, con la duplice conseguenza che, «nel caso di giudizio di impugnazione promosso da uno solo dei debitori solidali, la sentenza passa in giudicato nei confronti dei condebitori riguardo ai quali l’impugnazione non è stata svolta e che, qualora l’esercizio del diritto di impugnazione sia avvenuto da parte di tutti i condebitori, con la deduzione, però, da parte di ciascuno, di specifici motivi diversi da quelli dedotti dagli altri, i motivi dedotti dal condebitore non si comunicano agli altri».
Al riguardo si è, infatti, sostenuto che la sentenza con cui ci si pronuncia sulla domanda proposta dal creditore nei confronti di una pluralità di condebitori, «pur essendo formalmente unica, consta di tante distinte pronunce quanti sono i coobbligati con riguardo ai quali essa è stata emessa», con la conseguenza che, in caso di mancata impugnazione da parte di un condebitore, si determina il passaggio in giudicato della sentenza nei suoi confronti (Cass., Sez. 3, n. 16390 del 14/07/2009), senza che egli possa giovarsi dell’eventuale accoglimento dell’impugnazione del coobbligato, neanche qualora gli sia stata notificata l’impugnazione (Cass., Sez. 2, n. 24728 dell’8/10/2018).
Ciò in quanto «la regola di cui all’art. 1306, secondo comma, cod. civ., secondo cui i condebitori in solido hanno facoltà di opporre al creditore la sentenza pronunciata tra questi ed uno degli altri condebitori, trova applicazione soltanto nel caso in cui la sentenza suddetta sia stata resa in un giudizio cui non abbiano partecipato i condebitori che intendano opporla. Se, invece, costoro hanno partecipato al medesimo giudizio, operano le preclusioni proprie del giudicato, con la conseguenza che la mancata impugnazione da parte di uno o di alcuni dei debitori solidali, soccombenti in un rapporto obbligatorio scindibile, qual è quello derivante dalla solidarietà, determina il passaggio in giudicato della sentenza nei loro confronti, ancorché altri condebitori solidali l’abbiano impugnata e ne abbiano ottenuto l’annullamento o la riforma» (cfr. Cass., Sez. 3, n. 20559 del 30/09/2014).
La disciplina delle cause scindibili di cui all’art. 332 c.p.c., viene ritenuta applicabile dalla giurisprudenza di questa Corte, nell’ambito delle cause aventi ad oggetto obbligazioni solidali a interesse comune, sia nel caso in cui, risultando entrambe le domande accolte, l’impugnazione principale sia proposta da uno dei condebitori nei riguardi del comune creditore (Cass., Sez. L, n. 7308 del 26/03/2007; Cass., Sez. 3, n. 13607 del 21/06/2011 e Cass., Sez. 2, n. 24728 dell’8/10/2018, appena cit.), sia nel diverso caso in cui, a seguito del rigetto (anche parziale) di tutte le (o di alcune delle) domande, il creditore proponga impugnazione nei confronti di alcuni soltanto degli originari convenuti (Cass., Sez. 3, n. 3338 dell’11/02/2009 e Cass., Sez. 3, n. 9625 del 19/04/2018, non mass.).
Condividendo il riportato inquadramento, la dottrina assolutamente prevalente afferma che ogniqualvolta, indipendentemente dal tipo di connessione che è alla base del cumulo soggettivo di cause, una delle parti sia destinataria di una vera e propria impugnazione (id est di una domanda di riforma o annullamento di una statuizione a lui sfavorevole), non soltanto la ratio, ma anche la stessa lettera dell’art. 334, comma 1, c.p.c., inducono ad escludere che l’impugnazione incidentale tardiva dell’impugnato sia soggetta, dal lato passivo, ad alcuna limitazione di ordine soggettivo.
7.1. Alla regola della scindibilità delle cause, la giurisprudenza di questa Corte ritiene si deroghi, allorquando nel processo uno dei due condebitori eserciti azione di regresso nei confronti dell’altro, oppure la responsabilità dell’uno presupponga quella dell’altro «venendo a configurarsi una situazione di inscindibilità di cause e quindi di litisconsorzio processuale necessario, quando le stesse siano in rapporto di dipendenza ovvero quando le distinte posizioni dei coobbligati presentino obiettiva interrelazione, alla stregua della loro strutturale subordinazione anche sul piano del diritto sostanziale, sicché la responsabilità dell’uno presupponga la responsabilità dell’altro» (v., di recente, , Sez. III, n. 34899 del 28/11/2022).
La Corte ritiene, inoltre, riconducibile alla disciplina di cui all’art. 331 c.p.c. anche il caso in cui nel giudizio in cui sia chiesta la condanna di varie parti in solido al risarcimento dei danni e tra le stesse insorga controversia circa la determinazione delle rispettive quote di corresponsabilità, versandosi in un’ipotesi di cause dipendenti (Cass. SU n. 3074 del 3/03/2003 e Cass., Sez. I, n. 19584 del 27/08/2013).
8. Passando, ora, a tirare le fila del ragionamento – in un’ottica di complesso argomentativo di sistema – occorre evidenziare che le due questioni principali che discendono dall’esame del rapporto tra obbligazione solidale “paritaria” e impugnazione incidentale tardiva pongono i seguenti interrogativi: a) chi, risultato soccombente rispetto ad una pronuncia di condanna in solido, possa impugnarla in via incidentale tardiva (ciò che attiene al profilo della legittimazione attiva); b) quale sia la parte contro cui l’impugnazione ai sensi dell’art. 334 c.p.c. possa essere proposta (e ciò investe il profilo della legittimazione passiva).
E’ stato già sottolineato che, per individuare chi abbia legittimazione a proporre gravame incidentale tardivo contro una sentenza (o decisione equiparabile quanto agli effetti) pronunciata su un’obbligazione solidale (ad interesse comune, che viene in rilievo nella causa oggetto di ricorso nel caso in esame), diventa imprescindibile partire dal presupposto – recepito dalla giurisprudenza pressoché consolidata di questa Corte (in precedenza illustrata), dalla quale non si ha motivo per discostarsi, peraltro seguita anche dalla dottrina predominante – che la pluralità di cause in tale ipotesi cumulate e poi decise con sentenza è riconducibile alla disciplina delle cause scindibili (prevista dall’art. 332 c.p.c.).
E’ risaputo che la scindibilità, in sede di gravame, del cumulo di condanne in solido proposto in primo grado è ritenuta un corollario dell’ambito applicativo dell’art. 1306, comma 1, c.c., in base al quale la sentenza emessa tra un coobbligato ed il creditore non ha effetto nei confronti dei coobbligati rimasti estranei alla controversia. E’ questa norma, pertanto, a legittimare la formazione di una pluralità di pronunce sull’esistenza e sull’atteggiarsi dell’obbligazione solidale, senza che possa assume rilevanza la circostanza che le domande formulate contro i singoli coobbligati abbiano determinato un cumulo litisconsortile (non necessario) in primo grado ovvero che abbia formato oggetto di separati giudizi. Del resto, il principio desumibile dal citato art. 1306, comma 1, c.c. non costituisce altro che il riflesso della legittimazione disgiunta a contraddire in capo a ciascun coobbligato e, prima ancora, del concetto stesso di solidarietà, per effetto della regola generale secondo cui il creditore può domandare a ciascuno dei coobbligati l’adempimento dell’intera obbligazione.
Orbene, sulla scorta di questo presupposto (ovvero del fatto che la sentenza che abbia condannato in solido i coobbligati sia sottoposta alla disciplina delle cause scindibili) e pur prendendosi atto che il disposto dell’art. 334, comma 1, c.p.c. attribuisce il potere di impugnare in via incidentale tardiva a colui che riceve l’impugnazione o a coloro che sono chiamati ad integrare il contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c., non può dirsi che la sola lettera del citato art. 334 c.p.c. sia di per sé impeditiva – con riguardo a tali tipi di obbligazioni caratterizzate da un vincolo di solidarietà “ad interesse comune” – della possibilità per il coobbligato non impugnante, a cui sia notificata l’impugnazione principale, di proporre gravame incidentale tardivo. Ciò perché con riferimento a questo tipo di situazioni giuridiche soggettivamente complesse che trovano fonte in un’obbligazione comune connotata da una eadem ratio, in capo al suddetto coobbligato non impugnante si configura un interesse qualificato che – per effetto dell’impugnazione altrui diretta contro il creditore – lo legittima a potersi servire di tale rimedio impugnatorio, ancorché in via tardiva: è per questo che – proprio per tali tipi di situazioni (non ricomprese nella previsione di un principio generale testuale, ma che lo diventano in un’ottica ermeneutica di carattere sistematico) – si afferma che, in effetti, il dettato del comma 1 dell’art. 334 c.p.c. minus dixit quam voluit.
Tale interesse – con riferimento, per l’appunto, ad un’obbligazione solidale “paritaria” – si identifica nel pregiudizio, non di mero fatto ma giuridicamente rilevante (pur se lo si voglia qualificare come riflesso o indiretto o – seconda parte della dottrina – condizionato), che il coobbligato acquiescente potrebbe subire se fosse riformata la sentenza di condanna impugnata in via principale dall’altro condebitore. In termini più concreti, il rischio che si vuole salvaguardare è quello che il coobbligato inerte – che abbia, nel frattempo, pagato il creditore – non riesca ad ottenere, in sede di regresso, la quota parte dovuta dal coobbligato, che, invece, abbia visto riformata in sede di impugnazione la sentenza di condanna. Ed è in quest’ottica che, quindi, trova giustificazione (nella valorizzazione del soddisfacimento di un interesse propriamente riconducibile nell’alveo applicativo dell’art. 100 c.p.c.) la legittimazione del coobbligato ad impugnare la sentenza in via incidentale tardiva: la proposizione di questo gravame, legato o anche solo condizionato all’esito di quello principale e ai motivi con esso formulati, garantirebbe in ogni caso un risultato decisorio uniforme circa l’esistenza e il modo di essere dell’obbligazione solidale, funzionale ad un corretto riparto dell’obbligazione in sede di regresso (non si tratterebbe propriamente di una contro-impugnazione, ma di un’impugnazione tardiva dal contenuto adesivo).
Ecco, dunque, che viene in risalto (in modo ancora una volta condivisibile) quanto è stato sostenuto nella sentenza delle Sezioni unite n. 24627 del 2007 nel passaggio logico- argomentativo centrale della motivazione, laddove si argomenta che – poiché l’unità del giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, la cui intima coerenza verrebbe meno se ogni parte di esso fosse suscettibile di esame separato, con conseguente (pericolo) di difformità dei giudicati scaturenti dal medesimo rapporto, seppur tra parti diverse – «l’impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile a tutela della reale utilità della parte tutte le volte che l’impugnazione principale metta in discussione l’assetto di interessi derivanti dalla sentenza alla quale il coobbligato solidale aveva prestato acquiescenza».
E’, dunque, la prospettiva dell’interesse (qualificato e concreto, e non insito solo nell’evitare un “pregiudizio di fatto” che può derivare dall’esito del giudizio conseguente al gravame principale) ad impugnare (dal cui esercizio discende l’acquisizione della qualità di parte che fa valere uno ius quo utimur) che legittima il coobbligato solidale (a cui venga notificata l’impugnazione principale) a proporre l’impugnazione incidentale tardiva ai sensi dell’art. 334, comma 1, c.p.c.
In tal modo si ottiene non solo una semplificazione del quadro che le Sezioni unite del 2007 hanno inteso tracciare nel contesto ispirato da un intento teleologico, ma anche una tutela maggiormente effettiva e garantistica nonché un’efficace economia processuale, evitando la moltiplicazione di processi a causa di sentenze che producano effetti soltanto tra alcune parti, a seguito di scissioni intervenute nello svolgersi delle impugnazioni, pur essendo il giudizio iniziato ab origine nei confronti di una pluralità di parti e pur risentendo queste, quantomeno in via riflessa o indiretta (ma pur sempre giuridicamente apprezzabile), dei pregiudizi che si originano dalla formazioni di giudicati interni o soggettivamente parziali. In tal modo si garantisce una tutela effettiva delle situazioni sostanziali e degli interessi in gioco, finalità che – con una previsione normativa, efficace ed esaustiva nella sua più ampia rappresentazione testuale e non, invece, improntata a genericità (come nel nuovo c.p.c., laddove non si pone uno specifico riferimento alle obbligazioni solidali) – perseguiva il codice di procedura civile del 1865. Il relativo art. 471, dopo avere stabilito, al comma 2, n. 1, che la riforma o l’annullamento della sentenza giovasse anche a “coloro i quali (quantunque non l’abbiano domandato) hanno un interesse essenzialmente dipendente dalla persona che l’ottenne”, al n. 3 dello stesso comma disponeva che della riforma o dell’annullamento della sentenza beneficiassero anche coloro che, pur non intervenuti nei gradi di impugnazione, fossero stati condannati in solido con la persona, che successivamente aveva ottenuto la riforma o l’annullamento (parte della dottrina ha acutamente sottolineato che – mediante questa complessiva previsione normativa – il sistema processuale previgente permetteva, per così dire, “una perfetta quadratura del cerchio”).
Detta finalità può rinvenirsi – pur se il testo del richiamato art. 471 c.p.c. 1865 non è, come detto, stato riprodotto nell’art. 334, comma 1, del nuovo codice di rito civile – attraverso un inquadramento ermeneutico-sistematico che di quest’ultimo ha operato la sentenza delle Sezioni unite n. 24627 del 2007.
Sussistono, perciò, sul piano della salvaguardia degli assetti generali di un istituto processuale di particolare rilievo, le condizioni per dare continuità all’orientamento espresso dalle Sezioni unite con la citata sentenza del 2007. Con la stessa si è inteso subordinare l’interesse ad impugnare alla messa in discussione, mediante la proposizione dell’appello principale, del “complessivo” risultato del giudizio di primo grado da parte del coobbligato solidale che si era astenuto dal proporre gravame, così consentendo, altresì, di pervenire ad un accertamento uniforme dell’esistenza e del modo di essere dell’obbligazione solidale nell’alveo di operatività dell’art. 332 c.p.c.
Come è stato opportunamente messo in evidenza (e già ricordato) da un’autorevole dottrina, ammettendo l’impugnazione incidentale tardiva si evita, more solito, la “corsa all’impugnazione precauzionale” da parte del coobbligato soccombente che sia soddisfatto dal complessivo risultato del giudizio di primo grado, ma che tema l’appello di altro coobbligato, così conseguendosi – come già evidenziato – una indubbia, coerente ed apprezzabile finalità di economia processuale.
Alla luce di tali considerazioni non si riscontrano, pertanto, idonee ragioni che inducano queste Sezioni unite ad un ripensamento, in risposta alla sollecitazione di cui al primo quesito, rispetto al principio statuito con la sentenza delle stesse Sezioni unite n. 24627/2007.
Peraltro, in proposito, si ravvisa l’opportunità di richiamare le valutazioni svolte – su un piano generale ed ispirato dall’esigenza di tenuta (per quanto possibile) del sistema giurisprudenziale del giudice della nomofilachìa che deve favorire la “stabilizzazione” dei principi giuridici che incidono soprattutto su questioni di rilevanza ed applicazione diffuse (come quelle in materia processuale) – da queste stesse Sezioni unite con l’ordinanza n. 23675 del 2014, ricordata anche dal P.G. nelle sue conclusioni. Con la citata decisione si è affermato che “la salvaguardia dell’unità e della stabilità” dell’interpretazione giurisprudenziale (soprattutto di quella del giudice di legittimità e, in essa, di quella delle Sezioni unite) è ormai da considerare alla stregua di un criterio legale di interpretazione delle norme giuridiche. Non l’unico certo e neppure quello su ogni altro prevalente, ma di sicuro un criterio di assoluto rilievo.
Occorre dunque, per derogarvi, che vi siano fondate, rilevanti ed univoche ragioni (che, in relazione alla questione qui esaminata, non si rinvengono).
In particolare, quando si tratta di interpretazione delle norme processuali, è necessaria la ricorrenza di ragioni ancora più apprezzabili e di più ampia vastità, come insegna il “travaglio” che ha caratterizzato negli ultimi anni l’evoluzione giurisprudenziale di queste Sezioni unite civili con riguardo all’overruling in materia di interpretazione di norme processuali, posto che, soprattutto in tale ambito, la “conoscenza” delle regole (quindi, a monte, l’affidabilità, prevedibilità ed uniformità della relativa interpretazione) costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di “giustizia” del processo medesimo (in senso conforme v., più recentemente, Cass., SU, n. 29862/2022 e Cass., Sez. L, n. 33012/2022).
E’ necessario “garantire al sistema giuridico-normativo la possibilità di evolversi, adattarsi, correggersi e al tempo stesso conservare, entro ragionevoli limiti, l’uniformità e la prevedibilità dell’interpretazione, soprattutto con riguardo a quella avente ad oggetto norme strumentali (come quelle processuali o comunque procedimentali)”.
9. Il contrasto sulla prima questione – alla luce del complesso delle argomentazioni svolte – va, quindi, risolto affermando il seguente principio di diritto ai sensi dell’art. 363, comma 3, p.c.:
l’impugnazione incidentale tardiva è ammissibile anche quando rivesta le forme dell’impugnazione adesiva rivolta contro la parte destinataria dell’impugnazione principale, in ragione del fatto che l’interesse alla sua proposizione può sorgere dall’impugnazione principale.
10. In ordine alle altre due questioni sottoposte a queste Sezioni unite, non costituendo oggetto di contrasto all’interno della giurisprudenza della Corte, si ritiene di potere limitare l’analisi in questa sede a brevi considerazioni e a sintetici richiami della giurisprudenza consolidata sulla cui base possono trovare agevole soluzione.
10.1 La risposta alla seconda questione non può che essere consequenziale a quella data alla prima.
Con essa – come detto in premessa – l’ordinanza di rimessione chiede «se il principio fissato da Cass., Sez. U., 24627/2007, ove confermato, possa essere applicato anche con riferimento all’interesse insorto a seguito di un’impugnazione incidentale tardiva (introdotta, peraltro, con autonomo atto di citazione)».
Ritenendosi ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva proposta dal secondo coobbligato in solido, in conseguenza dell’impugnazione principale proposta dal primo coobbligato, non ci sono ragioni per escludere l’ammissibilità dell’impugnazione incidentale del terzo coobbligato, perché egli versa, nei confronti del secondo, nella stessa situazione in cui quest’ultimo si trova nei confronti del primo, quale che sia la ragione per cui si ritenga ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva del secondo.
Si intende dire che ove, ad esempio, la ragione dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva del secondo coobbligato venisse ravvisata (come avevano fatto le Sezioni Unite nel 2007) nella perdita del diritto di regresso del secondo coobbligato nei confronti del primo in caso di accoglimento dell’impugnazione principale proposta dal primo, il terzo coobbligato, a fronte dell’impugnazione incidentale tardiva del secondo, si troverebbe esposto non solo al rischio, conseguente alla proposizione dell’impugnazione principale, della perdita del diritto di regresso nei confronti del primo, ma, a seguito dell’impugnazione incidentale tardiva proposta dal secondo coobbligato, all’ulteriore rischio della perdita del diritto di regresso anche nei confronti del secondo.
Il prospettato quesito sulla seconda questione va, perciò, risolto affermando il seguente principio di diritto ai sensi del citato art. 363, comma 3, c.p.c.:
Il principio secondo cui l’impugnazione incidentale tardiva è ammissibile pure quando rivesta le forme dell’impugnazione adesiva rivolta contro la parte destinataria dell’impugnazione principale è applicabile anche con riferimento all’interesse insorto a seguito di un’impugnazione incidentale tardiva.
D’altra parte, la stessa lettera dell’art. 343 c.p.c. prevede la possibilità di un appello incidentale il cui interesse sorga dall’impugnazione proposta da altra parte che non sia l’appellante principale, disponendo che esso, anziché con comparsa depositata venti giorni prima dell’udienza, debba e possa proporsi nella prima udienza successiva alla proposizione dell’impugnazione stessa.
Inoltre, il medesimo art. 343 c.p.c. disciplina le forme e i termini per la proposizione dell’appello incidentale tanto tempestivo quanto tardivo.
10.2. Infine, rilevando che l’impugnazione proposta in risposta all’appello principale del Pozzobon (per quanto adesiva rispetto a questa, in base alla sintesi dei relativi contenuti risultanti dalla sentenza di appello) è stata ritenuta inammissibile, perché tardiva, attraverso una statuizione che non è stata impugnata, l’ordinanza interlocutoria rileva che si debba verificare se l’impugnazione incidentale fosse inammissibile in ragione della consumazione del diritto di impugnazione avvenuta con l’appello incidentale tardivo presentato a seguito dell’appello principale.
Ciò tenendo presente, nel particolare ambito per cui è causa, il principio fissato dalla richiamata Cass., Sez. 6-1, n. 12584 del 22/05/2018.
Sul punto si ricorda che, nel caso all’esame di queste Sezioni unite, secondo quanto indicato nell’ordinanza di rimessione, mentre il Perboni ha proposto impugnazione incidentale tardiva all’atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell’art. 166 c.p.c., il Carnevale Maffé ha a sua volta proposto impugnazione incidentale, adesiva a quella dell’appellante principale Pozzobon, con comparsa depositata alla prima udienza, e impugnazione incidentale, adesiva a quella dell’appellante incidentale Perboni, con atto di citazione notificato nella stessa data dell’udienza.
La Corte d’appello ha, contestualmente, dichiarato la tardività dell’impugnazione proposta con la comparsa depositata direttamente all’udienza, quindi senza il rispetto dei termini di cui all’art. 343, comma 1, c.p.c., e l’ammissibilità dell’impugnazione proposta dalla stessa parte e notificata alla società “Leonessa Investimenti s.r.l.” il giorno stesso di tale udienza, potendo valere quale impugnazione incidentale tardiva, ex art. 343, comma 2, c.p.c., sul rilievo – come in precedenza rammentato – che l’impugnazione incidentale del coobbligato Stefano Perboni «ha determinato l’insorgere in capo a Carlo Aberto Carnevale Maffè di nuovo ed autonomo interesse ad impugnare la sentenza nei confronti di Leonessa s.r.l., conseguendo ad essa la possibilità – in caso di accoglimento (anche) del gravame proposto da detto coobbligato – di vedere definitivamente perso il vincolo della solidarietà e di trovarsi perciò esposto, da solo e per l’intero, alla pesante condanna emessa dal tribunale (arg. ex Cass. S.U. 24627/2007)».
Il primo dato da tenere in considerazione è, quindi, la legittimità della contestuale dichiarazione di inammissibilità e di quella di ammissibilità delle due impugnazioni pure congiuntamente proposte dal Carnevale Maffè, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte, secondo cui «il divieto di riproposizione di un secondo appello quando il primo sia inammissibile o improcedibile è correlata – a norma dell’art. 358 c.p.c. – non al momento in cui è stato proposto il primo appello inammissibile o improcedibile, bensì alla dichiarazione di tali inammissibilità o improcedibilità da parte del giudice dell’appello, con la conseguenza che la riproposizione non è impedita dalla pregressa verificazione di una fattispecie di inammissibilità o di improcedibilità del precedente appello che non sia stata ancora dichiarata dal giudice» (v., per tutte, Cass. Sezione 5, n. 4658 del 21/02/2020).
Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il principio della consumazione dell’impugnazione, che preclude la riproposizione di un secondo atto di appello, opera soltanto ove sia intervenuta una declaratoria d’inammissibilità o improcedibilità del primo, con la conseguenza che, nel caso in cui il primo atto di appello sia viziato, e fino a quando la declaratoria di inammissibilità non venga adottata, può essere notificato un secondo atto di appello, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo (cfr. Cass., Sezione Sesta- 5, n. 4754 del 28/02/2018 e Cass., Sezione Sesta-3, n. 14214 del 4/06/2018).
Peraltro, la fattispecie che viene in rilievo nella causa di cui trattasi non è in concreto riconducibile al divieto di riproposizione di un secondo appello quando il primo sia inammissibile o improcedibile, perché al momento della proposizione dell’appello del Carnevale Maffé, adesiva a quella incidentale del Perboni, con citazione notificata il 26 gennaio 2012, la sua impugnazione incidentale adesiva a quella dell’appellante principale Pozzobon non era stata ancora dichiarata inammissibile.
La terza questione posta con l’ordinanza di rimessione va, quindi, risolta con l’affermazione (sempre ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c.) del seguente principio di diritto nell’interesse della legge:
il principio di consumazione dell’impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di impugnazione, immune dai vizi del precedente, destinato a sostituirlo e relativo anche a capi della sentenza diversi da quelli oggetto del precedente atto di impugnazione.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, dichiara l’estinzione del giudizio di cassazione ed enuncia, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., i principi nell’interesse della legge, così come riportati in parte motiva.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 17 luglio 2023, n. 20588, per SS.UU, 28 marzo 2024, n. 8486, in tema di impugnazioni
SS.UU, 28 marzo 2024, n. 8486, in tema di impugnazioni
In tema di interessi legali – SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
OPPOSIZIONE
ESECUZIONE
R.G.N. 16260/2023
Cron.
Rep.
Ud. 26/03/2024
PU
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
e
Fatti di causa
- Cordusio Società Fiduciaria per Azioni propose innanzi al Tribunale di Milano opposizione al precetto, notificato sulla base di sentenza emessa dal medesimo Tribunale, per il pagamento della somma di 116.819,15, oltre agli interessi maturandi sulla sorte capitale, denunciando l’erroneo calcolo degli interessi di mora dal momento in cui era stata proposta la domanda giudiziale, nonostante il titolo esecutivo giudiziale non recasse la condanna al pagamento degli stessi con la decorrenza indicata (né vi era stata domanda in tal senso) ed il credito riconosciuto dal titolo giudiziale escludesse l’applicazione dell’art. 1284, comma 4, cod. , trattandosi di credito risarcitorio ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. Aggiunse che il giudice dell’esecuzione non poteva integrare il titolo esecutivo giudiziale della previsione mancante circa gli interessi.
- Con ordinanza di data 25 luglio 2023, il Tribunale adito ha disposto rinvio pregiudiziale degli atti ai sensi dell’art. 363 bis proc. civ. per la risoluzione della seguente questione di diritto: «se in tema di esecuzione forzata – anche solo minacciata – fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore, limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di “interessi legali” o “di legge” ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si debbano ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284 primo comma c.c. o – a partire dalla data di proposizione della domanda – possano ritenersi liquidati quelli di cui al quarto comma del predetto articolo».
- Con decreto di data 18 settembre 2023, la Prima Presidente ha assegnato la questione alle Sezioni Unite per l’enunciazione del principio di diritto.
Il Pubblico Ministero ha depositato la requisitoria scritta, concludendo nei termini che gli interessi di cui all’art. 1284, comma 4, cod. civ. devono ritenersi computati dalla data di proposizione della domanda giudiziale fino al soddisfo. E’ stata depositata memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
- La questione di diritto, assegnata a queste Sezioni unite a seguito di rinvio pregiudiziale disposto dal giudice del merito ai sensi dell’art. 363 bis proc. civ., è se la mera previsione degli «interessi legali» nella pronuncia di condanna da parte del giudice della cognizione, possa essere interpretata, per la parte di interessi decorrenti dopo il momento della proposizione della domanda giudiziale, nei termini del saggio di interessi previsto dal comma quarto dell’art. 1284 cod. civ., oppure se, per l’assenza di specificazioni nella decisione, il saggio degli interessi debba restare limitato a quello previsto dal primo comma della medesima disposizione.
Preliminare è il tema dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale, tema trattato anche dal Pubblico Ministero, alla luce del fatto che trattasi di questione già affrontata dalla giurisprudenza di questa Corte. L’assegnazione della questione da parte della Prima Presidente per l’enunciazione del principio di diritto non preclude la valutazione di ammissibilità del rinvio pregiudiziale da parte del Collegio investito della decisione, secondo quanto emerge dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite (cfr. Cass. Sez. U. 13 dicembre 2023, n. 34851).
Secondo un indirizzo emerso in questa Corte, in presenza di esecuzione forzata fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi che ha comminato, limitandosi alla generica qualificazione degli stessi in termini di «interessi legali» o «di legge», si devono ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284, comma 1, in ragione della portata generale di questa disposizione, rispetto alla quale le altre ipotesi di interessi previste dalla legge hanno natura speciale, atteso che l’applicazione di una qualsiasi delle varie ipotesi di interessi legali, diversi da quelli previsti dalla disposizione citata, presuppone l’avvenuto accertamento degli elementi costitutivi della relativa fattispecie speciale, ed ove dal titolo non emerga un siffatto accertamento non è consentita l’integrazione in sede esecutiva, ma è esperibile soltanto il rimedio dell’impugnazione (Cass. 27 settembre 2017, n. 22457). Trattasi di opzione ermeneutica che risulta condivisa da una serie di pronunce delle sezioni semplici di questa Corte (Cass. 23 aprile 2020, n. 8128; 25 luglio 2022, n. 23125; 14 luglio 2023, n. 20273; 4 agosto 2023, n. 23846). La particolarità dell’indirizzo in esame è che esso è sorto in relazione al rapporto fra il primo comma dell’art. 1284 e la legge speciale (d. lgs. n. 231 del 2002), ma non con riferimento alla relazione fra il primo ed il quarto comma dell’art. 1284, salvo la pronuncia più recente (Cass. n. 23846 del 2023), la quale si è limitata puramente e semplicemente ad affermare che il tasso che trova applicazione è quello del primo comma.
Vi è tuttavia un altro indirizzo, soggiacente una serie di pronunce della Corte (essenzialmente della Sezione lavoro), non emerso al livello di principio di diritto, secondo cui la formula dei commi 4 e 5 dell’art. 1284 è chiara nel predeterminare la misura degli interessi legali, nel caso in cui il credito venga riconosciuto da una sentenza a seguito di un giudizio anche arbitrale, senza necessità di apposita precisazione del loro saggio in sentenza (Cass. 20 gennaio 2021, n. 943; 23 settembre 2020, n. 19906; 12 novembre 2019, n. 9212; 25 marzo 2019, n. 8289; 7 novembre 2018, n. 28409). In relazione ad impugnazioni che denunciavano l’omesso riconoscimento, da parte del giudice del merito, degli interessi legali di cui al quarto comma, si è risposto che il provvedimento doveva ritenersi integrato da quest’ultima previsione.
La formazione del primo indirizzo in un contesto normativo nel quale non veniva in rilievo il comma quarto dell’art. 1284, ma soltanto la legge speciale, da una parte, ed il contrasto latente fra i due orientamenti, dall’altra, inducono a far concludere nel senso dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale. L’art. 363 bis, comma 1, prevede quale condizione di ammissibilità del rinvio, fra l’altro, che la questione non sia stata ancora «risolta» dalla Corte di Cassazione. E’ significativa la differenza di formulazione fra la disposizione del codice processuale e la previsione della legge delega, che parlava di questione di diritto non «ancora affrontata dalla Corte di Cassazione». Ai fini dell’ammissibilità del rinvio è perciò ora necessario che la questione, pur affrontata dalla Corte, non sia stata dalla stessa ancora risolta.
La mancata risoluzione emerge, nel presente caso, sulla base del concorso dei due profili sopra evidenziati: la formazione di un indirizzo di legittimità sulla base di un contesto normativo non direttamente ed immediatamente riconducibile alla norma oggetto di interpretazione in sede di rinvio pregiudiziale – ossia la legge speciale, la cui applicabilità, si noti, non è condizionata dalla domanda giudiziale, come per il quarto comma dell’art. 1284, ma da un presupposto sostanziale – e la presenza di una latente divergenza di valutazioni fra sezioni della Corte. Dal punto di vista della funzione dell’istituto del rinvio pregiudiziale, che deve consentire al giudice di merito di concludere nel senso di una questione già risolta dalla Corte di Cassazione, il concorso dei due profili evidenziati esclude che ad una tale conclusione possa pervenirsi. Ricorre pertanto la condizione di ammissibilità di cui al n. 1 dell’art. 363 bis, unitamente alle ulteriori condizioni già valutate dal provvedimento presidenziale.
- Alla trattazione della questione di diritto deve essere premesso il richiamo dell’intera disposizione di cui all’art. 1284 (“Saggio degli interessi”):
«1. Il saggio degli interessi legali è determinato in misura pari al 5 per cento in ragione d’anno. Il Ministro del tesoro, con proprio decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana non oltre il 15 dicembre dell’anno precedente a quello cui il saggio si riferisce, può modificarne annualmente la misura, sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell’anno. Qualora entro il 15 dicembre non sia fissata una nuova misura del saggio, questo rimane invariato per l’anno successivo.
2. Allo stesso saggio si computano gli interessi convenzionali, se le parti non ne hanno determinato la
3. Gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto; altrimenti sono dovuti nella misura
4. Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni
5. La disposizione del quarto comma si applica anche all’atto con cui si promuove il procedimento arbitrale».
L’evidenza della questione di diritto risiede nel fatto che il giudice dell’esecuzione, al cospetto del titolo esecutivo giudiziale, non ha poteri di cognizione, ma deve limitarsi a dare attuazione al comando contenuto nel titolo esecutivo medesimo, mediante un’attività che ha, sul punto, natura rigorosamente esecutiva. Si tratta pertanto di attività di interpretazione (latu sensu, perché svolta in sede esecutiva), e non di integrazione, in quanto volta ad estrarre il contenuto precettivo già incluso nel titolo esecutivo ed in funzione non di risoluzione di controversia, e cioè cognitiva in senso stretto, ma di esecuzione del comando disposto dal titolo. Se dunque il richiamo agli “interessi legali” nel titolo esecutivo giudiziale possa avere – dopo la proposizione della domanda – la valenza del saggio previsto per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, è questione che attiene a ciò che deve intendersi già incluso nel titolo esecutivo, senza che il suo riconoscimento da parte del giudice dell’esecuzione possa avere una valenza integrativa derivante da cognizione. Si tratta di un potere, in definitiva, che non è di accertamento (cognizione) in senso proprio, ma di precisazione dell’oggetto del titolo esecutivo, allo scopo di dare attuazione al relativo comando. Come ricorda Cass. Sez. U. 6 aprile 2023, n. 9479, la distinzione fra il piano della cognizione e quello dell’esecuzione comporta che i poteri cognitivi riconosciuti dal codice di rito al giudice dell’esecuzione sono, comunque, funzionali all’espletamento dell’esecuzione stessa. La questione posta attiene, così, rigorosamente al profilo di identificazione del contenuto del titolo esecutivo giudiziale in funzione della sua esecuzione.
- La premessa da cui partire, per la risoluzione della questione di diritto, è che il quarto comma dell’art. 1284 non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi (cui la legge collega la relativa misura), ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono per una parte certamente rinvenibili in quelli cui la legge in generale collega l’effetto della spettanza degli interessi legali, ma per l’altra è integrata da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale. Entro tali limiti, viene a stabilirsi una soluzione di continuità fra la fattispecie costitutiva dell’effetto della spettanza degli interessi legali in generale e quella degli interessi legali contemplati dal quarto comma dell’art. 1284.
La relativa autonomia della fattispecie produttiva dei c.d. super-interessi (relativa perché contenente ulteriori elementi di specificazione), rispetto a quella produttiva degli ordinari effetti legali, fa sì che uno dei diversi profili oggetto di accertamento giurisdizionale, a seguito della introduzione della controversia con la deduzione in giudizio di un determinato rapporto giuridico, sia anche quello della ricorrenza dei presupposti applicativi dell’art. 1284, comma 4. Con la domanda giudiziale insorge una controversia ed è parte di questa controversia anche la spettanza, dopo la domanda giudiziale, del saggio degli interessi legali previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La controversia, sul punto, per il generale obbligo del giudice di provvedere sulla domanda, deve essere risolta con uno specifico accertamento giurisdizionale.
La necessità della risoluzione di questa specifica controversia, nell’ambito del complessivo rapporto dedotto in giudizio, è la conseguenza, come si è appena detto, della relativa autonomia della fattispecie costitutiva della spettanza dei c.d. super-interessi rispetto a quella produttiva degli ordinari interessi legali, il cui saggio è previsto dal primo comma dell’art. 1284. L’attenzione va così rivolta alla varietà dei presupposti applicativi degli interessi maggiorati che deve essere oggetto dell’attività di accertamento del giudice della cognizione, il quale emetterà il titolo esecutivo. Fra i presupposti applicativi che possono emergere, se ne possono qui enumerare i seguenti.
In primo luogo, la natura della fonte dell’obbligazione, la quale, in base all’art. 1173 cod. civ., può essere la più varia. Vengono in rilievo la generale distinzione fra obbligazioni contrattuali ed obbligazioni derivanti da responsabilità extracontrattuale e l’area dei crediti di lavoro (con la specifica disciplina di cui all’art. 429, comma 3, cod. civ.), ma anche, a titolo soltanto esemplificativo, una congerie di crediti, quali quelli in materia di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo di cui alla legge n. 89 del 2001, i crediti per gli alimenti (dovuti, in base all’art. 445 cod. civ., proprio dal giorno della domanda giudiziale) ed in generale i crediti derivanti da obblighi familiari, nonché, in questo quadro, i crediti non preesistenti al processo, tutti crediti, questi ultimi, per i quali può indubbiamente essere controversa la spettanza degli interessi in questione. Che l’obbligazione dedotta in giudizio, e destinata ad entrare nel titolo esecutivo giudiziale, sia suscettibile di produrre i super-interessi, in relazione a ciascuna delle tipologie di obbligazioni sommariamente indicate, deve essere oggetto di specifico accertamento da parte del giudice della cognizione, il che implica anche la compiuta qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio.
Vi è poi da accertare se vi sia una (valida ed efficace) determinazione contrattuale della misura degli interessi, prevista dall’art. 1284, comma 4, quale circostanza la cui esistenza impedisce la produzione degli interessi nella misura prevista dalla legge speciale richiamata. Ulteriore profilo meritevole di accertamento potrebbe essere quello dell’identificazione della domanda giudiziale, quale momento rilevante per la decorrenza degli interessi legali in discorso. Se non vi sono dubbi circa la rilevanza della data di notifica dell’atto di citazione o del deposito del ricorso introduttivo, può essere controverso se l’epoca della domanda giudiziale debba risalire ad una domanda cautelare, quale l’istanza di sequestro conservativo di cui all’art. 671 cod. proc. civ. o di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art. 696 bis cod. proc. civ.), ma si pensi anche alla domanda di accertamento tecnico preventivo obbligatorio di cui all’art. 445 bis cod. proc. civ.. Potrebbe, ancora, essere oggetto di controversia, ad esempio, se i super-interessi spettino durante lo svolgimento del procedimento di mediazione, ai sensi del d. lgs. n. 28 del 2010, introdotto dopo la domanda giudiziale per il mancato previo esperimento da parte del creditore.
Si tratta, in definitiva, di svolgere l’accertamento, propriamente giurisdizionale, di corrispondenza della fattispecie concreta a quella astratta di spettanza degli interessi maggiorati. Il giudizio sussuntivo, risolutivo sul punto della controversia, ricade nell’attività di cognizione, che fonda il titolo esecutivo giudiziale e che deve essere necessariamente svolta ai fini del provvedimento da emettere sulla domanda.
L’esigenza di cognizione dei presupposti applicativi della misura degli interessi previsti dal quarto comma dell’art. 1284 comporta che il titolo esecutivo giudiziale contenga l’accertamento di spettanza degli interessi legali nella misura indicata. Dal punto di vista del giudice dell’esecuzione, la mera previsione, nel dispositivo e/o nella motivazione del titolo esecutivo, degli “interessi legali” è inidonea ad integrare il detto accertamento, in ragione della evidenziata autonomia relativa della fattispecie produttiva degli interessi maggiorati rispetto alla ordinaria produzione degli interessi legali. Si tratta, come si è ormai più volte detto, di una fattispecie (relativamente) autonoma, che cade nella controversia da risolvere e rispetto alla quale l’accertamento, suscettibile di diventare cosa giudicata, deve essere specificatamente svolto.
Se il titolo esecutivo è silente, il creditore non può conseguire in sede di esecuzione forzata il pagamento degli interessi maggiorati, stante il divieto per il giudice dell’esecuzione di integrare il titolo, ma deve affidarsi al rimedio impugnatorio. Il titolo esecutivo giudiziale, nel dispositivo e/o nella motivazione, alla luce del principio di necessaria integrazione di dispositivo e motivazione ai fini dell’interpretazione della portata del titolo, deve così contenere la previsione della spettanza degli interessi maggiorati.
- Va in conclusione enunciato il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
- Va disposta la restituzione degli atti al Tribunale di Milano, anche per la regolamentazione delle spese per l’attività difensiva svolta nella presente sede.
P. Q. M.
La Corte, a Sezioni Unite, pronunciando sul rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363 bis cod. proc. civ, disposto dal Tribunale di Milano con ordinanza di data 25 luglio 2023, enuncia il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
Spese al merito.
Dispone la restituzione degli atti al Tribunale di Milano.
Così deciso in Roma il giorno 26 marzo 2024
Il consigliere estensore
Dott. Enrico Scoditti
Il Presidente
Dott. Pasquale D’Ascola
Allegati:
Decreto, 18 settembre 2023, per SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449, in tema di interessi legali
SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449, in tema di interessi legali
In tema di fallimento – SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337
Civile Sent. Sez. U Num. 7337 Anno 2024
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO
Data pubblicazione: 19/03/2024
FALLIMENTO
preliminare di
vendita
immobiliare –
prima casa –
subentro del
curatore –
cancellazione
di gravami –
art. 108 l.f. –
R.G.N. 7704/2021
Cron. Rep.
Ud. 12/12/2023
PU
SENTENZA
sul ricorso 7704-2021 proposto da:
LEVITICUS SPV S.R.L., CF LIBERTY SERVICING S.P.A., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI 7, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO SILVETTI, rappresentate e difese dagli avvocati EDOARDO STAUNOVO POLACCO e GIORGIO TARZIA;
– ricorrenti –
contro
FALLIMENTO GLI ARTIGIANI SOC. COOP. EDILIZIA S.C. A R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 19, presso lo studio dell’avvocato LUCA IACOPINI, rappresentata e difesa dall’avvocato BARBARA ROVATI;
DE ANGELIS LUCA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell’avvocato PAOLA PETRILLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA FOLCO;
– controricorrenti –
avverso il decreto del TRIBUNALE di MONZA emesso il 13/01/2021 (r.g. 136-2018).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/12/2023 dal Consigliere FRANCESCO TERRUSI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Edoardo Staunovo Polacco, Giorgio Tarzia, Paola Petrilli e Barbara Rovati.
Fatti di causa
La Leviticus SPV s.r.l. propose reclamo contro il decreto col quale il giudice delegato al fallimento de Gli Artigiani soc. coop. edilizia in liquidazione, dopo aver autorizzato il curatore a subentrare in un contratto preliminare di assegnazione in proprietà della porzione di un immobile a un socio, Luca De Angelis, aveva disposto la cancellazione dei gravami insistenti sul bene. Tra i detti gravami era compresa un’ipoteca iscritta in data 30-10-2006 a favore della Banca popolare di Milano, la quale prima del fallimento aveva promosso l’azione esecutiva a mezzo di pignoramento trascritto il 17-7-2018. La Leviticus si era resa cessionaria del credito garantito.
Nel proporre il reclamo la cessionaria evidenziò che il contratto preliminare era stato trascritto in data anteriore al fallimento e che il prezzo dovuto dal promissario acquirente era stato già interamente versato alla società cooperativa, sempre in epoca anteriore alla sentenza dichiarativa. Sostenne che alla fattispecie non fosse applicabile l’art. 108, secondo comma, legge fall., essendosi trattato di un mero subentro ex lege del curatore nel contratto preliminare (trascritto) di un immobile destinato a costituire abitazione principale dell’acquirente, e quindi non di una vendita forzata bensì di un atto consequenziale al preliminare, di natura totalmente privatistica.
L’adito tribunale di Monza ha respinto il reclamo, e per motivare la decisione ha osservato che secondo l’orientamento evinto da una sentenza di questa Corte (Cass. Sez. 1 n. 3310-17) la vendita ex art. 72, ultimo comma, legge fall., sebbene attuata con forme privatistiche, rimane una vendita fallimentare. E questo perché la vendita avviene comunque coattivamente, ossia a prescindere dalla volontà del titolare del diritto sul bene (l’impresa fallita), e all’interno di un procedimento di liquidazione concorsuale mediante un atto del curatore, soggetto rappresentante la massa dei creditori e lo stesso fallito.
Richiamando un conforme indirizzo di merito, il tribunale di Monza ha evidenziato che l’unica differenza rispetto agli altri atti di liquidazione fallimentare risiede, in tal caso, nel fatto che la scelta su come liquidare il bene è compiuta direttamente dal legislatore. Il quale ha inteso accordare al promissario acquirente della casa di abitazione una tutela privilegiata, facendo prevalere il suo diritto alla stipula del contratto definitivo sul diritto alla migliore soddisfazione economica delle ragioni del creditore ipotecario. Sicché invece l’accoglimento della diversa tesi della società reclamante avrebbe determinato un’abrogazione di fatto della tutela riconosciuta dall’art. 72 legge fall.
Il tribunale ha infine ritenuto non ostativo il diverso principio espresso da altra più recente decisione di questa Corte (Cass. Sez. 1 n. 23139-20), in quanto relativo alla fattispecie del concordato, e ha richiamato a ulteriore supporto della propria tesi la disciplina introdotta dall’art. 173, quarto comma, del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (breviter CCII), per la quale spetta al giudice delegato la potestà di cancellare, per l’appunto, le ipoteche gravanti sull’immobile venduto al promissario acquirente dal curatore subentrato nel contratto preliminare salva l’inopponibilità della metà degli acconti già versati.
La Leviticus SPV, tramite la mandataria CF Liberty Servicing s.p.a., ha proposto ricorso per cassazione contro il decreto del tribunale di Monza, deducendo un solo motivo.
Il Fallimento e il De Angelis hanno resistito con distinti controricorsi.
Le parti hanno depositato memorie.
La causa è stata chiamata in adunanza camerale dinanzi alla Prima sezione civile.
La Prima sezione, con ordinanza interlocutoria n. 16166 del 2023, dopo aver ritenuto il ricorso ammissibile perché proposto contro un provvedimento di natura decisoria in tema di cancellazione delle ipoteche, ai sensi dell’art. 108, secondo comma, legge fall. (v. già Cass. Sez. 1 n. 30454-19, Cass. Sez. 1 n. 3310-17), ha disposto la rimessione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Ha rilevato che si è dinanzi a una questione di massima di particolare importanza, molto dibattuta e oggetto di contrasto, integrata dall’interrogativo se l’art. 108, secondo comma, legge fall. sia o meno applicabile anche alla vendita attuata non all’esito di una procedura competitiva pubblicizzata e svoltasi sulla base di valori di stima, ma in forma contrattuale, in adempimento di un contratto preliminare in cui il curatore sia subentrato ex lege in applicazione del disposto dell’art. 72, ottavo comma, stessa legge.
La Prima Presidente ha disposto in conformità.
Ragioni della decisione
I. – Con l’unico motivo la ricorrente, denunziando la violazione o falsa applicazione degli 72 e 108 legge fall., anche in relazione agli artt. 2645-bis, 2808, 2878 e 2882 cod. civ., assume errata la decisione del tribunale sotto entrambi i profili: (a) della qualificazione come vendita concorsuale del contratto definitivo concluso dal curatore in esecuzione del preliminare trascritto ex art. 72, ultimo comma, legge fall., ai fini dell’art. 108 stessa legge; (b) della presunta esistenza di una ragione di prevalenza del fine di tutela dei diritti del promissario acquirente rispetto ai diritti del creditore ipotecario, da tutelare mediante l’esercizio del potere di purgazione.
Dal primo punto di vista la ricorrente sottolinea che l’art. 108 legge fall. si inserisce nell’alveo della liquidazione dell’attivo, mentre la trascrizione del preliminare, per i conseguenti effetti prenotativi, esclude che in esito al definitivo il bene che ne forma oggetto entri a far parte della massa attiva concorsuale.
Dal secondo punto di vista segnala che la tutela del promissario acquirente rispetto ai diritti del creditore ipotecario rimane, nell’ordinamento, affidata alla pubblicità immobiliare e alla possibilità di conoscere le iscrizioni pregiudizievoli gravanti sul bene che egli intenda acquistare, mentre l’interpretazione condivisa dal tribunale di Monza avrebbe come conseguenza la soppressione sostanziale del diritto di sequela riconosciuto dall’art. 2808 cod. civ. al creditore ipotecario, cosa inammissibile in difetto di un’espressa previsione normativa. Invero il creditore si troverebbe a concorrere solo sulla frazione di prezzo dell’immobile eventualmente suscettibile di esser pagato dal promissario acquirente al curatore (cosa che peraltro nella specie è esclusa dall’avere il promissario integralmente pagato il prezzo prima del fallimento), e subirebbe la cancellazione fuori dalla disciplina dell’estinzione delle ipoteche prevista dagli artt. 2878 e 2882 cod. civ., non essendo l’esecuzione del contratto pendente equiparabile a un esproprio.
Secondo la ricorrente, non sarebbe possibile trarre conferma della bontà del ragionamento del tribunale dalla disciplina offerta al riguardo dal CCII (art. 173, quarto comma), poiché codesta ha introdotto una regola completamente innovativa di bilanciamento tra la tutela del promissario acquirente e quella del creditore ipotecario, a condizioni del tutto diverse e come tali inestensibili alla legge fallimentare.
II. – La questione controversa attiene al fatto se possa o meno considerarsi come vendita concorsuale, ai fini dell’art. 108 legge fall. e delle conseguenze da esso stabilite, la modalità dell’alienazione che si realizza in esito al subentro ex lege del curatore fallimentare nel contratto preliminare di vendita di un immobile da adibire ad abitazione principale del promissario, trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis civ.; o, il che è lo stesso, del contratto preliminare di assegnazione del bene al socio di una cooperativa edilizia.
III. – L’art. 108, secondo comma, legge fall., quanto ai beni immobili (e agli altri beni iscritti in pubblici registri), prevede – all’esito del lgs. n. 5 del 2006 e poi del d.lgs. n. 169 del 2007 – che “una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, il giudice delegato ordina, con decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo”.
Nella visione del tribunale di Monza questa norma – sebbene inserita tra quelle relative (all’esercizio provvisorio e) alla liquidazione dell’attivo – andrebbe coniugata con la disciplina degli effetti del fallimento sui rapporti pendenti.
Per i rapporti pendenti l’art. 72 legge fall. stabilisce, al primo comma, la regola generale secondo cui “se un contratto è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento, l’esecuzione del contratto, fatte salve le diverse disposizioni della presente Sezione, rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto”. Come poi precisato dal terzo comma, la previsione si applica anche al contratto preliminare di vendita immobiliare, fatto salvo quanto previsto nell’art. 72-bis per i contratti relativi a immobili da costruire.
Per la vendita immobiliare soccorre inoltre – in generale – il settimo comma dell’art. 72, il quale prevede che, ove a fronte di un preliminare trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ. vi sia stato lo scioglimento da parte del curatore, “l’acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno e gode del privilegio di cui all’articolo 2775-bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento.”.
È bene rammentare a tal riguardo che questa Corte ha chiarito che l’afferente privilegio speciale sul bene immobile, che assiste ai sensi dell’art. 2775-bis cod. civ. i crediti del promissario acquirente conseguenti alla mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ., essendo subordinato a una particolare forma di pubblicità costitutiva (come previsto dall’ultima parte dell’art. 2745 cod. civ.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza del privilegio sull’ipoteca, sancita, se non diversamente disposto, dal secondo comma dell’art. 2748 cod. civ., e soggiace agli ordinari principi in tema di pubblicità degli atti. Sicché, nel caso in cui il curatore del fallimento della società costruttrice dell’immobile scelga lo scioglimento del contratto preliminare (ai sensi dell’art. 72 della legge fall.), il conseguente credito del promissario acquirente per la restituzione di caparre o acconti, benché assistito da privilegio speciale, è collocato in grado inferiore rispetto a quello dell’istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull’immobile stesso ipoteca a garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice (v. Cass. Sez. U n. 21045-09 e poi anche Cass. Sez. 1 n. 4195-12, Cass. Sez. 1 n. 17270-14, Cass. Sez. 1 n. 17141-16).
In sostanza è principio fondamentale che in ipotesi di scioglimento dal contratto resta prevalente il diritto derivante dall’iscrizione ipotecaria.
IV. – Sempre sul piano della disciplina normativa il dato diverge nel caso del preliminare avente a oggetto un immobile per uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero un immobile per uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente stesso.
In questa situazione l’ultimo comma dell’art. 72 ha introdotto una deroga rispetto alla potestà del curatore di sciogliersi dal vincolo: “le disposizioni di cui al primo comma non si applicano al contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’articolo 2645-bis del codice civile avente ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado ovvero un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente”.
È bene ribadire che la deroga non attiene (ovviamente) al meccanismo tipico del preliminare, ma solo alla dianzi citata (ordinaria) potestà di scioglimento dal contratto.
Come esattamente osservato dall’ordinanza interlocutoria, l’effetto che ne deriva è che il curatore, in presenza di un contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ., avente a oggetto un immobile con la destinazione suddetta, non ha possibilità di scegliere se subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendosi tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo. Egli succede necessariamente nel contratto, ex lege, e quindi è tenuto a darvi esecuzione.
V. – Da qui il problema se, considerata l’esistenza di un simile obbligo di legge, possa dirsi che l’alienazione effettuata in questi casi dal curatore fallimentare sia tale da rientrare essa stessa – ancora ex lege – nell’ambito dell’attività liquidatoria: di quell’attività, cioè, che il curatore è tenuto a compiere nel corso della procedura concorsuale.
La risposta affermativa si basa sul rilievo che la vendita fatta dal curatore è da considerare come tale anche se non effettuata secondo le regole della esecuzione concorsuale, o (come dice l’ordinanza interlocutoria) a mezzo di procedure competitive.
VI. – Il tema è stato fin qui variamente considerato nelle sedi di merito, in adesione ora all’una ora all’altra delle possibili soluzioni.
Su di esso si è registrato un contrasto anche nella giurisprudenza di questa Corte, contrasto che per vero non ha risparmiato neppure la dottrina a valle della considerazione in ordine alla ratio di favore che governa l’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Si allude al fatto che con l’art. 72, ultimo comma, la legge fallimentare ha inteso accordare una tutela rafforzata – in forma specifica – al diritto alla proprietà del bene destinato alla prima abitazione del promissario acquirente che abbia trascritto il preliminare prima del fallimento; sicché il diritto del promissario sarebbe per tale ragione assoggettabile a una regolazione indiretta in ambito concorsuale.
Un orientamento di tal genere è quello fatto proprio dal tribunale di Monza.
La premessa di tale orientamento è che sono da qualificare come vendite concorsuali quelle che, comunque attuate, possiedono natura coattiva perché avvengono invito domino in un ambito procedimentalizzato.
Anche queste vendite sarebbero soggette all’efficacia purgativa.
In particolare, la vendita immobiliare fatta in esecuzione di un preliminare stipulato dal fallito e previamente trascritto diventerebbe vendita concorsuale, ai fini dell’art. 108 legge fall., perché disposta dal curatore fallimentare con la autorizzazione del comitato dei creditori.
Nella prospettiva così – appunto – “procedimentalizzata”, essa stessa parteciperebbe dell’ambito dell’attività liquidatoria che il curatore è tenuto a compiere nel corso della procedura concorsuale, anche se concretizzata al di fuori delle regole di cui alla Sezione II (“Della vendita dei beni”) alle quali, come detto all’inizio, la norma si riferisce.
L’indirizzo interpretativo ha trovato avallo nella sentenza della Prima sezione di questa Corte citata sia dal tribunale di Monza che dall’ordinanza interlocutoria.
La sentenza ha affermato il principio secondo cui, in tema di vendita fallimentare, anche se attuata nelle forme contrattuali e non tramite esecuzione coattiva, trova applicazione l’art. 108, secondo comma, legge fall., con la conseguente cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione a opera del giudice delegato e ammissione del creditore ipotecario al concorso, con rango privilegiato, sull’intero prezzo pagato, ivi compreso l’acconto eventualmente versato al venditore ancora in bonis (Cass. Sez. 1 n. 3320-17).
L’indirizzo che si riallaccia a tale orientamento segnala che non si giustificherebbe altrimenti la rilevanza assunta dal bene protetto – e cioè la casa di abitazione – quale fondamento dell’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 72 cit.
VII. – A questa tesi si è contrapposta quella per cui, invece, il risultato al quale tende l’art. 108, secondo comma, legge fall. non è concepibile al di fuori di una procedura coattiva aperta al mercato e finalizzata al realizzo dell’intero (e anzi del migliore) prezzo di vendita del bene acquisito all’attivo.
Ciò sarebbe in certa misura presupposto dalla norma, per essere codesta riferibile al profilo di necessaria competizione nell’ambito di una procedura pubblica di dismissione dei beni. La quale procedura pubblica dovrebbe sempre muovere da un prezzo di stima e favorire la massima informazione e partecipazione di tutti i soggetti interessati, al fine di assicurare il conseguimento del maggior risultato possibile e con esso la miglior soddisfazione dei creditori.
In tale diversa prospettiva, alla quale si riferisce l’ordinanza interlocutoria, la base di riferimento delle vendite fallimentari sarebbe dunque solo quella delineata dalla norma sulla vendita propriamente procedimentalizzata, e solo in tal guisa si giustificherebbe l’effetto purgativo.
Espressione di simile differente criterio di giudizio è l’ordinanza della Prima sezione n. 23139-20 che, sebbene in tema di concordato preventivo con continuità aziendale, ha affermato che l’assegnazione dell’immobile al socio di una cooperativa, che avvenga in esecuzione di un piano gestionale teso all’ultimazione degli alloggi rimasti incompiuti, non può essere accompagnata dalla cancellazione ex art. 108 legge fall. delle iscrizioni pregiudizievoli, dal momento che i detti effetti purgativi si giustificano solo qualora la vendita si compia in esito a una procedura competitiva a evidenza pubblica secondo le regole di cui agli artt. 105 e ss. legge fall. richiamate dall’art. 182, quinto comma, legge fall., non anche quando essa sia il frutto della continuazione dell’attività di impresa.
VIII. – Occorre dire che vanamente il tribunale di Monza, da un lato, e parte della dottrina dall’altro, hanno tentato di sminuire la rilevanza di codesto precedente in esito alla citata ultima frase (“non anche quando essa sia il frutto della continuazione dell’attività di impresa”).
Si è detto che quel precedente è relativo alla liquidazione condotta in sede concordataria e in relazione alla prevista continuità aziendale (e v. peraltro anche Cass. Sez. 1 n. 30454-19); quindi vale solo per essa.
Può osservarsi che non è dubbio che il principio di diritto enunciato da Cass. Sez. 1 n. 23139-20 attenga alla situazione del concordato in continuità aziendale, il quale è istituto orientato alla prosecuzione dell’attività d’impresa a opera di chi, essendone titolare, non abbia subito lo spossessamento.
Ma è evidente che non da ciò può giustificarsi la convivenza del diversamente argomentato margine di valutazione reso da quel precedente a proposito della operatività della regola di cui all’art. 108, secondo comma, legge fall., attesa l’analogia di disciplina dettata per le modalità della cessione dei beni nel concordato dall’art. 182 legge fall. (nel rinvio agli artt. da 105 a 108-ter stessa legge).
Del resto, anche l’ordinanza interlocutoria n. 16166-23 mostra di non voler ribadire l’indirizzo assunto con la sentenza n. 3310 del 2017. Per cui è innegabile che il contrasto di giurisprudenza sussiste in modo netto presso questa Corte a proposito della coordinazione dei principi fondamentali in materia.
E in ogni caso la questione di massima è indubbiamente di particolare importanza.
IX. – Il contrasto va risolto affermando il principio per cui nel sistema della legge fallimentare l’art. 108, secondo comma, prevede il potere purgativo del giudice delegato in stretta ed esclusiva consonanza con l’espletamento della liquidazione concorsuale dell’attivo disciplinata nella Sezione II del Capo VI secondo le alternative indicate nell’art. 107, perché in essa il curatore esercita la funzione di legge secondo il parametro di legalità dettato nell’interesse esclusivo del ceto creditorio mediante gli appositi procedimenti destinati al fine; mentre è da escludere che la norma possa essere applicata – e il potere purgativo esercitato dal giudice delegato – nei diversi casi in cui il curatore agisca nell’ambito dell’art. 72, ultimo comma, legge fall. quale semplice sostituto del fallito, nell’adempimento di obblighi contrattuali da questo assunti con un preliminare di vendita.
X. – È necessario partire dalla considerazione che quanto previsto dall’art. 108, secondo comma, legge fall. trae diretto fondamento dalla funzione liquidatoria della vendita espropriativa, esattamente come accade per l’esecuzione individuale con l’art. 586 cod. proc. civ.
Ciò costituisce riflesso della natura giuridica della vendita fallimentare secondo un modello acquisito già prima della riforma.
Nel vigore del testo antecedente al d.lgs. n. 5 del 2006 la cosa era agevolmente desunta dall’art. 105 legge fall., il cui senso onnicomprensivo risaltava per l’espresso richiamo alle norme del codice di procedura civile, base dell’inquadramento delle vendite fallimentari nell’ambito delle vendite giudiziali o, come anche si dice, forzate.
In coerenza con tale inquadramento, era acquisito il principio secondo cui nella procedura fallimentare l’alienazione degli immobili non potesse avvenire che nelle forme della vendita forzata, con o senza incanto, culminante nel decreto di trasferimento, senza alcuna possibilità di una vendita a trattativa privata. E quindi che l’art. 108 legge fall. non consentisse mai la vendita di un bene immobile a trattativa privata, ma solo – si diceva comunemente – l’alienazione nelle forme della vendita forzata, con o senza incanto, che si concludono col decreto di trasferimento del bene. Era in vero considerato illegittimo il provvedimento del giudice delegato che autorizzasse una vendita non pienamente corrispondente a uno dei due tipi, con o senza incanto, espressamente previsti e disciplinati (ex multis Cass. Sez. 1 n. 5751- 93, Cass. Sez. 1 n. 3624-04, Cass. Sez. 1 n. 26954-16, Cass. Sez. 1 n. 11464-17).
XI. – È da puntualizzare che, prima della riforma attuata col lgs. n. 5 del 2006 e completata col d.lgs. n. 169 del 2007, la natura propriamente esecutiva delle vendite era un dato acquisito anche rispetto al concordato previdente la cessione dei beni, tanto da aver costituito elemento di comparazione per l’esegesi delle norme afferenti seppur declinate in relazione ai poteri del commissario.
In relazione alle vecchie norme le Sezioni Unite di questa Corte ne hanno precisato il senso rispondendo affermativamente al quesito se sia o meno possibile assoggettare a ricorso straordinario per cassazione il provvedimento con cui il tribunale abbia accolto o rigettato un reclamo proposto contro il decreto emesso dal giudice delegato in tema di vendita dei beni del debitore nella fase esecutiva del concordato preventivo con cessione.
Netta è stata l’affermazione che anche nel procedimento liquidatorio dei beni del debitore, per quanto avente in ambito concordatario un fondamento originario di natura negoziale, la vendita deve dirsi sottesa da una finalità satisfattoria dei creditori del tutto analoga a quelle della procedura esecutiva fallimentare, tanto da muoversi in un ambito di controlli pubblici del pari destinati a garantire il raggiungimento di tale finalità.
Anche la fase esecutiva del concordato per cessione dei beni – è stato precisato – deve considerarsi riconducibile “a una più vasta categoria di procedimenti di esecuzione forzata (in senso lato) al pari della procedura fallimentare”, tanto che pure la liquidazione concordataria, proprio come quella fallimentare, risulta disciplinata “da rigorose disposizioni sul cui rispetto gli organi della procedura sono chiamati a vigilare” (Cass. Sez. U n. 19506-08).
Questa correlazione è suscettibile di essere mantenuta anche dopo la riforma del diritto concorsuale del 2006-2007.
Già nella sentenza citata è stato invero rimarcato che nel contesto della riforma “nulla suggerisce che il legislatore abbia inteso modificare la natura e le caratteristiche essenziali della procedura di concordato – e tanto meno far perdere ad essa i suoi connotati originariamente negoziali in favore di un impianto pubblicistico prima non configurabile”. E al tempo stesso è stato convincentemente segnalato il carattere confermativo di una tale conclusione nelle pertinenti norme dovute al d.lgs. n. 169 del 2007, giacché pure in queste è stato oggettivato l’accostamento delle funzioni del liquidatore concordatario a quelle del curatore del fallimento.
In sostanza, e in relazione al tema che qui rileva, la riforma del diritto concorsuale del 2006-2007 si è mossa – sia per il concordato che per il fallimento – nel solco di un medesimo schema procedimentalizzato. Per riprendere le parole della citata sentenza delle Sezioni Unite, nel prescrivere che alla vendita dei beni oggetto della cessione ai creditori si debbano applicare (sia pure con la clausola della compatibilità) le disposizioni della stessa legge fall., art. 105 e seg., ivi compreso l’art. 107 in ordine alle modalità attuative, la nuova disciplina rafforza la convinzione “che la liquidazione concordataria sia, proprio come quella fallimentare, disciplinata da rigorose disposizioni sul cui rispetto gli organi della procedura sono chiamati a vigilare” (così testualmente Cass. Sez. U n. 19506-08). E tali rigorose disposizioni, senza modificare la natura e le caratteristiche essenziali della procedura di concordato, confermano la preesistente assimilabilità tra la fase esecutiva del concordato per cessione dei beni del debitore (pur con la sua origine negoziale e con le sue ovvie peculiarità) e “il procedimento di vendita coatta di detti beni” sotteso dalla vendita fallimentare propriamente intesa.
XII. – Una duplice conseguenza è possibile trarre dal sintetizzato percorso giurisprudenziale: se da un lato l’applicazione dell’art. 108 legge presuppone la cd. vendita fallimentare, dall’altro l’elemento centrale di una tale vendita è ravvisabile nella natura esecutiva (e procedimentale) della vendita coattiva (forzata); cosa data per acquisita dalla ripetuta sentenza n. 19506-08 delle Sezioni Unite al punto da farne un elemento di comparazione idoneo a coordinare (alla sua stessa stregua) le norme relative alla cessione dei beni nel concordato preventivo.
Un simile modello di ragionamento è stato contraddetto (soltanto) dalla ripetuta sentenza della Prima sezione n. 3310-17.
Codesta ha posto la base dell’estensione del concetto di vendita fallimentare oltre lo steccato delle modalità di cui all’art. 107, seppur richiamate (quelle modalità) anche per la vendita di aziende, di rami, di beni e di rapporti in blocco dall’art. 105, secondo comma, legge fall.
Tanto ha fatto riferendosi alla successiva e conseguente necessità di ammissione del creditore ipotecario al concorso, con rango privilegiato, “sull’intero prezzo pagato, ivi compreso l’acconto eventualmente versato” dal promissario acquirente.
Epperò senza che di tale e asseritamente consequenziale assunto sia individuabile un minimo riscontro sul piano normativo.
XIII. – Ora va detto che dopo la riforma del 2006-2007 l’art. 107 legge fall. disciplina le “Modalità delle vendite”, e lo fa mediante un ridimensionamento dei rinvii al processo esecutivo previsto dal codice di procedura civile.
Nel testo dell’art. 107 è oggi declinata una trama ripartibile in tre modalità di vendita, in nessuna delle quali rientra l’ipotesi (mera) della cessione per atto negoziale.
Le vendite e gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione possono essere effettuate alternativamente (i) dal curatore, ma tramite procedure competitive, (ii) dal giudice delegato, secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili, (iii) ancora secondo le disposizioni del codice di procedura civile ove il curatore decida di subentrare nelle procedure esecutive che siano pendenti alla data della dichiarazione di fallimento.
Per i fini del conseguente art. 108, la comune caratteristica delle vendite fallimentari non è stata messa in discussione nell’alveo della normativa riformata, nel senso che quanto ai provvedimenti purgativi il legislatore, anche dopo la riscrittura delle norme, ha mostrato di non voler dissociare i provvedimenti stessi dal tipo di vendita forzata presupposta, che è e resta una vendita procedimentalizzata.
E difatti nella Relazione ministeriale illustrativa si legge: “per ciò che riguarda le forme delle vendite ed i loro effetti, si è innovato molto e si è ritenuto di eliminare ogni rinvio alla disciplina del processo esecutivo individuale, fermo restando, comunque, il fondamentale effetto purgativo delle vendite forzate”.
In altre parole, la maggiore flessibilità dei parametri di riferimento non ha determinato effetti a proposito del presupposto di adozione del decreto del giudice delegato conseguente alla vendita e alla riscossione per intero del prezzo, tale essendo sempre la vendita esecutiva procedimentalizzata in funzione liquidatoria di cui alle alternative ipotesi disciplinate nell’art. 107, perché questa – e solo questa – è la “vendita forzata”.
XIV. – L’orientamento teso a ritenere l’estensione del potere del giudice delegato di ordinare la cancellazione delle ipoteche e degli altri vincoli al caso ulteriore (rispetto a quello sotteso al procedimento ex 107) della vendita effettuata dal curatore (subentrato ex lege) in adempimento del preliminare stipulato dal fallito muove da un profilo di similitudine.
Il profilo si assume rinvenibile in ciò: che l’atto di vendita (in adempimento del preliminare) sarebbe comunque posto in essere da un organo del fallimento, non proprietario del bene, né delegato a vendere dal proprietario. Donde si sarebbe in presenza di un soggetto (il curatore) che agisce mettendo in pratica un potere proprio, che gli deriva dal fallimento e che partecipa della natura del potere di liquidare il patrimonio, a prescindere dalla volontà del titolare del diritto di proprietà (il fallito).
Da questa constatazione trarrebbe forza la similitudine, perché – ancora si dice – quale che sia la forma con la quale l’alienazione si realizza, l’atto finale è pur sempre qualificabile come atto traslativo di un bene, e solo questo conta, poiché per riconoscere natura di vendita forzata alla vicenda traslativa di diritti rileva la natura del potere e non la forma del suo esercizio.
XV. – Questa conclusione così come il ragionamento che la sottende non possono essere condivisi.
La vendita effettuata dal curatore in adempimento del preliminare stipulato dal fallito non possiede natura coattiva, né funzione liquidatoria dell’attivo, neppure quando il preliminare abbia riguardato la casa di abitazione del promissario e sia stato trascritto prima del fallimento.
Nel caso disciplinato dall’art. 72, ultimo comma, legge fall. rileva il subentro del curatore nel contratto preliminare, al quale consegue (art. 72, primo comma) l’assunzione di “tutti i relativi obblighi”.
L’unica particolarità (rispetto alla disciplina del primo comma) è che il subentro, in questo caso, è obbligatorio per legge.
In tale evenienza il curatore è tenuto a eseguire la vendita; ed è tenuto anche a adempiere all’eventuale obbligazione accessoria di far conseguire il bene al promissario libero dalle ipoteche, obbligazione che sia stata assunta già dal promittente venditore.
Tutto questo, però, è l’effetto (ovvio) del subentro.
Non consente alcun accostamento con la vendita forzata perché nel caso dell’art. 72, ultimo comma, si rimane nell’ambito delle obbligazioni negoziali, anche a proposito della garanzia dell’evizione (art. 1483 cod. civ.).
Quella che legittima l’effetto purgativo discendente dall’art. 108 legge fall. è una cosa ben diversa.
Per codificare l’effetto purgativo e giungere al decreto del giudice delegato non basta l’obbligazione del curatore di stipulare una vendita come conseguenza del subentro (volontario o ex lege) in un anteriore obbligo assunto dal fallito in bonis, e neppure quella di garantire la liberazione del bene secondo la promessa fatta dal fallito medesimo.
Non basta perché l’art. 108 riguarda – in sé e per sé – la vendita esecutiva.
Codesta è la vera vendita forzata e non ogni vendita che avviene in ambito fallimentare può esser considerata tale.
L’incontestabilità di tale fatto è testimoniata dalla diversità di schema sotteso all’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Per ripetere il concetto: (i) nel caso dell’art. 72, ultimo comma, legge fall. viene in risalto il mero subentro ex lege del curatore nel preliminare stipulato dal fallito; (ii) l’atto col quale è poi eseguita la vendita resta avvinto dalla ordinaria funzione di adempimento delle obbligazioni discendenti dal preliminare; (iii) per tale ragione la vendita non costituisce un atto esecutivo di liquidazione dell’attivo fallimentare, a prescindere dal fatto che il prezzo sia stato – come emblematicamente si dice essere accaduto nella specie – versato interamente o meno, e che il curatore, in luogo del fallito, possa ottenere a sua volta il pagamento di un residuo.
Invero nemmeno quando prima del fallimento il promissario acquirente abbia versato semplici acconti può dirsi sussistere, nella vendita negoziale fatta in esecuzione del contratto preliminare, una finalità propriamente liquidatoria dell’attivo concorsuale, perché la finalità vera è sempre quella di adempiere l’obbligo a contrarre.
La funzione liquidatoria esclude di contro il vincolo negoziale, essendo l’organo fallimentare astretto all’osservanza delle (sole) modalità procedimentali dettate per il legittimo esercizio del potere di realizzazione coattiva.
XVI. – Non può allora forzarsi il concetto di “procedimentalizzazione” della vendita in nome della maggiore elasticità del sistema delineato dagli attuali 105 e seg. legge fall., così da farne un denominatore comune di una generica finalità liquidatoria.
La vendita procedimentalizzata è altra rispetto alla vendita negoziale semplicemente autorizzata dal comitato dei creditori.
La finalità liquidatoria non implica una procedimentalizzazione purchessia (del tipo di quella evincibile dall’eventuale necessità di previa autorizzazione del comitato dei creditori alla stipula di un contratto), ma la procedimentalizzazione dettata dall’art. 107 legge fall. in vista del miglior soddisfacimento delle ragioni creditorie.
Tale è la spiegazione del collegamento esistente tra l’art. 108 e l’art. 107 legge fall., anche considerando la natura necessariamente competitiva delle procedure tramite le quali deve avvenire la vendita ove non si ricorra alle alternative parimenti indicate nella norma.
Si rivela così inappropriato svilire il profilo formale della vendita forzata in nome di una presunta rilevanza dell’aspetto “sostanziale” del potere esercitato dall’organo del fallimento.
Ben vero nell’adempimento del preliminare, nel quale è subentrato, il curatore non esercita alcun potere.
A ogni modo, non si disconosce che l’art. 107 legge fall., nella riscrittura delle norme sulla vendita dei beni (art. 105 e seg.), abbia attuato il passaggio da una disciplina irrigidita dal rinvio alle norme del codice di procedura relative al processo esecutivo a una ispirata, invece, a maggiore elasticità.
Ma per quanto ciò sia vero, e per quanto la norma sia ispirata a un più elastico principio di libertà di forme, è evidente che tale libertà è perseguita alla condizione specificamente considerata, e cioè che “le vendite e gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione” siano svolti dal curatore “tramite procedure competitive”.
In altre parole, è la procedura competitiva il limite intrinseco del pur canonizzato (nel nuovo testo dell’art. 107 legge fall.) principio di libertà delle forme (e v. infatti Cass. Sez. 1 n. 22383-19, Cass. Sez. 1 n. 21007-22).
Sicché, fatte salve le concorrenti previsioni del medesimo art. 107, l’elasticità esiste – certo – ma rimane confinata all’interno del concetto di competitività.
Questa nozione (la procedura competitiva) non è astretta a uno schema predefinito, ma ai fattori ritenuti essenziali allo scopo: la stima, la pubblicità, la possibilità di gara, quali presupposti inderogabili di trasparenza e correttezza anche a salvaguardia della parità fra gli offerenti (v. Cass. Sez. 1 n. 26076-22).
Ai fini dell’effetto purgativo è perciò necessario che la vendita sia stata attivata nel senso indicato dall’art. 107, perché questo rende la vendita declinabile in senso procedimentale come atto di liquidazione dell’attivo, per effetto della messa in esecuzione di un programma di liquidazione all’esito delle conseguenti possibilità offerte dalla norma.
E poiché in situazioni del genere può discorrersi di vendita procedimentalizzata, l’art. 108 coerentemente prevede che, “una volta riscosso interamente il prezzo”, il giudice delegato ordini, con suo decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione e delle trascrizioni dei pignoramenti, dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo incidente sul bene.
XVII. – Se si tiene a mente tutto questo, è abbastanza chiaro che né la struttura giuridica del fenomeno, né la sua caratterizzazione funzionale, né l’attitudine a perseguire l’effetto pratico possono ragionevolmente confluire in un elemento di similitudine per l’ipotesi di semplice esecuzione di un contratto preliminare.
Un parallelismo del genere non è sostenibile nemmeno quando, per mero accidente, il prezzo di stipula indicato nel preliminare si riveli essere poi, in base alle peculiari condizioni di mercato, quello più vantaggioso.
La differenza resta radicale, perché il curatore, essendo la stipulazione del definitivo obbligatoria a seguito del subentro nella posizione del fallito previsto per legge, si trova a operare, ai fini del definitivo, come sostituto del fallito, non in rappresentanza della massa e a tutela delle ragioni di questa. Egli non può che vendere al prezzo indicato nel preliminare e non può recuperare in alcun modo gli acconti già versati, così che la massa resta esposta finanche all’eventualità di non ricevere proprio niente ove, come nella specie, prima del fallimento risulti che sia stato versato dal promissario l’intero prezzo.
XVIII. – Le superiori considerazioni dimostrano che, indipendentemente dal riconoscimento o meno della facoltà del curatore fallimentare di sciogliersi dal contratto, e indipendentemente dalla natura più o meno vantaggiosa della vendita, l’esecuzione del preliminare, da un lato, è sempre tecnicamente qualificabile come vendita negoziale (e non come vendita esecutiva concorsuale), e dall’altro non è in grado (ontologicamente) di garantire la realizzazione dell’effetto pratico che la vendita concorsuale persegue per il tramite della sua procedimentalizzazione.
L’atto al quale è tenuto il curatore, dopo il subentro ex lege nel preliminare, esaurisce la sua funzione nel contesto del preesistente rapporto obbligatorio, cosa che ne impedisce la ventilata comune prospettiva funzionale rispetto alla disciplina dei trasferimenti coattivi, quali che siano.
Ciò è d’altronde palpabile conseguenza del fatto che un trasferimento coattivo – come esattamente osservato in dottrina – non è mai fine a sé stesso.
Punta sempre a conseguire un fine pratico distinto, rispetto al quale semplicemente si pone come mezzo: il mezzo astrattamente più idoneo per giungere, coattivamente, ad avere ciò che è necessario alla realizzazione dei diritti patrimoniali dei creditori.
Mancando un tale requisito, cui è paradigmaticamente funzionale il procedimento che conduce alla vendita secondo l’art. 107 legge fall., non può invocarsi il successivo art. 108, e dunque non può discorrersi di potere purgativo del giudice delegato.
XIX. – Il tribunale di Monza, riprendendo argomentazioni più volte utilizzate dalla giurisprudenza di merito, ha richiamato, quale dato esegetico asseritamente rafforzativo della diversa tesi, la disciplina dell’art. 173, quarto comma, del CCII.
Questa norma, nei casi di subentro del curatore nel contratto preliminare di vendita, riconosce esplicitamente la possibilità del giudice delegato di ordinare con decreto la cancellazione delle iscrizioni pregiudizievoli.
La previsione dell’art. 173 del CCII non è applicabile al caso di specie, ratione temporis. Ma secondo il tribunale potrebbe essere impiegata quale corrispondente esegetico, a conferma della bontà dell’orientamento sostenuto in ordine al nesso tra l’art. 108 e l’art. 72, ultimo comma, legge fall.
A una simile possibilità di interpretazione evolutiva ha fatto ampio riferimento anche il procuratore generale nelle sue conclusioni.
Ed eguale associazione è stata ipotizzata dall’ordinanza interlocutoria, per il fine di verificare – s’è detto – “se ricorra un ambito di continuità tra il regime fallimentare e quello successivo e se la nuova norma sia quindi idonea a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare”, secondo le possibilità offerte dalla giurisprudenza formatasi dinanzi a queste Sezioni Unite in merito al limite e alle condizioni di rilevanza di una simile pratica (Cass. Sez. U n. 12476-20, Cass. Sez. U n. 2061-21, Cass. Sez. n. 8504-21, Cass. Sez. U n. 42093-21, e infine anche Cass. Sez. U n. 8557-23).
XX. – In verità il richiamo all’art. 173 del CCII non è risolutivo nel senso indicato dal tribunale di Monza; a tutto concedere dimostra semmai il contrario.
In ogni caso tale richiamo non è un elemento di raffronto utile sul versante esegetico perché l’effetto che si pretende finisce con l’interferire sul terreno della vigenza della legge, connesso alla sua entrata in vigore e al correlato ambito di applicazione temporale.
XXI. – L’art. 173, sebbene nella relazione di accompagnamento ne sia illustrata la finalità in termini congiunti, di tutela dell’ “interesse del promissario acquirente ad acquistare un bene libero da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli” e di risoluzione dei “contrasti giurisprudenziali in ordine alla natura – coattiva o meno – della vendita effettuata dal curatore in adempimento del contratto preliminare”, non ha revisionato la disciplina anteriormente rinvenibile nell’art. 72 legge fall. mediante una previsione di estensione mera del potere purgativo del giudice delegato.
L’art. 173 ha introdotto un precetto nuovo all’interno della disciplina degli interessi in gioco.
Il curatore può sempre sciogliersi dal contratto preliminare di vendita immobiliare anche quando il promissario acquirente abbia proposto e trascritto prima dell’apertura della liquidazione giudiziale una domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’articolo 2932 cod. civ., fermo che “lo scioglimento non è opponibile al promissario acquirente se la domanda viene successivamente accolta”.
Dopodiché, quanto alla situazione del contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ. avente a oggetto un immobile a uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale del promissario acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero un immobile a uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa del promissario acquirente, il contratto non si scioglie – dice l’art. 173 – “sempre che gli effetti della trascrizione non siano cessati anteriormente alla data dell’apertura della liquidazione giudiziale e il promissario acquirente ne chieda l’esecuzione nel termine e secondo le modalità stabilite per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi sui beni compresi nella procedura”.
In concorrenza di codeste ulteriori condizioni – la seconda del tutto innovativa – il preliminare di vendita relativo a immobili di tal genere è postulato come oggetto di un subentro ex lege.
In tal prospettiva l’art. 173, quarto comma, ha introdotto la terza, e ancor più innovativa, regola, involgente la falcidia degli acconti versati: “nei casi di subentro del curatore nel contratto preliminare di vendita, l’immobile è trasferito e consegnato al promissario acquirente nello stato in cui si trova” e “gli acconti corrisposti prima dell’apertura della liquidazione giudiziale sono opponibili alla massa in misura pari alla metà dell’importo che il promissario acquirente dimostra di aver versato”.
Come conseguenza della falcidia “il giudice delegato, una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, ordina con decreto la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo”.
XXII. – L’esito fondamentale è questo.
Da un lato, la disciplina non si pone in linea di continuità con quella della legge fallimentare, secondo l’ottica alla quale invece le citate decisioni delle Sezioni Unite hanno inteso doversi riferire il legittimo utilizzo del CCII quale dato comparativo funzionale a dirimere dubbi esistenti a proposito delle vecchie norme. Non si pone in linea di continuità perché l’art. 173 innova completamente il testo che caratterizza l’antecedente art. 72 legge fall. nel momento stesso in cui enfatizza una condizione che in quello non era data: e cioè che, non essendo gli effetti della trascrizione cessati prima dell’apertura della procedura, il promissario acquirente richieda l’esecuzione del preliminare nel termine e con le modalità per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi su beni compresi nella procedura stessa.
Dall’altro, non è vero che la previsione finale di cui al quarto comma dell’art. 173 sia confermativa della bontà dell’indirizzo giurisprudenziale sostenuto dal tribunale di Monza quanto all’art. 72 legge fall. (e all’art. 108 stessa legge).
Non è così perché l’art. 173, quarto comma, non ha previsto il potere purgativo quale semplice effetto del subentro del curatore nel contratto preliminare e della conseguente vendita.
L’art. 173 ha invece ritenuto di coniugare l’ambito delle tutele facendo perno proprio sulla necessità di garantire (per quanto parzialmente) i diritti di prelazione, tanto è vero che ha previsto il potere purgativo a valle della opponibilità alla massa degli acconti, nella misura pari alla metà dell’importo che il promissario acquirente possa dimostrare di aver versato prima dell’apertura della liquidazione giudiziale.
Nel CCII non viene in considerazione il fatto (mero) della vendita obbligatoria, e non trova diritto di cittadinanza neppure l’assunto che ogni vendita fatta in ambito concorsuale sia una vendita forzata.
Vengono in considerazione invece l’onere del promissario di conformarsi a un ben preciso schema procedimentale (la domanda di adempimento da fare con le modalità e nel termine stabilito per ordinarie le domande di accertamento dei diritti dei terzi) e il legame con la falcidia degli acconti già versati; la quale è l’unica che, sebbene limitatamente, consente di attuare un (parziale) soddisfacimento del creditore ipotecario, e che quindi permette (ancorché in questa misura) di prospettare l’effetto purgativo come sintonico alle caratteristiche effettuali di una vendita forzata.
È quindi vero che l’intervento sopra menzionato ha avuto (anche) il fine di risolvere in qualche modo il problema che interessa; ma è altrettanto vero che la soluzione è stata incentrata sulla codificazione della potestà di purgare le ipoteche (e di cancellare le iscrizioni, le trascrizioni o gli altri vincoli) come effetto di una accurata regolamentazione del tutto nuova.
XXIII. – Ora qui deve essere fatta una puntualizzazione a chiarimento.
Che il legislatore del CCII abbia inteso declinare in modo diverso il rischio dell’insolvenza quanto alla fattispecie del preliminare di vendita relativo alla casa di abitazione (o a quelle equiparate), per modo da estenderlo (parzialmente) anche al creditore ipotecario, è un fatto (per certi versi problematico, se lo si pone a paragone con la disciplina dell’esecuzione individuale) che in sé non aggiunge niente al caso di specie, e che soprattutto non può essere considerato per i fini di un’interpretazione evolutiva delle diverse previsioni della legge fallimentare del tutto silenti al riguardo.
Sono messi in gioco i limiti dell’interpretazione, ai quali il giudice è inevitabilmente astretto.
L’attività di interpretazione delle norme non può superare i limiti che si impongono nel contesto del suo svolgimento, perché sono codesti limiti a dare il senso della distinzione dei piani.
Il legislatore, fatto salvo il rispetto dei canoni costituzionali di ragionevolezza, è libero di modulare le tutele introducendo precetti nuovi; viceversa, il giudice non può che applicare al caso concreto “la legge intesa secondo le comuni regole dell’ermeneutica” (cfr. C. cost. n. 155 del 1990), per modo da disvelarne sì il corretto significato, ma purché codesto possa considerarsi insito in essa.
Questa cosa influisce sulla funzione dichiarativa della giurisprudenza – anche di legittimità – da contenere all’interno del confine proprio (v. già Cass. Sez. U n. 21095-04, Cass. Sez. U n. 4135- 19, Cass. Sez. U n. 2061-21).
L’attività di interpretazione, per quanto la si voglia dilatare in funzione “evolutiva” (e in molti casi è opportuno dilatarla in tale chiave onde superare altrimenti inaccettabili lacune dell’ordinamento), non può mai spingersi fino a superare il limite di tolleranza e di elasticità di un enunciato, ossia – come efficacemente è stato detto – del significante testuale della disposizione che il legislatore ha posto, giacché da quel significante, previamente individuato, non può che muovere la dinamica di inveramento della norma nella concretezza del suo operare.
Ecco perché insistere sulla diversa scelta operata dal CCII non è produttivo nel caso di specie.
XXIV. – Naturalmente la Corte deve farsi carico del problema che il tribunale di Monza ha rappresentato quanto alla finalità di tutela sottesa alla disciplina dell’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Si tratta di stabilire se il riferimento a una simile finalità consenta o imponga una soluzione diversa da quella fin qui indicata.
La risposta deve essere negativa.
La norma citata ha avuto (e ha) l’obiettivo di tutelare il promissario acquirente che abbia trascritto il preliminare di acquisto della casa di abitazione.
E tuttavia questa finalità rileva solo a fronte del rischio di sopravvenienza del fallimento.
Nella legge fallimentare il promissario acquirente resta tutelato dalla anteriorità della trascrizione del preliminare in vista dell’eventualità della dichiarazione di fallimento del promittente, non in rapporto alla posizione dei terzi titolari di anteriori diritti di prelazione.
La trascrizione del preliminare neutralizza quel rischio nel senso che, ai fini dell’adempimento degli obblighi discendenti dal preliminare, il fallimento è come se non ci fosse.
La tutela rispetto al creditore ipotecario è cosa diversa.
È diversa da quella presupposta dall’art. 72, e nella legge fallimentare non è considerata affatto. E non perché sussista una lacuna, ma molto semplicemente perché una simile ulteriore tutela si basa – come sempre accade nelle vendite immobiliari – sugli effetti della pubblicità costitutiva, che è materia del codice civile, non della legge fallimentare.
Ne deriva che l’anteriorità della trascrizione del preliminare secondo il regime dell’art. 2645-bis cod. civ. scongiura il rischio correlato all’eventualità del fallimento del promittente ma non può indurre a prospettare di per sé, in mancanza di una specifica previsione di legge, un’alterazione dei nessi di priorità delle iscrizioni ipotecarie già esistenti.
Quindi la ratio di tutela, sottesa all’art. 72, ultimo comma, legge fall., non è idonea a sostenere l’estensione del potere purgativo in caso di attuazione degli obblighi discendenti dal subentro del curatore nel contratto preliminare.
Né lo è il fatto che il promittente venditore, poi fallito, si sia assunto l’obbligo, col preliminare, di assicurare la liberazione del bene dalle ipoteche.
Tanto di dice avvenuto nella specie.
Ma neppure quest’obbligo, nel quale pur subentra ex lege lo stesso curatore per effetto della regola dettata dall’art. 72, ultimo comma, legge fall., sposta i termini del problema.
Esso non trasforma la vendita privatistica (e negoziale) in vendita attuata nell’alveo di un procedimento officioso finalizzato alla liquidazione dell’attivo fallimentare.
Suppone invece che ogni questione abbia a risolversi nell’ordinario operare dei rimedi privatistici, ivi compresa la garanzia per il caso di evizione (artt. 1482, ultimo comma, e 1483 cod. civ.).
XXV. – Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso della società Leviticus deve essere accolto e il decreto del tribunale di Monza cassato.
Segue il rinvio al medesimo tribunale il quale, in diversa composizione, si uniformerà al principio all’inizio esposto.
Il tribunale provvederà sulle spese del giudizio di merito.
Quelle del giudizio di legittimità possono essere interamente compensate, ravvisandosi gravi motivi della intrinseca complessità della questione di massima oggetto di contrasto.
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa al tribunale di Monza anche per le spese del giudizio di merito; compensa le spese del giudizio di cassazione.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili,
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 08 giugno 2023, n. 16166, per SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337, in tema di fallimento
SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337, in tema di fallimento
In tema di rinuncia alla domanda – SS.UU, 07 febbraio 2024, n. 3453
Civile Sent. Sez. U Num. 3453 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: NAZZICONE LOREDANA
Data pubblicazione: 07/02/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 23403/2021 R.G. proposto da:
CUKI COFRESCO S.R.L, in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. LUIGI SAGLIETTI (SGLLGU43P22C049O) e dall’Avv. Prof. BRUNO NICOLA SASSANI (SSSBNN50E09E030Y)
-ricorrente-
contro
NOVELIS DEUTSCHLAND GMBH, in persona del legale rapp.te p.t., elettivamente domiciliata in ROMA VIA MICHELE MERCATI, 39, presso lo studio degli Avv.ti MONIA BACCARELLI (BCCMNO73L42H501C) e MARIA ROSA VALENTINA SPINELLI (SPNMRS74S62F205W), da cui è rappresentata e difesa
-controricorrente-
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO TORINO n. 609/2021 depositata il 01/06/2021.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 21/11/2023 dal Consigliere LOREDANA NAZZICONE.
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, che ha concluso per l’accoglimento del primo, secondo e quarto motivo del ricorso, assorbito il terzo.
Uditi gli Avvocati Luigi Saglietti e Monia Baccarelli.
FATTI DI CAUSA
1. – La Cuki Cofresco r.l. convenne innanzi al Tribunale di Torino la Novelis Deutchsland GmbH, società di diritto tedesco, titolare di modello comunitario per vaschette usa e getta in alluminio, proponendo domanda di accertamento negativo della contraffazione del modello comunitario e di proprie condotte di concorrenza sleale.
Con sentenza del 17 gennaio 2019, n. 212, il Tribunale di Torino dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in favore del Tribunale dei disegni e modelli comunitari della Germania, ove ha sede la società convenuta.
Il Tribunale, qualificata la domanda attorea come diretta all’accertamento negativo dell’esecuzione, da parte di Cuki Cofresco s.r.l., di condotte violative dei diritti vantati da Novelis Deutchsland GmbH in forza del modello comunitario multiplo numero 00516836, dunque volta ad accertare che i vassoi o vaschette prodotti dall’attrice non integravano contraffazione né concorrenza sleale confusoria del suddetto modello comunitario, ha rilevato il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore di quello tedesco. Ha ritenuto che la disciplina sul modello comunitario dettata dall’art. 82 Reg. CE n. 6/2002 – secondo cui i procedimenti derivanti dalle azioni e dalle domande giudiziali relative a disegni e modelli comunitari vanno proposti dinanzi al Tribunale dello stato membro in cui il convenuto ha domicilio o una stabile organizzazione – è criterio applicabile anche alla connessa domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale, in forza dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 13 luglio 2019, C-433/16.
2. – Adìta dalla Cuki Cofresco s.r.l., la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 1° giugno 2021, 609, ha respinto l’impugnazione.
La corte territoriale ha ritenuto che:
a) non ha errato il Tribunale nell’interpretazione della domanda introduttiva, sulla scorta del tenore letterale degli atti difensivi, come volta alla richiesta di accertamento negativo sia della contraffazione del modello comunitario, sia della concorrenza sleale confusoria, non essendo stato invece domandato, contrariamente all’assunto dell’appellante, l’accertamento dell’insussistenza di qualsiasi condotta illecita, ivi compresi cioè l’illecito da indebito utilizzo di marchio di fatto, la concorrenza per imitazione servile o la violazione del diritto di proprietà intellettuale: anche a voler sorvolare sull’inammissibilità, per violazione delle preclusioni processuali, delle successive modificazioni della domanda rispetto al contenuto formulato in citazione, la parte non ha fornito in appello alcun elemento tale da consentire di qualificare la domanda azionata come di più ampio contenuto;
b) ne deriva che non si applica l’art. 5.3 reg. n. 44/2001, ma il reg. 6/2002, come statuito dalla Corte di giustizia UE 13-07- 2017, C 433/16, Bayerische Motoren Werke AG c. Soc. Acacia, non potendosi ritenere che le predette domande rivestissero carattere autonomo, non richiedendo il preventivo accertamento della domanda di contraffazione di modello, dato che non sono state neppure proposte, mentre la difformità tra le azioni di accertamento positivo o negativo della concorrenza non può incidere sulla operatività del criterio generale di attribuzione della giurisdizione al giudice nazionale del convenuto, fondato sulla mera connessione fra le domande, connotato processuale decisivo ai fini dell’applicazione del regime di competenza di cui al Reg. n. 6/2002;
c) non ha pregio la pretesa di una interpretazione non letterale del dispositivo della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea citata, in quanto l’appellante la sostiene in modo generico;
d) non va operato il richiesto rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 19 par. 3, lett. b), del Trattato sull’Unione Europea e dell’art. 267 del F.U.E., trattandosi di rinvio non necessario alla luce di rilievi posti a fondamento della decisione, per quanto esposto circa l’insussistenza nella specie di una domanda di accertamento negativo della sussistenza di un più ampio “illecito civile”, all’interno del quale si pone l’accertamento della contraffazione, onde non si dà la premessa per un’interpretazione estensiva dell’art. 28, par. 3, reg. n. 44/2001.
3. – Avverso la pronuncia la Cuki Cofresco r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui Novelis Deutschland GmbH ha resistito con controricorso.
Con la memoria di cui all’art. 372 c.p.c., la ricorrente ha depositato documenti, concernenti la domanda di Novelis Deutschland GmbH a EUIPO di registrazione del Modello Comunitario n. 516836-0007, di cui è causa; la decisione di rigetto da parte della Divisione di annullamento del suddetto Ufficio della domanda di nullità promossa da Cuki; la decisione del 1° febbraio 2021 della Terza Commissione di Ricorso di EUIPO di declaratoria della nullità del modello comunitario, perché privo del carattere individuale, ex art. 6 reg. UE n. 6/2002; la sentenza del 2 febbraio 2022 della Terza Sezione del Tribunale di primo grado UE (causa T- 173/21) di rigetto del ricorso di Novelis, con conferma della decisione della Commissione dei Ricorsi.
La ricorrente ha chiesto dichiararsi, per fatti sopravvenuti alla proposizione del ricorso, cessata la materia del contendere in relazione alla domanda di accertamento negativo della contraffazione del modello comunitario, ormai dichiarato definitivamente nullo, con condanna della resistente alle spese di lite, ed accogliersi il ricorso circa l’accertamento negativo del compimento da parte di Cuki Cofresco s.r.l. di atti di concorrenza sleale ai danni di Novelis, considerato che la documentazione prodotta, da cui si deduce la declaratoria di nullità del modello comunitario per cui è causa, costituisce un mutamento di fatto che «attribuisce la giurisdizione al giudice italiano per quanto concerne tale seconda domanda».
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
4. – Con ordinanza interlocutoria 18202/2023, la Sezione Prima civile ha rimesso la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, comma 3, c.p.c., sulla questione «se possano o meno assumere rilievo, ai fini di radicare la giurisdizione del giudice italiano, la rinuncia a una delle domande connesse originariamente proposte o una circostanza sopravvenuta allegata (la decisione di nullità del modello comunitario), anche ai fini della violazione e mancata applicazione dell’art. 5 c.p.c., come interpretato da questo giudice di legittimità, ove intervenute nel termine per le repliche conclusionali in appello o successivamente, e se la mancata fissazione dell’udienza di discussione della causa, nonostante la rituale richiesta di una delle parti, comporti di per sé la nullità della sentenza, alla luce dei principi di diritto affermati nella sentenza delle Sezioni unite n. 36596/2021».
La causa è, quindi, pervenuta alle Sezioni unite.
Il Procuratore generale dr. Stanislao De Matteis ha chiesto l’accoglimento dei motivi primo, secondo e quarto del ricorso, con assorbimento del terzo.
Entrambe le parti hanno depositato le memorie per la pubblica udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. – Con il primo motivo, la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 1, c.p.c., l’erroneità dell’esclusione della giurisdizione italiana per falsa applicazione del CE n. 6/2002 e per non applicazione del reg. UE n. 1215/2012, in conseguenza della rinuncia alla domanda di accertamento negativo di contraffazione di design, da essa operata nella memoria di replica in appello.
In tal modo, non vi era più attrazione, ai fini della giurisdizione, della domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale in quella sull’accertamento negativo della contraffazione, avendo Cuki rinunciato, in sede di memoria di replica in appello ex art. 190 c.p.c., alla domanda di accertamento negativo di contraffazione del modello comunitario di Novalis, con conseguente necessità di individuare la giurisdizione, per la sola domanda rimasta, attraverso l’applicazione del reg. UE n. 1215/2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, e specificamente dell’art. 7, che, in materia di illeciti civili, dolosi e colposi, indica, ai fini dell’individuazione della giurisdizione, il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire.
La Corte d’appello si è pronunciata su di una domanda rinunciata, e ciò costituisce anche violazione dell’art. 112 c.p.c. per ultrapetizione.
1.2. – Con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 1, c.p.c., censura l’erroneità dell’esclusione della giurisdizione italiana per falsa applicazione del CE n. 6/2002, in luogo del reg. UE n. 1215/2012, in conseguenza di un mutamento di fatto, dal giudice però non considerato.
Infatti, la Corte d’appello non ha esaminato la circostanza sopravvenuta, allegata in quella sede, relativa alla decisione della Commissione dei ricorsi dell’EUIPO di nullità del modello comunitario della controparte, con conseguente carenza di interesse ad agire e cessazione della materia del contendere sulla domanda originaria di accertamento negativo della contraffazione, donde la necessità di applicazione, ai fini della giurisdizione sulla sola domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale, non dell’art. 6 reg. CE n. 6/2002, in difetto di domande connesse e di un modello comunitario, ma dell’art. 7.2 reg. n. 1215/2012; deduce, inoltre, nel presente giudizio di legittimità, quale ulteriore fatto sopravvenuto, la sentenza definitiva di nullità del modello comunitario da parte del Tribunale UE.
Nelle ipotesi di c.d. concorrenza sleale pura, siano esse di accertamento positivo o negativo, l’azione di accertamento dell’illecito anticoncorrenziale rientra nella nozione di “fattispecie illecita” di cui, ratione temporis, all’art. 5.3 Reg. UE n. 44/2001 o all’art. 7.2. Reg. UE n. 1215/2012, quale forum commissi delicti, nella specie l’Italia, dove la ricorrente produce e commercializza i prodotti.
1.3. – Con il terzo motivo, si deduce la nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi dell’art. 360, comma 2, n. 4, c.p.c., per la mancata fissazione dell’udienza di discussione orale richiesta ex 352, comma 2, c.p.c., con conseguente lesione del diritto di difesa della appellante.
Invero, essendo la decisione della Commissione dei ricorsi dell’EUIPO di nullità del modello comunitario di Novelis intervenuta il 1° febbraio 2021, dopo lo scadere delle preclusioni istruttorie e del termine di deposito delle memorie conclusionali e di replica, essa aveva confidato nella fissazione di un’udienza di discussione orale della causa, richiesta in sede di precisazione delle conclusioni e reiterata in sede di memorie di replica, con istanza al Presidente della Corte, e comunque aveva, in data 4 febbraio 2021, depositato tale decisione, formulando istanza di rimessione in termini: ma la Corte d’appello, pur riservato l’esame dell’istanza suddetta in sede decisoria, nella sentenza impugnata non ha affatto considerato la decisione di nullità.
1.4. – Con il quarto motivo censura la violazione o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 2, n. 3, c.p.c., dell’art. 5 c.p.c. e della ratio della perpetuatio iurisdictionis.
La mancata valutazione, da parte della Corte d’appello, del fatto sopravvenuto consistente nella decisione di nullità del modello comunitario viola l’art. 5 c.p.c., in quanto il principio della perpetuatio iurisdictionis non trova applicazione nel caso in cui il mutamento dello stato di diritto o di fatto comporti l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della proposizione della domanda, sebbene la circostanza sopravvenuta sia intervenuta oltre l’udienza di precisazione delle conclusioni in appello.
2. – Il primo ed il quarto connesso motivo sono fondati, con assorbimento degli altri.
2.1. – La parte appellante ed odierna ricorrente, nel corso del giudizio di appello, con la memoria di replica del 18 gennaio 2021, oltre a ribadire la già formulata istanza di fissazione dell’udienza di discussione orale ai sensi dell’art. 352 p.c., provvide altresì a rinunciare alla domanda di accertamento negativo di contraffazione del modello comunitario in titolarità della controparte.
Come la ricorrente ricorda nel ricorso, ivi chiese quanto segue:
«In replica alla comparsa conclusionale ex adverso depositata, nonché alla luce delle ultime interpretazioni giurisprudenziali e dottrinali, la scrivente difesa: (…) rinuncia alla domanda di accertamento negativo di contraffazione del modello comunitario di Novelis» (cfr. p. 2 della memoria di replica in appello).
2.2. – La rinuncia alla domanda o ai suoi singoli capi può intervenire in sede di comparsa conclusionale o di memoria di replica, nonostante la natura semplicemente illustrativa di tali atti.
Da un lato, invero, è noto il principio secondo cui gli scritti conclusivi di parte, comparsa conclusionale e memoria di replica, sono volti ad illustrare quanto già discusso, senza poter contenere nova.
Dall’altro lato, tuttavia, è altrettanto ammessa la restrizione del thema decidendum, in forza della rinuncia a qualche capo di domanda o ad eccezione in precedenza formulate, che resta nella disponibilità del soggetto processuale non solo fino al momento della precisazione delle conclusioni, ma anche in séguito, come nella comparsa conclusionale o anche nella memoria di replica (per la conclusionale, cfr. Cass. 26 giugno 2015, n. 13203, in motivazione; Cass. 15 aprile 2014, n. 8737; Cass. 17 dicembre 2013, n. 28146, in motivazione; Cass. 25 agosto 1997, n. 7977; e già Cass. n. 2434/1971; Cass. n. 334/1965).
Anche dopo la precisazione delle conclusioni, a preclusioni ormai maturate, se è vietato estendere il thema decidendum attraverso nuove domande ed eccezioni che non potrebbero essere confutate ex adverso, va però consentito di restringerlo, mediante rinuncia a una delle domande, ad uno o più capi di essa, od alle eccezioni.
Per il principio dispositivo, infatti, va sempre ammesso che la parte rinunci alla sua domanda o a parti di essa, come si ricava dallo stesso art. 306 c.p.c. (cfr., di recente, Cass. 17 marzo 2023, n. 7883, sui concetti di rinuncia agli atti, all’azione, al diritto o alla domanda).
Si opera, invero, in tal modo una restrizione del thema decidendum, che è sempre permessa.
Nel completo rispetto del contraddittorio, peraltro, proprio per il fatto che si tratta di un caso eccezionale di modifica delle proprie richieste, sia pure in senso restrittivo, il giudice potrà provvedere, se ritenga rilevante la modifica ai fini delle difese, alla rimessione della causa sul ruolo al fine di estendere la discussione alla situazione creatasi a domanda o capi di domanda rinunciati.
Non ha, dunque, ragione di porsi la perplessità avanzata nell’ordinanza interlocutoria, secondo cui la rinuncia potrebbe restare inefficace, in quanto la prospettazione di un parzialmente diverso thema decidendum influenzerebbe la questione di giurisdizione.
Il bilanciamento tra il principio dispositivo, che rende la parte sovrana delle sue scelte difensive e delle domande poste al giudice, e gli effetti che esso produce per tutte le parti del giudizio è stato risolto dal legislatore mediante la prevalenza del primo, presentando invero il sistema le modalità procedurali per assicurare, come ora esposto, il pieno rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa di tutte le parti in causa.
2.3. – Ne deriva la fondatezza del quarto connesso motivo.
Costituisce principio consolidato che la regola di irrilevanza delle sopravvenienze, stabilita dall’art. 5 c.p.c., essendo diretta a favorire la perpetuatio iurisdictionis, non ad impedirla, trova applicazione solo nel caso di sopravvenuta carenza di giurisdizione del giudice originariamente adìto, non anche qualora il mutamento dello stato di diritto o di fatto comporti, invece, l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della proposizione della domanda (Cass. 8 ottobre 2014, n. 21221; già Cass., sez. un., n. 6532/2008, n. 4820/2005, n. 2415/2002 e n. 225/2001). Ed invero, l’art. 5 c.p.c. va interpretato in conformità alla sua ratio di favorire, non già di impedire, la perpetuatio iurisdictionis, onde, ove sia stato adito un giudice incompetente al momento della domanda, l’incompetenza non può essere dichiarata se quel giudice è diventato competente (Cass. 5 gennaio 2022, n. 214).
Nella specie, trattandosi di applicare l’art. 7.2 del Regolamento n. 1215/2012 – che, al pari del precedente disposto (art. 5, punto 3, regolamento Cee n. 44/2001), rende competente l’«autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire» – il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire è quello in cui è avvenuta la lesione del diritto, senza avere riguardo al luogo in cui si sono verificate o potrebbero verificarsi le conseguenze future di tale lesione (cfr., fra le altre, Cass. 12 marzo 2019, n. 7007; Cass., sez. un., 27 dicembre 2011, n. 28811; Cass., sez. un., 5 luglio 2011, n. 14654; Cass., sez. un., 5 maggio 2006, n. 10312; e v., inter alia, Corte di giustizia dell’Unione europea 16 giugno 2016, C-12/15).
Infatti, in tema di giurisdizione del giudice italiano, quando la domanda abbia per oggetto un illecito extracontrattuale trova applicazione il criterio di individuazione della giurisdizione fissato dall’art. 7, n. 2, Regolamento UE n. 1215 del 2012, a mente del quale una persona domiciliata in uno stato membro può essere convenuta in un altro stato membro, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire; alla luce di tale criterio e della chiara e costante interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia dell’Unione europea, la giurisdizione si radica o nel luogo in cui si è concretizzato il danno o, in alternativa, a scelta dell’attore danneggiato, in quello dove si è verificato l’evento generatore di tale danno, coincidendo il primo, quando il danneggiato è persona giuridica, normalmente con la sua sede statutaria (Cass., sez. un., 15 dicembre 2020, n. 28675; Cass., sez. un., 9 febbraio 2021, n. 3125), dato che ai fini della individuazione della giurisdizione in tema di risarcimento del danno, ai sensi del Regolamento UE n. 1215 del 2012 deve intendersi “luogo dell’evento dannoso” sia quello in cui ha avuto luogo la condotta lesiva, sia quello in cui il danno si è concretizzato avendo riguardo al “danno iniziale” e non alle conseguenze negative derivanti da un pregiudizio verificatosi altrove (Cass., sez. un., 17 maggio 2023, n. 13504), come questa Corte ha costantemente ritenuto.
3. – In accoglimento dei motivi primo e quarto, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio della causa innanzi al Tribunale di Torino, in diversa composizione, per la decisione della Al medesimo si demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, accoglie il primo ed il quarto motivo di ricorso, assorbiti il secondo ed il terzo; dichiara la giurisdizione del giudice italiano; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Torino, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 novembre
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 26 giugno 2023, n. 18202, per SS.UU, 07 febbraio 2024, n. 3453, in tema di rinuncia alla domanda
SS.UU, 07 febbraio 2024, n. 3453, in tema di rinuncia alla domanda
In tema di mediazione obbligatoria – SS.UU, 07 febbraio 2024, n. 3452
Civile Sent. Sez. U Num. 3452 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: NAZZICONE LOREDANA
Data pubblicazione: 07/02/2024
SENTENZA
sul procedimento di rinvio pregiudiziale iscritto al n. 12668-2023, disposto dal Tribunale di Roma con ordinanza emessa il 13/06/2023, nel processo tra:
BOCCEA GESTIONI IMMOBILIARI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Alessandro Balestra;
e
ANGILERI GIOVAN BATTISTA, rappresentato e difeso dall’avvocato Stefania Arduini.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/11/2023 dal Consigliere LOREDANA NAZZICONE;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale FULVIO TRONCONE, il quale conclude come da requisitoria scritta, con affermazione dei principi di diritto riportati, per cui la domanda riconvenzionale è sottoposta all’obbligo di mediazione, salvo risulti prima facie inammissibile o non in grado comunque di incidere sulle rispettive posizioni sostanziali della vicenda oggetto di lite.
FATTI DI CAUSA
La Boccea Gestioni Immobiliari s.r.l. ha chiesto con ricorso al Tribunale di Roma l’accertamento della risoluzione del contratto di locazione concluso con il suo conduttore per avveramento della condizione risolutiva pattuita, per la perdita dei requisiti soggettivi ex l. n. 203 del 1991 o per scadenza del termine, con la condanna al rilascio del bene.
Il resistente ha chiesto il rigetto delle domande o, nel caso di loro accoglimento ed in via riconvenzionale, la condanna di controparte alla restituzione del deposito cauzionale di € 900,00, con gli interessi legali.
La procedura di mediazione si è svolta regolarmente sulle domande principali, non sulla riconvenzionale ed il Tribunale ha ritenuto quindi di operare il rinvio alla S.C., ai sensi dell’art. 363- bis c.p.c., in ordine alla proponibilità della domanda riconvenzionale, quando la causa rientri tra quelle a mediazione obbligatoria ex art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 e la mediazione sia stata già effettuata, anteriormente alla prima udienza, in relazione alla domanda di parte attrice.
La Prima Presidente ha assegnato la questione sollevata con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale alle Sezioni Unite civili per l’enunciazione del principio di diritto.
Il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dr. Fulvio Troncone, ha depositato requisitoria scritta, chiedendo di enunciare il principio di diritto secondo cui anche la domanda riconvenzionale è sottoposta all’obbligo di mediazione, salvo risulti prima facie inammissibile o non in grado comunque di incidere sulle rispettive posizioni sostanziali della vicenda oggetto di lite.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – La questione. L’ordinanza di rinvio pregiudiziale ex 363-bis c.p.c. pone la questione di diritto se, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, sussista l’obbligo di provvedere alla mediazione nel caso di proposizione di una domanda riconvenzionale, ove la mediazione sia stata già ritualmente effettuata, anteriormente alla prima udienza, in relazione alla sola domanda principale.
Reputano le Sezioni unite di risolvere tale questione escludendo che il tentativo obbligatorio di conciliazione sia condizione di procedibilità della proposizione della domanda riconvenzionale, alla stregua delle seguenti considerazioni.
2. – La diversa natura delle domande riconvenzionali astrattamente proponibili in giudizio. Gli interpreti sogliono distinguere tra domanda riconvenzionale collegata all’oggetto della lite e domanda riconvenzionale ad essa “eccentrica”.
La prima tipologia emerge dal sistema positivo processuale, come interpretato nel c.d. diritto vivente, secondo cui l’ammissibilità delle domande riconvenzionali, avanzate dal convenuto nel giudizio introdotto in via principale dall’attore, è subordinata alla comunanza del titolo già dedotto in giudizio dall’attore o da quello che appartiene alla causa come mezzo di eccezione – come recita l’art. 36 c.p.c. – ma al solo fine di ritenerle devolute al medesimo in quanto rientrino nella sua competenza per materia o per valore.
Analoga “comunanza” della lite si richiede, peraltro, al fine di reputare ammissibile la domanda riconvenzionale, che pure non importi lo spostamento di competenza: invero, del pari, in tal caso la giurisprudenza di legittimità esige «un qualsiasi rapporto o situazione giuridica in cui sia ravvisabile un collegamento obbiettivo tra domanda principale e domanda riconvenzionale, tale da rendere consigliabile e opportuna la celebrazione del simultaneus processus» (già Cass. 19 ottobre 1994, n. 8531; nonché, tra le tante, Cass. 14 gennaio 2005, n. 681; Cass. 4 luglio 2006, n. 15271; Cass. 15 gennaio 2020, n. 533; Cass. 4 marzo 2020, n. 6091).
Tale collegamento oggettivo, che rende opportuno il simultaneus processus, viene rimesso alla valutazione discrezionale del giudice di merito, al quale è richiesto unicamente di motivare al riguardo, in particolare ove ritenga la riconvenzionale inammissibile.
Resta, però, fermo in entrambi i casi ricordati – domanda riconvenzionale che ecceda, oppure no, la competenza del giudice della causa principale – il detto principio circa la necessaria esistenza di un “collegamento oggettivo con l’oggetto” che già appartiene al giudizio.
Dall’altra parte si pone la seconda tipologia di domande afferente alla nozione di riconvenzionale c.d. eccentrica: la quale, per sottrazione, indica quella in nessun modo “obiettivamente ricollegabile all’oggetto” della causa.
La genericità dei termini, alla luce dei precedenti di merito editi e di legittimità, ha reso, però, tutt’altro che rara l’estensione della lite fra le parti, proprio sul profilo se debba ritenersi sussistente un tale “collegamento oggettivo”; mentre poi una pluralità di indici positivi, presenti nell’ordinamento, conduce a non differenziare affatto le due tipologie indicate, quanto agli effetti, che ora interessano, della sottoposizione all’obbligo della preventiva mediazione, quale condizione di proponibilità della domanda riconvenzionale.
3. – Ragioni dell’esclusione della mediazione obbligatoria per le domande riconvenzionali.
3.1. – La disciplina. Con l’art. 5, comma 1-bis, lgs. n. 28 del 2010 è stata reintrodotta nell’ordinamento – dopo la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto legislativo ad opera di Corte cost. n. 272 del 2012 per eccesso di delega – la mediazione civile, quale condizione di procedibilità delle domande giudiziali relative a talune materie.
Si prevede quindi che «[c]hi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di (…) è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione», quale «condizione di procedibilità della domanda giudiziale».
È altresì disposto che l’improcedibilità sia «eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza. Il giudice, quando rileva che la mediazione non è stata esperita o è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6» ossia, tre mesi, più tre su accordo delle parti (così i commi 1 e 2, a seguito della sostituzione dell’intero art. 5 ad opera dell’art. 7, comma 1, lett. d, d.lgs. n. 149 del 2022).
Dunque, chi intenda esercitare una di simili liti è tenuto, preliminarmente, a tentare la composizione stragiudiziale della controversia mediante l’esperimento del procedimento disciplinato dal d.lgs. medesimo, il cui svolgimento è affidato ad appositi organismi di mediazione.
Tale condizione di procedibilità della domanda giudiziale è un presupposto processuale, il cui difetto è sanabile retroattivamente, qualora il giudice rilevi il mancato esperimento del tentativo o la sua pendenza, per permetterne la conclusione.
Non si parla di “sospensione” in senso tecnico, trattandosi di un mero rinvio, ma questo comporta pur sempre un differimento della trattazione della causa; il quale, inoltre, non necessariamente sarà contenuto nei pochi mesi indicati dal legislatore, essendo «dopo la scadenza» previsione relativa solo al termine minimo, non massimo, il quale ultimo invece necessariamente seguirà le esigenze del calendario del giudice.
3.2. – Le riconvenzionali “non eccentriche”. Con riguardo alla riconvenzionale d. non eccentrica, la lettera e la ratio della disposizione inducono a ritenerla non sottoposta alla condizione della mediazione obbligatoria, in quanto si collega all’oggetto del processo già introdotto dall’attore.
Infatti, la legge non prevede espressamente né che la riconvenzionale sia sottoposta a mediazione obbligatoria, né le modalità processuali di tale eventualità; ed il legislatore, pur intervenuto anche recentemente sul tema quando la questione in esame era ampiamente emersa, nulla ha ritenuto di disporre al riguardo.
L’istituto processuale in questione si inserisce in un contesto riformatore che esprime la ratio di costituire «una reale spinta deflattiva e contribuire alla diffusione della cultura della risoluzione alternativa delle controversie» (così la relazione illustrativa al d.lgs. n. 28 del 2010).
Ciò, al fine di preservare la “risorsa” della giurisdizione, nella «consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera» (Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77).
Da ciò l’adozione degli istituti processuali diretti, in via preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali le misure di Adr (Alternative dispute resolution), cui sono riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede arbitrale; nella stessa linea è la previsione generale del codice di rito civile, con gli artt. 185 e 185- bis c.p.c., relativi al tentativo di conciliazione ed alla formulazione della proposta di conciliazione da parte del giudice.
Si noti – sin d’ora – come anche il giudice delle leggi abbia avvicinato, quanto alla ratio di indurre le parti a conciliarsi nell’intento di economizzare la risorsa giustizia, gli strumenti c.d. alternativi, quale la mediazione, all’attività del giudice stesso nel processo: il quale, in adempimento di un suo compito essenziale, conoscendo gli atti e le parti, ha tutto l’agio e le competenze per tentare la conciliazione lungo tutto il corso del processo, così come ora prevede l’art. 185-bis c.p.c., «fino al momento in cui fissa l’udienza di rimessione della causa in decisione» (non solo «alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione», come recitava la norma prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149 del 2022).
La mediazione rientra tra le disposizioni «finalizzate, unitamente alle altre adottate in materia di giustizia, alla realizzazione dei comuni e urgenti obiettivi – a loro volta preordinati al rilancio dell’economia – del miglioramento dell’efficienza del sistema giudiziario e dell’accelerazione dei tempi di definizione del contenzioso civile» (Corte cost. 18 aprile 2019, n. 97). «Si è al cospetto, pertanto, di un procedimento contraddistinto dall’obbligatorietà, che deve essere espletato, pena l’improcedibilità della domanda, prima dell’instaurazione di una lite giudiziaria.
Esso, di conseguenza, condiziona, in determinate materie, l’esercizio del diritto di azione» (Corte cost. 20 gennaio 2022, n. 10).
L’istituto pone una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, specificamente «con finalità deflattiva» (Corte cost. 20 gennaio 2022, n. 10 e 18 aprile 2019, n. 97, citt.).
La mediazione, con l’auspicata conciliazione, delle controversie mira a transigere le liti, evitando, in tal modo, che il soggetto debba ottenere soddisfazione attraverso gli organi di giustizia, con elevati costi e tempi, che nocciono alla parte, come al sistema giudiziario nel suo complesso. Il fine, dunque, è l’auspicata non introduzione della causa, risolta preventivamente innanzi all’organo apposito, in via stragiudiziale.
Ciò induce a ritenere che la riconvenzionale c.d. non eccentrica non sia sottoposta alla condizione della mediazione obbligatoria. La mediazione è stata già esperita senza esito positivo, prima del processo o nel termine concesso dal giudice, dall’attore: onde la condizione di procedibilità è soddisfatta e la lite pende ormai innanzi ad un giudice, che ne resta investito.
La mediazione obbligatoria si collega non alla domanda sic et simpliciter, ma al processo, che ormai è pendente, onde, essendo la causa insorta, la funzione dell’istituto viene meno, non avendo avuto l’effetto di prevenzione per la instaurazione del processo: in quanto essa si collega alla causa, non alla domanda come tale, in funzione deflattiva del processo.
Pertanto, una volta che la domanda principale sia stata regolarmente proposta dopo che la mediazione abbia già fallito l’obiettivo, una nuova mediazione obbligatoria relativa alla domanda riconvenzionale – pur volendo trascurare ogni previsione sulle sue possibilità di successo, che non rilevano a questi fini interpretativi – non realizzerebbe, in ogni caso, il fine di operare un «filtro» al processo innanzi ad un organo della giurisdizione. Il giudice è già investito della controversia introdotta dall’attore, di cui non verrebbe ormai spogliato, neppure se il tentativo sulla domanda del convenuto avesse esito positivo, dovendo il processo proseguire per la decisione sulla domanda principale e, dunque, al più, con una mera “riduzione” del suo oggetto.
Posto che l’istituto ha esclusive finalità di economia processuale, nel senso di evitare il proliferare di cause iscritte innanzi all’organo giudiziario, imporre un successivo, o più successivi ad ogni ulteriore domanda proposta nel giudizio, tentativi obbligatori di conciliazione, nel contempo differendo la trattazione della causa per mesi ad ogni nuova domanda proposta in giudizio, è un effetto eccessivo non voluto dalla norma rispetto allo scopo deflattivo perseguito.
3.3. – Le riconvenzionali “eccentriche”. Resta da considerare il caso della proposizione della riconvenzionale d. eccentrica alla lite, che allarga l’oggetto del giudizio senza connessione con quello già introdotto dalla parte attrice.
Qui, ad escludere la condizione di procedibilità concorrono – accanto alla ratio normativa di deflazione dei processi richiamata – ulteriori criteri d’interpretazione: quali il principio della certezza del diritto, che si oppone alla causazione di ulteriore contenzioso sul punto, e quello della ragionevole durata del processo.
3.3.1. – Sotto il primo profilo, occorre rilevare l’inadeguatezza di soluzioni intermedie, al fine di preservare il bene della certezza del diritto.
Nei precedenti relativi alle controversie agrarie, ai sensi dell’art. 46 l. 3 maggio 1982, n. 203, la S.C. ritiene che il tentativo di conciliazione debba precedere anche la domanda riconvenzionale da parte del convenuto (cfr. Cass. 11 novembre 2022, n. 33379; Cass. 26 maggio 2014, n. 11644; Cass. 23 agosto 2013, n. 19501, in motivazione; Cass. 14 novembre 2008, n. 27255; Cass. 15 luglio 2008, n. 19436; Cass. 16 novembre 2007, n. 23816; Cass. 18 gennaio 2006, n. 830; Cass. 28 luglio 2005, n. 15802; Cass. 2 agosto 2004, n. 14772, ove non è massimato questo punto; Cass. 22 ottobre 2002, n. 14900; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2388; Cass. 8 giugno 1999, n. 5613; Cass. 1° dicembre 1998, n. 12196; Cass. 7 marzo 1992, n. 2753).
Peraltro, l’immanente insoddisfazione per la soluzione, attesi tutti gli inconvenienti sopra indicati e che vengono all’evidenza avvertiti dai giudici, ha indotto a compiere una serie di distinguo: i quali, se riescono a scongiurare alcuni di quegli inconvenienti, sono forieri poi di un pregiudizio assai più rilevante all’ordinamento nel suo complesso, ossia la compromissione del principio fondante della certezza del diritto, il quale, come è noto, non è un principio come gli altri, ma è essenziale espressione dello Stato costituzionale di diritto, a fini anche di uguaglianza.
Così, si afferma che il convenuto in riconvenzionale sia onerato dal tentativo di conciliazione, ma solo se:
i) «la domanda riconvenzionale vada ad ampliare l’ambito della controversia rispetto ai limiti posti alla stessa in sede di esperimento del tentativo di conciliazione di cui alla domanda principale» (Cass. 26 maggio 2014, 11644; Cass. 23 agosto 2013, n. 19501, in motivazione; Cass. 14 novembre 2008, n. 27255; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2388; Cass. 4 aprile 2001, n. 4982; Cass., 26 febbraio 1998, n. 2117);
ii) «la riconvenzionale investa aspetti nuovi della controversia, che se conosciuti e valutati dalle parti unitamente a quelli per i quali vi è già vertenza giudiziaria, potrebbero condurre ad una definizione bonaria della lite, evitando l’intervento del giudice» (Cass. 27 aprile 1995, 4651), in quanto «si espongono aspetti nuovi della controversia che, se conosciuti anticipatamente, avrebbero potuto condurre ad una definizione bonaria della controversia» (Cass. 14 novembre 2008, n. 27255, la quale reputa, sulla base di tale premessa, non ampliati i confini della controversia dalla domanda riconvenzionale di risarcimento del danno, ove lo sforzo di affermare che «la domanda principale era diretta a sentire dichiarare la validità ed efficacia del contratto di soccida inter partes e, pertanto, implicitamente, la verifica che nessun inadempimento si era verificato da parte dell’attore»; ivi i giudici del merito avevano ritenuto, al fine di dimostrare come per effetto della riconvenzionale si sia avuto un ampliamento della materia del contendere, rilevante che si fosse posta l’esigenza di espletamento della c.t.u. riconnessa proprio alla domanda riconvenzionale e non a quella di pagamento formulata dalla soccidaria; Cass. 1° dicembre 1999, n. 13359; Cass. 8 giugno 1999, n. 5613);
iii) «la domanda stessa [non] si ricolleghi direttamente al contrasto tra le parti ed alle pretese fatte valere dall’attore che abbia esperito la procedura in questione» (Cass. 8 agosto 1995, 8685);
iv) «il convenuto [non] abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dall’attore» (Cass. 16 novembre 2007, 23816; Cass. 14 luglio 2003, n. 10993; Cass. 17 gennaio 2001, n. 593; Cass. 8 agosto 1995, n. 8685; Cass. 5 ottobre 1995, n. 10447).
Dunque, la tesi in esame afferma la necessità del tentativo anche per la domanda riconvenzionale, ma con distinzioni casistiche.
Peraltro, i tanti distinguo rivelano l’imbarazzo, percepito dalle stesse decisioni che li propongono, di ritardare il processo con ulteriori oneri, quando le parti comunque non siano addivenute ad un accordo bonario palesando una indisponibilità al riguardo: onde si palesa trattarsi di un adempimento non conforme al parametro di ragionevolezza, in quanto non funzionale allo scopo di evitare l’intervento della giurisdizione mediante un componimento bonario della lite. In tal modo, essa è foriera di eccessiva incertezza del diritto.
È facile, invero, prevedere code e sviluppi contenziosi allorché, proposta la domanda riconvenzionale senza mediazione, si sostenga dall’una e dall’altra parte, secundum commoda, che la domanda riconvenzionale “amplia l’ambito”, si “ricollega al contesto”, concerne questioni “intorno alle quali il tentativo si è svolto”, “si ricolleghi direttamente al contrasto tra le parti ed alle pretese fatte valere dall’attore”, che nella domanda di conciliazione “erano già esposti tutti i fatti, nonché la valutazione giuridica degli stessi” o “il convenuto abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dall’attore” o che, con la sua nuova domanda, “espone aspetti nuovi della controversia che, se conosciuti anticipatamente, avrebbero potuto condurre ad una definizione bonaria della controversia”.
Ed invero, molti possono essere i profili e le questioni dubbie, se il linguaggio resta vago ed i concetti controvertibili. Non questo è il senso del tentativo obbligatorio di mediazione o di conciliazione, ma proprio il fine opposto deflattivo delle liti giudiziarie, nell’an e nel tempus.
Imporre di valutare se la domanda riconvenzionale «investa aspetti nuovi che se conosciuti e valutati dalle parti unitamente a quelli per i quali vi è già vertenza, giudiziaria, potrebbero condurre ad una definizione bonaria della lite, evitando l’intervento del giudice» (Cass. 27 aprile 1995, n. 4651) è ancora più arduo: impingendo così il criterio, invero, in una valutazione dello stato psicologico e dell’intendimento soggettivo presunto o ricostruito ex post (analogamente es. agli artt. 1419 e 1424 c.c.: dove però la scelta del legislatore ha ben altra ratio di conservazione degli atti giuridici e sicurezza dei traffici).
Con evidenti forzature, volta a volta, da parte del giudicante, cui neppure questa Corte è rimasta immune: come quando (Cass. 14 novembre 2008, n. 27255) ha ritenuto che, proposta domanda diretta a sentir dichiarare la validità ed efficacia del contratto di soccida inter partes, la domanda riconvenzionale di risoluzione per inadempimento e di risarcimento del danno fosse ricompresa nella prospettazione attorea, avente ad oggetto «implicitamente, la verifica che nessun inadempimento si era verificato da parte dell’attore», nonché fosse «irrilevante, al fine di pervenire ad una diversa conclusione, [è] la circostanza che solo nella riconvenzionale si invochino i danni assertivamente patiti dalla società convenuta a causa del comportamento di quella attrice, atteso – da una parte – che la richiesta di danni è consequenziale alla pronunzia di risoluzione, dall’altra, che … non è sufficiente un mero ampliamento del petitum perché sorga l’obbligo, per il convenuto in via riconvenzionale, di sollecitare un nuovo tentativo di conciliazione ai sensi della l. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46»; e che neppure, «al fine di dimostrare come per effetto della riconvenzionale si sia avuto un ampliamento della materia del contendere è sufficiente considerare che l’esigenza di espletamento della c.t.u. si riconnette proprio alla domanda riconvenzionale e non a quella di pagamento formulata dalla soccidaria», come invece reputato dal giudice di merito.
Ulteriore complicazione induce la tesi in discorso, laddove compaia il difensore in sede conciliativa, ove pure si fosse trattata ogni questione, e tuttavia ovviamente egli non avesse il mandato degli attori al riguardo (cfr. Cass. 23 agosto 2013, n. 19501).
3.3.2. – Sotto il secondo profilo, sussistono limiti, individuati dallo stesso legislatore positivo e dal giudice delle leggi, contro l’allungamento dei tempi dovuti alla mediazione obbligatoria ed altri simili istituti, in ossequio al principio di ragionevole durata del processo.
3.3.2.1. – L’esigenza di non cadere in soluzioni controproducenti emerge con chiarezza, invero, dalle regole positive dettate dal legislatore, nel testo normativo in esame ed il altri similari, sul piano della interpretazione teleologica e avuto riguardo allo scopo perseguito dal legislatore
i) Anzitutto, nell’art. 23, secondo comma, d.lgs. n. 28 del 2010 è stabilito che «Restano ferme le disposizioni che prevedono i procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati, nonché le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione relativi alle controversie di cui all’art. 409 del codice di procedura I procedimenti di cui al periodo precedente sono esperiti in luogo di quelli previsti dal presente decreto». In tal modo, si è voluto escludere il concorso di analoghi istituti.
Del pari, l’art. 3, primo comma, secondo periodo, d.l. n. 132 del 2014, conv. nella l. n. 162 del 2014 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile) prevede la convenzione di negoziazione assistita per chi intende proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro, ma «fuori dei casi previsti … dall’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28».
Infine, la medesima prospettiva restrittiva emerge dai commi 3 e 6 dell’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010, rispettivamente concernenti altre specifiche procedure e peculiari esclusioni.
Dunque, l’“eccesso di mediazione” è stato temuto e scongiurato dal legislatore mediante le riportate previsioni, ed altre analoghe, che escludono l’ipotesi del concorso di diverse procedure di conciliazione o mediazione obbligatoria, o altre condizioni di procedibilità «comunque denominat[e]»: dettando una disciplina che risolve, in tal modo, il concorso tra la mediazione obbligatoria e le altre condizioni di procedibilità della domanda giudiziale, escludendo un doppio e contemporaneo “filtro alla giurisdizione”, ma optando, invece, per l’alternatività di procedure. Una diversa soluzione, invero, avrebbe determinato una gravosa duplicazione di costi superflui per le parti, attesa la necessità di assistenza difensiva in tutte le procedure, onde avrebbe finito per costituire, piuttosto, un serio ostacolo al raggiungimento di una soluzione conciliativa e causa di ritardo nella soluzione della lite insorta.
ii) A ciò si aggiunga il disposto dell’art. 5, comma 2, secondo periodo, lgs. n. 28 del 2010, secondo cui «L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza». Il legislatore ha dunque, pur nel favor per la soluzione alternativa delle controversie, circoscritto la condizione di improcedibilità al rilievo d’ufficio o all’eccezione di parte entro un limite processuale assai ristretto (la prima udienza).
iii) Nella stessa direzione milita la generale previsione di una durata massima del procedimento di mediazione – fissata in tre mesi, prorogabile di ulteriori tre mesi dopo la sua instaurazione e prima della sua scadenza con accordo scritto delle parti – ai sensi dell’art. 6 d.lgs. n. 28 del 2010, termine, inoltre, neppure soggetto a sospensione feriale: a confermare che per il legislatore il tentativo è utile e necessario, ma solo se esperito in tempi definiti e non foriero, invece, di ulteriori
iv) Ancora, espressamente l’art. 7 d.lgs. n. 28 del 2010 si preoccupa del principio della ragionevole durata del processo: stabilendo che «Il periodo di cui all’articolo 6 e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2 e dell’articolo 5-quater, comma 1, non si computano ai fini di cui all’articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89». Al di là dell’intervento restrittivo di Corte cost. 6 dicembre 2012, n. 272, come delle perplessità in dottrina sollevate circa la reale precettività della disposizione ai fini del computo del termine ragionevole di cui all’art. 6 Cedu (quanto alla possibilità di escludere il tempo utilizzato per il procedimento di mediazione, ove questo costituisca, in virtù del diritto interno, un presupposto indispensabile per l’accesso alla tutela giurisdizionale), il punto è che il conflitto con il fondamentale principio della ragionevole durata è avvertito chiaramente dallo stesso legislatore.
3.3.2.2. – Quanto al giudice delle leggi, se è costante nel ritenere non violato dalla mediazione obbligatoria l’art. 24 Cost., laddove questo tutela il diritto di azione, in quanto détto principio «non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare ”interessi generali”, con le dilazioni conseguenti», interessi individuati nell’evitare «che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario… provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento» e nel favorire «la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quella conseguita attraverso il processo» (Corte cost. 13 luglio 2000, n. 276; e già sent. n. 46 del 1974; n. 47 del 1964; nn. 56, 83 e 113 del 1963; n. 40 del 1962), resta tuttavia il rilievo del principio generale di ragionevolezza delle restrizioni a tale diritto, in ispecie in comparazione con un reale effetto positivo dell’istituto conciliativo: ossia per gli scopi, ora ricordati, di non investire affatto il giudice della lite e di dare presto a questa soluzione stragiudiziale, nei limiti, quindi, in cui tale effetto positivo verosimilmente sussista, e non sia, invece, irragionevolmente ed inevitabilmente soppiantato da ritardi non più giustificabili, perché non idonei a realizzare détti scopi.
Le previsioni ricordate ai punti precedenti hanno un’indubbia valenza sistematica, al fine dell’individuazione di un «appropriato meccanismo di coordinamento, ispirato alla considerazione necessariamente unitaria della vicenda sostanziale dedotta in giudizio e all’esigenza di salvaguardare la ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), senza vanificare, con inutili intralci, l’effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.)», secondo l’esigenza ravvisata dalla Corte costituzionale (Corte cost. 12 dicembre 2019, n. 266, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1, secondo e terzo periodo, e 5, d.l. n. 132 del 2014).
La Corte costituzionale da tempo rileva che, se simili strumenti «tendono, infatti, ad evitare l’abuso del diritto alla tutela giurisdizionale, nondimeno l’adempimento di un onere, lungi dal costituire uno svantaggio per il titolare della pretesa sostanziale, rappresenta il modo di soddisfazione della posizione sostanziale più pronto e meno dispendioso»: proprio lo scongiurare «l’abuso… della giurisdizione, in vista di un interesse della stessa funzione giurisdizionale, è stato sovente la ratio espressa della “giurisdizione condizionata”. Il principio di economia processuale, inteso come più efficace e pronta soluzione dei conflitti, ha solitamente fondato la rispondenza dei condizionamenti censurati alla previsione costituzionale del diritto di azione» (Corte cost. 4 marzo 1992, n. 82).
In altre occasioni, la giurisprudenza costituzionale ha affermato la legittimità di quelle regole, che subordinano «l’esercizio dei diritti a controlli o condizioni, purché non vengano imposti oneri o modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale» (sent. 13 aprile 1977, n. 63), in particolare stabilendo che il tentativo di conciliazione riguardo alle cause agrarie non costituisce «adempimento vessatorio di difficile osservanza né un’insidiosa complicazione processuale tale da ledere il diritto di difesa dell’attore» (Corte cost. 21 gennaio 1988, n. 73).
Per la Corte costituzionale, dunque, la mediazione obbligatoria non viola il diritto di azione, sancito dalla Costituzione, soltanto laddove risulti idoneo a produrre il risultato vantaggioso del c.d. effetto deflattivo, senza mai divenire tale da provocare un inutile prolungamento dei tempi del giudizio.
Le indicazioni del giudice delle leggi additano, in sostanza, una linea di equilibrio fra il principio di azione di ordine costituzionale e le deroghe che possono esservi apportate in funzione di interessi di estrema rilevanza, ma confermano il carattere eccezionale delle ipotesi limitative: ne deriva che le condizioni di procedibilità stabilite dalla legge non possono essere aggravate da una interpretazione che conduca ad estenderne la portata (Cass. 21 gennaio 2004, n. 967, con riguardo alla conciliazione lavoristica).
Analogamente, come ricorda anche la relazione del Massimario, il principio della tutela giurisdizionale effettiva costituisce un principio generale del diritto comunitario, derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, sancito dagli artt. 6 e 13 della CEDU (intitolati, rispettivamente, “Diritto a un equo processo” e “Diritto a un ricorso effettivo”), oltre ad essere stato ribadito anche dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (intitolato “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”). Viene in rilievo anche l’art. 67, par. 4, TFUE, secondo il quale “l’Unione facilita l’accesso alla giustizia, in particolare attraverso il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziali ed extragiudiziali in materia civile”.
Con sentenza del 18 marzo 2010, C-317, C-318, C-319 e C- 320, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha escluso che il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 1, comma 11, della l. n. 249/1997 confligga col diritto comunitario (in particolare, con l’art. 34 della direttiva 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica), rimarcando come la conseguente restrizione ai diritti fondamentali degli utenti sia legittima, in quanto tesa al perseguimento di obiettivi di interesse generale e non sproporzionata rispetto a questi ultimi.
3.3.2.3. – Tutto quanto esposto indica l’esistenza un bilanciamento degli interessi, già operato dal legislatore positivo e confermato come legittimo dal giudice delle leggi: in quanto, se è vero che anche un ripetuto strumento conciliativo extragiudiziale potrebbe condurre, a volte, ad una soluzione favorevole della lite al secondo, al terzo o ulteriore tentativo, è pur vero che così si finirebbe per contraddire l’intento di rendere più rapida e meno onerosa per tutti la risoluzione della controversia, quando questa sia ormai comunque
Effetto deflattivo, ragionevole durata e divieto di inutili intralci sono, dunque, principî ampiamente presenti anche innanzi al giudice delle leggi.
L’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 estende a numerose materie la mediazione obbligatoria, al fine di evitare l’introduzione della lite ed assicurare una maggiore celerità al processo, non di ostacolarla oltre il ragionevole. Dovendosi dunque, piuttosto, secondo il legislatore pervenire – è la ratio sottesa – al processo ordinario, una volta infruttuosamente esperito il tentativo di mediazione in via obbligatoria senza che esso sia andato a buon fine, quale condizione di procedibilità da applicare al solo atto introduttivo, non a tutte le “domande” proposte nel processo.
Con il fine di auspicata riduzione dei generali tempi di definizione del contenzioso civile si porrebbe in irrimediabile contrasto l’effetto di estendere alla domanda riconvenzionale un ulteriore e ripetuto analogo tentativo. Invero, l’art. 5, comma 2, terzo periodo, d.lgs. n. 28 del 2010 prevede che il giudice, quando rileva che la mediazione non è stata esperita o conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di tre mesi (più tre, su accordo delle parti) di cui all’art. 6: con un inevitabile, ma dal legislatore ponderato, allungamento dei tempi processuali. In tal modo, se si reputasse obbligato anche il convenuto in riconvenzionale ad esperire la mediazione, i tempi si allungherebbero, però, in modo non prevedibile. Il differimento della trattazione, previsto dal legislatore quale strumento per contrastare l’elusione della condizione di procedibilità prescritta per la domanda introduttiva, si dilaterebbe oltre ogni modo: il rinvio necessariamente riguarderebbe non soltanto la trattazione della domanda riconvenzionale, ma l’intero giudizio, ivi compresa la domanda introduttiva, sebbene ormai procedibile, onde pure il pericolo di abusi ad opera del convenuto.
La mediazione obbligatoria svolge un ruolo proficuo, solo se non si presti ad eccessi o abusi. La mediazione, più che accertamento di diritti, è “contemperamento di interessi”, con semplicità di forme e rapidità di trattazione, anche senza verifiche fattuali: è una sorta di “esperimento” finalizzato ad un accordo negoziale, che va certamente tentato, nella prospettiva assunta dal legislatore, ma prima di intraprendere la causa in funzione di scongiurare la originaria iscrizione a ruolo, e che non avrebbe senso diluire e prolungare oltre misura.
Ma la soluzione che volesse sottoporre la domanda riconvenzionale a mediazione obbligatoria dovrebbe – per coerenza – essere estesa ad ogni altra domanda fatta valere in giudizio, diversa ed ulteriore rispetto a quella inizialmente introdotta dall’attore: non solo, quindi, la domanda riconvenzionale, ma anche la riconvenzionale a riconvenzionale (c.d. reconventio reconventionis), la domanda proposta da un convenuto verso l’altro, oppure da e contro terzi interventori, volontari o su chiamata.
Del pari, potrebbero esperirsi tante successive mediazioni non simultanee, con una assai poco efficiente gestione separata dei conflitti, che difficilmente condurrebbe ad un proficuo ed unitario accordo fra tutte le parti; mentre il processo necessariamente vedrebbe una trattazione disordinata e disarticolata, in attesa dell’esperimento di tanti tentativi di conciliazione stragiudiziali.
3.4. – Conclusioni. In definitiva, la mediazione obbligatoria ha la sua ratio nelle dichiarate finalità di favorire la rapida soluzione delle liti e l’utilizzo delle risorse pubbliche giurisdizionali solo ove effettivamente necessario: posta questa finalità, l’istituto non può essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alle predette finalità ed essere trasformato in una ragione di intralcio al buon funzionamento della giustizia, in un bilanciamento dal legislatore stesso operato, secondo una lettura costituzionale della disposizione in esame, affinché, da un lato, non venga obliterata l’applicazione dell’istituto, e dall’altro lo stesso non si determini una sorta di “effetto boomerang” sull’efficienza della risposta di giustizia.
Per ogni altro profilo, sussiste il compito generale del giudice, a fini di risparmiare risorse giurisdizionali e non emettere la sentenza, di tentare e proporre egli stesso la conciliazione (artt. 185, 185-bis c.p.c.), dove il tentativo di conciliazione potrà avere svolgimento con maggiore probabilità di esito positivo.
Va anche precisato che spetta al mediatore, nel diligente adempimento del suo incarico professionale, esortare le parti a mettere ogni profilo “sul tappeto”, ivi comprese altre richieste del convenuto. Ciò, ai sensi dell’art. 8, comma 3, d.lgs. n. 28 del 2010:
«Il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia», dunque l’intera lite tra di loro. L’accordo sarà ricompreso nella proposta di conciliazione ex art. 11 del d.lgs., secondo cui, se è raggiunto un accordo amichevole, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo, mentre, quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione; in ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento.
Piuttosto, la trattazione congiunta di più interessi di cui le varie parti siano portatrici sarà possibile all’interno dell’unico procedimento di mediazione: situazione che in diritto è ammessa ed in fatto è auspicabile, come è proprio delle funzioni di un bonario componimento degli interessi, affidato ad un terzo preparato ed estraneo alle parti.
La mediazione torna un modo attraverso il quale le parti provano a risolvere la lite, anche in maniera diversa dall’applicazione rigorosa delle norme che regolano la vicenda, ricercando un equilibrio tra i rispettivi interessi, purché questi vengano peraltro adeguatamente ponderati e non ridotti forzatamente “a pari merito”, il tutto innanzi ad un organo apposito, per scongiurare l’introduzione della lite innanzi ad un giudice.
4. – Principio di diritto. È enunciato il principio di diritto: «La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile».
5. – Trasmissione degli atti di causa. È disposta la restituzione degli atti al Tribunale di
6. – Spese. Non vi è luogo a provvedere sulle spese sostenute nel procedimento di rinvio pregiudiziale, non sussistendo in relazione ad esso una soccombenza riferibile alla iniziativa delle parti.
P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite, pronunciando sul rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Roma ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c. con ordinanza del 13 giugno 2023, enuncia il seguente principio di diritto: «La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile».
Dispone la restituzione degli atti al Tribunale di Roma.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 novembre
Allegati:
SS.UU, 07 febbraio 2024, n. 3452, in tema di mediazione obbligatoria
In tema di danno non patrimoniale – SS.UU, 01 febbraio 2017, n. 2611
Repubblica Italiana
In nome del Popolo Italiano
La Suprema Corte di Cassazione
Sezioni Unite Civili
r.g.n. 2954/15
Cron.2611
Rep.
P.U. 27/9/2016
– Giurisdizione-
-risarcimento danni da
autorizzazione amministrativa
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Renato RORDORF – Primo Presidente f.f.
Dott. Salvatore DI PALMA – Presidente Sez.
Dott. Giovanni AMOROSO – Presidente Sez.
Dott.ssa Adelaide AIVIENDOLA – Consigliere.
Dott. Aniello NAPPI – Consigliere –
Dott.ssa Maria Cristina GIANCOLA – Consigliere
Dott. Bruno BIANCHINI – Consigliere rel
Dott. Biagio VIRGILIO – Consigliere
Dott. Domenico CHINDEMI – Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso (iscritto al n.r.g. 2954/15) proposto da:
– Comune di OLBIA ( c.f.: 91008330903)
In persona del Sindaco pro tempore Giovanni Maria Enrico Giovannelli , a ciò autorizzato da delibera di Giunta n. 392 del 28 novembre 2014; rappresentato e difeso, anche in via disgiunta tra loro, dagli avv.ti Emanuela Traina ed Andrea Manzi; con domicilio eletto presso lo studio del secondo, sito in Roma, via Federico Confalonieri n.5, giusta procura a margine del ricorso
– ricorrente —
Contro
– Raffaella CALAMUSA ( c.f.: CLM RFL 711345 G203B);
– Andrea FRESI ( c.f.: FRS NDR 63L12 L093F);
in proprio e quali genitori esercenti la potestà su Mario FRESI ( c.f. FRSMRA 98P11 L093T)
parti tutte rappresentate e difese dall’avv. Valeria Virdis giusta procura a margine del controricorso; con domicilio fissato ex lege presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione
– contro ricorrenti-
Nonché nei confronti di:
– Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo
-parte intimata —
avente ad oggetto
ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, n. 336/2014, pubblicata il 22 luglio 2014
– Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27 settembre 2016 dal Consigliere Relatore Dott. Bruno Bianchini;
– uditi l’avv Luigi Manzi — munito di delega dell’avv. Traina – per il ricorrente e l’avv. Virdis per il controricorrente;
– udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore GeneraleDott. Riccardo Fuzio , che ha chiesto rigettarsi il ricorso.
Svolgimento del processo
1 — Andrea Fresi e Raffaella Calamusa, agendo anche nella qualità di genitori esercenti la potestà sull’allora minore Mario Fresi, citarono il Comune di Olbia ed il Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti per aver consentito che, durante i festeggiamenti per il santo patrono, fosse stato permesso al Comitato di posizionare un palco a meno di un metro dalla propria abitazione, ostacolandone l’accesso e determinando immissioni sonore a turbativa della vita domestica e , finiti i festeggiamenti , per aver omesso di farlo smontare, rendendolo base per giochi e schiamazzi della gioventù locale. Il Comune contestò il fondamento della domanda, in particolare osservando di non avere alcun obbligo di vigilanza, rimanendo il proprio intervento istituzionale limitato al rilascio della concessione amministrativa per l’installazione della pedana sul suolo pubblico.
Il Tribunale di Tempio Pausania rigettò le domande; la Corte di Appello di Cagliari — Sezione distaccata di Sassari- invece le accolse, ritenendo sussistenti lesioni ai diritti fondamentali degli originari attori.
Per la cassazione di tale decisione l’ente territoriale ha proposto ricorso, sulla base di tre motivi, il secondo dei quali involgente la carenza di giurisdizione del giudice ordinario; Comune ha risposto con controricorso; il Comitato non ha svolto difese; parte ricorrente ha anche depositato memoria ex art 378 cpc.
MOTIVI DELLA DECISIONE
§1 — Per priorità logica va esaminato il secondo motivo con il quale il Comune eccepisce la carenza di giurisdizione dell’ AGO in ragione del fatto che i danni lamentati sarebbero stati in stretta correlazione con il presunto cattivo esercizio dell’attività provvedimentale.
§ 1.a — Il motivo è inammissibile perché la giurisdizione ordinaria non è mai stata contestata nei precedenti gradi di giudizio, di tal che le domande e le difese delle parti l’hanno sempre presupposta; ne deriva che il punto non è più suscettibile di ulteriore verifica; contro tale constatazione non vale richiamare — come operato dal ricorrente a fol 5 della memoria ex art 378 cpc- la specificazione interpretativa contenuta nella sentenza di queste Sezioni Unite n. 20698/2013, a mente della quale non sussisterebbe giudicato implicito sulla giurisdizione allorché l’interesse a sollevare la relativa eccezione sorga sulla base del percorso decisionale in concreto adottato dal giudice in grado di appello: va infatti messo in evidenza che nel caso di specie sin dal primo grado di giudizio la res controversa era costituita dalla lesione della sfera patrimoniale e personale delle allora parti attrici causata da un’attività del privato — il Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo- assentita dal Comune e da questi non adeguatamente vigilata nel suo svolgimento: a fronte di ciò l’ente territoriale aveva impostato sin da allora la propria linea difensiva sulla non diretta incidenza dell’attività amministrativa nell’ambito del privato ( vedi quanto riportato in merito a fol 3 del ricorso) .
§ 2 — Con il primo motivo viene denunciata la violazione degli artt 1227 e 2043 cod. civ. innanzi tutto perché la tutela risarcitoria presupporrebbe un’attività illegittima della PA , in concreto non riscontrabile : all’uopo sottolinea il Comune ricorrente che le controparti non hanno mai chiesto l’accertamento della illegittimità provvedimentale di esso ricorrente , presupposto per attivare la propria responsabilità; in secondo luogo assume che non sarebbero risarcibili i danni derivanti dall’attività del Comitato in quanto evitabili “per la mancata diligente utilizzazione degli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento (è richiamata Cons. Stato Sez. IV, n. 1750/2012); sotto diversa ottica poi parte ricorrente lamenta che la Corte di Appello sia pervenuta alla identificazione di una propria responsabilità aquiliana senza un’appropriata indagine sull’effettiva presenza di tutti gli elementi contemplati nell’art 2043 cod. civ. : quanto all’ingiustizia del danno, atteso che non avrebbe valutato la mancata impugnativa del provvedimento autorizzatorio; quanto al nesso di causalità tra potere esercitato e l’evento di danno ( concretatasi nell’ostacolo all’ingresso alla propria abitazione) , dal momento che non avrebbe posto a mente che, una volta emesso il provvedimento che autorizzava il posizionamento del palco, ogni diversa conseguenza pregiudizievole per i terzi sarebbe derivata dalle modalità esecutive di esclusiva spettanza del Comitato, che dunque non potevano essere fatte risalire a propria responsabilità; quanto infine all’elemento soggettivo del dolo o della colpa ne assume l’assenza , ribadendo la legittimità del proprio operato.
§ 2.c — Il mezzo è destituito di fondamento.
§ 2.c.1- Va innanzi tutto messo in evidenza che il petitum sostanziale ( causa petendi in relazione alla concreta fattispecie) posto a base della originaria domanda conteneva non già una censura all’esercizio del potere amministrativo manifestatosi con il provvedimento di concessione di suolo pubblico, ma si concretizzava in una denuncia del mancato esercizio dei poteri di vigilanza successiva su come sarebbe stato utilizzato il palco — sia nei giorni stabiliti per il festeggiamento del Santo Patrono, sia nell’estate successiva da parte della cittadinanza-; si aggiunga che l’art 7, comma 4, del decreto legislativo n. 104/2010 non è richiamabile a disciplina della fattispecie , ratione temporis ( la domanda è stata introdotta con citazione notificata nel dicembre 2003) e comunque non sarebbe applicabile perché il comma quarto fa rientrare nella giurisdizione generale amministrativa le controversie anche risarcitorie, per lesione di interessi legittimi- posizione giuridica che non viene mai rivendicata dai ricorrenti che si sono sempre doluti della violazione di propri diritti assoluti — e il comma quinto attrae nella ridetta giurisdizione generale amministrativa
anche le controversie risarcitorie per lesione di diritti soggettivi, ma a condizione che si verta in materia di giurisdizione esclusiva — positivamente da escludersi, nella fattispecie –
§ 2.c.2 – Appare allora evidente che l’affermazione della sussistenza di un diritto soggettivo che si assume leso dalla condotta — e non dal provvedimento — del Comune, toglie di sostanza alle censure attinenti al mancato sindacato dell’atto amministrativo innanzi al giudice amministrativo, come condizione per l’azione risarcitoria nei confronti del Comune.
§ 2.c.3 – Dal momento poi che i controricorrenti avevano lamentato una lesione di propri diritti soggettivi assoluti, da far risalire — come detto – non già all’autorizzazione concessa dal Comune, quanto piuttosto all’ inerzia che l’ente locale avrebbe serbato, pur a fronte delle loro reiterate proteste, a causa del perdurare della situazione dannosa e che la Corte del merito ha poi specificato ( vedi fol sesto della decisione) che entrambe le parti convenute erano chiamate a risarcire i danni in quanto il Comitato aveva posto in essere le condizioni materiali della situazione dannosa e l’ente territoriale aveva omesso di intervenire per porvi rimedio – in tal modo localizzando (con statuizione non specificamente impugnata) l’insorgenza della condotta censurata in epoca successiva all’emissione del provvedimento-, da ciò deriva la sussistenza dell’elemento colposo che consente di addebitare al Comune le conseguenze della propria inerzia che concretizzava un agire non jure e contro jus per la situazione che si era venuta a creare — ostacolato ingresso all’abitazione dei controricorrenti per tutto il periodo estivo ( dacchè il palco non era smontato tra uno spettacolo e l’altro) ; la sussistenza poi di emissioni sonore e luminose ( per il solo periodo dei festeggiamenti) — che ben avrebbe potuto esser evitata con l’ordine di riposizionare il palco dall’altro lato della piazza (come risulta essere avvenuto due anni dopo) messa in relazione all’inerzia serbata dall’Ente territoriale nel frangente, costituiva indice certo ed ulteriore della sua colpa.
§ 3 — Con il terzo motivo — formulato in via subordinata al rigetto del precedenti – viene denunciata la violazione dell’ad 2059 cod civ. nonché la violazione degli artt 3, 32 e 41 della Costituzione, laddove la Corte distrettuale ebbe a riconoscere la sussistenza di danni non patrimoniali , pur in assenza dei loro presupposti — indicati: o nell’esistenza di una condotta astrattamente qualificabile come reato; o nella grave lesione di interessi costituzionalmente garantiti-.
§ 3.1 — Assume il ricorrente che, quanto all’ostacolo all’accesso ed al libero godimento del proprio domicilio, il rilievo costituzionale di tale attività sarebbe stato rinvenuto in un concetto lato di estrinsecazione della “dignità umana” , indicato nel secondo comma dell’art 41 Costit. che invece riguarderebbe solo una particolare estrinsecazione della libertà, quella di iniziativa economica; censura altresì il Comune ricorrente l’accertamento della lesione del “diritto alla salute” , basato su
una non provata intollerabilità delle emissioni luminose e sonore da ricondurre ad effettive e documentate lesioni fisiche o psichiche , del tutto non provate nella fattispecie.
§ 3.2 — Il mezzo è infondato in quanto, sebbene il referente normativo della lesione al godimento della propria abitazione non possa essere rinvenuto nell’art 41 della Costituzione, sibbene nell’art 42, secondo comma, che tutela la proprietà privata e detta i limiti per la compressione del relativo diritto, la base fattuale posta a fondamento della sentenza — dalla quale è emerso che sebbene l’abitazione fosse munita anche di un accesso secondario, il secondo era di dimensioni esigue e spesso neppure sufficienti al concreto uso– non è stata specificamente contestata; per quello poi che riguarda la prova del danno alla salute, premesso che non è stato richiesto il risarcimento del danno biologico determinato dalle immissioni sonore e luminose bensì si è fatto valere il pregiudizio non patrimoniale derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita , va data continuità all’indirizzo interpretativo di recente espresso in sede di legittimità, in forza del quale il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e d el diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi ( vedi Cass. Sez. 3, n. 20927/2015); ne consegue che la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza ( sul punto vedi Cass. Sez. 3 n. 26899/2014). Nella fattispecie la dimostrazione del pregiudizio è stata ricavata dall’esame della natura e dell’entità delle immissioni sonore e luminose , con ragionamento non specificamente censurato.
§ 4. Il rigetto del ricorso determina la condanna del ricorrente al pagamento delle spese, liquidate come indicato in dispositivo; dal momento che il ricorso è stato inviato per la notifica il 16 gennaio 2015 e quindi in data successiva al 30 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della parte soccombente, di un ulteriore importo pari a quanto versato a titolo di contributo unificato, a norma dell’ari 13, comma 1 quater d.P.R. 115/2002
P.Q.M
Rigetta il ricorso ; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese che liquida in euro 3.500,00 oltre ad euro 200,00 per esborsi; ai sensi dell’ari 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dello stesso ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art 13.
Così deciso in Roma il 27 settembre 2016
Il consigliere estensore
Il Presidente
Allegati:
SS.UU, 01 febbraio 2017, n. 2611, in tema di danno non patrimoniale
In tema di trust – SS.UU,12 febbraio 2019, n. 18831
Civile Ord. Sez. U Num. 18831 Anno 2019
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 12/07/2019
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al N.R.G. 4738 del 2017 proposto da:
POLI Paola, rappresentata e difesa dagli Avvocati Francesco Gianni, Alberto Nanni, Emanuele Rimini e Antonio Auricchio, con domicilio eletto presso lo studio legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners in Roma, via delle Quattro Fontane, n. 20;
– ricorrente –
contro
POLI Elena, rappresentata e difesa dall’Avvocato Cristina Rossello, con domicilio eletto nel suo studio in Roma, piazza di Spagna, n. 31;
– controricorrente –
contro
MASSIMO Claudio, rappresentato e difeso dall’Avvocato Ettore Maria Negro;
– controricorrente –
e nei confronti di
POLI GROUP HOLDING s.r.I.;
– intimata –
per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio pendente dinanzi al Tribunale ordinario di Milano, iscritto al N.R.G. 31946 del 2016.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18 giugno 2019 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giovanni Giacalone, depositate in cancelleria il 13 maggio 2019, con cui l’Ufficio del Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
FATTI DI CAUSA
1. – Elena Poli e Paola Poli, entrambe cittadine italiane residenti in Italia, sono le uniche eredi nonché beneficiarie del 50% ciascuna del patrimonio del padre Stefano Poli, importante esponente dell’industria farmaceutica, cittadino italiano nato a Varese 1’8 luglio 1946, già residente in Svizzera e deceduto in Italia il 10 dicembre 2009.
In data 15 maggio 2007 Stefano Poli, in qualità di settlor, costituiva un trust, denominato The Pale Trust, a cui trasferiva la proprietà del Gruppo Poli; trustee di tale trust, poi sottoposto alla legge neozelandese, veniva nominata, per effetto di variazione in data 14 agosto 2007, la Intrust Trustees, una società della Nuova Zelanda, mentre beneficiari erano designati lo stesso Stefano Poli e, in caso di suo decesso, le figlie Elena e Paola Poli, in parti uguali.
Con testamento pubblico ricevuto in data 20 giugno 2007 dal notaio Fabio Bernasconi di Chiasso e integrazione olografa del 15 novembre 2009, Stefano Poli nominava eredi del suo patrimonio, sempre in parti uguali, le due figlie Elena e Paola, scegliendo che la sua successione fosse regolata (“nella misura in cui ciò sia possibile”) dal diritto svizzero e designando esecutore testamentario Claudio Massimo e, in caso di suo impedimento o di non accettazione, quale esecutore testamentario sostituto, Paolo Mondia.
Deceduto il de cuius, in data 3 giugno 2013 le beneficiarie del trust hanno sottoscritto a Lugano, insieme al trustee, il Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue (ovvero Accordo, Indennizzo, Rilascio e Impegno ad astenersi dall’iniziare azioni legali), in cui le sorelle Poli hanno, tra l’altro, riconosciuto, concordato ed accettato che la distribuzione di Paola e la distribuzione di Elena sono di pari valore e costituiscono pari beneficio per ciascuna di esse. Tale accordo è stato sottoposto, come il trust, alla legge neozelandese. In attuazione del Deed, il trustee, senza sciogliere il trust, ha disposto un’assegnazione dei beni in trust anticipata rispetto al termine di durata dello stesso, assegnando a Elena Poli 81 milioni di euro, pari alla metà del valore del Gruppo Poli, e attribuendo l’intero capitale sociale della holding lussemburghese Polilux Holding s. à r.l. (Gruppo Poli) a Paola Poli.
2. – A seguito della cessione, da parte di Paola Poli in data 30 novembre 2015, del Gruppo Poli a una società spagnola (il Gruppo Almirall) per il controvalore di 365 milioni di euro, oltre a 35 milioni di euro in forza di una clausola di earn out, Elena Poli, con atto di citazione notificato il 18 maggio 2016, ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la sorella Paola Poli, chiedendo accertarsi e dichiararsi la sussistenza del diritto di credito in capo all’attrice alla maggior somma dovuta, oltre a quella di euro 81 milioni già incamerata, impregiudicata ad ogni effetto, fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli, da ricalcolarsi per effetto dell’annullamento per dolo, ex art. 761 cod. civ., e, in subordine, della rescissione per lesione ultra quartum, ex art. 763 cod. civ., dell’atto di “apporzionamento” del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli calcolato sulla base dei multipli impliciti nelle transazioni di società similari nel periodo 2002/2012, e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli come riveniente dalla cessione al Gruppo Almirall, con l’emissione della conseguente pronuncia di condanna, in subordine anche a titolo di risarcimento del danno o di indebito arricchimento.
A sostegno delle domande, l’attrice ha dedotto, in particolare, che la quota in denaro ricevuta da Elena Poli sarebbe frutto di una “sottovalutazione ad arte del Gruppo Poli legata alla strategia di Paola Poli che … ha voluto che ci si avvalesse del criterio di stima del valore del Gruppo che il padre aveva dettato per il solo caso in cui al termine della durata del trust il Gruppo fosse ancora in attività e una sola delle figlie desiderasse proseguire nell’attività e l’altra volesse essere liquidata in denaro”. Secondo l’attrice, il principio dell’eguale beneficio doveva essere rispettato sino alla scadenza della durata del trust e se Paola Poli, senza preannunciarlo al trustee né all’altra beneficiaria, aveva deciso di vendere quanto acquisito, le posizioni delle due beneficiarie dovevano essere riportate ad equilibrio. Ad avviso di Elena Poli, la sorella Paola era legittimata passiva all’obbligo restitutorio e risarcitorio nel determinando ammontare, atteso che, indipendentemente dai passaggi societari realizzati per procedere alla vendita del Gruppo Poli, restava sottoposta al principio della equiparazione delle posizioni delle beneficiarie del trust.
2.1. – Costituendosi in giudizio, Paola Poli ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano e la sussistenza della giurisdizione esclusiva dell’arbitro unico previsto dall’art. 15 del Deed sottoscritto tra la stesse Paola Poli ed Elena Poli e dal trustee Intrust il 3 giugno 2013, arbitro da nominarsi secondo le norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera.
2.2. – E’ intervenuto in giudizio Claudio Massimo, in qualità di esecutore testamentario del de cuius Stefano Poli, sostenendo le ragioni dell’attrice.
3. – Nella pendenza del giudizio dinanzi al Tribunale ordinario di Milano, Paola Poli ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, con atto notificato il 21 febbraio 2017, chiedendo dichiararsi il difetto di giurisdizione del Tribunale di Milano e di qualsiasi altro giudice italiano, richiamando la clausola n. 15 del Deed prevedente l’arbitrato svizzero (“qualunque lite, controversia o istanza che scaturisca da o in relazione al presente Atto, comprese la validità, l’invalidità o le violazioni del presente Atto, sarà composta come tra le parti a mezzo di arbitrato ai sensi delle Norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera”: così nella traduzione giurata in atti).
4. – Ha resistito, con controricorso, Elena Poli, chiedendo il rigetto del ricorso per regolamento preventivo e la declaratoria della giurisdizione del giudice italiano.
Ad avviso della controricorrente, la materia del contendere verte – tenuto conto anche della circostanza che petitum e causa petendi sono stati emendati dall’attrice con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ., depositata il 17 febbraio 2017, quattro giorni prima della notifica del ricorso per regolamento preventivo in cassazione – non sulla caducazione del Deed, ma sull’attuazione della divisione della massa ereditaria secondo il criterio dell’eguale beneficio dettato dal de cuius Stefano Poli, cittadino italiano, deceduto a Milano il 10 dicembre 2009. Le singole attribuzioni dei cespiti ereditari non infirmerebbero la natura successoria della controversia di scioglimento della comunione tra coeredi: la clausola per arbitrato estero (con arbitro svizzero, sede a Lugano e applicazione del diritto neozelandese per successione di cittadino italiano), inerente all’attribuzione di un singolo cespite che compone l’asse ereditario, non osterebbe alla giurisdizione italiana in materia successoria, quale sancita dall’art. 50 della legge 31 maggio 1995, n. 218. Difatti il Deed avrebbe assolto la sola funzione di attribuire un cespite dell’asse da dividere, nel quadro e nel contesto del complessivo scioglimento della comunione ereditaria ancora in corso sotto le cure dell’esecutore testamentario Claudio Massimo; la lesione subita da Elena Poli attraverso il Deed ben potrebbe e dovrebbe essere conosciuta íncidenter tantum in funzione del complesso oggetto successorio e divisionale della controversia di cui il Deed costituirebbe soltanto una singola parte; e sussisterebbe controversia divisionale ereditaria anche quando, come nella specie, ferme le quote testamentarie fissate dal de cuius, si controverta sui valori dei beni rispettivamente attribuiti, qui manifestamente distanti rispetto alla volontà del testatore di ripartire il suo patrimonio tra le due figlie in eguale misura.
5. – Ha resistito, con separato controricorso, Claudio Massimo.
Preliminarmente, ha dedotto l’inammissibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione per due ordini di motivi: perché esso è stato proposto prima della scadenza del termine per il deposito della memoria ex art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., quindi antecedentemente all’accertamento istruttorio necessario ai fini della statuizione sulla giurisdizione; perché nel caso di specie tutte le parti sono italiane e quindi soggette alla giurisdizione italiana, con la conseguenza che il giudizio arbitrale, sia estero o interno, comporta necessariamente una questione di competenza, ai sensi dell’art. 819-ter cod. proc. civ.
Quanto al merito della questione di giurisdizione, il controricorrente, a sostegno delle conclusioni di sussistenza della giurisdizione italiana, rileva che la clausola compromissoria di cui all’art. 15 del Deed non sarebbe applicabile alla controversia oggetto del giudizio di merito, il quale non avrebbe ad oggetto la validità del Deed in sé considerato – unica ipotesi per la quale sarebbe stata pattuita la clausola compromissoria – bensì l’esito della divisione ereditaria operata per mezzo dello stesso e la conseguente violazione delle disposizioni testamentarie dettate dal padre defunto con la letter of wishes del 5 maggio 2007, lettera indirizzata, pochi giorni prima dell’istituzione del trust, anche al Massimo, nella duplice veste di esecutore testamentario e di protector, affinché questi vegliasse sul rispetto delle sue volontà.
6. – La società Poli Group Holding è rimasta intimata.
7. – Nelle conclusioni scritte ex art. 380-ter cod. proc. civ. depositate il 30 ottobre 2017, il pubblico ministero ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, sul rilievo che tutte le parti della causa sono residenti o hanno sede in Italia.
8. – Con ordinanza 20 novembre 2018, n. 29879, le Sezioni Unite hanno dichiarato ammissibile l’istanza di regolamento preventivo, respingendo le eccezioni preliminari sollevate dal pubblico ministero e dal controricorrente Massimo, e hanno richiesto all’Ufficio del Massimario una relazione di approfondimento sulle questioni attinenti al fondo della questione di giurisdizione.
Nel respingere le eccezioni preliminari, le Sezioni Unite hanno affermato:
– che il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto per sollevare una questione concernente il difetto di giurisdizione del giudice italiano non solo allorché convenuto nella causa di merito sia un soggetto domiciliato o residente all’estero, ma anche quando il convenuto, domiciliato e residente in Italia, abbia contestato la giurisdizione italiana in forza di deroga convenzionale a favore di un arbitrato estero;
– che il controricorrente Massimo non ha indicato in che cosa avrebbe dovuto consistere l’accertamento istruttorio, utile ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione, che sarebbe
stato vanificato dalla proposizione “anticipata” del regolamento preventivo;
– che, in presenza di clausola compromissoria di arbitrato estero, l’eccezione di compromesso dà luogo ad una questione di giurisdizione e non di competenza ai sensi dell’art. 819-ter cod. proc. civ.
9. – In prossimità della camera di consiglio, fissata per il 18 giugno 2019, il pubblico ministero ha depositato nuove conclusioni scritte, concludendo per il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
L’Ufficio del Procuratore Generale ha evidenziato che il trust in questione deve essere qualificato come donazione indiretta ex art. 809 cod. civ., rientrante nell’ambito dei negozi transmorte inter vivos, sicché la comunione insorta tra i beneficiari va configurata come ordinaria e non successoria, con conseguente impossibilità d’includere l’istituto in esame nel campo di applicazione dell’art. 50 della legge n. 218 del 1995, dettato in tema di giurisdizione con esclusivo riguardo alla “materia successoria”.
Dopo avere sottolineato che le norme di applicazione necessaria operano esclusivamente come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato dalla norma di conflitto, senza incidere sul diverso problema dell’individuazione dei criteri dai quali dipende la competenza giurisdizionale, il pubblico ministero ha affermato che le esercitate azioni di cui agli artt. 761 e 763 cod. civ. non sono poste a presidio di diritti indisponibili, sottratti in quanto tali all’ambito applicativo dell’art. 4, comma 2, della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato.
10. – In prossimità della camera di consiglio tutte le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Deve essere preliminarmente disattesa l’istanza, avanzata dalla difesa di Elena Poli, di riunione del presente giudizio per regolamento preventivo a quello, pendente tra le stesse parti, iscritto al N. R.G. 11328 del 2017 e fissato per la decisione nella stessa adunanza camerale del 18 giugno 2019. I due ricorsi si riferiscono infatti a giudizi di merito diversi, non confluiti in un unico procedimento a quo.
2. – Passando al fondo della questione di giurisdizione, si tratta di stabilire, innanzitutto, se vi siano criteri di collegamento che consentano di ricondurre alla giurisdizione dello Stato italiano la controversia riguardante l’apporzionamento tra i beneficiari del bene conferito in trust e, in particolare, se la detta controversia sia suscettibile di essere ricompresa tra quelle concernenti la divisione ereditaria, per le quali la giurisdizione del giudice italiano e’ regolata dalla L. n. 218 del 1995, articolo 50.
3. – Nello svolgere tale indagine, occorre muovere dall’esame delle domande azionate nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Milano, risultanti dal petitum e dalla causa petendi dell’atto di citazione, come emendati con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ.
Questo esame deve essere condotto alla luce dell’orientamento invalso nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice anche nelle questioni di diritto internazionale privato – per il quale la giurisdizione del giudice italiano e quella del giudice straniero vanno determinate non gia’ in base al criterio della prospettazione della domanda (ossia in base alla qualificazione soggettiva che l’istante dà all’interesse di cui chiede domanda la tutela), ma in base al diverso criterio secondo cui, ai fini del relativo riparto, non è sufficiente e decisivo avere riguardo alle deduzioni ed alle richieste formalmente avanzate dalle parti, ma occorre tener conto della vera natura della controversia, da stabilire con riferimento alle concrete posizioni soggettive delle parti in relazione alla disciplina legale della materia (Cass., Sez. U., 24 luglio 2007, n. 16296; Cass., Sez. U., 26 maggio 2015, n. 10800).
4. – Oggetto della controversia promossa e’ la pretesa creditoria di Elena Poli alla maggiore somma (oltre a quella di Euro 81 milioni, gia’ incamerata), fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli, da ricalcolarsi per effetto dell’annullamento per dolo o della rescissione per lesione ultra quartum dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013, ovvero, in via subordinata, per effetto della condotta dannosa e ingannevole posta in essere dalla sorella o dell’indebito arricchimento di costei.
L’attrice ha infatti domandato la condanna di Paola Poli al pagamento in proprio favore “della maggior somma dovuta, oltre a quella di Euro 81.000.000 gia’ incamerata, impregiudicata ad ogni effetto, fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli… e/o fino a concorrenza del 50% del valore del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013], calcolato sulla base dei multipli impliciti nelle transazioni di societa’ similari nel periodo 2002/2012, e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli come riveniente dalla cessione al Gruppo Almirall””.
Questa domanda di condanna al pagamento della maggior somma e’ stata avanzata, in via principale, “per effetto dell’annullamento ex art. 761 cod. civ. dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013]” e, in via subordinata, “per effetto della rescissione ex art. 763 cod. civ. dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013]”.
In ulteriore subordine, l’attrice ha chiesto la condanna della convenuta, “previo accertamento dell’elemento soggettivo incidente”, al risarcimento in proprio favore dei danni come provati in corso di giudizio o, in subordine, come ritenuti in via equitativa e, comunque, in misura mai inferiore a Euro 120.000.000″, ovvero, in via ulteriormente subordinata, “in forza dell’articolo 2043 e/o dell’articolo 1375 e/o dell’articolo 1440 c.c.”. Ha poi domandato la condanna al risarcimento del danno patrimoniale da perdita di chance e, in estremo subordine, la condanna “al pagamento a titolo di indennizzo ex art. 2041 cod. civ… della maggior somma, rispetto a quanto gia’ incamerato, che resta impregiudicato ad ogni effetto, fino a concorrenza del 50% del Gruppo Poli”.
In sostanza, l’attrice ha lamentato: (a) di avere prestato in buona fede il consenso a ricevere la somma di euro 81 milioni determinata con l’applicazione del criterio indicato dal padre per il caso in cui almeno una figlia intendesse proseguire la gestione del Gruppo Poli, atteso che tanto la sorella Paola Poli aveva dichiarato di volere fare (“celando … di avere in corso già delle trattative con diversi potenziali acquirenti”); (b) che il criterio valutativo immaginato dal de cuius, basato su un metodo patrimoniale misto che considerasse un modesto avviamento, aveva lo scopo di preservare risorse per il processo di sviluppo del Gruppo nell’ipotesi che una delle figlie mantenesse il controllo, laddove con la cessione in data 30 novembre 2015 ad Almirall – per un importo pari a 400 milioni di euro, tra cash ed earn out – Paola Poli “ha abbandonato il ruolo imprenditoriale che fu del padre e che aveva dichiarato in allora di voler conservare”; (c) che alla data del 3 giugno 2013 Elena Poli “ha manifestato un consenso all’apporzionamento de quo viziato in quanto determinato” da “artifizi” e da “raggiri”, “senza i quali non lo avrebbe mai espresso”; (d) che “l’apporzionamento del 3 giugno 2013 non corrisponde per ben più di un quarto al valore effettivo del 50% della quota” spettante ad Elena Poli, “essendo addirittura pari al solo 19%”. Ed in via subordinata l’attrice ha dedotto: (e) di avere in ogni caso “il diritto di ottenere, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1440 cod. civ., dalla sorella Paola Poli il risarcimento del danno subito, il cui ammontare dovrà … ricomprendere anche il mutamento delle condizioni contrattuali, tenuto conto del possibile contenuto dell’accordo che sarebbe stato concluso in difetto del comportamento dannoso serbato dalla convenuta”; (f) che Paola Poli ha conseguito, con l’apporzionamento del 3 giugno 2013, in difetto di una giusta causa, un vantaggio di natura patrimoniale in danno della sorella, che, a seguito del medesimo atto, ha subito un correlativo ingiustificato depauperamento.
5. – Ad avviso del Collegio, la controversia così introdotta non rientra nella materia successoria.
5.1. – Occorre premettere che anche la divisione ereditaria afferisce alla materia successoria, come è dimostrato, per un verso, dalla collocazione delle norme del codice civile rivolte a disciplinare la divisione (art. 713 e ss.) nel titolo IV del Libro II “Delle successioni”, e, per l’altro verso, dalle norme di conflitto e di giurisdizione dettate, nel sistema italiano di diritto internazionale privato, dalla legge n. 218 del 1995, la quale, all’art. 46, comma 3, inserito nel capo VII “Successioni”, detta una disposizione apposita rivolta a ricomprendervi tutte le ipotesi di divisione ereditaria, e dunque anche quella amichevole o contrattuale.
Ciò posto, deve tuttavia escludersi che il consenso espresso dalle beneficiarie all’apporzionamento tra le stesse, ad opera del trustee, dei beni conferiti in vita dal disponente Stefano Poli nel Pale Trust (il Gruppo Poli), integri un atto avente ad oggetto un bene caduto in successione ereditaria.
Invero, sotto quest’ultimo profilo, va rilevato – in conformità delle conclusioni alle quali è pervenuto il pubblico ministero con la requisitoria depositata il 13 maggio 2019 – che con il Pale Trust non si è realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente Stefano Poli.
Il Pale Trust è stato infatti costituito con atto inter vivos e, durante la vita del settlor, si è avuto il passaggio della proprietà del Gruppo Poli nella sfera giuridica del trustee, investito del compito fiduciario di gestire le partecipazioni societarie nell’interesse dei beneficiari e di devolvere ad essi detto patrimonio al termine del trust.
Tali beni non sono caduti in successione perche’ essi si trovavano, al tempo dell’apertura della stessa, già fuori del patrimonio del disponente, avendone costui trasferito la proprieta’ in via definitiva e per atto inter vivos al trustee; i beneficiari finali – le figlie Elena e Paola – hanno acquistato i beni direttamente dal trustee e non già per successione mortis causa dal de cuius.
In altri termini, nel caso di trust liberale tra vivi (qual è il Pale Trust) che produce effetti, sul piano beneficiario, dopo la morte del disponente, quel che il disponente ha pienamente trasferito in vita non concorre a formare l’asse ereditario.
Il Collegio condivide l’opinione, espressa dalla prevalente dottrina, che qualifica una vicenda attributiva come quella di specie (nella quale il settlor, istituendo con atto inter vivos il trust e conferendovi la proprietà del Gruppo Poli, ha utilizzato lo strumento per finalità che attengono alla trasmissione alle figlie, con effetti post mortem, del proprio patrimonio avente ad oggetto le partecipazioni societarie), in termini di donazione indiretta, riconducibile nell’ambito della categoria delle liberalita’ non donative, di cui all’articolo 809 cod. civ. Infatti, l’arricchimento dei beneficiari e’ stato realizzato dal disponente mediante un meccanismo indiretto, prevedente la creazione di un ufficio di diritto privato (quello del trustee), il titolare del quale – titolare, altresi’, del patrimonio separato costituente la dotazione del trust – è stato investito del compito di far pervenire ai beneficiari i vantaggi patrimoniali previsti dall’atto istitutivo.
Va quindi esclusa la natura mortis causa del trasferimento dal trustee ai beneficiari finali, che costituisce il secondo segmento dell’operazione, perchè – come e’ stato rilevato – tale atto traslativo ha investito ormai sfere giuridiche diverse da quelle dell’originario disponente: rispetto a tale trasferimento, la morte del settlor non ha alcuna rilevanza causale, potendo al piu’ individuare il momento di esecuzione dell’attribuzione finale.
5.1.2. – Questo approdo interpretativo è confermato dal regolamento UE n. 650/2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 luglio 2012 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato Europeo, non applicabile ratione temporis (il regolamento si applica, ex art. 83, alle successioni delle persone decedute alla data o dopo il 17 agosto 2015, mentre il Dott. Stefano Poli è deceduto anteriormente, il 10 dicembre 2009), e tuttavia significativo per ricostruire le linee di tendenza del quadro normativo di riferimento. Infatti, l’ambito d’applicazione del regolamento si estende a tutti gli aspetti di diritto civile della successione a causa di morte, ma ne sono esclusi non solo le questioni inerenti alla costituzione, al funzionamento e allo scioglimento di trust (e con la precisazione che in caso di costituzione di trust testamentari o legali in connessione con una successione legittima si applica la legge applicabile alla successione per quanto riguarda la devoluzione dei beni e la determinazione dei beneficiari), bensi’ anche i diritti e i beni trasferiti con strumenti diversi dalla successione, quali le donazioni, fatto salvo quanto previsto in tema di collazione e di riduzione ai fini del calcolo delle quote dei beneficiari secondo la legge applicabile alla successione (v. considerando 9, 13 e 14, nonche’ articolo 1, paragrafi 1 e 2, lettere g e j, e articolo 23, paragrafo 2, lettera i).
5.2. – La difesa della controricorrente Elena Poli, a sostegno della diversa tesi della natura ereditaria della controversia, sottolinea alcune circostanze di fatto che, a suo avviso, dimostrerebbero l’unitarietà e la continuità dell’intento del defunto nel ricondurre il tutto – testamento e trust – a una sola, perfetta e solenne unità volitiva. In particolare, viene richiamata la lettera olografa del 5 maggio 2007, scritta di pugno dal de cuius e indirizzata al suo commercialista, Dott. Claudio Massimo, fiduciario, esecutore testamentario e protector del Pale Trust. In tale documento, (Stefano Poli espresse al Massimo, “in aggiunta e complemento a quanto stabilito nel testamento”, e “in considerazione del fatto” che sarebbe stato lui il suo “esecutore testamentario”, il desiderio che il patrimonio venisse pariteticamente ripartito tra le figlie anche in relazione al costituendo trust successorio (“i beneficiari dovranno essere, dopo la mia morte, le mie figlie Elena e Paola Poli”; “il protector del Trust dovrai essere Tu”).
5.2.1. – Il Collegio ritiene che tale deduzione difensiva non sia idonea a dimostrare che con il Pale Trust si sia realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente.
Com’e’ noto, infatti, l’atto mortis causa è diretto a regolare i rapporti patrimoniali e non patrimoniali del soggetto per il tempo e in dipendenza della sua morte: nessun effetto, nemmeno prodromico o preliminare, esso è perciò destinato a produrre, e produce, prima di tale evento. L’evento della morte riveste un ruolo diverso nell’atto post mortem, perchè qui l’attribuzione è attuale nella sua consistenza patrimoniale e non è limitata ai beni rimasti nel patrimonio del disponente al momento della morte.
Seguendo tale insegnamento, va ribadito che, nella specie, con l’istituzione del Pale Trust – nel quale il settlor ha conferito le proprietà azionarie del Gruppo chimico-farmaceutico, indicando se stesso quale beneficiario in vita e, dopo la sua morte, le due figlie quali beneficiarie paritetiche – si è determinato un immediato passaggio nella sfera giuridica del trustee, realizzandosi così il dato dell’attualità dello spoglio da parte del disponente; e la di lui morte non ha costituito il punto di origine della situazione regolata né è penetrata nella giustificazione causale dell’attribuzione, ma ha rappresentato soltanto termine o condizione, e dunque modalità della stessa.
5.3. – Né la controversia può dirsi successoria in applicazione dei precedenti di questa Corte nei casi Agnelli e Corsini.
Nel primo caso (Cass., Sez. U., 27 ottobre 2008, n. 25875), infatti, si trattava di una controversia avente ad oggetto, quale domanda principale, la petizione di eredità e il conseguente scioglimento della comunione ereditaria, e proprio in ragione di tali domande svolte in via principale la giurisdizione italiana è stata riconosciuta, in applicazione dell’art. 50 della legge n. 218 del 1995, essendosi aperta in Italia la successione; e la giurisdizione italiana è stata ritenuta sussistente anche in relazione all’azione di rendiconto svolta nei confronti di più professionisti, in considerazione del carattere pregiudiziale rispetto a quella principale di petizione di eredità esercitata nei confronti del coerede, attesa la funzione unitariamente ricostruttiva di un altrettanto unitario asse ereditario cui l’azione esperita mirava in concreto.
Analogamente, nel secondo caso, questa Corte (Cass., Sez. U., 15 marzo 2012, n. 4132) ha affermato che qualora la figlia proponga un’unica azione per l’accertamento della propria qualità di erede e di divisione dell’asse ereditario contro la moglie del padre, cittadino italiano defunto nel Principato di Monaco, nonché contro i trustee dei trust di Jersey, istituiti dal de cuius, per la resa del conto e il risarcimento del danno, sussiste la giurisdizione del giudice italiano ex art. 50 della legge n. 218 del 1995, essendo il de cuius cittadino italiano al momento della morte, tanto sulla domanda principale di petitio hereditatis quanto sulla causa di rendiconto, che può essere riconosciuta incidenter tantum.
Nell’una e nell’altra vicenda, pertanto, le domande svolte in via principale miravano ad accertare e dichiarare la qualità di erede dell’attrice e a ottenere la divisione dell’asse ereditario, sicché la verifica della giurisdizione italiana è stata compiuta tenendo conto delle questioni dedotte con tali domande che vertevano in materia successoria.
Nell’odierna causa promossa dinanzi al Tribunale di Milano (R.G. n. 31946 del 2016) non è stata invece proposta nessuna domanda di petizione di eredità né di scioglimento della comunione ereditaria: l’oggetto della domanda – quale risulta in particolare dalle precisazioni e dalle modificazioni contenute nella memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ. – riguarda la pretesa creditoria nei rapporti interni tra le beneficiarie dell’apporzionamento nascente dalla dedotta sproporzione delle due attribuzioni (l’assegnazione di 81 milioni di euro a Elena Poli e l’attribuzione dell’intero capitale sociale della holding lussemburghese Polilux Holdings s.à.r.l. a Paola Poli), secondo l’attrice determinato dal dolo e comunque dal comportamento illegittimo della sorella nella stipulazione tra di esse dell’atto “divisionale”, asseritamente in contrasto con la volontà paterna, il quale, con la lettera di istruzioni al protector del 5 maggio 2007, aveva richiamato l’esigenza di un’effettiva parità tra le due figlie nella ripartizione del proprio patrimonio. La domanda – nel contestare la vincolatività dell’atto di scioglimento della comunione, evidentemente ordinaria e non ereditaria, realizzatosi attraverso il Deed tra le sorelle beneficiarie del Pale Trust, e nel tendere alla ricostruzione, determinazione e revisione del valore complessivo dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 – si riallaccia, secondo la prospettazione dell’attrice, al criterio dell’egual beneficio espressamente voluto dal padre, avendo costui previsto una deroga di favore (nella valutazione del valore del patrimonio del trust per quanto riguarda le società, con l’applicazione di un metodo patrimoniale misto che considerasse un moderato avviamento) alla continuatrice di stirpe aziendale, deroga che – si sostiene – nella specie non sarebbe applicabile, stante l’asserito comportamento doloso di Paola, che non avrebbe rilevato alla sorella le proprie reali intenzioni di non volere neanch’essa proseguire le attività paterne.
6. – Poiché, dunque, la presente controversia concerne gli esiti di una attribuzione inter vivos e non mortis causa discendente dall’apporzionamento di beni conferiti in trust e non fanno parte dell’oggetto della causa i meccanismi di riequilibrio – tipici della materia successoria – della collazione e della riduzione delle liberalità indirette, il titolo di giurisdizione, nel rapporto tra la giurisdizione italiana e quella degli altri Stati, va ricercato, non secondo i criteri speciali dettati dall’art. 50 della legge n. 218 del 1995, ma in base al criterio generale di cui all’art. 3 della stessa legge.
In applicazione di quest’ultima disposizione, la causa rientra nell’ambito della giurisdizione italiana, essendo la convenuta Paola Poli domiciliata e residente in Italia.
La causa rientra nell’ambito della giurisdizione italiana anche in applicazione della disposizione generale sulla competenza dettata dall’art. 4 del regolamento UE n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale («A norma del presente regolamento, le persone domiciliate nel territorio di un determinato Stato membro sono convenute, a prescindere dalla loro cittadinanza, davanti alle autorità giurisdizionali di tale Stato membro»).
7. – Si tratta a questo punto di stabilire se il titolo di giurisdizione italiana sia o meno neutralizzato dalla convenzione derogatoria a favore dell’arbitrato svizzero contenuta nell’art. 15 del Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue.
8. – A tale quesito deve darsi risposta positiva.
8.1. – Con la clausola compromissoria contenuta nell’art. 15 del Deed le parti hanno stabilito di risolvere “qualunque lite, controversia o istanza che scaturisca da o in relazione al presente Atto, comprese la validità, l’invalidità o la violazione delle condizioni del presente Atto” a mezzo di “arbitrato ai sensi delle Norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera (le ‘Norme’) vigenti alla data in cui l’Avviso di arbitrato viene presentato ai sensi delle Norme” (prevedendosi che “Il numero di arbitri sarà uno, la sede dell’arbitrato sarà Lugano e il procedimento arbitrale sarà condotto in inglese”; con tale clausola le parti hanno anche rinunciato “a qualunque obiezione in merito alla sede di tale procedura arbitrale e a ogni contestazione in ordine alla competenza del foro adito”). (nell’originale: “The parties to this Deed: Agree that any dispute, controversy or claim arising out of or in relabon to this Deed, including the validity, invalidity or breach of the terms of this Deed, shall be resolved as between the parties by arbitration in accordance with the Swiss Rules of International Arbitration of the Swiss Chambers of Commerce (the ‘Rules’) in force on the date when the Notice of Arbitration is submitted in accordance with the Ru/es. The number of arbitrators shall be one, the seat of arbitration shall be Lugano and the arbitrai proceedings shall be concluded in English. Hereby waive any objection to the laying of venue of any such arbitration proceedings and any claim that such proceedings have been brought in an inconvenient forum“).
Con il Deed – che ha visto come parti la Intrust Trustees, da un lato, ed Elena Poli e Paola Poli, dall’altro, queste ultime in veste di promittenti – le promittenti hanno premesso di avere richiesto ad Intrust di esercitare i suoi poteri ai sensi del Pale Trust, inclusi il potere di distribuzione e il potere di anticipazione.
Le promittenti hanno inoltre riconosciuto, concordato ed accettato (secondo quanto prevede l’art. 3): di avere piena conoscenza di tutti i fatti materiali relativi alle azioni indennizzate; di stipulare l’atto senza fare affidamento su garanzie, dichiarazioni o altro, sia in relazione alla natura che al merito delle azioni indennizzate che altrimenti; che la valutazione inclusa nella relazione di valutazione del Gruppo Poli è una stima accurata del valore del Gruppo Poli alla data dell’atto, fermo restando che tale valutazione è basata su informazioni contabili del Gruppo Poli del 2011; che la distribuzione di Paola e la distribuzione di Elena sono di pari valore e costituiscono pari beneficio per ciascuna di esse, in generale e ai fini del Pale Trust; che esse sono a conoscenza del fatto che Intrust non può al momento essere certa che non ci sia alcuna probabilità che le autorità tributarie procedano ad investigazioni in relazione al Pale Trust; che Intrust ha determinato di trattenere la riserva fiscale sino alla data di cessazione della riserva fiscale; che Intrust ha determinato di esercitare i propri poteri sul Trust Margot e sul Trust Mirtilla in modo da far sì che, fino alla data specificata, il fondo di ciascun trust sia trattenuto nel trust al fine, tra gli altri, di proteggere gli interessi dei beneficiari successivi e di far sì che la responsabilità del trustee del Pale Trust siano adempiute dal fondo dei Trust Margot e Mirtilla.
8.2. – Le domande articolate dall’attrice, tanto in via principale quanto in via subordinata, investono tutte direttamente il Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue del 3 giugno 2013, ossia l’accordo di attribuzione con cui, insieme al trustee, Elena e Paola Poli, quali uniche beneficiarie del Pale Trust, hanno pattuito il riparto, nella misura del 50% ciascuna, dello specifico bene rappresentato dal compendio societario costituito in trust, attraverso la liquidazione anticipata dei diritti economici ad Elena Poli, con l’assegnazione di 81 milioni di euro, e l’attribuzione della proprietà del Gruppo a Paola Poli.
Non è questa la sede per stabilire se il Deed sia un atto divisionale o un atto che abbia semplicemente permesso di definire e di perfezionare la liberalità indiretta a favore di ciascuna delle due beneficiarie, l’una e l’altra liberalità poi suscettibili di essere considerate, per effetto della collazione, nella successiva fase della divisione ereditaria.
La scelta processuale dell’attrice è stata nel primo senso: proponendo la “domanda ai sensi dell’art. 761 cod. civ.” e la “domanda ai sensi dell’art. 763 cod. civ.” (così, espressamente, a pag. 16 e a pag. 26 della memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1, cod. proc. civ.), ella ha contestato la vincolatività dell’esito dell’accordo divisorio tra le sorelle”. In tal modo Elena Poli ha configurato il Deed come un atto avente ad oggetto la divisione del patrimonio costituito nel Pale Trust e, su questa base, ha dedotto, a sostegno della richiesta di annullamento per dolo, che “non avrebbe prestato il proprio consenso all’apporzionamento de quo, qualora già allora la sorella Paola Poli avesse disvelato le sue reali intenzioni circa il futuro del Gruppo Poli” (pag. 17 della citata memoria), e, a supporto della domanda di rescissione per lesione, che “lo squilibrio della ripartizione” ha comportato “un oggettivo difetto funzionale della divisione” (pag. 27 del medesimo atto).
Quantunque la controricorrente Elena Poli abbia esplicitato di non avere inteso mettere in discussione la validità del Deed, in realtà, avuto riguardo al petitum sostanziale, l’annullamento o la rescissione dell’apporzionamento ovvero, ancora e in via subordinata, l’accertamento che senza i dedotti raggiri usati dalla sorella l’accordo sarebbe stato concluso da Elena Poli a condizioni diverse e per lei più vantaggiose o che l’apporzionamento stesso sarebbe privo di causa e avrebbe determinato un ingiustificato depauperamento per una delle stipulanti, costituiscono la fonte della pretesa creditoria avanzata in giudizio da Elena Poli.
8.3. – Non è condivisibile la tesi della controricorrente secondo cui l’invalidità e la rescindibilità del Deed potrebbero essere rilevate e conosciute incidenter tantum.
E’ sufficiente osservare che sono oggetto di cognizione incidenter tantum, ai sensi dell’art. 34 cod. proc. civ., solo le questioni pregiudiziali in senso tecnico. Queste ricorrono allorché le parti controvertano su di un antecedente giuridico non necessitato in senso logico dalla decisione e potenzialmente idoneo a riprodursi tra le stesse parti in relazione ad ulteriori e distinte controversie, di guisa che la statuizione su di esso, per la pluralità di effetti derivabili, possa lasciarne impregiudicata la riemersione in altra sede processuale (Cass., Sez. II, 26 marzo 2015, n. 6172).
Nella specie, l’invalidità per dolo e la rescindibilità per lesione del Deed, in quanto contenente una valutazione del Gruppo Poli asseritamente inadeguata e la cui applicazione sarebbe frutto del dolo o del comportamento illegittimo di Paola Poli, rientrano nell’oggetto della domanda e del processo e sono al di fuori del perimetro della pregiudizialità: esse costituiscono la fonte della pretesa creditoria vantata da Elena Poli e la causa petendi della domanda avente come petitum l’accertamento del credito e la condanna della sorella a soddisfarlo. Non esistono, in altri termini, due temi controversi, uno dei quali – l’asserito credito – possa essere oggetto di decisione, e l’altro – l’invalidità per dolo o la rescindibilità per lesione del Deed – oggetto di cognizione incidenter tantum.
8.4. – Né, d’altra parte, può dubitarsi della validità della detta clausola compromissoria, trattandosi di accordo di deroga della giurisdizione italiana che verte su diritti disponibili, ai sensi dell’art. 4, comma 2, della legge n. 218 del 1995: esso, infatti, è contenuto in un atto, il Deed, che concerne una situazione avente natura patrimoniale.
Ritiene questa Corte che la previsione del citato art. 4, comma 2, della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato debba essere ricollegata, in via sistematica: (a) all’art. 1966, secondo comma, cod. civ., con cui si sancisce esplicitamente come non possano formare oggetto di transazione i diritti che, «per loro natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti»; (b) all’art. 806 cod. proc. civ., che, salvo espresso divieto di legge, consente alle parti di «far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili»; (c) all’art. H della Convenzione per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, adottata a New York il 10 giugno 1958 (l’adesione alla quale è stata autorizzata con la legge 19 gennaio 1968, n. 62), disposizione che fa riferimento ad una questione suscettiva di essere regolata in via arbitrale («une question susceptible d’étre réglée par voie d’arbitrage») (cfr. Cass., Sez. U., 4 maggio 2006, n. 10219).
Questa Corte ha in proposito chiarito che l’area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determini una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte (Cass., Sez. I, 12 settembre 2011, n. 18600); e ha precisato che l’indisponibilità del diritto costituisce il limite al ricorso alla clausola compromissoria e non va confusa con l’inderogabilità della normativa applicabile al rapporto giuridico, la quale non impedisce la compromissione in arbitrato, con cui si potrà accertare la violazione della norma imperativa senza determinare con il lodo effetti vietati dalla legge (Cass., Sez. VI-1, 16 aprile 2018, n. 9344).
Si tratta di una conclusione conforme all’elaborazione della dottrina, la quale ha evidenziato che la disponibilità del diritto si concreta nella facoltà che una parte ha di incidere su un proprio diritto soggettivo, determinandone il destino, e che, di conseguenza, il concetto di diritti indisponibili si riferisce a situazioni accertabili, se controverse, solo da parte dell’autorità giudiziaria.
A ciò aggiungasi che l’eventuale presenza, nella fattispecie, di norme di applicazione necessaria (nell’accezione datane dall’art. 17 della legge n. 218 del 1995) – ossia di norme della lex fori operanti
come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato da una norma di conflitto – non incide sul diverso problema della possibilità di compromettere in arbitrato estero la controversia, non potendosi presumere che il lodo dell’arbitrato estero si porrà in concreto contrasto con la norma italiana di ordine pubblico (cfr. Cass., Sez. U., 20 febbraio 2007, n. 3841).
8.5. – Il Deed reca, oltre alla clausola arbitrale (art. 15), gli artt. 16 e 17, con la previsione della giurisdizione del giudice straniero, delle Corti d’Inghilterra e del Galles (art. 16) e di quella della Nuova Zelanda (art. 17).
Sotto la rubrica “Jurisdiction“, infatti, l’art. 16 prevede che “ai sensi della clausola 15, le parti in questo Atto scelgono irrevocabilmente quale foro competente in via non esclusiva il Tribunale d’Inghilterra e del Galles” (così nella traduzione giurata in atti; nell’originale: “Subject to clause 15, the parties to this Deed irrevocably submit to the non-exclusive jurisdiction of the Courts of England and Wales); a sua volta, l’art. 17, rubricato “No intention to oust Court’s jurísdiction“, prevede che “Nulla nelle clausole 15 o 16 del presente Atto sarà letto o interpretato come inteso a escludere la competenza dell’Alta Corte della Nuova Zelanda” (nell’originale: “Nothing in clauses 15 or 16 of this Deed shall be read or construed as intended to oust the inherent jurisdiction of the High Court of New Zealand”)..
8.5.1. – La difesa della controricorrente Elena Poli, nella memoria depositata in prossimità della camera di consiglio del 18 giugno 2019, ha prospettato che un’interpretazione cauta e non demolitoria degli artt. 15, 16 e 17 del Deed debba condurre a concludere che le parti, consapevoli che le eventuali controversie sulla successione e sulla divisione del patrimonio del de cuius avrebbero presentato un legame stretto con l’ordinamento italiano e con la restante materia successoria dell’eredità Poli, abbiano voluto non già escludere la giurisdizione italiana sul Deed, ma semmai affiancarvi altre giurisdizioni, prima tra tutte l’arbitrale svizzera, lasciate tuttavia alle scelta libera di ciascun contraente e ferma, per le controversie in materia di amministrazione del Pale Trust, la giurisdizione neozelandese. La deduzione difensiva muove dal rilievo che le clausole del Deed sulla scelta del foro competente (artt. 15, 16 e 17), dato il loro contenuto “palesemente non esclusivo”, non potrebbero avere reale portata derogatoria della giurisdizione italiana, che rimarrebbe quella con il maggior numero di connessioni con la fattispecie controversa.
8.5.2. – Il Collegio non condivide detta interpretazione.
Essa muove dall’erroneo presupposto che, poiché la scelta dell’autorità giudiziaria inglese (e del Galles) è espressamente definita “non-esclusiva”, con ciò le parti avrebbero inteso ammettere proprio “la possibilità che la jurisdiction sul Deed spettasse, oltre che all’arbitrato svizzero e al foro inglese, a ogni altra giurisdizione virtualmente competente, compresa quella del giudice italiano”.
In realtà, una lettura complessiva del tenore delle tre clausole, ancorata al loro significato letterale e rispettosa della volontà dei paciscenti, induce a scartare la tesi che l’espressa qualificazione come “non-esclusiva” della giurisdizione inglese valga a renderla concorrente con ogni altra autorità giudiziaria munita per legge di competenza giurisdizionale (compresa, quindi, quella italiana). La giurisdizione dei giudici inglesi (e del Galles) è “non-esclusiva” perché essa concorre con la giurisdizione statale dell’Alta Corte della Nuova Zelanda, la cui “inherent jurisdiction” in tema di administration del Pale Trust è ribadita e fatta salva con l’articolo immediatamente successivo.
In sostanza, la piana lettura, consecutiva ed integrata, delle tre clausole sopra citate (artt. 15, 16 e 17 del Deed) offre alle parti un ventaglio di possibilità, rimesse alla scelta di chi promuove il giudizio, ma all’interno dei tre fori alternativamente previsti: l’arbitrato svizzero (amministrato, con sede a Lugano, essendo pattuita la rinuncia a qualunque obiezione in merito alla sede di tale procedura arbitrale e a ogni contestazione in ordine alla competenza del foro adito); l’autorità giudiziaria inglese; e, venendo in considerazione un atto di amministrazione del Pale Trust, l'”inherent jurisdiction” dell’Alta Corte della Nuova Zelanda.
Questo sistema, aperto all’interno, è chiuso ed esclusivo all’esterno, e pertanto, in sé autosufficiente e completo, non ammette integrazioni “ortopediche” ab extra derivanti dall’innesto, sulle scelte operate dall’autonomia privata, di (tutte le) altre giurisdizioni statali munite, in base alla legge, di un criterio di collegamento con la fattispecie controversa.
In altri termini, la giurisdizione arbitrale svizzera, mentre è affiancata dalla (concorrente) giurisdizione inglese e da quella neozelandese e non deroga ad esse, deroga a tutti gli effetti a quella italiana sul Deed.
9. – Dovendo escludersi che l’arbitro svizzero non possa conoscere della causa (ai sensi dell’art. 4, comma 3, della legge n. 218 del 1995) o che la convenzione arbitrale sia «caduque, inopérante ou non susceptible d’étre appliquée» (agli effetti di quanto previsto dall’art. II, paragrafo 3, della Convenzione di New York del 10 giugno 1958), va dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
Tale declaratoria non è preclusa dalla pendenza in Italia, tra le stesse parti, di altri giudizi connessi: dovendosi dare continuità al principio secondo cui la clausola compromissoria per arbitrato estero, che sia stata validamente stipulata a norma dell’art. II della citata Convenzione di New York del 10 giugno 1958, comporta una deroga alla giurisdizione italiana che non viene meno per ragioni di connessione fra la controversia devoluta ad arbitri stranieri ed altra spettante alla cognizione del giudice italiano, salva restando l’eventuale sospensione di quest’ultima per ragioni di pregiudizialità (Cass., Sez. U., 12 gennaio 1982, n. 124).
10. – Sulle conformi conclusioni del pubblico ministero, è dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
11. – La complessità e la novità delle questioni trattate giustificano la compensazione tra le parti delle spese dell’intero processo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano e compensa tra le parti le spese dell’intero processo.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 3 luglio 2019.
Allegati:
SS.UU, 12 febbraio 2019, n. 18831, in tema di trust