In tema di contributo unificato – SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20621
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta da:
Oggetto:
TRIBUTI ALTRI
Ud.23/05/2023 PU
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle Entrate ha depositato ai sensi dell’art. 134 disp. att. c.p.c. l’8 novembre 2021 controricorso notificato il 18 ottobre 2021 per resistere al ricorso notificatole il 6 settembre 2021 da Rossana Recinella, avente ad oggetto l’impugnazione di una sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo del 2 febbraio 2021.
Il ricorso notificato da Rossana Recinella non risulta depositato in cancelleria a norma dell’art. 369 c.p.c., nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149 del 2022, qui applicabile ratione temporis.
Con ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022, pronunciata all’esito dell’adunanza del 18 ottobre 2022, fissata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. (formulazione applicabile ratione temporis), la Sesta Sezione civile Tributaria ha rimesso al Primo Presidente per eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite. L’ordinanza interlocutoria ha, invero, ravvisato la particolare rilevanza della questione inerente alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), comma introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), nell’ipotesi, quale quella di causa, in cui la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, notificato ma non depositato, consegua alla iscrizione a ruolo del processo di cassazione operata dal controricorrente.
È stata acquisita la relazione predisposta dall’Ufficio del Massimario.
La causa è stata decisa in camera di consiglio procedendo nelle forme di cui all’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile a norma dell’art. 8, comma 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito con modificazioni nella legge 24 febbraio 2023, n. 14).
Il Pubblico Ministero, in persona della Sostituta Procuratore Generale Luisa De Renzis, ha formulato conclusioni motivate, chiedendo di enunciare il seguente principio di diritto:
““nei casi in cui il ricorso è stato dichiarato improcedibile, ex art. 369 c.p.c., per non essere avvenuta l’iscrizione a ruolo del ricorso ad opera del ricorrente ma la controparte si sia costituita con controricorso, determinando così la concreta incardinazione del giudizio dinanzi alla S.C., trova applicazione il disposto di cui all’art. 13, comma 1- quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, Testo unico delle spese di giustizia, nel testo introdotto dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, ai sensi del quale, quando l’impugnazione, anche incidentale, è dichiarata improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis”.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. L’Agenzia delle Entrate ha depositato l’8 novembre 2021 controricorso notificato il 18 ottobre 2021 per resistere al ricorso notificatole il 6 settembre 2021 da Rossana Recinella, avente ad oggetto l’impugnazione di una sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo del 2 febbraio 2021.
Il ricorso notificato da Rossana Recinella non risulta depositato in cancelleria a norma dell’art. 369 c.p.c., nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149 del 2022, qui applicabile ratione temporis.
2. Secondo consolidato orientamento di questa Corte, la parte alla quale sia stato notificato un ricorso per cassazione – e che abbia a sua volta notificato al ricorrente il controricorso – ha il potere, ove il ricorrente abbia omesso di depositare il ricorso e gli altri atti indicati nell’art. 369 c.p.c., di richiedere l’iscrizione a ruolo del processo al fine di far dichiarare l’improcedibilità del ricorso medesimo, essendo tale potere ricompreso in quello più ampio di contraddire riconosciuto dall’art. 370 c.p.c. (esercitabile ora, alla stregua della riformulazione di tale norma operata dal d.lgs. n. 149 del 2022, con l’immediato deposito del medesimo controricorso). Ciò trova giustificazione nell’interesse del controricorrente al recupero delle spese e di evitare, mediante la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, che il ricorrente possa riproporre, ai sensi dell’art. 387 c.p.c., il ricorso medesimo ove non sia ancora decorso il termine per l’impugnazione (Cass. Sez. 6-L, n. 27571 del 2020; Sez. 1, n. 3193 del 2016; Sez. 6-L, n. 29297 del 2011; Sez. 3, n. 21969 del 2008; Sez. 2, n. 6824 del 1988).
3. La sentenza n. 4500 del 1988 di queste Sezioni Unite, peraltro, chiarì che, qualora il ricorso per cassazione non sia depositato, la ammissibilità del controricorso dell’intimato, presentato al fine di sentire dichiarare l’improcedibilità del ricorso per effetto dell’omissione del deposito, postula che detto intimato alleghi copia del ricorso a lui notificata, atteso che, in difetto, non può riconoscersi la sua legittimazione a richiedere in memoria una pronuncia su impugnazione di cui non risulta l’effettiva proposizione (conforme, più di recente, Cass. Sez. 3, n. 10810 del 2011).
4. Consegue l’improcedibilità del ricorso notificato da Rossana Recinella.
5. Con l’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022, la Sesta Sezione civile Tributaria ha ravvisato la particolare rilevanza della questione inerente alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nell’ipotesi, quale quella di causa, in cui la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, notificato ma non depositato, consegua alla iscrizione a ruolo del processo di cassazione operata dal controricorrente.
5.1. La Sesta Sezione civile Tributaria evidenzia che la questione di diritto è stata decisa in senso difforme nella giurisprudenza di questa Corte e perciò registra due orientamenti:
a) un primo orientamento, che l’ordinanza interlocutoria definisce maggioritario e riconduce a numerosi precedenti menzionati (tra cui uno reso da queste Sezioni Unite: ordinanza n. 30702 del 2022), provvede de plano ad attestare la sussistenza del presupposto processuale dell’obbligo di versamento del c.d. doppio contributo anche in caso di improcedibilità del riscorso dichiarata a seguito di iscrizione a ruolo operata dal controricorrente;
b) un secondo orientamento, che avrebbe come capofila l’ordinanza n. 8728 del 2022 resa dalla Sesta sezione Tributaria e comunque registra varie pronunce successive conformi, nega, al contrario, che il giudice dell’impugnazione debba rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale previsto dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, qualora la pronuncia adottata sia di improcedibilità del ricorso principale per omesso deposito di quest’ultimo, in quanto la mancata iscrizione a ruolo del ricorso preclude la debenza del contributo iniziale.
5.2. Questo secondo orientamento – segnala l’ordinanza interlocutoria – fa leva su alcuni principi enunciati nella sentenza n. 4315 del 2020 resa da queste Sezioni Unite, in forza dei quali il giudice dell’impugnazione deve, si, rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato quando la pronuncia adottata è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma, ed anche quando esso non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venire meno, ma, essendo tale attestazione comunque condizionata all’effettiva debenza del contributo unificato iniziale, può esimersi dal renderla quando il debito tributario in oggetto sia escluso dalla legge in modo assoluto e definitivo.
5.3. L’ordinanza n. 8728 del 2022, e l’orientamento che ad essa ha dato credito, ricomprendono tra i casi di originaria non debenza, che esonera dall’attestazione dei presupposti per il ‹‹raddoppio››, quello, appunto, della dichiarazione di improcedibilità del ricorso perché non depositato in cancelleria, in quanto la mancata iscrizione a ruolo preclude, o comunque radicalmente e definitivamente esclude, l’obbligo di pagare il contributo unificato iniziale.
5.4. L’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022 osserva, allora, che non è dirimente nella soluzione del problema l’argomento fondato sull’aggettivo “ulteriore” che accompagna l’importo dovuto nelle ipotesi contemplate nel comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, in quanto l’attestazione della debenza potrebbe valere a legittimare l’amministrazione finanziaria ad esigere sia quanto originariamente dovuto al momento dell’iscrizione a ruolo non praticata, sia quanto previsto dalla citata norma.
Il Collegio rimettente nega altresì che la questione sollevata possa risolversi unicamente seguendo i principi enunciati nella sentenza n. 4315 del 2020, i quali, del resto, sono richiamati da entrambi gli orientamenti che si contrappongono.
Così, l’ordinanza interlocutoria soppesa le diverse conseguenze deduttive che, ai fini di dar risposta alla rilevata questione, possono comportare la tesi della natura sanzionatoria della disposizione dettata nel comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, la cautela di sottoporre la stessa ad una stretta interpretazione, gli effetti sull’esercizio del diritto di accesso alla Corte di cassazione, il principio di ragionevolezza e quello del divieto di abuso del processo, il principio di solidarietà, i rapporti fra il diritto alla tutela giurisdizionale e le esigenze di tutela dell’‹‹interesse fiscale››.
6. Com’è noto, il “contributo unificato per le spese degli atti giudiziari” venne introdotto dall’art. 9, legge 23 dicembre 1999, n. 488 (“legge finanziaria 2000”). La disposizione sostituiva per i procedimenti civili, penali ed amministrativi il previgente sistema in tema di imposte di bollo, tassa di iscrizione a ruolo, diritti di cancelleria, nonché diritti di chiamata di causa dell’ufficiale giudiziario. La parte che si costituiva per prima in giudizio era onerata, “a pena di irricevibilità dell’atto”, all’anticipazione del pagamento del contributo, salvo il diritto alla ripetizione nei confronti della parte soccombente. Il valore dei procedimenti, occorrente per il calcolo del contributo sulla base di apposita tabella, doveva determinarsi da dichiarazione resa nelle conclusioni dell’atto introduttivo. La norma venne, nel complesso, abrogata dall’art. 299 del d.lgs. 30 maggio 2002, n. 113, e dall’art. 299 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
6.1. Gli artt. 9-18 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, hanno di seguito dettato la disciplina ancora vigente del contributo unificato di iscrizione a ruolo.
6.2. In particolare, l’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (“legge di stabilità 2013”) ha poi inserito (con la decorrenza di cui al comma 18 del medesimo articolo) il comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002:
“[q]uando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.
6.2.1. Una recente modifica è stata introdotta dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con l’inserimento del comma 1-quater.1 dell’art. 13, secondo cui le disposizioni di cui al comma 1-quater non si applicano quando il ricorso per cassazione viene dichiarato estinto ai sensi dell’articolo 380-bis, secondo comma, ultimo periodo, del codice di procedura civile.
6.2.2. La relazione tecnica che accompagnava la legge 24 dicembre 2012, n. 228, presentava l’art. 1, comma 17, come disposizione idonea a comportare maggiori entrate per il bilancio dello Stato. Sull’ultimo riscontro statistico disponibile, che stimava nella misura del 68 per cento del totale dei procedimenti iscritti (pari a circa 80.000) le impugnazioni, anche incidentali, respinte integralmente o dichiarate inammissibili o improcedibili, la relazione prevedeva che il pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato avrebbe determinato un maggior gettito pari a circa 27 milioni di euro, tale da produrre a decorrere dal 2013 un effetto finanziario di importo equivalente sui saldi di fabbisogno ed indebitamento netto.
7. L’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022 della Sesta Sezione civile Tributaria evoca i riflessi costituzionali della questione posta all’attenzione di queste Sezioni Unite.
7.1. Invero, la Corte costituzionale ha avuto più volte occasione di pronunciarsi sulla natura del contributo unificato di iscrizione a ruolo, come anche sul «raddoppio» contemplato dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
7.1.1. La sentenza n. 73 del 2005, a proposito del contributo unificato di cui all’articolo 9 della legge 21 dicembre 1999, n. 448, affermò la natura di “entrata tributaria erariale” dello stesso.
La sentenza n. 143 del 2012 e la sentenza n. 42 del 2013 ribadirono la natura di «entrata tributaria erariale» del contributo unificato.
La sentenza n. 78 del 2016, dopo aver rilevato la eterogeneità dei criteri di determinazione del «contributo unificato» dettati dal d.P.R. n. 115 del 2002, ricordò come il principio della capacità contributiva, quale limite alla potestà di imposizione di cui all’art. 53 Cost., non è invocabile e non può operare con riguardo alle spese di giustizia.
La sentenza n. 120 del 2016 evidenziò come l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 correla l’aggravio del contributo unificato a tutti i casi di esito negativo dell’impugnazione. La norma, pertanto, risponderebbe alla ratio di “scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose”. Secondo la sentenza n. 120 del 2016, altrimenti, “il raddoppio del contributo unificato è previsto a parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle limitate risorse a sua disposizione”.
7.2. Ancor più frequenti sono le pronunce della Corte costituzionale in tema di «diritto tributario processuale», il quale racchiude le norme che guardano al processo (ed in particolare al processo civile) come fenomeno finanziario, nonché come fine cui serve il tributo.
La decisioni meno recenti evidenziavano la compatibilità fra il principio costituzionale, che garantisce a tutti di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, e le norme che impongono oneri fiscali a carico di chi tale tutela intenda richiedere, purché si tratti di oneri razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio, diretti, cioè, ad assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione ed a prevenire eccessi riprovevoli nell’esercizio del diritto di azione (si vedano le sentenze nn. 45, 56, 83, 113 del 1963; nn. 30, 47, 69, 91, 100 del 1964; n. 80 del 1966).
In altre pur risalenti occasioni la Corte costituzionale ha sottolineato l’estraneità dei tributi giudiziari (ovvero, dei contributi imposti e riscossi non soltanto in occasione della prestazione del servizio giudiziario, ma anche e soprattutto al fine di conseguire atti o attività propri di quel servizio) all’ambito di applicazione dell’art. 53 della Costituzione (ad esempio, la sentenza n. 23 del 1968).
La sentenza n. 62 del 1977 mantenne ferma la distinzione tra i tributi “lato sensu” giudiziari, gravanti su soggetti che fruiscono divisibilmente (cioè in modo misurabile per ogni singolo atto) del servizio giudiziario in rapporto o all’esercizio del proprio ministero davanti ad organi giurisdizionali o all’emanazione di provvedimenti giurisdizionali (in quanto tali esclusi dall’assoggettamento al principio della capacità contributiva), e le prestazioni contributive che sono, al contrario, caratterizzate dal conseguimento di finalità generali distinte da quelle particolari relative al compimento di singoli atti, e perciò restano incluse nella garanzia dell’art. 53 Cost.
In anni più recenti (ad esempio, le sentenze n. 333 del 2001 e n. 522 del 2002) la Corte costituzionale ha ribadito la distinzione fra oneri imposti allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione ed alle sue esigenze ed oneri tendenti, invece, al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali, ravvisando l’illegittimità di quegli impedimenti alla tutela giurisdizionale dei diritti costituiti dall’adempimento di obblighi fiscali privi di qualsiasi connessione con il processo stesso.
Da ultimo, la sentenza n. 140 del 2022 ha affermato che la Costituzione non vieta di imporre prestazioni fiscali in stretta e razionale correlazione con il processo, ma, se, in linea di principio, possono esistere casi in cui il dovere tributario può tradursi in oneri concernenti l’esercizio dello stesso diritto alla tutela giurisdizionale, in concreto ciò può avvenire solo nel rispetto del principio di proporzionalità e in particolare della stretta necessità, risultando costituzionalmente legittimo, quindi, solo quando l’adempimento di tale dovere non possa essere adeguatamente tutelato in altro modo. Di tal che, il diritto alla tutela giurisdizionale non può comunque essere sacrificato in nome di esigenze di tutela dell’interesse fiscale.
7.3. La giurisprudenza costituzionale è stata, inoltre, più volte investita anche di questioni afferenti alla disciplina della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali nei giudizi civili (ad esempio, nelle sentenze n. 152 del 2016, n. 139 del 2019 e n. 87 del 2021).
Meritano richiamo, in questa sede, le parole della sentenza n. 77 del 2018, secondo cui «il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento». Opera, dunque, un «principio di responsabilità», per il quale chi è risultato essere nel torto si deve far carico, di norma, anche delle spese di lite. Le riforme degli ultimi anni, avvertiva la sentenza n. 77 del 2018, muovono dalla consapevolezza che, «a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera».
8. L’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022 prospetta altresì la tesi interpretativa della natura sanzionatoria della disposizione dettata nel comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002 come base per dare soluzione alla questione posta all’attenzione di queste Sezioni Unite.
8.1. La dottrina sembra schierata in modo compatto nel qualificare come “tributo” il contributo unificato dapprima introdotto dall’art. 9, legge 23 dicembre 1999, n. 488, quindi regolato negli artt. 9-18 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, trattandosi di prestazione patrimoniale doverosa, erogata in mancanza di un rapporto sinallagmatico, connessa ad un presupposto economicamente rilevante e destinata a sovvenire pubbliche spese. Benché correlato alla fruizione del servizio giudiziario, il contributo unificato si rivela privo di sinallagmaticità, giacché commisurato forfetariamente sulla base del valore economico della causa e non del costo della prestazione resa.
8.2. In particolare, il contributo unificato costituirebbe una “tassa”, in quanto ha come presupposto impositivo l’espletamento del servizio pubblico della giustizia richiesto dal soggetto che promuove la lite (non rivelandosi, di norma, indice di capacità contributiva, ai fini della sua erogazione, la mera partecipazione al giudizio). Il «contributo unificato» ha così dato luogo ad un metodo di imposizione sui «servizi giurisdizionali» che ha sostituito i previgenti sistemi analitici di tassazione giudiziaria per lo più «d’atto» con un prelievo tributario una tantum, normalmente commisurato al valore della lite, rendendo il processo, nei suoi singoli gradi, un unico evento presupposto.
8.3. Identica natura tributaria si riconosce generalmente all’«ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione», anche incidentale, che sia respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002. Ciò evitando di utilizzare l’argomento generale che le sanzioni mantengono la stessa natura dei tributi cui conseguono, visto che il “raddoppio” del contributo unificato non è correlato all’inadempimento dell’obbligo tributario primario, quanto perché al legislatore si riconosce ampia discrezionalità nel perseguire svariate finalità con l’imposizione fiscale, ed una di esse ben può essere quella di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose, apprestando un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario.
8.4. Questo effetto dissuasivo e deflattivo del processo, cui ambisce la disciplina del contributo unificato, ed in particolare del suo raddoppio per le impugnazioni respinte, non smentisce il fine finanziario della normativa.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Quinta sezione, 6 ottobre 2015, n. 61 (Causa C-61/14), ha affermato, del resto, che un tributo giudiziario contribuisce al buon funzionamento del sistema giustizia, in quanto “costituisce una fonte di finanziamento dell’attività giurisdizionale degli Stati membri e dissuade l’introduzione di domande che siano manifestamente infondate o siano intese unicamente a ritardare il procedimento”.
L’omogeneità di natura tra la prestazione base ed il suo duplicato imposto dal comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002 sembra trasparire anche dal significato proprio delle parole adoperate dal legislatore: quando l’impugnazione venga respinta integralmente, o sia dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’abbia proposta è tenuta a versare un importo che la legge definisce “ulteriore”, che dunque si aggiunge a quello precedente dovuto per la medesima impugnazione, ma comunque come il primo viene prescritto “a titolo di contributo unificato”.
È conforme ad un principio di giustizia distributiva allocare il costo del processo in capo a colui che ne abbia cagionato lo svolgimento. Tale considerazione non deve tuttavia ingenerare una confusione fra doverosità del contributo unificato, o, in particolare, del suo raddoppio, e soccombenza, criterio che regola il diverso profilo delle spese processuali. Non necessariamente i tributi giudiziari ricadono sulla parte soccombente. Così, il contributo unificato dev’essere versato da chi per primo fa accesso al giudice, per ciascuna fase del processo; il relativo importo, anticipato dall’attore, dall’appellante o dal ricorrente, può poi essere recuperato ove la sentenza che chiude il processo condanni la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte. Al contrario, l’«ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione», anche incidentale, che sia respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, non è mai compreso nel contenuto della condanna del soccombente al rimborso delle spese sostenute dal vincitore, in quanto esso è dovuto dal soccombente sin da quando insorge la relativa obbligazione ex lege.
8.5. La ricostruzione appena accennata porta a smentire il riconoscimento di una qualche natura sanzionatoria del raddoppio del contributo unificato. Il proprium di un tributo giudiziario è concorrere alla spesa pubblica, non perseguire una finalità punitiva. Il presidio sanzionatorio avverso condotte di abuso del diritto di impugnazione è, piuttosto, fornito dalla responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.
D’altro canto, al raddoppio del contributo unificato posto a carico dell’impugnante non è applicabile la disciplina definitoria e di riscossione delle sanzioni pecuniarie processuali prevista dagli artt. 1, 3, comma 1 lett. u) e 202 del d.P.R. n. 115 del 2002.
Non contraddice questa affermazione neppure la constatazione che il contributo unificato raddoppiato, pur mantenendo natura di misura esclusivamente tributaria, assolva ad una funzione secondaria della fiscalità, non punitiva in senso proprio, quanto disincentivante rispetto ad una superflua richiesta di prestazioni giudiziarie.
È, dunque, proprio e soltanto l’esito integralmente negativo del giudizio di impugnazione che giustifica il maggior costo del servizio imposto al richiedente, il quale ha vanamente sollecitato il riesame di una decisione meritevole di passare in giudicato ed ha fatto svolgere un ulteriore grado di giudizio rivelatosi del tutto superfluo. Il comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002 mantiene, così, coerenza, con la rubrica “Importi” di tale articolo, ravvisando nel raddoppio proprio un criterio di determinazione dell’importo. La misura del contributo dovuta in forza dell’art. 13, comma 1-bis, per i giudizi di impugnazione e per i processi dinanzi alla Corte di cassazione costituisce un anticipo della somma reale da corrispondersi, la quale è pari al doppio dell’importo iniziale e deve essere versata alla fine. L’accoglimento del gravame giustifica il trattamento tributario agevolato in favore di chi abbia avuto bisogno dell’ulteriore prestazione del servizio giustizia allo scopo di sovvertire la decisione ingiusta maturata nel grado precedente. Viceversa, se l’impugnazione viene respinta, o dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte deve a saldo l’intero carico fiscale del servizio.
9. La natura di obbligazione tributaria del versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, fa ormai parte anche dell’acquis giurisprudenziale e si trova affermata a chiare lettere nella sentenza n. 4315 del 2020 resa da queste Sezioni Unite: ciò sia perché l’obbligo “ulteriore” al c.d. “doppio contributo” presuppone normativamente l’obbligo di versare il “primo” contributo unificato e, quindi, partecipa della natura di esso; sia perché il versamento “ulteriore” assolve la funzione di ristorare l’amministrazione della Giustizia dall’aver essa dovuto impegnare le limitate risorse dell’apparato giudiziario nella decisione di una impugnazione non meritevole di accoglimento (ciò, si scriveva in quella sentenza“, non disgiuntamente dal perseguimento di “una funzione preventivo-deterrente – e, quindi, vagamente sanzionatoria – nei confronti della parte che, avendo già ottenuto la decisione della causa dal giudice di primo grado, non se ne accontenti, ma adisca infondatamente il giudice superiore”).
Occorre qui richiamare per sintesi, e cioè per quanto rilevi nel caso in esame, alcuni dei passaggi esplicitati nella sentenza n. 4315 del 2020.
Non spetta al giudice civile, al fine di rendere l’attestazione di cui al comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, accertare la debenza del contributo unificato iniziale, che poi costituisce altresì il fatto costitutivo di diritto sostanziale tributario dell’obbligo di versare il suo duplicato.
Spetta, piuttosto, al giudice civile dell’impugnazione verificare la sussistenza del fatto costitutivo di diritto processuale attinente alla conformità della decisione resa al modello legale della pronuncia di integrale rigetto, di inammissibilità o di improcedibilità del gravame.
Poiché l’obbligo di versare il raddoppio è normativamente dipendente dalla sussistenza dell’obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato iniziale, il giudice civile dell’impugnazione nell’attestazione di sussistenza dei presupposti processuali condiziona il primo all’esistenza dell’altro: egli deve rendere l’attestazione che il comma 1-quater gli affida anche nel caso in cui il primo importo non sia stato versato per una causa diversa da quella legata alla assoluta e definitiva esenzione da esso stabilita dalla legge.
10. Possono allora trarsi le seguenti conclusioni.
10.1. La questione rimessa a queste Sezioni Unite dalla ordinanza interlocutoria della Sesta Sezione civile Tributaria si intende riferita alla sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nell’ipotesi in cui la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, notificato ma non depositato, consegua alla iscrizione a ruolo del processo di cassazione operata dal controricorrente. Come già chiarito nella sentenza n. 4315 del 2020, non spetta infatti al giudice civile dell’impugnazione (ed è, del resto, estranea altresì al tema del giudizio in esame) la pronuncia sulla debenza del contributo unificato iniziale, né quindi quella sul presupposto sostanziale dell’obbligo del ‹‹raddoppio››, essendo ciò materia rientrante nella giurisdizione del giudice tributario e nell’ambito del diverso processo in cui l’Amministrazione finanziaria richieda il pagamento del tributo nei confronti del soggetto ad esso obbligato.
10.2. La pronuncia con cui la Corte di cassazione dichiara l’improcedibilità del ricorso, per effetto del mancato deposito dello stesso a norma dell’art. 369 c.p.c., a seguito della iscrizione a ruolo a tal fine richiesta dalla parte cui il ricorso sia stato notificato, deve rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, essendo il provvedimento adottato inquadrabile nei tipi previsti dalla norma.
Anche in tal caso, invero, non può dirsi escluso dalla legge l’obbligo di versare il contributo unificato iniziale, né rileva, peraltro, che esso non sia stato in concreto versato dal ricorrente, avendo comunque provveduto al pagamento (o, eventualmente, prenotato a debito il relativo importo, nei casi di cui all’art. 11 del d.P.R. n. 115 del 2002)
il controricorrente “diligente”.
L’art. 14, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 individua la parte che per prima si costituisce in giudizio come tenuta al pagamento contestuale del contributo unificato, senza che possa così distinguersi, nel giudizio di cassazione, tra le posizioni del ricorrente o del controricorrente (salvo il criterio del pagamento dell’autonomo contributo cui siano poi tenute le altre parti ai sensi del comma 3 della stessa norma). L’importo versato a titolo di contributo unificato dal controricorrente, che abbia richiesto l’iscrizione a ruolo del processo al fine di far dichiarare l’improcedibilità del ricorso non depositato, può essere recuperato in sede di regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione secondo soccombenza.
Il pagamento del contributo unificato rientra, invero, nell’onere di anticipazione delle spese delineato dall’art. 8 del d.P.R. n. 115 del 2002, e trova poi sistemazione finale in base agli artt. 91, 92 o 310, comma 4, c.p.c. Viceversa, l’«ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione» che sia respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, grava ex lege sulla parte soccombente, anche quando questa non si sia costituita, oppure quando sia disposta dal giudice la compensazione delle spese processuali.
Ricorre, del resto, anche in ipotesi di dichiarazione di improcedibilità del ricorso notificato e non depositato, la funzione, propria dell’obbligo tributario del versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, di ristorare l’amministrazione della Giustizia dall’aver essa dovuto impegnare le limitate risorse dell’apparato giudiziario nella decisione di una impugnazione non meritevole di accoglimento. L’improcedibilità del ricorso per cassazione notificato e non depositato postula comunque lo svolgimento di un grado del giudizio rivelatosi del tutto superfluo e giustifica il maggior costo fiscale del servizio.
10.3. Va quindi enunciato il seguente principio di diritto:
“la pronuncia con cui la Corte di cassazione dichiara l’improcedibilità del ricorso, per effetto del mancato deposito dello stesso a norma dell’art. 369 c.p.c., a seguito della iscrizione a ruolo a tal fine richiesta dalla parte cui il ricorso sia stato notificato, deve rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, essendo il provvedimento adottato inquadrabile nei tipi previsti dalla norma”.
11. In definitiva, il ricorso notificato da Rossana Recinella deve essere dichiarato improcedibile, con condanna della ricorrente a rimborsare alla controricorrente Agenzia delle Entrate le spese del giudizio di cassazione nell’importo liquidato in dispositivo.
Non vi è ragione di procedere alla compensazione delle spese, in quanto il contrasto rimesso alla decisione di queste Sezioni Unite non concerneva una questione dirimente oggetto del giudizio di cassazione.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte dichiara improcedibile il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi € 3.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 23 maggio 2023.
Il Consigliere estensore
ANTONIO SCARPA
Il Presidente
PASQUALE D’ASCOLA
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 11 novembre 2022, n. 33271, per SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20621, in tema di contributo unificato
SS.UU, 17 luglio 2023, n. 20621, in tema di contributo unificato
In tema di appello – SS.UU, 12 maggio 2017, n. 11799
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CANZIO Giovanni – Primo Presidente –
Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sezione –
Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente di Sezione –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sezione –
Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –
Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 2753/2011 proposto da:
R.A., in proprio e quale erede di T.R.L., B.M. in proprio e quale erede di B.L., B.P.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SALARIA 259, presso lo studio dell’avvocato — (Studio Bonelli erede Pappalardo), rappresentati e difesi dall’avvocato —, giuste procure in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
SOCIETA’ SEMPLICE D. & G.Z., in persona dei suoi soci omonimi, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BOCCA DI LEONE 78, presso lo studio dell’avvocato —, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati — e —, giusta delega a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 749/2010 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 15/07/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/12/2016 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;
udito l’Avvocato —;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Nel gennaio del 1995 T.R.L., R.A.M., B.L. ed B.P.E., questi ultimi due quali eredi di B.G., convenivano in giudizio dinnanzi al Tribunale di Parma la “D. e G.Z. società semplice”, chiedendo:
a) in via principale, l’accertamento della nullità della compravendita di una porzione di terreno facente parte di un podere denominato “(OMISSIS)”, conclusa il 16 marzo 1989 per atto notarile, fra la T.R., in proprio e quale rappresentante della figlia R.A.M., e B.G., quali venditrici, e la società convenuta, all’epoca Azienda Agricola G.Z. & C. s.a.s., oltre al risarcimento dei danni;
b) in via subordinata l’annullamento dello stesso contratto per dolo ovvero per errore;
c) in via ulteriormente subordinata, previa “revoca” della quietanza contenuta nell’atto di compravendita, la condanna della società al pagamento del prezzo pari a 69 milioni di lire, oltre interessi legali dalla data del rogito, ed il maggior danno.
1.1. La convenuta si costituiva e chiedeva il rigetto della domande, evidenziando, altresì, la contemporanea pendenza di un procedimento penale, nel quale Z.G., nella veste di loro procuratore, risultava imputato per il reato di truffa contrattuale, in relazione alla vendita delle altre parti residue del detto podere, nonchè sostenendo l’estinzione del processo, in quanto l’azione civile era stata esercitata dalle attrici in sede penale, al fine di ottenere la restituzione e il risarcimento del danno.
Nel corso del lungo svolgimento processuale di primo grado, nel quale veniva disattesa l’istanza di estinzione, interveniva la condanna dello Z. in sede penale.
2. Il Tribunale di Parma, con sentenza del febbraio 2002, accoglieva soltanto la domanda delle attrici avente ad oggetto la condanna della società al pagamento della somma di 69 milioni di Lire, mentre rigettava le altre domande.
3. Le parti attrici proponevano appello in via principale contro Z.D. e Z.G., in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili della società semplice Azienda Agricola D. e G.Z., lamentando l’erroneità del rigetto delle altre domande, mentre gli appellati, in sede di costituzione, proponevano appello incidentale chiedendo la riforma della sentenza appellata nella parte in cui aveva accolto la domanda di pagamento del corrispettivo della compravendita.
4. La Corte di Appello di Bologna, con sentenza del 5 luglio 2010, ha rigettato l’appello principale ed accolto quello incidentale, caducando la condanna degli appellati al pagamento della somma corrispondente al prezzo pattuito.
5. Avverso tale sentenza, Z.D. e Z.G. e R.A.M., in proprio e quale erede di T.R.L., B.M., quale unico erede di B.L., deceduto nel corso del giudizio, ed B.P.E., hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a dieci motivi, contro la società semplice Azienda Agricola D. e G.Z., in persona dei soci illimitatamente responsabili.
6. Al ricorso ha resistito con controricorso l’intimata.
7. La trattazione del ricorso veniva fissata per l’udienza del 4 febbraio 2016 davanti alla Seconda Sezione Civile della Corte e i ricorrenti depositavano memoria ex art. 378 c.p.c..
All’esito della camera di consiglio, la Seconda Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 4058 del 2016, rimetteva gli atti al Primo Presidente, per la risoluzione di un contrasto di giurisprudenza, la cui soluzione reputava rilevante per la decisione del quinto motivo di ricorso.
8. Il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e seguiva la fissazione dell’odierna udienza, in vista delle quali le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. In via preliminare, deve disattendersi l’eccezione dei resistenti, di inammissibilità del ricorso, in quanto sarebbe stato proposto contro Z.D. e Z.G. in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili dell’Azienda Agricola D. e G.Z., mentre in primo grado era stata convenuta la D. e G.Z. società semplice, in persona del suo legale rappresentante pro tempore.
L’assunto – ove si dovesse intendere nel senso che i due soci sarebbero stati evocati in giudizio in proprio, mentre non erano parti come tali ma come soci – è basato su un dato inesistente, giacchè il ricorso per cassazione è stato espressamente proposto contro la società semplice Azienda Agricola D. e G.Z., in persona dei soci illimitatamente responsabili, Z.D. e Z.G..
1.1. Peraltro, ancorchè l’intestazione della sentenza rechi l’indicazione come parte appellata di “Z.D. e Z.G., in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili della società semplice Azienda Agricola D. e G.Z.”, dall’esame della sentenza non emerge alcunchè che evidenzi che la legittimazione a stare in giudizio di dette persone fosse stata spesa anche in proprio ed il dispositivo della sentenza, in punto di regolamento delle spese giudiziali, reca la condanna a favore dell’appellata, cioè della società semplice.
2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, senza indicare nell’intestazione alcuna norma di diritto violata, la “violazione di legge sostanziale (art. 360, n. 3) in tema di giudicato esterno”.
2.1. La violazione del giudicato esterno riguarderebbe la sentenza, pronunciata dalla stessa Corte di Appello felsinea in sede penale in data 18 gennaio 2010 e divenuta successivamente irrevocabile, con la quale Z.G. venne definitivamente condannato per il reato di truffa in danno dei ricorrenti.
A fronte dell’eccezione di cosa giudicata, la sentenza impugnata ha ritenuto che il precedente di questa Corte, invocato da parte delle appellanti (cioè Cass. civ. 15 febbraio 2001 n. 2200), non potesse trovare applicazione nella fattispecie, in quanto la vendita del 16 marzo 1989, della quale si era chiesto l’accertamento della nullità ovvero l’annullamento, non rientrava tra gli atti traslativi, che erano stati sottoposti direttamente all’attenzione del giudice penale, onde verificare la sussistenza degli estremi del delitto contestato allo Z..
Secondo il giudice di appello, infatti, sebbene nella sentenza penale fosse presente un riferimento all’atto del 16 marzo 1989, esso era finalizzato esclusivamente a giustificare le incongruenze, dimenticanze ed errori del racconto delle parti lese, mentre non vi era stato un immediato accertamento circa l’incidenza causale della condotta delittuosa dell’imputato sulla volontà delle venditrici.
2.2. Il motivo è inammissibile e comunque privo di fondamento.
E’ inammissibile, perchè non censura espressamente la ratio decidendi, enunciata a pagina 10 dalla sentenza impugnata con l’espressione “a prescindere dalla difficoltà di ritenere opponibili gli eventuali fatti penalmente accertati nei confronti di un soggetto terzo rispetto a quel giudizio, qual è l’attuale appellata”.
Il motivo di ricorso non si fa carico di questa affermazione e, poichè essa vale di per sè a sorreggere la negazione dell’efficacia del preteso giudicato esterno, ne consegue che il suo consolidarsi per mancanza di impugnazione fa passare in cosa giudicata la relativa ratio decidendi e tanto preclude la possibilità di esaminare l’altra sottoposta a critica.
2.3. Peraltro, il motivo, nella stessa sua astratta prospettazione in iure, è infondato.
Il giudicato penale sarebbe riferibile alla società, in quanto formatosi nei confronti dello Z., che ne è socio e la rappresenta nel presente giudizio civile.
L’assunto è privo di fondamento.
La mancanza della personalità giuridica, nella società semplice, come, del resto, nelle società personali in genere, non esclude che la società abbia una sua soggettività, strumentale, volta a consentire alla pluralità di soci una unitarietà delle forme d’azione (in termini: Cass. n. 8399 del 2003 e Cass. n. 7886 del 2006).
Ora, se un socio della società semplice agisce nella qualità di amministratore della società e commette un reato a vantaggio della società e viene attinto da un processo penale, all’esito del quale viene affermata la sua responsabilità, la connotazione di essa come personale e, dunque, come responsabilità della persona fisica, non consente di riferire il giudicato penale alla società personale e, dunque, alla società semplice, per la ragione che la presenza nel giudizio penale come imputato del socio che pure ha agito in sua rappresentanza come amministratore è riferibile esclusivamente alla sua persona e non alla società.
La presenza nel giudizio penale della società suppone, invece, che essa vi venga chiamata come responsabile civile a norma dell’art. 83 c.p.p..
3. Il secondo motivo è così intestato: “Sulla nullità. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più fatti controversi e decisivi (art. 360 c.p.c., n. 5)”.
In esso nemmeno vengono identificati i termini dell’azione di nullità, che risulta difficile individuare nella stessa struttura complessiva del ricorso.
L’illustrazione del motivo, peraltro, non evidenzia alcuna critica in iure con riferimento alla categoria della nullità e deve, pertanto, apprezzarsi solo come critica svolta alla stregua del paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
3.1. Senonchè, si deve rilevare, in proposito, che lo stesso esordio dell’illustrazione del motivo rivela che i ricorrenti si sono posti del tutto al di fuori della logica che esigeva il paradigma dell’art. 360, n. 5.
Si dice, infatti, nell’exordium, che “allorchè si accosta alla vicenda, l’intera motivazione può presentarsi come logica solo letteralmente chiudendo gli occhi sui fatti accertati in sede penale (e, complessivamente, in altri 7 giudizi tutti persi dall’Ing. Z.). In realtà, la motivazione impugnata è gravemente illogica, è superficiale perchè basata su una mera presunzione (peraltro non grave, nè univoca e pure smentita per tabulas e tradisce una errata valutazione di questioni fondamentali ai fini della decisione della causa”.
Ebbene, già questo incipit esclude che, nella successiva illustrazione, le ricorrenti abbiano potuto argomentare il dedotto motivo di cui all’art. 360, n. 5, nel testo applicabile al presente giudizio di cassazione, che avrebbe richiesto l’indicazione sia dei “fatti controversi” oggetto del vizio denunciato (ex multis, Cass. n. 17761 del 2016, da ultimo), sia della motivazione articolata dalla sentenza impugnata riguardo ad essi, sia delle ragioni di decisività evocate nel paradigma del n. 5.
E la lettura dell’illustrazione lo conferma e non consente di attribuirgli la struttura di idoneo motivo a sensi dell’art. 360, n. 5, secondo il testo già richiamato.
Queste le ragioni:
a) nell’intera esposizione del motivo non viene mai evocato, innanzitutto, il concetto di fatto controverso, ma si svolgono critiche a quella che si definisce presunzione applicata dalla corte territoriale, indicandola nell’avere ritenuto, con motivazione che si dice “inconsistente”, che le ricorrenti non potevano non sapere che la famosa vendita non riguardava un cespite diverso da quello già oggetto di una precedente vendita;
b) il motivo, dunque, appare rivolto a criticare l’approdo di un ragionamento presuntivo svolto dalla corte territoriale, ma la critica non viene svolta con argomenti in iure circa l’erronea applicazione dei caratteri individuatori della presunzione semplice alla stregua dell’art. 2729 c.c., comma 1, (che è possibile denunciare come vizio di violazione di tale norma di diritto: Cass. n. 17457 del 2007);
c) il motivo fa riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, ma si limita ad individuarla in modo atomistico, sicchè il lettore, essendo investito della lettura di parti non raccordate, non si trova di fronte ad una individuazione effettiva della motivazione della corte territoriale, ma di affermazioni che, in quanto estrapolate, non possono essere considerate rivelatrici del convincimento della corte di merito;
d) la critica svolta al ragionamento presuntivo che avrebbe svolto la corte territoriale, pur collocata nell’art. 360 c.p.c., n. 5, prospetta, peraltro, esclusivamente una ricostruzione della posizione dei ricorrenti nella conclusione della vendita del marzo 1989 in termini di mera possibilità alternativa a quella (che sarebbe stata) ritenuta dalla corte territoriale;
e) in tal modo, ci si pone al di fuori del paradigma del n. 5, applicabile al ricorso, con riferimento alla critica del ragionamento presuntivo, svolta non in iure, ma con riferimento ad una errata ricostruzione della quaestio facti, funzionale all’applicazione della regola presuntiva: una simile critica esigeva, infatti, il rispetto del principio di diritto secondo cui “In tema di ricorso per cassazione, il riferimento contenuto nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, applicabile ratione temporis) – al “fatto controverso e decisivo per il giudizio” implicava che la motivazione della quaestio facti fosse affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che fosse tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione” (Cass. n. 17037 del 2015).
4. Il terzo motivo è intestato in questi termini: “Sulla valutazione delle prove riguardo la nullità e l’annullamento. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più fatti controversi e decisivi (art. 360 c.p.c., n. 5) e violazione delle regole in tema di presunzioni (art. 360 c.p.c., n. 3)”.
Anche questo motivo, pur dichiarando di voler assumere come oggetto di critica la valutazione delle prove riguardo all’azione di nullità ed a quella di annullamento, si astiene dall’individuarne i termini e per entrambe costringerebbe il lettore a ricercarli inammissibilmente aliunde.
Fermo quanto già detto a proposito del precedente motivo per la prima, per la seconda si apprende alla pagina 34 dell’esposizione del fatto che l’azione di annullamento era stata esercitata in via subordinata a quella di nullità in primo luogo ai sensi dell’art. 1439 c.c., comma 2, cioè per c.d. dolo del terzo e, a pagina 35, in via ulteriormente subordinata per errore ai sensi dell’art. 1428 c.c. e ss..
Con riferimento al primo profilo, peraltro, la spiegazione ed individuazione dell’atteggiarsi dello Z. in posizione di terzo resta oscura, dato che non solo si richiama un orientamento giurisprudenziale secondo cui “il contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti ai danni dell’altro è annullabile per dolo”, così contraddicendo la posizione di terzo dello Z., ma, di seguito, si dice, con contraddizione ancora maggiore, che “Z. era un contraente, in quanto – sebbene avesse simulato il contrario – era intervenuto nel negozio non solo in qualità di procuratore delle venditrici, ma anche quale socio-amministratore-legale rappresentante della società acquirente”.
Affermazioni queste che rendono, inoltre, assolutamente contraddittorio che, quando si riferisce dell’azione di annullamento per errore, si definisca lo Z. come “consigliere infedele”.
Inoltre, sempre nella pagina 35, rimane del tutto oscura la modalità di verificazione del preteso errore, giacchè i suoi termini non vengono esattamente e specificamente individuati attraverso la descrizione delle circostanze percepite delle ricorrenti ed allegate a fondamento della domanda, che avrebbero integrato una falsa rappresentazione della realtà determinativa della conclusione della vendita.
In tal modo, al lettore è prospettato assertoriamente che l’errore sarebbe stato nel convincimento di non vendere alcunchè, che non fosse stato già oggetto delle vendite precedenti.
4.1. Si deve, poi, aggiungere che in tutta l’illustrazione non viene mai evocata in modo specifico la motivazione della sentenza impugnata se non con un accenno del tutto indiretto e generico a pagina 45.
Nella descritta situazione, la serie di rilievi sul modo in cui sarebbero state valutate risultanze probatorie o si sarebbe omesso di valutarne altre si dovrebbe apprezzare senza che si sappia quale era stato il tenore dei fatti costitutivi allegati a fondamento delle domande di declaratoria della nullità e dell’annullabilità e senza l’indicazione della motivazione che sarebbe incorsa nell’erronea ed omessa valutazione.
Tanto evidenzia, già su un piano generale, la mancanza dei dati necessari per vagliare la prospettazione delle ricorrenti.
In ogni caso, i rilievi sulla erroneità od omissione della valutazione delle risultanze probatorie sono svolti senza una precisa individuazione dei fatti controversi e senza il rispetto del principio di diritto richiamato a proposito del motivo precedente, cioè adombrando una mera possibilità di valutazione alternativa.
4.2. Si aggiunga che nell’illustrazione non si coglie mai alcun distinguo dell’argomentare rispetto alle due tipologie di azione, che permetta di correlarlo alla rispettiva motivazione della sentenza.
4.3. Infine, si deve rilevare che, a proposito dell’azione di annullamento, la sentenza impugnata articola la motivazione – a partire dalla seconda proposizione della pagina 12 e fino a metà della pagina 13 – con due distinte ed autonome rationes decidendi.
Con la prima, la Corte felsinea ha affermato, in senso opposto a quanto ritenuto dal primo giudice, la fondatezza della questione di prescrizione dell’azione di annullamento.
Con la seconda, la Corte ha enunciato che “in ogni caso, meriterebbero di essere condivise le ragioni esposte dal giudice di primo grado, da intendersi qui richiamate (sub B e sub C del capo della sentenza “Le domande attrici”) che avrebbero, comunque, comportato il rigetto della domanda di annullamento”.
In tale situazione, le ricorrenti, nel motivo di ricorso in esame si sarebbero dovute fare carico di criticare dette ragioni, evocando necessariamente e criticando la motivazione resa in quei capi dal Tribunale e fatta propria dalla Corte territoriale, mentre la critica viene svolta con assoluto disinteresse di quella motivazione, con conseguente ulteriore ragione di inammissibilità (Cass. sez. un. n. 16598 del 2016, che ha ribadito il principio di cui a Cass. n. 359 del 2005).
5. Il quarto motivo è così intestato: “Sulla domanda di nullità e annullamento. Violazione di legge sostanziale (art. 360 c.p.c., n. 3) in tema di non necessità della denuncia querela per l’ipotesi di difetto del consenso e di dolo contrattuale ovvero per errore ostativo”.
L’illustrazione esordisce assumendo che “la Corte d’Appello ha mostrato di non conoscere” la giurisprudenza di legittimità, che evidenzia che la querela di falso contro un atto rogato da notaio non è esperibile, se si assume che le dichiarazioni rese non sono diverse da quelle documentate, ma divergono dalla reale volontà comune o di una delle parti, perchè in tali casi le azioni esperibili sono rispettivamente di simulazione o di vizio del consenso.
Si sostiene che la corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto “non proponibile (o, comunque, non plausibile e, quindi, presuntivamente infondata) l’azione di annullamento per il fatto che non sia stato impugnato il contenuto dell’atto 16.3.1989, quando, invece, era chiarissimo che le Signore non hanno mai negato di essere intervenute innanzi al notaio, bensì hanno escluso di aver voluto vendere (scientemente) qualche cosa e, tanto meno, di voler vendere a soli 69 milioni di lire un cespite che valeva 15-20 volte tanto…”.
Sia queste deduzioni, sia quella svolte nel prosieguo, non recano alcuna individuazione anche indiretta della motivazione della sentenza impugnata, sicchè l’illustrazione non evidenzia una critica alla sentenza impugnata e, dunque, non ha la struttura di un motivo di impugnazione, secondo il principio già in precedenza richiamato.
6. Appare a questo punto opportuno, per la sua connessione con il terzo motivo, l’esame dell’ottavo motivo di ricorso, che deduce: “Sulla domanda di annullamento. Il merito. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più punti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”.
Esso presenta la seguente articolazione.
In primo luogo si lamenta che la Corte territoriale non avrebbe motivato “per quale ragione non fosse accoglibile l’istanza di acquisizione dei verbali delle udienze penali nei quali i testimoni C., Notaio G. e Avvocato S.A. avevano reso deposizioni decisive”.
La deduzione è inammissibile, perchè non si indica se, come e dove era stata formulata tale istanza, e non si spiegano le ragioni di decisività di quella acquisizione.
Nella parte successiva, a partire dalla seconda proposizione, si riporta innanzitutto, paludandolo, con omissione dell’incipit, da motivazione resa dalla Corte territoriale, un’affermazione che essa ha fatto a pagina 12 (quinta proposizione), ma in essa è stata solo fornita l’interpretazione della motivazione del primo giudice a proposito della questione del decorso della prescrizione.
Di seguito, pur dando atto che la corte territoriale ha reso sull’azione di annullamento una motivazione per relationem, dichiarando di condividere i punti “B” e “C” della motivazione del primo giudice, si passa, senza riferire anche in questo caso quali fossero stati i contenuti di detta motivazione, a svolgere considerazioni su una serie di circostanze fattuali, anche evocative di passi della sentenza penale, che vizierebbero la motivazione della corte d’appello e si indicano, in fine, talune “affermazioni” che presenterebbero evidenti contraddizioni.
Il motivo è inammissibile.
La sentenza impugnata ha dichiarato di condividere le motivazioni espresse dal primo giudice quanto al rigetto della domanda di annullamento.
Ora, tali motivazioni non sono in alcun modo evocate, come sarebbe stato necessario e, pertanto, non si sa che cosa la sentenza impugnata ha condiviso e non si sa neppure se quelle che si dicono “affermazioni” siano state indicate come tali, volendo alludere al fatto che erano state fatte dal primo giudice nei punti “B” e “C”.
Il motivo, in conseguenza, non individua la motivazione sottoposta a critica ed è perciò privo della struttura di motivo di impugnazione.
7. Con il quinto motivo, che è quello che ha occasionato la rimessione alle Sezioni Unite della questione di particolare importanza, si deduce testualmente: “Sulla domanda di annullamento. Violazione di legge processuale e sostanziale (art. 360 c.p.c., n. 3) in tema di giudicato interno, di rilevazione d’ufficio della prescrizione e di termine di decorrenza della prescrizione”.
Nella prima parte del motivo si invoca la rilevanza del giudicato penale per quanto concerne l’individuazione del termine di prescrizione, evidenziandosi che dalle motivazioni delle sentenze penali intervenute nei confronti dello Z. emergeva che le venditrici solo nel 1993 avevano avuto piena contezza della condotta criminale del loro ex tecnico di fiducia, cosicchè la sentenza impugnata erroneamente avrebbe ritenuto che la prescrizione dell’azione di annullamento per dolo doveva decorrere dalla data stessa di stipulazione dell’atto di compravendita, anzichè da quella conoscenza.
Nella seconda parte del motivo – che è quella cui specificamente si correla la rimessione alle Sezioni Unite – si deduce, altresì, che il Tribunale, nell’esaminare e rigettare l’eccezione di prescrizione, sollevata dalla convenuta, aveva osservato che le attrici solo nel 1993 erano venute a conoscenza dei fatti dolosi posti in essere dall’ingegner Z. nei loro confronti e che, ancorchè l’ignoranza circa l’esistenza di un diritto non influisca sul decorso della prescrizione, tale regola viene tuttavia meno allorquando l’ignoranza sia frutto del comportamento doloso della controparte.
Si sostiene, pertanto, che l’eccezione in oggetto era stata espressamente disattesa dal giudice di primo grado e che inopinatamente la Corte di Appello ha riesaminato tale questione, accogliendola in violazione di un giudicato interno venutosi a formare, in ragione della mancata proposizione di un appello incidentale da parte dell’appellata, che era stato invece proposto soltanto riguardo all’accoglimento della domanda di condanna al pagamento del corrispettivo della compravendita.
Per quanto concerneva lo specifico problema della prescrizione, l’appellata si era, invece, limitata – a pagina 17 della comparsa di risposta, al punto 3.3 – ad affermare solo che “non può non eccepirsi la prescrizione nella quale le controparti sono incorse”.
Sostengono i ricorrenti che tali espressioni non consentivano di ritenere formalmente proposto appello incidentale in ordine al rigetto dell’eccezione di prescrizione, cosicchè su tale punto si era formato un giudicato.
In ogni caso, le espressioni letterali utilizzate dall’appellata, come sopra riportate, quando pure si fossero potute intendere come propositive di un appello incidentale, non sarebbero state in grado di soddisfare il requisito della specificità dei motivi di appello, richiesto dall’art. 342 c.p.c., con la conseguenza che sarebbe stato precluso alla Corte felsinea di poter ritornare sulla questione, relativa alla prescrizione dell’azione proposta.
7.1. L’esame di questo motivo dovrebbe, a questo punto, dirsi assorbito: entrambe le censure, infatti, riguardano solo una delle due rationes decidendi, con cui la sentenza impugnata ha ritenuto infondata l’azione di annullamento, id est quella con cui l’ha reputata estinta per prescrizione. Poichè, per effetto dell’esito dello scrutinio dei due motivi precedenti al quinto, nonchè dell’ottavo motivo, la valutazione di infondatezza di detta azione sotto altri profili, quelli con cui la sentenza ha dichiarato di condividere le ragioni di infondatezza enunciate sub B e C dalla sentenza di primo grado, risulta consolidata e, dunque, la sentenza impugnata ormai risulta sul punto confermata, diventa inutile scrutinare se sia stata corretta l’altra ratio decidendi relativa alla prescrizione.
E ciò, perchè la cosa giudicata sulla infondatezza della domanda di annullamento a prescindere dalla fondatezza della sua prescrizione impedisce di scrutinare la ratio fondata su di essa (così Cass. n. 14740 del 2005; o viene a mancare l’interesse al suo esame: Cass., Sez. Un., n. 16602 del 2005).
8. Ritengono, tuttavia, le Sezioni Unite, nonostante l’inammissibilità del quinto motivo per la ragione ora detta, di esaminare comunque, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, la questione di particolare importanza sollevata dalla Seconda Sezione, giacchè la rimessione da essa disposta ha evidenziato che sulla stessa perdurano contrasti in seno alle sezioni semplici.
8.1. La Seconda Sezione:
a) ha rilevato che il Tribunale di Parma aveva disatteso l’eccezione di prescrizione riguardo alla domanda di annullamento del contratto per dolo, sollevata dalla società convenuta, che, però, rispetto a detta domanda era risultata vittoriosa per altre ragioni;
b) ha, quindi, osservato che, proposto l’appello principale delle qui ricorrenti avverso la decisione del Tribunale, la controricorrente aveva svolto nella comparsa di costituzione un appello incidentale sull’accoglimento della domanda relativa alle somme, di cui alla quietanza contestuale alla vendita, mentre si era limitata soltanto a riproporre l’eccezione di prescrizione;
c) ha rilevato ancora che, in ragione dell’accoglimento di tale eccezione da parte della Corte territoriale, la seconda censura svolta nel quinto motivo esigeva di stabilire se, a fronte non già del semplice assorbimento o della mancata disamina, ma dell’espresso rigetto dell’eccezione di prescrizione della parte, la qui resistente, per il resto totalmente vittoriosa ed interessata ad una sua nuova disamina da parte del giudice di appello, dovesse a tal fine proporre appello incidentale ovvero potesse limitarsi alla mera riproposizione della questione ex art. 346 c.p.c., com’era in concreto avvenuto.
8.2. In proposito, la Seconda Sezione ha ravvisato l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza della Corte, reputando che esso, “già esistente negli anni passati”, risulterebbe “essere stato altresì acuito dal noto intervento delle Sezioni Unite di cui all’ordinanza del 16 ottobre 2008 n. 25246, con la quale si è affermato che la parte risultata vittoriosa nel merito nel giudizio di primo grado, al fine di evitare la preclusione della questione di giurisdizione risolta in senso ad essa sfavorevole, è tenuta a proporre appello incidentale, non essendo sufficiente ad impedire la formazione del giudicato sul punto la mera riproposizione della questione, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., in sede di costituzione in appello, stante l’inapplicabilità del principio di rilevabilità d’ufficio nel caso di espressa decisione sulla giurisdizione e la non applicabilità dell’art. 346 c.p.c. (riferibile, invece, a domande o eccezioni autonome sulle quali non vi sia stata decisione o non autonome e interne al capo di domande deciso) a domande o eccezioni autonome espressamente e motivatamente respinte, rispetto alle quali troverebbe applicazione la previsione dell’art. 329, secondo comma, cod. proc. civ., per cui in assenza di puntuale impugnazione opera su di esse la presunzione di acquiescenza.
Il punto di perdurante frizione interpretativa è rappresentato dal divergente apprezzamento del concetto di “eccezioni autonome”, da cui far discendere che il loro espresso rigetto imporrebbe la proposizione dell’appello incidentale a cura della parte che sia comunque risultata totalmente vittoriosa nel merito, essendo oggetto di non univoca interpretazione nella successiva giurisprudenza di questa Corte”.
Per coerenziare tale assunto, la Seconda sezione ha proceduto alla rassegna di una serie di precedenti delle sezioni semplici e, dopo aver rilevato che la giurisprudenza della Corte, “pur partendo dal comune dato giurisprudenziale costituito dal citato intervento delle Sezioni Unite, perviene tuttavia a conclusioni applicative assolutamente divergenti”, ha reputato che “tale contrasto non sia obiettivamente suscettibile di essere composto individuando una complementarità logica tra le opposte posizioni” ed ha anche soggiunto che “la risoluzione della questione risulta avere rilevanti riflessi applicativi anche per quanto attiene al giudizio di legittimità (attesa la pacifica inapplicabilità in questa sede della previsione di cui all’art. 346 c.p.c., ove si opti per la tesi della superfluità dell’impugnazione incidentale, la parte totalmente vittoriosa nel merito all’esito del giudizio di appello, non sarebbe tenuta a proporre ricorso incidentale condizionato per far valere l’erroneo rigetto dell’eccezione, conservando la possibilità di riproporla eventualmente in sede di rinvio)”; dal che ha tratto anche il rilievo che si sarebbe in presenza di una questione di massima di particolare importanza.
9. Tanto premesso, rilevano le Sezioni Unite che, effettivamente, nella giurisprudenza delle sezioni semplici perdurava al momento della rimessione una situazione di contrasto sui confini, in punto di modalità della devoluzione al giudice di appello, fra l’istituto della c.d. mera riproponibilità di cui all’art. 346 c.p.c., e quello dell’appello incidentale, regolato dall’art. 343 c.p.c..
Peraltro, successivamente all’ordinanza di rimessione è sopravvenuta, in data 19 aprile 2016, Cass., Sez. un., n. 7700 del 2016, la quale, pur occupandosi del problema della necessità o meno della proposizione dell’appello incidentale, anzichè della sufficienza della mera riproposizione, quanto alla domanda (nella specie di garanzia) rimasta assorbita in primo grado per il rigetto della domanda principale, si è anche soffermata sull’identica questione con riferimento alle eccezioni, svolgendo considerazioni anche a favore della sua soluzione.
Nel senso che, allorquando, riguardo ad una eccezione c.d. di merito svolta dal convenuto o comunque da colui che, difendendosi rispetto all’azione altrui assuma quella posizione sostanziale, il giudice di primo grado si sia pronunciato affermandone l’infondatezza, e, tuttavia, l’azione sia stata rigettata nel merito per altra ragione, il convenuto formale o sostanziale, di fronte all’appello della controparte che si dolga di tale rigetto e, dunque, rimetta in discussione la tutela conseguita per effetto di esso, deve necessariamente, per ottenere che il giudice d’appello riesamini la decisione del giudice di primo grado di rigetto dell’eccezione, proporre appello incidentale e non può limitarsi, invece, alla c.d. mera riproposizione cui allude l’art. 346 c.p.c..
Il Collegio, dunque, potrebbe limitarsi a rinviare alle considerazioni colà svolte (particolarmente, nel paragrafo 5.6. e nei relativi sottoparagrafi).
Senonchè, appare necessaria qualche ulteriore considerazione:
a) sia perchè, nonostante l’arresto oramai risalente di cui a Cass. sez. un. n. 25246 del 2008, nella giurisprudenza delle sezioni semplici, si erano manifestati i contrasti lumeggiati dall’ordinanza di rimessione, i quali risultano verosimilmente indotti dall’uso, da parte di quella decisione, del concetto di eccezione c.d. autonoma, che in quell’occasione originava dalla circostanza che oggetto di scrutinio era un caso in cui veniva in rilievo un’eccezione di rito, quella di giurisdizione;
b) sia perchè, proprio alla luce di Cass. sez. un. n. 7700 del 2016, in un’ottica di completezza della nomofilachia, ulteriori precisazioni risultano necessarie, per un verso sul concetto di decisione implicita dell’eccezione di merito e per altro verso per marcare la differenza di approccio che merita l’analoga questione rispetto alle c.d. eccezioni di rito.
9.1. Giova prendere le mosse dal concetto di eccezione c.d. di merito.
L’eccezione di merito si identifica in quel fatto che, in relazione alla struttura della fattispecie costitutiva del diritto fatto valere dalla parte attrice con la domanda, assume la natura di fatto impeditivo, modificativo o estintivo dell’efficacia dei fatti costitutivi (evocata in qualche modo dall’art. 2697 c.c.), per essere così individuato e qualificato dalla stessa fattispecie normativa astratta relativa al diritto azionato.
Tale fatto, per la sua inerenza sul piano normativo alla fattispecie dedotta in giudizio, assume il rilievo di c.d. fatto principale non diversamente dai fatti costitutivi della domanda.
La sua entrata nel processo suppone innanzitutto che esso vi sia stato introdotto come fatto storico, il che può avvenire in primo luogo tramite l’attività di allegazione dei fatti svolta delle parti e, quindi, tanto e soprattutto (per evidenti ragioni di interesse) tramite quella della parte convenuta, ma anche, inconsapevolmente, tramite quella dell’attore.
Detta attività può avvenire direttamente ed espressamente, cioè tramite la narrazione del fatto storico integrante l’eccezione, oppure indirettamente, in quanto il fatto emerga dai documenti prodotti, che lo rappresentino.
L’introduzione del fatto storico integratore dell’eccezione può poi avvenire anche per effetto delle emergenze dell’istruzione probatoria (in termini, Cass. Sez. Un., (ord.) n. 10531 del 2013).
La rilevanza del fatto integratore dell’eccezione di merito nel processo suppone, accanto alla sua introduzione, un’attività di c.d. rilevazione della sua efficacia giuridica sulla fattispecie dedotta in giudizio con la domanda e, com’è noto, l’ordinamento talvolta riserva tale attività soltanto alla parte, di modo che si è in presenza di un’eccezione c.d. in senso stretto (o, come taluno dice, in senso proprio), mentre, se la riserva non vi sia, il potere di rilevazione è affidato sia alla parte sia al giudice e si è in presenza di una eccezione c.d. in senso lato.
Supposta l’allegazione e rilevazione di un’eccezione di merito (in senso stretto o in seno lato) nel giudizio di primo grado da parte del convenuto, rispetto al tenore della decisione di primo grado, essa:
a) può risultare considerata dalla sentenza impugnata, la quale su di essa ha adottato una statuizione, cioè una motivazione che può essere articolata o con affermazioni espresse o con affermazioni enunciate in modo indiretto, le quali, però, rivelino in modo chiaro la sua valutazione di fondatezza o infondatezza;
b) può risultare, invece, non considerata affatto.
9.2. Nel primo caso, se la decisione è stata di riconoscimento del diritto e, quindi, di accoglimento della domanda, essa, valutando il fatto integratore dell’eccezione, deve averlo riconosciuto infondato ed è evidente che l’interesse a riottenerne l’esame da parte del giudice d’appello farà capo al convenuto con l’appello principale, il quale, dovrà riguardare il ragionamento svolto dal primo giudice per disattendere l’eccezione, se l’appellante intende riottenerne l’esame.
Mentre, se tale interesse egli non abbia, si asterrà dallo svolgimento come motivo di appello di una critica della decisione di primo grado quanto al rigetto dell’eccezione, sicchè il secondo comma dell’art. 329 cod. proc. civ. determinerà l’acquiescenza sulla relativa parte di sentenza e la formazione della cosa giudicata interna sull’infondatezza dell’eccezione, tanto se si tratti di eccezione in senso stretto, quanto se si tratti di eccezione in senso lato, con preclusione in questo secondo caso del potere del giudice di cui all’art. 345 c.p.c., comma 2.
9.2.1. Può darsi, al contrario, che la domanda sia stata rigettata.
Questo rigetto può essere dipeso dall’essere stata ritenuta fondata l’eccezione (che era appunto idonea a definire il giudizio) ed allora è palese che, essendo l’attore interessato a ridiscutere la decisione finale, in quanto determinata da tale fondatezza, la devoluzione della cognizione dell’eccezione al giudice d’appello resterà affidata all’appello principale del medesimo, con la critica della decisione di primo grado quanto alla decisiva valutazione di fondatezza dell’eccezione.
9.2.2. Il rigetto può, però, essere avvenuto per altre ragioni, che possono essere state, o la stessa inidoneità in iure dei fatti costitutivi a giustificare il diritto fatto valere con la domanda giudiziale, o la loro mancata dimostrazione a livello probatorio come fatti storici, o anche una valutazione di fondatezza di un’altra eccezione di merito.
In questi casi è palese che l’interesse ad impugnare con l’appello la decisione sarà dell’attore, perchè egli ha visto rigettata la domanda ed è in posizione di c.d. soccombenza pratica rispetto all’esito finale della lite, mentre l’interesse ad ottenere che in appello si ridiscuta dell’eccezione di merito ritenuta infondata, sarà del convenuto, che ha solo una soccombenza c.d. virtuale sull’eccezione, cioè una soccombenza che non ha inciso sull’esito finale della decisione che gli è favorevole e che non può venire in rilievo in sede di impugnazione se non ove l’appello sia svolto dall’attore.
In questa ipotesi si pone l’alternativa sulla individuazione del modo in cui egli può ottenere che l’eccezione sia riesaminata dal giudice d’appello, rispettivamente con un appello incidentale oppure con la riproposizione ai sensi dell’art. 346 c.p.c.; mentre, ove si tratti di eccezione in senso lato, in mancanza di verificazione di quella fra le due alternative ritenuta applicabile, ha luogo il fenomeno di cui all’art. 329, comma 2, citato e la preclusione, per formazione di giudicato interno, del potere del giudice di appello di rilevare detta eccezione.
La valutazione di infondatezza dell’eccezione risulta enunciata in modo logicamente superfluo, se la si considera rispetto alle prime due evenienze indicate: infatti, il giudice di primo grado che abbia ritenuto l’inidoneità in iure dei fatti costitutivi allegati a fondamento della domanda o non li ritenga dimostrati in fatto, una volta ritenuta questa ragione di infondatezza, non avrebbe avuto bisogno di scrutinare anche l’eccezione e di dirla infondata.
Nella terza evenienza, avuto riguardo alla struttura della fattispecie astratta, l’eccezione disattesa potrebbe collocarsi logicamente come antecedente, ma anche successiva, rispetto a quella invece reputata dirimente ed in tale secondo caso parimenti il giudice non avrebbe avuto bisogno di scrutinarla.
9.3. Nel secondo caso sopra ipotizzato, quello in cui la decisione di primo grado non abbia considerato in alcun modo (cioè nè espressamente nè con motivazione indiretta) il fatto integratore dell’eccezione, parimenti si deve distinguere, in relazione all’esito della decisione sulla domanda.
9.3.1. Se la domanda è stata accolta, l’interesse ad impugnare la decisione sarà del convenuto ed egli, proponendo l’appello in via principale, potrà:
a1) criticare la motivazione svolta dal primo giudice, senza dolersi del mancato esame dell’eccezione: in questo caso sull’eccezione non si formerà alcun giudicato, ma l’eccezione diventerà irrilevante nel giudizio di appello, se in senso stretto, mentre, se si tratta di eccezione in senso lato, resterà possibile solo la sua rilevazione per effetto del potere del giudice d’appello art. 345 c.p.c., ex comma 2, dovendo l’attività di rilevazione ad istanza di parte necessariamente avvenire con l’appello principale (perchè si trattava di critica da svolgere alla sentenza di primo grado per l’omessa pronuncia);
a2) dedurre anche, come ragione di dissenso rispetto all’accoglimento della domanda, in aggiunta alla critica della ragione posta a suo fondamento, l’omesso esame dell’eccezione, denunciando la violazione dell’art. 112 c.p.c., da parte del giudice di primo grado (che è stata incidente sull’esito finale), ma necessariamente con un motivo d’appello, con il quale lamenterà che la domanda avrebbe dovuto rigettarsi, oltre che per quanto esposto a critica della ragione esaminata dalla sentenza, anche e comunque se fosse stata esaminata l’eccezione;
a3) dedurre, invece, solo l’omesso esame dell’eccezione (ex art. 112 c.p.c.) ed astenersi dalla critica della motivazione enunciata dalla sentenza, ma ciò solo qualora, nella struttura della fattispecie astratta, l’eccezione non esaminata risulti, ove fondata, logicamente preclusiva della rilevanza della ragione di fondatezza ritenuta dal primo giudice, nel senso che, se risultasse fondata l’eccezione, la domanda dovrebbe essere rigettata nonostante la fondatezza del diverso ragionamento seguito dal primo giudice nel rigettarla: in questo caso l’eccezione ha una rilevanza che la autonomizza rispetto alla motivazione di accoglimento del primo giudice, la critica della quale non risulta perciò necessaria.
In tutte e tre le ipotesi, la devoluzione al giudice d’appello dell’eccezione di merito dev’essere necessariamente veicolata dall’appello principale, perchè è al convenuto, quale soccombente in senso pratico, che spetta l’iniziativa della devoluzione della controversia al giudice d’appello.
Tutte le ragioni di dissenso rispetto alla decisione del primo giudice debbono essere veicolate con l’appello e ciò anche rispetto a quanto quel giudice non ha deciso affatto. Il referente normativo dell’art. 342 c.p.c., lo conferma.
9.3.2. Se la domanda è stata, invece, respinta senza alcuna considerazione dell’eccezione di merito che il convenuto aveva svolto, bensì per altre ragioni, l’interesse all’impugnazione della decisione sarà dell’attore, che è soccombente in senso pratico; mentre quello a ottenere che la discussione in appello abbia luogo anche sull’eccezione non considerata sarà del convenuto e qui si pone ed ha senso l’alternativa fra l’appello incidentale e la riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c..
9.3.3. Mette conto di considerare che, quando l’eccezione non risulti affatto considerata dalla decisione, si deve, tuttavia, anche valutare l’incidenza di due possibili evenienze.
9.3.3.1. La prima è che il tenore finale della decisione possa essere di contenuto tale che, avuto riguardo alla ragione enunciata ed ancorchè la motivazione non riveli nemmeno in modo indiretto una valutazione sull’eccezione, tuttavia, esclusivamente sotto un profilo astratto, inerente all’ordine logico con cui, con riferimento alla fattispecie dedotta in giudizio, l’eccezione si poneva, possa apparire che quella ragione implichi che l’eccezione sia infondata.
Così, se la domanda, in presenza di un’eccezione di prescrizione del convenuto, viene rigettata dal giudice di primo grado, perchè egli ritiene che i fatti costitutivi non sono stati provati, non è predicabile nemmeno in astratto che il tenore della decisione implichi una valutazione (sebbene astratta) di infondatezza dell’eccezione di prescrizione, e ciò perchè un diritto di cui non è stata dimostrata l’insorgenza non si può prescrivere o non prescrivere.
Viceversa, sempre in caso di rigetto della domanda per mancata prova dei fatti costitutivi, ma in presenza di un’eccezione di nullità del rapporto dedotto o di un’eccezione di annullabilità o di invalidità o di inefficacia o relativa ad altro fatto in astratto incidente sui fatti costitutivi, come per esempio una transazione o una novazione, in astratto è ipotizzabile tanto che il giudice di primo grado, scrutinando i fatti costitutivi del rapporto e reputandoli non provati, abbia potuto supporre implicitamente che quelle eccezioni non erano fondate, quanto che non abbia fatto invece alcuna supposizione in tal senso, ma si sia limitato ad enunciare la motivazione basata sulla manata prova semplicemente perchè essa era di immediata percezione (c.d. ragione più liquida) e comunque giustificava la reiezione della domanda.
In questa seconda ipotesi, deve ritenersi che, mancando una decisione sull’eccezione, sia per affermazioni espresse, sia per affermazioni indirette, chiaramente individuatrici, dal solo esito della decisione finale non possa evincersi che l’eccezione sia stata decisa nel senso della infondatezza.
E’ partendo da tale acquisizione, che si deve procedere, in questi casi, a scegliere la soluzione corretta nell’alternativa fra appello incidentale e mera riproposizione ex art. 346 c.p.c..
9.3.3.2. La seconda evenienza da considerare è che il convenuto, nell’articolare il suo atteggiamento difensivo, abbia espressamente indicato al giudice un ordine di preferenza dell’esame delle sue difese e, quindi, anche rispetto alle sue eccezioni di merito, se ne ha proposte più di una.
Questa graduazione dell’ordine di richiesta di esame delle difese potrebbe essere giustificata dal criterio dell’interesse, eventualmente apprezzato anche con riferimento alle possibili ricadute della decisione su altre controversie fra le parti o su controversie fra il convenuto e terzi.
Si tratta di una graduazione che non sembra vietata, perchè l’ordinamento nell’art. 276 c.p.c., comma 2, stabilisce un ordine di esame e decisione delle questioni, distinguendo soltanto fra le questioni e, dunque, le eccezioni, pregiudiziali di rito e, genericamente, il “merito”, mentre non stabilisce un ordine all’interno dell’esame di quest’ultimo (e, quindi, della pluralità di eccezioni, in ipotesi proposte).
Tanto evidenzia che il giudice, mentre deve necessariamente seguire un criterio di decisione che gli impone di decidere prima le questioni di rito, in quanto esse pregiudicano astrattamente la possibilità di decidere nel merito, viceversa è libero di decidere sul merito, individuando la questione posta a base della decisione.
Tuttavia, se la parte eccipiente richieda l’esame gradato di eccezioni inerenti al merito, si deve ritenere che il potere del giudice ne risenta, sicchè egli dovrebbe osservare nell’esame tale gradazione, se risponda ad un interesse.
Se questo è vero, può ritenersi che, qualora la domanda venga rigettata sulla base dell’esame di un’eccezione formulata dal convenuto, senza rispettare la graduazione fra le varie eccezioni che egli, in ipotesi, aveva indicato, la decisione, se pure non ha ad oggetto le eccezioni di cui il giudice non si è occupato, tuttavia, risulta avere certamente disatteso la richiesta di graduazione.
9.4. Può passarsi ora all’esame dei confini fra appello incidentale e c.d. mera riproposizione.
La loro individuazione, come già le Sezioni Unite hanno rilevato nella sentenza n. 7700 del 2016, sottolineando al riguardo l’assoluta irrilevanza della struttura marcatamente di revisio prioris istantiae, riacquisita oramai dal giudizio di appello ordinario, rispetto a quella di c.d. novum iudicium, introdotta a suo tempo dalla c.d. riforma del 1950, va fatta:
a) in primo luogo, tenendo conto che la riproposizione si deve collocare dove non risulta necessario l’appello incidentale;
b) in secondo luogo, considerando che l’appello incidentale di cui all’art. 343 c.p.c., è riconducibile, sotto il profilo funzionale e contenutistico, alla figura dell’impugnazione incidentale in genere, che è disciplinata in generale dall’art. 333 c.p.c., come species del genus “impugnazione”, ma è inoltre soggetto alla disciplina dell’art. 342 cod. proc. quale species dell’appello.
Ne segue che, “poichè al concetto di impugnazione in generale, cui l’appello incidentale deve ascriversi, è coessenziale la necessaria implicazione di mezzo con cui si rivolgono critiche (sulla base di motivi limitati oppure senza limitazione di motivi, a seconda della natura dello specifico mezzo di impugnazione) all’oggetto dell’impugnazione e, quindi, alla decisione, ne deriva che anche l’appello incidentale necessariamente doveva, come deve risolversi, in una critica alla decisione impugnata” (cit. sentenza).
Ciò consente agevolmente di ritenere e ribadire la soluzione data dalla sentenza del 2008 a favore della necessità dell’appello incidentale le quante volte, in presenza di un rigetto della domanda e, quindi, di esito favorevole al convenuto, che, dunque, si trovi in posizione di c.d. soccombenza soltanto teorica, una sua eccezione di merito sia stata oggetto di valutazione da parte della sentenza di primo grado con una motivazione espressa, che abbia enunciato il suo rigetto, oppure sia stata oggetto di una motivazione che, pur non enunciando espressamente il rigetto, lo evidenzi indirettamente, cioè riveli, in modo chiaro ed inequivoco, che il giudice parimenti abbia inteso rigettare l’eccezione.
9.4.1. Poichè l’eccezione è stata oggetto di decisione e tale valutazione fa parte del tessuto motivazionale della sentenza di primo grado, di modo che non rileva più la circostanza che l’eccezione era stata introdotta nell’oggetto del giudizio fra i fatti che avrebbero dovuto essere decisi, ma risulta che essa abbia acquisito rilevanza in quanto ormai oggetto in concreto della decisione, la circostanza che quest’ultima esprime una posizione di soccombenza, di “torto”, sebbene virtuale, a carico del convenuto, costringe, attesa la presenza nel nostro ordinamento dell’istituto dell’appello incidentale accanto a quello della c.d. riproposizione, a collocare la modalità di investitura del giudice d’appello nel primo e non nella seconda.
La ragione è che la valutazione del primo giudice sull’eccezione è consacrata in una parte della motivazione della sua sentenza, onde, rispetto ad essa, la posizione del convenuto non può che essere omologa a quella dell’attore appellante principale, che, di fronte ad una parte della motivazione che gli dà torto, se la vuole ridiscutere, deve farla oggetto dell’appello.
Tanto – ha osservato Cass., Sez. Un., n. 7700 – “ora è anche formalmente evidenziato dall’art. 342 nel testo vigente, là dove parla di “parti del provvedimento”, così evocando il contenuto della decisione come oggetto della critica espressa con l’appello principale, e là dove, nel comma 2, n. 2, evidenzia il carattere della decisività, con l’espressione “rilevanza a fini della decisione impugnata”“, pur non essendo “dubbio che il vecchio art. 342 c.p.c., quanto parlava dei “motivi specifici dell’impugnazione”, lo comprendesse già”.
9.4.2. A sostegno di tale conclusione cospirano, del resto, gli argomenti, che – sebbene in un contesto in cui veniva in rilievo una eccezione pregiudiziale di rito – aveva già enunciato Cass., Sez. Un., (ord.) n. 25246 del 2008.
Il primo di essi si desume dal regime delle modalità della pronuncia del giudice sulle eccezioni di merito.
La circostanza che, come emerge dall’art. 187 c.p.c., comma 2, nel giudizio di primo grado la decisione su un’eccezione di merito, in quanto essa è idonea in astratto a definire il giudizio sulla domanda riguardo alla quale è stata proposta ed è riconducibile alle questioni di merito aventi carattere preliminare, può essere fatta oggetto di una decisione parziale, che si esprime nella sentenza non definitiva (parziale), di cui al n. 4 del secondo comma dell’art. 279 cod. proc. civ., evidenzia che la decisione sull’eccezione, quando la pronuncia non ne rileva la fondatezza e, pertanto, definisce il giudizio ma la reputa infondata nel merito o per ragioni di rito, si connota, sebbene soltanto espressione di una “parte” del dovere decisionale del giudice, in una sentenza.
La correlazione – a differenza che nel regime originario del codice alla pronuncia della sentenza parziale di rigetto dell’eccezione alternativamente o della riserva di appello o dell’appello immediato, e in entrambi i casi la previsione della necessità di un’impugnazione, evidenzia che tale decisione dev’essere oggetto di reazione sempre con il mezzo dell’appello; e ciò, allorquando la successiva decisione di merito definitiva veda vincitrice la parte, che aveva visto disatteso la eccezione con la sentenza parziale, con il mezzo dell’appello incidentale ai sensi dell’art. 343 c.p.c., ancorchè il testo dell’art. 340 c.p.c., comma 2, non risulti prevedere tale ipotesi per un difetto di coordinamento redazionale (si veda già in tal senso di Cass. n. 779 del 1987 e, da ultimo, Cass. n. 15784 del 2013).
Da questo regime emerge che, se il giudice di primo grado non faccia luogo alla sentenza parziale sull’eccezione di merito e si pronunci su quest’ultima con la sentenza definitiva, dando ragione al convenuto nonostante il rigetto (espresso o indiretto) dell’eccezione, il regime di devoluzione al giudice d’appello, non potendo mutare la forza della decisione sull’eccezione, secondo che su di essa quel giudice si pronunci con la sentenza parziale o con la definitiva, esige l’impugnazione con l’appello incidentale, essendovi sull’eccezione solo una soccombenza virtuale e non pratica e non potendo il convenuto prendere l’iniziativa di devolvere la controversia al giudice d’appello.
9.4.3. In base alle considerazioni svolte si deve allora ribadire (con la sentenza n. 7700 del 2016) “che al concetto della riproposizione deve ritenersi estraneo ogni profilo di deduzione di una critica alla decisione impugnata (…) e, quindi, di ciò che è connaturato al concetto di impugnazione” e che con la riproposizione il legislatore ha inteso alludere, invece, alla prospettazione al giudice di appello di domande ed eccezioni che possano essere appunto soltanto “riproposte”, cioè proposte come lo erano state al primo giudice.
Il fatto che, come dice la norma, esse lo possano essere, perchè risultano da quel giudice “non accolte”, significa che tale mancato accoglimento non è dipeso da una motivazione della sentenza di primo grado che le ha considerate espressamente o indirettamente, ma da mero disinteresse del giudice; sicchè la decisione finale, nella sua struttura motivazionale, non possa in alcun modo reputarsi averle ritenute infondate e, dunque, rigettate.
E’ per questo che l’attività di devoluzione al giudice d’appello della cognizione dell’eccezione non deve espletarsi con il profilo di critica inerente alla figura dell’appello incidentale, ma è sufficiente che si realizzi con la c.d. riproposizione, sebbene essa debba avvenire in modo espresso, cioè con una specifica attività di richiesta al giudice d’appello di esaminare l’eccezione.
In questo caso è vero che si potrebbe pensare che l’omissione della decisione abbia integrato comunque un’omessa pronuncia e che, dunque, abbia determinato la decisione sotto tale profilo, cioè nel senso in cui una decisione, che omette di pronunciare su qualcosa su cui era stato chiesto di pronunciare, pur sempre è frutto anche di tale omissione.
Senonchè, solo se nel regime dell’appello non esistesse l’art. 346 c.p.c., cioè l’istituto della riproposizione, ma solo quello dell’appello incidentale, il cui profilo ricostruito nel senso sopra indicato risente dell’esistenza di tale istituto, certamente, di fronte ad un’omessa pronuncia su un’eccezione di merito, cioè all’astensione sia espressa sia indiretta dalla decisione, sarebbe giocoforza concludere che la denuncia di essa, da parte del convenuto soccombente virtuale, non avrebbe altro veicolo che quello di un appello incidentale.
L’esistenza dell’art. 346 c.p.c., non consente, invece, tale conclusione.
Ciò è tanto vero che, con riferimento ad un’impugnazione come il ricorso in cassazione, nel cui regime non esiste una norma omologa dell’art. 346 c.p.c., è notorio che, invece, il mezzo per devolvere alla Corte la cognizione di eccezioni e questioni non esaminate sia il ricorso incidentale da parte del resistente, che versi in posizione di vincitore in senso pratico e veda dalla controparte rimessa in discussione la sentenza che gli ha dato ragione.
9.4.4. Restano a questo punto da svolgere alcune precisazioni in relazione all’evenienza in cui il convenuto avesse graduato, naturalmente in modo espresso, l’ordine di proposizione di più eccezioni di merito oppure avesse chiesto in via preliminare e sempre espressamente di pronunciarsi sull’eccezione di merito proposta, prima delle altre sue mere difese di merito.
In tal caso, se il giudice non abbia in alcun modo esaminato nè espressamente nè indirettamente l’eccezione e abbia pronunciato sentenza favorevole al convenuto, emerge comunque che in tal modo ha disatteso la richiesta di graduazione o di anteposizione e, dunque, la motivazione, se non rivela quell’esame, rivela certamente che il giudice ha disatteso quella richiesta.
In questa ipotesi, se il convenuto intende mantenere la richiesta di graduazione, è necessario che egli proponga appello incidentale, mentre se si limita a riproporre l’eccezione la conseguenza è che detta richiesta è abbandonata ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2.
9.4.5. E’ opportuna un’ulteriore precisazione, che si correla alla distinzione fra le eccezioni di merito affidate al potere di rilevazione soltanto della parte e quelle in cui tale potere spetta anche al giudice.
In questo secondo caso, se vi è stata una decisione espressa o indiretta sull’eccezione nel senso della infondatezza, la mancata proposizione dell’appello incidentale da parte del convenuto vittorioso ha come conseguenza la formazione della cosa giudicata interna sulla infondatezza.
Ne consegue che resta precluso, per effetto di tale formazione, il potere del giudice di rilevare l’eccezione ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2 (si veda già Cass. n. 1560 del 1987).
9.4.6. Mette conto di rilevare ancora, per ragioni di completezza e considerato che l’arresto del 2008 era stato enunciato in situazione nella quale la Corte doveva occuparsi di un’eccezione di rito, che la ricostruzione proposta del rapporto fra appello incidentale e riproposizione a proposito dell’eccezione di merito non può valere negli stessi termini per le eccezioni di rito.
S’è già veduto che l’art. 276, stabilisce un ordine delle questioni in base al quale il giudice deve esaminare prima le eccezioni di rito e poi il merito.
Con riferimento alle eccezioni di rito, qualora esse siano state disattese espressamente o indirettamente dal primo giudice, che, dunque, su di esse abbia pronunciato, non è dubbio che la parte soccombente su di esse, ma vittoriosa quanto all’esito finale della lite e, dunque, in posizione di soccombenza teorica, se vuole ottenere che esse siano riesaminate dal giudice, investito dell’appello principale sul merito della controparte, deve farlo proponendo appello incidentale e non ai sensi dell’art. 346 c.p.c..
Può accadere che il giudice, nel pronunciare nel merito, rigettando la domanda, ometta di decidere su un’eccezione di rito proposta dal convenuto, nel senso che se ne disinteressi completamente. In tal caso il giudice non solo ha violato l’art. 276 c.p.c., ma il suo disinteresse, a differenza di quello su un’eccezione di merito, non si presta affatto solo ad una valutazione astratta di infondatezza dell’eccezione ma senza alcuna possibilità di considerarla come effettiva, potendo, come s’è detto, il giudice solo avere scelto la soluzione più liquida.
In questo caso, poichè l’eccezione di rito doveva esaminarsi prima del merito e ne condizionava l’esame, il silenzio del giudice si risolve però – ancorchè la sua opinione sull’eccezione di rito non sia stata manifestata e possa in ipotesi essere espressione di scelta della soluzione più liquida – in un error in procedendo, cioè nell’inosservanza della regola per cui il merito si sarebbe potuto esaminare solo per il caso di infondatezza dell’eccezione di rito.
La violazione di tale regola, in quanto ha inciso sulla decisione, esige allora una reazione con l’appello incidentale e non la riproposizione dell’eccezione di rito, perchè è necessario che essa venga espressa con un’attività di critica del modus procedendi del giudice di primo grado, che necessariamente avrebbe dovuto esaminare l’eccezione di rito (circa il modo in cui il giudice d’appello andrà investito si ricorda che non si tratterà della denuncia del vizio di omessa pronuncia, bensì della denuncia dell’esistenza del vizio della sentenza per l’eccezione di rito di cui trattasi: in termini Cass. n. 1791 del 2009 e n. 5482 del 1997; adde: Cass. n. 10073 del 2003, n. 14670 del 2001; n. 3927 del 2002; n. 603 del 2003).
Il discorso che si è svolto per le eccezioni di merito, tuttavia, potrà essere riproposto, allorquando il convenuto avesse proposto più gradate eccezioni di rito ed il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda in rito, accogliendo la prima, oppure ne abbia accolto una di grado successivo senza pronunciarsi espressamente o indirettamente su di essa. Ma non è questa la sede per indugiare ad esemplificare.
9.4.7. Conclusivamente, deve enunciarsi nell’interesse della legge, il seguente principio di diritto: “Qualora un’eccezione di merito sia stata ritenuta infondata nella motivazione della sentenza del giudice di primo grado o attraverso un’enunciazione in modo espresso, o attraverso un’enunciazione indiretta, ma che sottenda in modo chiaro ed inequivoco la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione da parte sua dell’appello incidentale, che è regolato dall’art. 342 c.p.c., non essendo sufficiente la mera riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c.. Qualora l’eccezione sia a regime di rilevazione affidato anche al giudice, la mancanza dell’appello incidentale preclude, per il giudicato interno formatasi ex art. 329 c.p.c., comma 2, anche il potere del giudice d’appello di rilevazione d’ufficio, di cui all’art. 345 c.p.c., comma 2. Viceversa, l’art. 346 c.p.c., con l’espressione eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, nell’ammettere la mera riproposizione dell’eccezione di merito da parte del convenuto rimasto vittorioso con riguardo all’esito finale della lite, intende riferirsi all’ipotesi in cui l’eccezione non sia stata dal primo giudice ritenuta infondata nella motivazione nè attraverso un’enunciazione in modo espresso, nè attraverso un’enunciazione indiretta, ma chiara ed inequivoca. Quando la mera riproposizione (che dev’essere espressa) è possibile, la sua mancanza rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di rilevazione riguardo ad essa è riservato alla parte, mentre, se il potere di rilevazione compete anche al giudice, non impedisce ferma la preclusione del potere del convenuto – che il giudice d’appello eserciti detto potere a norma dell’art. 345 c.p.c., comma 2”.
10. Riprendendo l’esame dei residui motivi, si deve rilevare che il sesto ed il settimo motivo di ricorso – denuncianti rispettivamente, sempre in merito alla domanda di annullamento, la violazione di legge ovvero l’omessa, insufficiente motivazione in ordine al valore interruttivo del corso della prescrizione di una missiva del 5 ottobre 1993 e l’errore di diritto commesso dai giudici di appello nel ritenere applicabile all’azione di annullamento e alla derivante azione risarcitoria il termine di prescrizione quinquennale anzichè quello maggiore previsto per il reato di truffa aggravata – restano assorbiti, stante il già segnalato consolidarsi dell’infondatezza dell’azione di annullamento per la ratio decidendi diversa dalla prescrizione.
11. Con il nono motivo si denunzia l’omessa pronunzia da parte della Corte distrettuale su una non meglio identificata domanda risarcitoria parimenti proposta dalle originarie parti attrici, svolta nella citazione e riprodotta in appello.
11.1. Il motivo è inammissibile, sia perchè omette di individuare i termini, cioè i fatti costitutivi, sulla base dei quali era stata proposta la non meglio identificata azione risarcitoria, sia per l’assoluta genericità della sua illustrazione.
12. Con il decimo motivo si denunzia, infine, l’iniquità della pronuncia impugnata, nella parte in cui ha condannato le ricorrenti a restituire l’importo di cui alla quietanza contestuale all’atto di vendita, in accoglimento dell’appello incidentale della controparte.
Il motivo, nella prima parte della sua illustrazione, dichiara che la decisione della Corte territoriale sul punto sarebbe stata “frutto degli errori sopra dedotti”: sotto tale profilo non può che risentire della sorte dei precedenti motivi in cui si sono denunciati inutilmente tali errori.
Nella seconda parte espone una postulazione, meramente assertiva e, peraltro, in termini di mera possibilità, di una diversa ricostruzione in fatto, senza, però, evocare e considerare espressamente la motivazione della sentenza impugnata, risultando privo di decisività e inidoneo allo scopo.
13. Il ricorso è, conclusivamente, rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, avuto riguardo all’operatività nella controversia del regime di cui all’art. 92 c.p.c., comma 2, anteriore alla riforma intervenuta nel 2006, possono compensarsi, atteso che il quinto motivo, pur inammissibile all’esito dello scrutinio di quelli precedenti e dell’ottavo, si evidenziava astrattamente fondato nella sua seconda censura, alla stregua del principio di diritto che è stato qui riaffermato nell’interesse della legge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 6 dicembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2017.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 01 marzo 2016, n. 4058, per SS.UU, 12 moggio 2017, n. 11799, in tema di appello
SS.UU, 12 maggio 2017, n. 11799, in tema di appello
In tema di protezione dei minori – SS.UU, 26 giugno 2023, n. 18199
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
FILIAZIONE
MINORI
Ud. 20/06/2023 –
U.P.cam.
R.G.N. 23918/2021
Rep.
SENTENZA
sul ricorso 23918-2021 proposto da:
E.Y. , rappresentata e difesa dall’avvocato ELISABETTA RENIER;
– ricorrente –
contro
R.S. , rappresentato e difeso dall’avvocato LAURA COSSAR;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza n. 2860/20214 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 21/06/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/06/2023 dal Consigliere ENRICO SCODITTI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale LUISA DE RENZIS, il quale chiede che le Sezioni Unite rigettino il ricorso ed affermino il principio di diritto esposto nella parte motiva della requisitoria.
Fatti di causa
1. E.Y. propose innanzi alla Corte d’appello di Bologna domanda di accertamento dei requisiti di riconoscimento della sentenza del 13 giugno 2019, emessa sulla base del ricorso presentato in data 29 settembre 2018 dal Tribunale di Butirskiy – Città di Mosca (Federazione Russa), e mediante cui erano stati affidati i due figli nati nel corso della sua relazione con R.S. , entrambi minorenni, alla madre, determinando la residenza presso quest’ultima e fissando l’orario di visite per il padre. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda.
2. Con sentenza di data 21 giugno 2021 la Corte d’appello adita rigettò la domanda.
Osservò la corte territoriale, premesso che la norma regolante la giurisdizione in Italia era quella della residenza abituale del minore, come previsto dall’art. 8 Reg. CEE n. 2201/2003, che ostava al riconoscimento della sentenza la carenza del presupposto di cui all’art. 64 lett. a) l. n. 218 del 1995 («il giudice che l’ha pronunciata poteva conoscere della causa secondo i princìpi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano»), ed in particolare la circostanza che la Federazione Russa non costituiva lo Stato di residenza abituale dei minori. Osservò in particolare che, all’epoca di proposizione del ricorso (29 settembre 2018), i minori erano residenti abitualmente in Italia, avendo sempre abitato a C. (ove avevano anche la residenza anagrafica) dalla nascita, e trovandosi nella Federazione Russa solo da un paio di mesi per le vacanze estive. Aggiunse che, dovendosi identificare il criterio della residenza abituale del minore nella dimora stabile, non precaria, costituente il luogo dei più radicati legami affettivi e dei principali e reali interessi, non poteva tale luogo essere identificato all’interno della Federazione Russa, in luogo dell’Italia, ove invece i minori fino al settembre 2018 erano cresciuti con i genitori. Osservò inoltre che i due mesi trascorsi nella Federazione Russa non potevano costituire un tempo apprezzabile per considerare radicata in quello Stato l’abituale residenza.
Aggiunse che, se era vero che il padre non aveva eccepito innanzi al Tribunale della Federazione Russa il difetto di giurisdizione, ciò nondimeno trovava applicazione il principio di diritto di cui a Cass. Sez. U. n. 28 ottobre 2015, n. 21946, secondo cui «in tema di riconoscimento di sentenze straniere, ai sensi della L. n. 218 del 1995, i vizi (tra cui il difetto di competenza giurisdizionale, secondo i principi propri dell’ordinamento italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. a) che, se tempestivamente dedotti avanti al giudice straniero, avrebbero inficiato il giudizio, non possono essere fatti valere, per la prima volta, davanti al giudice italiano». Osservò quindi che se il S. avesse eccepito il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria della Federazione Russa, invocando la norma di cui all’art. 8 del Regolamento CE n. 2201/03, «avrebbe visto respinta la sua eccezione, perché l’A.G. della Federazione Russa non era tenuta ad applicare il Reg. CE».
3. Ha proposto ricorso per cassazione E.Y. sulla base di quattro motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. E’ stata depositata memoria di parte.
4. Con ordinanza interlocutoria n. 34969 del 28 novembre 2022 la Prima Sezione Civile ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per l’eventuale sua assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 3, affinché le stesse stabilissero «se, nell’ambito di un giudizio di riconoscimento, in Italia, dell’efficacia di una sentenza straniera, la parte ivi convenuta, che si sia ritualmente costituita nel giudizio svoltosi innanzi al giudice a quo senza sollevare, in quella sede, alcuna eccezione circa la carenza della “competenza giurisdizionale” di quest’ultimo, possa ancora formulare una siffatta eccezione innanzi al giudice della invocata delibazione oppure se la stessa possa essere sollevata di ufficio da quest’ultimo». Il ricorso è stato quindi assegnato a queste Sezioni Unite.
5. Si dà preliminarmente atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in camera di consiglio, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, ai sensi dell’art. 8, comma 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, che ha prorogato fino alla data del 30 giugno 2023 l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 221, comma 8, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, e di cui all’articolo 23, commi 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, e 9-bis, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.
6. Il Procuratore Generale ha presentato le conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso. E’ stata presentata memoria dalla ricorrente.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 42 l. n. 218 del 1995, che rinvia ai principi della Convenzione dell’Aja del 5 Ottobre 1961 sulla competenza delle autorità e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori, e dell’art. 64 lett. a) della medesima legge. Lamenta la ricorrente che la corte territoriale ha ritenuto che il giudice della Federazione Russa non fosse competente a decidere della causa in base ai principi sulla competenza giurisdizionale dell’ordinamento italiano, tra i quali principi però non possono non rientrare anche quelli dettati dalla L. n. 218 del 1995, art. 42 e della Convenzione dell’Aja, e che nella specie è stato violato l’art. 5 della Convenzione dell’Aja del 1996 in base al quale, in caso di lecito trasferimento della residenza abituale di un minore, sono competenti giurisdizionalmente le Autorità del nuovo Stato di residenza, per cui sulla base del lecito trasferimento doveva intendersi come residenza abituale dei minori non quella anagrafica, ma quella corrispondente alla residenza di fatto nella Federazione Russa. Aggiunge che erroneamente è stato richiamato il Regolamento CE 2201/03 inapplicabile al caso di specie.
2. Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 116 c.p.c. e dell’art. 2699 c.c.. Osserva la ricorrente che la Corte d’appello ha omesso la valutazione di elementi probatori documentali in atti, ed in particolare gli elementi di prova documentali presenti nelle sentenze della Federazione Russa, parificabili agli atti redatti da un pubblico ufficiale e deponenti nel senso della residenza stabile dei minori in quel Paese o comunque suscettibile di diventare tale, e ha in ogni caso omesso la valutazione di ogni elemento presente in atti necessario a confermare che la residenza dei minori in Russia aveva carattere di abitualità.
3. Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 64 lett. a) l. n. 218 del 1995. Osserva la ricorrente, con riferimento al rilievo che se il S. avesse eccepito il difetto di giurisdizione della Federazione Russa invocando l’art. 8 Regolamento CE cd. Bruxelles II bis, avrebbe vista respinta la sua eccezione in quanto la Federazione Russa non era obbligata ad applicare il predetto Regolamento europeo, che il medesimo S. ben avrebbe potuto contestare la giurisdizione della Federazione Russa ai sensi della Convenzione dell’Aja del 1996, da applicare per la determinazione della giurisdizione in materia di affidamento di minori ai sensi della L. n. 216 del 1995, ed alla quale la Federazione Russa era tenuta ad uniformarsi per averla ratificata. Aggiunge che non avendo egli opposto tale eccezione, che sarebbe stata decisa in base alle disposizioni della Convenzione medesima, risultava evidente che lo stesso fosse decaduto definitivamente da ogni eccezione in merito alla giurisdizione, anche ai sensi delle norme italiane di diritto internazionale privato.
4. Con il quarto motivo si denuncia violazione della l. n. 766 del 1985 (“Ratifica ed esecuzione della convenzione tra la Repubblica italiana e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche sull’assistenza giudiziaria in materia civile”, firmata a Roma il 25 gennaio 1979), per avere la corte ignorato e disapplicato i dispositivi della predetta Convenzione che riconoscono la facoltà ai cittadini delle Parti contraenti di adire liberamente le autorità giurisdizionali di ciascuna parte e l’efficacia delle decisioni giurisdizionali delle parti contraenti. Precisa che in particolare sono stati disapplicati gli artt. 1, 19 e 24 della medesima Convenzione.
5. Nell’ordinanza interlocutoria, dopo avere premesso che la inapplicabilità del Reg. CE n. 2201/03 nei confronti della Federazione Russa non avrebbe escluso la necessità di verificare l’esito della suddetta eccezione alla stregua della disciplina sancita dalla Convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 – ratificata dall’Italia con la L. 18 giugno 2015, n. 101 – cui ha aderito anche la Russia, viene revocato in dubbio il principio di diritto reso da Cass. Sez. U. n. 21946 del 2015 sul presupposto sia dell’art. 11 della l. n. 218 del 2015, secondo cui il difetto di giurisdizione può essere rilevato, in qualunque stato e grado del processo, soltanto dal convenuto costituito che non abbia espressamente accettato la giurisdizione italiana (mentre il giudice può rilevare d’ufficio il proprio difetto di giurisdizione se il convenuto è contumace), che dell’art. 4 della medesima legge, secondo cui il convenuto costituitosi in giudizio, qualora non proponga l’eccezione di difetto di giurisdizione nella propria comparsa di risposta, accetta, anche implicitamente, la giurisdizione italiana, decadendo dalla possibilità di contestarla in seguito. Il Collegio remittente mostra di non condividere l’opzione della corte territoriale di non conferire rilevanza alla costituzione dell’odierno intimato innanzi all’autorità giudiziaria straniera senza sollevare l’eccezione di giurisdizione alla luce del principio di diritto sopra richiamato, perché è il giudice a quo ad essere investito dei poteri di accertamento della pretesa fatta valere, per cui in quella sede processuale debbono essere valutate tutte le questioni di merito, ma anche di rito, preliminari o pregiudiziali, che attengono alla proponibilità e fondatezza della domanda giudiziale, mentre al Collegio della delibazione spetta la verifica del rispetto di principi fondamentali quali, ad esempio, il contraddittorio, la difesa e l’ordine pubblico, ma anche, sempre ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. a), proprio la competenza giurisdizionale del giudice a quo secondo, però, le norme interne.
Ne consegue, per il Collegio remittente, che era inibito alla Corte d’appello di valutare il profilo della giurisdizione sulla base di un’eccezione che poteva essere proposta dalla parte ritualmente costituitasi, non potendosi far dipendere la possibilità di sollevare, di fronte al giudice italiano, l’eccezione di difetto di competenza giurisdizionale del giudice straniero dal fatto che, davanti a quest’ultimo, il medesimo potere processuale non avrebbe potuto essere esercitato efficacemente per l’inidoneità dell’eccezione ad «inficiare il giudizio», così obbligando il giudice ad quem ad una verifica sull’ipotetico esito dell’eccezione, e dovendosi invece considerare il fatto che la questione non era stata sollevata nel giudizio a quo dalla parte diligente che pur astrattamente avrebbe potuto farlo, con conseguente automatica preclusione nel giudizio ad quem.
6. I motivi, da trattare congiuntamente in quanto connessi, sono infondati, conformemente alle conclusioni del Pubblico Ministero.
6.1. Deve essere premesso un chiarimento preliminare in ordine al principio di diritto da cui prende le mosse l’ordinanza interlocutoria.
Al riguardo va subito detto che Cass. Sez. U. n. 21946 del 2015 non ha fatto applicazione del detto principio. Quest’ultimo, nei termini richiamati dall’ordinanza di rimessione, era stato formulato ed invocato dai ricorrenti in quel giudizio richiamando Cass. 29 maggio 2003, n. 8588. A quest’ultima pronuncia hanno fatto riferimento le Sezioni Unite, tratteggiando il principio nei termini seguenti: «in tema di riconoscimento di sentenze straniere, ai sensi della L. n. 218 del 1995, i vizi (tra cui il difetto di competenza giurisdizionale, secondo i principi propri dell’ordinamento italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. a) che, se tempestivamente dedotti avanti al giudice straniero, avrebbero inficiato il giudizio, non possono essere fatti valere, per la prima volta, davanti al giudice italiano». Non applicando il principio, le Sezioni Unite hanno escluso che l’eccezione di difetto di giurisdizione fosse stata sollevata tardivamente dai ricorrenti, rimasti contumaci dinanzi al giudice statunitense, e che per la prima volta in sede di riconoscimento della sentenza in Italia avevano sollevato l’eccezione di difetto di competenza giurisdizionale del detto giudice, secondo i principi propri del diritto italiano, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. a).
In particolare, il Collegio osservò che «anche là dove i convenuti (la Repubblica Islamica dell’Iran e il Ministero dell’informazione e della sicurezza dell’Iran) avessero partecipato al giudizio dinanzi alla Corte distrettuale per il Distretto della Columbia, il difetto di giurisdizione del giudice statunitense non avrebbe potuto essere utilmente eccepito, in quanto l’immunità dalla giurisdizione dello Stato iraniano sarebbe stata rifiutata da quel giudice in ragione delle disposizioni di una normativa speciale di diritto interno del 1996, cioè la legge sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati stranieri (Foreign Sovereign Immunities Act – FSIA), che prevede sì una presunzione di immunità a favore degli Stati stranieri, ma con una eccezione (art. 1605 (a)(7)), applicabile retroattivamente, per le domande di danni materiali introdotte da cittadini americani vittime di atti di terrorismo commessi ai loro danni con il supporto di agenti di Stati, incluso l’Iran, indicati ufficialmente dagli Stati Uniti come sponsor del terrorismo».
Il principio di diritto, come si è detto, risale a Cass. n. 8588 del 2003, nell’ambito di un giudizio di riconoscimento di sentenza sempre statunitense e della quale è opportuno qui richiamare la motivazione, afferente alla ritenuta inammissibilità del motivo in scrutinio.
«Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 64 della Legge 218-95 nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, lamentando che la Corte d’Appello abbia riconosciuto la sentenza straniera, senza considerare che:
– il giudice che l’ha pronunciata non poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano (art. 64 lett. a), avendo detta causa riguardato una responsabilità per fatto illecito (“frode ed istigazione fraudolenta”) che, in base all’art. 64 della legge in esame, è regolata dalla legge dello Stato in cui si è verificato l’evento ovvero il fatto che ha causato il danno, con la conseguenza che, essendo i fatti avvenuti in Italia, in relazione all’acquisto ed alla gestione un’azienda di abbigliamento di Positano, competente doveva ritenersi il giudice italiano;
– l’atto introduttivo del giudizio svoltosi avanti alla Corte americana non era stato portato a conoscenza del convenuto secondo la legge del luogo in cui si era svolto il processo, essendo stato notificato anch’esso in Positano alla via Boscariello ed inoltre il termine a comparire di venti giorni concesso per la sua costituzione avanti alla Corte Federale dello Stato di New York non poteva consentirgli, quale cittadino italiano residente oltre oceano, di esercitare il proprio diritto di difesa.
Anche tale censura è inammissibile, non potendo i rilevati vizi che avrebbero inficiato il giudizio avanti al giudice straniero essere dedotti per la prima volta in questa sede, senza che mai in precedenza, nè avanti al giudice statunitense (nonostante la notifica dell’atto di citazione fosse avvenuta a mani proprie) né avanti alla Corte d’Appello, fossero stati fatti valere. Ciò vale indubbiamente sia per la competenza giurisdizionale di cui all’art. 64 lett. a) della Legge 218-95, tenuto conto, oltre tutto, della sua derogabilità prevista dall’art. 4 della stessa legge, sia per la notifica dell’atto introduttivo di quel giudizio (avvenuta peraltro a mani proprie, come si è già evidenziato) e sia ai fini della valutazione della congruità del termine a comparire assegnato al convenuto, che richiede di volta in volta uno specifico esame in relazione alle particolari circostanze del caso concreto».
Si ricava dalla motivazione in primo luogo che i vizi, inficianti il giudizio innanzi al giudice straniero e non dedotti in quella sede, dei quali viene rilevata l’impossibilità di dedurli con il ricorso per cassazione, sono due: l’incompetenza giurisdizionale e l’irritualità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio. L’impossibilità di dedurli in sede di legittimità riguarda quindi entrambi i vizi ed essi vengono ai fini della decisione unitariamente considerati, e non singolarmente valutati. In secondo luogo, l’inammissibilità della censura discende dalla mancata deduzione del vizio non solo innanzi al giudice straniero, ma anche innanzi alla Corte d’appello, per cui la novità rilevava anche quale proposizione dell’eccezione per la prima volta in sede di legittimità.
Alla luce di tali considerazioni va detto che il principio di diritto in discorso non è mai stato originariamente enunciato come tale, ma è stato dedotto estrapolandolo da un’articolata motivazione di inammissibilità del motivo di ricorso nella sentenza n. 8588 del 2003, inammissibilità basata essenzialmente su due rationes decidendi, congiuntamente rilevanti ai fini della ritenuta inammissibilità. Del principio è stata invocata l’applicazione da parte dei ricorrenti nel giudizio innanzi alle Sezioni Unite e queste si sono limitate a negarne l’applicabilità. Non vi è dunque allo stato un principio di diritto che possa dirsi enunciato dalle Sezioni Unite, nel senso indicato nell’ordinanza di rimessione, né tanto meno un principio che possa assurgere alla dignità prevista dal secondo comma dell’art. 374 cod. proc. civ.
6.2. Ciò chiarito in ordine alla premessa da cui ha preso le mosse l’ordinanza interlocutoria, va detto che, avuto riguardo all’epoca di introduzione del giudizio innanzi al giudice straniero (29 settembre 2018), trova applicazione nel caso di specie la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1996 (“Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori”), cui deve intendersi rinvii l’art. 42 della legge n. 218 del 1995 quale normativa succeduta alla Convenzione del 5 ottobre 1961 (così in motivazione Cass. 12 settembre 2019, n. 22828), in quanto disciplina internazionale ratificata non solo dallo Stato italiano con legge 18 giugno 2015 n. 101, ma anche dalla Federazione Russa. Già la norma generale di cui all’art. 2 della legge n. 218 prevede che «le disposizioni della presente legge non pregiudicano l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l’Italia», ma è soprattutto l’art. 42 a venire in gioco, in base al quale «la protezione dei minori è in ogni caso regolata dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, sulla competenza delle autorità e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori, resa esecutiva con la legge 24 ottobre 1980, n. 742». Nel senso che il caso di specie ricada nella disciplina della detta Convenzione sono anche le conclusioni del Pubblico Ministero.
Per ciò che concerne il riconoscimento della sentenza straniera l’art. 23 della Convenzione, premesso il riconoscimento di pieno diritto della misura adottata dalla autorità di uno Stato contraente negli altri Stati contraenti, prevede, fra le condizioni ostative del riconoscimento, che la misura sia stata adottata da un’autorità la cui competenza non era fondata in base alle disposizioni convenzionali sulla competenza, ed in particolare l’art. 5 della medesima Convenzione, secondo cui «le autorità, sia giudiziarie che amministrative, dello Stato contraente di residenza abituale del minore sono competenti ad adottare misure tendenti alla protezione della sua persona o dei suoi beni».
L’art. 24 prevede poi che «senza pregiudizio dell’art. 23, paragrafo primo, ogni persona interessata può chiedere alle autorità competenti di uno Stato contraente che si pronuncino sul riconoscimento o il mancato riconoscimento di una misura adottata in un altro Stato contraente. La procedura è regolata dalla legge dello Stato richiesto». Si intende da tale disposizione convenzionale che la legge dello Stato richiesto per il riconoscimento trova applicazione limitatamente alle norme che disciplinano la procedura, mentre, per quanto riguarda i presupposti del riconoscimento, trova applicazione la disciplina convenzionale. Quest’ultima non prevede, contrariamente all’art. 64 l. n. 218 del 1998, requisiti costitutivi di efficacia (l’art. 64 è formulato nei termini che si ha riconoscimento quando ricorrano i presupposti contemplati dalla norma), ma contempla il riconoscimento di pieno diritto della sentenza straniera, salvo la ricorrenza di condizioni ostative, ed in particolare, per quanto qui rileva, quella secondo cui la misura giurisdizionale non è stata adottata dalla autorità giudiziaria dello Stato contraente di residenza abituale del minore. La fattispecie resta così regolata, in funzione di disciplina sostanziale del riconoscimento, dall’art. 23 della Convenzione, mentre trova applicazione la legge italiana soltanto per ciò che riguarda la procedura, in particolare, in base alla legge applicabile ratione temporis, il rito sommario di cognizione (a decorrere dal 28 febbraio 2023, il rito è quello semplificato di cognizione), con competenza della corte d’appello del luogo di attuazione del provvedimento straniero (art. 30 d. lgs. n. 150 del 2011, cui rinvia l’art. 67, comma 1-bis, della legge n. 218).
6.3. Con il primo motivo di ricorso si invoca l’applicazione della Convenzione dell’Aja, ma allo scopo di fare applicazione dell’art. 5 della disciplina convenzionale, ed in particolare il secondo paragrafo, il quale prevede che, fatta salva l’ipotesi del trasferimento illecito, «in caso di trasferimento della residenza abituale del minore in un altro Stato contraente, sono competenti le autorità dello Stato di nuova abituale residenza». La censura è inammissibile perché muove da un presupposto di fatto non accertato dal giudice del merito, e cioè che la residenza abituale del minore fosse stata trasferita nella Federazione Russa. Il giudizio di fatto del giudice del merito, in quanto tale non sindacabile nella presente sede alla luce dei noti limiti del controllo di legittimità, è stato nel senso che non vi è stato trasferimento della residenza abituale non potendosi considerare tale il periodo di permanenza di due mesi per le vacanze estive. Tale giudizio di fatto resta fermo nella presente sede di legittimità perché, benché l’art. 25 preveda che «l’autorità dello Stato richiesto è vincolata dalle constatazioni di fatto sulle quali l’autorità dello Stato che ha adottato la misura ha fondato la propria competenza», la ricorrente non ha impugnato l’ordinanza della corte territoriale sotto il profilo della violazione dell’art. 25 della Convenzione.
Alla stregua quindi dell’accertamento di fatto del giudice del merito deve concludersi nel senso che il riconoscimento alla sentenza straniera deve essere negato per essere stata emessa da autorità priva di competenza ai sensi dell’art. 23, paragrafo 2 lett. a), della Convenzione, in quanto non appartenente allo Stato contraente di residenza abituale dei minori.
Inammissibile è anche la censura sollevata con il secondo motivo, essenzialmente per violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., sotto il profilo dell’omessa valutazione della prova, omissione che, secondo l’assunto della ricorrente, avrebbe determinato pure una violazione dell’art. 2699 cod. civ. perché le prove pretermesse sarebbero le sentenze della Federazione Russa. Al riguardo è sufficiente rammentare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ed anche di queste Sezioni Unite, in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867). E’ stato anche da ultimo affermato che il potere del giudice di valutazione della prova non è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione dell’art. 116 c.p.c., quale apprezzamento riferito ad un astratto e generale parametro non prudente della prova, posto che l’utilizzo del pronome “suo” è estrinsecazione dello specifico prudente apprezzamento del giudice della causa, a garanzia dell’autonomia del giudizio in ordine ai fatti relativi, salvo il limite che “la legge disponga altrimenti” (Cass. 17 novembre 2021, n. 34786).
Conformemente a quanto osservato dal Procuratore Generale, il terzo motivo, su cui verte la questione per cui è intervenuta l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, non è fondato. L’ordinanza interlocutoria richiama la problematica dell’integrazione del requisito di cui all’art. 64 lett. a) della legge n. 218 con l’art. 4, comma 1, quanto alla sussistenza della giurisdizione del giudice italiano, per ipotesi mancante in base all’art. 3, per effetto della mancata sollevazione dell’eccezione di difetto della giurisdizione nel primo atto difensivo. Ne seguirebbe che fra i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento giuridico vi sarebbe anche la regola enunciata dall’art. 4, comma 1. Di qui, alla stregua del ragionamento dell’ordinanza di rimessione, l’inoperatività del criterio dell’esito che avrebbe avuto la sollevazione dell’eccezione innanzi al giudice straniero, su cui invece si è basata la corte territoriale richiamando Cass. Sez. U. n. 21946 del 2015. Come osservato dal Procuratore Generale, l’articolazione normativa derivante dalla legge n. 218 cede il passo al criterio della residenza abituale del minore contemplato dalla Convenzione. Lo scrutinio del terzo motivo non può non sfociare nei termini dell’infondatezza proprio perché la fattispecie, sotto il profilo delle condizioni sostanziali di riconoscimento della sentenza straniera, è disciplinata dalla Convenzione e non dall’art. 64 della legge n. 218, trovando applicazione la legge italiana, come si è detto, solo limitatamente alla procedura, in forza di quanto previsto dalla medesima Convenzione.
La sentenza della corte territoriale, nella misura in cui assume quale paradigma decisionale la consumazione del potere di eccepire l’incompetenza giurisdizionale per mancata sollevazione della relativa eccezione innanzi al giudice straniero, sia pure ravvisando l’assenza del presupposto di applicabilità di quel paradigma, è erroneamente motivata in diritto, benché sia conforme a diritto sul punto il dispositivo, e quindi la motivazione va corretta nel senso qui indicato ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 384 cod. proc. civ..
Infine, quanto al quarto motivo, con cui si denuncia la violazione della legge n. 766 del 1985 (“Ratifica ed esecuzione della convenzione tra la Repubblica italiana e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche sull’assistenza giudiziaria in materia civile”, firmata a Roma il 25 gennaio 1979), e segnatamente degli artt. 1, 19 e 24 della medesima Convenzione, come esattamente osservato dal Procuratore Generale, la normativa richiamata non disciplina il riparto di giurisdizione, ma si limita a riconoscere il diritto dei cittadini di ciascuno Stato firmatario di adire gli uffici giudiziari dell’altro, a condizione che, in base ai criteri di collegamento previsti dalle norme di volta in volta applicabili, l’autorità giudiziaria adita sia munita di giurisdizione in ordine alla controversia (si vedano in motivazione Cass. Sez. U. 19 ottobre 2022, n. 30903 e 12 aprile 2022, n. 21351). Il criterio di collegamento della giurisdizione previsto dalla Convenzione del 1996 è, come si è visto, quello della residenza abituale del minore, che il giudice del merito ha accertato essere nel territorio dello Stato italiano.
6.4. Va, in conclusione, enunciato il seguente principio di diritto: “ove, in base all’art. 42 legge n. 218 del 1995, trovi applicazione la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1996, le condizioni sostanziali di riconoscimento delle misure di protezione dei minori disposte dalla giurisdizione straniera risultano fissate dall’art. 23 della detta Convenzione, e non dall’art. 64 legge n. 218 del 1995, mentre il procedimento del riconoscimento innanzi al giudice italiano resta disciplinato, come previsto dall’art. 24 della medesima Convenzione, dalla legge italiana”.
6.5. I profili di novità evocati dalla controversia, anche avuto riguardo alla questione interpretativa posta dalla decisione impugnata che ha sollecitato l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite, costituiscono ragione di compensazione delle spese processuali
Poiché il ricorso viene disatteso, vi sono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 – quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso;
dispone la compensazione delle spese processuali.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Dispone, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del d.lgs. n. 196 del 2003.
Così deciso in Roma il giorno 20 giugno 2023
Il consigliere estensore
Dott. Enrico Scoditti
Il Presidente
Dott. Guido Raimondi
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 28 novembre 2022, n. 34969, per SS.UU, 26 giugno 2023, n. 18199, in tema di protezione dei minori
SS.UU, 26 giugno 2023, n. 18199, in tema di protezione dei minori
In tema di eccezione di compensazione – SS.UU, 15 novembre 2016, n. 23225
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CANZIO Giovanni – Primo Presidente –
Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –
Dott. CHIARINI Maria Margherita – rel. Presidente Sezione –
Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –
Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –
Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 24178/2012 proposto da:
AI MORI DI L.F. & C. S.N.C., in persona dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CESI 72, presso lo studio dell’avvocato LUIGI ALBISINNI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati CARLO STRAULINO e GIOVANNI CESARI, per delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
GEFIM RE S.R.L., (già GEFIM IMMOBILIARE DI E.S. & C. S.A.S.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI 10, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO CASTELLANI, rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLA GIGLIO, per delega a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1106/2012 del TRIBUNALE di VENEZIA, depositata il 19/06/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/03/2016 dal Presidente Dott. MARIA MARGHERITA CHIARINI;
udito l’Avvocato Filippo CASTELLANI per delega dell’avvocato Paola Giglio;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per l’accoglimento dei primi due motivi del ricorso, assorbiti gli altri.
Svolgimento del processo
1.– Il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 1160 in data 27 aprile 2009, accolse l’opposizione della società Ai Mori al decreto ingiuntivo ottenuto dalla società GE.F.IM. e condannò quest’ultima al pagamento delle spese di giudizio (Euro 2.240,29).
La società ai Mori, con atto notificato l’11 febbraio 2010, intimò alla società GE.F.IM. precetto per il pagamento, oltre le spese.
L’intimata si oppose all’esecuzione dinanzi al giudice di Pace di Venezia contestando alcuni diritti di procuratore richiesti ed eccependo la compensazione legale del debito, fino alla concorrenza, con un credito di minor importo ex altera causa, ma omogeneo – condanna della società ai Mori a rimborsarle le spese giudiziali, emessa con sentenza n. 16 del Tribunale di Venezia il 5 gennaio 2010 – e chiese di accertare l’inefficacia o la nullità del precetto per le somme non dovute, con vittoria di spese, quantificando il residuo credito della società ai Mori in Euro 1.640,35.
La società Ai Mori eccepì la cessazione della materia del contendere perchè il 15 marzo 2010 la GE.F.IM. aveva pagato all’ufficiale giudiziario senza riserve l’importo intimato.
Si oppose alla compensazione perchè il controcredito – spese giudiziali – non era certo in quanto la sentenza del Tribunale n. 16 del 5 gennaio 2010 non era passata in giudicato, e contestò la voce “spese per registrazione sentenza”.
2.– Con sentenza del 16 luglio 2010 il Giudice di Pace accolse l’opposizione poichè a decorrere dalla pubblicazione della sentenza a favore della GE.FI.M. – 5 gennaio 2010 – era venuto a coesistenza il credito, liquido ed esigibile, di detta società; dichiarò perciò l’estinzione dei crediti, fino alla concorrenza, accertò il residuo credito della società ai Mori (Euro 1.140) e dichiarò la nullità del precetto per l’eccedenza. Poichè la società GE.F.IM. aveva pagato all’ufficiale giudiziario la somma intimata, condannò la società Ai Mori a restituire alla società GE.F.IM. la somma di Euro 2.183,33 oltre agli interessi dal giorno del pagamento all’ufficiale giudiziario.
La società Ai Mori propose appello per erronea applicazione dell’art. 1243 c.c., perchè il credito opposto in compensazione dalla GE.F.IM. non era certo sì che il giudice dell’opposizione all’esecuzione non poteva dichiarare l’estinzione di ogni reciproca ragione fino alla concorrenza, travalicando l’ambito del relativo giudizio, e sconfinando nella potestas iudicandi del giudice dell’impugnazione.
3.– Con sentenza del 19 giugno 2012 il Tribunale di Venezia ha respinto l’appello della s.n.c. Ai Mori nei confronti della GE.F.IM. s.a.s..
Ha proposto ricorso per cassazione la società Ai Mori, con atto del 25 ottobre 2012. Ha proposto controricorso la s.r.l. GEFIM RE, già GEFIM Immobiliare s.a.s. per atto di scissione del 2 maggio 2011, già GE.F.IM. s.a.s. per atto di scissione dell’11 marzo 2010.
La ricorrente ha depositato memoria.
4.– La Terza Sezione Civile di questa Corte, con ordinanza n. 18001 del 2015, ritenuta l’ammissibilità del ricorso notificato alla s.a.s. GE.F.IM., società scissa e perciò non estinta, e la facoltà della s.r.l. GEFIM RE di intervenire nel giudizio a norma dell’art. 111 cod. proc. civ., allegando i presupposti della sua legittimazione, rilevava il contrasto tra l’orientamento di legittimità, secondo il quale se il credito opposto in compensazione non è certo, e cioè se il titolo giudiziale non è definitivo, non opera la compensazione, e la sentenza n. 23573 del 2013, secondo cui tale circostanza non è di ostacolo alla possibilità di opporre il controcredito in compensazione, e rimetteva la relativa questione al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. Fissata l’udienza dinanzi alle Sezioni Unite, la ricorrente ha depositato altra memoria.
5.– Il P.M., ritenuta l’ammissibilità del ricorso, ha pregiudizialmente rilevato l’estraneità al thema decidendum della questione di contrasto perchè si è formato il giudicato interno sulla premessa giuridica della sentenza impugnata secondo cui possono essere compensati esclusivamente i crediti certi, che, se contestati in giudizio, divengono tali solo a seguito del passaggio in cosa giudicata della sentenza che ne riconosca l’an e il quantum.
Da questa premessa, costituente autonoma ratio decidendi, non impugnata, il Tribunale ha però addossato al creditore, che contesti il controcredito, l’onere probatorio del mancato passaggio in giudicato della sentenza che lo accerta, e questa statuizione è stata impugnata dalla società Ai Mori sul presupposto che alla data del 5 gennaio 2010 non era ancora infruttuosamente elasso il termine per impugnare la sentenza che l’aveva condannata a pagare le spese giudiziali alla società GE.F.IM. Perciò, essendosi formato il giudicato interno sulla non deducibilità in compensazione di un credito litigioso, la questione in contrasto – ossia la opponibilità o meno in compensazione di un credito contestato – non può esser rimessa in discussione sollevandola ex officio.
In subordine, il P.M. ha concluso per la riaffermazione dei principi di diritto consolidati di questa Corte, argomentandone le ragioni.
Motivi della decisione
1.– Va pregiudizialmente disatteso il rilievo della società GEFIM RE s.r.l. di inammissibilità del ricorso della società Ai Mori s.n.c. in quanto proposto nei confronti della società GE.FIM. s.a.s. anzichè della GEFIM RE s.r.l., nuovo soggetto risultante dalla scissione del 2 maggio 2011 della società GEFIM Immobiliare s.a.s., già GE.F.IM. s.a.s. per scissione dell’11 marzo 2010.
Ed invero, la scissione, disciplinata dagli artt. 2506 e segg. a decorrere dal 1 gennaio 2004 per effetto dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, consistente nel trasferimento del patrimonio a una o più società, preesistenti o di nuova costituzione, contro l’assegnazione delle azioni o delle quote di queste ultime ai soci della società scissa, si traduce in una fattispecie traslativa, che, sul piano processuale, non determina l’estinzione della società scissa ed il subingresso di quella risultante dalla scissione nella totalità dei rapporti giuridici della prima, ma si configura come una successione a titolo particolare nel diritto controverso, che, ove intervenga nel corso del giudizio, comporta l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 111 cod. proc. civ.(Cass. 30246 del 2011); con la conseguenza che il processo prosegue fra le parti originarie (Cass. 6471 del 2012), con facoltà per il successore di resistere con controricorso all’impugnazione “ex adverso” proposta davanti alla Corte di Cassazione nei confronti del suo dante causa, pur non avendo partecipato al processo nei precedenti gradi di giudizio (tra le altre, Cass. 11757 del 2006, 10902 del 2004, 2889 del 2002, 5822 del 1999, 4742 del 1998).
2.– Con il primo motivo di ricorso la società Ai Mori lamenta: “Art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione dell’art. 1243 c.c., per difetto di presupposto della compensazione legale”.
3.– Con il secondo motivo lamenta: “Art. 360 c.p.c., n. 3, – Violazione dell’art. 2697 c.c., per errata attribuzione di un onere probatorio inesistente”.
4.– Con il terzo motivo la medesima deduce: “Art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 615 c.p.c.“, per avere il Giudice di Pace non soltanto pronunciato la compensazione legale tra contrapposti crediti non ancora certi, ma altresì accertato il residuo credito della società Ai Mori di Euro 1.140, così incidendo sui titoli costitutivi giudiziali e modificandone il decisum.
5.– Con il quarto motivo censura: “Art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione della norma di diritto di cui all’art. 112 c.p.c.“, per avere il giudice dell’opposizione illegittimamente rilevato eccezioni di ufficio.
6.– Con il quinto motivo si duole: “Art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’art. 494 c.p.c.. Motivazione insufficiente sulla mancata declaratoria di cessazione della materia del contendere conseguente all’avvenuto pagamento del debito della società GE.F.IM. eseguito a mani dell’ufficiale giudiziario senza riserva di ripetizione”.
7.– I motivi, congiunti, sono inammissibili per carenza di interesse non essendovi più controversia tra le parti sulla certezza dei reciproci crediti.
Ed infatti la controricorrente rileva che la sentenza n. 16 del 2010 – titolo costitutivo del suo credito opposto in compensazione – era passata in giudicato il 21 giugno 2010 in quanto notificata ai sensi degli artt. 170 e 285 c.p.c., il 21 maggio 2010 e quindi prima della notifica del 26 ottobre 2010 dell’appello della società Ai Mori, così come era divenuto incontrovertibile il credito di quest’ultima società, fondato sulla sentenza n. 1160 del 2009, notificata il 19 novembre 2009 e non impugnata dalla GE.F.IM..
E la ricorrente – in specie nella memoria del 27 gennaio 2015 – è d’accordo sulla circostanza che i rispettivi titoli costitutivi – sentenze di condanna al rimborso delle spese giudiziali – sono divenuti incontrovertibili prima della sentenza di primo grado del 16 luglio 2010 che ha definito il giudizio di opposizione all’esecuzione, dichiarando l’avvenuta estinzione per compensazione del credito della società Ai Mori dalla coesistenza, e fino alla concorrenza, del controcredito della GE.F.IM.
Perciò è ormai venuto meno l’interesse della ricorrente alla decisione delle censure proposte.
8.- Tuttavia le Sezioni Unite ritengono di comporre il contrasto originato dalla sentenza 23573/2013 della Terza Sezione Civile ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, ribadendo i consolidati principi di diritto.
8.1– La compensazione è disciplinata dal libro quarto, capo 4^ – Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dalli adempimento – Sezione III del codice civile (dopo la novazione e la remissione).
L’art. 1241 – Estinzione per compensazione – dispone: “Quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti, secondo le norme degli articoli che seguono”.
L’art. 1242, comma 1, prosegue: “La compensazione estingue i due debiti dal giorno della loro coesistenza. Il giudice non può rilevarla d’ ufficio”.
L’art. 1243 – Compensazione legale e giudiziale – continua: “La compensazione si verifica solo tra due debiti che hanno per oggetto una somma di danaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere e che sono ugualmente liquidi ed esigibili”.
Il secondo comma stabilisce: “Se il debito opposto in compensazione non è liquido ma è di facile e pronta liquidazione, il giudice può dichiarare la compensazione per la parte del debito che riconosce esistente, e può anche sospendere la condanna per il credito fino all’accertamento del credito opposto in compensazione”.
Per credito liquido – espressione letterale dell’art. 1243 c.c., comma 1, che si attaglia alle obbligazioni pecuniarie o omogenee e fungibili deve intendersi il credito determinato nell’ammontare in base al titolo, come si desume anche dall’identica espressione contenuta in altre norme: l’art. 1208 c.c., n. 3, sui requisiti di validità dell’offerta reale dell’obbligazione prevede una somma per le spese “liquide” e un’altra somma per quelle “non liquide”; l’art. 1282 c.c., stabilisce che i crediti liquidi (ed esigibili) producono interessi; l’art. 633 c.p.c., stabilisce come condizione di ammissibilità del provvedimento monitorio un credito di una somma liquida di danaro.
L’ulteriore requisito della certezza sull’esistenza del credito non si desume dalla formulazione dell’art. 1243 c.c., comma 1, perchè la liquidità attiene all’oggetto della prestazione, mentre la certezza attiene all’esistenza dell’obbligazione, e quindi al titolo costitutivo del credito. Perciò la contestazione del titolo non è in sè contestazione sull’ammontare del credito, come determinato in base al titolo, ma se questo è controverso la liquidità e l’esigibilità sono temporanee e a rischio del creditore. E allora, attesa la finalità dell’istituto della compensazione – estinzione satisfattoria reciproca (il che peraltro postula che anche il credito principale sia certo, liquido ed esigibile), che non può verificarsi se la coesistenza del controcredito è provvisoria, la giurisprudenza, da tempo risalente (Cass. n. 620 del 1970) ha affermato che non ricorre il requisito della liquidità del credito non solo quando esso non sia certo nel suo ammontare, ma anche quando ne sia contestata l’esistenza.
Da qui l’ormai consolidato principio che per l’operatività della compensazione legale il titolo del credito deve essere incontrovertibile, ossia non essere più soggetto a modificazioni a seguito di impugnazione (Cass. 6820 del 2002, 8338 del 2011) non solo nella sua esattezza, ma anche nella sua esistenza (credito certus nell’an, nel quid, nel quale, nel quantum debeatur).
Perciò accanto ad una nozione di liquidità sostanziale del credito in base al titolo, si è aggiunta una nozione di “liquidità” processuale stabilizzata che non sussiste se il creditore principale contesta, non pretestuosamente, nell’an e/o nel quantum, il titolo che accerta il controcredito o potrebbe contestarlo (credito litigioso).
La locuzione contenuta nell’art. 1243 c.c., comma 2, – “Se il debito opposto in compensazione.. è di facile e pronta liquidazione..” – è stata interpretata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità nel senso che soltanto l’“accertamento” – nel senso di determinabilità – pronto, ossia in tempo processuale breve, e facile, ossia metodicamente semplice (es. mediante calcolo degli interessi), del controcredito – e per questo riservato dalla norma al giudice dinanzi al quale il processo deve proseguire – può giustificare il ritardo della decisione sul credito principale – certo, liquido ed esigibile – onde dichiarare estinti entrambi i rispettivi crediti per compensazione, secondo la ratio dell’istituto: il vantaggio delle parti di risolvere celermente in unica soluzione le reciproche pretese salvaguardando una ragione di equità, perchè non è giusto che sia condannato all’adempimento chi a sua volta ha un concorrente credito.
Questa Corte, con orientamento pressochè unanime, ha enunciato i seguenti principi:
1) la compensazione legale opera di diritto, su eccezione di parte, e per avere efficacia estintiva “satisfattoria” deve avere ad oggetto due contrapposti crediti certi, liquidi, ossia determinati nella consistenza ed ammontare, omogenei ed esigibili (requisiti desumibili dai rispettivi titoli costitutivi: Cass. 22 ottobre 2014, n. 22324; Cass. 11 gennaio 2006, n. 260);
2) se il requisito della liquidità del controcredito opposto in compensazione manca, ma il giudice dinanzi al quale è formulata l’eccezione ne ritiene la facile e pronta liquidabilità – giudizio di fatto, insindacabile in cassazione può dichiarare la compensazione fino alla concorrenza per la parte del controcredito che riconosce esistente, e può anche sospendere cautelativamente la condanna per il credito principale fino all’accertamento – id est liquidazione – del controcredito;
3) la provvisorietà dell’accertamento del controcredito in separato giudizio non può provocare l’effetto dell’estinzione del credito principale, la quale investe – elidendola irrimediabilmente – la stessa sussistenza, ontologicamente considerata, della ragione di credito e non soltanto la sua tutela esecutiva;
4) l’eseguibilità del titolo giudiziale che accerta il credito non attiene alla certezza, ma solo alla tutela anticipata del medesimo, mediante la sua immediata azionabilità (Cass. 8338 del 2011);
5) la compensazione legale si distingue da quella giudiziale perchè per la ricorrenza della prima i due crediti contrapposti devono essere certi, liquidi ed esigibili anteriormente al giudizio, mentre per la seconda il credito opposto in compensazione non è liquido, ma viene liquidato dal giudice nel processo, purchè reputato di “pronta e facile liquidazione”;
6) se l’accertamento del credito opposto in compensazione pende dinanzi ad altro giudice, è questi che deve liquidarlo (Cass. 1695 del 2015, 9608 del 19 aprile 2013);
7) in quest’ultimo caso il giudice dell’eccezione di compensazione non può sospendere il giudizio sul credito principale ai sensi dell’art. 295 c.p.c., o art. 337 c.p.c., comma 2, qualora nel giudizio avente ad oggetto il credito eccepito in compensazione sia stata emessa sentenza non passata in giudicato (Cass. n. 325 del 1992), ma, non potendo realizzarsi la condizione prevista dall’art. 1243 c.c., comma 2, – che costituisce disciplina processuale speciale ai fini della reciproca elisione dei crediti nel processo instaurato dal creditore principale – (il giudice) deve dichiarare l’insussistenza dei presupposti per elidere il credito agito e rigettare l’eccezione di compensazione;
8) se la certezza del controcredito – il cui onere della prova spetta all’eccipiente (Cass. 5444/2001) – si matura nel corso del giudizio sul credito principale, anche in appello, gli effetti estintivi della compensazione legale decorrono dalla coesistenza dei crediti;
9) l’eccezione di compensazione non configura un presupposto di natura logico-giuridica sui requisiti del credito principale il cui accertamento giustifichi il sacrificio delle ragioni di tutela di questo oltre i limiti previsti dalla stessa norma – ossia la possibilità di procrastinare, cautelativamente (Cass. 5319 del 09/08/1983), la condanna ad adempiere del debitore fino alla pronta e facile liquidazione, nel medesimo processo, del credito opposto in compensazione – consentendo di sospendere la decisione sulla causa principale fino al passaggio in giudicato del giudizio sul controcredito come se questo pregiudicasse, in tutto o in parte, l’esito della causa sul credito principale (Cass., 3 ottobre 2012, n. 16844, Cass., 4 dicembre 2010, n. 25272).
9.- La Terza Sezione civile, con sentenza n. 23573 del 2013, si è consapevolmente discostata da questi principi collegando la disciplina sostanziale dell’eccezione di compensazione con quella processuale ed in particolare:
art. 35 – “Eccezione di compensazione” -: “Quando è opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, questi, se la domanda è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, può decidere su di essa e rimettere le parti al giudice competente per la decisione relativa all’eccezione di compensazione, subordinando, quando occorre, l’esecuzione della sentenza alla prestazione di una cauzione; altrimenti provvede a norma dell’articolo precedente”;
art. 34 – Accertamenti incidentali -: “Il giudice se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o per valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa dinanzi a lui”;
art. 40 c.p.c. – Connessione -: “Se sono proposte dinanzi a giudici diversi più cause le quali, per ragioni di connessione, possono essere decise in un solo processo..; Nei casi previsti dagli artt. 34, 35 e 36, le cause cumulativamente proposte o successivamente riunite debbono essere trattate con il rito ordinario..”.
art. 295 c.p.c. – sospensione necessaria -: “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”;
art. 337 c.p.c., comma 2 – Sospensione dell’esecuzione e dei processi -: “Quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo questo può esser sospeso se tale sentenza è impugnata”.
9.1– L’applicabilità delle suddette norme processuali alle innanzi richiamate norme sostanziali non è condivisibile.
Muovendo dalla considerazione contenuta nella sentenza n. 23573 del 2013, secondo cui, se l’art. 35 c.p.c., disciplina la competenza a decidere il controcredito eccepito nel giudizio sul credito principale, la stessa norma deve applicarsi allorchè il controcredito è già sub judice poichè eccepito ai sensi dell’art. 1243 c.c., comma 2, emerge che i piani tra le norme sulla competenza, a cui appartiene il sucitato art. 35, e la disciplina sostanziale sulla compensazione – art. 1241 c.c. e segg. – non si intersecano.
Ed invero, pacifico per giurisprudenza e dottrina che i requisiti prescritti dall’art. 1243 c.c., comma 1, per la compensazione legale, e cioè l’omogeneità dei debiti, la liquidità, l’esigibilità e la certezza, devono sussistere necessariamente anche per la compensazione giudiziale, il secondo comma di detta norma si limita a consentire al giudice del credito principale di liquidare il controcredito opposto in compensazione soltanto se il suo ammontare è facilmente e prontamente liquidabile in base al titolo.
Ma per esercitare questo potere discrezionale – esclusivo e specifico (Cass., 3 ottobre 2012, n. 16844, Cass., 4 dicembre 2010, n. 25272) – al fine di dichiarare la compensazione giudiziale, il controcredito deve essere certo nella sua esistenza e cioè non controverso.
Se il controcredito è contestato, come prevede l’art. 35 c.p.c., allora non è certo, e quindi non è idoneo ad operare come compensativo sul piano sostanziale, e l’eccezione di compensazione va respinta.
L’ambito di contestazione del controcredito opposto in compensazione secondo l’art. 1243 c.c., secondo comma, è infatti limitato alla liquidità del credito, mentre la contestazione sulla sua esistenza – a meno che essa sia prima facie pretestuosa e infondata (Cass. 6237 del 1991) – lo espunge dalla compensazione giudiziale (Cass. 10352 del 1993).
Soltanto la contestazione sulla liquidità del credito opposto in compensazione consente al giudice del credito principale – con accertamento discrezionale di merito, che presuppone la sua competenza, ed incensurabile in Cassazione – di determinarne l’ammontare se è facile e pronto, sopperendo alla mancanza di questo requisito mediante un’attività ricognitiva – attuativa del titolo, funzionale all’eccezione di compensazione.
La disciplina contenuta nell’art. 1243 c.c., comma 2, consiste nell’inoperatività dell’eccezione di compensazione, sia legale che giudiziale, se è controverso l’an del controcredito, analogamente al caso in cui il credito opposto in compensazione non è di pronta e facile liquidazione (Cass. 10352/1993, cit.).
Il giudice del credito principale ha o la possibilità di dichiarare la compensazione per la parte di controcredito già liquida, o di sospendere, eccezionalmente, la condanna del credito principale fino alla liquidazione di tutto il credito opposto in compensazione, ma non di ritardare la decisione sul credito principale fino all’accertamento, da parte di egli stesso o di altro giudice, dell’esistenza certa di quello opposto in compensazione; altrimenti sarebbe pleonastico il sintagma “di pronta e facile liquidazione” richiesto dalla norma.
Nè d’ altro canto a tal fine può applicarsi analogicamente la disciplina dell’art. 35 c.p.c., non potendosi ravvisare il canone interpretativo dell’eadem ratio.
9.2– Peraltro, neanche le norme sulla modificazione della competenza per ragioni di connessione, contenute nel libro Primo, Sezione IV, del codice di rito legittimano il meccanismo processuale della condanna con riserva e della sospensione del giudizio sulla compensazione che la sentenza n. 23573/2013 ritiene applicabile onde consentire di poter sempre opporre, davanti al giudice investito del credito principale, la compensazione con un credito la cui esistenza sia in corso di accertamento in separato giudizio, in modo da garantire comunque l’operatività della compensazione pur se al momento della relativa eccezione il credito opposto non era ancora accertato con provvedimento giudiziale definitivo, e così impedire che il passaggio in cosa giudicata del titolo giudiziale definitivo sull’esistenza del credito opposto in compensazione intervenga in un momento in cui non sia più possibile farlo valere, a quel titolo e a quei fini, per essere stato definitivamente esitato il giudizio promosso dal creditore-debitore contrapposto.
9.2.1– Da un lato, è principio immanente, innucleato nell’art. 1243 c.c., comma 2, che la compensazione giudiziale è processualmente rilevante soltanto quando il giudice del credito principale sia competente anche per il credito opposto in compensazione, con conseguente esclusione dell’eccezione di compensazione fondata su un credito la cui certezza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso.
Non solo la disciplina speciale contenuta nell’art. 1243 c.c., consente la sospensione cautelativa della decisione sul credito principale soltanto se il credito opposto in compensazione è di facile e pronta liquidazione, ma sia il conferimento di questo potere al giudice del credito principale, sia la finalità con esso perseguita, postulano che il giudizio prosegua dinanzi al giudice del credito principale per consentirgli di effettuare la valutazione e la liquidazione del controcredito prevista dalla norma.
E quindi, come nel caso in cui l’accertamento del credito opposto in compensazione non sia facile e pronto il giudice del credito principale, per espressa previsione normativa, non ha il potere di sospendere la decisione su quest’ultimo, ma deve immediatamente decidere su di esso, così a maggior ragione non può sospenderne la decisione a norma dell’art. 295 c.p.c., o art. 337 c.p.c., comma 2, che certamente gli precludono qualsiasi valutazione di pronta o facile liquidazione del controcredito in quanto spettante al giudice competente.
9.2.2– Dall’altro, l’interpretazione dell’art. 1243 c.c., comma 2, non solo non collide con la disposizione contenuta nell’art. 35 c.p.c., ma ne costituisce conferma.
Detta norma processuale prevede che se il giudice non è competente sull’eccepito controcredito contestato ed il credito principale è fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile, decide prontamente su di esso – (conformemente all’esigenza desumibile anche dall’art. 1243 c.c., comma 2, di decidere il più rapidamente possibile sul credito, se del caso subordinando la condanna ad una cauzione, analogamente alla sospensione cautelativa dell’art. 1243 c.c., comma 2) – e quindi non ne sospende la decisione, nè ai sensi dell’art. 295, nè ai sensi dell’art. 337 c.p.c., comma 2, e rimette la decisione sull’eccezione al giudice competente.
Se invece il credito principale non è fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile, rimette la decisione su entrambi i crediti al giudice competente sul credito opposto in compensazione, a norma dell’art. 34 c.p.c., a cui rinvia l’art. 35 c.p.c., u.c., – che così assume la configurazione di eccezione riconvenzionale di compensazione.
Riassumendo, sia l’art. 1243 c.c., comma 2, sia l’art. 35 c.p.c., prevedono che a decidere i contrapposti crediti sia il giudice dinanzi al quale essi sono contemporaneamente dedotti, mentre il meccanismo previsto dall’art. 35 c.p.c., è attivabile nel solo caso in cui il giudice del credito principale non possa conoscere di quello opposto in compensazione.
Pertanto, alla luce dell’esaminata disciplina, cade anche l’argomento contenuto nella sentenza n. 23573 del 2013 della disparità di trattamento tra credito opposto contestato nel giudizio sul credito principale e credito opposto già contestato in giudizio pendente davanti ad altro giudice. La disparità di trattamento non attiene a fattispecie identiche sul piano processuale; sussisterebbe laddove vi fossero norme che, contraddittoriamente, prevedessero la possibilità di dedurre un credito in compensazione non contestato e altre norme che escludessero tale possibilità per un credito contestato giudizialmente davanti ad un giudice competente per vagliare entrambe le posizioni.
Nè infine alcuna norma di quelle scrutinate dalla sentenza n. 23573/2013 prevede, in via analogica, che la causa in cui sia pronunciata condanna con riserva venga rimessa sul ruolo – il che presuppone sempre la competenza del giudice che ha deciso con riserva – per verificare l’esistenza delle condizioni della compensazione e poi sospendere la decisione ai sensi dell’art. 295 c.p.c., o art. 377 c.p.c., comma 2, in attesa della decisione incontrovertibile di altro giudice sul controcredito.
Senza sottacere che, poichè anche il credito accertato definitivamente potrebbe essere contestato dal creditore principale per fatti sopravvenuti, l’attività del giudice potrebbe nuovamente paralizzarsi se non competente a verificare la fondatezza del fatto sopravvenuto ed egli dovrebbe nuovamente sospendere il processo in attesa della decisione definitiva sul controcredito.
E poichè nell’attuale regime processuale – art. 42 c.p.c. – non vi è più spazio per una discrezionale, e non sindacabile, facoltà di sospensione del processo, esercitabile dal giudice al di fuori dei casi tassativi di sospensione legale, che, ove ammessa, si porrebbe in insanabile contrasto sia con il principio di eguaglianza e della tutela giurisdizionale sia con il canone della durata ragionevole, che la legge deve assicurare nel quadro del giusto processo (S.U. 14670 del 2003, 23906/2010 22324/2014), deve ritenersi preclusa la configurazione di una nuova ipotesi di sospensione del processo non prevista espressamente da una norma del rito civile, nemmeno in via di analogia, come invece ritiene la decisione n. 23573/2013.
10.– Si deve quindi concludere che le norme di cui agli artt. 34, 35, 36, 40, 295 e 337 c.p.c., sia che la controversia sull’esistenza del controcredito sorga nel giudizio sul credito principale, sia che già penda dinanzi ad un giudice di pari grado o superiore, non rilevano sulla speciale disciplina delineata dall’art. 1243 c.c., comma 2, perchè le norme sulla competenza per accertare l’esistenza del controcredito sono estranee alla compensazione giudiziale, come da tempo risalente avvertito da questa Corte.
Con la decisione n. 4129 del 1956 si rilevò infatti che: “Se il convenuto chiede non soltanto il rigetto della domanda dell’attore per compensazione con un suo credito di ammontare superiore, ma anche la condanna dell’attore a pagargli la differenza, ricorre l’ipotesi dell’art. 36 c.p.c., di domanda riconvenzionale che dipende dal titolo che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione. In tal caso, poichè la compensazione giudiziale prevista dal secondo comma dell’art. 1243 c.c., è ammessa solo se sussiste la facile e pronta liquidazione del credito opposto, egli, coordinando gli artt. 35, 36 e 112 c.p.c., deve emettere condanna per il credito principale certo e liquido, rigettare l’eccezione di compensazione giudiziale, ed iniziare l’istruttoria per il controcredito, ove competente, ovvero rimettere la causa su di esso al giudice competente non potendo allo stato il controcredito operare come compensativo, avendo il convenuto chiesto per esso la condanna dell’attore. Quindi il giudice, operata la valutazione insindacabile e discrezionale di non liquidabilità facile e pronta del controcredito, e per tale ragione respinta l’eccezione di compensazione, deve provvedere sulla domanda riconvenzionale di condanna per il controcredito”.
11.- Queste Sezioni Unite, confermano, in conformità alle conclusioni del P.M., il consolidato orientamento di legittimità e ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, affermano i seguenti principi di diritto:
A) “Le norme del codice civile sulla compensazione stabiliscono i presupposti sostanziali, oggettivi, del credito opposto in compensazione: liquidità – che include il requisito della certezza – ed esigibilità. Verificata la ricorrenza dei predetti requisiti, il giudice dichiara l’estinzione del credito principale per compensazione – legale – a decorrere dalla coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda.
B) Se il credito opposto in compensazione è certo, ma non liquido, nel senso di non determinato, in tutto o in parte, nel suo ammontare, il giudice può provvedere alla relativa liquidazione se è facile e pronta; quindi, o può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale fino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, o può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione.
C) Se è controversa, nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale, o in altro giudizio già pendente, l’esistenza del controcredito opposto in compensazione (art. 35 c.p.c.) il giudice non può pronunciare la compensazione, nè legale nè giudiziale.
D) La compensazione giudiziale, di cui all’art. 1243 c.c., comma 2, presuppone l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la medesima compensazione è fatta valere, mentre non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo. In tale ipotesi, pertanto, resta esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale, e va parimenti esclusa l’invocabilità della sospensione contemplata in via generale dall’art. 295 c.p.c., o dall’art. 337 c.p.c., comma 2, in considerazione della prevalenza della disciplina speciale del citato art. 1243 c.c.“.
12.– Sussistono ragioni per compensare le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Le Sezioni Unite dichiarano inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, affermano i seguenti principi di diritto:
A) “Le norme del codice civile sulla compensazione stabiliscono i presupposti sostanziali, oggettivi, del credito opposto in compensazione: liquidità – che include il requisito della certezza – ed esigibilità. Verificata la ricorrenza dei predetti requisiti, il giudice dichiara l’estinzione del credito principale per compensazione – legale – a decorrere dalla coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda.
B) Se il credito opposto in compensazione è certo, ma non liquido, nel senso di non determinato, in tutto o in parte, nel suo ammontare, il giudice può provvedere alla relativa liquidazione se è facile e pronta; quindi, o può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale fino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, o può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione.
C) Se è controversa, nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale, o in altro giudizio già pendente, l’esistenza del controcredito opposto in compensazione (art. 35 cod. proc. civ.) il giudice non può pronunciare la compensazione, nè legale nè giudiziale.
D) La compensazione giudiziale, di cui all’art. 1243 c.c., comma 2, presuppone l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la medesima compensazione è fatta valere, mentre non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo. In tale ipotesi, pertanto, resta esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale, e va parimenti esclusa l’invocabilità della sospensione contemplata in via generale dall’art. 295 c.p.c., o dall’art. 337 c.p.c., comma 2, in considerazione della prevalenza della disciplina speciale del citato art. 1243 c.c.“.
Così deciso in Roma, il 08 marzo 2016.
Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2016.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 11 settembre 2015, n. 18001, per SS.UU, 15 novembre 2016, n. 23225, in tema di eccezione di compensazione
SS.UU, 15 novembre 2016, n. 23225, in tema di eccezione di compensazione
In tema di falsus procurator – SS.UU, 03 giugno 2015, n. 11377
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –
Dott. CICALA Mario – Presidente Sezione –
Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –
Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –
Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –
Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –
Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15678/2013 proposto da:
R.J., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA VESCOVIO 21, presso lo studio dell’Avvocato MANFEROCE TOMMASO, che la rappresenta e difende unitamente agli Avvocati CLAUDIO CONSOLO e SILVIO MALOSSINI, per delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro H Y P O VORARLBERG LEASING S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo studio dell’Avvocato SASSANI BRUNO NICOLA, che l a rappresenta e difende unitamente agli Avvocati CHRISTOPH SENONER e LUCA MAZZEO, per procura speciale alle liti con autenticazione di firma del notaio Dott. Luca Barchi di Bolzano, rep. 25473 del 30/04/2015;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 12/2013 della CORTE D’APPELLO di Trento – Sezione distaccata di BOLZANO, depositata il 26/01/2013;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/05/2015 dal Consigliere Dott. ALBERTO GIUSTI;
uditi gli Avvocati CLAUDIO CONSOLO, CHRISTOPH SENONER e BRUNO NICOLA SASSANI;
udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1 . – I rappresentanti di F.A. (cioè i suoi due figli, F.C. e Ch., muniti di procura del padre) e Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a. hanno concluso, con due distinti contratti del 21 dicembre 2002, una compravendita immobiliare.
Non tutto il prezzo dovuto dall’acquirente società ad F.A. è stato versato: una quota è andata a compensare posizioni debitorie direttamente riferibili al venditore; altra parte del prezzo (Euro 1.075.019,74) è stata trattenuta da Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a., i n accordo con i rappresentanti del venditore, a compensazione di crediti che la società vantava nei confronti di società di capitali terze riferibili allo stesso F.A..
Quest’ultimo ha contestato, anche a mezzo del proprio legale, la legittimità della compensazione, ha chiesto la restituzione degli importi indebitamente trattenuti da Hypo e ha denunciato l’invalidità della intervenuta transazione, così qualificando il patto collaterale alla vendita immobiliare.
Ritenendosi tuttora creditore per quella quota parte di prezzo non versata ed impiegata per l’estinzione di debiti ad esso non riferibili, F.A. ha quindi ceduto la propria (ritenuta intatta) posizione creditoria a R.J. con contratto dell’11 maggio 2007.
2. – Con citazione in data 25 settembre 2007, R.J. – in qualità di cessionaria dei crediti di F.A., in virtù del citato contratto dell’11 maggio 2007, notificato alla debitrice contestualmente alla citazione – ha evocato in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bolzano, Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a. (d’ora in poi anche Hypo), chiedendone la condanna al pagamento del corrispettivo residuo delle compravendite immobiliari del 21 dicembre 2002, non versato in quanto indebitamente compensato per Euro 1.075.019,74 con debiti di società terze e per Euro 38.964,31 per l’IVA dovuta relativamente ad un debito dello stesso F.A..
La convenuta, costituitasi in data 12 febbraio 2008, h a dedotto l’insussistenza dei crediti azionati, allegandone l’estinzione in virtù di un patto di compensazione stipulato con Fo.Cl. e C., in qualità di rappresentanti di F.A..
3. – Con sentenza in data 20 dicembre 2010, il Tribunale di Bolzano, premessa l’inefficacia dell’accordo compensativo collaterale alla compravendita immobiliare, in quanto stipulato dai rappresentanti di F.A. eccedendo i limiti della procura, ha accolto la domanda relativamente alla somma di Euro 1.075.019,74.
Quanto al debito IVA di Euro 38.964,31, il Tribunale ha rilevato che esso era proprio di F.A. e non delle sue società: il meccanismo d i estinzione per compensazione, in tal caso, poteva, perciò, operare a prescindere dal patto collaterale alla vendita stipulato dai suoi rappresentanti.
Il debitore, inoltre, era tenuto all’adempimento in forza di una sentenza di condanna: egli, dunque, non poteva sottrarsi al pagamento in favore della parte creditrice.
In ordine all’importo principale (1.075.019,74) della domanda di condanna, la sentenza è così motivata:
– Hypo ha sempre ammesso di avere effettivamente utilizzato parte del corrispettivo d i vendita per risanare posizioni in sofferenza non solo di F.A., venditore e controparte contrattuale nel negozio di vendita immobiliare, ma anche per estinguere debiti di Forti Trans s.r.l., Alpe Spedition s.r.l. e Nord Truck s.r.l., tutte società di autotrasporti di cui F.A. era a capo;
– detta ammissione, contenuta nella comparsa di costituzione di Hypo, provenendo dal soggetto obbligato al pagamento, è sufficiente per privare di valore la quietanza di avvenuto pagamento, contenuta nei due contratti di compravendita;
– la quietanza si regge sul presupposto di una compensazione ritenuta correttamente operata tra posizioni debitorie e creditorie facenti capo alle parti dell’accordo negoziale di compravendita, ma “stanti le stesse dichiarazioni di parte Hypo detta compensazione deve ritenersi corrispondere a realtà solo in parte”, giacchè l’obbligazione estinta per compensazione deve esistere in capo al soggetto compensante”; nel caso in esame, non è contestato che il denaro dovuto ad F. A. per la vendita di suoi immobili sia stato dall’acquirente Hypo utilizzato non solo per l’estinzione di debiti del F., ma anche per estinguere debiti delle società a r.l. Forti Trans, Alpe Spedition e Nord Truck, soggetti giuridici diversi con autonomia patrimoniale propria distinta da quella del F.;
– del pari non è contestato che il F. non era obbligato in proprio, quale persona fisica, ad estinguere debiti societari, non risultando che lui avesse prestato fideiussione o garanzia alcuna in favore delle società partecipate, nè che si fosse accollato i debiti delle dette società;
– l’operazione compiuta dai procuratori speciali di F.A. può essere inquadrata non solo “nel negozio traslativo degli immobili già di proprietà di F.A. a Hypo, con incasso di una parte del prezzo a mezzo della compensazione con posizioni debitorie di F.A. nei confronti dell’acquirente”, ma anche “in un secondo accordo negoziale di rinuncia, da parte del venditore F.A., all’incasso della parte residua del prezzo, rinuncia questa attuata in favore dei terzi Forti Trans, Alpe Spedition e Nord Truck, a loro volta debitori di Hypo”;
– “sostiene la convenuta Hypo che i procuratori speciali di F. A. fossero muniti dei necessari poteri per attuare l’accordo negoziale di cui sopra e del quale vuole avvalersi. In atti, tuttavia, le procure notarili richiamate negli atti di vendita … non sono allegate, sicchè al Tribunale è preclusa la verifica dei poteri conferiti dal titolare del diritto ai procuratori speciali. Pacifico è che questi fossero muniti del potere di compiere sia l’atto traslativo che le attività di esecuzione dello stesso, incluso l’incasso del prezzo pattuito a nome del rappresentato. Che però fossero da questo autorizzati a compiere anche l’ulteriore negozio abdicativo, con rinuncia all’incasso di parte del prezzo i n favore di soggetti terzi, non risulta dai contratti di vendita, n è da altro atto scritto”;
– “il difetto di rappresentanza o anche l’eccesso di rappresentanza determinano entrambi la non operatività, nel patrimonio del rappresentato, dell’atto compiuto dal falsus procurator”;
– nel caso in esame, in cui parte attrice nega che siano mai stati conferiti ai procuratori speciali “poteri ulteriori rispetto a quelli necessari per concludere il negozio traslativo”, “la prova dell’esistenza del potere a validamente compiere l’atto abdicativo, in favore dei soggetti terzi summenzionati, spetta a chi vuole avvalersi del negozio, quindi a Hypo. Tale onere di prova non è stato ad oggi assolto dalla odierna convenuta; non risulta quindi che i poteri rappresentativi conferiti da F.A. ai propri procuratori coprissero alcun pagamento di debito altrui e quindi la possibilità, per Hypo, di procedere alla compensazione come in effetti attuata”.
4. – La sentenza di primo grado è stata impugnata in data 25 gennaio 2011 da Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a., che ha denunciato, tra l’altro, la violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo il Tribunale sollevato d’ufficio l’eccezione d’inefficacia dell’accordo compensativo in conseguenza del superamento dei limiti del potere di rappresentanza, mentre l’attrice non aveva mai dedotto che i rappresentanti d i F.A. avevano concluso questo accordo eccedendo i limiti del potere di rappresenta loro conferito dal rappresentato, ma si era limitata a sostenerne l’inefficacia sul rilievo che F.A. non doveva rispondere personalmente dei debiti delle sue società, e l’invalidità perchè il patto aveva natura transattiva e non era rivestito di forma scritta.
Nel giudizio di appello R.J., costituitasi in data 13 aprile 2011, ha contestato la fondatezza dell’impugnazione e ha proposto appello incidentale relativamente al rigetto della domanda di pagamento di Euro 38.964,31.
5. – Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 26 gennaio 2013, la Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in accoglimento dell’appello principale ed in riforma dell’impugnata pronuncia, ha rigettato la domanda, nonchè l’appello incidentale, e condannato l’attrice alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
5.1. – La Corte territoriale ha respinto innanzitutto il primo motivo di impugnazione della Hypo relativo alla legittimazione processuale della cessionaria, rilevando che, trattandosi “di far valere il diritto di credito di cui ha acquistato la titolarità”, la R. agisce “non quale sostituta processuale di F.A. al di fuori delle ipotesi normativamente previste”, ma “proprio per far valere un diritto che le appartiene in via esclusiva”.
Quanto alle altre censure dell’appellante principale, la Corte d’appello ha osservato che “la correttezza dell’osservazione circa il difetto di potere in capo ai rappresentanti di F.A. appare confermata anche alla luce della procura che Hypo ha prodotto nel presente grado d’appello”: “come si ricava dal dimesso documento del fascicolo di secondo grado dell’appellante, F.A. ha abilitato i suoi rappresentanti al compimento di atti di gestione del proprio patrimonio”, “non invece a porre in essere atti a titolo gratuito che ne provocassero il depauperamento”.
Tanto premesso, la Corte territoriale ha sottolineato che l’eccezione d’ inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator è riservata all’iniziativa di parte e non avrebbe potuto conseguentemente essere rilevata d’ufficio dal primo giudice.
Ha precisato in particolare la Sezione distaccata di Bolzano della Corte d’appello: “I rappresentanti di F.A., evidentemente previo accollo in capo al rappresentato dei debiti delle sue società, hanno accettato di portarli in detrazione al credito per il prezzo della vendita immobiliare. Poichè, dunque, l’effetto estintivo è stato ottenuto mediante un’attività negoziale posta in essere da falsi procuratores, essa è da ritenersi inefficace sino a quando il dominus decida definitivamente di ratificarla. Tale inefficacia è, tuttavia, deducibile solo con eccezione di parte. La quale, però, nel caso di specie non è stata sollevata dalla cessionaria del credito R.J.. Essa, infatti, si è limitata a dedurre che dei debiti societari F.A. non doveva rispondere personalmente. Ha poi soggiunto che l’accordo concluso dai suoi rappresentanti aveva natura transattiva ed era invalido, perchè privo di forma scritta”.
Infine, la Sezione distaccata di Bolzano ha rigettato l’appello incidentale della R. relativamente al mancato saldo del prezzo di acquisto degli immobili per l’ulteriore importo di Euro 38.964,31, pari al credito per rimborso IVA che la compratrice assumeva di vantare nei confronti del venditore in proprio e non nei confronti delle sue società.
6. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello R.J. ha proposto ricorso, con atto notificato il 13 giugno 2013, deducendo la violazione dell’art. 112 c.p.c.: in via principale per la qualifica di eccezione in senso stretto, anzichè in senso lato, e per il conseguente omesso rilievo d’ufficio dell’inefficacia del patto di compensazione, con accollo di debiti altrui, stipulato dai falsi rappresentanti; ed in via subordinata per l’omessa pronuncia, neppure i n punto di tardività, su detta eccezione, svolta dalla deducente nella comparsa di costituzione in appello.
In particolare, ad avviso della ricorrente, l’eccezione de qua, non essendo riservata dalla legge alla parte e non corrispondendo all’esercizio di un diritto potestativo, implicito solo nell’esercizio del potere di ratifica e, quindi, non nella negazione ma nell’attribuzione di efficacia al contratto, dovrebbe includersi nel novero delle eccezioni in senso lato, alla luce della giurisprudenza di legittimità più recente.
Tale conclusione – si sostiene – non contrasterebbe con il riconoscimento della legittimazione a far valere la temporanea inefficacia del contratto concluso solo in capo allo pseudo rappresentato (e non al terzo contraente), essendo detta legittimazione fondata, non già sulla natura di eccezione in senso stretto, ma sul fatto che tutte le volte che il falsamente rappresentato agisca dando vigore al contratto tale suo agire nel processo configura ratifica (pur se tacita).
La società Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a. ha resistito con controricorso, insistendo sulla configurazione dell’inefficacia del contratto per mancanza di poteri rappresentativi come eccezione in senso stretto, in considerazione del suo collegamento con il potere di ratifica attribuito al falsus procurator, di cui sarebbe precluso l’esercizio con il rilievo d’ufficio del giudice, ed in ogni caso negando, da un lato, l’asserita violazione dei limiti della procura da parte dei rappresentanti di F.A. e, dall’altro, la legittimazione della cessionaria del credito a formulare l’eccezione in esame.
Fissata l’udienza dinanzi alla Seconda Sezione civile, la ricorrente ha replicato alle deduzioni della controricorrente con la memoria ex art. 378 c.p.c., depositata il 3 giugno 2014.
7. – La Seconda Sezione civile, con ordinanza interlocutoria 27 giugno 2014, n. 14688, ha rimesso gli atti al primo presidente della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, sulla questione di massima di particolare importanza se l’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator sia rilevabile d’ufficio o solo su eccezione di parte.
L’ordinanza di rimessione ritiene il consolidato orientamento della giurisprudenza d i legittimità – secondo cui l’inefficacia (temporanea) del contratto concluso dal falsus procurator non è rilevabile d’ufficio, ma solo su eccezione del falso rappresentato, e conseguentemente non è proponibile per la prima volta in appello – non adeguatamente giustificato, alla luce dell’inesistenza del vincolo giuridico (inesistenza confermata dalla possibilità di ratifica e di actio interrogatoria), e potenzialmente confliggente con altri arresti giurisprudenziali (tra cui Sez. 2^, 23 marzo 1977, n. 1141, secondo cui il giudice del merito può rilevare d’ufficio, in base alle prove esistenti nel processo, la mancata conclusione del contratto per difetto d’incontro dei reciproci consensi, trattandosi della verifica dell’inesistenza di un elemento del diritto dedotto in giudizio e non dell’accertamento di un controdiritto, materia di eccezione in senso proprio).
8. – Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
Acquisita la relazione dell’Ufficio del massimario, e depositate da entrambe le parti memorie illustrative, il ricorso è stato discusso all’udienza pubblica del 12 maggio 2015.
Motivi della decisione
1 . – La questione di massima di particolare importanza rimessa all’esame delle Sezioni Unite è se la deduzione della inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator costituisca materia di eccezione in senso stretto, che come tale può essere sollevata solo dal falsamente rappresentato ed esclusivamente nella fase iniziale del processo di primo grado, o sia una eccezione in senso lato, dunque non solo rilevabile d’ufficio ma proponibile dalle parti per tutto il corso del giudizio di primo grado e finanche per la prima volta in appello.
2. – Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’inefficacia del contratto concluso dal rappresentante senza poteri o eccedendo i limiti dei poteri conferitigli non può rilevarsi d’ufficio ma solo su eccezione di parte, ed essendo volta a tutelare il falso rappresentato può essere fatta valere solo da quest’ultimo (o dai suoi eredi), mentre non è invocabile dal terzo contraente, il quale, ai sensi dell’art. 1398 c.c., può unicamente chiedere al falsus procurator il risarcimento dei danni sofferti per avere confidato senza propria colpa nell’operatività del contratto.
Questo principio di diritto ha dato vita ad un orientamento uniforme e consolidato nel tempo (Sez. 2^, 23 gennaio 1980, n. 570; Sez. 2^, 8 luglio 1983, n. 4601; Sez. 1^, 29 marzo 1991, n. 3435; Sez. 3^, 8 luglio 1993, n. 7501; Sez. 1^, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. 2^, 10 maggio 1999, n. 11396; Sez. 2^, 29 ottobre 1999, n. 12144; Sez. 1^, 13 dicembre 1999, n. 13954; Sez. 2^, 15 gennaio 2000, n. 410; Sez. 3^, 9 febbraio 2000, n. 1443; Sez. 3^, 26 febbraio 2004, n. 3872; Sez. 1^, 30 marzo 2005, n. 6711; Sez. 2^, 7 febbraio 2008, n. 2860; Sez. 2^, 17 giugno 2010, n. 14618; Sez. 3^, 20 giugno 2011, n. 13480; Sez. 2^, 26 luglio 2011, n. 16317; Sez. 2^, 24 ottobre 2013, n. 24133; Sez. Lav., 23 maggio 2014, n. 11582).
La conseguenza di tale indirizzo giurisprudenziale è che dell’inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator il giudice non può tenere conto se, pur emergendo dagli atti di causa il difetto del potere rappresentativo e la mancanza della intervenuta ratifica, lo pseudo rappresentato non solleva questa eccezione, o la solleva in ritardo rispetto al momento in cui avrebbe dovuto farlo.
Il fondamento dell’inquadramento dell’eccezione di inefficacia del contratto tra le eccezioni in senso stretto viene fatto risiedere:
(a) nella circostanza che, non vertendosi in ipotesi di nullità, non soccorre la regola dettata dall’art. 1421 c.c.;
(b) nel rilievo che si è di fronte ad una inefficacia asimmetrica (il terzo contraente è vincolato, mentre il falsamente rappresentato non lo è), e che l’improduttività di effetti è rivolta alla protezione della sfera giuridica della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito.
3. – La dottrina generalmente approva la soluzione della giurisprudenza.
Talora si sottolinea che l’inefficacia del contratto tutela il falso rappresentato: per questo può farsi valere solo da lui; non può rilevarsi d’ufficio; tanto meno può invocarsi dal terzo contraente, il quale è vincolato dal contratto.
Talaltra si rileva che, nella prospettiva normativa, il dominus si pone come arbitro delle sorti della fattispecie, in positivo e in negativo, potendo sia ratificare il negozio o farne al contrario dichiarare la definitiva inidoneità operativa: a differenza dell’eccezione di nullità, che si colloca in una dimensione statica, l’eccezione dello pseudo rappresentato si inserisce in una vicenda instabile e fluida, perchè l’assenza del vincolo è recuperabile ad libitum dell’interessato.
Ancora, si associa la natura in senso stretto dell’eccezione al fatto che la legittimazione ad agire per far valere l’inefficacia del contratto spetta soltanto allo pseudo rappresentato.
3.1. – Questo indirizzo interpretativo, che riconduce l’inefficacia del contratto nei confronti della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito nel novero delle eccezioni riservate alla disponibilità dell’interessato, è stato messo, di recente, in discussione da alcune voci dottrinali, che ne hanno evidenziato la non coerenza con il criterio generale in tema di distinzione fra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato nel frattempo elaborato, con riguardo alle fattispecie estintive, modificative o impeditive, dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite, a partire dalla sentenza 3 febbraio 1998, n. 1099, fino alla ordinanza 7 maggio 2013, n. 10531, passando per la sentenza 27 luglio 2005, n. 15661.
In base a tale criterio distintivo, di norma, tutti i fatti estintivi, modificativi od impeditivi, siano essi fatti semplici oppure fatti-diritti che potrebbero essere oggetto di accertamento in un autonomo giudizio, sono rilevabili d’ufficio, e dunque rappresentano eccezioni in senso lato; l’ambito della rilevabilità a istanza di parte (eccezioni in senso stretto) è confinato a i casi specificamente previsti dalla legge o a quelli in cui l’effetto estintivo, impeditivo o modificativo si ricollega all’esercizio di un diritto potestativo oppure si coordina con una fattispecie che potrebbe dar luogo all’esercizio di un’autonoma azione costitutiva.
Muovendosi in questa prospettiva – e premesso che per far valere il fatto impeditivo costituito dalla non operatività, per la sfera giuridica dello pseudo rappresentato, del contratto concluso dal rappresentante in carenza o in eccesso di potere rappresentativo, la legge non prevede espressamente l’indispensabile iniziativa della parte – una parte della dottrina ha appunto contestato che l’eccezione di inefficacia corrisponda all’esercizio di un potere costitutivo dello pseudo rappresentato.
Al riguardo si è rilevato che:
– (a) il codice civile non ha costruito la figura del contratto concluso dal rappresentante senza procura o travalicando i limiti della procura come una fattispecie temporaneamente vincolante anche per lo pseudo rappresentato, dotata quindi di un’efficacia precaria che questi possa rimuovere soltanto attraverso un recesso o un rifiuto eliminativo ovvero mediante l’esercizio, nel processo, con la proposizione dell’eccezione ad esso riservata, di un potere conformativo di scioglimento;
– (b) si è invece di fronte ad una non vincolatività che consegue automaticamente al difetto di legittimazione rappresentativa dello stipulante, secondo lo schema norma-fatto-effetto, e che non abbisogna, per dispiegarsi, dell’intermediazione necessaria dell’esercizio di un potere sostanziale rimesso al falsus dominus;
– (c) affinchè lo stato originario di inefficacia resti immutato, e sia riscontrabile dal giudice, non è richiesta allo pseudo rappresentato alcuna iniziativa: egli non deve esercitare alcun diritto potestativo per liberarsi da un contratto che è già, per lui, privo di ogni effetto;
– (d) il legislatore ha sì previsto, in capo al falsamente rappresentato, la titolarità, esclusiva e riservata, di un diritto potestativo: ma questo diritto è quello di imputarsi il contratto realizzando, attraverso la ratifica, la condizione esterna di efficacia dello stesso, non quello di sciogliersi dal vincolo.
Si è inoltre evidenziato che se l’eccezione di inefficacia del contratto è sottratta al rilievo officioso, pur quando la carenza o l’eccesso di potere di chi ha agito come rappresentante emerga ex actis, e la parte interessata, in ragione di una preclusione processuale, non possa più sollevarla in appello, il risultato che si otterrebbe è la ratifica tacita retta dal principio dell’imputet sibi, indipendentemente dall’effettiva ravvisabilità di comportamenti o atti, da parte dello pseudo rappresentato, che implichino necessariamente la volontà di ritenere per sè efficace quel contratto o che, comunque, siano incompatibili con il suo rifiuto.
Ma si tratterebbe – si è fatto notare – di un risultato contrario al diritto sostanziale.
Se si attribuisse valore di una ratifica al silenzio mantenuto, rispetto alla domanda giudiziale, dall’interessato che sia rimasto contumace o abbia adottato una strategia processuale che non necessariamente sottende la volontà di fare proprio il contratto rappresentativo, ciò significherebbe, per un verso, far discendere da un comportamento processuale un effetto diametralmente opposto a quello che si sarebbe avuto con l’interpello ai sensi dell’art. 1399 c.c., comma 4, e, per l’altro verso, ricollegare un effetto appropriativo del negozio, con la conseguente instaurazione di una situazione nuova, alla mancata risposta all’invito a difendersi, quando sul piano sostanziale il silenzio del dominus rispetto all’invito proveniente dal terzo contraente ha valore di negazione della ratifica dell’operato del falso rappresentante.
4. – La necessità di interrogarsi se, nella dinamica del processo, la inefficacia, nei confronti del dominus, del contratto concluso dal falsus procurator, costituisca una eccezione in senso lato o una eccezione in senso stretto, sorge ove si muova dalla premessa che la mancanza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui rappresenti un fatto impeditivo della pretesa azionata in giudizio dal terzo contraente.
Solo in tale prospettiva, infatti, si pone il problema se basti, al fine di far scattare la possibilità, per il giudice, di porlo a base della decisione, il presupposto minimo che detto fatto impeditivo risulti dagli atti legittimamente acquisiti in causa; o se occorra anche l’espressa e tempestiva istanza dello pseudo rappresentato affinchè gli effetti sostanziali del fatto impeditivo, ove riscontrato esistente sul piano sostanziale, possano essere utilizzati dal giudice come motivo di rigetto della domanda dell’attore.
5. – Ad avviso del Collegio, in tema di rappresentanza volontaria, la sussistenza del potere rappresentativo, con l’osservanza dei suoi limiti, costituisce una circostanza che ha la funzione specifica di rendere possibile che il contratto concluso dal rappresentante in nome del rappresentato produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato: come tale, essa è ricompresa nel nucleo della fattispecie posta a base della pretesa e integra un elemento costitutivo della domanda che il terzo contraente intenda esercitare nei confronti del rappresentato.
Quando si tratta di stabilire, non già semplicemente se il contratto s i sia perfezionato, ma se esso produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato, la situazione fenomenica assunta nello schema astratto della disciplina legale pone la legittimazione rappresentativa, accanto allo scambio dei consensi e alla spendita del nome altrui, come elemento strutturale e come ragione dell’operatività, per la sfera giuridica del rappresentato, del vincolo e degli effetti che da esso derivano.
E‘ noto che il fatto impeditivo si identifica con la mancanza di un presupposto di efficacia, che interrompe il normale ciclo del fenomeno giuridico: collocandosi in una posizione diaframmatica tra il momento della rilevanza e quello della efficacia, il fatto impeditivo, in quanto portatore di un interesse antitetico e prevalente rispetto a quello rappresentato dal fatto inibito, neutralizza, con la propria azione, l’operatività di una fattispecie già completa, impedendole, così, di liberare gli effetti cui avrebbe dato altrimenti luogo.
Ad avviso del Collegio, il terzo contraente che deduce in giudizio un contratto stipulato con il rappresentante per ottenere il riconoscimento e la tutela, nei confronti del rappresentato, di diritti che da quel contratto derivano, pone a fondamento della propria pretesa, non solo (a) gli elementi che l’art. 1325 c.c., richiede per il perfezionamento del contratto, ma anche (b) che detto contratto è stato concluso da un soggetto, il rappresentante, autorizzato dal rappresentato a stipulare in suo nome, o (b1) che lo pseudo rappresentato, attraverso la ratifica, ha attribuito ex post al falso rappresentante quella legittimazione a contrarre per lui, che gli mancava al tempo del contratto. Dunque, la presenza di quel potere rappresentativo (o la ratifica da parte dell’interessato) si pone come fatto costitutivo rilevante, come nucleo centrale del fenomeno giuridico di investitura specificamente considerato, in quanto coelemento di struttura previsto in funzione della regola di dispiegamento degli effetti negoziali diretti nei confronti del rappresentato.
5.1. – E’ il contesto di diritto sostanziale di riferimento, per come ricostruito dalla dottrina e declinato nelle regole applicative dagli orientamenti giurisprudenziali, che induce a questa soluzione.
Ai sensi dell’art. 1388 cod. civ., infatti, il contratto concluso dal rappresentante in nome del rappresentato produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato solo se concluso nei limiti delle facoltà conferite al rappresentante.
La legge condiziona dunque la verificazione dell’effetto negoziale diretto nei confronti del rappresentato alla sussistenza della legittimazione rappresentativa in capo al rappresentante.
Il contratto, già perfezionato nei suoi elementi essenziali, è pertinente al rappresentato soltanto se questi ha autorizzato che lo si stipulasse in suo nome.
Invece il negozio concluso da chi agisce come rappresentante senza essere tale oppure da chi, pur essendo titolare del potere rappresentativo, ne abbia ecceduto i limiti, non impegna la sfera giuridica del preteso rappresentato, cioè della persona il cui nome è stato illegittimamente speso.
Il contratto stipulato in difetto o in eccesso di rappresentanza non vincola il falsamente rappresentato verso il terzo, perchè chi ha agito non aveva il potere di farlo.
Si tratta di un contratto – non nullo e neppure annullabile – ma inefficace in assenza di ratifica (Sez. 2^, 15 dicembre 1984, n. 6584; Sez. 1^, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. 2^, 11 ottobre 1999, n. 11396; Sez. 2^, 7 febbraio 2008, n . 2860): il negozio stipulato, in rappresentanza di altri, da chi non aveva il relativo potere, è privo di ogni efficacia come tale, potendo acquistarla soltanto in seguito all’eventuale ratifica da parte dell’interessato (Sez. 2^, 26 novembre 2001, n. 14944).
Il terzo contraente, pertanto, non ha titolo per esercitare nei confronti dello pseudo rappresentato l’azione di inadempimento (Sez. 1^, 29 agosto 1995, n . 9061) nè quella per l’esecuzione del contratto (Sez. 3^, 23 marzo 1998, n. 3076).
Talvolta si afferma anche che l’inefficacia (temporanea) discende dal fatto che il contratto concluso dal falsus procurator costituisce una fattispecie soggettivamente complessa o a formazione progressiva, un negozio in itinere o in stato di pendenza, destinato a perfezionarsi con la ratifica del dominus (Sez. 2^, 8 luglio 1983, n. 4601; Sez. 2^, 17 giugno 2010, n. 14618).
Ove la spendita del nome non trovi giustificazione nel potere di rappresentanza (si legge in Sez. 1^, 9 dicembre 1976, n. 4581) “il negozio non si può ritenere concluso nè dal sostituto nè dal sostituito ed è perciò improduttivo degli effetti suoi propri, configurando … una fattispecie negoziale in itinere, al cui perfezionamento è necessario, ai sensi dell’art. 1399 c.c., l’ulteriore elemento della ratifica, solo in conseguenza della quale il regolamento diventa retroattivamente impegnativo anche per il dominus”; “il contratto – medio tempore, cioè tra il momento della conclusione e quello della ratifica – è in stato di quiescenza” (Sez. 1^, 24 giugno 1969, n. 2267).
5.1.1. – D’altra parte, quando si pone sul terreno dell’applicazione della regola dell’onere della prova, la giurisprudenza di questa Corte non esita a collocare il potere rappresentativo tra gli elementi della fattispecie costitutiva.
Si afferma, infatti, che, poichè il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato produce, a norma dell’art. 1388 cod. civ., direttamente i suoi effetti nei confronti di quest’ultimo solo in quanto il rappresentante abbia agito nei limiti delle facoltà conferitegli, ove il rappresentato neghi di avere rilasciato l’invocata procura, spetta al terzo che ha contrattato con il rappresentante l’onere di provare l’esistenza e i limiti della procura (Sez. 3^, 10 ottobre 1963, n. 2694; Sez. 3^, 7 gennaio 1964, n. 13; Sez. 1^, 13 dicembre 1966, n. 2898; Sez. 3^, 26 ottobre 1968, n. 3598; Sez. 3^, 30 maggio 1969, n. 1935; Sez. 3^, 8 febbraio 1974, n. 372; Sez. 3^, 25 novembre 1976, n. 4460; Sez. Lav., 29 luglio 1978, n. 3788).
6. – La deduzione della inefficacia del contratto stipulato in suo nome da un rappresentante senza poteri rappresenta, pertanto, non una eccezione, ma mera difesa, con la quale il convenuto non estende l’oggetto del processo al di là del diritto fatto valere dall’attore, nè allarga l’insieme dei fatti rilevanti allegati al giudizio.
6.1. – Trattandosi di mera difesa, varranno le seguenti regole processuali:
– (a) in linea di principio, per la formulazione di tale deduzione difensiva il codice di procedura civile non prevede alcuna specifica limitazione temporale (cfr. Sez. 3^, 16 luglio 2002, n. 10280; Sez. lav., 9 ottobre 2007, n. 21073; Sez. 3^, 17 maggio 2011, n. 10811; Sez. lav., 16 novembre 2012, n. 20157; Sez. 3^, 12 novembre 2013, n. 25415);
– (b) peraltro, la circostanza che l’interessato, costituito nel processo, ometta di prendere posizione circa la sussistenza del potere rappresentativo allegato dall’avversario a sostegno della propria domanda, o comunque ometta di contestare specificamente tale fatto, costituisce un comportamento processuale significativo e rilevante sul piano della prova del fatto medesimo, determinando, in applicazione del principio di non contestazione (per cui v., ora, l’art. 115 c.p.c., comma 1), una relevatio ab onere probandi;
– (b1) poichè la non contestazione è un comportamento processualmente significativo se riferito a un fatto da accertare nel processo e non alla determinazione della sua dimensione giuridica (cfr. Sez. Un., 23 gennaio 2002, n. 761), il difetto di specifica contestazione non spiega alcuna rilevanza quando la mancanza del potere rappresentativo dipenda, ad esempio, dalla nullità della procura, per difetto di forma prescritta per la sua validità;
– (b2) il mero difetto di contestazione specifica, ove rilevante, non impone in ogni caso al giudice un vincolo assoluto (per così dire, di piena conformazione), obbligandolo a considerare definitivamente come provata (e quindi come positivamente accertata in giudizio) la legittimazione rappresentativa non contestata, in quanto il giudice può sempre rilevare l’inesistenza del fatto allegato da una parte anche se non contestato dall’altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (cfr. Sez. lav., 6 dicembre 2004, n. 22829; Sez. lav., 8 agosto 2006, n. 17947; Sez. lav., 10 luglio 2009, n. 16201; Sez. lav., 4 aprile 2012, n. 5363);
– (c) allorchè la mancanza del potere rappresentativo sia acquisita agli atti, di essa il giudice può tenere conto anche in assenza di una specifica deduzione della parte interessata, giacchè la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda deve essere esaminata e verificata dal giudice anche d’ufficio (cfr. Sez. 1^, 5 agosto 1948, n. 1390; Sez. 2^, 15 febbraio 2002, n. 2214; Sez. 3^, 28 giugno 2010, n. 15375);
7. – Se poi sia lo pseudo rappresentato ad agire in giudizio con una domanda che presuppone l’efficacia del contratto concluso in suo nome dal rappresentante senza poteri (ad esempio, al fine di ottenere la condanna del terzo ad adempiere o la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte), certamente nè il terzo potrà difendersi opponendo la carenza del potere di rappresentanza, nè vi sarà spazio per un rilievo officioso di quella carenza di legittimazione.
Lo stesso superamento delle ragioni per una rilevabilità d a parte del giudice si avrà se lo stesso pseudo rappresentato, questa volta convenuto in giudizio, si difenda nel merito tenendo un comportamento da cui risulti in maniera chiara e univoca la volontà di fare proprio il contratto concluso in suo nome e conto dal falsus procurator (cfr. Sez. 2^, 15 novembre 1994, n. 9638; Sez. 1^, 8 aprile 2004, n. 6937).
Nell’uno e nell’altro caso, questo dipende dal fatto che il comportamento tenuto nel processo dal dominus opera anche sul terreno del diritto sostanziale, facendo venir meno, con la ratifica (pur se tacita), l’originaria carenza dei poteri di rappresentanza e, con essa, la non vincolatività, per la sfera giuridica della persona il cui nome è stato speso, del contratto stipulato dal falsus procurator.
8. – Conclusivamente, deve essere affermato il seguente principio di diritto: “Poichè la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base di detto negozio, non costituisce eccezione, e pertanto non ricade nelle preclusioni previste dagli artt. 167 e 345 c.p.c., la deduzione della inefficacia per lo pseudo rappresentato del contratto concluso dal falsus procurator; ne consegue che, ove il difetto di rappresentanza risulti dagli atti, di esso il giudice deve tener conto anche in mancanza di specifica richiesta della parte interessata, alla quale, a maggior ragione, non è preclusa la possibilità di far valere la mancanza del potere rappresentativo come mera difesa”.
9. – Sulla base dell’enunciato principio di diritto va esaminato il primo motivo del ricorso, con cui si denuncia la nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto che il difetto di potere in capo ai rappresentanti in ordine alla pattuita compensazione della posta debitoria di Euro 1.075.019,74, pari al prezzo residuo della compravendita immobiliare, non fosse rilevabile d’ufficio.
9.1. – Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha riconosciuto che l’effetto estintivo è stato ottenuto “mediante un’attività negoziale posta in essere da falsi procuratores”, giacchè dall’esame della procura emerge che i rappresentanti di F.A. non avevano il potere di accedere ad un accordo, collaterale ai contratti di vendita immobiliare, comportante la compensazione del prezzo della vendita con crediti che la società acquirente vantava nei confronti (non di F.A. ma) di società di capitali terze riferibili ad F.A.. D a ciò consegue l’inefficacia, ai sensi dell’art. 1398 c.c., del patto di compensazione collaterale ai contratti di compravendita immobiliare.
Ha tuttavia errato la Corte d’appello a ritenere che l’inefficacia del patto di compensazione fosse deducibile solo con eccezione di parte (non sollevata nella specie tempestivamente, nel rispetto delle ordinarie preclusioni processuali, dalla cessionaria R.).
Poichè la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha stipulato il contratto spendendo il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base di detto negozio, ben poteva il Tribunale, senza incorrere in extrapetizione, rilevare dalla documentazione risultante dagli atti la mancanza in capo ai procuratori speciali di poteri ulteriori rispetto a quelli necessari per concludere il negozio traslativo (“non risultando… che i poteri rappresentativi conferiti da F.A. ai propri procuratori coprissero alcun pagamento di debito altrui e quindi la possibilità, per Hypo Vorarlberg, di procedere alla compensazione come in effetti attuata”).
9.2. – La controricorrente Hypo ha dedotto ragioni di opposizione all’accoglimento del motivo di ricorso, deducendo:
(a) che la quietanza liberatoria apposta dai procuratori con la firma all’atto di compravendita era idonea a dare conferma dell’avvenuto pagamento del prezzo;
(b) che dall’esame della procura in atti si ricava “che i procuratori di F.A. erano senz’altro muniti dei necessari poteri per concludere un accordo negoziale di compensazione per una parte del prezzo di vendita”;
(c) che il Tribunale, omettendo di attivare il contraddittorio sulla eccezione sollevata d’ufficio, avrebbe “spiazzalo… la difesa della Hypo (ma forse della stessa difesa di controparte, la quale fino ad allora aveva semplicemente sostenuto che mancava la prova scritta della transazione conclusa, senza mettere mai in dubbio i poteri conferiti ai procuratori”);
(d) che “la cessionaria non è legittimata a sollevare questioni sui limiti dei poteri dei terzi, essendo estranea al rapporto che si era instaurato tra il rappresentato F.A. e i suoi procuratori generali F.C. e Cl.”.
Si tratta di profili che non possono trovare ingresso in questa sede.
Su alcuni di essi, infatti, vi sono altrettante statuizioni della Corte d’appello.
Infatti la sentenza impugnata:
ha escluso il valore confessorio delle quietanze (giacchè l’ammissione da parte di Hypo “di non aver saldato per intero il prezzo di acquisto degli immobili equivale ad aver controdichiarato che è solo apparente il relativo contenuto confessorio”);
ha convalidato, anche alla luce della procura prodotta da Hypo in sede di gravame, la conclusione circa il difetto di potere in capo ai rappresentanti di F.A.;
ha riconosciuto che la cessionaria ha “efficacemente acquistato il diritto di credito e con esso la legittimazione processuale ad agire per soddisfarlo”.
Rispetto a queste statuizioni la resistente non ha proposto alcun motivo di ricorso: non solo formalmente (l’atto notificato e depositato nel giudizio è denominato “controricorso” e conclude per il “rigetto” del ricorso proposto dalla controparte), ma nemmeno contestando la sentenza impugnata mediante l’articolazione di censure e l’individuazione delle norme che sarebbero state violate o falsamente applicate dal giudice d’appello.
Quanto, poi, al profilo della mancata sottoposizione al contraddittorio delle parti, da parte del Tribunale, della “eccezione”, rilevata d’ufficio, della carenza dei poteri dei rappresentanti, si tratta di questione ormai preclusa, ex art. 161 c.p.c., comma 1, perchè Hypo non ha svolto apposito motivo di appello per far valere la relativa violazione processuale ad opera del Tribunale; e si tratta, prima ancora, di deduzione che non ha ragion d’essere, posto che non è decisione “a sorpresa” il rilievo, da parte del giudice, della mancata prova di un elemento costitutivo del diritto azionato dalla parte.
9.2.1. – Nella memoria illustrativa, la difesa della controricorrente Hypo deduce ulteriormente che la cessionaria avrebbe “inequivocabilmente posto in essere un comportamento incompatibile con il disconoscimento della sua qualità d i destinatario degli effetti contrattuali” ed avrebbe “finito per esercitare il potere di ratificare, di esercitare cioè il proprio diritto potestativo di appropriarsi degli effetti del contratto rendendolo definitivamente efficace”.
Si tratta di rilievo non condivisibile.
Invero, di ratifica tacita può parlarsi solo ove l’atto o il comportamento, da cui risulti in maniera chiara la volontà di fare proprio il negozio concluso dal falsus procurator, provenga dall’interessato o dai suoi eredi (art. 1399 c.c., comma 1 e u.c., cod. civ.).
Nella specie, invece, il comportamento processuale a cui si vorrebbe dare rilevanza è quello del cessionario del credito derivato al cedente da un precedente contratto, quindi di un acquirente a titolo particolare dal dominus, al quale non spetta la facoltà di ratifica.
10. – Il ricorso contiene due ulteriori censure.
10.1. – Con il secondo motivo (nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c.) si censura nuovamente l’errata qualificazione della c.d. eccezione di inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator, in relazione, questa volta, all’appello incidentale svolto dalla R. con riferimento all’ulteriore importo della domanda di condanna pari a Euro 38.964,31, costituente l’IVA sull’importo di Euro 231.785,88.
10.1.1. – Il motivo è inammissibile.
Occorre rilevare che dalla sentenza impugnata si ricava che l’importo di Euro 38.964,31 corrisponde ad “un credito per rimborso IVA che la compratrice assumeva di vantare nei confronti del venditore in proprio e non nei confronti delle sue società”.
In sostanza – prosegue la sentenza – Hypo “ha pagato un corrispettivo, comprensivo di IVA, ad un terzo per una prestazione da lui resa. Ha, quindi, addebitato ad F.A. l’intero importo versato, IVA inclusa”.
Tanto premesso, la sentenza è giunta alla conclusione che, p e r questa posta, “l’effetto estintivo dell’obbligo di pagare il prezzo della vendita ha fonte in un duplice titolo”.
Per un verso, esso, secondo la Corte d’appello, rinviene il proprio fondamento “nella reciprocità di posizioni creditorie e debitorie tra F.A. e Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a.”.
Sotto questo profilo, i giudici del gravame hanno dato continuità alla ratio decidendi che sostiene la pronuncia del Tribunale: la quale – premesso che nella vicenda in esame Hypo è intervenuta rimborsando alla società Rigotti i costi di canalette per l’importo, risultante da una sentenza del Tribunale di Trento, di Euro 231.785,88 (IVA inclusa), e che per l’importo in questione la compensazione è stata operata “effettivamente tra debiti e crediti esistenti tra le stesse parti, quindi legittimamente” – ha rilevato che, essendo l’importo nel suo complesso determinato da titolo giudiziale tra la società Rigotti e F.A., esso era dovuto per intero, sicchè spettava a Rigotti inserire, nella contabilità IVA, la ricezione dell’importo e girarla non a F., ma alla competente amministrazione finanziaria.
Per l’altro verso, il titolo è rappresentato – prosegue la Corte d’appello – dal “patto compensativo collaterale alla vendita immobiliare. Sicchè per impedirlo è imprescindibile la declaratoria d’inefficacia del patto”, patto dalla cessionaria “infondatamente impugnato solo sotto il profilo del difetto della forma scritta che deve rivestire una transazione”.
Ora, con il motivo di ricorso la R. censura questa seconda ratio decidendi, lamentando che la Corte d’appello abbia affermato che l’accoglimento della domanda di condanna presuppone l’inefficacia del patto compensativo per carenza di poteri di rappresentanza, che non sarebbe rilevabile d’ufficio. Ma la ricorrente non muove alcuna doglianza con riferimento all’altra, e concorrente, ratio decidendi, relativa alla legittimità della compensazione in ragione della reciprocità di posizioni creditorie e debitorie tra il F. e Hypo.
Trova pertanto applicazione il principio secondo cui ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte e d autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto d i interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (Sez. lav., 11 febbraio 2011, n. 3386; Sez. Un., 29 marzo 2013, n. 7931).
10.2. – L’accoglimento del primo motivo e l’inammissibilità del secondo mezzo rendono assorbito l’esame del terzo motivo, con cui, denunciandosi la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, si lamenta l’omessa pronuncia della Corte d’appello sull’eccezione sollevata dalla R. a pag. 6 della sua comparsa di risposta con appello incidentale, relativa alla carenza di potere dei rappresentanti di F.A..
11. – La sentenza impugnata è cassata in relazione alla censura accolta.
11.1. – La causa non può essere decisa nel merito, essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto. Infatti, con l’atto di appello (ne dà conto la sentenza impugnata alle pagine 16 e 17) Hypo ha censurato la sentenza di primo grado perchè sul credito riconosciuto alla cessionaria sono stati attribuiti gli interessi dalla data della vendita immobiliare anzichè dalla data della successiva cessione, come stabilito dall’art. 1263 c.c., u.c..
L’esame di questo motivo di gravame è stato evidentemente ritenuto assorbito dalla Corte territoriale, la quale, avendo escluso (a causa della ravvisata extrapetizione) il diritto di credito al pagamento della somma capitale, non aveva ragione di occuparsi della decorrenza degli interessi.
La questione della decorrenza degli interessi torna invece di attualità per effetto dell’accoglimento del primo motivo dell’odierno ricorso per cassazione. Ma si tratta di questione il cui scrutinio deve essere rimesso alla Corte territoriale, occorrendo esaminare il negozio di cessione tra F. e R. al fine di stabilire se esso contenga il patto contrario alla disciplina sui frutti scaduti recata dall’art. 1263 c.c..
11.2 – Il giudice del rinvio – che si individua nella Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in diversa composizione – provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il secondo e assorbito l’esame del terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2015.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 27 giugno 2014, n. 14688, per SS.UU, 03 giugno 2015, n. 11377, in tema di falsus procurator
SS.UU, 03 giugno 2015, n. 11377, in tema di falsus procurator
In tema di revocazione – SS.UU, 17 marzo 2023, n. 7894
Civile Sent. Sez. U Num. 7894 Anno 2023
Presidente: AMENDOLA ADELAIDE
Relatore: GRASSO GIUSEPPE
Data pubblicazione: 17/03/2023
SENTENZA
sul ricorso 23917-2022 proposto da:
ANTONUCCI FAUSTO, rappresentato e difeso da sé medesimo;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, TRIBUNALE DI CHIETI, PROCURA DEL TRIBUNALE DI CHIETI, CORTE D’APPELLO DI L’AQUILA, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– controricorrenti –
nonchè contro
CONSIGIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI CHIETI, CONSIGLIO DI DISCIPLINA FORENSE DI L’AQUILA, CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI L’AQUILA;
– intimati –
per revocazione della sentenza n. 7499/2022 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, depositata il 08/03/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/02/2023 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO;
lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO, il quale chiede che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione vogliano dichiarare inammissibile il ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. Il Consiglio Distrettuale di Disciplina di L’Aquila condannò l’avv. Fausto Antonucci alla sanzione disciplinare della sospensione di mesi due dall’esercizio della professione forense. Con sentenza del 25/6/2021 il Consiglio Nazionale Forense rigettò il ricorso del sanzionato.
2. Queste Sezioni Unite, con sentenza pubblicata l’8/3/2022, dichiararono inammissibile il ricorso dell’interessato.
Queste le ragioni salienti della decisione, testualmente riprese dalla sentenza richiamata: <<Il ricorso è inammissibile per nullità della notifica dell’impugnazione ai sensi dell’art. 11 legge n. 53 del 1994. Posto che in base alla legge n. 247 del 2012 la proposizione del ricorso avverso le decisioni del Consiglio Distrettuale di Disciplina sospende l’esecuzione del provvedimento (art. 61) e che la sospensione dall’esercizio della professione decorre dal giorno successivo della notifica della sentenza all’incolpato (art. 62), avuto riguardo a quest’ultima notifica avvenuta il giorno 7 luglio 2021 la sospensione di due mesi decorre dall’8 luglio 2021 con cessazione il giorno del mese corrispondente a quello del suo inizio, e cioè l’8 settembre 2021, come del resto enunciato dallo stesso ricorrente nell’epigrafe del ricorso. La notifica del ricorso è stata eseguita, nel rispetto del termine di trenta giorni, in data 6 settembre 2021 dall’avv. Fausto Antonucci a mezzo del servizio postale nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Chieti e con modalità telematica nei confronti del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, con attestazione di conformità di quest’ultima notificazione da parte del medesimo avv. Antonucci recante la data del 9 settembre 2021. La notificazione ai sensi della legge n. 53 del 1994 presuppone la qualità di avvocato del soggetto notificante (cui la legge collega la qualifica di pubblico ufficiale – art. 6), qualità di cui l’Antonucci era privo alla data del 6 settembre vigendo la sospensione dall’esercizio della professione (sospensione che sarebbe poi venuta meno il successivo 8 settembre). La mancanza del requisito soggettivo comporta la nullità della notificazione ai sensi dell’art. 11 della legge citata, nullità rilevabile d’ufficio in base al medesimo art. 11.
Non può ritenersi la validità della notifica sulla base del rilievo, come si legge nella relazione di notificazione, che quest’ultima è stata eseguita dall’Antonucci su delega dell’avv. Antonio Manna, cui risulta rilasciata procura speciale per la proposizione del ricorso in considerazione dello stato di sospensione dall’esercizio della professione (cfr. Cass. Sez. U. n. 31579 del 2021 e n. 24180 del 2009). Come si legge in particolare a pag. 8 del ricorso, questo risulta sottoscritto dall’Antonucci solo per le parti personali, che non vengono fatte proprie dal difensore tecnico. La delega in discorso è improduttiva di effetti giuridici data la previsione del requisito soggettivo della qualità di avvocato, qualità necessaria, a pena di nullità, per procedere alla notificazione ai sensi della legge n. 53 del 1994.
La nullità rilevata attinge sia la notifica a mezzo del servizio postale nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Chieti che quella con modalità telematica al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (quest’ultimo non ha contestato la conformità della copia della relata di notifica all’originale, per la quale risulta attestazione di conformità improduttiva di effetti, in quanto fatta dall’avv. Antonucci non costituente il difensore nell’impugnazione per lo stato di sospensione)>>.
3. Avverso la riportata sentenza di legittimità l’avv. Antonucci propone ricorso con <<Richiesta di correzione della Sentenza Ovvero di Revocazione per errore di fatto e falso>>.
4. Fissata pubblica udienza, non essendo pervenuta dalle parti e dal P.G. richiesta di discussione orale, ai sensi dell’art. 23, co. 8bis, d. l. n. 137/2020, convertito nella l. n. 176/2000, si è proceduto in camera di consiglio.
Il P.G. ha fatto pervenire le sue conclusioni scritte, con le quali ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
5. Il ricorrente assume l’erroneità della sentenza di legittimità, in quanto, a suo dire, il ricorso non andava notificato al Consiglio dell’Ordine competente, ma solo depositato nei termini di legge. Ciò sul presupposto che non avrebbe trovato applicazione <<la procedura ordinaria di cui al ricorso per Cassazione ordinario e di deposito ex art. 369 c.p.c., ma unicamente quelli previsti dalla normativa speciale dell’Ordinamento Forense>>. La sentenza di cui si chiede, pertanto, la revocazione era affetta da <<errore in procedendo e motivazionale! (…) e solamente in caso di contestazione della notifica alla Procura Generale, unicamente irregolare, e non alle altre Autorità a cui è stata comunicata l’impugnazione dal ricorrente avvocato sanzionato con la sospensione, ma non necessarie e codifeso dal collega nominato sottoscrittore del ricorso spedito regolarmente a mezzo posta>>. In sintesi, si era in presenza, prosegue il ricorrente, di un <<evidente imbarazzante ERROR IN PROCEDENDO>> nel quale sarebbe incorsa la Corte di legittimità e <<tutta la motivazione della Sentenza che si impugna sta letteralmente a zero>>.
Questo il nucleo censorio evidenziato dal ricorrente, testualmente estrapolato da una congerie argomentativa aspramente polemica e non sempre pertinente.
5.1. Il ricorso è inammissibile.
L’errore di fatto revocatorio ricorre, come risulta dalla piana descrizione normativa, “quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita”: l’errore cioè deve annidarsi in una oggettiva dispercezione da parte del giudice di legittimità della ricostruzione fattuale siccome operata dalla sentenza d’ appello o rappresentata dai documenti esaminabili (allorquando la Corte di cassazione è eccezionalmente giudice del fatto). E certamente tale non può considerarsi un apprezzamento o una conseguenza giuridica, come nel caso di specie, non potendo il giudice di legittimità essere chiamato a decidere nuovamente la causa in una sorta di anomalo nuovo giudizio, a seguito d’una impropria opposizione.
Nel caso di specie, il ricorrente, all’evidenza, si duole di un preteso errore giuridico, per avere questa Corte giudicato necessaria la notifica del ricorso al Consiglio dell’Ordine, piuttosto che il mero deposito dell’atto e nulla la notificazione al Procuratore generale, per essere stata autenticata la relata di notifica dall’Antonucci, soggetto non legittimato, in quanto ricoprente il solo ruolo di rappresentato (da altro professionista).
Questa Corte reiteratamente ha avuto modo di chiarire che il combinato disposto dell’art. 391 bis e dell’art. 395, n. 4, cod. proc. civ. non prevede come causa di revocazione della sentenza di cassazione l’errore di diritto, sostanziale o processuale, e l’errore di giudizio o di valutazione.
È infatti inammissibile il ricorso al rimedio previsto dall’art. 391 bis cod. proc. civ. nell’ipotesi in cui il dedotto errore riguardi norme giuridiche, atteso che la falsa percezione di queste, anche se indotta da errata percezione di interpretazioni fornite da precedenti indirizzi giurisprudenziali, integra gli estremi dell’ “error iuris”, sia nel caso di obliterazione delle norme medesime (riconducibile all’ipotesi della falsa applicazione), sia nel caso di distorsione della loro effettiva portata (riconducibile all’ipotesi della violazione) – Sez. 6, n. 29922, 29/12/2011, Rv. 620988; conf., ex multis, Cass. 4584/2020 –.
Fa da corollario il principio incontroverso secondo il quale l’errore di fatto previsto dall’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., idoneo a costituire motivo di revocazione della sentenza della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 391 bis cod. proc. civ., consiste in una svista su dati di fatto, produttiva dell’affermazione o negazione di elementi decisivi per risolvere la questione, sicché è inammissibile il ricorso per revocazione che suggerisca l’adozione di una soluzione giuridica diversa da quella adottata (Sez. 6, n. 3494, 12/02/2013, Rv. 625003).
Il combinato disposto dell’art. 391 bis e dell’art. 395, n. 4, c.p.c. non prevede come causa di revocazione della sentenza di cassazione l’errore di diritto, sostanziale o processuale, e l’errore di giudizio o di valutazione. Ed è appena il caso di precisare che, con riguardo al sistema delle impugnazioni, la Costituzione non impone al legislatore ordinario altri vincoli oltre a quelli, previsti dall’art. 111 Cost., della ricorribilità in cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, sicché non appare irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di revocazione una propria specifica funzione, escludendo gli errori giuridici e quelli di giudizio o valutazione, proponibili solo contro le decisioni di merito nei limiti dell’appello e del ricorso per cassazione, considerato anche che, quanto all’effettività della tutela giurisdizionale, la giurisprudenza europea e quella costituzionale riconoscono la necessità che le decisioni, una volta divenute definitive, non possano essere messe in discussione, onde assicurare la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, nonché l’ordinata amministrazione della giustizia (Sez. U, n. 8984, 11/04/2018, Rv. 648127; cfr., anche, Sez. U., n. 30994, 27/12/2017; Sez. 6, n. 14937, 15/6/2017).
5.2. E tanto in disparte del rilievo, è appena il caso di soggiungere, che il preteso errore di diritto prospettato dal ricorrente è destituito di giuridico fondamento alla luce del consolidato orientamento di legittimità che afferma necessaria formale notifica del ricorso al competente Consiglio dell’Ordine (cfr., ex multis, S.U. nn. 116/1987, 2464/1986, 678/1985, 2187/1984) e risultando dagli atti, quanto al secondo profilo, che l’Antonucci non era legittimato ad autenticare la relata di notifica al Procuratore generale.
6. All’epilogo consegue la condanna del ricorrente al rimborso delle spese in favore del Ministero della Giustizia, che si liquidano, tenuto conto dell’entità della causa, della sua qualità e delle svolte attività, siccome in dispositivo.
Sul punto va chiarito che, al contrario di quanto affermato dal ricorrente, il quale non investe del ruolo di contraddittore il controricorrente, non è dubbio che aver chiamato in giudizio il già menzionato Ministero, in uno al Tribunale di Chiesti, alla Procura presso il Tribunale medesimo e alla Corte d’appello di L’Aquila, ha imposto la spendita della difesa erariale.
7. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 4.000,00, oltre al rimborso delle spese prenotare a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 21 febbraio 2023, nella camera di
Allegati:
SS.UU, 17 marzo 2023, n. 7894, in tema di revocazione
In tema di responsabilità da emotrasfusione – SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19129
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
Danni da emotrasfusione
Nesso causale
Efficacia probatoria
del verbale della
C.M.O.
Ud. 06/06/2023 – PU
R.G.N. 18770/2019
Rep.
SENTENZA
sul ricorso 18770-2019 proposto da:
MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato ope legis in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, dalla quale è rappresentato e difeso;
-ricorrente –
contro
L. F. e L. G. , nella qualità di eredi di L. M. , rappresentati e difesi dall’avvocato P. C. ;
P. G. , nella qualità di erede di L. M. ,elettivamente domiciliato in , presso lo studio dell’avvocato , rappresentato e difeso dagli avvocati e ;
, nella qualità di erede di ,elettivamente domiciliata in , presso lo studio dell’avvocato U. G. S. , che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato S. R. ;
-resistenti –
contro
CASA DI CURA S. ANNA, FIRST ITALIA ASSICURAZIONE IN LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA;
-intimati –
avverso la sentenza n. 3113/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 13/05/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/06/2023 dal Consigliere ANNALISA DI PAOLANTONIO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale ALESSANDRO PEPE, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbiti il secondo e terzo e respinto il quarto;
uditi gli avvocati Enrico De Giovanni per l’Avvocatura Generale dello Stato e P. C. .
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Roma, adita con appello principale dal Ministero della Salute e con impugnazione incidentale da M. L. , al quale erano poi succeduti in corso di causa gli eredi G. P. , G. L. , M. L. L. e F. L. , ha rigettato il gravame del Ministero e, in accoglimento dell’incidentale, ha riformato parzialmente, nel quantum, la sentenza definitiva del Tribunale di Roma n. 5260 dell’11 marzo 2013, condannando il Ministero a corrispondere agli eredi, pro quota ereditaria ed a titolo di risarcimento del danno, la complessiva somma di € 926.688,62, oltre agli interessi legali ed alla rivalutazione monetaria, con decorrenza dall’ottobre 2004.
2. La Corte distrettuale ha riassunto la vicenda processuale ed harilevato, in punto di fatto, che il defunto M. L. , a seguito di incidente stradale, era stato ricoverato d’urgenza dal 6 maggio al 7 giugno 1988 presso la Casa di Cura Sant’Anna ed era stato sottoposto ad intervento chirurgico, nel corso del quale si era resa necessaria la trasfusione di un’unità di sangue, attestata nella cartella clinica all’epoca redatta. Nel settembre del 2004, su consiglio del medico di fiducia, si era sottoposto ad accertamenti, che avevano evidenziato l’infezione da virus dell’HIV, confermata il 24 novembre 2004 all’atto delle dimissioni dall’Ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno, ove era rimasto degente dal 29 settembre dello stesso anno. Il 16 marzo 2005 aveva presentato domanda amministrativa per il riconoscimento del proprio stato invalidante e, con verbale del 15 settembre 2005, la Commissione medica di prima istanza di Roma gli aveva riconosciuto l’invalidità totale e permanente, ex artt. 2 e 12 della legge n. 118/1971.
3. In diritto e per quel che in questa sede rileva, il giudice d’appello,escluso l’eccepito difetto di legittimazione passiva del Ministero e dichiarato inammissibile l’appello incidentale proposto nei confronti della Casa di Cura Sant’Anna (la cui responsabilità era stata esclusa dalla sentenza parziale, non impugnata nei termini), ha ritenuto infondato il terzo motivo dell’appello principale, con il quale il Ministero aveva riproposto l’eccezione di prescrizione. La Corte distrettuale, richiamato il principio secondo cui la prescrizione decorre dal momento in cui la malattia viene percepita, o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, ha accertato che nella fattispecie la consapevolezza della derivazione causale della patologia dalla trasfusione risalente all’anno 1988 si era avuta solo nel 2004, a seguito degli approfondimenti e degli esami, richiesti dal medico curante, effettuati dalla struttura ospedaliera di Salerno.
4. Infondato è stato ritenuto anche il motivo inerente al nesso causale,in relazione al quale il giudice d’appello ha richiamato il principio di diritto enunciato da Cass. 15 giugno 2018 n. 15734, secondo cui l’accertamento della riconducibilità del contagio all’emofrasfusione, compiuto dalla Commissione medica ex art. 4 della legge n. 210 del 1992, non può essere messo in discussione dal Ministero nel giudizio di risarcimento del danno, perché proveniente da un organo dello Stato ed imputabile allo stesso Ministero. Ha ritenuto detto principio applicabile alla fattispecie, perché non era in contestazione che il giudizio favorevole fosse stato espresso dalla competente Commissione.
Infine la Corte distrettuale ha ritenuto provata la responsabilità dell’appellante principale, poiché all’epoca dei fatti incombeva sul Ministero della Salute l’obbligo di vigilare e di attivarsi per evitare o ridurre il rischio di infezioni virali, insito nella pratica terapeutica della trasfusione di sangue e nella somministrazione di emoderivati.
5. Per la cassazione della sentenza il Ministero della Salute ha propostoricorso sulla base di quattro motivi, ai quali non hanno opposto difese la Casa di Cura Sant’Anna e la Liquidazione Coatta Amministrativa della First Italiana Assicurazioni, rimaste intimate.
6. Con atto del 10 dicembre 2019 si sono costituiti in giudizio, quali eredi di M. L. , G. P. , G. L. e F. L. , i quali hanno eccepito l’inammissibilità del ricorso, perché notificato all’avvocato P. C. , all’epoca della notificazionedestinataria di ordinanza cautelare ex art. 290 cod. proc. pen., con la quale era stato interdetto l’esercizio della professione forense per la durata di mesi sei.
7. Successivamente, con atto del 5 febbraio 2022, si sono costituiti ingiudizio nuovi difensori nell’interesse di G. P. , i quali hanno reiterato l’eccezione di inammissibilità e, nel merito, hanno concluso per l’infondatezza del ricorso. In pari data si è costituita M. L. L. , che ha anch’essa eccepito l’inammissibilità del ricorso.
8. Con ordinanza interlocutoria del 31 ottobre 2022 n. 32077 la TerzaSezione Civile di questa Corte ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di risolvere il contrasto di giurisprudenza sull’efficacia probatoria, nel giudizio avente ad oggetto l’azione di risarcimento del danno, della valutazione espressa, quanto al nesso causale fra emotrasfusione e insorgenza della patologia, dalla Commissione medica ospedaliera di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992.
9. Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle SezioniUnite.
10. In prossimità dell’udienza pubblica del 6 giugno 2023 hannodepositato memoria il Ministero della Salute nonché l’avvocato C. , nell’interesse di G. e F. L. , che ha anche replicato, con successiva memoria, all’atto depositato dal Ministero.
11. L’Ufficio della Procura Generale ha depositato conclusioni scritte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità delricorso, che i resistenti hanno sollevato con l’atto di costituzione in giudizio e ribadito nella memoria depositata ex art. 378 cod. proc. civ. nonchè nel corso dell’udienza pubblica.
L’eccezione, che fa leva sugli effetti prodotti dalla misura cautelare interdittiva applicata all’avvocato con ordinanza del 21 maggio 2019, poi annullata da questa Corte con sentenza n. 47176 dell’8 ottobre/20 novembre 2019, è infondata, ma per ragioni diverse da quelle indicate nell’ordinanza interlocutoria n. 32077 del 2022.
In premessa va richiamato e ribadito l’orientamento secondo cui la cancellazione dall’albo, la radiazione e la sospensione, privano il difensore (temporaneamente o definitivamente) dello ius postulandi e, quindi, della legittimazione a compiere o a ricevere atti processuali, con la conseguenza che rendono, da un lato, non più idonea l’elezione di domicilio effettuata dalla parte presso quel difensore, dall’altro, applicabile l’art. 330, ultimo comma, cod. proc. civ., se l’atto da notificare è un’impugnazione e l’evento si è verificato dopo la pubblicazione della sentenza gravata (Cass. 21 settembre 2011 n. 19225; Cass. 21 maggio 2013 n. 12478; Cass. S.U. 13 febbraio 2017 n. 3702). In tal caso, infatti, non può operare la disciplina prevista dal combinato disposto degli artt. 301 e 299 cod. proc. civ., per l’ipotesi in cui l’evento colpisca, in pendenza di giudizio, il procuratore costituito, sicché l’attività processuale non è in assoluto impedita e può essere compiuta, ma nel rispetto, quanto alla decorrenza del termine, dell’art. 328 cod. proc. civ., applicabile anche al difensore a seguito della sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 41 del 3 marzo 1986, e, quanto al luogo nel quale la notifica deve essere effettuata, del già richiamato art. 330 cod. proc. civ..
Peraltro, la notificazione erroneamente effettuata alla parte presso il procuratore costituito nel giudizio di appello, divenuto privo di ius postulandi dopo la definizione del giudizio medesimo, non può essere ritenuta inesistente, come infondatamente assumono gli eredi di M. L. .
L’inesistenza, infatti, sulla base dei principi di diritto già enunciati da queste Sezioni Unite (cfr. Cass. S.U. 20 luglio 2016 n. 14916 e Cass. S.U. 13 febbraio 2017 n. 3702, quest’ultima in tema di notificazione dell’appello effettuata presso il procuratore domiciliatario volontariamente cancellatosi dall’albo professionale) e qui ribaditi, resta circoscritta ai casi in cui si sia in presenza di una notificazione meramente tentata (e quindi, nella sostanza, omessa) o di un atto che sia privo degli essenziali elementi costitutivi idonei a rendere lo stesso qualificabile come notificazione. Detti elementi costitutivi vanno ravvisati: a) nell’attività di trasmissione svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere l’attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento, in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita.
Il luogo della notificazione non integra un elemento costitutivo essenziale dell’atto, con la conseguenza che, anche qualora esso si riveli privo di collegamento con il destinatario, si ricade nell’ambito della nullità dell’atto, sanabile, con efficacia ex tunc, o per raggiungimento dello scopo, a seguito della costituzione della parte intimata, anche se compiuta al solo fine di eccepire la nullità (cfr. in tali termini la citata Cass. S.U. n. 14916/2016, punto 2.6), o in conseguenza della rinnovazione della notificazione, effettuata spontaneamente dalla parte stessa oppure su ordine del giudice ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ..
Dai richiamati principi discende che nella fattispecie, da un lato, deve essere esclusa l’eccepita inesistenza dell’atto; dall’altro, a seguito della costituzione in giudizio della parte nei cui confronti l’invalidità si è verificata, si deve ritenere sanata, con efficacia retroattiva, la nullità della notificazione, sanatoria che non è impedita dalle forme utilizzate per la costituzione, effettuata attraverso il deposito di memoria e non con controricorso.
Occorre rilevare al riguardo che tutti i resistenti, nel costituirsi in giudizio, oltre ad eccepire l’inammissibilità del ricorso, hanno anche concluso nel merito per il rigetto dello stesso (cfr. le conclusioni degli atti del 10.12.2019, nell’interesse di G. P. , G. L. F. L. ; del 5.12.2022 nell’interesse di G. P. ; del 5.12.2022 nell’interesse di M. L. L. ) ed inoltre, nel corso della discussione orale, il difensore di G. e F. L. ha richiamato gli argomenti illustrati nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ. e, pur reiterando anche l’eccezione di inammissibilità, come si è detto infondata, non ha neppure accennato alla perdita di poteri processuali non potuti esercitare in conseguenza della nullità della notificazione.
In tale contesto, dunque, esclusa l’eccepita inesistenza della notificazione, va parimenti esclusa la necessità della rinnovazione ex art. 291 cod. proc. civ. che, in ragione dell’avvenuta costituzione in giudizio e delle difese successivamente illustrate, si risolverebbe in un inutile dispendio di attività processuale.
2. Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art.360 n. 3cod. proc. civ., è denunciata la violazione degli artt. 2043, 2735, 2733, 2700 cod. civ., dell’art. 116 cod. proc. civ. nonché dell’art. 4 della legge n. 210 del 1992 ed il Ministero censura il capo della sentenza impugnata che ha ritenuto provato il nesso causale fra somministrazione della trasfusione e insorgenza della patologia, valorizzando il solo giudizio espresso dalla Commissione medica ospedaliera, nell’ambito del procedimento disciplinato dalla citata legge n. 210 del 1992. Richiama il principio di diritto enunciato da queste Sezioni Unite con sentenza 11 gennaio 2008 n. 577 e deduce che il verbale redatto dalla Commissione, al di fuori del procedimento amministrativo nel quale si inserisce, ha il medesimo valore di ogni altro atto redatto da pubblico ufficiale e, pertanto, fa piena prova, ex art. 2700 cod. civ., dei fatti che la Commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o dalla stessa compiuti, mentre non costituisce una prova legale quanto alle valutazioni, alle diagnosi, alle manifestazioni di scienza o di opinione, espresse dall’organo tecnico, che il giudice può apprezzare, senza, però, attribuire alle stesse il valore di vero e proprio accertamento. Sottolinea, poi, la diversità fra il diritto al risarcimento del danno ed il diritto all’indennizzo ex lege n. 210 del 1992 e deduce che in ambito assistenziale e previdenziale le deliberazioni collegiali mediche, quale che sia la loro natura, sono prive di efficacia vincolante, sostanziale e processuale, in quanto meramente strumentali e preordinate all’adozione del provvedimento di attribuzione o negazione della prestazione richiesta.
3. La seconda critica, ricondotta al vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., addebita alla Corte distrettuale di avere omesso l’esame della consulenza tecnica d’ufficio che, all’esito degli accertamenti medico-legali, aveva escluso l’asserito nesso causale fra l’emotrasfusione e la malattia contratta.
4. Con il terzo motivo è eccepita, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. ed il Ministero torna a dolersi dell’omesso esame della consulenza tecnica d’ufficio.
5. Infine la quarta censura, formulata ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 2947 cod. civ.. Il Ministero addebita, in sintesi, alla Corte distrettuale di avere valorizzato la sola consapevolezza soggettiva della derivazione causale del contagio dall’emotrasfusione, svalutando del tutto l’ulteriore parametro della conoscibilità, che deve essere accertata tenendo conto dell’ordinaria diligenza esigibile dall’uomo medio e del livello di conoscenze raggiunto dalla scienza medica nel periodo in cui la patologia si è manifestata.
6. Il primo motivo di ricorso è fondato.
La censura investe la questione sottoposta dalla Terza Sezione alle Sezioni Unite, inerente al valore di prova o di mero indizio da assegnare, nel giudizio civile di risarcimento del danno, al verbale della Commissione medica di cui all’art. 4 della legge 25 febbraio 1992 n. 210, che abbia riconosciuto la sussistenza del nesso causale fra l’emotrasfusione e la malattia insorta ai fini della liquidazione delle prestazioni assistenziali disciplinate dalla legge richiamata.
L’ordinanza interlocutoria prende le mosse dal principio di diritto enunciato da Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 577, secondo cui il verbale redatto ai sensi della disposizione sopra richiamata, al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell’indennizzo, costituisce prova legale ex art. 2700 cod. civ. solo limitatamente ai fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione espresse forniscono unicamente materiale indiziario, soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può attribuire alle stesse il valore di vero e proprio accertamento.
Rileva che detto orientamento, seguito senza oscillazioni nel successivo decennio, è stato ritenuto da Cass. 15 giugno 2018 n. 15734 inapplicabile nel caso in cui l’azione risarcitoria venga proposta nei confronti del Ministero della Salute, perché in detta fattispecie, nella quale le parti del giudizio coincidono con quelle del procedimento amministrativo, l’accertamento è imputabile allo stesso Ministero, che lo ha espresso per il tramite di un suo organo, e, pertanto, nel giudizio di risarcimento del danno il giudice deve ritenere «fatto indiscutibile e non bisognoso di prova» la riconducibilità del contagio alla trasfusione.
Il Collegio rimettente richiama, poi, Cass. 5 settembre 2019 n. 22183 e Cass. 30 giugno 2020 n. 13008, che al principio hanno prestato integrale adesione, nonché Cass. 5 ottobre 2018 n. 24523 e Cass. 17 novembre 2021 n. 34885, che hanno ribadito il valore di prova legale dell’accertamento amministrativo ma, in un caso, valorizzando non il verbale della commissione, bensì il provvedimento di riconoscimento dell’indennizzo, nell’altro richiamando congiuntamente Cass. n. 15734/2018 e Cass. S.U. n. 577/2008 (citate) per trarne la conseguenza che il giudice del merito «se avesse voluto disattendere il giudizio positivo già dato dalla commissione ai fini della spettanza dell’indennizzo avrebbe dovuto indicare le ragioni dell’esclusione…».
Sottolinea l’ordinanza interlocutoria che l’orientamento inaugurato dalla citata Cass. n. 15734/2018 si incentra sulla natura di organo del Ministero della Salute, da riconoscere alle Commissioni mediche che intervengono nel procedimento disciplinato dalla legge n. 210 del 1992, e contrasta con il principio, di carattere più generale, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza giuslavoristica e da queste Sezioni Unite, secondo cui il giudizio espresso nella materia della previdenza ed assistenza obbligatoria dai collegi medici è espressione di discrezionalità tecnica, non amministrativa, ed è privo di efficacia vincolante, sostanziale e procedimentale, in quanto l’accertamento sanitario è solo strumentale e preordinato «all’adozione del provvedimento di attribuzione della prestazione in corrispondenza delle funzioni di certazione assegnate alle indicate commissioni».
7. Ritengono le Sezioni Unite, a definizione del denunciato contrasto, che debba essere disatteso l’orientamento espresso dalle pronunce citate nel punto che precede (orientamento seguito più di recente da Cass. 4 marzo 2021 n. 5878 e Cass. 23 febbraio 2021 n. 4795) e che vada ribadito il principio di diritto già enunciato da Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 577, applicabile sia alle controversie promosse nei confronti delle sole strutture sanitarie sia ai giudizi nei quali venga convenuto anche il Ministero.
8. In premessa occorre sottolineare l’ontologica diversità fra il diritto soggettivo alla prestazione assistenziale disciplinata dalla legge n. 210 del 1992 ed il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ., diversità che queste Sezioni Unite hanno già evidenziato, anche attraverso il richiamo alla giurisprudenza costituzionale, in più pronunce alla cui motivazione si rinvia ex artt. 118 disp. att. cod. proc. civ. (cfr. Cass. S.U. 1° aprile 2010 nn. 8064 e 8065; Cass. S.U. 9 giugno 2011 n. 12538).
Si è detto, in particolare, che il rimedio risarcitorio presuppone un fatto illecito e può trovare applicazione solo qualora il trattamento sanitario sia stato in concreto attuato senza adottare le cautele o omettendo i controlli ritenuti necessari sulla base delle conoscenze scientifiche. L’indennizzo, invece, nei casi di lesione irreversibile derivata da emotrasfusioni o dalla somministrazione di emoderivati (diversa è la ratio dell’istituto nell’ipotesi di vaccinazione obbligatoria), trova il suo fondamento nel dovere di solidarietà sociale prescritto dall’art. 2 Cost. e, «in un’ottica più avanzata di socializzazione del danno incolpevole», valorizza i principi desumibili dall’art. 38 Cost., quanto alla protezione sociale della malattia e dell’inabilità al lavoro, chiamando la collettività a partecipare, nei limiti delle risorse disponibili, al ristoro del danno alla salute che, altrimenti, in quanto incolpevole, rimarrebbe esclusivamente a carico del danneggiato.
9. La normativa dettata per la prestazione assistenziale è stata oggetto, nel tempo, di plurimi interventi modificativi ed additivi, che hanno inciso principalmente sulle tutele assicurate e sulla platea dei beneficiari (cfr. in motivazione le citate pronunce di queste Sezioni Unite e Corte Cost. 6 marzo 2023 n.35) mentre sostanzialmente invariata è rimasta la disciplina del procedimento che rileva in questa sede, dettata dall’art. 4 della legge n. 210 del 1992, secondo cui « Il giudizio sanitario sul nesso causale tra la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio e la menomazione dell’integrità psico-fisica o la morte è espresso dalla commissione medico-ospedaliera di cui all’art. 165 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092» (comma 1) che «esprime il proprio parere sul nesso causale tra le infermità o le lesioni e la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio» (comma 3).
Con l’art.1, comma 12, della legge 25 luglio 1997, n. 238, il legislatore ha, poi, previsto che le commissioni «sono integrate con medici esperti nelle materie attinenti alle richieste di indennizzo, ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 165 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092.»
9.1. L’art. 165 del citato d.P.R., di approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato, nel testo vigente all’epoca del rinvio operato dalla legge n. 210 del 1992, stabiliva che «il giudizio sanitario sulle cause e sull’entità delle menomazioni dell’integrità fisica del dipendente ovvero sulle cause della sua morte è espresso dalle commissioni mediche ospedaliere istituite: a) presso gli ospedali militari principali o secondari dei comandi militari territoriali di regione; b) presso gli ospedali militari marittimi e le infermerie autonome militari marittime; c) presso gli istituti medico legali dell’Aeronautica militare.» (comma 1).
La disposizione è stata successivamente abrogata dall’art. 2268, comma 1 n. 691, del d.lgs. 15 marzo 2010 n. 66, di approvazione del codice dell’ordinamento militare, che ha disciplinato l’organizzazione del Servizio Sanitario Militare (artt. 181 e seguenti), al quale appartengono le Commissione mediche ospedaliere interforze di prima istanza, costituite presso i Dipartimenti militari di medicina legale, ed alle quali è attribuita, fra l’altro, la competenza ad effettuare gli accertamenti medico-legali di cui alla legge n. 210 del 1992 (art. 193, comma 1).
9.2. Dalla normativa citata si trae, quindi, una prima conclusione: le Commissioni mediche competenti ad accertare la patologia denunciata, a verificarne la riconducibilità all’emotrasfusione o alla vaccinazione, a classificare gli esiti invalidanti sulla base della tabella A annessa al testo unico approvato con d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834 ( art. 4, comma 4), sono estranee all’organizzazione del Ministero della Salute (cfr. anche il d.P.R. 28 marzo 2013 n. 44 di riordino degli organi collegiali di detto Ministero) e costituiscono articolazioni del Ministero della Difesa, alle quali è affidata, per effetto di specifiche disposizioni di legge, la competenza ad esprimere valutazioni tecniche, che integrano atti endoprocedimentali strumentali all’adozione di provvedimenti riservati a Ministeri diversi da quello di appartenenza (cfr. anche il procedimento disciplinato dal già richiamato d.P.R. n. 1092/1973, antecedentemente all’abrogazione disposta dal d.P.R. 29 ottobre 2001 n. 461).
Dall’art. 5 della legge n. 210 del 1992, che attribuisce al Ministero della Salute la competenza a decidere il ricorso avverso la decisione della Commissione medica, non si possono trarre le conseguenze indicate nella motivazione di Cass. n. 15734/2018, perché si è in presenza di un ricorso gerarchico improprio, ravvisabile ogniqualvolta un’espressa disposizione di legge attribuisce il potere di decisione ad una determinata autorità, pur in assenza di rapporto gerarchico con quella che ha emanato l’atto, che dalla prima non dipende (cfr. anche Cons. Stato II parere n. 2383/2014).
La Commissione medica, quindi, nell’effettuare l’accertamento alla stessa demandato dall’art. 4 della legge n. 210 del 1992, non agisce quale organo del Ministero della Salute e la valutazione espressa impegna quest’ultimo, anche in sede amministrativa, nei soli limiti della disciplina dettata per il procedimento nel quale l’atto si inserisce.
10. Nel giudizio avente ad oggetto la prestazione assistenziale, che si può instaurare fra le parti pur in presenza dell’avvenuto accertamento del nesso causale (tipico il caso in cui il diniego della prestazione sia dipeso, non dalla negazione del nesso causale, bensì dall’applicazione del termine di decadenza previsto dall’art. 3 della legge n. 210 del 1992), opera il principio, sancito dall’art. 147 disp. att. cod. proc. civ., secondo cui «sono privi di qualsiasi efficacia vincolante, sostanziale e processuale,…..le collegiali mediche, quale ne sia la loro natura», sicché in quella sede, nella quale non è precluso all’amministrazione contestare anche la sussistenza del nesso causale, seppure affermato dalla commissione medica, il giudice è tenuto ad accertare tutti gli elementi costitutivi della prestazione della quale si discute (cfr. Cass. 6 aprile 2021 n. 9235, Cass. 30 marzo 2006 n. 7548, Cass. 22 maggio 2006 n. 11908 in tema di invalidità civile e Cass. 27 novembre 2017 n. 28262 pronunciata in fattispecie nella quale veniva in rilievo l’indennizzo emotrasfusionale).
11. L’orientamento da ultimo richiamato, espresso da tempo dalla giurisprudenza giuslavoristica (cfr. fra le più risalenti Cass. 27 maggio 1983 n. 3666 e Cass. 14 gennaio 1997 n. 317), ha trovato poi avallo nelle pronunce di queste Sezioni Unite che, sia pure in sede di regolamento di giurisdizione e con riferimento alle attività accertative poste in essere da Commissioni mediche diverse da quella che qui viene in rilievo, hanno ripetutamente affermato il principio, di valenza generale, secondo cui il giudizio formulato dalle commissioni mediche all’esito degli accertamenti disposti è espressione di discrezionalità tecnica, non amministrativa, e, pertanto, va esclusa la natura provvedimentale dell’atto adottato, che è meramente strumentale e si inserisce nel procedimento in ragione della funzione di «certazione» attribuita dal legislatore alle commissioni medesime ( Cass. S.U. 23 ottobre 2014 n. 22550; Cass. S.U. 22 novembre 2006 n. 24862; Cass. S.U. 11 dicembre 2003 n. 18960 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione).
12. Il principio di diritto enunciato dalla citata Cass. S.U. n. 577 del 2008, quanto al valore probatorio del verbale di accertamento, è dunque coerente con il quadro generale sopra descritto nei suoi tratti essenziali, con il quale, invece, non si armonizza il diverso orientamento espresso a partire da Cass. n. 15734/2018, che oltre a qualificare erroneamente la Commissione organo del Ministero della Salute e ad attribuirle la capacità di rappresentare l’amministrazione statale, che la stessa non possiede, finisce per riconoscere al verbale, nel giudizio di risarcimento del danno, il valore di prova legale, che va, invece, escluso, per espressa indicazione normativa, persino nel giudizio nel quale si discute della prestazione assistenziale, in relazione alla quale il procedimento amministrativo viene avviato e svolto.
13. L’affermazione, che si legge nella citata Cass. n. 15734/2018, secondo cui «l’accertamento della riconducibilità del contagio ad un’emotrasfusione compiuto dalla Commissione….non può essere messo in discussione dal Ministero…ed il giudice deve ritenere detto fatto indiscutibile e non bisognoso di prova…» nella sostanza, come evidenzia l’ordinanza interlocutoria, finisce per ravvisare una confessione nell’accertamento del nesso causale contenuto nel parere tecnico.
Il principio non può essere condiviso, oltre che per quanto si è illustrato nei punti che precedono, per l’assorbente ragione che il nesso causale non è un fatto obiettivo, ma una relazione che lega un’azione o un’omissione ad una data conseguenza, che non si sarebbe verificata ove la condotta non fosse stata tenuta o l’azione doverosa non fosse stata omessa.
Non è questa la sede per soffermarsi sui principi che regolano, in ambito civile e penale, il procedimento logico-giuridico che sta alla base della ricostruzione del nesso causale né per analizzare le argomentazioni sulla base delle quali queste Sezioni Unite sono giunte ad affermare che «nell’accertamento del nesso causale con riferimento a danni alla persona, pur dovendosi distinguere la cosiddetta causalità generale (l’idoneità, la capacità in generale di una sostanza a provocare malattie, il rischio che incombe sulle popolazioni indagate, cioè su gruppi e non su singoli individui) dalla cosiddetta causalità individuale o del singolo caso (relativa alla probabilità ragionevole della concretizzazione nel singolo caso della legge causale generale) va rilevato che questa causalità specifica, in presenza di una causalità generale ed in assenza di fattori alternativi, può essere fondata anche sulla base della prova presuntiva che presenti i requisiti della gravità, precisione e concordanza. Ai fini della ricostruzione del nesso causale in materia di responsabilità civile, diversamente da quella penale dove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti» ( Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 584).
I richiamati principi, dai quali le Sezioni Unite non hanno motivo di discostarsi, rendono evidente che all’affermazione o alla negazione del nesso causale si può giungere solo all’esito di un complesso procedimento valutativo nel quale rilevano, oltre allo stato delle conoscenze scientifiche da apprezzare ai fini della cosiddetta causalità generale, gli elementi individualizzanti necessari per far ritenere concretizzata nel singolo caso all’esame del giudice la legge causale generale.
Non si è, dunque, in presenza di un «fatto obiettivo» e, pertanto, opera il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la confessione non può avere ad oggetto giudizi, opinioni o assunzioni di responsabilità, e riguarda solo «fatti», la cui qualificazione giuridica è comunque riservata al giudice (Cass. S.U. 25 marzo 2013 n. 7381, Cass. S.U. 5 maggio 2006 n. 10311, Cass. 18 ottobre 2011 n. 21509).
14. E’ da escludere, pertanto, che possa essere oggetto di confessione l’affermazione del nesso causale fra l’emotrasfusione ed il contagio, sia nell’ipotesi in cui detto accertamento sia contenuto nel solo verbale della Commissione medica (come accade nei casi di rigetto della domanda amministrativa per ragioni diverse dall’insussistenza della necessaria causalità), sia qualora il procedimento si concluda con il riconoscimento dell’indennizzo in favore del richiedente, atteso che anche quel provvedimento è espressione di discrezionalità tecnica e presuppone, non una dichiarazione di scienza, bensì una valutazione sulla sussistenza dei requisiti richiesti ai fini dell’accesso alla prestazione assistenziale.
15. Ciò, peraltro, non significa che nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della Salute per il risarcimento del danno derivato dall’emotrasfusione l’accertamento effettuato in sede amministrativa del nesso causale fra quest’ultima e l’insorgenza della patologia non possa essere utilizzato ai fini della prova del nesso medesimo, che deve essere offerta dalla parte che agisce in giudizio.
Il diritto all’indennizzo ex lege n. 210 del 1992 e quello al risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ., che l’ordinamento riconosce come concorrenti, presuppongono entrambi un medesimo fatto lesivo, ossia l’insorgenza della patologia, derivato dalla medesima attività (cfr. in motivazione Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 584), e l’azione di danno si differenzia da quella finalizzata al riconoscimento della prestazione assistenziale essenzialmente perché richiede anche che l’attività trasfusionale o la produzione di emoderivati siano state compiute senza l’adozione di tutte le cautele ed i controlli esigibili a tutela della salute pubblica.
Si è in presenza, quindi, di diritti e di azioni che presentano elementi costitutivi comuni ed è proprio da questa comunanza dei presupposti e del relativo accertamento che scaturiscono le questioni qui dibattute, le quali non si esauriscono in quella inerente al valore probatorio del verbale redatto dalla Commissione Medica Ospedaliera, giacchè le parti e la Procura Generale nei propri scritti difensivi hanno discusso anche dell’incidenza nel giudizio civile di risarcimento del danno dell’avvenuto riconoscimento in via amministrativa della prestazione assistenziale nonchè dell’efficacia, in quest’ultimo giudizio, del giudicato formatosi fra le stesse parti sul diritto alla liquidazione dell’indennizzo ex lege n. 210 del 1992.
In ragione del dibattito processuale sviluppatosi successivamente all’ordinanza di rimessione (è nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ. e nelle conclusioni scritte del Pubblico Ministero che gli ulteriori temi sono stati prospettati – cfr. sul valore del provvedimento amministrativo pag. 6 e 7 delle conclusioni del P.G. e sul giudicato esterno la memoria depositata da G. e F. L. ) nonchè del ruolo nomofilattico che l’ordinamento assegna alla Corte di Cassazione, nella sua massima espressione, ritengono le Sezioni Unite di dovere pronunciare anche su dette ulteriori questioni, seppure non ricomprese nell’ambito di devoluzione circoscritto dall’ordinanza interlocutoria.
16. Si è già anticipato che, quanto al primo aspetto controverso, ildenunciato contrasto, sulla base delle considerazioni tutte svolte nei punti da 9 a 14, deve essere risolto dando continuità al principio di diritto enunciato da Cass. S.U. n. 577 del 2008, secondo cui, al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, i verbali delle commissioni mediche, al pari di ogni altro atto redatto da pubblico ufficiale, fanno prova ex art. 2700 cod. civ. dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le diagnosi, le manifestazioni di scienza o di opinione costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice che, pertanto, può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di prova legale, né ritenere che la valutazione espressa dalla Commissione medica circa la sussistenza del nesso causale fra emotrasfusione e malattia, escluda il nesso medesimo dal thema probandum del giudizio risarcitorio intentato nei confronti del Ministero.
17. Una diversa valenza va, invece, riconosciuta al provvedimento che, sulla base dell’istruttoria svolta e del parere tecnico acquisito, disponga la liquidazione dell’indennizzo in favore del richiedente, sul presupposto dell’avvenuto accertamento in sede amministrativa dei requisiti tutti che integrano gli elementi costitutivi del diritto alla prestazione assistenziale.
Fra detti elementi costitutivi rientra, appunto, il nesso causale che lega emotrasfusione e patologia indennizzata, sicché l’atto con il quale l’amministrazione si riconosce debitrice della provvidenza assistenziale, presuppone la valutazione positiva della derivazione eziologica, valutazione che se da un lato, in quanto tale, non può integrare una confessione, dall’altro costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale.
Queste Sezioni Unite, ribadito il principio secondo cui la prova presuntiva non è un mezzo relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove ed allo stesso il giudice può fare ricorso anche in via esclusiva, nell’affrontare lo specifico tema della prova del nesso causale nel giudizio di risarcimento intentato nei confronti della pubblica amministrazione in relazione a danni derivati dalla pratica dell’emotrasfusione, hanno evidenziato che «dinanzi alla prova del nesso causale il danneggiato non è lasciato solo ma a quest’ultimo si affianca il soggetto evocato in giudizio nella veste di responsabile, ove egli sia tenuto per norma giuridica o tecnica a documentare la sua condotta o determinati fatti, registrandosi cioè una situazione in cui entrambe le parti non possono rimanere inerti dinanzi al problema della causalità» ( Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 582, punto 6.3).
Se, dunque, ai fini del ragionamento presuntivo il giudice può e deve valorizzare la mancata predisposizione o la mancata produzione da parte del convenuto della documentazione imposta per legge, a maggior ragione assumono rilievo le condotte positive tenute dall’amministrazione convenuta nel procedimento amministrativo di liquidazione dell’indennizzo, con la conseguenza che l’attore può fare leva nel giudizio di danno, per assolvere all’onere della prova sullo stesso gravante, sull’accertamento del nesso causale compiuto in tale sede, che investe sia la causalità generale che quella del caso concreto, e che presuppone, come si desume dalle regole fissate per il procedimento dagli artt. 3 e 4 della legge n. 210 del 1992, un giudizio espresso da organi tecnici qualificati, sulla base di puntuali dati fattuali, allegati e documentati dal richiedente.
Quell’accertamento, dunque, è sufficiente a far ritenere integrata una valida prova presuntiva ex art. 2729 cod. civ. e, pertanto, l’amministrazione, nel giudizio di danno, non si può limitare alla generica contestazione del nesso causale ed all’altrettanto generica invocazione della regola di riparto dell’onere probatorio fissata dall’art. 2697 cod. civ., poichè la presunzione «forte» che dal riconoscimento amministrativo discende, seppure semplice e non legale, richiede, per essere superata, che vengano allegati specifici elementi fattuali non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell’indennizzo o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano.
Come già queste Sezioni Unite hanno osservato (cfr. Cass. S.U. n. 582/2008 cit.), per tale via non si realizza nessuna inversione dell’onere della prova, che resta a carico del danneggiato, perché la regola di giudizio qui enunciata attiene alla idoneità dell’elemento presuntivo a consentire inferenze che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, idoneità che va ritenuta, salva l’allegazione di contrari elementi specifici e concreti che rendano il primo inattendibile, sì da impedire che sullo stesso possa essere fondato il giudizio di inferenza probabilistica.
18. Resta, infine, da affontare la questione inerente all’efficacia nel giudizio civile di risarcimento del danno del giudicato formatosi fra le stesse parti sul diritto all’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, diritto che, si è già detto, presuppone l’accertamento della derivazione eziologica della patologia indennizzata dall’emotrasfusione effettuata.
Da tempo queste Sezioni Unite hanno enunciato il principio, che deve essere qui ribadito, secondo cui « qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo» ( Cass. S.U. 17 dicembre 2007 n. 26482 e negli stessi termini Cass. S.U. 1° giugno 2006 n. 13916).
Di detto orientamento, espresso da questa Corte anche prima dei richiamati arresti delle Sezioni Unite, è già stata fatta applicazione (cfr. Cass. 5 ottobre 2018 n. 24523, Cass. 29 gennaio 2019 n. 2359, Cass. 13 maggio 2022 n. 15379) in relazione al rapporto fra il giudicato formatosi sull’azione proposta ex lege n. 210 del 1992 ed il successivo giudizio di risarcimento del danno, a condizione che quest’ultimo sia stato instaurato nei confronti del Ministero, legittimato passivo nella controversia assistenziale (cfr. Cass. S.U. 9 giugno 2011 n. 12538), e non della sola struttura sanitaria.
Le conclusioni alle quali la Sezione Terza è pervenuta vanno qui ribadite, giacché sull’unico rapporto giuridico che si instaura fra le parti all’atto della pratica dell’emotrasfusione, si innestano azioni distinte regolate dall’ordinamento che, pur nella loro autonomia, presentano una parziale comunanza di requisiti richiesti ai fini dell’insorgenza del diritto, con la conseguenza che l’accertamento definitivo di detti requisiti produce effetti anche nel giudizio nel quale quel medesimo elemento costitutivo è stato fatto valere per ottenere un bene diverso da quello già domandato.
L’affermazione del nesso causale fra emotrasfusione e insorgenza della patologia, contenuta nella sentenza che riconosce l’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, è, dunque, suscettibile di passaggio in giudicato e, rispetto al successivo giudizio di risarcimento del danno instauratosi fra le stesse parti, integra un giudicato esterno, come tale vincolante per il giudice.
19. Sul piano processuale i principi che regolano la rilevabilità del giudicato nel giudizio di merito e di legittimità vanno ricavati dalle pronunce di queste Sezioni Unite più volte intervenute sul tema, sicché in questa sede ci si limiterà al richiamo degli stessi, rinviando, quanto alle ragioni dei principi affermati, alla motivazione delle sentenze citate.
E’ ormai ius receptum l’orientamento, inaugurato da Cass. S.U. 26 maggio 2001 n. 226, secondo cui «poiché nel nostro ordinamento vige il principio della normale rilevabilità di ufficio delle eccezioni, derivando la necessità dell’istanza di parte solo da una specifica previsione normativa, l’eccezione di giudicato esterno, in difetto di una tale previsione, è rilevabile d’ufficio ed il giudice è tenuto a pronunciare sulla stessa, qualora il giudicato risulti da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito, con la conseguenza che, in mancanza di pronuncia o nell’ipotesi in cui il giudice del merito abbia affermato la tardività dell’allegazione – e la relativa pronuncia sia stata impugnata – il giudice di legittimità accerta l’esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena, che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice del merito».
E’ stato, poi, precisato da Cass. S.U. 1° giugno 2006 n. 13916 che in sede di legittimità il giudicato esterno, al pari di quello interno, è rilevabile d’ufficio non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata. In tal caso la produzione del giudicato, da effettuare unitamente al ricorso se formatosi in pendenza del termine per l’impugnazione, ovvero, nel caso di formazione successiva, fino all’udienza di discussione, non trova ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 cod. proc. civ., che si riferisce esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio di merito, e non a quelli dei quali non era possibile la produzione in quella sede.
Ha, poi, aggiunto Cass. S.U. 17 dicembre 2007 n. 26482 che il principio secondo cui la rilevabilità d’ufficio del giudicato esterno trova un limite nel divieto di far uso della propria scienza privata, posto sia al giudice del merito che a quello di legittimità, non opera qualora il giudicato stesso si sia formato a seguito di una pronuncia della Corte di cassazione, già nota alle parti, la cui materiale acquisizione al giudizio di legittimità in corso non risponde ad alcuna reale esigenza nè delle parti stesse nè della Corte la quale, in ragione della funzione nomofilattica attribuitale, è istituzionalmente tenuta a conoscere i propri precedenti.
Infine Cass. S.U. 20 ottobre 2010 n. 21493, nel richiamare i precedenti arresti delle Sezioni Unite, ha aggiunto che qualora il giudicato esterno si sia formato nel corso del giudizio di secondo grado, o antecedentemente allo stesso, e l’esistenza di tale giudicato non sia stata eccepita in giudizio dalla parte che ne abbia interesse, la sentenza d’appello che abbia pronunciato in difformità da tale giudicato è impugnabile con il ricorso per revocazione ex art. 395 n. 5 cod. proc. civ., e non con il ricorso per cassazione.
19.1. E’ sulla base dei richiamati principi che va valutata l’eccezione di giudicato esterno, formulata dalla difesa di G. e F. L. nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ. ed illustrata in sede di discussione orale.
Va subito detto che la produzione documentale effettuata in questa sede non può essere apprezzata dalla Corte, perché si fa valere un giudicato esterno, formatosi sulla sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 6343 del 14 settembre 2010, e, quindi, antecedentemente all’instaurazione del giudizio di risarcimento del danno, sicché non possono operare i principi enunciati dalle citate Cass. S.U. n. 13916/2006 e n. 26482/2007.
Occorre, poi, evidenziare che il giudicato sul nesso causale è eccepito dalla parte integralmente vittoriosa nel precedente grado di giudizio, al fine di paralizzare il ricorso avversario, formulato avverso il capo della decisione che il nesso causale ha ritenuto sulla base di un diverso percorso argomentativo, e, pertanto, quella parte non avrebbe potuto proporre ricorso per revocazione ex art. 395, comma 5, cod. proc. civ. nè era tenuta a notificare ricorso incidentale condizionato, perché nessuna pronuncia è stata resa dal giudice d’appello sull’incidenza del precedente giudicato formatosi fra le stesse parti, con la conseguenza che quella questione si deve ritenere ancora sub iudice.
In tale contesto processuale, quindi, questa Corte, in applicazione del principio enunciato da Cass. S.U. n. 226/2001, avrebbe potuto conoscere con cognizione piena del precedente giudicato, ma a condizione che lo stesso risultasse, anche se non eccepito, ritualmente prodotto nel giudizio di primo grado o di appello.
Senonchè la peculiarità della fattispecie, nella quale, da un lato, la pronuncia gravata non fa cenno alla precedente iniziativa giudiziaria, dall’altro si assume anche che il fascicolo di parte sarebbe andato smarrito nel corso del giudizio e che detto smarrimento avrebbe reso necessaria la ricostruzione dello stesso, induce la Corte a rimettere al giudice del rinvio, al quale la causa deve essere rinviata in ragione della fondatezza del primo motivo di ricorso, anche l’accertamento sulla ritualità della produzione del giudicato nel giudizio di merito, preliminare rispetto alla valutazione sulla fondatezza dell’eccezione.
20. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
La Corte territoriale ha richiamato in premessa l’orientamento, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947 cod. civ., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno o da quando la malattia si manifesta all’esterno, bensì dal momento in cui viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento, doloso o colposo, altrui, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto delle conoscenze scientifiche (Cass. S.U. 11 gennaio 2008 nn. 576, 579, 580, 581,583 e 584; cfr. fra le tante più recenti Cass. 18 giugno 2019 n. 16217 e Cass. n. 26 maggio 2021 n. 14470). Ha, poi, aggiunto, richiamando Cass. n. 15991 del 18 giugno 2018, che l’eccezione di prescrizione deve fondarsi sui fatti allegati dalla parte, quand’anche suscettibili di diversa qualificazione da parte del giudice, sicché, nella specie, sarebbe stato onere del Ministero specificare le circostanze dalle quali si poteva desumere che l’attore aveva avuto, o avrebbe potuto avere, conoscenza, non solo della malattia, ma anche della sua derivazione causale dalla trasfusione in epoca antecedente al ricovero del 2004. Il convenuto, invece, si era limitato ad individuare il dies a quo nell’anno di effettuazione della trasfusione e ad invocare un generico dovere di diligenza esigibile dal danneggiato.
Il motivo, che prospetta la necessità di tener conto non solo della conoscenza soggettiva ma anche della conoscibilità, da accertare oggettivamente sulla base delle acquisizioni raggiunte dalla scienza medica, per un verso non coglie l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, per l’altro finisce per censurare l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte territoriale la quale, in assenza di specifiche allegazioni in senso contrario, ha ritenuto non sufficiente a far decorrere la prescrizione la sola consapevolezza del contagio da virus HIV, risalente già all’anno 1991, contagio in relazione al quale la possibile derivazione causale dall’emotrasfusione era emersa solo nell’anno 2004.
21. In via conclusiva, deve essere accolto il primo motivo di ricorso, con conseguente assorbimento del secondo e del terzo motivo, con rinvio alla Corte d’Appello indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, da condurre nel rispetto dei principi di diritto che, sulla base delle considerazioni sopra esposte, di seguito si enunciano:
a) nel giudizio risarcitorio promosso nei confronti del Ministero della Salute in relazione ai danni subiti per effetto della trasfusione di sangue infetto, il verbale redatto dalla Commissione medica di cui all’art. 4 della legge n. 210 del 1992 non ha valore confessorio e, al pari di ogni altro atto redatto da pubblico ufficiale, fa prova ex art. 2700 cod. civ. dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le diagnosi, le manifestazioni di scienza o di opinione costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice che, pertanto, può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può attribuire allo stesso il valore di prova legale;
b) nel medesimo giudizio, il provvedimento amministrativo di riconoscimento del diritto all’indennizzo ex lege n. 210 del 1992, pur non integrando una confessione stragiudiziale, costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale, sicché il Ministero per contrastarne l’efficacia è tenuto ad allegare specifici elementi fattuali non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell’indennizzo o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dal danneggiato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano;
c) nel giudizio di risarcimento del danno il giudicato esterno formatosi fra le stesse parti sul diritto alla prestazione assistenziale ex lege n. 210 del 1992 fa stato quanto alla sussistenza del nesso causale fra emotrasfusione e insorgenza della patologia ed il giudice del merito è tenuto a rilevare anche d’ufficio la formazione del giudicato, a condizione che lo stesso risulti dagli atti di causa.
22. Al giudice del rinvio è demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di cassazione.
Non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1 quarter, del d.P.R. n. 115/2002, comunque inapplicabile nei confronti di quelle parti che, come le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della prenotazione a debito siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, con assorbimento del secondo e del terzo motivo, e rigetta il quarto motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, alla quale demanda anche di provvedere al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 6 giugno 2023
Il Consigliere estensore
Annalisa Di Paolantonio
Il Presidente
Angelo Spirito
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 31 ottobre 2022, n. 32077, per SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19129, in tema di responsabilità da emotrasfusione
SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19129, in tema di responsabilità da emotrasfusione
In tema di fallimento – SS.UU, 28 aprile 2023, n. 11287
Civile Sent. Sez. U Num. 11287 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: STALLA GIACOMO MARIA
Data pubblicazione: 28/04/2023
SENTENZA
sul ricorso 17076-2016 proposto da:
IMPARATO FRANCESCO in proprio e quale amministratore della società EDIL CAFIM DI IMPARATO FRANCESCO & C. S.A.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A. BAIAMONTI 4, presso lo studio dell’avvocato RENATO AMATO, rappresentato e difeso dall’avvocato SABINO ANTONINO SARNO;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– resistente –
avverso la sentenza n. 2361/2016 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di NAPOLI, depositata il 09/03/2016.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/03/2023 dal Consigliere GIACOMO MARIA STALLA;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale MAURO VITIELLO, il quale chiede che la Corte di Cassazione voglia rigettare il ricorso.
Fatti di causa e ragioni della decisione.
§ 1.1 Francesco Imparato ha proposto un motivo di ricorso per la cassazione della sentenza n. 2361/16 con la quale la Commissione Tributaria Regionale della Campania, a conferma della prima decisione, ha ritenuto inammissibile il ricorso da lui proposto contro due avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle Entrate aveva disconosciuto costi non documentati e recuperato l’Iva con riguardo ad altrettanti periodi di imposta.
La Commissione Tributaria Regionale, in particolare, ha osservato che:
• con sentenza 3 gennaio 2006 il Tribunale di Napoli aveva dichiarato il fallimento della Edil Cafim di Imparato Francesco & c. sas, nonché dello stesso Imparato in proprio, quale socio accomandatario;
• in base all’articolo 43 l.fall., nelle controversie riguardanti il fallito sta in giudizio il curatore, solo eccezionalmente individuandosi una legittimazione residua del fallito in caso di inerzia del curatore medesimo;
• nella fattispecie non era ravvisabile alcun disinteresse o inerzia da parte della curatela, la cui rinuncia ad impugnare gli avvisi di accertamento in questione costituiva infatti l’esito “di valutazioni fatte previo parere conforme del giudice delegato”;
• a nulla rilevava che, nel corso del giudizio di primo grado, l’Imparato fosse tornato in bonis a seguito della chiusura del fallimento, posto che la legittimazione ad agire doveva riguardarsi al momento della notificazione degli accertamenti e della proposizione della impugnativa.
§ 1.2 Con l’unico motivo di ricorso l’Imparato deduce – ex art.360, co.1^, nn.3) e 4) cod.proc.civ. – nullità della sentenza e violazione o falsa applicazione degli articoli 24 Cost., 43 l.fall. e 19 d.lgs 546/92, stante l’erronea affermazione di inammissibilità del ricorso introduttivo per difetto di legittimazione, posto che:
• i due avvisi di accertamento impugnati si riferivano ad annualità di imposta (2002 e 2004) antecedenti alla dichiarazione di fallimento (2006), e proprio per questa ragione erano stati notificati (5.5.09) anche a lui medesimo, non incidendo quella dichiarazione sulla sua posizione di soggetto passivo del rapporto obbligatorio d’imposta;
• il curatore gli aveva consegnato (17.6.09) la documentazione contabile relativa agli accertamenti in questione, comunicandogli nell’occasione “che il giudice delegato al fallimento aveva dato parere favorevole alla rinuncia al credito Iva compreso nell’attivo della massa fallimentare”;
• contrariamente a quanto affermato dalla Commissione Tributaria Regionale, e sulla base di quanto più volte affermato dalla S.C. (Cass.nn.6937/02; 14987/00; 3667/97 ed altre), quest’ultima circostanza era irrilevante ad escludere la legittimazione del fallito, dal momento che l’inerzia della curatela, che tale legittimazione fondava, consisteva “nella semplice circostanza dell’omesso esercizio da parte del curatore del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’atto impositivo”, ricorrendo in questa ipotesi l’esigenza di dare attuazione al diritto di difesa di cui all’articolo 24 Cost.;
• nè l’incapacità del fallito poteva essere rilevata dalla Commissione Tributaria d’ufficio, cioè in assenza di eccezione sollevata dal curatore;
• in ogni caso, nel corso del giudizio di primo grado era intervenuta la chiusura del fallimento (8.7.10), con conseguente suo ritorno in bonis;
• nel merito, i due avvisi di accertamento opposti andavano annullati per violazione degli articoli 6, 7, 10 Statuto del Contribuente (l.212/00); dell’articolo 39 co.2 lett. d) bis d.P.R. 600/73 (insussistenza dei presupposti dell’accertamento induttivo); dell’art.32 d.P.R. 600/73 come integrato dall’art.25 l. 28/99 (illegittimo esercizio dei poteri accertativi dell’Ufficio).
§ 1.3 Con ordinanza interlocutoria n. 25373 del 25 agosto 2022 – in esito ad udienza pubblica e senza costituzione in giudizio dell’Agenzia delle Entrate – la Sezione Tributaria di questa Corte rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ex art.374 cod.proc.civ., della questione di massima di particolare importanza, ritenuta suscettibile di ripercussioni anche al di fuori della materia tributaria, riguardante “sia il presupposto della legittimazione straordinaria del contribuente insolvente (se rilevi la mera inerzia del curatore intesa come omesso ricorso alla tutela giurisdizionale, ovvero se occorra accertare se l’inerzia sia o meno frutto di una valutazione ponderata da parte degli organi della procedura concorsuale), sia gli effetti di tale soluzione sulla natura (relativa o assoluta) dell’eccezione di difetto di legittimazione e sulle difese, al riguardo, del contribuente”.
Osservano i giudici remittenti che:
• fatte salve alcune ipotesi specificamente previste dalla legge, il fallito è in linea generale privo della capacità di stare in giudizio nelle controversie concernenti rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, spettando tale capacità solo al curatore ex art.43 l.fall.;
• la giurisprudenza di questa Corte ha tuttavia costantemente affermato che il fallito mantiene legittimazione ad agire, e ad impugnare provvedimenti incidenti sui rapporti patrimoniali appresi al fallimento, nel caso di inerzia degli organi della procedura, e ciò anche con specifico riguardo all’impugnazione di atti impositivi basati su presupposti antecedenti all’apertura della procedura concorsuale (Cass.nn. 26506/21; 9434/14; 2910/09 ed altre);
• il fondamento di questa legittimazione straordinaria viene individuato: – nella persistenza in capo al fallito della qualità di contribuente e nella rilevanza, anche costituzionale, del rapporto tributario (artt.23 e 53 Cost.); – nell’esistenza di un interesse personale alla contestazione della pretesa tributaria per la rilevanza che quest’ultima potrebbe avere in sede penale e comunque ex art.33 l.fall.; – nell’ulteriore interesse a contenere l’entità del passivo in vista della esdebitazione (anche ai fini Iva) dopo la chiusura della procedura; – nella divergenza di questi obiettivi rispetto al disinteresse del curatore nei confronti di crediti concorsuali destinati a non trovare capienza nell’attivo fallimentare;
• dal riconoscimento della legittimazione straordinaria del contribuente dichiarato fallito discendono poi, sempre in base alla giurisprudenza di legittimità, vari corollari quali: – la rilevabilità del difetto di questa legittimazione da parte del solo curatore (eccezione relativa) che non sia rimasto inerte ed abbia adito l’autorità giudiziaria (ad esempio intervenendo nel giudizio o proponendo l’impugnazione) nell’interesse preminente della massa (Cass.nn.17240/22, 21896/21, 13991/17, 614/16 ed altre); – la conseguente insussistenza di un onere in capo al contribuente fallito di dimostrare in giudizio il proprio interesse ad agire, essendo quest’ultimo insito nell’inerzia degli organi della procedura la quale, in questa ottica, “rileva per il semplice fatto che il curatore non abbia fatto ricorso tout court alla tutela giurisdizionale”; – la non integrazione dello stato di inerzia quando il curatore che abbia originariamente introdotto il giudizio, si astenga poi dall’ulteriormente coltivarlo proponendo l’impugnazione nei gradi successivi, con la conseguenza che, in questo caso, il difetto di legittimazione del fallito diventa assoluto, così da poter-dover essere rilevato anche d’ufficio dal giudice (Cass.nn.5571/11; 31313/18 ed altre);
• più recentemente si è però formato un indirizzo giurisprudenziale volto ad escludere lo stato di inerzia ogniqualvolta vi sia stata una espressa valutazione da parte del curatore di non intraprendere la tutela giurisdizionale avverso l’atto impositivo, ovvero di preventivamente rinunciarvi per la ritenuta non convenienza o inutilità, per la massa dei creditori, dell’iniziativa giudiziaria (tra le più recenti, Cass.nn. 36894/21; 34529/21; 28973/21; 13800/21; 5953/21; 4105/20 ed altre);
• si tratta di un indirizzo, pertinente al caso di specie, in base al quale l’inerzia “non rileva per il solo fatto che il curatore non abbia fatto ricorso alla tutela giurisdizionale, ma solo se il mancato ricorso alla tutela giurisdizionale sia stato causato, a sua volta, da un totale disinteresse all’azione, circostanza che non sussisterebbe in caso di valutazione ponderata degli organi della procedura di non impugnare l’atto impositivo”, con la conseguenza che in questa ipotesi di inerzia sarebbe onere del contribuente fallito dimostrare di volta in volta la propria legittimazione processuale, il cui difetto sarebbe esposto ad eccezione di tipo assoluto così da poter essere rilevato anche d’ufficio dal giudice;
• posto che, di norma, il curatore diligente, operando nell’interesse della massa, non rimane mai propriamente inerte, ma valuta ‘sempre’ se proporre o meno l’azione giudiziaria, spesso sottoponendo al visto del giudice delegato anche l’opzione di non agire, l’inerzia legittimante in via eccezionale l’azione del fallito residuerebbe, in pratica, nella sola ipotesi di disattenzione o dimenticanza, in modo tale che verrebbero di fatto ad avvantaggiarsi i contribuenti falliti che si pongano in relazione con curatori ‘disattenti’, rispetto a quelli che abbiano a che fare con curatori ‘virtuosi’.
§ 1.4 Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso, osservando che:
• in punto legittimazione vicaria del fallito, le pur indubbie peculiarità (tanto di diritto sostanziale quanto di diritto processuale) del rapporto obbligatorio erariale, non scevre di risvolti pubblicistici e di conseguenze anche personali, non sono tali da indurre a disattendere l’indirizzo di legittimità secondo cui non vi è inerzia ogniqualvolta gli organi della procedura valutino di non agire;
• in punto rilevabilità della carenza di legittimazione, la soluzione, diversamente da quanto prevalentemente affermato nella giurisprudenza, dovrebbe individuarsi nell’affermazione generalizzata del carattere assoluto dell’eccezione: “una volta affermato che la legittimazione processuale vicaria del contribuente fallito sia condizionata alla natura non meditata dell’inerzia processuale della curatela, la mancanza di tale presupposto può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice sia quando il fallito non alleghi l’esistenza di un’inerzia non deliberata, sia ove il giudice abbia comunque evidenza della carenza del presupposto (così Cass.SSUU n. 27346/09, n. 7200/98), in coerenza con il principio generale secondo cui la legittimazione ad agire integra una condizione dell’azione, si fonda sulle prospettazioni ed allegazioni della domanda ed il relativo difetto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado, fatti salvi i limiti del giudicato (per tutte, Cass.n. 28 ottobre 2015 n. 21925)”.
§ 1.5 Chiamata all’udienza pubblica odierna, la causa è stata trattata in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dall’art. 23, comma 8-bis, del decreto-legge n. 137 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020 (e proroghe successive), senza l’intervento in presenza fisica del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.
§ 2.1 Stabilisce l’art. 43 l.fall. che: “(Rapporti processuali). Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore.
Il fallito puo’ intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali puo’ dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se l’intervento e’ previsto dalla legge.
L’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo. (…)”.
Per quanto non applicabile alla presente controversia, non è inutile osservare come la stessa formulazione si ritrovi – con ciò palesandosi la permanente attualità della questione – anche nell’art. 143 del d.lgs. 14/2019 (Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza).
Si tratta di una previsione correlata alla perdita, da parte del fallito, del potere di disposizione dei beni e dei rapporti patrimoniali appresi al fallimento (art.42 l.fall.) e direttamente incidente sulla sua capacità di stare in giudizio; essa si pone come applicazione in ambito concorsuale della regola generale di cui all’art. 75 cod.proc.civ., per cui sono capaci di stare in giudizio solo “le persone che hanno il libero esercizio dei diritti” che in esso si fanno valere, mentre quelle persone che tale libero esercizio non hanno non possono stare in giudizio se non rappresentate, assistite o autorizzate “secondo le norme che regolano la loro capacità”.
Ora, siccome l’effetto di spossessamento non è totale – ammettendosi che esso non operi con riguardo alle posizioni di natura strettamente personale del debitore ed a quelle non apprese al concorso perché ritenute rispetto a questo ininfluenti e prive di interesse – alla stessa maniera neppure l’incapacità processuale del fallito, come sancita dall’art. 43 cit., è priva di eccezioni.
Per quanto questo aspetto non trovi esplicita previsione nella lettera della norma – salvo (co. 2^) che per l’ipotesi di intervento specificamente consentito dalla legge, ovvero per i giudizi dai quali possa dipendere una sua imputazione per il reato di bancarotta – dottrina e giurisprudenza sono unanimi nell’affermare che il fallito mantiene la capacità processuale con riguardo alle posizioni estranee agli interessi ed alle funzioni del concorso, come appunto quelle di natura strettamente personale o comunque non incidenti sulla sorte dei creditori.
E questa capacità residuale trova argomento implicito a contrario nella lettera della legge, là dove l’art.43 stabilisce sì che in giudizio, al posto del fallito, stia il curatore, ma alla doppia condizione che si tratti di controversie “relative a rapporti di diritto patrimoniale” e che questi rapporti si ritrovino “compresi nel fallimento”.
Così viene ammesso che il fallito possa agire in giudizio anche riguardo a rapporti patrimoniali se non compresi, in linea di diritto (art.46 l.fall.) o di fatto, nel fallimento.
Nella sua marginalità rispetto alla regola generale, il fondamento della capacità processuale del fallito anche in ordine a questi rapporti viene individuato, in maniera altrettanto unanime, nella posizione di ‘inerzia’ che il curatore eventualmente assuma rispetto ad essi.
Nozione, quest’ultima, in realtà nemmeno essa contemplata dall’art.43, eppure a questa disposizione non estranea, quantomeno nella considerazione che la mancata attivazione del curatore nella tutela giudiziaria di quei rapporti ben può fondare la loro ritenuta indifferenza rispetto agli scopi della procedura concorsuale e, in definitiva, la loro sostanziale non-apprensione alle ragioni della massa.
Si rinvengono costantemente affermazioni giurisprudenziali di questo tipo:
• la eccezionale legittimazione processuale suppletiva del fallito sussiste nel caso di inerzia dell’amministrazione fallimentare, ma questa legittimazione “è ammissibile solo quando l’inerzia sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando consegua ad una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia” (Cass., Sez. 2^, n. 15369/05);
• in tema di legittimazione processuale suppletiva del fallito per il caso di disinteresse od inerzia degli organi fallimentari, “la negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia è sufficiente ad escludere detta legittimazione, allorquando venga espressa con riguardo ad una controversia della quale il fallimento sia stato parte, poiché, in tal caso, è inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito, mentre non lo è allorquando si tratti di una controversia alla quale il fallimento sia rimasto del tutto estraneo, ed in particolare quando alla negativa valutazione si accompagni l’espresso riconoscimento della facoltà del fallito di provvedere in proprio e con suo onere” (Cass. Sez.2^, n. 4448/12);
• alla regola di cui all’art. 43 l.fall. fanno eccezione soltanto l’ipotesi in cui il fallito agisca per la tutela di diritti strettamente personali e quella in cui, pur trattandosi di rapporti patrimoniali, l’amministrazione fallimentare sia rimasta inerte, manifestando indifferenza nei confronti del giudizio: “situazione che non si verifica ove l’inerzia degli organi fallimentari costituisca il risultato di una ponderata valutazione negativa” (Cass. Sez.1^, n. 24159/13);
• “(…) se, però, l’amministrazione fallimentare rimane inerte, il fallito conserva, in via eccezionale, la legittimazione ad agire per la tutela dei suoi diritti patrimoniali, sempre che l’inerzia del curatore sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando consegua ad una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia” (Cass.Sez. 6^ – 1^ n. 13814/16, così, Cass. Sez. 1^ n. 2626/18);
• la legittimazione del fallito è riconosciuta nel caso di inerzia della curatela, ma non già quando “vi sia stata una valutazione negativa del giudice delegato sulla utilità della proposizione del giudizio o del gravame (…) Risulta, infatti, chiara la posizione del giudice delegato al riguardo, che ha specificamente escluso ogni interesse del fallimento all’impugnazione, così valutando negativamente l’utilità del giudizio per il fallimento. Di qui la carenza di legittimazione dell’odierno ricorrente, rilevabile anche d’ufficio (Cass. SU n. 27346 del 2009, seguita da Cass. n. 5571 del 2011 e 24159 del 2013) non potendo sussistere sovrapposizione o contrapposizione di ruoli tra fallimento e fallito” (Cass.Sez.2^ n. 20163/15).
Dal che si evince come il concetto di inerzia – per quanto etimologicamente e semanticamente chiaro ed univoco nell’indicare una condizione di assenza di azione, cioè di staticità, di immobilità e di quiete obiettivamente rilevabile – si presti in realtà ad importanti distinguo se trasposto nel mondo giuridico e processuale.
Infatti il termine in questione nulla dice, né si propone di dire, in ordine alle cause ed alle ragioni della inazione (consapevoli e volontarie o no) da parte del soggetto (agente mancato) al quale l’azione competerebbe là dove, nell’applicazione giurisprudenziale dell’art.43 l.fall., sono invece emerse sfumature dirimenti, volte a definire e discernere gli esatti contorni di questo vuoto di azione e delle conseguenze che ne possono derivare sul processo.
§ 2.2 Ciò anche, ed in particolare, con riguardo all’ambito tributario, nel quale il problema risente delle speciali connessioni tra esigenze del concorso, natura dell’obbligo fiscale e carattere impugnatorio-decadenziale del giudizio avverso l’atto impositivo.
Come anche segnala l’ordinanza di rimessione, l’indirizzo di legittimità in materia non registra sul punto esiti perfettamente sovrapponibili.
Varie pronunce di legittimità hanno ammesso de plano il fallito ad agire in giudizio per il solo fatto, appunto obiettivamente rilevato, che il curatore si fosse astenuto dal farlo; più esattamente, si tratta di decisioni che sembrano dare per scontato che la capacità processuale del fallito discenda da una condizione di inerzia pura e semplice del curatore, senza necessità di indagarne le cause, le giustificazioni o gli scopi. In questa ottica, l’inattività del curatore costituisce quindi elemento necessario e sufficiente a che la tutela giudiziaria venga esperita direttamente e personalmente dal fallito, con il solo limite (v. Cass. Sez.5^, n. 8990/07; Cass. Sez. 3^ n. 11117/13) che si tratti di inattività originaria, perché mai si ammette, neppure in base a questo orientamento, che il fallito possa impugnare la sentenza nell’inerzia del curatore quando questi, pur prestando acquiescenza, si sia tuttavia attivato nel precedente grado di giudizio.
Si è così stabilito che:
• in materia di contenzioso tributario, quando al curatore del fallimento sia notificato un accertamento con riguardo ai redditi dichiarati dall’imprenditore fallito e l’ufficio fallimentare si disinteressi del rapporto tributario in contestazione, “si deve ritenere – giusta l’interpretazione sistematica degli artt. 43 legge fall. e 16 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, conforme al precetto costituzionale (art. 24, primo e secondo comma, Cost.)
– che il fallito conserva la capacità processuale in ordine alle situazioni giuridiche non comprese di fatto nella massa fallimentare, con la conseguenza che il termine per impugnare decorre solo dal momento in cui l’accertamento stesso sia portato a sua conoscenza” (Cass. Sez.1^, n. 3094/95);
• l’accertamento tributario in materia di I.V.A., ove inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d’imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, “deve essere notificato non solo al curatore – in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare, o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione delle attività e dei beni acquisiti al fallimento – ma anche al contribuente, il quale non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario e resta esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, che conseguono alla “definitività” dell’atto impositivo. Da ciò deriva che il fallito, nell’inerzia degli organi fallimentari – ravvisabile, ad es., nell’omesso esercizio, da parte del curatore, del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’atto impositivo -, è eccezionalmente abilitato ad esercitare egli stesso tale tutela alla luce dell’interpretazione sistematica del combinato disposto degli art. 43 della legge fallimentare e dell’art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972, conforme ai principi, costituzionalmente garantiti (art. 24, comma primo e secondo, Cost.) del diritto alla tutela giurisdizionale ed alla difesa” (Cass. Sez. 5^ n. 4235/06; così Cass. Sez.5^, n. 5671/06; Cass. Sez.5^, n.9434/14).
Altre sentenze, per vero più recenti, hanno invece ritenuto – secondo un approccio concettuale non dissimile da quello maturato nella materia extratributaria – di dover arricchire la fattispecie dell’inerzia di un elemento ulteriore, implicante sempre una più o meno approfondita indagine sulle ragioni che hanno indotto il curatore ad astenersi dal giudizio; nel senso che in tanto il fallito può agire personalmente, in quanto l’inerzia del curatore non sia consapevole e voluta, cioè frutto di una mirata ponderazione e di una specifica valutazione di opportunità e convenienza per la massa.
L’idea di fondo che sostiene quest’ultimo indirizzo (non è inerte, ex art. 43 l.fall, il curatore che decida di esserlo) muove dalla osservazione che anche una condotta abdicativa e di astensione, appunto se consapevole e voluta, può equivalere ad un atto di disposizione e di amministrazione (seppure in negativo) del diritto appreso al concorso cosicché, a ben vedere, in tal caso neppure potrebbe ontologicamente ravvisarsi una vera e propria inerzia del curatore, quanto una valutazione discrezionale e deliberata di abbandono, in base alla quale la massa dei creditori trova più vantaggio e convenienza nel non impugnare l’atto, piuttosto che nell’impugnarlo.
Si è così, ad esempio, stabilito che:
• la dichiarazione di fallimento, pur non sottraendo al fallito la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, comporta, a norma dell’art. 43 l.fall., la perdita della sua capacità di stare in giudizio nelle relative controversie, spettando la legittimazione processuale esclusivamente al curatore; se, però, l’amministrazione fallimentare rimane inerte, il fallito conserva, in via eccezionale, la legittimazione ad agire per la tutela dei suoi diritti patrimoniali, “sempre che l’inerzia del curatore sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando consegua ad una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia” (Cass.n. Sez. 5^ n. 34529/21, con richiamo a Cass.Sez.5^ n. 13814/16, ord. ed a Cass. Sez.5^ n. 8132/18, ord.);
• “(…) “Nel caso di specie, il giudice delegato aveva valutato la non convenienza ad opporre gli avvisi di accertamento e quindi non è ravvisabile inerzia degli organi della procedura intesa come ‘totale disinteresse’. E’ vero che il contribuente era anche socio della fallita (srl, nde), ma i suoi interessi personali sono strettamente connessi e conseguenti alla valutazione degli avvisi di accertamento relativi alla società tal che, se si ritenesse sussistente la sua legittimazione, si determinerebbe una confliggente sovrapposizione dei suoi interessi personali con quelli della procedura“ (Cass.Sez. 5^ n. 13800/21 ord.).
Attraverso quello che non sembra potersi definire tanto un conclamato contrasto di indirizzi, quanto un percorso di progressiva definizione della fattispecie legittimante dell’inerzia mediante l’introduzione in essa di un quid pluris, si assiste in tal modo – nel panorama giurisprudenziale – al passaggio, non del tutto avvertito, da una nozione di inerzia semplice o essenziale ad una nozione di inerzia consapevole o qualificata o vestita che dir si voglia.
La prima libera la capacità sostitutiva del fallito, la seconda la preclude.
Varie sono le conseguenze pratiche sortite sul processo a seconda dell’opzione prescelta, posto che mentre la tesi dell’inerzia semplice esonera il fallito che agisce dall’onere di allegare qualcosa di più e di diverso dal solo fatto oggettivo della inattività del curatore comunque determinatasi, la tesi dell’inerzia qualificata ostativa presuppone l’assenza di una valutazione negativa e ponderata di astensione da parte del curatore; il che suscita un accertamento fattuale, in sede di verifica preliminare dei presupposti processuali, la cui complessità e potenziale vaghezza possono risultare tanto maggiori quanto più si ammetta che questa valutazione negativa ponderata possa desumersi anche per implicito o per facta concludentia, cioè in assenza di un formale provvedimento del giudice delegato (del resto previsto dall’art. 25 n.6) l.fall. per stare in giudizio, non anche per non starci) che autorizzi il curatore all’astensione.
Inoltre, come anche osservato dai giudici remittenti, se ci si muova dal presupposto che il curatore adempia con diligenza la pubblica funzione che gli è demandata e che, pertanto, valuti sempre attentamente il da farsi nel perseguimento dell’interesse dei creditori e, in generale, degli scopi della procedura concorsuale, l’esistenza di una scelta consapevole e responsabile di inazione sarebbe sempre sostenibile, fatta eccezione soltanto per le marginali situazioni di ignoranza del rapporto o del processo, ovvero nelle quali il curatore resti inattivo per mera negligenza o disavventura.
Il pur naturale richiamo ad una fattispecie tipica di inerzia, quella di trascurato esercizio del diritto o dell’azione ex art. 2900 cod.civ., non apporta un contributo decisivo all’interpretazione dell’art. 43 l.fall.. Con riguardo all’azione in parola, la giurisprudenza è costante nell’escludere l’inerzia ogniqualvolta “il debitore abbia posto in essere comportamenti idonei e sufficienti a far ritenere utilmente espressa la sua volontà in ordine alla gestione del rapporto” (Cass. Sez. 2^ nn. 34940/22, 5805/12 ed altre), con ciò negandosi efficacia legittimante al contegno omissivo del debitore titolare del diritto non coltivato, quando questo mancato esercizio derivi appunto non da trascuratezza e disinteresse, ma da una precisa e deliberata opzione gestoria, risultante anche da comportamenti concludenti, di non-esercizio. E tuttavia, la fattispecie qui in esame (impugnativa di un atto impositivo dell’erario) si pone su un piano del tutto differente, sia da quello strettamente patrimoniale-privatistico intercorrente tra debitore e creditore (posto che il fallito che agisce sostitutivamente non è creditore del curatore inerte), sia da quello dell’esercizio processuale eccezionalmente surrogatorio di un diritto altrui (dal momento che il rapporto tributario non trapassa in capo al curatore, ma resta del fallito il quale, agendo, fa valere un diritto di cui ha mantenuto la titolarità).
Neppure sembra che sulla soluzione del problema possa interferire la regola di automatica interruzione del processo per effetto dell’apertura del fallimento (art. 43, co. 3^, come introdotto dalla legge n. 5 del 2006). Non solo perché questa disposizione non può che riguardare i soli processi pendenti al momento della sentenza dichiarativa, ma anche perché una cosa è prevedere l’interruzione automatica del processo, e tutt’altra è stabilire se ed a quali condizioni tra i soggetti abilitati a riassumerlo vi possa essere, oltre al curatore, anche il fallito. Il che ci riporta esattamente al cuore della questione.
§ 2.3 La giurisprudenza della Sezione Tributaria di questa Corte è costante nell’affermare che l’avviso di accertamento per debiti fiscali i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento va notificato, non solo al curatore, ma anche al contribuente dichiarato fallito; si precisa anzi che, nei confronti di quest’ultimo, l’avviso non diventa definitivo fino ad avvenuta notifica, tanto che se ne ammette l’impugnabilità da parte del fallito, ex artt.19 e 21 d.lgs. 546/92, con decorrenza del relativo termine appunto dalla presa di conoscenza, quand’anche questo stesso termine risulti già decorso in capo al curatore: v. Cass. Sez.5^ nn. 5392/16; 8132/18 cit.; 2910/09; 29642/08; 16816/14 ed altre.
Ha osservato Cass. Sez.5^ n. 34529/21 cit. che: “in linea di principio, il fallito conserva la qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, pur essendo condizionata la sua impugnazione all’inerzia della curatela, sicché, in caso di omessa notifica allo stesso dell’avviso di accertamento per debiti tributari anteriori alla dichiarazione di fallimento, la pretesa tributaria è inefficace nei suoi confronti e l’atto impositivo non diventa definitivo, tenuto conto che, peraltro, costui non è parte necessaria del giudizio d’impugnazione instaurato dal curatore”, ciò in accordo con: Cass., Sez. 5^ n. 5671/06; Cass., Sez. 5^, n. 6393/06; Cass., Sez. 5^. n. 9434/14; Cass., Sez. 5^ n. 5392/16 cit.; Cass., Sez. 5^ n. 8132/18 cit.; Cass., Sez. 5^ n. 3393/20; Cass., Sez. 6^- 5^, n. 4105/20; Cass., Sez. 6^ – 5^ n. 9953/21; Cass. Sez.6^-5^ n. 28973/21, ord..
Si è anche precisato che il curatore non è semplicemente gravato da un onere di informazione, ma senz’altro obbligato a portare l’avviso di accertamento a conoscenza del fallito (Cass. Sez.1^ n. 3667/97).
Viene fatta salva solo l’ipotesi – perché antitetica ed incompatibile con quella dell’inerzia – in cui il curatore impugni egli stesso l’atto impositivo, posto che in questa evenienza deve trovare normale vigore la regola generale ed invalicabile di cui all’art. 43 l.fall. per la quale in caso di fallimento sta in giudizio il curatore, tanto da non constare “alcun residuo interesse del fallito a dolersi dell’omessa notifica dell’avviso di accertamento al fine di contestarlo” (Cass. Sez.5^ n. 26506/21).
Orbene, questo consolidato indirizzo, volto a garantire che il contribuente dichiarato fallito sia posto a conoscenza – non per generica informativa ma in funzione specifica della sua impugnazione in caso di inerzia del curatore – della pretesa erariale nei suoi confronti (indipendentemente dal fatto che quest’ultima esprima una volontà di prelievo piuttosto che un diniego di rimborso) si fa carico della specialità dell’obbligazione tributaria e della peculiarità del rapporto giuridico d’imposta in quanto modellato su uno statuto suo proprio, non riscontrabile nelle altre obbligazioni e negli altri rapporti di diritto privato attratti al concorso.
E questa specialità non può non influire – nel senso della necessità e sufficienza dell’inerzia che abbiamo definito ‘semplice’ – sulla soluzione del problema posto dall’ordinanza di rimessione.
Si tratta di una specialità che trova radice nel carattere pubblicistico-costituzionale, imperativo, indisponibile dell’obbligazione tributaria, la quale trova diretta matrice nella legge secondo parametri solidaristici di capacità contributiva (artt.23 e 53 Cost.). Il che si riflette, tra il resto, sulle modalità di accertamento dell’obbligazione tributaria (demandata ad un giudice diverso da quello ordinario) e di sua attuazione in caso di inadempimento (attraverso un regime di riscossione che si discosta da quello ordinario dell’espropriazione forzata), sicchè non è possibile una piena equiparazione tra l’inadempimento delle obbligazioni di diritto privato e quello delle obbligazioni tributarie, “oggetto, per la particolarità dei presupposti e dei fini, di disciplina diversa da quella civilistica” (C.Cost. sent. nn. 157/1996, 291/1997, 90/2018).
Nell’applicazione dell’art. 6 CEDU anche la Corte di Strasburgo (già con la decisione Ferrazzini c/Italia 12.7.2001 C- 44759/98) ha rimarcato il fatto che “la materia fiscale rientra ancora nell’ambito delle prerogative del potere di imperio, poiché resta predominante la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività”, con ciò ponendo anch’essa il fulcro dell’obbligo tributario in una relazione coattiva che si articola su un tipico binomio non paritetico ma di potestà-soggezione.
Come si è anticipato, la peculiarità dell’obbligazione tributaria emerge non solo sul piano della disciplina sostanziale, nella quale l’applicazione delle previsioni del codice civile può avvenire solo in mancanza di prescrizioni tributarie specifiche e con i limiti generali di compatibilità ed analogia, ma anche su quello dell’accertamento giurisdizionale. Accertamento che, sottratto alla vis attractiva del foro fallimentare, è demandato in via esclusiva al giudice tributario, tanto che il credito dall’ente impositore insinuato al passivo fallimentare sulla base di un avviso non definitivo – se contestato – deve essere ammesso dal giudice delegato con riserva fin visto l’esito del contenzioso tributario (da ultimo, Cass. Sez. 1^ n. 37006/22); ma appunto perché credito demandato alla verifica di un giudice diverso da quello fallimentare, una volta che il credito impositivo sia divenuto definitivo per mancata impugnazione dell’avviso da parte della curatela e così ammesso al concorso, nessun altro margine di contestazione potrebbe residuare in capo al contribuente fallito (non legittimato ad impugnare i crediti ammessi ex art.98 l.fall.), neppure entro i ristrettissimi ambiti del contraddittorio facoltativo in sede di verifica dei crediti ex art. 95, pen.co., l.fall.. E la definitività dell’atto impositivo non impugnato nel termine decadenziale produrrebbe tutti i suoi effetti, nei confronti del debitore, anche dopo la chiusura del fallimento.
Tutti questi aspetti, unitariamente riconducibili al carattere pubblicistico dell’obbligazione tributaria, danno ragione del fatto che il rapporto giuridico d’imposta basato su presupposti antecedenti alla sentenza dichiarativa – fermi gli obblighi formali e dichiarativi gravanti sul curatore – permane in capo al debitore anche in costanza della procedura fallimentare e pur dopo la sua chiusura, potendo esso condizionare (a seconda dell’esistenza ed entità dell’esposizione debitoria tributaria e di tutte le circostanze che la caratterizzano) il futuro rapporto con l’Amministrazione Finanziaria quanto, ad esempio, a valutazione della personalità del contribuente ed a sua affidabilità fiscale complessiva ex art.7 d.lgs 472/97, così come ad an e quantum delle sanzioni pecuniarie amministrative applicabili. E, più in generale, il concreto atteggiarsi del rapporto giuridico d’imposta inadempiuto può sortire effetto sulle stesse prospettive di esdebitazione ex art. 142 l.fall. (disposizione che, al pari dell’art.278 u. co. CCII, espressamente esclude da essa le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario non accessorie a debiti estinti) e di ripresa una volta che il debitore sia tornato in bonis.
E proprio l’aspetto sanzionatorio rende particolarmente eclatante il divario di regime tra obbligazione tributaria ed obbligazione di diritto comune e, con ciò, la diversa intensità delle ragioni di difesa che vanno riconosciute al debitore-contribuente anche se in stato di fallimento.
Nel caso in cui l’inadempimento tributario possa correlarsi – in tema di imposte sui redditi e di Iva – ad un reato ai sensi del d.lgs. 74/2000, il fallito deve essere posto in grado di impugnare l’atto impositivo quali che siano le ragioni che hanno indotto il curatore a non farlo.
Se è vero che è ormai da tempo estraneo all’Ordinamento ogni meccanismo di pregiudizialità tributaria (definitivamente espunto con la legge n.516/82), vigendo oggi l’opposto principio di autonomia e separatezza (sostanziale e processuale) degli accertamenti giurisdizionali rispettivamente demandati al giudice tributario ed al giudice penale (finanche con possibilità di diverse quantificazioni del credito erariale), resta tuttavia indubitabile l’influenza che l’accertamento in sede amministrativa-tributaria può sortire sull’indagine penale, sia nel convalidare o meno la notitia criminis in presenza di ritenuto superamento delle soglie legali di punibilità, sia nel costituire quest’ultimo accertamento un elemento, non vincolante, ma comunque probatoriamente utilizzabile dalle parti e dal giudice nel procedimento penale che ne sia scaturito. Con ciò riscontrandosi una logica di tutela non distante da quella accordata al fallito dallo stesso art. 43 l.fall. con riguardo ai giudizi dai quali possa dipendere una sua imputazione per bancarotta.
Altrettanto però è a dirsi nel caso in cui l’inadempimento tributario sia presidiato dall’applicazione di sanzioni pecuniarie di natura non penale ma amministrativa, dovendosi in proposito considerare la transizione impressa in materia dal d.lgs.472/97 (di adeguamento dell’ambito tributario ai principi generali di cui alla legge 689/81), con passaggio da una concezione patrimoniale-risarcitoria della sanzione (già propria della legge n. 4 del 1929), ad una di natura più marcatamente personale-afflittiva. Da qui il richiamo di legge ad istituti tipici del regime penale, quanto a principio di legalità e favor rei, ad imputabilità e colpevolezza, a cause di non punibilità, a continuazione, a recidiva, a concorso soggettivo nell’illecito, a non trasmissibilità agli eredi.
Non è questa la sede per rievocare l’articolato dibattito ed il fitto dialogo tra le Corti che, a vari fini ma in particolare nell’esaminare la compatibilità di un regime di ‘doppio binario’ con il divieto di bis in idem di cui al diritto europeo (sia ex art.4 Prot.7 CEDU, sia ex art. 50 Carta di Nizza), ha affrontato il problema della natura della disciplina sanzionatoria interna in materia tributaria per quanto concerne le sovrattasse e le maggiorazioni d’imposta: se amministrativa ovvero ‘sostanzialmente penale’ secondo i noti criteri Engel elaborati dalla CEDU.
Ai presenti fini si ritiene sufficiente ricordare quanto recentemente osservato – seppure in diverso contesto – da questa Corte in ordine al fatto che il vigente apparato sanzionatorio tributario, proprio per il recepimento di quegli istituti e di quei principi, risponda in ogni caso ad ‘uno stampo di tipo penalistico’ (v. Cass.SSUU civ. n. 13145/22).
E questa sola considerazione, unita alla certa finalità afflittivo-deterrente delle sanzioni in esame indipendentemente dalla natura giuridica sostanziale che si voglia in esse riconoscere, induce – anche ed in primo luogo sulla scorta di un’interpretazione dell’art. 43 l.fall. costituzionalmente orientata ex art.24 Cost. – ad ammettere il contribuente fallito ad impugnare ‘in proprio’ l’atto impositivo ritenuto illegittimo nel caso in cui a tanto non provveda, per qualsiasi ragione, il curatore.
Già Cass.Sez.5^ n. 2910/09, nel richiamare l’indirizzo interpretativo della legittimazione eccezionale del fallito per il solo fatto dell’inerzia del curatore, ebbe, in motivazione, ad osservare quanto segue: “Secondo i giudici di appello gli odierni ricorrenti non avrebbero recuperato la capacità processuale perché mancherebbe il presupposto della inerzia del curatore, il quale invece, nella specie si era attivato, benché senza successo, per contrastare la pretesa erariale.
Ritiene il collegio che tale assunto non sia condivisibile, perché nei fatti gli odierni ricorrenti non hanno potuto agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e nessuno lo ha fatto in loro vece. Per cui, l’interpretazione recepita dalla CTR, ove mai fosse corretta, sarebbe certamente in contrasto con il dettato costituzionale, laddove all’art. 24, viene garantito ‘a tutto tondo’ il diritto di difesa”; si aggiunge poi che: “È evidente che la decisione del giudice delegato sulla opportunità di autorizzare l’azione nei confronti del fisco (la cui motivazione, nella specie, non è nota) è basata su considerazioni che possono anche prescindere dai profili che riguardano personalmente il fallito (che non sono soltanto quelle previste dall’art. 43, comma 2, della risalente L. Fall.) e, quindi, non è un filtro che può garantire, in linea di principio, il completo esercizio del diritto di difesa”.
Non sfugge, sul piano pratico, che l’opposta soluzione (quella che subordina l’impugnazione del fallito all’assenza di un’inerzia qualificata, perché consapevole e deliberata) finirebbe con il creare anche un disequilibrio eccessivo in tutti quei casi in cui l’inerzia del curatore non si giustifica tanto con un convincimento di effettiva e vagliata infondatezza, in fatto o diritto, della contestazione della pretesa tributaria, quanto in una prognosi economica del tutto contingente di sua certa o verosimile incapienza (tenuto conto dei privilegi di legge de cui è assistita) in sede di riparto. In modo tale che oggettivamente non convenga impegnare la massa nei costi, nei tempi e nell’alea di un contenzioso extra moenia sostanzialmente ininfluente per le sorti della procedura.
Né il sacrificio del diritto di difesa del contribuente fallito potrebbe trovare bilanciamento e giustificazione nell’esigenza di apprestare preminente protezione ai creditori concorrenti per il caso di esito infausto del giudizio, posto che il giudicato sfavorevole in ipotesi formatosi sull’impugnazione proposta dal fallito non sarebbe ad essi opponibile, fermo restando il vantaggio di un giudicato favorevole di annullamento totale o parziale dell’atto impositivo. Ricorre sul punto quanto stabilito da Cass. Sez. 1^, n. 12854/18, secondo cui: “il contribuente fallito conserva eccezionalmente la legittimazione a impugnare l’ accertamento tributario o a coltivare l’ impugnazione in precedenza proposta nell’ inerzia degli organi fallimentari; sicché il permanere di questa legittimazione, operante sotto il controllo del curatore secondo una logica di interesse della massa dei creditori, fa sì che quest’ ultimo, al fine di salvaguardare il medesimo interesse collettivo, possa avvalersi dell’ esito favorevole dell’ azione promossa dal solo contribuente fallito, eccependo il relativo giudicato, onde limitare nel quantum la pretesa del concessionario insinuatosi al passivo per il recupero dell’ intero credito tributario contestato. Pertanto, ove il curatore manifesti il suo interesse a estendere al fallimento l’ operatività del giudicato favorevole ottenuto dal fallito a seguito della sua iniziativa individuale, il giudice del merito dovrà ammettere al passivo il credito tributario nei limiti della minor somma acclarata in via definitiva in sede contenziosa ovvero, in caso di mancata formazione del giudicato, ammettere l’ intera somma con riserva, da sciogliere poi all’ esito della lite“.
In definitiva, lo stesso obiettivo del consolidato indirizzo di legittimità, su ricordato, circa la necessaria notificazione dell’avviso (anche) al contribuente fallito, in modo tale da porre quest’ultimo in condizione di impugnarlo, verrebbe non poco svilito se tale impugnazione venisse poi impedita da una diversa ed acquiescente valutazione degli organi della procedura; e ciò, lo si è visto, senza che una simile compressione del diritto di difesa trovi ragionevole compensazione nell’interesse del concorso.
§ 2.4 Quanto al regime di rilevabilità del difetto di capacità processuale del fallito – questione pure posta dall’ordinanza di rimessione – si riscontrano nella giurisprudenza di legittimità (come anche in dottrina) non convergenti orientamenti.
In base ad un primo indirizzo, si verterebbe di un difetto di legittimazione non assoluto ma relativo, in modo tale che esso potrebbe essere rilevato solo su eccezione della curatela nell’interesse della massa dei creditori, dunque non dalla controparte né tantomeno dal giudice d’ufficio. Alla radice di questo convincimento vi è un allineamento del dato processuale a quello sostanziale, nel senso che così come il fallito – che resta titolare del rapporto giuridico e del patrimonio affidato ex art. 31 l.fall. alla disponibilità ed all’amministrazione del curatore – può porre validamente in essere atti negoziali e pagamenti anche successivamente alla dichiarazione di fallimento, ferma restando la loro inefficacia-inopponibilità rispetto ai creditori (art. 44 l.fall.), altrettanto dovrebbe dirsi con riguardo all’attività processuale, la quale sarebbe validamente compiuta, pur in difetto dei requisiti di legittimazione di cui all’articolo 43 l.fall., fino a che il curatore, ritenendone inopportuna l’acquisizione alla massa, questo difetto non eccepisca (v. Cass. Sez. 6^-5^ n. 27277/16 con richiami).
In ragione di un secondo indirizzo, trattandosi di questione che non attiene alla titolarità del diritto ma ad una carenza di capacità o legittimazione attinente ai presupposti processuali ed il cui verificarsi è subordinato alla attivazione del curatore, il relativo vizio avrebbe invece carattere assoluto, così da poter e dover essere rilevato anche d’ufficio dal giudice ogniqualvolta emerga dagli atti di causa l’interesse della curatela per il rapporto dedotto in lite. In presenza di questo palesato interesse (vale a dire, del difetto di un’inerzia obiettivamente intesa) il rapporto litigioso deve ritenersi ex lege acquisito al fallimento, così da rendere “inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito” (Cass. Sez. 2^ n. 31313/18 con richiami) ed il difetto di capacità processuale di quest’ultimo non rientra più nella sola disponibilità del curatore, assumendo piuttosto uno spessore ordinamentale, cioè assoluto (Cass. Sez.5^, n. 21765/15 ed altre).
Tanto più alla luce della soluzione che si è indicata in ordine al presupposto della legittimazione sostitutiva del fallito in ambito tributario (inerzia semplice), si ritiene che debba essere preferita questa seconda interpretazione, del resto già argomentabile da Cass.SSUU n. 27346/09, secondo cui: “in seguito all’apertura della procedura, in relazione ai rapporti patrimoniali in essa compresi, sussiste una legittimazione processuale del fallito e dei soggetti sottoposti a liquidazione coatta amministrativa suppletiva, in deroga alla legittimazione esclusiva degli organi della procedura, in relazione a detti rapporti, nel solo caso d’inattività e disinteresse di questi, mentre ove riguardo al rapporto in questione essi si siano attivati, detta legittimazione suppletiva non sussiste e la sua carenza può essere rilevata d’ufficio“.
Dunque, il solo fatto che il curatore si sia attivato in sede giurisdizionale in relazione al medesimo rapporto patrimoniale dedotto in giudizio dal fallito – sia nel medesimo processo da quest’ultimo intentato, sia in altro separato processo di cui si abbia contezza – denota l’interesse del medesimo per la lite e, con ciò, l’apprensione del rapporto stesso al concorso; il che integra appunto, con il difetto di inerzia e dismissione, il presupposto della regola generale di cui all’articolo 43 l.fall., in base alla quale per questo genere di rapporti “sta in giudizio il curatore” e non altri.
La soluzione non muta – ed anzi, trova in ciò ulteriore conforto di sistema – qualora il giudizio sia stato validamente ed efficacemente intrapreso dal debitore prima della dichiarazione di fallimento, posto che in tal caso il regime previsto dal terzo comma dell’articolo 43 l.fall. impone, come già osservato, l’interruzione automatica e d’ufficio del processo ogniqualvolta si abbia notizia della sentenza dichiarativa, e ciò proprio per la sopravvenuta perdita della capacità processuale della parte dichiarata insolvente; il che dà modo al curatore di valutare l’interesse della massa ad eventualmente riassumere e coltivare il giudizio interrotto, e fermo restando che anche in questo caso – ed alla stessa maniera – in presenza di attivazione della curatela, l’incapacità del fallito a proseguire il giudizio non potrà che essere rilevata d’ufficio.
La conclusione qui accolta – che si affranca dalle criticità derivanti da un troppo stretto parallelismo tra piano sostanziale e piano processuale e, in particolare, dall’estensione a quest’ultimo del regime di inefficacia proprio essenzialmente degli atti negoziali e dei pagamenti ex art. 44 cit. – tanto più si avvalora in ragione delle peculiarità del rapporto tributario e delle modalità del suo accertamento giurisdizionale. Ciò perchè sono evidenziabili nella disciplina processuale di cui al d.lgs. 546/92 tanto un regime tassativo ed a rilievo ufficioso della legittimazione e della capacità di stare in giudizio delle parti del rapporto tributario (artt. 10 segg.), quanto una regola di unitarietà decisionale e di necessaria concentrazione soggettiva ed oggettiva di tutti i procedimenti aventi ad oggetto il medesimo atto impositivo (v. artt. 14 e 29), così da quantomeno sollecitare e favorire l’emersione di quel requisito di interesse mediante attivazione giurisdizionale della curatela che si è detto essere alla base della rilevabilità d’ufficio del difetto di capacità del contribuente fallito.
§ 2.5 Vanno allora affermati i seguenti principi di diritto: – in caso di rapporto d’imposta i cui presupposti si siano formati prima della dichiarazione di fallimento, il contribuente dichiarato fallito a cui sia stato notificato l’atto impositivo lo può impugnare, ex art. 43 l.fall., in caso di astensione del curatore dalla impugnazione, rilevando a tal fine il comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia di questi, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato; – l’insussistenza di uno stato di inerzia del curatore, così inteso, comporta il difetto della capacità processuale del fallito in ordine all’impugnazione dell’atto impositivo e va conseguentemente rilevata anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo.
Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’Imparato, già dichiarato fallito in proprio, ravvisando il suo difetto di legittimazione in conseguenza della mancata inerzia della curatela, la quale aveva rinunciato ad impugnare gli avvisi di accertamento all’esito di specifiche valutazioni fatte di concerto con il giudice delegato.
Questa ratio decidendi, adeguatamente censurata ex art.360, co. 1^ n.3, cod.proc.civ. dall’Imparato con l’unico motivo di ricorso, si pone effettivamente in contrasto con quanto appena stabilito, ed ha portato a dichiarare inammissibile un ricorso che invece tale non era.
Ne segue la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Campania la quale, in diversa composizione, esaminerà nel merito la fattispecie, decidendo anche sulle spese del presente procedimento.
P.Q.M.
La Corte
– accoglie il ricorso;
– cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Campania in diversa composizione.
Così deciso nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili in data
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 25 agosto 2022, n. 25373, per SS.UU, 28 aprile 2023, n. 11287, in tema di fallimento
SS.UU, 28 aprile 2023, n. 11287, in tema di fallimento
In tema di prova testimoniale – SS.UU, 06 aprile 2023, n. 9456
SS.UU, 06 aprile 2023, n. 9456, in tema di prova testimoniale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA
sul ricorso 32822-2019 proposto da:
A.A., nella qualità di madre di B.B., deceduto, elettivamente domiciliata in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato S.C.;
C.C., nella qualità di fratello di B.B., deceduto, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COMANO 95, presso lo studio dell’avvocato G.C., che lo rappresenta e difende, unitamente all’avvocato A.P.;
– ricorrenti –
contro xxx Spa, già (Omissis) s.p.a, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L. BISSOLATI 76, presso lo studio dell’avvocato T.S.G., che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
nonchè contro D.D., E.E., F.F., G.G., H.H., I.I.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 640-2019 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 19/03/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/12/2022 dal Consigliere M.D.M.;
lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale R.F.G., il quale chiede che la Corte accolga il quarto motivo del ricorso.
Svolgimento del processo
1. – D.D., E.E., F.F., G.G. e H.H., in proprio e quali eredi di B.B., hanno convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Catania, (Omissis) Spa , oggi Unipol-Sai Assicurazioni Spa , quale impresa designata per il Fondo di garanzia per le vittime della strada, chiedendone condanna al risarcimento del danno subito in conseguenza di un sinistro stradale in cui aveva perso la vita il loro congiunto.
2. – Secondo la prospettazione degli attori, il ciclomotore condotto da B.B., e con a bordo quale trasportata L.L., era stato tamponato da un’autovettura rimasta sconosciuta, sicchè il primo era deceduto e la trasportata aveva riportato gravi lesioni.
3. – Sono intervenuti in giudizio A.A., madre del defunto, anche in qualità di genitore esercente la responsabilità sul figlio minore C.C., nonchè I.I., reclamando il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del decesso del B.B..
4. – L’assicuratore ha resistito alle domande.
5. – Il Tribunale adito le ha respinte per mancanza di prova, giudicando inattendibili le dichiarazioni rese dal teste M.M., ed inutilizzabili quelle della teste L.L., terza trasportata, la cui testimonianza era stata assunta nonostante l’eccezione di incapacità formulata dalla società convenuta, poichè incapace a testimoniare ai sensi dell’art. 246 c.p.c..
6. – La Corte d’appello di Catania ha confermato la decisione con sentenza del 19 marzo 2019, osservando: -) il teste M.M. non era attendibile, ed in ogni caso le sue dichiarazioni rendevano inverosimile la dinamica del sinistro riferita dagli attori; -) L.L., terza trasportata, era incapace a testimoniare, seppure integralmente risarcita dall’istituto assicuratore.
7. – Per la cassazione della sentenza A.A., in proprio e nella qualità, ha proposto ricorso per tre mezzi.
8. – Unipol-Sai Assicurazioni Spa ha resistito con controricorso;
9. – Non hanno spiegato difese gli altri intimati.
10. – Con ordinanza del 09 giugno 2022, numero 18601, la terza sezione ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, ed il Primo Presidente ha provveduto in conformità.
11. – Sono state depositate memorie.
12. – Il Procuratore Generale ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso.
13. – C.C. si è costituito in proprio, essendo medio tempore divenuto maggiorenne.
Motivi della decisione
14. – Il ricorso contiene tre motivi.
14.1. – Il primo mezzo, che si protrae da pagina 6 a pagina 19 del ricorso, denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 112, 115, 116, 157 e 246 c.p.c., ex art. 360, numero 3, c.p.c., “perchè il giudice di secondo grado ha errato nel condividere la statuizione del primo giudice in ordine alla non attendibilità della disposizione resa dal teste M.M., valutando come non verosimile il fatto che egli non ricordasse dove era diretto quella mattina, e nel condividere la statuizione del primo giudice in ordine all’incapacità a testimoniare della terza trasportata sig.ra L.L., sebbene ritualmente ammessa in fase di istruttoria, ritenendola inutilizzabile ai fini della decisione”.
14.2. – Il secondo mezzo, da pagina 19 a pagina 22 del ricorso, denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 2697 c.c., ex art. 360, numero 3, c.p.c., “per non aver concesso la possibilità di dimostrare la dinamica del sinistro tramite CTU tecnica, che pure era stata richiesta tempestivamente nell’atto di intervento nel giudizio di primo grado e ribadita nel corso di entrambi i giudizi di primo grado e di appello”.
14.3. – Il terzo mezzo denuncia nullità della sentenza o del procedimento in relazione agli artt. 112 e 132 c.p.c., ex art. 360, numero 4, c.p.c., per avere omesso la Corte territoriale di pronunciarsi in ordine alla richiesta di CTU tecnica, essendo tenuta a motivare sia in ordine all’ammissione della consulenza che al diniego della stessa.
15. – L’ordinanza interlocutoria con cui il ricorso è stato trasmesso al primo presidente, per l’assegnazione alle sezioni unite, ha ritenuto:
-) che il primo mezzo, nella parte volta a denunciare l’erroneità della affermata incapacità della teste L.L., ponesse la questione della sorte dell’eccezione di incapacità a testimoniare, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., quando la parte, che l’abbia tempestivamente sollevata, ometta poi, di formulare l’eccezione di nullità della testimonianza una volta che essa sia stata ammessa ed assunta, ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p.c.;
-) che il principio invocato dalla ricorrente, secondo cui la nullità della testimonianza resa da persona incapace, in quanto titolare di un interesse idoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio, deve essere eccepita subito dopo l’espletamento della prova, ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p.c., o al più nell’udienza successiva quando il difensore della parte interessata non sia stato presente all’assunzione del mezzo istruttorio, con conseguente sanatoria mancanza dell’eccezione, sarebbe stato affermato per la prima volta da Cass. 4 agosto 1990, n. 7869, ed implicitamente da Cass. 10 febbraio 1987, n. 1425, per poi consolidarsi nella giurisprudenza successiva;
-) che la citata Cass. 4 agosto 1990, n. 7869, avrebbe fatto leva su due argomenti, da un lato la decadenza dall’eccezione di nullità della testimonianza assunta in mancanza della proposizione del reclamo ex art. 178 c.p.c., comma 2, avverso l’ordinanza del giudice istruttore che, ammettendo il teste, aveva implicitamente rigettato l’eccezione di incapacità; dall’altro lato, sulla considerazione che l’eccezione preventiva di incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. non era idonea a fungere anche da eccezione di nullità della testimonianza ammessa ed assunta, attesa la diversa natura e funzione delle due eccezioni;
-) che la prima di dette argomentazioni era normativamente superata, oltrechè in sé incoerente, e che, pur essendo la testimonianza resa da incapace considerata come affetta da nullità relativa dalla giurisprudenza e dottrina maggioritaria, vi sarebbe una tesi dottrinale minoritaria secondo cui le deposizioni assunte in violazione del divieto di cui all’art. 246 c.p.c. non sono nulle ma inefficaci, così da non poter essere utilizzate dal giudice ai fini della decisione;
-) che tra le numerose pronunce che affermano la nullità relativa della testimonianza dell’incapace a testimoniare, la questione sarebbe stata affrontata ex professo solo da Cass. 6 maggio 2020, n. 8528, secondo cui “l’incapacità del testimone… è disciplinata da una norma specifica in materia di prova testimoniale… che, come tale, è una norma sul procedimento civile e, dunque, disciplinatrice della “forma” del relativo atto processuale ai sensi dell’art. 156 c.p.c.. L’affidamento all’eccezione di parte della prospettazione dell’incapacità e, dunque, della deduzione della violazione della norma del procedimento, si risolve nella qualificazione di essa come eccezione di nullità ai sensi del citato art. 157 c.p.c., comma 1”;
-) che alcune sentenze che si sarebbero discostate dall’indirizzo maggioritario, così da presupporre una qualificazione del vizio in termini diversi dalla nullità, non facendosi cenno a preclusioni derivanti dal mancato rispetto dell’art. 157 c.p.c., comma 2 (nell’ordinanza interlocutoria si richiamano Cass. 25 febbraio 1989, n. 1042; Cass. 15 giugno 1999, n. 5925; Cass. 7 febbraio 2000, n. 1840; Cass. 24 novembre 2004, n. 22146);
-) che, in conclusione, la rilevata difformità tra i precedenti menzionati e l’indirizzo interpretativo maggioritario, richiederebbe di valutare l’attualità e l’effettiva portata del principio secondo cui l’incapacità a testimoniare, prevista dall’art. 246 c.p.c., determina la nullità della deposizione e non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata a farla valere al momento dell’espletamento della prova o nella prima difesa successiva, restando altrimenti sanata ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 2, senza che la preventiva eccezione di incapacità a testimoniare possa ritenersi comprensiva dell’eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante l’opposizione.
16. – Sul tema occorre osservare quanto segue.
16.1. – L’art. 246 c.p.c., secondo cui non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, viene tradizionalmente considerato espressione del principio nemo testis in causa propria, principio di origine romanistica, sebbene di non facile attribuzione, che nella variante nullus idoneus testis in re sua intelligitur si rinviene in D.22.V.10: esso sta ad affermare l’incompatibilità della posizione processuale di parte con quella di testimone, in forza di una valutazione compiuta a priori, la quale si risolve in ciò, che una confusione tra i due ruoli inficia, o meglio inficerebbe, almeno secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, la credibilità del teste, perché privo della condizione di terzietà che ne caratterizza, o meglio ne caratterizzerebbe, la figura.
16.2. – Il condizionale è difatti d’obbligo, ove si consideri che la conoscenza che la parte ha dei fatti di causa ben può assumere rilievo a fini probatori, e dunque concorrere alla formazione del materiale istruttorio che il giudice utilizzerà per la decisione, non solo attraverso l’assunzione di mezzi poi sottratti al principio del libero convincimento, quale l’interrogatorio formale che conduce alla confessione tale da fare “piena prova”, secondo la previsione dell’art. 2733, comma 2, c.p.c., ma anche di mezzi sottoposti, allo stesso modo delle testimonianze vere e proprie, al prudente apprezzamento, come nel caso dell’interrogatorio libero, di cui all’art. 117 c.p.c., o della confessione resa dal litisconsorte necessario, ai sensi dell’art. 2733, comma 3, c.p.c.. E ciò rende arduo intendere perchè possa fare ingresso nel processo il sapere dei testi intorno ai fatti di causa attraverso la testimonianza, vi possa fare ingresso il sapere delle parti attraverso gli interrogatori, ed il sapere delle “persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio” sia di default bandito dall’ambito del materiale probatorio acquisibile al giudizio e confinato in una sorta di terra di nessuno in cui la conoscenza che pure taluno ha dei fatti non può assurgere a fonte del convincimento del giudice.
16.3. – D’altronde, che una norma quale l’art. 246 c.p.c. non fosse necessitata, nè coessenziale all’impianto che regge il processo civile, è reso manifesto da un duplice rilievo:
-) da un lato che una analoga disposizione non era contenuta nel codice del 1865, il quale, mentre vietava l’assunzione della veste di testimone a parenti ed affini in linea retta, oltre che al coniuge della parte, attribuiva ad essa (art. 236) “il diritto di proporre i motivi che possono rendere sospetta la deposizione dei testimoni” (art. 237), senza cioè escludere ex ante i potenziali interessati dal numero dei testi possibili;
-) dall’altro che previsioni analoghe a quella dettata dall’art. 246 c.p.c. non sono note ai principali ordinamenti continentali: non a quelli tedesco ed austriaco, che ammettono la testimonianza della parte (p.p. 445-484 della ZPO tedesca, “Beweis durch Parteivernehmung”, p.p. 371-383 della ZPO austriaca, “Beweis durch Vernehmung der Parteien”); non a quello francese che contempla la comparution personnelle des parties, la quale consente al giudice di trarre ogni conseguenza giuridica dalle dichiarazioni delle parti, dall’assenza o dal rifiuto di rispondere di una, attribuendo a ciò il valore di principio di prova scritta; non a quello Spagnolo che consente alle parti – diremmo – di allegare a sospetto il teste che abbia un “interès directo oindirecto en el asunto de que se trate” (art. 377 della LEC); è poi superfluo rammentare che la testimonianza della parte è ammessa nel common law.
16.4. – Ben si comprende, allora, come larga parte della dottrina abbia manifestato forti riserve sull’opportunità della scelta normativa rappresentata dall’art. 246 c.p.c.: riserve sintetizzabili come si accennava in ciò, che – per dirla con le parole contenute nell’ordinanza di rimessione che condusse a Corte Cost. 23 luglio 1974, n. 248, la quale espunse l’art. 247 e salvò l’art. 246 c.p.c. – la norma “limita sostanzialmente, fino talvolta ad eliminarla, la possibilità di dimostrare i fatti addotti a sostegno della domanda o delle eccezioni e quindi di agire in giudizio per la tutela del proprio diritto”.
16.5. – L’attacco alla disposizione ha seguito percorsi diversi.
Alcuni hanno fatto leva sui profili di incostituzionalità della norma, laddove comprime il “diritto di difendersi provando”, ma l’orientamento si è tradotto in questioni di legittimità costituzionale che il giudice delle leggi ha man mano reiteratamente disatteso, da ultimo con Corte Cost. 08 maggio 2009, n. 143.
Buona parte della dottrina ha provato a circoscrivere l’ambito di applicazione della norma sostenendo che l’incapacità a testimoniare colpirebbe soltanto coloro i quali sono legittimati a determinate forme di intervento in causa e non ad altre.
Ma il tentativo, in fin dei conti, non ha avuto alcun successo.
Movendo dalla distinzione tra parte in senso sostanziale ed in senso processuale, vi è stato chi ha sostenuto che potrebbe testimoniare l’interveniente adesivo dipendente, essendo egli estraneo al diritto in contesa.
Ma altri dalla stessa premessa hanno tratto l’affermazione opposta, e cioè che sarebbe incapace proprio l’interveniente adesivo dipendente, in quanto privo di una autonoma azione e parte in senso sostanziale del rapporto controverso.
Altri ancora hanno osservato che colui il quale sia in astratto legittimato a esercitare l’intervento adesivo dipendente, ma non lo abbia esercitato, manifesta in tal modo il proprio disinteresse per la vicenda, e così la propria non inattendibilità, tale perciò da far venir meno l’incapacità.
A fronte dell’affermazione dell’incapacità a testimoniare dei soli legittimati all’intervento principale e litisconsortile, ancora, si è replicato che la soluzione non avrebbe una concreta base normativa, dal momento che gli artt. 246 e 105 c.p.c. utilizzano entrambi il termine “interesse”. Sicchè si è infine ammesso che l’art. 246 c.p.c., che non pone distinzioni, renda incapaci tutti coloro che siano legittimati ad intervenire nel giudizio in corso, ai sensi di entrambi i commi dell’art. 105 c.p.c..
16.6. – Si può dire, dinanzi all’ampio raggio di incertezze manifestate dalla dottrina, che alla giurisprudenza non rimanesse altra strada se non quella di un’interpretazione ampia ed onnicomprensiva del significato della norma, riferibile a tutte le categorie di intervento (Cass. 23 ottobre 2002, n. 14963; Cass. 5 gennaio 1994, n. 32; Cass. 18 marzo 1989, n. 1369; Cass. 6 gennaio 1981, n. 47; Cass. 20 maggio 1977, n. 2083), senza che possa distinguersi tra intervento volontario e intervento ad istanza di parte (Cass. 23 ottobre 2002, n. 14963; Cass. 3 aprile 1998, n. 3432).
16.7. – Sulla rilevabilità dell’eccezione di incapacità a testimoniare ad istanza di parte o anche d’ufficio, può dirsi invece che la dottrina manifesti un’opinione pressochè unanime: secondo cui l’incapacità sarebbe suscettibile di rilievo officioso, opinione peraltro non agevolmente comprensibile laddove sostenuta anche da coloro i quali criticano nel fondo la norma, ed addirittura ne predicano la contrarietà a Costituzione, il che parrebbe consigliare semmai l’interpretazione opposta.
16.8. – Con riguardo alla giurisprudenza, è agevole richiamare l’orientamento granitico secondo cui l’eccezione ex art. 246 c.p.c. può essere sollevata solo ad istanza di parte (Cass. 31 gennaio 1956, n. 275; Cass. 14 luglio 1956, n. 2649; Cass. 14 marzo 1957, n. 866; Cass. 2 ottobre 1957, n. 3564; Cass. 17 ottobre 1957, n. 3905; Cass. 26 ottobre 1957, n. 4140; Cass. 9 dicembre 1957, n. 4621; Cass. 22 febbraio 1958, n. 587; Cass. 5 maggio 1958, n. 1472; Cass. 9 settembre 1958, n. 2989; Cass. 16 novembre 1960, n. 3061; Cass. 8 luglio 1961, n. 1638; Cass. 19 giugno 1961, n. 1441; Cass. 15 maggio 1962, n. 1034; Cass. 18 dicembre 1964, n. 2904; Cass. 5 febbraio 1968, n. 398; Cass. 5 settembre 1969, n. 3059; Cass. 24 marzo 1971, n. 817; Cass. 15 ottobre 1971, n. 2906; Cass. 10 ottobre 1972, n. 2976; Cass. 10 gennaio 1973, n. 61; Cass. 24 luglio 1974, n. 2222; Cass. 2 dicembre 1974, n. 3927; Cass. 14 dicembre 1976, n. 4637; Cass. 18 febbraio 1977, n. 738; Cass. 3 febbraio 1978, n. 494; Cass. 18 gennaio 1979, n. 375; Cass. 8 agosto 1979, n. 4625; Cass. 3 ottobre 1979, n. 5068; Cass. 6 dicembre 1980, n. 6349; Cass. 18 dicembre 1987, n. 9427; Cass. 4 agosto 1990, n. 7869; Cass. 17 dicembre 1996, n. 11253; Cass. 20 giugno 1997, n. 5534; Cass. 04 novembre 1997, n. 10781; Cass. 12 agosto 1998, n. 7938; Cass. 21 aprile 1999, n. 3962; Cass. 2 febbraio 2000, n. 1137; Cass. 18 gennaio 2002, n. 543; Cass. 01 luglio 2002, n. 9553; Cass. 27 ottobre 2003, n. 16116; Cass. 7 ottobre 2004, n. 15308; Cass. 12 gennaio 2006, n. 403; Cass. 03 aprile 2007, n. 8358; Cass. 25 settembre 2009, n. 20652; SS.UU, 23 settembre 2013, n. 21670; Cass. 10 ottobre 2014, n. 21395).
Citazioni, quelle che precedono, effettuate senza pretesa di completezza.
Questa Corte, cioè, non ha mai dubitato che l’incapacità a testimoniare debba essere eccepita dalla parte interessata, secondo la sequenza che più avanti si vedrà.
16.9. – La ragione su cui tale indirizzo poggia è, se si guarda alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, del tutto chiara.
I limiti soggettivi ed oggettivi all’ammissibilità della prova testimoniale sono per lo più posti nell’interesse delle parti, non di un interesse che le trascende, del quale il giudice debba ergersi a solerte gendarme, ed il dato normativo non offre univoci elementi tali da dimostrare che il legislatore abbia affidato al giudice un simile compito di controllo, volto all’ottemperanza di un supposto ordine pubblico processuale che innervi nel suo complesso la materia della prova testimoniale: semmai, anzi, il dato testuale è di segno contrario, ove si consideri che alla recisa prescrizione dettata dal poi dichiarato incostituzionale art. 247 c.p.c., costruita in termini di fermo divieto, si contrappone la previsione dell’art. 246 c.p.c., che mira piuttosto garantire un ben più blando requisito di plausibile attendibilità del teste.
In una pragmatica considerazione di insieme, d’altronde, non sembra affatto che le posizioni del teste e del portatore di un interesse tale da legittimare la sua partecipazione al giudizio si collochino agli antipodi l’una dell’altra: a meno di non credere ad una ingenua contrapposizione tra la testimonianza del c.d. terzo estraneo, dotata così di attitudine ad apportare al processo uno schietto ed oggettivo reportage della pura verità materiale dei fatti oggetto di causa, ed il teste portatore di un interesse che legittimerebbe la sua partecipazione al giudizio, per definizione inattendibile.
Se è vero che il giudice non può non credere che possa davvero darsi una ricostruzione giudiziale della verità materiale dei fatti di causa, in una visione per così dire “corrispondentista”, quella, per usare la formula onusta di storia, dell’adaequatio rei et intellectus; e se è vero che, in un sistema costituzionale, come il nostro, ispirato ai principi delle democrazie occidentali, la ricerca della verità nell’ambito del processo civile è da tenere come valore imprescindibile, che deve informare di sè le regole del procedimento probatorio; non è men vero che certo non è la prova testimoniale lo strumento principe pensato, presso di noi, per la ricostruzione di una simile verità oggettiva, nel qual caso non avrebbe alcun senso, per far solo un’osservazione elementare, la previsione del codice di rito della preventiva deduzione della prova testimoniale per articoli separati, articoli sui quale l’esperienza insegna che sovente i testi, pur terzi estranei, rispondono a domande sulle quali risultano alle volte anche fin troppo preparati. Sicchè non è poi così bizzarro che le parti possano voler consentire a che sia escusso un teste altrimenti incapace.
In definitiva, proprio perchè l’impianto del processo civile non è improntato ad un assetto autoritario, è alle parti che spetta di scegliere, nei limiti in cui l’ordinamento lo prevede, i percorsi istruttori da seguire al fine della dimostrazione dei propri assunti, senza che possano ammettersi poteri officiosi del giudice, quanto al rilievo dell’incapacità a testimoniare, che non discendano dalla legge, sia pure per via di interpretazione sistematica, dal momento che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato appunto dalla legge, e che l’esercizio di eventuali poteri officiosi deve rimanere collocato entro l’ambito del precetto costituzionale volto ad assicurare il contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale.
Il giudice – salvo che la legge non disponga diversamente, come ad esempio accade nel rito del lavoro, ove l’art. 421 c.p.c. stabilisce che possa disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ma altrettanto potrebbe dirsi con riguardo al nuovo rito unitario di famiglia, che, se non altro in presenza di minori, riconosce poteri officiosi particolarmente dilatati, tali da far saltare lo stesso principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato – decide dunque, almeno di regola, sulla base del materiale probatorio che le parti gli hanno messo a disposizione.
Il che vuol dire che esse ben possono scegliere di consentire alla assunzione di un teste incapace, dal momento che ciò non trova ostacolo in un’esigenza di ordine pubblico processuale altrimenti desumibile.
16.10. – In questa linea, nel campo dei limiti oggettivi alla prova testimoniale, è stato già affermato che solo l’inammissibilità della testimonianza diretta a dimostrare la conclusione di un contratto per il quale la legge richieda la forma scritta ad substantiam è rilevabile d’ufficio, giacchè solo in tale ipotesi la norma risponde ad un interesse di rilievo pubblicistico – interesse noto, secondo l’opinione corrente: richiamare l’attenzione dei contraenti sugli effetti dell’atto che stanno compiendo – che, mettendo fuori gioco la volontà delle parti, esiga un controllo officioso sull’ingresso di una prova tesa a confliggere con la previsione cogente dettata dall’ordinamento (SS.UU, 5 agosto 2020, n. 16723, ed in precedenza tra le altre Cass. 24 novembre 2015, n. 23934; Cass. 3 giugno 2015, n. 11479; Cass. 8 gennaio 2002, n. 144; Cass. 10 aprile 1990, n. 2988; Cass. 25 marzo 1987, n. 2902).
Al di fuori di tale ipotesi – hanno affermato le Sezioni Unite – i limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale sono dettati da norme di carattere dispositivo e, proprio perchè posti nell’interesse delle parti, sono altresì da queste derogabili, anche alla stregua di un accordo implicito desumibile dalla mancata opposizione: sicchè la violazione delle formalità stabilite per l’ammissione della prova testimoniale, giacchè ritenuta lesiva soltanto di interessi individuali delle parti, rimane affidata al meccanismo dell’art. 157, comma 2, c.p.c..
In continuità con l’indirizzo così stabilito, occorre oggi aggiungere che la stessa regola affermata per i limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale vale altrettanto per quelli soggettivi fissati dall’art. 246 c.p.c..
17. – Quanto alle modalità di formulazione dell’eccezione di incapacità a testimoniare, questa Corte ha costantemente ribadito che essa va formulata in vista dell’assunzione, il che non esime l’interessato dal proporre l’eccezione di nullità della testimonianza, ove assunta nonostante l’eccezione di incapacità, successivamente al suo espletamento, nonchè in sede di precisazione delle conclusioni.
Queste Sezioni Unite (SS.UU, 23 settembre 2013, n. 21670) hanno difatti già chiarito – sia pur sinteticamente, trattandosi di affermazione ripetitiva su questione della quale non erano investite nè come contrasto, nè come questione di massima di particolare importanza – che la nullità di una testimonianza resa da persona incapace ai sensi dell’art. 246 c.p.c., essendo posta a tutela dell’interesse delle parti, è configurabile come una nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l’espletamento della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p.c.; qualora detta eccezione venga respinta, la parte interessata ha l’onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi la medesima, in caso contrario, ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità stessa per acquiescenza, rilevabile d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo.
In dottrina si è replicato che si tratterebbe di un sistema inutilmente ridondante, si è detto barocco, ma non è così, ed ognuno dei menzionati passaggi ha la sua indispensabile ragion d’essere, in un processo fatto di forme, delle quali, come è stato detto, non v’è ragione di lagnarsi “più di quello che… avrebbe ragione il colombo di lagnarsi dell’aria che rallenta il suo volo, senza accorgersi che appunto quell’aria gli permette di volare”.
17.1. – L’eccezione di incapacità a testimoniare va formulata prima dell’ammissione della prova testimoniale, per l’ovvia ragione che, in mancanza di essa, il giudice, che non può rilevare d’ufficio l’incapacità, non ha il potere di applicare la regola di esclusione prevista dall’art. 246 c.p.c., sicchè è tenuto ad ammettere il mezzo, in concorso, ovviamente, coi normali requisiti dell’ammissibilità e rilevanza, sottoposti al suo controllo. Nè, d’altro canto potrebbe pensarsi ad un’eccezione di nullità – tale essendo il vizio riscontrabile, come si vedrà subito dopo – sollevata soltanto ex post, a seguito dell’assunzione, ma non preceduta dalla preventiva eccezione di incapacità, e ciò perchè una simile condotta si scontra con il precetto dell’ultimo comma dell’art. 157 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, nè da quella che vi ha rinunciato anche tacitamente, omettendo, in questo caso, di formulare a suo tempo l’eccezione (Cass. 16 gennaio 1996, n. 303, ove si precisa che non rileva “in contrario che il teste sia divenuto successivamente parte nello stesso processo, per essere stato emesso nei suoi confronti ordine di integrazione del contraddittorio, giacchè la qualità di teste e la conseguente possibilità di eccepirne l’incapacità ex art. 246 presuppongono proprio che la persona chiamata a testimoniare non abbia ancora assunto la qualità di parte”). L’applicazione del meccanismo conservativo previsto dalla menzionata disposizione fa insomma sì che la prova del teste ipoteticamente incapace, che sia stata assunta in assenza dell’eccezione, è ormai definitivamente purgata della nullità, dal momento che in tanto opera la regola di esclusione in quanto la parte interessata ne abbia invocato, con l’eccezione, l’applicazione. Sicchè una nullità eccepita solo ex post non avrebbe senso, poichè quella nullità senza la precedente eccezione ormai più non sussiste. Il che esime dall’aggiungere che, se si ammettesse un’eccezione di nullità spiegata solo ex post, e non preceduta ex ante dall’eccezione di incapacità, si consentirebbe all’interessato di rimanere in silenzio sino all’assunzione della prova, per poi valutare la convenienza della deposizione e decidere se vanificare l’assunzione con l’eccezione di nullità ovvero giovarsi degli elementi ottenuti, la qual cosa interferirebbe, se non altro, con elementari esigenze di economia processuale.
17.2. – Dopodichè, ove il giudice ammetta la prova, nonostante l’eccezione di incapacità, in violazione dell’art. 246 c.p.c., la prova assunta è nulla.
Daremo per scontato che la prova testimoniale è un atto processuale, sebbene finanche su una tale affermazione non vi sia consenso in dottrina.
Accolta la premessa, ne discende che, quale atto processuale, anche la testimonianza deve misurarsi con la disciplina della nullità degli atti processuali, disciplina della cui applicabilità non sembra vi sia ragione di dubitare almeno per quanto attinente ai vizi riguardanti la deduzione ed assunzione della prova, sottoposta ad apposite regole formali scandite dal codice di rito. Ma, anche a ricondurre l’incapacità a testimoniare al campo delle nullità c.d. extraformali, attinenti a capacità, legittimazione e volontà, ed a respingere, come fa parte della dottrina, una nozione di forma dell’atto processuale che abbracci non solo la sua veste esteriore, ma tutti i requisiti previsti dal modello legale, in vista del dipanarsi della sequenza processuale, sta di fatto che è diffusa l’opinione secondo cui la disciplina della nullità degli atti possa trovare applicazione anche per i vizi non formali, salvo verifica di incompatibilità da effettuare caso per caso: e così, ad esempio, ben si intende come l’incapacità del teste non possa essere sanata attraverso il congegno del raggiungimento dello scopo. Sicchè, in definitiva, come già questa Corte ha affermato, l’incapacità del testimone “è disciplinata da una norma specifica in materia di prova testimoniale (art. 246 c.p.c.) che, come tale, è una norma sul procedimento civile e, dunque, disciplinatrice della “forma” del relativo atto processuale ai sensi dell’art. 156 c.p.c.. L’affidamento all’eccezione di parte della prospettazione dell’incapacità e, dunque, della deduzione della violazione della norma del procedimento, si risolve nella qualificazione di essa come eccezione di nullità ai sensi del citato art. 157, comma 1, c.p.c.” (Cass. 6 maggio 2020, n. 8528).
17.3. – Una volta stabilito che, in caso di ammissione ed assunzione della prova testimoniale in violazione dell’art. 246 c.p.c., si versa in ipotesi di nullità, ed in particolare di nullità a carattere relativo, la nullità va fatta valere nel rispetto della previsione dell’art. 157, comma 2, c.p.c., e cioè “nella prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso”.
Questa Corte ha così più volte ripetuto che l’incapacità a testimoniare conseguente alla simultanea titolarità, in capo al teste, della qualità di parte, anche virtuale, può essere eccepita dalla parte interessata al momento dell’espletamento del mezzo di prova o nella prima difesa successiva, altrimenti la nullità dell’assunzione deve ritenersi definitivamente sanata per acquiescenza (Cass. 18 gennaio 2002, n. 543; Cass. 01 dicembre 2021, n. 37814; Cass. 12 gennaio 2006, n. 403; Cass. 25 settembre 2009, n. 20652; SS.UU, 23 settembre 2013, n. 21670; Cass. 10 ottobre 2014, n. 21395; Cass. 23 novembre 2016, n. 23896): o, più precisamente, subito dopo l’escussione del teste ovvero, in caso di assenza del difensore della parte alla relativa udienza, nella prima udienza successiva (Cass. 19 agosto 2014, n. 18036; Cass. 3 aprile 2007, n. 8358; Cass. 24 giugno 2003, n. 10006; Cass. 01 luglio 2002, n. 9553; Cass. 15 novembre 1999, n. 12634; Cass. 21 aprile 1999, n. 3962).
Ed è qui che l’eccezione di nullità, con la sua collocazione a ridosso dell’assunzione del mezzo, e, in alternativa, con il verificarsi della sanatoria, risponde ad un’esigenza – questa sì – di ordine pubblico processuale: l’esigenza di celerità del processo, i cui atti non devono essere passibili di caducazione per un tempo indefinito (p. es. Cass. 01 luglio 2002, n. 9553).
Resta però salva l’eventualità, anch’essa inscritta nella previsione dell’art. 157, comma 2, c.p.c., che, a tal momento, l’interessato sia incolpevolmente inconsapevole delle ragioni di incapacità del teste, nel qual caso l’eccezione va svolta nella prima difesa successiva all’acquisita conoscenza della nullità della testimonianza (Cass. 12 maggio 2004, n. 9061).
L’imposizione di un duplice onere di eccezione, prima dell’ammissione e dopo l’assunzione del mezzo cionondimeno ammesso – che taluno, come si accennava, ha a torto ritenuto irragionevolmente formalistica – si spiega non soltanto in ragione dell’impossibilità logica di configurare un’eccezione di nullità di un atto di là da venire, sicchè “una eccezione d’incapacità a testimoniare… non include l’eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione” (Cass. 19 agosto 2014, n. 18036), ma, soprattutto, a tutela dell’interesse della stessa parte che abbia formulato l’eccezione di incapacità a testimoniare, la quale, pure oppostasi inizialmente all’ammissione della testimonianza, deve essere posta in condizione di valutare l’esito dell’assunzione, che ben potrebbe rivelarsi ad essa favorevole (Cass. 15 febbraio 2018, n. 3763; Cass. 19 settembre 2013, n. 21443; Cass. 23 maggio 2013, n. 12784), situazione, quest’ultima, del tutto distinta da quella prima ricordata della parte che abbia tenuto in serbo l’eccezione di incapacità per giocare in extremis la carta della nullità secundum eventum.
Ciò detto – bisogna aggiungere – è cosa ovvia che l’eccezione di nullità da proporsi ex post non richiede formule sacramentali, sicchè non vi sarebbe modo di intendere altrimenti la dichiarazione della parte che, dopo l’assunzione, ribadisse l’iniziale eccezione di incapacità, o altro di simile.
17.4. – L’eccezione di nullità della testimonianza resa da teste incapace ai sensi dell’art. 246 c.p.c. va infine coltivata con la precisazione delle conclusioni, di cui all’art. 189 c.p.c., intendendosi con ciò l’elencazione, effettuata in modo preciso e puntuale, sulla base di quanto emerso durante il corso della trattazione e dell’istruzione probatoria, delle domande ed eccezioni rivolte al giudice, ivi comprese le eventuali richieste istruttorie: precisazione delle conclusioni volta a fissare definitivamente l’ambito entro cui il giudice dovrà provvedere, fatto salvo quanto rilevabile d’ufficio, ma ancor prima, come bene evidenziato in dottrina, a soddisfare il dispiegamento del contraddittorio, nella sua espressione più ampia, ed in particolare l’esigenza di ciascuna parte di conoscere la formulazione definitiva delle domande dell’altra, contando sulla definitività di tale formulazione, quando ne compirà l’esame critico nello svolgimento degli scritti difensivi.
L’esigenza di reiterazione si ricollega alla previsione del comma 3 dell’art. 157 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha rinunciato “anche tacitamente”, e si inquadra nella prospettiva di ordine generale – rafforzata dalla previsione di rinuncia tacita di cui si è appena detto – concernente il trattamento che riceve, in sede di precisazione delle conclusioni, la mancata riproposizione delle richieste istruttorie.
Costituisce difatti principio rimasto pacifico fino a tempi recentissimi quello secondo cui la parte che si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle in modo specifico, quando precisa le conclusioni, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poichè, diversamente, le stesse devono ritenersi abbandonate e non possono essere riproposte in sede di impugnazione (p. es. Cass. 25 gennaio 2022, n. 2129; Cass. 10 novembre 2021, n. 33103; Cass. 20 novembre 2020, n. 26523; Cass. 31 maggio 2019, n. 15029; Cass. 07 marzo 2019, n. 6590; Cass. 27 febbraio 2019, n. 5741; Cass. 3 agosto 2017, n. 19352; Cass. 10 agosto 2016, n. 16886; Cass. 04 agosto 2016, n. 16290; Cass. 27 aprile 2011, n. 9410; Cass. 14 ottobre 2008, n. 25157).
Questa Corte ha, cioè, escluso che la reiterazione delle richieste istruttorie possa consistere nel richiamo generico al contenuto dei precedenti atti difensivi, atteso che la precisazione delle conclusioni deve avvenire in modo specifico, coerentemente con la funzione sua propria di delineare con precisione il thema sottoposto al giudice e, come si diceva, di porre la controparte nella condizione di prendere posizione in ordine alle sole richieste istruttorie riproposte (Cass. 27 giugno 2012, n. 10748).
L’indirizzo, si può dire, risale all’entrata in vigore del codice di rito ed è stato sempre mantenuto fermo, quantunque si rinvengano delle oscillazioni delle quali non occorre dar conto, dal momento che esulano dai quesiti sollevati dall’ordinanza di rimessione, a seconda che il giudice avesse ammesso i mezzi richiesti, ne avesse negato l’ammissione ovvero avesse semplicemente taciuto.
Tale orientamento ha da sempre il suo punto d’appoggio nell’art. 178, comma 1, c.p.c., e cioè nella regola che attribuisce al collegio le più ampie facoltà di controllo sulle ordinanze emesse dall’istruttore quando la causa gli è rimessa per la decisione.
Quando la novella del 1950 introdusse il reclamo immediato al collegio, sorse la questione se, ove previsto il reclamo, la sua mancata proposizione comportasse o meno la decadenza dalla riproposizione delle richieste istruttorie in sede di rimessione della causa al collegio, decadenza che la giurisprudenza di questa Corte ha escluso, sempre tenendo però per fermo il principio che ricollega la decadenza alla mancata riproposizione in sede di precisazione delle conclusioni. Quando, poi, la novella del 1990 ha eliminato il reclamo al collegio, l’indirizzo pregresso è stato ribadito.
E’ da richiamare, in particolare, Cass. 24 novembre 2004, n. 22146, concernente proprio eccezione di nullità della testimonianza resa da teste incapace, la quale, riproponendo l’orientamento formatosi nell’epoca in cui era previsto il reclamo al collegio, ha ribadito – seguendo, è stato detto in dottrina, una “interpretazione coerente e razionale delle norme e dei principi ratione temporis invocabili in subiecta materia” – che “la parte che si oppone ad una prova testimoniale, oltre a dovere tempestivamente sollevare detta sua eccezione, deve poi dolersene anche in sede di precisazione delle conclusioni, chiedendo la revoca dell’ordinanza ammissiva (o non ammissiva) della prova ai sensi dell’art. 178, comma 1, c.p.c., perchè il giudice cui compete la decisione di tutta la causa provveda a detta revoca dell’ordinanza, restando in caso contrario preclusa la possibilità di decidere in ordine all’ammissibilità (o inammissibilità) della prova e così provvedere all’eventuale revoca dell’ordinanza, con l’ulteriore conseguenza che la cennata questione non può neanche essere proposta in sede d’impugnazione (Cass. n. 12280 del 2000; Cass. 24 agosto 1991, n. 9083; Cass. 30 marzo 1995, n. 3773)”.
E’ il caso di accennare che l’art. 178 c.p.c. non è toccato dalla riforma di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, ed il congegno della precisazione delle conclusioni si è per altro verso rafforzato, essendo prevista dall’art. 189 c.p.c. un’apposita memoria scritta, il che dovrebbe neutralizzare il vero problema – al quale talune recenti soluzioni largheggianti parrebbero infine rispondere negando la stessa esigenza che le conclusioni siano precisate in modo preciso e puntuale – dell’udienza di precisazione delle conclusioni, che è momento centrale e fondamentale del processo e, proprio in funzione dell’esigenza di precisione e puntualità, richiede l’intervento di un difensore che conosca la causa, e non, come sovente accade nella pratica, di un ignaro sostituto che voglia adempiere al proprio compito di sostituzione con il riportarsi sciattamente a tutto quanto dianzi dedotto e prodotto, così da determinare probabilissime successive difficoltà di delimitazione di ciò a cui il concludente si sia in effetti riportato, sia per le controparti, sia per il giudice.
Quanto al procedimento semplificato di cognizione, l’art. 281 terdecies c.p.c. rinvia all’art. 281 sexies c.p.c., secondo cui il giudice, “fatte precisare le conclusioni”, adotta il modulo decisorio ivi previsto.
Del resto, già con riguardo al procedimento c.d. sommario di cognizione questa Corte ha osservato che la deformalizzazione procedimentale non esime il giudice dal calendarizzare un’apposita udienza di precisazione delle conclusioni prima di pronunciare il provvedimento conclusivo, onde consentire la definitiva fissazione del thema decidendum (Cass. 14 maggio 2018, n. 11701).
In definitiva, considerata la previsione di rinuncia tacita di cui all’art. 157 c.p.c., considerato che le parti sono chiamate a precisare le conclusioni in modo preciso e puntuale in vista del dispiegamento del contraddittorio, e che l’art. 178, comma 1, c.p.c. stabilisce che esse possono proporre al collegio, quando la causa è rimessa a questo a norma dell’art. 189, tutte le questioni risolute da giudice istruttore con ordinanza revocabile, è del tutto ovvio che debbano, se ritengano di farlo, investire il giudice dell’eccezione di nullità della testimonianza ammessa ed assunta in violazione dell’art. 246 c.p.c., dovendosi altrimenti l’eccezione medesima reputare rinunciata.
In proposito, non può mancarsi di rammentare che l’interpretazione secondo cui l’istanza istruttoria non accolta nel corso del giudizio, che non venga riproposta in sede di precisazione delle conclusioni, deve reputarsi tacitamente rinunciata, non contrasta con gli artt. 47 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nè con gli artt. 2 e 6 dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, nè con la Cost., artt. 24 e 111, non determinando alcuna compromissione dei diritti fondamentali di difesa e del diritto ad un giusto processo, poichè dette norme processuali, per come interpretate, senza escludere nè rendere disagevole il diritto di “difendersi provando”, subordinano, piuttosto, lo stesso ad una domanda della parte che, se disattesa dal giudice dell’istruttoria, va rivolta al giudice che decide la causa (Cass. 27 giugno 2012, n. 10748; Cass. 05 febbraio 2019, n. 3229), secondo la prospettiva, appunto, fissata dall’art. 178 c.p.c..
Di recente, il principio di cui si è detto è stato ad altro riguardo apparentemente ribadito, ma con la precisazione che la mancata riproposizione delle richieste istruttorie porrebbe una mera presunzione di rinuncia, che potrebbe essere superata dal giudice di merito, qualora dalla non ulteriormente delimitata valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l’esame degli scritti difensivi (Cass. 10 novembre 2021, n. 33103): ora, se dovesse farsi riferimento alle “conclusioni rassegnate”, ed agli ulteriori larghi parametri menzionati, dovrebbero ritenersi riproposte, o comunque potrebbe non infondatamente predicarsi la riproposizione, di tutte le richieste istruttorie che posseggano un qualche pur approssimativo e lasco collegamento di strumentalità con le conclusioni, il che, come si accennava, comporterebbe una radicale nullificazione dell’esigenza di chiarezza e puntualità che da sempre sovrintende alla precisazione delle conclusioni definitive, ponendo anzitutto la controparte in condizione di doversi difendere da richieste in realtà solo ipotetiche, ed il giudice nella difficoltà di individuare ciò su cui deve provvedere, con evidenti conseguenze diseconomiche, tali da ripercuotersi poi pesantemente sul giudizio di appello.
A fondamento della soluzione sono richiamati precedenti concernenti il caso in cui la causa venga trattenuta in decisione senza che il giudice istruttore si sia pronunciato espressamente sulle istanze istruttorie (Cass. 19 febbraio 2021, n. 4487), eventualmente perchè la causa sia stata trattenuta in decisione su una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito (Cass. 29 maggio 2012, n. 8576), nonchè precedenti in tema di omessa riproposizione di domande ed eccezioni. E però, l’affermazione concernente l’omessa pronuncia da parte dell’istruttore sulle istanze istruttorie nulla dimostra per l’ipotesi fisiologica che il giudice abbia invece provveduto, in un modo o nell’altro.
Quanto ai precedenti in materia di precisazione delle domande ed eccezioni, precedenti che costituiscono “il grosso” della tesi sostenuta, resta tutt’affatto da dimostrare che essi siano applicabili all’omessa riproposizione delle richieste istruttorie, governata dall’art. 178 c.p.c., equiparazione che anzi questa Corte ha espressamente escluso (in particolare Cass. 27 aprile 2011, n. 9410, poi ripresa da Cass. 27 giugno 2012, n. 10748).
Tuttavia, l’approfondimento del tema, nelle sue complessive dimensioni, esula dall’ambito di questa decisione, per la quale è sufficiente ribadire, in conformità alla giurisprudenza richiamata, che l’eccezione di incapacità, formulata prima dell’assunzione e ribadita dopo di essa, va necessariamente reiterata in sede di precisazione delle conclusioni dovendosi altrimenti reputare rinunciata: come si è detto, difatti, l’art. 157, comma 3, c.p.c., stabilisce essere rinunciabile anche implicitamente l’eccezione di nullità della testimonianza, per il che, secondo quanto osservato, opera il combinato disposto di detta norma con il comma 1 dell’art. 178 ed il comma 1 dell’art. 189 c.p.c.. Sicchè, si ripete, non v’è ragione, almeno a tal riguardo, di discostarsi dall’insegnamento, fermo quanto all’eccezione di nullità per incapacità a testimoniare, secondo cui essa va espressamente riproposta – il che, ovviamente, non vuol dire che non possa essere riproposta anche per relationem, se la relatio è univoca – in sede di precisazione delle conclusioni, essendo altrimenti rinunciata.
18. – Passando all’esame del ricorso, occorre constatarne l’inammissibilità.
18.1. – Ovvia conseguenza della configurazione della nullità nei termini indicati è che essa non possa formare oggetto di ricorso per cassazione se prima non sia stata fatta valere in grado d’appello (Cass. 23 novembre 2016, n. 23896; Cass. 19 marzo 2004, n. 5550; Cass. 20 aprile 1996, n. 3787).
Nel caso di specie risulta dalla sentenza appellata che con l’appello si fosse sostenuta la tesi della non incapacità a testimoniare della L.L., sia perchè integralmente risarcita, sia perchè il suo diritto al risarcimento si era comunque prescritto, nè dal ricorso risulta che, dopo la formulazione da parte dell’assicuratore dell’eccezione di incapacità della teste, la questione della proposizione dell’eccezione di nullità dopo la sua assunzione fosse stata in alcun modo sollevata.
Quanto alla censura concernente l’attendibilità del teste M.M., essa investe in pieno il merito della valutazione riservata al giudice, appunto, del merito (Cass. 6 maggio 1978, n. 2177; Cass. 26 febbraio 1983, n. 1496; Cass. 1 luglio 1986, n. 4346).
18.2. – Il secondo e terzo mezzo sono inammissibili.
Disporre consulenza tecnica d’ufficio, almeno nel caso della consulenza c.d. deducente, quale quella nella specie richiesta, è potere discrezionale affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, potendo la motivazione dell’eventuale diniego di ammissione del mezzo essere anche implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato (tra le moltissime Cass. 13 gennaio 2020, n. 326): nel caso considerato, a fronte della tesi di parte attrice-appellante, secondo cui il sinistro sarebbe stato cagionato da un veicolo rimasto sconosciuto, che aveva urtato il ciclomotore condotto dal B.B., risulta dalla sentenza impugnata che la parte posteriore del ciclomotore ed in particolare la targa non mostrava segni d’urto, constatazione più che sufficiente ad escludere l’opportunità di dar corso all’accertamento tecnico in discorso.
19. – Nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., vanno affermati i seguenti principi di diritto: “L’incapacità a testimoniare disciplinata dall’art. 246 c.p.c. non è rilevabile d’ufficio, sicchè, ove la parte non formuli l’eccezione di incapacità a testimoniare prima dell’ammissione del mezzo, detta eccezione rimane definitivamente preclusa, senza che possa poi proporsi, ove il mezzo sia ammesso ed assunto, eccezione di nullità della prova”.
“Ove la parte abbia formulato l’eccezione di incapacità a testimoniare, e ciò nondimeno il giudice abbia ammesso il mezzo ed abbia dato corso alla sua assunzione, la testimonianza così assunta è affetta da nullità, che, ai sensi dell’art. 157 c.p.c., l’interessato ha l’onere di eccepire subito dopo l’escussione del teste ovvero, in caso di assenza del difensore della parte alla relativa udienza, nella prima udienza successiva, determinandosi altrimenti la sanatoria della nullità”.
“La parte che ha tempestivamente formulato l’eccezione di nullità della testimonianza resa da un teste che si assume essere incapace a testimoniare, deve poi dolersene in modo preciso e puntuale anche in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi altrimenti ritenere l’eccezione rinunciata, così da non potere essere riproposta in sede d’impugnazione”.
20. – Le spese meritano di essere compensate, tenuto conto delle peculiarità sostanziali e processuali della controversia. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso ed enuncia nell’interesse della legge i principi indicati in motivazione, disponendo l’integrale compensazione delle spese di questo giudizio di legittimità e dichiarando, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2023
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 09 giugno 2022, n. 18601, per SS.UU, 06 aprile 2023, n. 9456, in tema di prova testimoniale
SS.UU, 06 aprile 2023, n. 9456, in tema di prova testimoniale
In tema di caso d’uso – SS.UU, 16 marzo 2023, n. 7682
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA
FATTI DI CAUSA
Il dott. Francesco Giovanni Visco ricorre per cassazione, in forza di quattro motivi, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale (CTR) della Campania n. 8467/44/16, depositata il 5 ottobre 2016, non notificata, con la quale la CTR ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza di primo grado della Commissione tributaria provinciale (CTP) di Napoli, che aveva, invece, accolto il ricorso proposto dal contribuente avverso avviso di liquidazione relativo ad imposta di registro non versata in relazione a nota di accompagnamento, contenente ricognizione di debito, ad assegno emesso a titolo di prestito personale, senza corresponsione d’interessi, posto a fondamento di decreto ingiuntivo, munito di clausola di provvisoria esecuzione, emesso dal Tribunale di Napoli in favore del ricorrente.
Il giudice tributario d’appello ha motivato l’accoglimento del gravame dell’Amministrazione finanziaria attribuendo alla summenzionata nota di accompagnamento natura di «atto che non rientra nella sfera di esplicazione di attività amministrativa, ma di atto che costituisce “caso d’uso” in quanto trattasi di “scrittura privata non autenticata”», affermando altresì che «[l]a scrittura privata nel prestito di denaro ha il valore di un vero e proprio contratto», soggetta a registrazione “in caso d’uso”». Ha quindi concluso la CTR statuendo che «[n]el caso di specie la scrittura privata che documenta l’esistenza di un prestito con statuizione delle clausole ad hoc è stata il supporto probatorio per l’azione in giudizio; ciò per cui è soggetta a registrazione».
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Chiamata la causa alla pubblica udienza del 19 ottobre 2021 dinanzi alla sezione tributaria, per la quale il Pubblico Ministero aveva depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso, con ordinanza interlocutoria n. 33313 depositata l’11 novembre 2021, il Collegio, ritenuto che la controversia ponesse tanto questione di massima di particolare importanza circa la nozione di deposito in caso d’uso e l’obbligo di registrazione relativo ai documenti depositati nei procedimenti giudiziari, quanto presupponesse la soluzione di contrasto tra indirizzi interpretativi difformi in tema di registrazione di atto di ricognizione di debito, ha rimesso gli atti al Primo Presidente della Corte, che ne ha disposto quindi l’assegnazione alle Sezioni Unite civili, dinanzi alle quali è stata fissata la pubblica udienza.
Il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione ha quindi nuovamente depositato conclusioni scritte, ai sensi dell’art. 23, comma 8 – bis del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176, e dell’art. 16, comma 1, del d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, poi convertito, con modificazioni, dalla l. 25 febbraio 2022, n. 15, chiedendo rigettarsi il ricorso.
Non essendo stata fatta, secondo le succitate norme, nei termini, richiesta di discussione orale, la causa è stata decisa all’odierna camera di consiglio delle Sezioni Unite, in prossimità della quale il ricorrente ha depositato ulteriore memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Ugualmente ha depositato memoria l’Agenzia delle entrate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di norme di diritto (artt. 6 e 22 del d.P.R. n. 131/1986) di seguito anche TUR, (Testo Unico Registro) ed omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per avere omesso di rilevare come il decreto ingiuntivo, con relativa clausola di esecuzione provvisoria, avesse ad oggetto unicamente l’assegno e non anche la scrittura di ricognizione di debito.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione ed erronea applicazione dell’art. 6 del d.P.R. n. 131/1986 e relativa tariffa, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., nella parte in cui la decisione impugnata ha ritenuto che la nota di accompagnamento costituisse scrittura soggetta a registrazione in caso d’uso e che quest’ultimo nella fattispecie fosse da ravvisare nel deposito dell’atto a fini probatori in giudizio.
3. Con il terzo motivo il contribuente lamenta ancora violazione ed erronea applicazione del d.P.R. n. 131/1986 e relativa tariffa, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., con riferimento all’omessa previsione della registrazione di scrittura di ricognizione di debito, che avrebbe dovuto indurre la CTR a confermare la sentenza di primo grado che ne aveva escluso la sottoposizione ad imposta ai sensi del TUR e relativa tariffa.
4. Con il quarto motivo, infine, il ricorrente denuncia cumulativamente violazione ed erronea applicazione degli artt. 112, 345 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., nonché degli artt. 17 bis e 36, n. 4, d. lgs. n. 546/1992, in relazione agli artt. 360, primo comma, nn. 3 e 4 cod. proc. civ., deducendo che la CTR avrebbe omesso di pronunciarsi sull’eccezione di esso appellato in merito all’illegittimità della richiesta dell’Agenzia delle entrate di sentire dichiarare «legittima la procedura seguita», pur avendo precisato che era intervenuto l’annullamento parziale dell’avviso di liquidazione oggetto di reclamo, con riduzione della tassazione in misura proporzionale secondo l’aliquota dell’1%, effettuata unicamente per evitare la controversia, emettendo così una nuova pronuncia su cosa giudicata, atteso che la pretesa dell’Ufficio, per effetto del parziale accoglimento del reclamo, era ormai limitata all’importo conseguente alla ridotta anzidetta tassazione ed al conseguente trattamento sanzionatorio, questi ultimi quindi oggetto del ricorso poi iscritto a ruolo dinanzi alla CTP di Napoli in primo grado.
5. Appare opportuno premettere una più puntuale descrizione del fatto alla base della presente controversia.
È incontestato che l’odierno ricorrente abbia ottenuto dal Tribunale di Napoli decreto ingiuntivo, provvisoriamente esecutivo, sulla base di assegno bancario, non trasferibile, recante la data del 20.1.2010, nei confronti di Michele Angelo Leone, allegando altresì agli atti del procedimento monitorio “nota manoscritta”, firmata dal debitore, il cui tenore letterale è stato trascritto, in ossequio al principio di autosufficienza, a pag. 8 del ricorso per cassazione, datata 20.10.2009, in cui si dà atto della causale (prestito personale, infruttifero), del fatto che l’importo comprende due corresponsioni di denaro avvenute in tempi diversi, rispettivamente di quindicimila e di diecimila euro, e che la data di restituzione del prestito è stata convenuta il 15 gennaio 2010.
Premesso che è altrettanto incontestato che il decreto ingiuntivo è stato regolarmente registrato e sottoposto alla relativa imposizione, la pretesa estrinsecata dall’Amministrazione finanziaria nell’avviso di liquidazione notificato all’odierno ricorrente ha riguardato la sottoposizione all’imposta di registro secondo l’aliquota proporzionale del 3% riguardo all’anzidetta scrittura privata, sul presupposto che nella fattispecie in esame trovasse applicazione l’art. 9 della Tariffa – Parte I – allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, rientrando detta scrittura tra gli «[a]tti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale».
Detto avviso di liquidazione è stato impugnato dal contribuente in sede di merito sulla base, per quanto qui rileva, di due principali motivi: a) l’essere non dovuta alcuna imposta per essere stato emesso il decreto ingiuntivo sula base di assegno bancario, atto per il quale non vi è obbligo di chiedere la registrazione, ai sensi dell’art. 11 della Tabella allegata al TUR; b) l’essere comunque non dovuta alcuna imposta, non concretizzando la produzione in giudizio della scrittura privata non autenticata, sopra menzionata, avente natura di ricognizione di debito, “caso d’uso”.
Nell’ambito della fase precontenziosa ex art. 17 bis del d. lgs. n. 546/1992 l’Agenzia delle entrate ha parzialmente accolto il reclamo del contribuente con provvedimento n. prot. 76864 del 18 maggio 2014, per effetto del quale «le imposte in relazione alla ricognizione del debito sono state rideterminate al 1% e proporzionalmente anche la sanzione per omessa registrazione pari al 120%», precisandosi ulteriormente che «[p]ertanto, viene meno la legittimazione ad agire in giudizio relativamente alla parte dell’atto che è stata annullata».
Ne è conseguito che il ricorso iscritto a ruolo ha quindi contestato, sulla base degli stessi motivi, la pretesa del fisco nell’an, sostenendosi, da parte del contribuente, per le ragioni dinanzi esposte, che non dovesse essere versata imposta alcuna, e, comunque, nel quantum come ridotto a seguito del parziale accoglimento del reclamo.
6. Ciò premesso, vanno esaminati previamente il primo ed il quarto motivo di ricorso.
Essi sono entrambi infondati.
6.1. Con il primo motivo, come innanzi riportato sub 1), il ricorrente lamenta al tempo stesso violazione delle norme di diritto indicate in epigrafe, alle quali, nell’esplicazione del motivo stesso, ha aggiunto l’art. 11 della Tabella allegata al TUR, nonché omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, per avere erroneamente escluso ogni rilevanza all’assegno prodotto in giudizio ed al decreto tassato che di tale scrittura non fa menzione, affermando che l’assegno troverebbe supporto dalla scrittura privata.
Il motivo è infondato in relazione ad entrambi i distinti profili di censura. Premesso che qui il richiamo all’art. 6 del TUR (su cui infra par. 7 e relativi sottoparagrafi) non è pertinente all’effettivo ambito della censura come dinanzi delineata e che non vi è alcun cenno, nella sentenza impugnata – che ha riformato la sentenza di primo grado che aveva viceversa dato atto che nel provvedimento del giudice non vi era menzione di detta nota – all’enunciazione nel decreto ingiuntivo dell’atto di ricognizione di debito, per cui del pari la censura riferita alla violazione dell’art. 22 TUR non inerisce alla ratio decidendi, ugualmente non vi è violazione dell’art. 11 della Tabella allegata al TUR, né omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, avendo ad oggetto la pretesa impositiva non già il decreto ingiuntivo, pacificamente sottoposto ad imposta di registro, né l’assegno sulla base del quale è stato emesso, per il quale del pari pacificamente non vi è obbligo di registrazione, ma la scrittura privata non autenticata di ricognizione di debito.
6.2. Il quarto motivo – di là dai profili d’inammissibilità pur evidenziati nelle conclusioni scritte del Procuratore Generale in relazione al difetto di specificità della censura, oscillando la stessa tra la denuncia di omessa pronuncia, di violazione del divieto di domande nuove in appello, di violazione dell’art. 17 bis del d.lgs. n. 546/1992 in tema di reclamo – mediazione, di difetto assoluto di motivazione – è in ogni caso infondato, dovendo il contenuto della pronuncia decisoria essere ricostruito anche alla luce dell’esposizione del fatto processuale, avendo dato ivi conto la sentenza impugnata chiaramente dei limiti della pretesa del fisco come oggetto del sindacato giurisdizionale richiesto dal contribuente all’atto del deposito del ricorso, per effetto dell’annullamento parziale dell’avviso di liquidazione conseguito all’accoglimento del reclamo nei limiti di quanto sopra osservato, con riduzione dell’assoggettamento dell’atto, ritenuto dall’Amministrazione soggetto a registrazione in termine fisso, ad imposta secondo l’aliquota minore dell’1%, con conseguente riduzione proporzionale del trattamento sanzionatorio.
6.3. La conclusione alla quale è pervenuta la CTR secondo la quale la scrittura privata in oggetto «è soggetta a registrazione», non può che essere riferita dunque al minore importo riliquidato in sede di reclamo sulla base della ritenuta applicabilità, da parte dell’Agenzia delle entrate, dell’art. 3, Parte I, della Tariffa, che prevede l’assoggettamento ad imposta di registro degli atti di natura dichiarativa relativi a beni o rapporti di qualsiasi natura secondo l’aliquota dell’1%, salvo il successivo art. 7, il quale ultimo non rileva nella fattispecie in esame.
7. Sono viceversa fondati il secondo e terzo motivo.
7.1. Con il secondo motivo il ricorrente censura come erronea in diritto, in violazione delle norme richiamate sub 2), la sentenza impugnata, nella parte in cui, pur riportando il testo dell’art. 6 TUR, ha affermato, con riferimento alla succitata nota di accompagnamento, che si tratta «di atto che costituisce “caso d’uso” in quanto trattasi di scrittura privata non autenticata».
Di là dall’improprietà della formula lessicale adoperata, afferendo il “caso d’uso” non all’atto in sé, ma all’attività che si estrinseca nel suo deposito, la statuizione in esame risulta affetta dal vizio denunciato.
Giova premettere che, ai sensi dell’art. 1 TUR, l’imposta di registro si applica, nella misura indicata nella tariffa allegata al detto testo unico, agli atti soggetti a registrazione e a quelli volontariamente presentati per la registrazione.
La succitata tariffa è suddivisa in due parti. L’art. 5 TUR, nella formulazione applicabile ratione temporis, prevede al comma 1 che sono soggetti a registrazione in termine fisso gli atti indicati nella parte prima della tariffa e in caso d’uso quelli indicati nella parte seconda. Il comma 2, per quanto qui utile riportare, stabilisce che «[l]e scritture private non autenticate sono soggette a registrazione in caso d’uso se tutte le disposizioni in esse contemplate sono relative ad imposizioni soggette all’imposta sul valore aggiunto».
L’art. 6 TUR, di cui la ricorrente lamenta, in uno alla relativa Tariffa parte seconda, la violazione, prevede che «[s]i ha caso d’uso quando un atto si deposita, per essere acquisito agli atti, presso le cancellerie giudiziarie nell’esplicazione di attività amministrative o presso le amministrazioni dello Stato o degli enti pubblici territoriali e i rispettivi organi di controllo, salvo che il deposito avvenga ai fini dell’adempimento di un’obbligazione delle suddette amministrazioni, enti o organo ovvero sia obbligatorio per legge o per regolamento».
7.2. Ciò posto, dato atto, per quanto attiene al presente giudizio, che la scrittura privata non autenticata di cui si discute, ricognitiva, per quanto più in dettaglio di seguito osservato, di un prestito personale, non attiene ad operazioni soggette ad IVA, e ribadito che non vi è alcun riferimento, nella decisione impugnata, al diverso profilo dell’enunciazione, espressamente esclusa peraltro dalla pronuncia di primo grado, di atti non registrati, di cui all’art. 22 TUR – dovendosi, inoltre, opportunamente rilevare come, secondo la giurisprudenza della Corte, l’enunciazione non costituisca “caso d’uso” (cfr., tra le molte, Cass. sez. 5, ord. int. 6 aprile 2022, n. 11118; Cass. sez. 6-5, ord. 29 marzo 2021, n. 8869; Cass. sez. 5, 30 ottobre 2015, n. 22243; Cass. sez. 5, 14 marzo 2007, n. 5946) – la decisione impugnata, che sembra dedurre tout court la ricorrenza del “caso d’uso” dalla natura di scrittura privata autenticata della nota di accompagnamento all’assegno di cui al credito azionato dal contribuente con il ricorso per decreto ingiuntivo, incorre, secondo quanto esposto nelle seguenti considerazioni, nella denunciata violazione di legge.
7.3. L’art. 6 TUR, come sopra trascritto, riproduce, in sostanza, il contenuto della precedente disposizione di cui all’art. 6 del d.P.R. 1972, n. 634, che segnava invece un’evidente cesura rispetto alla prima norma che stabiliva l’obbligo di registrazione di atti in “caso d’uso”, l’art. 2 del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269 (Approvazione del testo di legge del Registro), che, dopo avere stabilito, al primo comma, la ripartizione tra gli atti da registrarsi in termine fisso e quelli soggetti invece a registrazione solamente in caso d’uso, stabiliva, al secondo comma, che ai sensi dell’anzidetta legge, si aveva caso d’uso: «1° Quando gli atti si presentano o si producono in giudizio davanti l’autorità giudiziaria ordinaria e nei procedimenti in sede giurisdizionale avanti il Consiglio di Stato, la Corte dei conti, le Giunte provinciali amministrative, i Consigli di Prefettura ed ogni altra speciale giurisdizione e quando si producono davanti agli arbitri;
2° Quando si riportano in tutto o in parte in atti pubblici o privati soggetti a registrazione o si inseriscono negli atti, pure soggetti a registrazione, delle cancellerie giudiziarie o delle pubbliche amministrazioni o degli enti pubblici».
Mentre, dunque, la disposizione da ultimo citata comportava che la produzione di un atto nei procedimenti giurisdizionali determinasse un caso d’uso, detta previsione non è contemplata dall’attuale art. 6 TUR, per il quale il deposito dell’atto, perché ne derivi il “caso d’uso”, deve avvenire, per quanto qui rileva, «presso le cancellerie giudiziarie nell’esplicazione di attività amministrative», e non deve essere oggetto di un obbligo.
L’attività deve dunque costituire frutto di una valutazione discrezionale della parte che la compia, integrando quindi un onere a carico della parte medesima che, come già evidenziato da questa Corte (cfr. Cass. sez. 5, 12 novembre 2014, n. 24107; Cass. sez. 5, 23 maggio 2005, n. 10865), intenda conseguire dal deposito «un effetto sostanziale e cioè l’acquisizione dell’atto medesimo a fini giuridici ed operativi»; ciò in sintonia con l’indirizzo espresso in dottrina, secondo cui è «il presupposto teleologico» a fondare l’obbligo di registrazione in “caso d’uso”, non essendo di per sé sufficiente il mero deposito a concretizzarlo.
7.4. Nel caso di specie il deposito della scrittura privata di cui si discute, prodotta nella cancelleria del giudice civile in sede di procedimento contenzioso, certamente non può integrare, alla stregua di quanto sopra osservato, “caso d’uso”, presupponendo l’art. 6 TUR, come detto, che il deposito dell’atto debba avvenire presso le cancellerie giudiziarie nell’esplicazione di attività amministrative.
Ciò, d’altronde, oltre che conforme al tenore letterale della norma richiamata, è in linea con la necessità di assicurare che la tutela del diritto di difesa, garantita dall’art. 24 Cost., possa dispiegarsi pienamente, senza che essa possa risultare ostacolata dall’imposizione fiscale derivante dall’applicazione dell’imposta di registro sul deposito dell’atto funzionale al conseguimento per l’interessato di fini giuridici ed operativi.
7.5. La stessa Amministrazione finanziaria, del resto, come evidenziato in particolar modo nella memoria da ultimo depositata in atti, è consapevole di ciò, avendo ivi richiamato i propri atti di prassi (cfr. Ris. min. 4 aprile 1978, n. 250117; Ris. min. 17 gennaio 1979, n. 251170; Ris. min. 5 aprile 1983, n. 251258), che hanno escluso il “caso d’uso” nelle ipotesi di allegazione di un documento ad un atto giudiziario nell’ambito di un’attività processuale contenziosa.
La strada seguita dall’Agenzia delle entrate nel giustificare l’assoggettamento della scrittura privata di cui in oggetto ad imposta di registro è stata, infatti, quella di ritenere l’atto soggetto ad obbligo di registrazione in termine fisso, sia pure con oscillazione riguardo alla norma ritenuta applicabile, avendo dapprima l’Ufficio ritenuto che l’atto dovesse scontare l’imposta nella misura proporzionale del 3% (art. 9, parte I, della Tariffa), norma di chiusura che assoggetta a detta aliquota «gli [a]tti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale», salvo, poi, in sede di accoglimento parziale del reclamo del contribuente, ridurre la pretesa impositiva sul presupposto dell’applicabilità, nella fattispecie in esame, dell’art. 3, parte I, della Tariffa, che prevede l’imposizione proporzionale nell’1% sugli «[a]tti di natura dichiarativa relativi a beni o rapporti di qualsiasi natura, salvo il successivo art. 7», norma, quella dell’art. 7, che non rileva ai fini del presente giudizio.
7.6. L’ordinanza interlocutoria n. 33313/21 ha ricostruito la diversità degli orientamenti che, nell’ambito della stessa giurisprudenza della sezione tributaria della Corte, si sono manifestati con riferimento all’applicazione dell’imposta di registro alla ricognizione di debito.
7.6.1. Va premesso che altro è l’imposizione sul decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo emesso, che l’art. 37 TUR assoggetta ad imposta proporzionale nella misura del 3%, salvo conguaglio in base a successiva sentenza passata in giudicato – imposta pacificamente assolta dal contribuente nella fattispecie in esame – altro è l’imposizione cui debba, ricorrendone le condizioni, essere assoggettata eventualmente la ricognizione di debito allegata alla relativa domanda giudiziale.
Su tale ultimo aspetto il contrasto rilevato risente certamente della mancata espressa previsione, da parte del d.P.R. n. 131/1986, del trattamento fiscale ai fini dell’imposta di registro della ricognizione di debito, laddove il già citato r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269, all’art. 8 della Tariffa, allegato A, come modificato dalla l. 4 aprile 1953, n. 261, assoggettava la ricognizione di debito all’aliquota proporzionale dell’1,5%.
L’esame del trattamento fiscale, ai fini dell’imposta di registro, della ricognizione di debito, non può prescindere dall’esame della natura giuridica della stessa, come disciplinata, unitamente alla promessa di pagamento, dall’art. 1988 cod. civ., secondo il quale «[l]a promessa di pagamento o la ricognizione di debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale. L’esistenza di questo si presume fino a prova contraria».
7.6.2. È espressione di principio consolidato la statuizione secondo cui la ricognizione di debito, al pari della promessa di pagamento, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma determina un’astrazione meramente processuale della causa debendi, comportante una semplice relevatio ab onere probandi, per la quale il destinatario della ricognizione di debito è dispensato dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale (cfr., più di recente, Cass. sez. 1, ord. 25 gennaio 2022, n. 2091; Cass. sez. 3, 2020, n. 24451; Cass. sez. 1, 20 dicembre 2016, n. 26334), il quale ultimo si presume pertanto fino a prova contraria.
Esso può essere indicato o meno nell’atto ricognitivo, nel primo caso parlandosi di riconoscimento titolato, nel secondo caso di riconoscimento puro.
La divergenza, rilevabile, in ambito civilistico, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, in ordine all’affermazione della natura negoziale (in tal senso, tra le altre, in giurisprudenza, Cass. sez. 3, ord. 3 novembre 2020, n. 24451; Cass. sez. 3, 22 luglio 2004, n. 13642; Cass. sez. 1, 9 febbraio 2001, n. 1831; Cass. sez. 1, 20 luglio 2000, n. 9530; Cass. sez. 1, 26 giugno 1992, n. 8029), o meno, della ricognizione di debito, si riflette anche sul piano delle conseguenze che se ne fanno discendere riguardo al tipo d’imposizione in tema d’imposta di registro.
7.6.3. In relazione al profilo fiscale, in via di tendenziale schematizzazione, come rilevato nell’ordinanza interlocutoria n. 33313/21, le posizioni assunte dalla giurisprudenza della sezione tributaria della Corte possono ricondursi a tre filoni interpretativi.
I primi due corrispondono alle posizioni assunte, nel presente giudizio, dall’Amministrazione finanziaria, in limine litis, dapprima con la notifica dell’avviso di liquidazione avente ad oggetto la pretesa dell’assoggettamento della nota di accompagnamento, recante la ricognizione di debito, all’imposta proporzionale di registro, in termine fisso, nella misura del 3%, successivamente, con l’accoglimento parziale del reclamo, nella misura ridotta dell’1%.
7.6.4. La prima tesi (cfr., più di recente, Cass. sez. 5, 14 luglio 2017, n. 17808, nonché, principalmente, la già citata Cass. n. 24107/14), senza operare distinzioni di sorta, ritiene che la ricognizione di debito debba farsi rientrare nell’ambito dell’art. 9 della tariffa, parte I, del d.P.R. n. 131/1986, che assoggetta all’imposizione proporzionale nella misura del 3% gli «[a]tti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale»; ciò, essenzialmente, in ragione della considerazione secondo cui è «difficile negare che la patrimonialità pertenga all’obbligazione certificata in una scrittura ricognitiva di debito» (così, in motivazione, la citata Cass. n. 24107/14), dovendo pertanto trovare applicazione la previsione residuale di cui al citato art. 9 della tariffa, parte I.
7.6.5. Diversamente, sempre movendo però dalla condivisione della natura di dichiarazione di volontà della ricognizione di debito, nell’ambito del secondo orientamento si è affermato che – posto che non sempre nell’atto ricognitivo risulta esplicitata la causa debendi mediante richiamo, implicito o esplicito, all’esistenza dell’atto costitutivo di un sottostante rapporto patrimoniale, donde, come si è visto, la ricognizione di debito può assumere forma “pura” o “titolata”- laddove dalla ricognizione non risulti l’esistenza dell’atto costitutivo di un rapporto patrimoniale sottostante, di modo che non è dato verificare se per esso risulti già versata o meno l’imposta dovuta, la dichiarazione, priva di contenuto patrimoniale, non comportando alcuna innovazione rispetto all’obbligazione contratta, va ricondotta alla previsione di cui all’art. 3, parte prima, della tariffa, che prevede l’assoggettamento all’imposta proporzionale nella misura dell’1% degli «[a]tti di natura dichiarativa, relativi a beni o rapporti di qualsiasi natura», sempre soggetti all’obbligo di registrazione in termine fisso (cfr., tra le altre, Cass. sez. 5, ord. 16 giugno 2021, n. 15190; Cass. sez. 5, 12 febbraio 2020, n. 3379; Cass. sez. 6-5, ord. 18 gennaio 2017, n. 1247; Cass. sez. 5, 15 luglio 2016, n. 14480; Cass. sez. 5, 20 giugno 2008, n. 16829; Cass. sez. 5, 28 maggio 2007, n. 12432).
7.6.6. Secondo un terzo orientamento, infine, si è venuto affermando il principio secondo il quale alla ricognizione di debito, avendo essa natura meramente dichiarativa e, come tale, non apportando alcuna modificazione né rispetto alla sfera patrimoniale del debitore che la sottoscrive, né a quella del creditore che la riceve, limitandosi a confermare un’obbligazione già esistente (cfr., già, Cass. sez. 5, 19 gennaio 2009, n. 1132), deve attribuirsi natura di mera dichiarazione di scienza, rispetto alla quale non sarebbe applicabile, quindi, né l’art. 9, parte prima, della tariffa, né l’art. 3, parte prima della tariffa, ma l’art. 4, parte II, della Tariffa, secondo cui, sono assoggettate, in caso d’uso, ad imposta di registro in misura fissa, per quanto qui rileva, le scritture private non autenticate non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale (cfr. Cass. sez. 5, 2021, n. 15268; Cass. sez. 5, 11 gennaio 2018, n. 481).
7.6.7. Per completezza espositiva va altresì segnalata un’ulteriore tesi, che ha trovato adesione in qualche pronuncia di merito, rimasta peraltro isolata, secondo cui la ricognizione di debito andrebbe assoggettata ad imposta proporzionale di registro nella misura dello 0,50%, in relazione all’art. 6, Parte I, della Tariffa, che prevede la registrazione in termine fisso in tale misura proporzionale delle «[ce]ssioni di crediti, compensazioni e remissioni di debiti, quietanze, tranne quelle rilasciate mediante scrittura privata non autenticata; garanzie reali e personali a favore di terzi, se non richieste dalla legge», ciò sull’asserito presupposto che gli atti di riconoscimento di debito, al pari di quelli ivi menzionati, non determinano un incremento patrimoniale.
7.6.8. Limitando, ai fini della risoluzione del segnalato contrasto, l’esame ai primi tre diversi orientamenti sui quali si è posizionata la sopra richiamata giurisprudenza sezionale della Corte, queste Sezioni Unite ritengono che occorra muovere comunque dall’analisi dal disposto dell’art. 3, parte I, della Tariffa, che, come è stato puntualmente evidenziato in dottrina, in assenza di esplicita previsione in tema di tassazione degli atti a contenuto ed effetto ricognitivo da parte del vigente TUR e relative tariffe ad esso allegate, è la sola norma che, in termini generali, vi si avvicini e che, come si è già detto, assoggetta a registrazione in termine fisso con l’aliquota dell’1% gli «[a]tti di natura dichiarativa relativi a beni o rapporti di qualsiasi natura».
Si è posto in rilievo che, nel genus degli atti avanti natura dichiarativa sono tendenzialmente distinguibili tre diverse categorie di atti: a) quella degli atti o negozi “dichiarativi” riferibili alle fattispecie nella quali, come nella divisione, si abbia, per effetto del negozio dichiarativo, una modificazione della situazione giuridica preesistente, senza che a ciò consegua, però, il prodursi di effetti obbligatori o reali; b) quella degli atti o negozi “ricognitivi” finalizzati, da parte di chi li pone in essere, a manifestare la propria consapevolezza in ordine ad una data situazione giuridica, non incerta, preesistente all’atto ricognitivo, situazione che pertanto non viene ad essere in alcun modo innovata, non ricorrendo, rispetto ad essa, alcun effetto costitutivo, modificativo od estintivo ad opera dell’atto ricognitivo; c) quella, infine, degli atti o negozi di accertamento (distinguibili in negozi di “mero accertamento” e in negozi di “accertamento costitutivo”), la cui causa sia quella di rimuovere un’oggettiva e riconosciuta dalle parti situazione d’incertezza.
Per quanto concerne gli atti ricognitivi, con riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio, ove (si veda supra, par. 5) l’atto di riconoscimento del debito – che fa espressamente riferimento al rapporto fondamentale sottostante, riconoscendo il debitore una situazione giuridica certa nella quale, per effetto di due successive dazioni di denaro, egli deve restituire al creditore il complessivo importo di euro 25.000,00 erogatogli come prestito personale, è propriamente un atto meramente ricognitivo, come tale atto giuridico in senso stretto, dal quale, dunque, non scaturisce alcun effetto reale o obbligatorio, l’obbligazione riferita al rapporto fondamentale essendo a monte, né potendo ad esso ricondursi un autonomo rilievo patrimoniale, derivandone solo l’agevolazione per il creditore sul piano dell’onere della prova, che, operando pertanto sul piano dell’astrazione processuale, non può qualificarsi come effetto “dichiarativo” dell’atto di riconoscimento.
7.6.9. In ragione di ciò ritengono queste Sezioni Unite che debba preferirsi il terzo orientamento sopra menzionato, con la conseguenza che, nella fattispecie in esame, la scrittura privata non autenticata di mero riconoscimento di debito debba essere ricondotta, ai fini dell’imposta di registro, all’art. 4, Parte II della Tariffa, che assoggetta, in caso d’uso, le scritture private non autenticate non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale ad imposta fissa (attualmente nell’importo di euro 200,00).
8. Possono, dunque, alla stregua delle considerazioni che precedono, enunciarsi i seguenti principi di diritto:
«Il deposito di documento a fini probatori in procedimento contenzioso non costituisce “caso d’uso” in relazione all’art. 6 del d.P.R. n. 131/1986».
«La scrittura privata non autenticata di ricognizione di debito che, come tale, abbia carattere meramente ricognitivo di situazione debitoria certa, non avendo per oggetto prestazione a contenuto patrimoniale, è soggetta ad imposta di registro in misura fissa solo in caso d’uso».
9. In relazione a tale ultimo principio, occorre, comunque, evidenziare come il giudice di merito debba pervenire alla qualificazione della natura dell’atto all’esito d’interpretazione dell’atto stesso ex art. 20 TUR che, nella sua attuale formulazione seguita alla modifica ad esso apportata dall’art. 1, comma 87, lett. a), nn. 1) e 2), della l. 27 dicembre 2017, n. 205, prevede che «[l’]imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi», di cui, come è noto, il giudice delle leggi, ha confermato, con due diverse pronunce (Corte cost. 21 luglio 2020, n. 158 e Corte cost. 16 marzo 2021, n. 39, anche in relazione all’art. 1, comma 1084, della l. 30 dicembre 2018, n. 145, in forza del quale l’art. 1, comma 87, lett. a, della l. n. 205 del 2017 costituisce interpretazione autentica dell’art. 20 del d.P.R. n. 131/1986), la legittimità costituzionale.
9.1. Laddove, infatti, a mero titolo esemplificativo, indipendentemente dal nomen iuris adoperato di ricognizione di debito, debba riconoscersi alla dichiarazione un effetto modificativo di una situazione giuridica obbligatoria preesistente, che assuma rilevanza patrimoniale, tornerà applicabile l’art. 3, parte I della Tariffa, con obbligo di registrazione in termine fisso, da assoggettare ad imposta proporzionale secondo l’aliquota dell’1%, da applicare al valore del bene o del diritto oggetto dell’atto dichiarativo (art. 43, comma 1, lett. a, TUR), come espresso nello stesso atto dichiarativo.
9.2. Nella fattispecie in esame, incontroversa, in fatto, la natura di atto meramente ricognitivo della dichiarazione di riconoscimento di debito, e ribadito che il suo deposito contestualmente ad assegno bancario in sede di ricorso per decreto ingiuntivo – quest’ultimo pacificamente assoggettato a regolare imposizione secondo l’art. 37 TUR – non integra “caso d’uso”, il ricorso per cassazione del contribuente va accolto in relazione al secondo e terzo motivo, con conseguente cassazione dell’impugnata sentenza e, non ricorrendo la necessità di ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ex art. 384, secondo comma, ultima parte, cod. proc. civ., con accoglimento dell’originario ricorso del contribuente (in relazione al quarto motivo dello stesso).
10. Stante il contrasto di giurisprudenza che ha dato luogo alla rimessione alla Sezioni Unite della presente controversia, ricorrono le condizioni di legge per compensare tra le parti le spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo la causa nel merito, accoglie l’originario ricorso del contribuente.
Dichiara compensate tra le parti le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili dell’11 ottobre 2022
Il Consigliere estensore
Dott. Lucio Napolitano
Il Presidente
Dott. Pietro Curzio
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 11 novembre 2021, n. 33313, per SS.UU, 16 marzo 2023, n. 7682, in tema di caso d’uso
SS.UU, 16 marzo 2023, n. 7682, in tema di caso d’uso