In tema di legato in sostituzione di legittima – SS.UU, 29 marzo 2011, n. 7098
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli I.llmi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VITTORIA Paolo – Primo Presidente f.f.
Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente di Sezione
Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere
Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere
Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere
Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere
Dott. MAZZACANE Vincenzo – rel. Consigliere
Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere
Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 7202/2005 proposto da:
F.R. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, Via CARLO POMA 2, presso studio dell’avvocato TROILO GREGORIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CATALDO ENRICO, per delega a margine del ricorso;
-ricorrente-
contro
B.G;
-intimato-
sul ricorso 10047/2005 proposto da:
B.G. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 35, presso lo studio dell’avvocato DI TULLIO CLAUDIO, che lo rappresenta e difende, per delega in calce al controricorso e ricorso incidentale;
-controricorrente e ricorrente incidentale-
contro
F.R.;
-intimata-
avverso la sentenza n. 555/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 03/02/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/03/2011 dal Consigliere Dott. VINCENZO MAZZACANE;
uditi gli avvocati Gregorio TROILO, Claudio DI TULLIO;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 12-2-1994 B.G. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma F. R., erede di F.G., chiedendo accertarsi la lesione del diritto di legittima spettante alla propria madre B.M. (e successivamente al di lei figlio) con riferimento al testamento pubblico del 23-3-1992 con il quale il “de cuis” aveva nominato sua erede universale la sorella F.R. ed usufruttuaria di tutti i suoi beni la moglie B.M..
La F. costituendosi in giudizio contestava il fondamento della domanda attrice di cui chiedeva il rigetto Il Tribunale adito con sentenza del 2-3-2001 accoglieva la domanda attrice, riconoscendo al coniuge del “de cuius”, e per suo tramite al figlio, la metà del patrimonio relitto da F.G..
Proposto gravame da parte della F. cui resisteva il B. la Corte di Appello di Roma con sentenza del 3-2-2004 ha rigettato l’impugnazione ed ha compensato interamente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio; in proposito la Corte territoriale ha negato che l’esercizio dell’azione di riduzione fosse precluso dalla preventiva mancata rinuncia formale da parte di B.M. al legato relativo a beni immobili con atto scritto, sostenendo che in caso di legato in sostituzione di legittima ex art. 551 c.c., non è necessaria una vera e propria rinuncia, perchè l’acquisto non si verifica “ope legis” come per il legato ex art. 649 c.c., essendo sufficiente un mero rifiuto, ovvero un atto impeditivo dell’acquisto,
non soggetto a vincoli formali; pertanto era idoneo allo scopo l’incarico orale dato dalla B. al proprio procuratore, che aveva poi formalizzato la volontà di non acquistare il legato con lettera del 10-2- 1993.
Per la cassazione di tale sentenza la F. ha proposto un ricorso articolato in quattro motivi illustrato successivamente da una memoria cui il B. ha resistito con controricorso proponendo altresì un ricorso incidentale basato si di un unico motivo.
Con ordinanza interlocutoria del 23-7-2010 la seconda sezione civile di questa Corte ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, sostenendo che l’esame del secondo motivo del ricorso del ricorso principale – avente ad oggetto la dedotta necessità della rinuncia formale al legato in sostituzione di legittima quale presupposto per l’esercizio dell’azione di riduzione delle disposizioni lesive della quota di riserva – comportava la decisione di una questione della massima importanza; al riguardo ha sollecitato un ripensamento critico della tesi tradizionale per la quale l’esercizio dell’azione di riduzione è precluso dalla preventiva mancata rinuncia formale al legato relativo a diritti reali immobiliari.
L’ordinanza menzionata ha affermato che l’opinione dominante secondo cui la rinuncia al legato avente ad oggetto beni immobili ai sensi dell’art. 1350 n. 5 c.c. deve avere forma scritta perchè con essa il legatario si priva di un diritto già compreso nel suo patrimonio, trascura di considerare quella parte dell’art. 551 c.c. – che prevede la preferenza dell’onorato verso il conseguimento del legato – con la quale sarebbe disciplinata la necessità di una accettazione, ancorchè tacita, del legato; ha evidenziato poi che l’adozione della interpretazione tradizionale dell’art. 551 c.c. conduce a ritenere che tale norma non prevederebbe una forma per l’atto positivo di scelta, che pure importa effetti giuridici rilevanti, quali la perdita del supplemento ed il mancato acquisto della qualità di erede; inoltre ha segnalato possibili effetti discriminatori laddove non si tenda ad una equiparazione tra la figura del legatario in sostituzione di legittima e quella dell’erede chiamato all’eredità, probabilmente voluta dal legislatore nel configurare il legato tacitativo; tali incongruenze sarebbero superate aderendo all’assunto sostenuto da una parte della dottrina che ritiene la rinuncia al legato come fatto impeditivo che porterebbe all’omissio acquirendi” e toglierebbe effetto alla delazione. La ricorrente ha in seguito depositato una ulteriore memoria.
Motivi della decisione
Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza.
Venendo quindi all’esame del ricorso principale, si ritiene di esaminare prioritariamente per ragioni logico – giuridiche il secondo motivo con il quale la F., denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 551 e 649 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione, assume che erroneamente la Corte territoriale ha escluso la possibilità di un acquisto “ope legis” del legato in sostituzione di legittima e conseguentemente ha negato la necessità di una sua rinuncia, da eseguirsi in forma scritta in quanto riguardante un legato di beni immobili.
La ricorrente principale sostiene che tale assunto si pone in contrasto con l’indirizzo consolidato di questa Corte secondo cui anche il legato in sostituzione di legittima si acquista automaticamente all’apertura della successione; aggiunge inoltre che, poichè l’art. 551 c.c., comma 1, impone una espressa rinuncia al legato qualora il legittimario voglia ottenere la quota ad esso spettante, interpretando anche il secondo comma della menzionata norma come una disposizione che imponga una espressione di volontà per il conseguimento del legato, si giungerebbe alla conclusione che il legato in sostituzione di legittima non produrrebbe alcun effetto fino a che il legatario non esprimesse la sua volontà in un senso o nell’altro; conclusione, quest’ultima, inaccettabile sia in relazione all’art. 649 c.c. in materia di legato, sia per l’impossibilità di configurare nell’art. 551 c.c., comma 2, una deroga implicita alte regole generali sul legato, sia perchè per questa via si finirebbe per equiparare la figura del legatario in sostituzione di legittima a quella dell’erede chiamato all’eredità che deve decidere se accettare o meno l’eredità medesima.
Con il terzo motivo la F., deducendo violazione degli artt. 551 e 649 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver affermato che, poichè non sarebbe configurabile l’acquisto “ope legis” del legato, non sarebbe necessaria alcuna rinuncia, ma semplicemente e diversamente un mero rifiuto, anche tacito, che come tale può essere espresso anche mediante l’azione di riduzione. La ricorrente principale rileva che in tal modo, nel tentativo di far prevalere una interpretazione fondata sulla lettera della legge (valorizzando sino all’estremo la locuzione “se preferisce conseguire” di cui all’art. 551 c.c., comma 2), si finisce per stravolgere il senso e la lettera del comma 1, dello stesso articolo, dove è previsto che il legittimario “può rinunziare al legato”; inoltre il giudice di appello non ha tenuto conto che il B., che non era erede legittimario di F.G., non poteva aver ereditato dalla propria madre la facoltà di rinunciare al legato dalla stessa ricevuto.
Le enunciate censure, da esaminare congiuntamente per ragioni di connessione, attengono entrambe alla statuizione della Corte territoriale che, come già riferito, ha negato che l’esperibilità dell’azione di riduzione da parte di B.G. fosse preclusa dalla mancata rinuncia in forma scritta da parte di B.M. al legato avente ad oggetto beni immobili, avendo affermato, sulla scorta di autorevole indirizzo dottrinario, che la cosiddetta rinuncia al legato non si risolve in un atto dismissivo di diritti di cui il disponente è divenuto titolare, ma configura solamente un atto impeditivo del loro acquisto, come tale non soggetto a vincoli formali; tale assunto sarebbe poi specificatamente avvalorato riguardo al legato in sostituzione di legittima, posto che l’art. 551 secondo comma prevede espressamente che il legittimario preferisca “conseguire il legato”; pertanto, trattandosi di un mero rifiuto, l’atto suddetto non necessiterebbe di forme solenni, e dunque potrebbe essere espresso anche mediante l’esercizio dell’azione di riduzione.
Orbene l’esame della questione ora enunciata, che ha determinato l’emissione della menzionata ordinanza interlocutoria della seconda sezione civile di questa Corte, comporta da un lato una rassegna dell’orientamento giurisprudenziale finora maturatosi al riguardo, e dall’altro una disamina degli spunti critici sollevati dalla dottrina in senso contrario che hanno costituito la base del convincimento espresso in proposito dalla sentenza impugnata.
Sotto un primo profilo quindi deve richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale costante di questa Corte secondo cui, poichè il legato si acquista senza bisogno di accettazione, la rinuncia al legato avente ad oggetto beni immobili, risolvendosi in un atto di dismissione della proprietà di beni già acquisiti al patrimonio del rinunciante, ai sensi dell’art. 1350 c.c., n. 5, deve essere espressa per iscritto a pena di nullità (vedi in tal senso “ex multis” Cass. 8-4-1954 n. 1040; Cass. 5-6-1971 n. 1683; Cass. 26-1-1990 n. 459; Cass. 2-2-1995 n. 1261; Cass. 3-7-2000 n. 8878; Cass. 22-7-2004 n. 13785; Cass. 22-6-2010 n. 15124); queste conclusioni vengono estese alla rinuncia al legato in sostituzione di legittima sulla base del rilievo che anche in questa ipotesi il legato si acquista di diritto all’apertura della successione, e l’automaticità dell’acquisto non è esclusa dalla facoltà alternativa attribuita al legittimario di rinunciare al legato e chiedere la quota di legittima, tale possibilità dimostrando soltanto che l’acquisto del legato a tacitazione della legittima è sottoposto alla condizione risolutiva costituita dalla rinuncia del beneficiario, condizione che però non sottrae quest’ultima, qualora riguardi beni immobili, alla forma scritta richiesta dalla esigenza fondamentale della certezza dei trasferimenti immobiliari (così in particolare in motivazione Cass. 2-2-1995 n. 1261).
In senso contrario si è sviluppata una dottrina la cui elaborazione, risalente a diversi decenni orsono, muove dalla considerazione che la rinuncia ai legato non avrebbe natura di vera rinuncia, ovvero di atto con cui si dismette un diritto già acquistato, ma piuttosto di atto ostativo o impeditivo dell’acquisto; la rinuncia quindi impedirebbe il perfezionarsi della fattispecie dell’acquisto, come sarebbe confermato dall’inciso “salva la facoltà di rinunziare” contenuto nell’art. 649 c.c., comma 1, che invero altrimenti non avrebbe senso, atteso che ogni acquisto di un diritto privato e perciò disponibile fa sorgere nell’acquirente una tale facoltà; a conforto di tale assunto si sostiene che se la rinuncia al legato fosse dismissiva di un diritto già acquisito, essa dovrebbe comportare, per quanto riguarda gli immobili, il trasferimento della loro proprietà allo Stato (ai sensi dell’art. 827 c.c.), laddove invece è indubitabile che tali beni tornano a far parte del compendio ereditario come se il periodo intercorrente tra l’apertura della successione e la rinuncia al legato non fosse mai esistito.
L’adesione a tale impostazione determina quindi di per sè la conseguenza che anche la rinuncia al legato in sostituzione di legittima disciplinato dall’art. 551 c.c., avente ad oggetto beni immobili non è soggetta necessariamente alla forma scritta. I fautori dell’orientamento in esame traggono comunque ulteriori motivi a sostegno del loro assunto, come pure evidenziato nell’ordinanza della seconda sezione di questa Corte sopra menzionata, dall’esame del secondo comma della disposizione da ultimo richiamata, secondo la quale il legittimario in sostituzione di legittima “Se preferisce di conseguire il legato, perde il diritto di chiedere un supplemento, nel caso che il valore del legato sia inferiore a quello della legittima, e non acquista la qualità di erede”; invero in tal caso l’adesione al fegato determina la perdita non solo del diritto alla rinuncia ma anche di quello alla quota di legittima, cosicchè non sarebbe possibile prescindere dalla volontà del legittimario, e questa esigenza spiegherebbe il diritto di scelta attribuito a quest’ultimo dalla disposizione ora richiamata tra l’accettazione del legato ed il conseguimento della legittima onde bilanciare l’eccezionale potere attribuito ai testatore di privarlo del suo diritto ad una quota di eredità tacitandolo con il lascito di beni determinati; quindi, pur volendo ritenere automatico l’acquisto del legato ai sensi dell’art. 649 c.c., per il legittimario cui sia stato lasciato un legato in sostituzione di legittima la legge prevederebbe una accettazione del legato, con la conseguenza che prima di tale atto, non essendo ancora entrati i beni immobili oggetto del lascito nel patrimonio del legittimario stesso, non si porrebbe la necessità di una rinuncia a tale legato nella forma scritta.
Orbene nel procedere alla valutazione di tale autorevole indirizzo dottrinario occorre anzitutto muovere dall’interpretazione dell’art. 649 c.c., che disciplina l’acquisto del legato, per verificarne gli effetti per quanto riguarda la forma della rinuncia al legato avente ad oggetto beni immobili, e poi accertare se l’art. 551 c.c., dettato per il legato in sostituzione di legittima, autorizzi in ogni caso (e dunque anche a prescindere dalle conclusioni che si trarranno dall’analisi dell’art. 649 c.c.) una autonoma risposta al quesito relativo alla forma della rinuncia a tale legato, sempre ovviamente nel caso che il lascito abbia ad oggetto beni immobili. Sotto un primo profilo deve ritenersi che l’art. 649 c.c. non giustifichi una sua lettura diversa da quella costantemente seguita da questa Corte ed anche da una buona parte della dottrina, considerato che il comma 1, di tale norma, nel prevedere che “il legato si acquista senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziare”, depone inequivocabilmente per l’automaticità dell’acquisto, con la conseguenza che l’esercizio della “facoltà” di rinuncia comporta la dismissione di una attribuzione già acquisita al patrimonio del legatario; non meno significativamente poi il secondo comma della disposizione in esame prescrive che “Quando oggetto del legato è la proprietà di una cosa determinata o altro diritto appartenente al testatore, la proprietà o il diritto si trasmette dal testatore al legatario al momento della morte del testatore”, cosicchè l’acquisto del legato avente ad oggetto beni immobili avviene senza soluzione di continuità fin dal momento dell’apertura della successione.
E’ opportuno aggiungere che tale prima conclusione, legittimata dal chiaro ed inequivocabile tenore della disposizione in esame, non comporta l’assoluta inutilità dell’accettazione del legato, posto che il comportamento del legatario può assumere rilevanza come manifestazione della sua volontà di rendere definitivo ed irretrattabile l’acquisto già verificatosi “ex lege”, o come manifestazione della opposta volontà di spogliarsi del diritto e della qualità come innanzi acquistati, evenienza quest’ultima che produce tra l’altro l’effetto previsto dall’art. 467 c.c., comma 2, in materia di rappresentazione nella successione testamentaria, nel caso in cui l’istituito non possa o non voglia accettare il legato; in mancanza di conferma dell’acquisto o di rinuncia si determina pertanto una situazione di incertezza (che quindi riguarda non già l’acquisto del legato ma la stabilità del medesimo) che può essere rimossa, da parte di chiunque vi abbia interesse, attraverso l’azione prevista dall’art. 650 c.c. chiedendo all’autorità giudiziaria la fissazione di un termine entro il quale il legatario dichiari se intende esercitare la facoltà di rinunziare. Tale regime dell’acquisto del legato, nel diversificarsi dall’acquisto dell’eredità (che ai sensi dell’art. 470 c.c. e ss., deve essere accettata per produrre effetto), è coerente con il principio della non responsabilità per i debiti ereditari da parte del legatario, il quale invero è tenuto all’adempimento del legato e di ogni altro onere a lui imposto dal testatore entro i limiti del valore della cosa legata (art. 671 c.c.).
Da queste premesse discende quindi la conseguenza che per la rinuncia ad un legato avente ad oggetto beni immobili è necessaria la forma scritta ai sensi dell’art. 1350 c.c., n. 5; tali conclusioni non sono infirmate dal sopra enunciato rilievo in senso contrario secondo cui tale assunto non spiegherebbe come mai il bene oggetto del legato a seguito della rinuncia rientri nell’asse ereditario; invero ciò deriva dal fatto che la rinuncia determina la risoluzione dell’acquisto già avvenuto in favore del legatario con effetto retroattivo al tempo dell’apertura della successione, come è confermato sia dalla retroattività della rinuncia all’eredità espressamente prevista dall’art. 521 c.c., sia, come è stato osservato in dottrina, dalla equivalenza, ai fini dell’accrescimento tra collegatari, delle ipotesi in cui il legatario non possa o non voglia acquistare il legato (artt. 674 e 675 c.c.); pertanto la retroattività spiega il ripristino della situazione antecedente, e tale “fictio juris” opera come se l’acquisto del legato da parte del legatario rinunciante non fosse mai avvenuto.
Occorre a tal punto focalizzare l’attenzione sull’art. 551 c.c., che disciplina il legato in sostituzione di legittima; il comma 1, di tale disposizione prevede che “Se a un legittimario è lasciato un legato in sostituzione di legittima, egli può rinunziare al legato e chiedere la legittima”; orbene tale norma, prevedendo espressamente la rinuncia al legato quale condizione del diritto di conseguire la legittima, sul presupposto che il testatore ha inteso soddisfare i diritti del legittimario con una disposizione a titolo particolare tacitativa di essi, stabilisce che la volontà del legittimario di ottenere la sua quota di riserva è condizionata alla dismissione del legato in esame, e conferma la necessità della rinuncia ad esso, rinuncia quindi da manifestare nella forma scritta qualora il legato abbia ad oggetto beni immobili; come invero è stato rilevato, la rinuncia al legato sostitutivo cui l’art. 551 c.c., comma 1, subordina la facoltà dell’onorato di chiedere la legittima, non può desumersi di per sè dalla sola dichiarazione di rifiutare le disposizioni testamentarie in quanto lesive dei diritti del legittimario, non potendosi negare a priori a siffatta dichiarazione il significato proprio di una riserva di chiedere soltanto l’integrazione della legittima, ferma restando l’attribuzione del legato (Cass. 14-4-1992 n. 4527; Cass. 11-11-2008 n. 26955).
Il secondo comma dell’art. 551 c.c. prevede poi che se il legittimario “preferisce di conseguire il legato, perde il diritto di chiedere un supplemento, nel caso che il valore del legato sia inferiore a quello della legittima, e non acquista la qualità di erede. Questa disposizione non si applica quando il testatore ha espressamente attribuito al legittimario la facoltà di chiedere il supplemento”; secondo i fautori della tesi per la quale la rinuncia dei legittimario al legato avente ad oggetto beni immobili non richiede necessariamente la forma scritta, tale disposizione contemplerebbe una opzione e quindi un atto di accettazione del legato da parte del legittimario, come evidenziato dall’uso del termine “preferisce”, sottolineando che tale scelta si impone per gli effetti rilevanti che derivano dalla adesione al legato, ovvero la privazione della quota di legittima.
Tale convincimento non è condivisibile sulla base delle seguenti considerazioni.
In realtà la disposizione in esame stabilisce gli ulteriori effetti derivanti dall’acquisizione del legato in sostituzione di legittima (oltre la preclusione a chiedere la legittima sancita dall’art. 551 c.c., comma 1), escludendo per il legittimario il diritto di chiedere un supplemento nell’ipotesi in cui il valore dell’oggetto del legato risulti inferiore a quello della quota di legittima; si tratta quindi di una disposizione che, disciplinando pur sempre le conseguenze discendenti dall’attribuzione e quindi dal conseguimento di un legato in sostituzione di legittima – conseguenze ulteriori rispetto a quelle già previste dai primo comma dello stesso articolo, laddove la rinuncia al legato, come si è visto, è espressamente prevista come condizione per chiedere la legittima – non può portare coerentemente a conclusioni diverse con riferimento ad una pretesa necessaria accettazione del legato in questo secondo caso, tantomeno estensibili alta ipotesi del legittimario che intenda chiedere la legittima disciplinata dal comma precedente (che è poi quella ricorrente nella fattispecie oggetto della presente controversia); pertanto l’interpretazione più corretta dell’espressione “se preferisce conseguire il legato, perde il diritto di chiedere il supplemento” induce a ritenere che la perdita del diritto di chiedere un supplemento derivi non già da una manifestazione di volontà di acquistare il legato (invero non necessaria al fine del conseguimento dello stesso), ma dalla mancata rinuncia, da effettuarsi nella forma scritta qualora il legato abbia ad oggetto beni immobili; in altri termini, quindi, l’interpretazione coordinata del primo e dell’art. 551 c.c., comma 2, consente di affermare che la mancata rinuncia al legato in sostituzione di legittima (da effettuarsi nella forma scritta qualora abbia ad oggetto beni immobili) comporta la preclusione del diritto di chiedere sia la legittima, sia un suo supplemento nel caso che il valore del legato sia inferiore ad essa (salvo in quest’ultimo caso che il testatore abbia espressamente attribuito al legittimario la facoltà di chiedere il supplemento); il convincimento ora espresso pertanto trova conforto nell’inquadramento sistematico della norma di cui all’art. 551 c.c., comma 2, in un contesto caratterizzato non solo dal principio generale di cui all’art. 649 c.c., in materia di accettazione del legato e da quello dell’art. 1350 c.c., n. 5, in tema di forma scritta a pena di nullità per gli atti di rinuncia a beni immobili ed ai diritti su beni immobili, ma anche dalla disposizione dello stesso art. 551 c.c., comma 1.
Tali conclusioni sono avvalorate, come osservato anche in dottrina, dalla soppressione nel progetto definitivo dell’art. 244 del progetto preliminare, ove era stabilito che l’accettazione e la rinuncia al legato potevano effettuarsi espressamente e tacitamente, in quanto si ritenne che in proposito valevano i principi generali; invero la necessità della forma scritta per la rinuncia al legato avente ad oggetto beni immobili discende dal coordinamento delle disposizioni di carattere generale di cui all’art. 649 c.c., e art. 1350 c.c., n. 5, sopra richiamati. Infine deve rilevarsi che l’orientamento fin qui sostenuto non comporta gli effetti discriminatori accennati nell’ordinanza remittente tra chiamato all’eredità e legittimario cui sia stato attribuito un legato in sostituzione di legittima; non può invero disconoscersi la evidente diversità sul piano del diritto sostanziale della condizione giuridica di tali soggetti, considerato che il secondo deve essere qualificato pur sempre un legatario (almeno fino a quando non propende per il conseguimento della quota di legittima, posto che il legato sostitutivo è una disposizione a titolo particolare sottoposta alla condizione risolutiva – potestativa costituita dalla rinuncia), cosicchè ben si spiega la distinta disciplina dettata dal legislatore per l’accettazione dell’eredità e per quella del legato, come già esposto più sopra; in proposito, pur nella consapevolezza dell’esistenza di un orientamento dottrinario che tende ad assimilare la posizione del legatario in sostituzione di legittima a quella del chiamato all’eredità, ed a ritenere che il legato sostitutivo si risolverebbe in una forma particolare di attribuzione della legittima, è decisivo rilevare che in realtà tale legato si colloca in un’ottica alternativa a quella dell’attribuzione della quota di riserva, non potendo dubitarsi che l’istituto in esame, rispondente ad una esigenza di bilanciamento tra la tutela dei diritti del legittimario ed il riconoscimento della volontà del legislatore di escludere quest’ultimo dalla partecipazione alla comunione ereditaria, resta pur sempre caratterizzato da una attribuzione a titolo particolare – di per sè svincolata da ogni riferimento alla concreta dimensione della quota di riserva – che esonera il legatario da responsabilità per i debiti ereditari. Sempre nel senso di escludere una assimilazione della condizione del legatario in sostituzione di legittima al chiamato alla eredità, non è superfluo aggiungere che, se non si dubita che il legittimario pretermesso acquista la qualità di chiamato all’eredità solo dal momento della sentenza che accoglie la sua domanda di riduzione rimuovendo l’efficacia preclusiva delle disposizioni testamentarie (vedi “ex multis” Cass. 9-12-1995 n. 12632; Cass. 3-12-1996 n. 10775; Cass. 15-6-2006 n. 13804), a maggior ragione tali conclusioni sono avvalorate nell’ipotesi disciplinata dall’art. 551 c.c., laddove l’esclusione del legittimario dalla delazione ereditaria è accompagnata da una disposizione in suo favore a titolo particolare in sostituzione della quota di legittima.
In conclusione quindi, ritenuti fondati i motivi in esame, deve essere enunciato il seguente principio di diritto: il legittimario in favore del quale il testatore abbia disposto ai sensi dell’art. 551 c.c. un legato avente ad oggetto beni immobili in sostituzione di legittima, qualora intenda conseguire la legittima, deve rinunciare al legato stesso in forma scritta ex art. 1350 c.c., n. 5.
Con il primo motivo la F., deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 551 e 649 c.c., artt. 112 e 345 c.p.c., (quest’ultimo nella formulazione antecedente alla L. n. 353 del 1990) nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver escluso la tempestività dell’eccezione con cui l’esponente nell’atto di appello aveva rilevato che la B. non aveva mai rinunciato al legato in sostituzione di legittima disposto in suo favore nel testamento di F. G..
La ricorrente principale assume in proposito la rilevabilità d’ufficio della stessa, derivando la necessità dell’istanza di parte solo dall’esistenza di una eventuale specifica previsione normativa che non si rinviene nel nostro ordinamento; pertanto, considerato che al presente giudizio doveva applicarsi “ratione temporis” la vecchia formulazione dell’art. 345 c.p.c., che consentiva la proposizione in appello delle eccezioni rilevabili d’ufficio, l’eccezione predetta sollevata dall’esponente con l’atto introduttivo del gravame non poteva essere considerata tardiva.
La Corte territoriale ha ritenuto tardiva l’eccezione sollevata dalla F. per la prima volta nell’atto di appello in ordine alla mancata rinuncia da parte della B. al legato attribuitole dal “de cuius” nella forma scritta; tale assunto non può essere condiviso, considerato che, coerentemente con il principio di diritto enunciato in occasione dell’esame del secondo e del terzo motivo del ricorso principale, deve ritenersi che la mancata rinuncia per iscritto ai sensi dell’art. 1350 c.c., n. 5, da parte dei legittimario che agisce per chiedere la legittima, al legato in sostituzione di legittima avente ad oggetto beni immobili, è rilevabile d’ufficio senza necessità di eccezione della controparte (Cass. 18-4-2000 n. 4971; Cass. 3-7-2000 n. 8878; Cass. 16-5-2007 n. 11288).
Per le considerazioni finora espresse il ricorso principale deve essere accolto.
Conseguentemente deve ritenersi assorbito il ricorso incidentale basato su di un unico motivo con il quale il B., deducendo violazione dell’art. 24 Cost., artt. 91 e 92 c.p.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver compensato interamente le spese di entrambi i gradi di giudizio in ragione della complessità delle questioni affrontate.
In definitiva quindi la sentenza impugnata deve essere cassata all’esito dell’accoglimento del ricorso principale, e la causa deve essere rinviata ad altra sezione della Corte di Appello di Roma per un nuovo esame della controversia in conformità del principio di diritto sopra enunciato in occasione dell’esame del secondo e del terzo motivo del ricorso principale nonchè per la pronuncia sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE, riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione all’accoglimento del ricorso principale e rinvia la causa anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.
Così deciso in Roma, il 1 marzo 2011.
Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2011.
Allegati:
SS.UU, 29 marzo 2011, n. 7098, in tema di legato in sostituzione di legittima
In tema di assicurazione sulla vita – SS.UU, 30 aprile 2021, n. 11421
Civile Sent. Sez. U Num. 11421 Anno 2021
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 30/04/2021
SENTENZA
sul ricorso 21643-2018 proposto da:
BNP PARIBAS CARDIF VITA COMPAGNIA DI ASSICURAZIONE E RIASSICURAZIONE S.p.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ARCHIMEDE 12, presso lo studio dell’avvocato GAETANO TASCA, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
ALESSANDRO BIAGIO GAETANO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO, 78, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO IELO, rappresentato e difeso dagli avvocati DOMENICO CANTAVENERA, GIANNA IGNAZIA CATANIA;
– controricorrente –
nonché
sul ricorso proposto da
ALESSANDRO BIAGIO GAETANO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO, 78, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO IELO, rappresentato e difeso dagli avvocati DOMENICO CANTAVENERA, GIANNA IGNAZIA CATANIA;
– ricorrente incidentale –
contro
BNP PARIBAS CARDIF VITA COMPAGNIA DI ASSICURAZIONE E RIASSICURAZIONE S.p.A.
– intimata –
avverso la sentenza n. 1124/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 18/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/04/2021 dal Consigliere ANTONIO SCARPA;
viste le conclusioni motivate, ai sensi dell’art. 23, comma 8- bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, formulate dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale ALESSANDRO PEPE, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l’assorbimento del ricorso incidentale;
viste le memorie depositate da entrambe le parti.
FATTI DI CAUSA
1.La BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A. ha proposto ricorso articolato in due motivi avverso la sentenza n. 1124/2018 della Corte d’appello di Catania, pubblicata il 18 maggio 2018.
Biagio Gaetano Alessandro ha notificato controricorso contenente altresì ricorso incidentale.
Entrambe le parti hanno presentato memorie.
2. La Corte d’appello di Catania ha accolto il gravame spiegato da Biagio Gaetano Alessandro contro l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 702-ter, sesto comma, c.p.c. dal Tribunale di Caltagirone, ed ha perciò condannato la BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A. a pagare in favore di Biagio Gaetano Alessandro la somma di C 254.283,42, oltre interessi, a titolo di differenza tra l’importo già versatogli, pari ad C 169.552,28, e quanto dovuto in base alle polizze sottoscritte dal defunto Pietro Paolo Alessandro, fratello dell’attore. La Corte di Catania ha evidenziato come le quattro polizze caso vita, stipulate da Pietro Paolo Alessandro con la BNP Paribas Cardif Vita, individuavano quali beneficiari gli “eredi legittimi”. Pertanto, ad avviso dei giudici di appello, la BNP Paribas Cardif Vita aveva erroneamente suddiviso l’indennizzo in cinque quote uguali fra Biagio Gaetano Alessandro, fratello di Pietro Paolo Alessandro, morto il 23 settembre 2011, ed i quattro nipoti figli della sorella Agrippina Alessandro, morta il 23 novembre 2003, subentrati per rappresentazione. La sentenza impugnata ha affermato che Biagio Gaetano Alessandro avesse diritto, piuttosto, a metà dell’indennizzo assicurativo, in proporzione alla sua quota ereditaria, mentre ai quattro nipoti, subentrati per rappresentazione ex art. 467 c.c. nel luogo e nel grado della loro madre, sarebbe spettata la restante metà da ripartire fra loro.
Con ordinanza interlocutoria n. 33195/2019 del 16 dicembre 2019, pronunciata all’esito della pubblica udienza del 20 settembre 2019, la Terza Sezione civile, rilevata la sussistenza di questione di diritto già decisa in senso difforme da precedenti pronunce della Corte, ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite.
E’ stata altresì acquisita la relazione predisposta dell’Ufficio del massimario.
Il ricorso è stato deciso in camera di consiglio procedendo nelle forme di cui all’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.
Le parti hanno presentato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo del ricorso della BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1920 e 1362 c.c. La ricorrente principale allega che le quattro polizze oggetto di causa contenessero tutte la clausola del seguente tenore: “Beneficiari in caso di morte dell’assicurato: 04 eredi legittimi”. La censura contesta la soluzione prescelta dalla sentenza n. 19210/2015 della Corte di cassazione, e condivisa dalla Corte d’appello di Catania, invocando l’art. 1920, comma 2, c.c. in tema di designazione anche generica del beneficiario, evidenziando come i vantaggi dell’assicurazione sulla vita a favore di terzi derivano da acquisto svincolato dalle norme successorie e richiamando l’elaborazione giurisprudenziale sul punto antecedente alla citata pronuncia del 2015. La ricorrente principale sottolinea altresì come la stessa sentenza n. 19210/2015 della Corte di cassazione si trovò a decidere su una clausola che, a differenza del caso in esame, individuava quali beneficiari “gli eredi testamentari o legittimi”. La censura richiama quindi la successiva sentenza di questa Corte n. 26606 del 2016, la quale riaffermò che nel contratto di assicurazione per il caso di morte, il beneficiario designato acquista, ai sensi dell’art. 1920, comma 3, c. c., un diritto proprio che trova la sua fonte nel contratto e che non può, quindi, essere oggetto di devoluzione agli eredi secondo le regole della successione legittima. Si contesta ancora il riferimento al “senso dell’uomo comune” che condurrebbe ad evitare un’attribuzione dell’indennizzo agli eredi in parti uguali, anziché in misura della devoluzione ereditaria, non potendosi pensare che chi contrae una polizza vita voglia in quel momento imprimere agli effetti del contratto assicurativo le quote stabilite negli artt. 565 e ss. c.c.
Il secondo motivo di ricorso della BNP Paribas Cardif Vita S.p.A. deduce la violazione degli artt. 1362, 1369 e 1371 c.c. in tema di interpretazione del contratto, con riguardo: al comportamento complessivo di Biagio Gaetano Alessandro, che aveva in un primo momento richiesto la liquidazione dell’indennizzo in parti uguali con gli altri eredi; all’epoca in cui le polizze furono sottoscritte (tra il 2008 e il 2009) ed alla “disciplina” allora esistente in giurisprudenza ed in dottrina; alla volontà delle parti; alla arbitraria interpolazione del testo negoziale compiuta dalla Corte d’appello; ai disagi provocati dalla subordinazione della liquidazione delle polizze alla compiuta definizione delle vicende successorie.
2. Il motivo del ricorso incidentale di Biagio Gaetano Alessandro, proposto in via subordinata all’accoglimento del ricorso principale, denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 570 e 467 c.c., assumendo che, se non siano applicabili nel caso di specie le norme sulla successione, ed in particolare quelle sulla rappresentazione, traendo origine il diritto del beneficiario della polizza dal contratto, i nipoti dello stipulante defunto non possono proprio essere considerati quali “eredi legittimi”, sicché al ricorrente incidentale spetterebbe l’intero indennizzo.
3. L’ordinanza interlocutoria n. 33195/2019 del 16 dicembre 2019, premesso il riferimento alla disciplina dell’assicurazione a favore di terzo dettata dall’art. 1920 c.c., richiama i precedenti di questa Corte inerenti alla questione della individuazione dei “beneficiari” e della misura dell’indennizzo da liquidare in loro favore, con particolare riguardo al caso in cui le polizze contengono la rituale e generica espressione “legittimi eredi”.
L’ordinanza riporta, in particolare, dapprima i passaggi argomentativi contenuti nella sentenza n. 9388 del 1994, secondo la quale nel contratto di assicurazione contro gli infortuni a favore del terzo, cui si applica la disciplina dell’assicurazione sulla vita, la disposizione contenuta nell’art. 1920, comma 3, c.c. deve essere interpretata nel senso che il diritto del beneficiario alla prestazione dell’assicuratore trova fondamento nel contratto ed è autonomo, cioè non derivato da quello del contraente. Pertanto, quando in un contratto di assicurazione contro gli infortuni, compreso l’evento morte, sia stato previsto, fin dall’origine, che l’indennità venga liquidata ai beneficiari designati o, in difetto, agli eredi, tale clausola andrebbe intesa nel senso che il meccanismo sussidiario di designazione del beneficiario è idoneo a far acquistare agli eredi i diritti nascenti dal contratto stipulato a loro favore. L’individuazione dei beneficiari-eredi andrebbe poi effettuata attraverso l’accertamento della qualità di erede secondo i modi tipici di delazione dell’eredità (testamentaria o legittima) e le quote tra gli eredi, in mancanza di uno specifico criterio di ripartizione, dovrebbero presumersi uguali, essendo contrattuale la fonte regolatrice del rapporto e non applicandosi, quindi, la disciplina codicistica in materia di successione con le relative quote.
Viene quindi ricordata la sentenza n. 15407 del 2000, che diede seguito alla interpretazione della sentenza n. 9388 del 1994.
L’ordinanza interlocutoria sottolinea, però, come in netto contrasto con questo iniziale orientamento si fosse poi posta la sentenza n. 19210 del 2015, che ha pure ispirato l’impugnata decisione della Corte d’appello di Catania. La sentenza del 2015 sostenne che, ove nel contratto di assicurazione contro gli infortuni a favore di terzo sia prevista, in caso di morte dello stipulante, la corresponsione dell’indennizzo agli eredi testamentari o legittimi, occorre presumere che le parti abbiano non solo voluto individuare, con riferimento alle concrete modalità successorie, i destinatari dei diritti nascenti dal negozio, ma anche determinare l’attribuzione dell’indennizzo in misura proporzionale alla quota in cui ciascuno è succeduto.
Tuttavia, la sentenza n. 26606 del 2016 e l’ordinanza n. 25635 del 2018 si sono nuovamente riassestate sull’orientamento più risalente.
L’ordinanza interlocutoria n. 33195/2019, evidenziato come le due difformi interpretazioni giurisprudenziali conducono ad esiti notevolmente divergenti anche sotto il profilo delle attribuzioni economiche che avvantaggiano i beneficiari, ha infine così condensato le questioni su cui chiedere la decisione alle Sezioni Unite:
“a) se in materia di assicurazione sulla vita in favore di un terzo, in presenza della diffusa formula contrattuale, presente anche nel contratto in esame e genericamente riferita ai “legittimi eredi”, detta espressione sia meramente descrittiva di coloro che, in astratto, rivestono la qualità di eredi legittimi o se debba intendersi, invece, che sia riferita ai soggetti effettivamente destinatari dell’eredità.
b) se la designazione degli eredi in sede testamentaria possa interferire, in sede di liquidazione di indennizzo, con la individuazione astratta de/legittimi eredi.
c) se, in tale seconda ipotesi, il beneficio indennitario debba ricalcare la misura delle quote ereditarie spettanti ex lege o se la natura di “diritto proprio” sancita dalla norma (cfr. art. 1920 u. co c.c.) imponga una divisione dell’indennizzo complessivo fra gli aventi diritto in parti uguali”.
4. La giurisprudenza di questa Corte ha da epoca risalente sostenuto che nell’assicurazione sulla vita, come nell’assicurazione conto gli infortuni a favore di terzo, si applica la disciplina ricostruttiva desumibile dal terzo comma dell’art. 1920 c.c., secondo cui “per effetto della designazione il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione”. La norma è riconducibile alla più generale figura del contratto a favore di terzi, con la differenza che il terzo nell’assicurazione sulla vita acquista il suo diritto ai correlati vantaggi, e dunque all’indennità, per effetto non della stipulazione, ma della designazione. Il diritto del beneficiario, perciò, nasce in suo favore dal contratto, sicché egli può rivolgersi direttamente al promittente assicuratore per ottenere la prestazione, restando comunque vincolato alle clausole ed alle pattuizioni contenute nella polizza di assicurazione che ne definiscono l’estensione e le modalità di esercizio (Cass. Sez. III, sentenza 4 aprile 1975, n. 1205; Cass. Sez. I, sentenza 9 maggio 1977, n. 1779; Cass. Sez. I, sentenza 28 luglio 1980, n. 4851; Cass. Sez. I, sentenza 3 dicembre 1988, n. 6548; Cass. Sez. I, sentenza 1 aprile 1994, n. 3207).
4.1. Nel solco di tale orientamento, la sentenza Cass. Sez. I, 10 novembre 1994, n. 9388, decidendo in ordine agli effetti di una polizza che prevedeva, per il caso di morte dell’assicurato, la liquidazione in favore dei beneficiari designati, o in difetto, degli eredi, affermò che una clausola di simile portata comportasse una designazione sussidiaria generica ed impersonale degli “eredi”, operante automaticamente in difetto di quella specifica. La sentenza n. 9388 del 1994 ravvisò, allora, l’erroneità della ripartizione delle quote di indennizzo attuata dai giudici del merito in base alle proporzioni dettate dal concorso degli eredi nella successione legittima, così trascurando che l’acquisto del diritto ai vantaggi dell’assicurazione trova il proprio titolo e la rispettiva fonte regolatrice nel contratto. Quella pronuncia affermò che dall’art. 1920, terzo comma, c.c. deriva la conseguenza per cui la generica designazione degli “eredi” quali beneficiari vale unicamente ad individuare i soggetti titolari dei diritti nascenti dall’assicurazione attraverso il previo accertamento della qualità successoria secondo i modi tipici di delazione dell’eredità, testamentaria o legittima, senza implicare una sorta di “rinvio materiale” alla disciplina in materia di successione. Essendo il contratto la fonte regolatrice dell’acquisto e contemplando esso una pluralità di beneficiari rispetto all’indennità dovuta dall’assicuratore per il caso di morte dello stipulante, in mancanza di uno specifico criterio di ripartizione delle quote fra i beneficiari medesimi, le quote stesse, ad avviso della sentenza n. 9388 del 1994, devono perciò presumersi uguali. La clausola recante la generica designazione degli «eredi» quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione sulla vita, delineando una pluralità di creditori per una identica prestazione divisibile ed un’identica “causa credendi”, dà luogo ad un’obbligazione soggettivamente collettiva, potendosi presumere uguale, secondo regola generale, la quota d’indennizzo spettante a ciascuno.
4.2. Cass. Sez. I, sentenza 14 maggio 1996, n. 4484, partì dall’identico presupposto ricostruttivo ad avviso del quale l’art. 1920 c.c. postula inequivocabilmente che, nell’assicurazione sulla vita a favore di un terzo, la designazione – la quale costituisce negozio a favore di un terzo – fa sorgere il diritto direttamente in capo al beneficiario, e perciò il diritto stesso trova la sua fonte nel contratto e la relativa tutela è di natura contrattuale. Essendo, nella specie, individuati quali beneficiari dell’assicurazione “gli eredi testamentari o legittimi”, la sentenza n. 4484 del 1996 ritenne che, in difetto di diverso espresso dettaglio negoziale, una siffatta designazione concreta una mera specificazione del criterio di individuazione dei terzi beneficiari, determinati per relationem. Non si rinverrebbe, dunque, la connotazione tipica del negozio “mortis causa”, e cioè la manifestazione della volontà di disporre, a favore dei propri eredi, di un bene del quale si presupponga l’appartenenza – presente o futura – al proprio patrimonio. Pertanto, neppure avrebbero rilevanza alcuna, per indentificare i beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, le vicende collegate alla rinunzia o all’accettazione dell’eredità, decisiva essendo, piuttosto, la qualifica di chiamato all’eredità rivestita al momento della morte del contraente, atteso che comunque l’indennizzo non entra a far parte del patrimonio del defunto.
4.3. L’impostazione secondo cui il beneficiario erede acquista l’indennità assicurativa iure proprio e non iure successionis, giacché il relativo diritto nasce in suo favore dal contratto, venne ribadita anche in Cass. Sez. III, sentenza 18 giugno 1998, n. 6062.
Altresì Cass. Sez. Lav., sentenza 2 dicembre 2000, n. 15407, si uniformò all’orientamento secondo cui nell’assicurazione sulla vita il diritto alla prestazione spettante al beneficiario ha fondamento nel contratto ed è autonomo, cioè non derivato da quello del contraente.
Cass. Sez. Unite, sentenza 10 aprile 2002, n. 5119, riconobbe poi l’assimilabilità dell’assicurazione per il caso di infortunio mortale allo schema dell’assicurazione sulla vita, e quindi l’applicabilità ad essa dell’art. 1920, terzo comma, c.c., il quale attribuisce al terzo beneficiario, nel caso di morte dell’assicurato, un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione. Cass. Sez. II, sentenza 23 marzo 2006, n. 6531, si uniformò, in particolare, alla sentenza n. 4484 del 1996.
4.4. L’iniziale univocità di tale quadro giurisprudenziale venne però scalfita, come illustra l’ordinanza interlocutoria, da Cass. Sez. III, sentenza 29 settembre 2015, n. 19210. Nella fattispecie, a fronte della clausola di una polizza di assicurazione sulla vita che prevedeva come beneficiari gli eredi testamentari o legittimi dello stipulante, la compagnia aveva proceduto alla liquidazione dell’indennizzo dividendolo in tre parti eguali fra la moglie dello stesso ed i due nipoti, figli della sorella a lui premorta, subentrati per rappresentazione.
La sentenza n. 19210 del 2015 affermò che l’orientamento espresso essenzialmente nelle sentenze n. 9388 del 1994 e n. 4484 del 1996 non rivelasse una “corretta applicazione dei criteri ermeneutici della materia contrattuale”. In particolare, l’assunto che clausole simili si devono interpretare nel senso che impongano soltanto l’individuazione di chi sia erede dello stipulante, ma non anche il rinvio alle quote di ripartizione dell’eredità secondo le regole della successione legittima o secondo le regole della successione testamentaria, ad avviso della sentenza n. 19210 del 2015 sarebbe “privo di giustificazione sul piano dell’esegesi letterale, atteso che, secondo il senso letterale dell’espressione «erede» (la stessa) non può che implicare un riferimento non solo al modo in cui tale qualità è stata acquisita e, quindi, alla fonte della successione, ma anche alla dimensione di tale acquisizione e, dunque, al valore della posizione ereditaria secondo quella fonte”. In sostanza, “il dire che qualcuno è erede di un soggetto … secondo l’espressione letterale” dovrebbe “evocare tanto chi lo è quanto anche in che misura lo è”. Ciò vieppiù in presenza di clausole, come quella su cui pronunciava la sentenza n. 19210 del 2015, le quali contengano un espresso riferimento alla natura della devoluzione, cioè alla devoluzione legittima o testamentaria. Ad un’identica conclusione interpretativa condurrebbe il criterio dell’interpretazione secondo la comune intenzione delle parti, ex art. 1362 c.c., avendo riguardo tanto allo stipulante che intenda disporre del proprio patrimonio per testamento, quanto allo stipulante che non intenda testare, come alla società assicuratrice.
L’equipollenza tra vantaggi dell’assicurazione per gli eredi beneficiari e misura della successione sarebbe inoltre imposta dal criterio della interpretazione teleologica, ovvero interrogando “il buon senso dell’uomo comune”, giacché “intendere le dette clausole come le intende l’orientamento da cui si dissente” conduce alla “assoluta incomprensibilità, di fronte alla stipulazione della spettanza agli eredi legittimi o testamentari, di un significato che non sia quello del riferimento alla devoluzione ereditaria sia quanto all’individuazione degli eredi sia quanto alla misura della loro successione”. Affermava quindi la sentenza n. 19210 del 2015: “che il secondo comma dell’art. 1920 c.c. attribuisca al terzo erede un diritto proprio è principio che riguarda il rapporto contrattuale fra l’assicuratore e il terzo, ma che non si comprende come possa giustificare la totale pretermissione della stessa volontà contrattuale ricostruita letteralmente e teleologicamente”. Seppure lo scopo dell’orientamento inviso alla sentenza n. 19210 del 2015 fosse poi quello di semplificare la liquidazione dell’indennizzo da parte dell’assicuratore, consentendogli di farne quote uguali, tale pronuncia avvertiva come potrebbero comunque residuare contrasti fra gli eredi sulle rispettive qualità, mentre il criterio dettato dall’art. 1314 c.c. starebbe a dimostrare che costoro non possono pretendere l’indennizzo che in proporzione della loro quota ereditaria.
4.5. Cass. Sez. II, sentenza 21 dicembre 2016, n. 26606, e Cass. Sez. VI-3, ordinanza 15 ottobre 2018, n. 25635, si sono, infine, ricollocate in continuità dell’orientamento giurisprudenziale iniziale, che può perciò definirsi maggioritario.
4.5.1. La sentenza n. 26606 del 2016, a proposito della interpretazione delle clausole dei contratti di assicurazione in caso di morte dell’assicurato che individuano i beneficiari negli eredi legittimi o testamentari, ha nuovamente affermato che, ai sensi dell’art. 1920 c.c., costoro acquistano un diritto proprio all’indennizzo, il quale non entra, perciò, nel patrimonio ereditario oggetto delle (eventuali) disposizioni testamentarie, né della devoluzione agli eredi secondo le regole della successione legittima. Trovando il diritto dei beneficiari fonte nel negozio inter vivos che reca la designazione, l’individuazione degli stessi, da compiere necessariamente al momento della morte dell’assicurato, non ne imporrebbe la coincidenza con coloro che siano effettivamente chiamati all’eredità: così, ove la polizza faccia riferimento agli eredi legittimi, gli stessi sarebbero da identificare con coloro che in astratto, avendo riguardo alla qualità esistente al momento della morte dell’assicurato, siano i successibili per legge, e ciò indipendentemente dalla effettiva vocazione.
4.5.2. Anche l’ordinanza n. 25635 del 2018 è tornata a sostenere che la designazione dei terzi beneficiari dell’assicurazione mediante il riferimento alla categoria degli eredi legittimi significa che gli stessi sono da identificarsi per relationem con coloro che “in linea teorica e con riferimento alla qualità esistente al momento della morte dello stipulante siano i successibili per legge, indipendentemente dalla loro effettiva chiamata all’eredità”. Fermo, così, il diritto iure proprio del beneficiario, all’assicurato residua il potere, previsto dall’art. 1921 c.c., di revocarne la designazione nelle stesse forme in cui può essere fatta a norma dell’art. 1920 c.c.
4.6. E’ agevole concludere, per il momento, che la questione di diritto decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, emergente dalle richiamate pronunce, attiene, dunque, non alla natura del diritto (iure proprio, piuttosto che iure successionis) che il terzo, appartenente alla generica categoria degli «eredi» individuati ai sensi dell’art. 1920 c.c., acquista per effetto della designazione, né alla fonte di tale acquisto (il contratto, piuttosto che la delazione o l’accettazione ereditarie), quanto alla sussistenza, o meno, di un criterio immanente di interpretazione presuntiva, in forza del quale la clausola dell’assicurazione sulla vita, che preveda quali beneficiari gli eredi dello stipulante, comporti anche un rinvio alle quote di ripartizione dell’eredità secondo le regole della successione legittima o testamentaria.
5. Dopo aver ricostruito il panorama giurisprudenziale, appare necessario prospettare una sintesi del ben più ampio ed articolato dibattito dottrinale vertente sia sulla natura giuridica della designazione e del correlato diritto acquistato dal beneficiario nella assicurazione sulla vita a favore di un terzo, sia su come operino le regole contrattuali e le regole successorie con riguardo a tale diffuso strumento di trasmissione della ricchezza post mortem.
5.1. A differenza di quanto gli studiosi sostenevano nella vigenza del Codice Civile del 1865, ed in parallelo con l’evoluzione delle più generali riflessioni sullo schema del negozio mortis causa, nel quale l’elemento morte incide non già sul piano effettuale, quanto su quello causale dell’attribuzione, può dirsi ormai del tutto preponderante l’esegesi che ravvisa nell’atto di designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita, quale che sia la forma prescelta fra quelle consentite dal secondo comma dell’art. 1920 c.c., un negozio inter vivos con effetti post mortem: la morte dell’assicurato segna, cioè, il riferimento cronologico di differimento dell’esecuzione della prestazione assicurativa e di consolidamento del diritto già acquistato dal beneficiario in forza della designazione, restando la somma assicurata comunque estranea al patrimonio del de cuius che cade in successione (come può desumersi altresì dall’ultimo periodo del secondo comma dell’art. 1920 c.c.).
L’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte dello stipulante assicurato resta riconducibile, quindi, alla categoria del contratto a favore di terzi, ex art. 1411 c.c. Rispetto a tale ultima norma, peraltro, l’art. 1920 c.c. si connota peculiarmente, atteso che, mentre il secondo comma dell’art. 1411 c.c. (salvo patto contrario) delinea l’acquisto del diritto verso il promittente in capo al terzo quale “effetto della stipulazione” del contratto, l’ultimo comma dell’art. 1920 c.c., come già più volte ricordato, definisce “effetto della designazione” (che può farsi – e in ciò vi è altro tratto distintivo – anche dopo il contratto, con apposita dichiarazione o per testamento) l’acquisto del diritto del beneficiario ai vantaggi dell’assicurazione.
D’altro canto, la designazione del terzo è elemento strutturale essenziale, o comunque normale, dell’assicurazione sulla vita per il caso morte, dovendo la prestazione essere attribuita a persona diversa dallo stipulante, il cui interesse è implicito nella funzione assistenziale e previdenziale dell’operazione. Dalla mancanza della designazione discenderebbero, altrimenti, l’ingresso del credito nel patrimonio dell’assicurato e la successiva devoluzione agli eredi iure successionis.
La diversità dei tempi e delle forme della designazione, consentita dal secondo comma dell’art. 1920 c.c., non mette in dubbio, stando a gran parte della dottrina, l’omogenea natura inter vivos di tale atto unilaterale, valendo la morte dello stipulante, in sostanza, unicamente a dare efficacia al diritto già acquisito dal beneficiario.
Siffatto differimento dell’efficacia, e non dell’attribuzione, del diritto iure proprio del beneficiario nell’assicurazione sulla vita per il caso morte giustificherebbe, inoltre, l’applicabilità ad essa del secondo comma dell’art. 1412 c.c. (in forza del quale “la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante, purché il beneficio non sia stato revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente”), ovvero la trasmissibilità agli eredi del terzo premorto della titolarità dei vantaggi dell’assicurazione. In tale evenienza, tuttavia, vien subito precisato che l’acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto allo stipulante opera iure hereditatis, e non iure proprio, e dunque in proporzione delle rispettive quote ereditarie, trattandosi di successione nel diritto contrattuale all’indennizzo entrato a far parte del patrimonio del designato prima della sua morte, nella medesima misura che sarebbe spettata al beneficiario premorto.
5.2. Stante il disposto del secondo comma dell’art. 1920 c.c., secondo cui nell’assicurazione a favore di terzo la designazione “è efficace anche se il beneficiario è determinato solo genericamente”, la dottrina si sofferma altresì sulle ricadute che la natura della designazione e la fonte del diritto acquistato dal beneficiario comportano in ordine alle modalità di individuazione dei beneficiari e di determinazione delle quote di indennizzo allorché la designazione, come sovente accade nella pratica degli affari, faccia riferimento agli «eredi [legittimi e/o testamentari]».
L’opinione più ricorrente negli studi, conforme a quello che si è visto essere anche il pensiero della giurisprudenza di questa Corte, sostiene che il riferimento agli «eredi» ne implica l’identificazione con coloro che, al momento della morte dello stipulante (e non già al momento della designazione, la quale, come visto, attribuisce il diritto, rimanendone tuttavia differiti gli effetti), rivestano tale qualità in forza della delazione ex art. 457 c.c., non rilevando le successive vicende legate alla rinunzia o all’accettazione.
5.3. Ulteriore conseguenza di tali ragionamenti è che ove il contraente assicurato abbia designato specificamente come beneficiari i propri «eredi legittimi», la successiva istituzione di uno o più eredi testamentari non opera quale nuova designazione, né quale revoca del beneficio attribuito con la polizza, quest’ultima configurandosi solo se fatta con le forme dell’art. 1921 c.c. (e dunque dell’art. 1920, comma 2, c.c.) e allorché comunque risulti una inequivoca volontà in tal senso. La sovrapposizione tra l’iniziale attribuzione contrattuale del diritto ai vantaggi dell’assicurazione (nella quale il contraente si era avvalso di una descrizione per relationem dei destinatari del beneficio, indicando all’assicuratore coloro che all’epoca della designazione erano in astratto i suoi «eredi [legittimi]») e la sopravvenuta istituzione testamentaria (nella quale il disponente non provvede a revocare quella designazione e neppure attribuisce la somma assicurata, come gli permette l’ultima parte del secondo comma dell’art. 1920 c.c.) non crea alcun conflitto di disposizioni incompatibili, né sollecita una propensione per il favor testamentis a discapito della volontà attributiva esplicitata nel contratto assicurativo.
5.4. Quale che sia la forma della designazione degli «eredi» come beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, la conclamata natura inter vivos del diritto di credito loro attribuito, dovuta alla individuazione del contratto quale titolo costitutivo di esso, induce coerentemente gli stessi autori a negare l’operatività delle regole sulla comunione ereditaria, valevoli per i crediti del de cuius, come anche l’automatica ripartizione dell’indennizzo tra i coeredi in ragione delle rispettive quote.
La qualifica di «erede» al momento della morte dello stipulante sovviene, così, al fine di sopperire per relationem, con valenza meramente soggettiva, alla generica determinazione del beneficiario, secondo quanto disposto nel secondo comma dell’art. 1920 c.c., ma non implica presuntivamente, in caso di pluralità di eredi, l’applicazione tra i concreditori delle regole di ripartizione dei crediti ereditari.
5.3. Il combinato degli artt. 1920, 1921 e 1923 c.c. lascia deporre, del resto, per la più ampia esplicazione della libertà contrattuale dello stipulante in ordine alle modalità della designazione del beneficiario ed all’attribuzione delle somme dovute dall’assicuratore, sia quanto alle forme di individuazione del terzo, sia quanto alla revocabilità della clausola di beneficio, sia quanto alla sottrazione del capitale assicurato alle regole della successione mortis causa. Nella polizza di assicurazione sulla vita a favore di terzo la legge non riscontra un trasferimento immediato dal contraente al beneficiario, in quanto la prestazione promana dal patrimonio dell’assicuratore e non dall’asse ereditario dell’assicurato.
5.4. Non mancano nella nostra dottrina i riferimenti di comparazione alla legislazione in materia prevista da altri ordinamenti, anche nella prospettiva della elaborazione di principi comuni di diritto europeo dell’insurance contract, ove si rinvengono appositi criteri di interpretazione giudiziale della presumibile volontà del contraente e di risoluzione dei conflitti in ipotesi di pluralità di beneficiari dell’assicurazione designati per il caso di morte dell’assicurato, tendenzialmente ispirati da una relazione di autonomia fra attribuzione della prestazione assicurativa e vicende della successione ereditaria.
6. E’ tempo di dare risposta ai quesiti sollevati nell’ordinanza interlocutoria n. 33195/2019, quanto:
a) alla valenza descrittiva o, per così dire, “materiale” della qualità di «eredi [legittimi]» richiamata in sede di designazione dei beneficiari di un’assicurazione sulla vita a favore di terzi;
b) alla interferenza di una designazione ereditaria compiuta in sede testamentaria con la individuazione contrattuale degli «eredi legittimi» quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione;
c) alla ripartizione dell’indennizzo assicurativo tra gli eredi beneficiari in proporzione delle rispettive quote ereditarie o in quote uguali.
6.1. Nel rispondere unitariamente ai primi due quesiti, queste Sezioni Unite intendono riaffermare l’interpretazione già univocamente seguita al riguardo dalla giurisprudenza della Corte.
Essendo la designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita, quale che sia la forma prescelta fra quelle previste dal secondo comma dell’art. 1920 c.c., atto inter vivos con effetti post mortem, da cui discende l’effetto dell’immediato acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione, la generica individuazione quali beneficiari degli «eredi [legittimi e/o testamentari]» ne comporta l’identificazione soggettiva con coloro che, al momento della morte dello stipulante, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione ereditaria prescelto dal medesimo contraente, indipendentemente dalla rinunzia o dall’accettazione della vocazione. Deve invero sempre rammentarsi che qui il termine «eredi» viene attribuito dalla designazione allo scopo precipuo di fornire all’assicuratore un criterio univoco di individuazione del creditore della prestazione, e perciò prescinde dall’effettiva vocazione.
L’eventuale istituzione di erede per testamento compiuta dal contraente assicurato dopo aver designato i propri «eredi [legittimi]» quali beneficiari della polizza non rileva, pertanto, né come nuova designazione per attribuzione della somma assicurata, né come revoca del beneficio, agli effetti dell’art. 1921 c.c., ove non risulti una inequivoca volontà in tal senso, operando su piani diversi l’intenzione di disporre mortis causa delle proprie sostanze e l’assegnazione a terzi del diritto contrattuale alla prestazione assicurativa.
6.2. Venendo alla terza questione, che più evidentemente rileva per la composizione della difformità di pronunce, nonché ai fini della decisione del ricorso principale proposto dalla BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A. e del ricorso incidentale proposto da Biagio Gaetano Alessandro, la natura inter vivos del credito attribuito per contratto agli «eredi» designati quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione esclude l’operatività riguardo ad esso delle regole sulla comunione ereditaria, valevoli per i crediti del de cuius, come anche l’automatica ripartizione dell’indennizzo tra i coeredi in ragione delle rispettive quote di spettanza dei beni caduti in successione. La qualifica di «eredi» rivestita al momento della morte dello stipulante sopperisce, invero, con valenza meramente soggettiva, alla generica determinazione del beneficiario, in base al disposto del secondo comma dell’art. 1920 c.c., che funziona soltanto al fine di indicare all’assicuratore chi siano i creditori della prestazione, ma non implica presuntivamente, in caso di pluralità di designati, l’applicazione tra i concreditori delle regole di ripartizione dei crediti ereditari. Al contrario, il silenzio serbato dal contraente sulla suddivisione del capitale assicurato tra gli eredi potrebbe spiegarsi come indizio della sua volontà di utilizzare l’assicurazione sulla vita per il caso morte con finalità indennitaria, o come alternativa al testamento comunque sottratta al divieto ex art. 458 c.c., in maniera da beneficiare tutti indistintamente senza soggiacere alle proporzioni della successione ereditaria.
Rimane ovviamente ferma la libertà del contraente, nel designare gli eredi quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, di indicare gli stessi nominativamente o di stabilire in quali misure o proporzioni debba suddividersi tra loro l’indennizzo, o comunque di derogare all’art. 1920 c.c. (arg. dall’art. 1932 c.c.). L’indagine sull’effettiva intenzione del contraente, ovvero sullo scopo che lo stesso voleva perseguire mediante la generica designazione degli eredi beneficiari, rimane tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito.
Non può, altrimenti, ritenersi che, in difetto di apposita disposizione di legge, al contratto di assicurazione sulla vita, in cui siano determinati genericamente i soggetti beneficiari quali «eredi», sia applicabile una “regola di completamento” (semmai implicitamente approvata dalle parti, in difetto di espressa volontà contraria), che, in via integrativa, piuttosto che interpretativa, comporti altresì, sul piano quantitativo della misura socialmente ragionevole dell’attribuzione, un “rinvio alle quote di ripartizione dell’eredità secondo le regole della successione legittima o secondo le regole della successione testamentaria” (come si afferma nella sentenza n. 19210 del 2015).
In forza della designazione degli «eredi» quali beneficiari dell’assicurazione sulla vita a favore di terzo, la prestazione assicurativa vede quali destinatari una pluralità di soggetti in forza di una eadem causa obligandi, costituita dal contratto. Rispetto alla prestazione divisibile costituita dall’indennizzo assicurativo, come in ogni figura di obbligazione soggettivamente complessa (secondo quanto si argomenta in via di generalizzazione dall’art. 1298, secondo comma, c.c. e dall’art. 1101, primo comma c.c.), ove non risulti diversamente dal contratto, a ciascuno dei beneficiari spetta una quota uguale (in conformità a quanto sostenne la sentenza n. 9388 del 1994), il cui pagamento ciascuno potrà esigere dall’assicuratore nella rispettiva misura. Non sovviene decisivamente in proposito l’art. 1314 c.c., giacché il precetto secondo cui il creditore di una prestazione divisibile (rectius parziaria) non può domandare il soddisfacimento del credito “che per la sua parte”, volgendo la propria attenzione all’attuazione del rapporto e non all’interpretazione del titolo, dà per già risolto (e perciò non risolve esso stesso) il problema della determinazione della quota di ciascuno dei creditori.
6.3. Un’altra questione va affrontata per dare decisione ai ricorsi in esame.
L’attribuzione del diritto iure proprio al beneficiario per effetto della designazione giustifica altresì l’applicabilità all’assicurazione sulla vita per il caso morte del secondo comma dell’art. 1412 c.c., secondo il quale “la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante, purché il beneficio non sia stato revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente”, con conseguente trasmissibilità agli eredi del terzo premorto della titolarità dei vantaggi dell’assicurazione. In tal caso, l’acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto rispetto allo stipulante opera, peraltro, iure hereditatis, e non iure proprio, e quindi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, trattandosi di successione nel diritto contrattuale all’indennizzo entrato a far parte del patrimonio del designato prima della sua morte, nella medesima misura che sarebbe spettata al beneficiario premorto, secondo la logica degli acquisti a titolo derivativo.
Dunque, con la regola che implica l’identificazione degli «eredi» designati con coloro che abbiano tale qualità al momento della morte del contraente coopera la regola della trasmissibilità del diritto ai vantaggi dell’assicurazione in favore degli eredi del beneficiario premorto, quale conseguenza dell’acquisto già avvenuto in capo a quest’ultimo.
La premorienza di uno degli eredi del contraente, già designato tra i beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, comporta, quindi, non un effetto di accrescimento in favore dei restanti beneficiari, ma, stando l’assenza di una precisa disposizione sul punto ed in forza dell’assimilabilità dell’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte alla categoria del contratto a favore di terzi, un subentro per “rappresentazione” in forza dell’art. 1412, secondo comma, c.c. (senza che la comune denominazione delle fattispecie obliteri le evidenti differenze di ambito soggettivo ed oggettivo correnti tra detta norma e l’istituto previsto dall’art. 467 c.c.). Beninteso, il contraente potrebbe avere altrimenti espresso in sede di designazione una diversa volontà per il caso di premorienza di uno dei beneficiari, come potrebbe, a seguito della stessa, revocare il beneficio con le forme e nei limiti di cui all’art. 1921 c.c.
7. Può passarsi all’esame del primo motivo del ricorso della BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A., nonché del motivo del ricorso incidentale di Biagio Gaetano Alessandro, in quanto tali censure si pongono in prospettiva diametralmente opposta e vanno perciò decise congiuntamente.
7.1. In particolare, il primo motivo del ricorso della BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1920 e 1362 c.c. ed assume che i vantaggi dell’assicurazione sulla vita a favore di terzi derivano da acquisto svincolato dalle norme successorie. Il ricorso incidentale di Biagio Gaetano Alessandro, subordinato all’accoglimento del ricorso principale, denuncia, dal suo canto, la violazione e falsa applicazione degli artt. 570 e 467 c.c. ed arriva alla conclusione che, se il diritto del beneficiario trae origine dal contratto, i nipoti dello stipulante defunto non possono proprio essere considerati “eredi legittimi”.
7.2. La Corte d’appello di Catania ha affermato, invero, che, in base alle quattro polizze vita oggetto di causa, tutte stipulate da Pietro Paolo Alessandro tra il 2008 ed il 2009 e recanti la clausola “Beneficiari in caso di morte dell’assicurato: eredi legittimi”, restassero attribuite la metà dell’indennizzo assicurativo a Biagio Gaetano Alessandro, fratello di Pietro Paolo, in proporzione alla sua quota ereditaria, e la restante metà ai quattro figli di Agrippina Alessandro, sorella di Pietro Paolo morta il 23 novembre 2003, essendo i nipoti succeduti per rappresentazione ex art. 467 c.c. nel luogo e nel grado della loro madre.
7.3. Così decidendo, i giudici di secondo grado non hanno considerato che la generica individuazione degli «eredi legittimi» quali beneficiari dei quattro contratti di assicurazione conclusi da Pietro Paolo Alessandro tra il 2008 ed il 2009 ne comportava l’identificazione soggettiva con coloro che, al momento della morte dello stipulante, avvenuta il 23 settembre 2011, rivestivano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione ereditaria. La individuazione degli «eredi legittimi» quali beneficiari non poteva riguardare Agrippina Alessandro, perché la stessa era morta il 23 novembre 2003, e quindi ben prima delle stesse designazioni. Poiché alcun diritto proprio aveva acquistato Agrippina dalle designazioni contenute nei contratti del 2008 e del 2009, non vi era spazio per applicare il secondo comma dell’art. 1412 c.c., ovvero per ravvisare una trasmissione per “rappresentazione” agli eredi di Agrippina dei vantaggi dell’assicurazione nella medesima quota che sarebbe spettata a quella.
Come già al momento delle designazioni, al momento della morte di Pietro Paolo Alessandro, il 23 settembre 2011, rivestivano la qualità astratta di «eredi legittimi» sia Biagio Gaetano Alessandro, sia i quattro discendenti di Agrippina subentrati nel luogo e nel grado della loro ascendente, e perciò da intendere essi stessi come «eredi», tanto più agli effetti di cui all’art. 1920, secondo comma, c.c., e cioè al fine di individuare i creditori della prestazione assicurativa. L’indennizzo non va ripartito in ragione delle rispettive quote di spettanza dei beni caduti in successione: perciò a ciascuno dei cinque eredi beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione spetta una quota uguale, il cui pagamento ciascuno di loro può esigere dall’assicuratore nella rispettiva misura.
8. Vanno enunciati i seguenti principi di diritto:
La designazione generica degli «eredi» come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in una delle forme previste dal secondo comma dell’art. 1920 c.c., comporta l’acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all’assicuratore per individuare i creditori della prestazione.
La designazione generica degli «eredi» come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso diverso, non comporta la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria, spettando a ciascuno dei creditori, in forza della eadem causa obligandi, una quota uguale dell’indennizzo assicurativo.
Allorché uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo.
9. Conseguono l’accoglimento del primo motivo del ricorso della BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A., l’assorbimento del secondo motivo del ricorso principale (giacché esso, in ragione dell’accoglimento del primo motivo, perde di immediata rilevanza decisoria) ed il rigetto del ricorso incidentale di Biagio Gaetano Alessandro.
La sentenza impugnata va cassata, con rinvio dalla causa alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi ai principi di diritto enunciati e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – da parte del ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso della BNP Paribas Cardif Vita Compagnia di Assicurazione e Riassicurazione S.p.A., dichiara assorbito il secondo motivo del ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale di Biagio Gaetano Alessandro, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 13 aprile 2021.
Il Consigliere estensore
Il Presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 16 dicembre 2019, n. 33195, per SS.UU, 30 aprile 2021, n. 11421, in tema di assicurazione sulla vita
SS.UU, 30 aprile 2021, n. 11421, in tema di assicurazione sulla vita
In tema di successione transazionale – SS.UU, 05 febbraio 2021, n. 2867
Civile Sent. Sez. U Num. 2867 Anno 2021
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 05/02/2021
SENTENZA
sul ricorso 25821-2014 proposto da:
PIO JULIAN, elettivamente domiciliato in ROMA, V. TRIONFALE 5637, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO BATTISTA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO BRUNO PULZE;
– ricorrente –
contro
PIO ROBERTO CESARE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO REGOLO 12-B, presso lo studio dell’avvocato ZOSIMA VECCHIO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANNA MARIA BUZZONI ZOCCOLA;
BERTONI ORNELLA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA R. GRAZIOLI LANTE 15-A, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MORABITO, rappresentata e difese dall’avvocato GIAMPAOLO PACINI;
– controricorrenti –
nonché contro
PIO ADRIAN AMERICO, PIO ISABELLA ISME, PIO ROSALYND CAROLA, PIO CHRISTOPHER, PIO CAMILLA DOROTHEA;
– intimati –
nonché
sul ricorso proposto da:
PIO ROBERTO CESARE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO REGOLO 12-B, presso lo studio dell’avvocato ZOSIMA VECCHIO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANNA MARIA BUZZONI ZOCCOLA;
– ricorrente incidentale –
contro
BERTONI ORNELLA, PIO JULIAN, PIO ADRIAN AMERICO, PIO ISABELLA ISME, PIO ROSALYND CAROLA, PIO CHRISTOPHER, PIO CAMILLA DOROTHEA;
– intimati –
nonché
sul ricorso proposto da:
BERTONI ORNELLA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA R. GRAZIOLI LANTE 15-A, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MORABITO, rappresentata e difese dall’avvocato GIAMPAOLO PACINI;
– ricorrente incidentale –
contro
PIO ROBERTO CESARE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ATTILIO REGOLO 12-B, presso lo studio dell’avvocato ZOSIMA VECCHIO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANNA MARIA BUZZONI ZOCCOLA;
PIO JULIAN, elettivamente domiciliato in ROMA, V. TRIONFALE 5637, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO BATTISTA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO BRUNO PULZE;
– controricorrenti –
nonché contro
PIO ADRIAN AMERICO, PIO ISABELLA ISME, PIO ROSALYND CAROLA, PIO CHRISTOPHER, PIO CAMILLA DOROTHEA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 2105/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 06/06/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/01/2021 dal Consigliere ANTONIO SCARPA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale CORRADO MISTRI, il quale ha concluso per il rigetto dei ricorsi proposti da Julian Pio e da Roberto Cesare Pio e per l’assorbimento dei ricorso proposto da Ornella Bertoni;
uditi gli Avvocati DOMENICO BATTISTA, ANNA MARIA BUZZONI ZOCCOLA e MICHELA BURCHI per delega dell’Avvocato GIAMPAOLO PACINI.
FATTI DI CAUSA
1. Julian Pio ha proposto ricorso articolato in cinque motivi avverso la sentenza n. 2105/2014 della Corte d’appello di Milano, depositata il 6 giugno 2014.
Roberto Cesare Pio ha quindi notificato controricorso con ricorso incidentale articolato in quattro motivi.
Anche Ornella Bertoni ha notificato controricorso e ricorso incidentale in due motivi, condizionato all’accoglimento dei ricorsi avversi.
Roberto Cesare Pio e Julian Pio hanno notificato controricorsi per resistere al ricorso incidentale di Ornella Bertoni.
A seguito di ordinanza del 5 febbraio 2019, è stata disposta la notificazione del ricorso altresì a Adrian Americo Pio, Isabella Isme Pio, Rosalynd Carola Pio, Cristopher Pio e Camilla Dorothea Pio, i quali non hanno tuttavia svolto attività difensive.
2. Ornella Bertoni convenne nel 2001 dinanzi al Tribunale di Milano Christopher, Camilla Dorothea, Isabella, Adrian Americo, Rosalynd, Julian e Roberto Pio, figli di Oscar Alfred Pio, cittadino inglese morto a Milano il 19 dicembre 1999, con il quale l’attrice aveva contratto matrimonio il 25 ottobre 1999. Ornella Bertoni propose azione di petizione di eredità e domandò di accertare l’avvenuta revoca del testamento redatto a Londra in data 29 ottobre 1997 da Oscar Alfred Pio, con cui il de cuius aveva lasciato all’attrice un legato di 50,000 sterline, disponendo del restante suo patrimonio (un podere con villa patronale in Toscana, due appartamenti in Porto Ercole, un terreno, oggetti d’arte, valori mobiliari, depositi bancari). L’attrice dedusse che, attesa la nazionalità del de cuius, la sua successione doveva essere disciplinata dal diritto inglese, alla stregua della legge n. 218 del 1995, sicché il testamento era da intendersi revocato per effetto del successivo matrimonio del testatore, in base a quanto prescritto dal Will Act del 1837. Per Ornella Bertoni la successione di Oscar Alfred Pio andava quindi considerata ab intestato, restando disciplinata dal diritto inglese, con attribuzione in suo favore di tutti i beni mobili personali del defunto, nonché di un terzo degli immobili in applicazione dell’art. 581 c.c., operante per il “rinvio indietro” voluto dalla legge inglese. La citazione di Ornella Bertoni conteneva altresì, ove si fosse ritenuto tuttora efficace il testamento, la domanda di attribuzione del legato ivi contemplato ed istanze subordinate di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della legittima e di rendiconto, nonché la richiesta di scioglimento della comunione ereditaria.
Tutti i convenuti, tranne Adrian Americo, si costituirono, prospettando le loro difese nel senso della validità del testamento o della integrale applicabilità della legge italiana o della rilevanza del codicillo modificativo del de cuius rinvenuto in sede di inventario, sulla cui autenticità venne espletata consulenza tecnica. In corso di lite, Julian Pio e Roberto Pio acquistarono le quote ereditarie di Christopher, Camilla Dorothea, Isabella, Adrian Americo e Rosalynd Pio.
3. All’esito dell’istruttoria, il Tribunale di Milano, con sentenza del 20 aprile 2009, dichiarò revocato il testamento del 29 ottobre 1997, accertò la qualità di erede in capo ad Ornella Bertoni e riconobbe alla stessa il diritto ad un terzo dei beni immobili siti in Italia nonché a tutti i beni mobili personali del de cuius, sciolse la comunione ereditaria relativa al compendio immobiliare, attribuendo lo stesso ai condividenti Julian e Roberto Pio, con conguaglio pari ad C 2.288,521,44 in favore della Bertoni.
4. Proposero appelli in via principale Roberto Cesare Pio ed in via incidentale Julian Pio ed Ornella Bertoni.
Venne accolto il gravame principale soltanto in punto di regolamentazione delle spese di primo grado, confermandosi per il resto la sentenza di primo grado.
La Corte d’appello di Milano, per quanto innanzitutto ora rileva, affermò che: non era in discussione l’applicazione della legge inglese alla successione di Oscar Alfred Pio; in forza di ciò doveva perciò dirsi revocato il testamento del 29 ottobre 1997 quale conseguenza del successivo matrimonio del testatore con Ornella Bertoni, trattandosi peraltro di questione attinente ai rapporti patrimoniali fra i coniugi e non alle successioni, ai sensi degli artt. 13 e 15 della legge n. 218 del 1995; la successione doveva pertanto considerarsi ab intestato; in applicazione del diritto internazionale privato inglese, per i beni mobili doveva procedersi secondo la legge del domicilio del testatore al momento della morte, e quindi quella inglese, mentre per i beni immobili occorreva provvedere in base alla legge italiana, trovandosi gli stessi immobili in Italia (senza però che la medesima legge italiana interferisse sul profilo della disciplina della revoca del testamento).
Con ordinanza interlocutoria n. 18/2020 del 3 gennaio 2020, resa all’esito dell’udienza pubblica del 26 giugno 2019, la Seconda Sezione Civile di questa Corte ha rimesso i ricorsi al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, ravvisando una pluralità di questioni di massima di particolare importanza.
E’ stata altresì acquisita la relazione predisposta dell’Ufficio del massimario.
Il pubblico ministero ha depositato memoria contenente le proprie conclusioni motivate. Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Sono superabili tutte le contrapposte eccezioni pregiudiziali sollevate dalle parti.
1.1.La procura per il ricorso per cassazione di Julian Pio è validamente conferita, soddisfacendo il requisito di specialità di cui all’art. 365 c.p.c., giacché apposta su di un foglio separato ma materialmente unito al ricorso, per di più contenente espresso riferimento alla sentenza impugnata, il che elimina ogni rilievo anche della mancanza della data, in applicazione dell’art. 83, comma 3, c.p.c. (come novellato dalla legge 27 maggio 1997, n. 141).
1.2. Il ricorso principale contiene altresì una sufficiente esposizione sommaria dei fatti sostanziali e processuali della vicenda, funzionale alla comprensione dei motivi nonché alla verifica dell’ammissibilità, pertinenza e fondatezza delle censure proposte.
1.3. I ricorsi incidentali di Roberto Cesare Pio e di Ornella Bertoni soddisfano l’esigenza di specifica indicazione, ex art. 366, n. 6, c.p.c., e di produzione, ex art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c., degli atti e dei documenti si cui si fondano le censure.
2. Il primo motivo del ricorso di Julian Pio deduce la violazione e/o falsa applicazione “delle disposizioni di diritto internazionale privato (italiano e inglese) e degli artt. 13, comma 1, e 15, legge n. 218 del 1995, sostenendo che la Corte d’appello avrebbe erroneamente applicato dapprima il diritto materiale inglese, così intendendo revocato il testamento a seguito del matrimonio del testatore, e poi la norma di diritto internazionale privato inglese sulla successione degli immobili regolata dalla lex rei sitae. Viceversa, accertata l’applicabilità della legge italiana in base al diritto internazionale privato inglese, la validità ed efficacia del testamento del 1997 andava giudicata in base alla legge italiana.
Il secondo motivo del ricorso di Julian Pio denuncia ancora la violazione e/o falsa applicazione del diritto internazionale privato inglese e degli artt. 13, comma 1, e 15, legge n. 218 del 1995, nonché del Will Act del 1837. Viene censurata la decisione della Corte di Milano per aver ritenuto che la revoca del testamento restasse regolata dalla legge inglese sia in base al regime successorio che alla disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi. La revoca del testamento doveva invece giudicarsi secondo la lex rei sitae degli immobili, sicché l’atto avrebbe conservato efficacia, stando al diritto italiano, nonostante il successivo matrimonio del testatore.
Il terzo motivo del ricorso di Julian Pio allega la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 13 e 46 della legge n. 218 del 1995 evincibile da quanto affermato nella sentenza impugnata, secondo cui l’art. 46 citato ammetterebbe il testatore soltanto ad optare per la legge dello Stato in cui risiede, che nella specie sarebbe stata quella italiana. Secondo il ricorrente principale, la Corte di Milano avrebbe errato nell’applicare l’art. 46 citato, in quanto la “non scelta” della legge di residenza da parte del testatore avrebbe dovuto indurre ad escludere l’operatività dell’art. 13, o comunque del rinvio indietro ai sensi del secondo comma di tale ultima norma.
Il quarto motivo del ricorso di Julian Pio censura la violazione del giudicato interno in relazione all’affermazione che il de cuius, con il testamento del 1997, non avrebbe positivamente scelto la legge inglese, a differenza di quanto accertato dal Tribunale.
Il quinto motivo del ricorso di Julian Pio denuncia la violazione degli artt. 46, comma 1, 13 e 15, legge n. 218 del 1995, per aver la Corte di Milano ritenuto che la successione fosse disciplinata dalla legge inglese per i beni mobili e dalla legge italiana per gli immobili, in quanto l’art. 13 citato escluderebbe la possibilità di applicare le norme di conflitto inglesi che frazionano la successione; per il ricorrente principale, si dovrebbe, piuttosto, intendere che il richiamo dell’art. 46 alla legge nazionale comporti che l’intera successione resti regolata dal diritto materiale inglese, con conseguenti revoca del testamento per successivo matrimonio ed esclusione della successione ab intestato del coniuge con riguardo ai beni immobili.
3. Il primo motivo del ricorso incidentale di Roberto Cesare Pio denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 46, legge n. 218 del 1995 e delle norme consuetudinarie di diritto inglese, avendo la sentenza impugnata ignorato gli ambiti di applicazione della lex successionis e della lex rei sitae. In particolare, alla successione di Oscar Alfred Pio si doveva applicare il diritto inglese, stante il principio di unitarietà ritraibile dall’art. 46 citato, senza così riconoscere alcun diritto sul patrimonio immobiliare alla coniuge del de cuius. La legge italiana, quale lex rei sitae, avrebbe dovuto rilevare solo per le procedure di acquisto dei beni, per gli atti di autorizzazione o di immissione in proprietà, per le formalità di controllo e vidimazione, e non invece per l’attribuzione della qualità di erede.
Il secondo motivo del ricorso incidentale di Roberto Cesare Pio deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 46, comma 2, e 13, comma 2, legge n. 218 del 1995, sostenendo che la scelta da parte de cuius della lex successionis escluda l’applicazione del cosiddetto “rinvio indietro”, con conseguente applicazione alla successione di Oscar Alfred Pio del solo diritto materiale inglese e non anche del diritto italiano, dal che la negazione di qualsiasi attribuzione ad Ornella Bertoni eccedente i soli beni mobili del defunto.
Il terzo motivo del ricorso incidentale di Roberto Cesare Pio denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 13 e dell’art. 48, legge n. 218 del 1995, nonché delle norme consuetudinarie di diritto inglese internazionale privato. Si assume che il rinvio alla lex rei sitae, voluto dal diritto inglese per il patrimonio ereditario immobiliare, avrebbe dovuto condurre alla conclusione della permanente validità del testamento del 29 ottobre 1997 alla stregua della disciplina successoria italiana, limitando la quota spettante al coniuge alla misura di un quarto stabilita dall’art. 542 c.c. in tema di tutela dei legittimari.
Il quarto motivo del ricorso incidentale di Roberto Cesare Pio allega la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 581 c.c., in quanto la Corte d’appello ha attribuito ad Ornella Bertoni tutti i beni mobili personali del de cuius ed un terzo degli immobili siti in Italia, senza neppure tener conto dei debiti gravanti sull’eredità.
4. Il primo motivo del ricorso incidentale di Ornella Bertoni, proposto in via subordinata all’accoglimento di uno o alcuni dei motivi dei ricorsi avversi, e correlato al capo di sentenza che ha negato alla stessa il diritto ad ottenere un legato di 125.000 sterline, denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’Administration of Estates Act 1925 Sect. 46 – Family Proyision Intestate Succession Order 1993 e delle norme consuetudinarie di diritto inglese richiamate dall’esperto, nonché dell’art. 581 c.c., ove si ritenesse applicabile alla successione il solo diritto inglese, dovendo in tal caso il legato gravare sull’asse ereditario immobiliare assegnato ai figli.
Il secondo motivo del ricorso incidentale di Ornella Bertoni, proposto condizionatamente all’accoglimento di uno o alcuni dei motivi dei ricorsi avversi, denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’Administration of Estates Act 1925 Sect. 46 – Family Pro vision Intestate Succession Order 1993 e delle norme consuetudinarie di diritto inglese richiamate dall’esperto, nonché dell’art. 542 c.c., ove viceversa si ritenesse applicabile il diritto italiano alla questione della validità del testamento, in tal caso potendo il legato gravare sul patrimonio immobiliare assegnato ai figli senza alcuna lesione di legittima.
Al riguardo di tale legato ex lege (cosiddetto statutory legacy), la Corte d’appello, dopo aver riconosciuto l’irrilevanza della ravvisata revoca testamentaria, ha tuttavia sostenuto che esso “non può gravare sull’asse ereditario costituito dagli immobili, poiché in tal caso verrebbero alterate in danno dei figli del defunto le quote di legittima in violazione della legge italiana”.
5. L’ordinanza interlocutoria n. 18/2020 del 3 gennaio 2020 pronunciata dalla Seconda Sezione Civile ha così esposto le questioni di massima di particolare importanza che sono sottese alla decisione dei ricorsi.
5.1. Il de cuius Oscar Alfred Pio, che aveva mantenuto fino alla morte, avvenuta il 19 dicembre 1999, cittadinanza e domicilio inglesi, aveva redatto il 29 ottobre 1997 testamento, istituendo propri eredi cinque dei suoi sette figli ed attribuendo un legato di 50.000 sterline ad Ornella Bertoni, che aveva poi sposato in data 25 ottobre 1999. Non era stato accertato dai giudici del merito che il testatore avesse scelto di sottoporre la sua successione alla legge inglese (art. 46, comma 2, legge n. 218 del 1995), in maniera da precludere pure il rinvio alla legge italiana (art. 13, comma 2, legge n. 218 del 1995).
5.2. L’asse ereditario comprendeva anche immobili siti in Italia (il compendio denominato “Fattoria n Torricino” in Scandicci ed un immobile nel comune di Monte Argentario).
5.3. La decisione della Corte d’appello era stata quella di regolare la successione secondo il diritto inglese, intendere perciò revocato il testamento per effetto del successivo matrimonio alla section 46 del Will Act del 1837, procedere ab intestato, attribuire i beni mobili secondo la legge del domicilio del testatore e i beni secondo la legge di situazione.
5.4. La cornice normativa di riferimento va rinvenuta nella legge n. 218 del 1995, non avendo applicazione nella specie né la Convenzione dell’Aja del 1 agosto 1989 né il Regolamento UE n. 650/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 luglio 2012.
5.5. L’art. 46, comma 1, della legge n. 218 del 1995 dà conferma del principio di unitarietà della successione.
5.6. Nei sistemi di common law, tuttavia, la successione non investe l’intero patrimonio del defunto. In particolare, il diritto internazionale privato inglese scinde la disciplina applicabile alla successione, riservando alla legge del domicilio del de cuius la sorte dei beni mobili ed alla lex rei sitae la regolamentazione degli immobili.
5.7. Concorrendo leggi diverse nella disciplina della medesima successione, in virtù del sistema della scissione dovrebbero costituirsi due distinte masse ereditarie e risolversi in base alle norme a ciascuna applicabili i problemi di validità ed efficacia del titolo successorio, quelli legati all’entità delle quote spettanti ai successori, o alle modalità della delazione, all’accettazione ed alla pubblicità degli atti, nonché all’eventuale tutela dei legittimari.
5.8. La professio iuris generalmente contemplata dall’art. 13, comma 2, letta a) della legge n. 218 del 1995, quale deroga al rinvio alla legge di altro Stato, è comunque limitata per le successioni causa mortis al solo eventuale riferimento che il testatore abbia fatto alla legge dello Stato in cui risiede.
5.9. A norma dell’art. 15 della legge n. 218 del 1995, la legge straniera va applicata secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo.
5.10. Dall’art. 13 della legge n. 218 del 1995 si desume come venga ammesso sia il cosiddetto rinvio all’indietro (e cioè alla legge italiana), sia il cosiddetto rinvio altrove (e cioè ad un terzo ordinamento). Nel caso in esame, la legge inglese contiene, così, un rinvio all’indietro alla legge italiana in base alla situazione dei beni, e tale rinvio è accettato dall’ordinamento italiano.
5.11. L’ordinanza interlocutoria n. 18/2020 evidenzia allora come occorra verificare:
5.11.1. se, in base al combinato disposto degli artt. 13, comma 1, 15 e 46, comma 1, della legge n. 218 del 1995, la collocazione dell’istituto della revoca del testamento nell’ambito della materia successoria o di quella matrimoniale debba operarsi in base ai criteri di qualificazione della legge italiana o della legge straniera (nella specie, quella inglese);
5.11.2. se l’applicabilità del diritto inglese sia altrimenti comunque da escludere a causa del criterio della scissione dello statuto successorio adottato in quell’ordinamento, giacché contrastante con il principio di unitarietà ed universalità della successione recepito anche dalla legge n. 218 del 1995, ove ritenuto inderogabile;
5.11.3. se, in base agli artt. 13, comma 1, e 46, comma 1, della legge n. 218 del 1995, sia corretto anteporre l’operatività della norma sostanziale inglese, riguardante la revoca testamentaria, alla disciplina successoria individuata per gli immobili con riferimento alla lex rei sitae. Potrebbe viceversa sostenersi che l’art. 13 citato, ove stabilisce che deve tenersi conto della norma straniera di rinvio, intenda escludere che la materia possa essere disciplinata dall’ordinamento straniero che – in base alle proprie norme di diritto internazionale privato – non vuole invece regolarla. In particolare, la conclusione di applicare la legge materiale inglese riguardante la revoca del testamento per susseguente matrimonio all’intera successione non sembra considerare la norma di rinvio contenuta nella legge di diritto internazionale privato inglese, che non è volta a disciplinare la devoluzione degli immobili situati in Italia, anche riguardo alle questioni concernenti l’efficacia del titolo testamentario;
5.11.4. se la lex rei sitae, oltre ad integrare la legge successoria in base al primo comma dell’art. 46, possa costituire essa stessa la fonte di regolazione del titolo successorio per effetto del rinvio contenuto nelle norme di diritto internazionale privato straniero che contemplano il sistema della scissione; o se, piuttosto, detta legge venga in rilievo ai soli fini della regolazione delle modalità di acquisto dei beni ereditari.
6. Vanno esaminati congiuntamente il ricorso principale di Julian Pio ed il ricorso incidentale di Roberto Cesare Pio, in quanto essi pongono censure in parte sovrapponibili ed in parte interdipendenti, sicché le ragioni che depongono per la fondatezza di alcuni dei motivi rendono superflua l’autonoma trattazione delle questioni sollevate con altri.
Il ricorso principale di Julian Pio ed il ricorso incidentale di Roberto Cesare Pio sono dunque da accogliere nei limiti di seguito delineati.
6.1. Si ha riguardo alla successione di Oscar Alfred Pio, cittadino inglese, morto in Italia il 19 dicembre 1999, coniugato dal 25 ottobre 1999 con Ornella Bertoni, cittadina italiana. Alla successione di Oscar Alfred Pio partecipano, oltre la coniuge, i sette figli del de cuius, Christopher, Camilla Dorothea, Isabella, Adrian Americo, Rosalynd, Julian e Roberto Pio. Oscar Alfred Pio aveva redatto testamento redatto a Londra il 29 ottobre 1997, ed aveva disposto di tutte le sue sostanze in favore di Christopher, Camilla Dorothea, Isabella, Adrian Americo e Rosalynd, lasciando ad Ornella Bertoni un legato di 50.000 sterline. In corso di causa, Julian Pio e Roberto Pio hanno acquistato le quote ereditarie di Christopher, Camilla Dorothea, Isabella, Adrian Americo e Rosalynd Pio. Il patrimonio ereditario è composto da immobili siti in Italia e da beni mobili.
7. La fattispecie di causa va regolata esclusivamente alla stregua della legge 31 maggio 1995 n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato). Non rileva ratione temporis, e comunque per il mancato opt-in del Regno Unito, il Regolamento (UE) numero 650/2012 del 4 luglio 2012. Non rileva neppure la Convenzione dell’Aja del 1 agosto 1989, di cui l’Italia non è parte contraente.
8. La legge 31 maggio 1995 n. 218 dedica al diritto internazionale privato delle successioni il capo VII, strutturato in quattro articoli inerenti alla legge applicabile (artt. 46-49) ed in un articolo in tema di giurisdizione (art. 50). L’art. 46 individua la disciplina che regola la successione internazionale e la divisione ereditaria, gli artt. 47 e 48 riguardano il regime della capacità di testare e della forma del testamento, mentre l’art. 49 contempla una norma sostanziale sulla successione dello Stato.
9. Nella vicenda per cui è causa, viene in rilievo un caso di revoca del testamento previsto dal Wills Act 1837 in ipotesi di successivo matrimonio del testatore («In England, Wales and Northern Ireland, it is stili a generai rule that marriage automatically revokes a will»). Ai fini della qualificazione della questione come rientrante nello statuto successorio, e perciò da affrontare in base all’art. 46 della legge n. 218 del 1995, non serve contrapporre che per il diritto inglese tale revoca non rientra nell’ambito delle successioni, ma del matrimonio. La qualificazione dirimente per dare soluzione alla questione preliminare della inerenza della fattispecie di revoca testamentaria alla legge delle successioni va operata in base alla legge materiale italiana.
L’art. 15 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (in base al quale “la legge straniera è applicata secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo”), postula che il diritto straniero, operante nell’ordinamento italiano in forza delle norme di diritto internazionale privato, deve essere applicato dal giudice italiano avvalendosi di tutti gli strumenti interpretativi posti dall’ordinamento straniero, ma non dà risposta al profilo della qualificazione e quindi della natura della norma di altro Stato, da affrontare, perciò, secondo la lex fori.
Pertanto, nel decidere quale norma di conflitto prevista dalla legge n. 218 del 1995 funzioni in rapporto alla specifica domanda proposta, il giudice deve determinare il significato delle espressioni giuridiche che connotano le categorie di fattispecie sulla base della lex fori, e cioè secondo i canoni di qualificazione propri dell’ordinamento italiano, cui tale norma appartiene (e non già sulla base della lex causae, e cioè adoperando i canoni ermeneutici dell’ordinamento straniero di volta in volta richiamato).
Nella specie, individuate dapprima negli artt. 13 e 46 della legge n. 218 del 1995 le norme di conflitto, alla stregua della qualificazione compiuta secondo la lex fori, occorre poi considerare che la medesima legge inglese richiamata intende regolare la successione dei beni mobili, mentre rinvia indietro all’Italia la disciplina della successione dei beni immobili. La qualificazione, alla luce dell’ordinamento inglese richiamato, della questione preliminare attinente alla revoca del testamento come inerente ai rapporti tra coniugi (cosiddetta seconda qualificazione o qualificazione di rinvio) può rilevare, quindi, soltanto nei limiti in cui le norme di conflitto dapprima individuate portino a dare applicazione alla legge straniera.
10. In continuità con l’abrogato art. 23 disp. prel. c.c. e ancora prima con l’art. 8 disp. prel. codice civile 1865, l’art. 46 della legge n. 218 del 1995 ribadisce inizialmente i principi di unitarietà e universalità della successione (tanto ex lege che testamentaria), affermando il primo comma che la successione mortis causa è regolata (soltanto) dalla legge nazionale del defunto al momento della morte, senza che abbiano rilievo la natura e la situazione dei beni che ne costituiscono oggetto.
10.1. I principi di unitarietà e universalità della successione divergono dalla soluzione della pluralità delle successioni, adottata, ad esempio, nei paesi di common law (ma anche in alcuni ordinamenti di civil law), e connotata dalla separazione tra legge regolatrice della proprietà mobiliare e legge regolatrice della proprietà immobiliare: la prima coincidente con la legge dell’ultimo domicilio o dell’ultima cittadinanza del de cuius, la seconda, per i beni immobili, individuabile come lex rei sitae.
10.2. Lo stesso art. 46 della legge n. 218 del 1995, peraltro, al secondo comma riconosce al soggetto della cui eredità si tratta la scelta di sottoporre, necessariamente con dichiarazione espressa in forma testamentaria, che “l’intera successione” sia sottoposta “alla legge dello Stato in cui risiede” (cosiddetta optio legis, o professio juris). In tal caso, però, ove si tratti di successione di un cittadino italiano, la scelta non può pregiudicare i diritti che la legge italiana attribuisce ai legittimari residenti in Italia al momento della morte del de cuius.
10.3. D’altro canto, il principio di unità della successione può essere attenuato dall’operatività del meccanismo del rinvio ex art. 13 della legge n. 218 del 1995, il quale, introdotto da tale disposizione per la prima volta nel nostro ordinamento, può portare a modificare le stesse regole di conflitto: ciò è quel che avviene, ad esempio, proprio allorché la legge nazionale del defunto adotti il criterio della scissione e così postuli l’assoggettamento della successione a discipline diverse in base alla natura ed alla situazione dei beni compresi nell’eredità.
10.4. La coniugazione simultanea, sotto il profilo della legge regolatrice della successione internazionale, della regola di unitarietà e universalità della successione e della regola del rinvio impone all’interprete un difficile coordinamento, che era invece ignoto nell’originario sistema retto dagli artt. 23 e 30 delle disposizioni sulla legge in generale.
Tale difficile coordinamento si impone indicativamente proprio quando muoia un cittadino inglese che lasci nel suo patrimonio immobili in Italia: la successione è regolata dalla legge inglese secondo l’art. 46 della legge n. 218 del 1995, ma la conflict law inglese non codificata valevole per i beni immobili rinvia, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 218 del 1995, alla lex rei sitae, ovvero alla legge italiana. Ciò, peraltro, garantisce l’applicazione della stessa legge alla medesima successione internazionale, evitando che i giudici dei due diversi Stati pervengano, ove alternativamente aditi, a soluzioni opposte.
11. Deve subito considerarsi come il ricorso incidentale di Roberto Cesare Pio (in particolare, secondo motivo) fa riferimento ad una “quaestio voluntatis“, attinente alla “scelta” inequivocabile di Oscar Alfred Pio di assoggettare la propria successione alla legge sostanziale inglese, ritraibile dalla decisione dello stesso di recarsi a Londra nel 1997 appositamente per fare testamento. Di tale questione non vi è però alcun cenno nella sentenza impugnata, né il ricorrente incidentale, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, allega, nei modi imposti dall’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., l’avvenuta deduzione della stessa innanzi al giudice di merito, limitandosi il ricorrente incidentale, del resto, ad articolare censure per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, le quali non implicano l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa.
Neppure è sostenibile che la decisione del Tribunale di Milano contenesse una statuizione minima, perciò suscettibile di acquisire efficacia di giudicato interno, nel senso che Oscar Alfred Pio avesse “scelto” la legge materiale da applicare alla sua successione, trattandosi, perciò, di questione che il giudice di appello aveva il potere di riconsiderare e riqualificare relativamente agli aspetti comunque coinvolti dai motivi dei contrapposti gravami.
11.1. In ogni caso, perché possa ravvisarsi la scelta di cui all’art. 46, comma 2, della legge n. 218 del 1995 (ammissibile soltanto in favore della legge dello Stato in cui il de cuius abbia la propria effettiva ed abituale residenza, al momento della stessa scelta e della morte, e riferibile necessariamente all’intera successione, nonché tale da disattivare in potenza anche l’effetto dell’eventuale rinvio: art. 13, comma 2, lettera a, legge n. 218 del 1995), occorre una” dichiarazione espressa in forma testamentaria”, ovvero in una delle forme valide previste dal successivo art. 48.
11.2. La contemporanea operatività degli artt. 13 e 46 della legge n. 218 del 1995 esclude che al cittadino inglese, che non opti per la legge dello Stato di residenza, basti redigere testamento ai sensi della sua legge materiale nazionale per rendere applicabile quest’ultima all’intera successione: la scelta della forma del testamento non rivela ex se una volontà del testatore se manca nella scheda una dichiarazione espressa della legge applicabile alla sua successione, e così la situazione dei beni immobili finisce per determinare l’applicabilità della legge del posto quale conseguenza del rinvio indietro.
12. Dunque, il principio di unità della successione comporta che la legge non considera né le caratteristiche dei beni, né le qualità dei successibili per disciplinare la vocazione. Esso inoltre implica l’unicità della successione, che si apre solo una volta, e l’unitarietà della sua regolazione normativa, cioè l’utilizzazione di un unico meccanismo di allocazione delle situazioni comprese nel compendio ereditario.
Il diritto internazionale privato è, tuttavia, il terreno elettivo dello scontro tra unità e pluralità delle successioni mortis causa. Questo scontro si avvera, infatti, quando, nelle successioni transnazionali, entra in gioco il rinvio consentito ed accettato anche di ritorno (contraddittoriamente, ad avviso di alcuni commentatori) dall’art. 13 della legge n. 218 del 1995.
Nel caso in esame (che delinea una fattispecie non a caso ipotizzata come emblematica in molti studi specialistici), le norme di conflitto, di cui agli artt. 13 e 46 della legge n. 218 del 1995, individuano preliminarmente la lex successionis nella legge inglese, la quale poi trattiene la regolamentazione dei beni mobili e rinvia indietro alla lex rei sitae la disciplina dei beni immobili.
In sostanza, quale conseguenza del rinvio del diritto internazionale privato italiano al diritto privato internazionale inglese e del correlato rinvio indietro previsto da quest’ultimo, si determina l’effetto della cosiddetta “scissione” tra i beni immobili e i beni mobili del defunto, senza che, per quanto detto, emerga alcun contrasto con l’ordine pubblico internazionale ex art. 16 della legge n. 218: la legge che governa la successione inerente ai beni immobili è la legge italiana, ovvero quella dello Stato in cui i beni si trovano (lex rei sitae); la legge che governa la successione inerente ai beni mobili, per contro, è la legge inglese, legge del domicilio del defunto.
13. Il sistema della scissione, che connota il diritto inglese (nonché altri paesi europei) e che il nostro ordinamento “accetta” quale possibile conseguenza del “rinvio indietro” nella regolamentazione di una successione che contiene elementi di estraneità, poggia su considerazioni di carattere eminentemente pratico di antica discendenza («mobilia personam sequuntur, immobilia vero territorium»): il rilievo riconosciuto al domicilio per la disciplina della successione mobiliare è giustificato dalla normale collocazione di tale patrimonio del de cuius presso il domicile of origin, che si acquista alla nascita e che viene mantenuto finché non sia sostituito con un domicile of choice, sicché, non avendo i beni mobili un collegamento stabile, essi vengono regolati dallo statuto personale; viceversa, la propensione per la legge del luogo di situazione in rapporto alla successione immobiliare deriva dal legame con l’autorità che ha giurisdizione sui beni immobili, giustificandosi l’operatività riguardo ad essi dello statuto reale. Si tratta di un sistema di scissione, dunque, riguardante le categorie di beni, e non meramente «funzionale», quale quello che invece sottopone la devoluzione dei beni ereditari alla legge successoria e la sola amministrazione della successione alla lex fori.
14. Il principio della scissione, beninteso, opera sia nell’ambito di una successione ab intestato sia in una successione testamentaria.
15. La ricorrenza di un sistema dualista nella disciplina della successione transazionale comporta l’apertura di due (o più, se più sono gli Stati in cui esistono beni immobili del defunto) successioni e la formazione di due distinte masse, ognuna assoggettata a differenti regole di vocazione e di delazione, ovvero a diverse leggi chiamate a verificare la validità e l’efficacia del titolo successorio, ad individuare gli eredi, a determinare l’entità delle quote e le modalità di accettazione e di pubblicità.
15. In particolare, l’ambito di applicazione della lex successionis, individuata per le due successioni, quella mobiliare e quella immobiliare, abbraccia tutti i tre momenti in cui si sviluppa il procedimento successorio: quello della devoluzione, quello della trasmissione ereditaria dei beni e quello della divisione.
Trattandosi di successione testamentaria, la stessa lex successionis, nella specie, quella inglese per i beni mobili e quella italiana per i beni immobili, disciplina, tra l’altro, quali tipi di disposizione il testatore poteva prevedere, la necessità di accettazione del legato o le modalità della rinuncia ad esso, i presupposti, le cause, i modi e gli effetti della revoca del testamento, l’eventuale tutela dei legittimari (quest’ultima desumibile altresì dall’art. 46, comma 2, della legge n. 218 del 1995).
In mancanza di una dichiarazione espressa del testatore della legge applicabile alla successione e comunque agli effetti dello stesso secondo comma dall’art. 46 della legge n. 218 del 1995, non può, invero, sostenersi che il rinvio alla legge italiana per la successione immobiliare, e la conseguente tutela delle quote di legittima, sacrificano la volontà di quello di disporre dei propri beni dopo la morte preservata dal sistema giuridico inglese.
16. L’errore della sentenza impugnata sta dunque nell’aver ritenuto che “è proprio perché è la legge inglese a disciplinare la successione mortis causa che trova applicazione prima la revoca del testamento per susseguente matrimonio, poi la successione ab intestato secondo le regole di diritto internazionale privato della stessa – applicate dunque prima di quelle sostanziali per risolvere il conflitto – che individuano per i beni mobili le disposizioni della legge inglese in considerazione del domicile del de cuius e per gli immobili le disposizioni della legge italiana per il rinvio senza distinzioni alla lex rei sitae”. In tal modo, i giudici del merito hanno finito per regolare anche il titolo di acquisto della successione immobiliare in base alla legge inglese, relegando l’operatività della lex rei sitae alla sola fase successiva alla delazione, limitata alla determinazione delle quote, alle modalità materiali ed alle formalità di acquisito.
Devono pertanto enunciarsi i seguenti principi:
In tema di successione transazionale, per l’individuazione della norma di conflitto operante, ed in particolare per la qualificazione preliminare della questione come rientrante nello statuto successorio, e perciò da regolare alla stregua dell’art. 46 della legge 31 maggio 1995, n. 218, il giudice deve adoperare i canoni propri dell’ordinamento italiano, cui tale norma appartiene.
Allorché la legge nazionale che regola la successione transnazionale, ai sensi dell’art. 46 della legge 31 maggio 1995, n. 218, sottopone i beni mobili alla legge del domicilio del de cuius e rinvia indietro alla legge italiana, come consentito dall’art. 13, comma 1, lettera b), della legge n. 218 del 1995, per la disciplina dei beni immobili compresi nell’eredità, si verifica l’apertura di due successioni e la formazione di due distinte masse, ognuna assoggettata a differenti regole di vocazione e di delazione, ovvero a diverse leggi che verificano la validità e l’efficacia del titolo successorio (anche, nella specie, con riguardo ai presupposti, alle cause, ai modi ed agli effetti della revoca del testamento), individuano gli eredi, determinano l’entità delle quote e le modalità di accettazione e di pubblicità ed apprestano l’eventuale tutela dei legittimari.
17. L’accoglimento, nei limiti di cui in motivazione, del ricorso principale di Julian Pio e del ricorso incidentale di Roberto Cesare Pio comporta l’assorbimento del ricorso incidentale di Ornella Bertoni, le cui censure, attinenti al capo di sentenza che ha negato alla stessa il diritto ad ottenere un legato ex lege (statutory legacy) di 125.000 sterline in forza dell‘Administration of Estates Act 1925 Sect. 46, perdono di immediata evidenza decisoria, dovendo necessariamente essere riesaminate dal giudice di rinvio nell’ambito dei nuovi accertamenti di fatto ad esso devoluti alla stregua degli enunciati principi di diritto.
18. La sentenza impugnata va cassata, con rinvio dalla causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi ai principi di diritto enunciati e provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il ricorso principale di Julian Pio ed il ricorso incidentale di Roberto Cesare Pio, dichiara assorbito il ricorso incidentale di Ornella Bertoni, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 26 gennaio 2021.
Il Consigliere estensore
Il Presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 03 gennaio 2020, n. 18, per SS.UU, 05 febbraio 2021, n. 2867, in tema di successione transnazionale
SS.UU, 05 febbraio 2021, n. 2867, in tema di successione transazionale
In tema di donazione a mezzo banca – SS.UU, 27 luglio 2017, n. 18725
Civile Sent. Sez. U Num. 18725 Anno 2017
Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 27/07/2017
SENTENZA
sul ricorso iscritto al N.R.G. 11494 del 2012 proposto da:
CLARICI Elena, rappresentata e difesa dall’Avvocato Furio Stradella, con domicilio eletto nello studio dell’Avvocato Andrea Antonelli in Roma, via dei Gracchi, n. 187;
– ricorrente –
contro
POZZARI Claudia, rappresentata e difesa dall’Avvocato Alberto Tarlao, con domicilio eletto presso lo studio dell’Avvocato Luigi Favino in Roma, via Cola di Rienzo, n. 190;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 816/11 della Corte d’appello di Trieste, depositata il 20 dicembre 2011.
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 18 luglio 2017 dal Consigliere Alberto Giusti;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Riccardo Fuzio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli Avvocati Furio Stradella e Alberto Tarlao.
FATTI DI CAUSA
1. – La vicenda riguarda una fattispecie attributiva triangolare a mezzo banca compiuta a titolo di liberalità: più precisamente, concerne un trasferimento di valori mobiliari, di cospicuo valore, depositati su un conto bancario, eseguito in favore di un terzo in virtù di un ordine in tal senso impartito alla banca dal titolare del conto, deceduto pochi giorni dopo l’operazione.
Apertasi la successione ab intestato dell’ordinante Darno Clarici, la figlia del de cuius, Elena Clarici, ha agito in giudizio davanti al Tribunale di Trieste nei confronti della beneficiaria del trasferimento, Claudia Pozzari, chiedendo, per la quota di un terzo spettante all’attrice sul patrimonio ereditario, la restituzione del valore degli strumenti finanziari, ammontanti complessivamente, alla data dell’esecuzione dell’operazione, a euro 241.040,60.
Premesso che gli strumenti finanziari (quote di Venetocash e di Venetocapital e titoli di Cassamarca) appartenevano al di lei padre ed erano custoditi in un apposito conto di deposito titoli in amministrazione presso Cassamarca s.p.a. e che la convenuta, nella qualità di delegata, aveva dato ordine alla banca di trasferirli sul proprio conto, l’attrice ha dedotto la nullità del negozio attributivo, in quanto privo della forma solenne richiesta per la validità della donazione.
La Pozzari si è difesa rilevando che il trasferimento era stato chiesto direttamente dal titolare dei titoli e solo reiterato da essa delegata.
Ha sostenuto che l’attribuzione doveva essere considerata, in parte, adempimento di obbligazione naturale, giustificata dal legame affettivo che ella aveva instaurato con il de cuius e dalla cura e dall’assistenza prestate nei suoi confronti durante il corso della malattia che lo aveva portato alla morte; in parte, donazione indiretta.
2. – Il Tribunale di Trieste ha accolto la domanda, dichiarando la nullità della liberalità. Accertato che l’ordine alla banca proveniva dal Clarici, il Tribunale ha distinto tra negozio sottostante (attribuzione patrimoniale alla Pozzari) e ordine alla banca. Secondo il primo giudice, l’ordine alla banca è negozio astratto, autonomo rispetto ai rapporti inter partes; il negozio tra le parti è quello che rileva e deve essere qualificato come donazione vera e propria; il trasferimento non
può essere ritenuto adempimento di obbligazione naturale (“in quanto i titoli sono stati attribuiti alla Pozzari non con l’intento di adempiere ad un dovere morale e sociale, ma in considerazione dell’assistenza prestata al de cuius durante la sua malattia”), ma piuttosto donazione remuneratoria. Di qui la nullità per difetto di forma.
3. – A diversa conclusione è pervenuta la Corte d’appello di Trieste, la quale, con sentenza in data 20 dicembre 2011, ha accolto il gravame proposto in via principale dalla Pozzari e rigettato la domanda.
La Corte territoriale ha osservato, innanzitutto, che “i fatti non sono contestati e che l’istruttoria ha confermato il ‘doppio’ ordine, necessario perché la banca aveva smarrito il primo ordine, sottoscritto direttamente dal Clarici”. Sempre in punto di fatto, la Corte di Trieste, valorizzando la deposizione testimoniale del direttore della banca, ha ritenuto provato che la Pozzari aveva assistito il Clarici, precisando che la convivenza tra le parti era cominciata prima che questi scoprisse di essere affetto da un male incurabile.
La Corte d’appello ha ricondotto la fattispecie nell’ambito della donazione indiretta, per la cui validità non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza della forma prescritta per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità.
I giudici del gravame hanno considerato che, per integrare la liberalità di cui all’art. 809 cod. civ., non è indispensabile il collegamento “di due negozi, uno fra donante e donatario, e l’altro fra donante e terzo che realizza lo scopo-donazione”, ma basta un solo negozio, con il rispetto delle forme per esso previste. Secondo la Corte di Trieste, l’ordine dato dal beneficiante all’istituto di credito è idoneo a veicolare lo spirito di liberalità.
La Corte d’appello ha dichiarato assorbito il motivo di appello con cui l’appellante Pozzari ha sostenuto che l’atto compiuto andava ricondotto all’adempimento di un’obbligazione naturale; e ha altresì dichiarato assorbito l’appello incidentale della Clarici.
4. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la Clarici ha proposto ricorso, sulla base di due motivi.
4.1. – Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 769, 782 e 809 cod. civ., in relazione agli artt. 1852 e 1834 cod. civ.) la ricorrente censura che la Corte di Trieste abbia ritenuto che il mero trasferimento di valori mobiliari, non avente fondamento in alcun negozio causale sottostante, sia ad ogni effetto una donazione indiretta e, come tale, sottratta al vincolo della forma. Ad avviso della ricorrente, la liberalità attuata a mezzo bonifico non è una donazione indiretta, ma una donazione diretta, la quale richiede la forma dell’atto pubblico a pena di nullità. L’esclusione dell’onere della forma – implicitamente prevista, per le donazioni indirette, dall’art. 809 cod. civ. – sarebbe riferibile alle sole fattispecie negoziali causali, laddove nella specie ci si troverebbe di fronte ad una semplice operazione bancaria.
Il secondo motivo lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Nel ragionamento della Corte d’appello non vi sarebbe traccia di spiegazioni circa la ragione per la quale l’art. 809 cod. civ. debba trovare applicazione non solo ai contratti bancari di deposito cointestati, ma anche alle mere esecuzioni di disposizioni di trasferimento titoli dal conto del donante a quello del donatario.
5. – La Pozzari ha resistito con controricorso, in particolare sottolineando che la vicenda del trasferimento dei titoli attraverso l’ordine impartito alla banca dal beneficiante è assimilabile all’ipotesi – che la giurisprudenza riconduce alla donazione indiretta – della cointestazione del conto corrente con successivo transito sullo stesso di somme appartenenti ad uno solo dei cointestatari.
6. – Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative delle rispettive posizioni in prossimità dell’udienza fissata dinanzi alla Sezione semplice.
7. – Con ordinanza interlocutoria n. 106 del 4 gennaio 2017, la II Sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, segnalando la presenza di orientamenti giurisprudenziali non uniformi e di un quadro interpretativo “frammentato” in ordine alla questione se, per aversi donazione indiretta, sia necessaria la presenza di almeno due negozi, o se sia sufficiente un solo negozio o, persino, un mero atto non negoziale, ed evidenziando, altresì, la particolare rilevanza della stessa, stante il frequente ricorso a operazioni del tipo di quelle compiute nella specie in funzione trans o post mortem.
8. – Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
9. – In prossimità dell’udienza pubblica entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – La questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite solleva un problema di rapporti tra il contratto tipico di donazione e le liberalità diverse dalla donazione (dette anche donazioni indirette o liberalità atipiche): l’uno, definito dall’art. 769 cod. civ. come l’atto con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione; le altre, contemplate dall’art. 809 cod. civ. come liberalità risultanti da atti diversi dalla donazione stessa, le quali hanno in comune con l’archetipo l’arricchimento senza corrispettivo, voluto per spirito liberale da un soggetto a favore dell’altro, ma se ne distinguono perché l’arricchimento del beneficiario non si realizza con l’attribuzione di un diritto o con l’assunzione di un obbligo da parte del disponente, ma in modo diverso.
Si tratta, in particolare, di stabilire se l’operazione attributiva di strumenti finanziari dal patrimonio del beneficiante in favore di un altro soggetto, compiuta a titolo liberale attraverso una banca chiamata a dare esecuzione all’ordine di trasferimento dei titoli impartito dal titolare con operazioni contabili di addebitamento e di accreditamento, costituisca una donazione tipica, identificata dalla definizione offerta dall’art. 769 cod. civ., o sia inquadrabile tra le liberalità non donative, ai sensi dell’art. 809 cod. civ., ossia tra gli atti, molti dei quali aventi una propria disciplina, che, secondo una accreditata definizione dottrinale, possono essere impiegati per attuare in via mediata effetti economici equivalenti a quelli prodotti dal contratto di donazione.
Più precisamente, occorre domandarsi se la stabilità del trasferimento di ricchezza attuato donandi causa a mezzo banca sia subordinata all’adozione dello schema formale-causale della donazione; o se l’attribuzione liberale a favore del beneficiario rappresenti una conseguenza indiretta giustificata dal ricorso ad un’operazione trilaterale di movimentazione finanziaria con l’intermediazione dell’ente creditizio.
1.1. – La riconduzione all’uno o all’altro ambito ha conseguenze sul piano della disciplina applicabile.
Infatti, il codice civile estende alle liberalità diverse dalla donazione tipica le disposizioni riguardanti la revocazione per causa di ingratitudine e per sopravvenienza di figli e quelle sulla riduzione per integrare la quota dovuta ai legittimari (art. 809), e le assoggetta alla disciplina della collazione (art. 737), ma al contempo prevede l’applicabilità delle norme riguardanti l’atto per mezzo del quale la liberalità è compiuta, senza che occorra l’assolvimento dell’onere della forma di cui all’art. 782.
Il regime formale della forma solenne (fuori dai casi di donazione di modico valore di cosa mobile, dove, ai sensi dell’art. 783 cod. civ., la forma è sostituita dalla traditio) è esclusivamente proprio della donazione tipica, e risponde a finalità preventive a tutela del donante, per evitargli scelte affrettate e poco ponderate, volendosi circondare di particolari cautele la determinazione con la quale un soggetto decide di spogliarsi, senza corrispettivo, dei suoi beni.
Per la validità delle donazioni indirette, invece, non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 cod. civ., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ., non richiama l’art. 782 cod. civ., che prescrive l’atto pubblico per la donazione (Cass., Sez. III, 11 ottobre 1978, n. 4550; Cass., Sez. II, 16 marzo 2004, n. 5333; Cass., Sez. I, 5 giugno 2013, n. 14197).
2. – Per rispondere al quesito, occorre preliminarmente procedere ad una ricognizione delle ipotesi più significative che l’esperienza giurisprudenziale ha ricondotto all’ambito della donazione indiretta e di quelle per le quali si è ritenuta invece necessaria l’adozione del contratto di donazione per la manifestazione della volontà e per la realizzazione dell’interesse liberale.
3. – La liberalità non donativa può essere realizzata con un contratto a favore di terzo, ossia in virtù di un accordo tra disponente stipulante e promittente con il quale al terzo beneficiario è attribuito un diritto, senza che quest’ultimo paghi alcun corrispettivo e senza prospettiva di vantaggio economico per lo stipulante. Il contratto a favore di terzo può bensì importare una liberalità a favore del medesimo, ma costituendo detta liberalità solo la conseguenza non diretta né principale del negozio giuridico avente una causa diversa, si tratta di una donazione indiretta, la quale, se pure è sottoposta alle norme di carattere sostanziale che regolano le donazioni, non sottostà invece alle norme riguardanti la forma di queste (Cass., Sez. I, 29 luglio 1968, n. 2727).
Seguendo quest’ordine di idee, si è ricondotta alla donazione indiretta la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, qualora detta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, rilevandosi che, in tal caso, con il mezzo del contratto di deposito bancario, si realizza l’arricchimento senza corrispettivo dell’altro cointestatario (Cass., Sez. II, 10 aprile 1999, n. 3499; Cass., Sez. I, 22 settembre 2000, n. 12552; Cass., Sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983). Anche la cointestazione di buoni postali fruttiferi, ad esempio operata da un genitore per ripartire fra i figli anticipatamente le proprie sostanze, può configurare, ove sia accertata l’esistenza dell’animus donandi, una donazione indiretta, in quanto, attraverso il negozio direttamente concluso con il terzo depositario, la parte che deposita il proprio denaro consegue l’effetto ulteriore di attuare un’attribuzione patrimoniale in favore di colui che ne diventa beneficiario per la corrispondente quota, essendo questi, quale contitolare del titolo nominativo a firma disgiunta, legittimato a fare valere i relativi diritti (Cass., Sez. II, 9 maggio 2013, n. 10991).
3.1. – Costituisce del pari donazione indiretta il pagamento di un’obbligazione altrui compiuto dal terzo per spirito di liberalità verso il debitore (Cass., Sez. I, 3 maggio 1969, n. 1465). Anche qui si assiste ad un’operazione che vede il coinvolgimento delle sfere giuridiche di tre soggetti: il solvens, estraneo al rapporto obbligatorio ma autore dell’adempimento, il quale dispone della propria sfera nel senso della liberalità verso il debitore, liberandolo da un’obbligazione; il creditore; ed il debitore, beneficiario della liberalità.
3.2. – Il risultato liberale può essere conseguito anche attraverso la combinazione di più atti e negozi. A seguito di una pronuncia di queste Sezioni Unite (Cass., Sez. U., 5 agosto 1992, n. 9282), la giurisprudenza qualifica l’intestazione di beni a nome altrui come una donazione indiretta del bene: una liberalità nascente da un complesso procedimento, rivolto a fare acquistare al beneficiario la proprietà di un bene, nel quale la dazione del denaro, anche quando fatta dal beneficiante al beneficiario, assume un valore semplicemente strumentale rispetto al conseguimento di quel risultato (Cass., Sez. III, 14 maggio 1997, n. 4231; Cass., Sez. II, 29 maggio 1998, n. 5310; Cass., Sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3642; Cass., Sez. VI-2, 2 settembre 2014, n. 18541; Cass., Sez. II, 4 settembre 2015, n. 17604; Cass., Sez. II, 30 maggio 2017, n. 13619).
3.3. – Donazione indiretta può aversi anche quando le parti di un contratto oneroso fissino un corrispettivo molto inferiore al valore reale del bene trasferito ovvero un prezzo eccessivamente alto, a beneficio, rispettivamente, dell’acquirente o dell’alienante (Cass., Sez. II, 7 giugno 2006, n. 13337; Cass., Sez. II, 30 gennaio 2007, n. 1955; Cass., Sez. II, 3 gennaio 2009, n. 23297; Cass., Sez. II, 23 maggio 2016, n. 10614). In tal caso, infatti, il contratto di compravendita è stipulato dalle parti soltanto per conseguire – appunto, in via indiretta, attraverso il voluto sbilanciamento tra le prestazioni corrispettive – la finalità, diversa ed ulteriore rispetto a quella di scambio, consistente nell’arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che beneficia dell’attribuzione di maggior valore.
3.4. – Anche la rinuncia abdicativa può atteggiarsi a liberalità (Cass., Sez. II, 3 marzo 1967, n. 507; Cass., Sez. II, 29 maggio 1974, n. 1545; Cass., Sez. II, 10 gennaio 2013, n. 482; Cass., Sez. II, 25 febbraio 2015, n. 3819).
4. – Passando alle ipotesi che sono state ricondotte, attraverso un’opera di perimetrazione, nell’ambito del contratto di donazione, la giurisprudenza (Cass., Sez. I, 23 febbraio 1973, n. 527) ha considerato donazione diretta il trasferimento del libretto di deposito a risparmio al portatore, effettuato dal depositante al terzo possessore al fine di compiere una liberalità; e ciò sul rilievo che, quando trasferisce detto libretto, il depositante non utilizza la causa tipica del rapporto con la banca per conseguire un diverso risultato economico, ma pone in essere con un diverso soggetto un altro negozio, quello di trasferimento, realizzabile per una delle tante cause possibili, le quali non sono conseguite come effetto indiretto della trasmissione, ma ne costituiscono direttamente lo scopo.
4.1. – Analogamente, le liberalità attuate a mezzo di titoli di credito non sono donazioni indirette, ma donazioni dirette. Il fatto che l’obbligazione del donante sia incorporata in un titolo formale e astratto non muta la natura dell’obbligazione stessa, trasformando così la donazione diretta in indiretta. L’astrattezza del titolo nei rapporti tra le parti ha, infatti, funzione processuale, non anche sostanziale, restando il titolo formale pur sempre collegato al negozio sottostante.
Si è infatti affermato (Cass., Sez. II, 30 marzo 1950, n. 870) che, poiché si rientra nell’ambito dell’art. 809 cod. civ. quando per raggiungere l’intento di liberalità le parti, anziché utilizzare lo schema negoziale, all’uopo apprestato dalla legge, ne abbiano adottato un altro, caratterizzato da causa diversa, la donazione indiretta non è configurabile allorché la donazione sia rivestita sotto la forma cambiaria: in tale ipotesi, restando, nei rapporti tra gli originari negoziatori, l’efficacia del titolo formale condizionata alla esistenza ed alla validità del rapporto sottostante, la donazione è impugnabile per la mancanza del requisito della forma dell’atto pubblico.
E più di recente (Cass., Sez. II, 30 maggio 1990, n. 7647; Cass., Sez. I, 6 marzo 1997, n. 1983) – nel ribadire che qualora un assegno bancario venga emesso a titolo di donazione, l’opponibilità, nel rapporto diretto con il prenditore, di tale contratto sottostante implica anche la possibilità di dedurre la nullità della donazione medesima, per carenza della prescritta forma – si è sottolineato che l’esclusione dell’onere di forma deve intendersi riferita alle sole fattispecie negoziali causali, tali cioè che abbiano in sé la causa giustificativa del relativo effetto, ma non anche ai negozi astratti come quelli di emissione o di girata di titoli di credito o di assegni, i quali trovano necessario fondamento in un rapporto sottostante, e quindi in un negozio del quale ricorrano i requisiti di sostanza e di forma, con conseguente opponibilità del difetto nei rapporti diretti tra emittente e prenditore e tra girante e rispettivo giratario.
4.2. – E’ stata ricondotta alla donazione diretta (da Cass., Sez. II, 6 novembre 2008, n. 26746) l’elargizione come tale di somme di danaro di importo non modico mediante assegni circolari, in fattispecie nella quale il beneficiante aveva chiesto alla banca presso la quale intratteneva un rapporto di conto corrente, su cui era autorizzata ad operare anche la beneficiata, la formazione di un certo numero di assegni circolari intestati a quest’ultima disponendo che il relativo importo fosse addebitato a quel conto (assegni poi utilizzati dalla donataria, con autonoma determinazione, per il pagamento del prezzo relativo all’acquisto di un fondo).
4.3. – La giurisprudenza (Cass., Sez. II, 30 marzo 2006, n. 7507) ha inoltre ravvisato una donazione diretta nell’accollo interno con cui l’accollante, allo scopo di arricchire un familiare con proprio impoverimento, si sia impegnato nei confronti di quest’ultimo a pagare all’istituto di credito le rate del mutuo bancario dal medesimo contratto, rilevandosi che la liberalità non è un effetto indiretto ma la causa dell’accollo.
5. – In questa sede non occorre approfondire il profilo teorico dell’inquadramento delle liberalità risultanti da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 cod. civ. E’ un aspetto, questo, sul quale, alla ricerca del dato unificante delle liberalità non donative, si è soffermata a lungo la dottrina, delineando un panorama articolato: alcuni autori costruendo gli atti di liberalità diversi dalla donazione come un negozio indiretto ed altri muovendo nella direzione di un allontanamento da questa figura; ora cogliendosi l’elemento unificatore e qualificatore nel risultato o effetto dell’atto, riconducibile all’arricchimento del beneficiario, definito nel suo aspetto giuridico o in quello economico; ora mettendosi in luce l’incidenza causale della liberalità nel senso dell’arricchimento dello schema causale minimo eventualmente predisposto dal legislatore (arricchimento inteso non come giustapposizione di un “pezzo”, ma come possibilità di emersione di un nuovo profilo di una causa comunque unitaria).
Interessa, piuttosto, considerare gli aspetti di distinzione delle liberalità non donative rispetto al contratto di donazione.
Sotto questo profilo, proprio muovendo dalla lettura dei dati offerti dall’esperienza giurisprudenziale, la dottrina ha evidenziato che la donazione indiretta non si identifica totalmente con la donazione, cioè con il contratto rivolto a realizzare la specifica funzione dell’arricchimento diretto di un soggetto a carico di un altro soggetto, il donante, che nulla ottiene in cambio, in quanto agisce per spirito di liberalità. Si tratta – è stato sottolineato – di liberalità che si realizzano:
(a) con atti diversi dal contratto (ad esempio, con negozi unilaterali come l’adempimento del terzo o le rinunce abdicative); (b) con contratti (non tra donante e donatario) rispetto ai quali il beneficiario è terzo; (c) con contratti caratterizzati dalla presenza di un nesso di corrispettività tra attribuzioni patrimoniali; (d) con la combinazione di più negozi (come nel caso dell’intestazione di beni a nome altrui).
Va inoltre tenuto conto del significato che la dottrina ha ricondotto alla tipizzazione del contratto di donazione. La configurazione della donazione come un contratto tipico a forma vincolata e sottoposto a regole inderogabili obbliga infatti a fare ricorso a questo contratto per realizzare il passaggio immediato per spirito di liberalità di ingenti valori patrimoniali da un soggetto ad un altro, non essendo ragionevolmente ipotizzabile che il legislatore consenta il compimento in forme differenti di uno stesso atto, imponendo, però, l’onere della forma solenne soltanto quando le parti abbiano optato per il contratto di donazione.
6. – L’inquadramento nella donazione indiretta del trasferimento per spirito di liberalità, a mezzo banca, di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli in amministrazione del beneficiante a quello del beneficiario, muove dalla considerazione che l’accreditamento nel conto del beneficiario si presenta come il frutto di un’operazione, sostanzialmente trilaterale, eseguita da un soggetto diverso dall’autore della liberalità sulla base di un rapporto di mandato sussistente tra beneficiante e banca, obbligata in forza di siffatto rapporto a dar corso al bancogiro e ad effettuare la prestazione in favore del beneficiario.
Non vi sarebbe nessun atto diretto di liberalità tra soggetto disponente e beneficiario, ma si sarebbe di fronte ad un’attribuzione liberale a favore del beneficiario attraverso un mezzo, il bancogiro, diverso dal contratto di donazione.
E’ una soluzione che le Sezioni Unite non condividono, perché l’operazione bancaria in adempimento dello iussum svolge in realtà una funzione esecutiva di un atto negoziale ad esso esterno, intercorrente tra il beneficiante e il beneficiario, il quale soltanto è in grado di giustificare gli effetti del trasferimento di valori da un patrimonio all’altro. Si è di fronte, cioè, non ad una donazione attuata indirettamente in ragione della realizzazione indiretta della causa donandi, ma ad una donazione tipica ad esecuzione indiretta.
Come infatti si è sottolineato in dottrina, da una parte gli strumenti finanziari che vengono trasferiti al beneficiario attraverso il virement provengono dalla sfera patrimoniale del beneficiante; dall’altra il trasferimento si realizza, non attraverso un’operazione triangolare di intermediazione giuridica, ma, più semplicemente, mediante un’attività di intermediazione gestoria dell’ente creditizio, rappresentando il bancogiro una mera modalità di trasferimento di valori del patrimonio di un soggetto in favore del patrimonio di altro soggetto
Milita in questa direzione anche l’osservazione secondo cui nel bancogiro, pur inquadrato nello schema della delegazione che si innesta nel rapporto di mandato sotteso a quello di conto corrente (Cass., Sez. I, 3 gennaio 2017, n. 25), la banca non può rifiutarsi di eseguire l’ordine impartitole, in considerazione del rapporto contrattuale che la vincola al delegante, sempre che esista la disponibilità di conto; e ciò a differenza di quanto avviene nella delegazione, dove l’art. 1269, secondo comma, cod. civ. consente al delegato, ancorché debitore del delegante, di non accettare l’incarico.
Pertanto, il trasferimento scaturente dall’operazione di bancogiro è destinato a rinvenire la propria giustificazione causale nel rapporto intercorrente tra l’ordinante-disponente e il beneficiario, dal quale dovrà desumersi se l’accreditamento (atto neutro) è sorretto da una iusta causa: di talché, ove questa si atteggi come causa donandi, occorre, ad evitare la ripetibilità dell’attribuzione patrimoniale da parte del donante, l’atto pubblico di donazione tra il beneficiante e il beneficiario, a meno che si tratti di donazione di modico valore.
6.1. – In particolare, il passaggio di valori patrimoniali a titolo di liberalità dal beneficiante al beneficiario eseguito a mezzo banca non ricade nell’ambito del contratto a favore di terzo, schema attraverso il quale – come si è visto – lo stipulante può realizzare un’attribuzione patrimoniale indiretta a favore del terzo avente i connotati della spontaneità e del disinteresse.
Nel contratto a favore di terzo, infatti, il patrimonio del promittente è direttamente coinvolto nel processo attributivo e non si configura – è stato affermato – come mera “zona di transito” tra lo stipulante e il terzo: l’oggetto dell’attribuzione donandi causa in favore del terzo si identifica con la prestazione del promittente e non con quanto prestato dallo stipulante al promittente medesimo.
A ciò deve aggiungersi che, mentre nel contratto a favore di terzo nasce immediatamente un diritto azionabile del terzo verso il promittente, il terzo beneficiario che sia destinatario di un ordine di giro non acquista alcun diritto nei confronti della banca proveniente dal contratto che intercorre tra la banca medesima e l’ordinante. Difatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. III, 1° dicembre 2004, n. 22596; Cass., Sez. I, 19 settembre 2008, n. 23864; Cass., Sez. I, 3 gennaio 2017, n. 25, cit.), l’ordine di bonifico ha natura di negozio giuridico unilaterale, la cui efficacia vincolante scaturisce da una precedente dichiarazione di volontà con la quale la banca si è obbligata ad eseguire i futuri incarichi ad essa conferiti dal cliente, ed il cui perfezionamento è circoscritto alla banca e all’ordinante, con conseguente estraneità del beneficiario, nei cui confronti, pertanto, l’incarico del correntista di effettuare il pagamento assume natura di delegazione di pagamento. Anche il delegato al pagamento può essere obbligato, ma solo se il medesimo si obbliga personalmente verso il creditore delegatario e questi accetti l’obbligazione del delegato, ai sensi dell’art. 1269, primo comma, cod. civ.
6.2. – Né la fattispecie che qui viene in considerazione è assimilabile alla cointestazione del deposito bancario, suscettibile di integrare gli estremi di una donazione indiretta in favore del cointestatario con la messa a disposizione, senza obblighi di restituzione o di rendiconto, di somme di denaro in modo non corrispondente ai versamenti effettuati. Solo nella cointestazione, infatti, si realizza una deviazione in favore del terzo degli effetti attributivi del contratto bancario; laddove nel caso che ci occupa il contratto di deposito titoli in amministrazione conserva integra la causa sua propria, senza alcuna implementazione liberale, collocandosi l’ordine di bonifico dato alla banca dal beneficiante nella fase di esecuzione del contratto bancario di riferimento.
7. – In conclusione, deve essere enunciato il seguente principio di diritto: «Il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l’esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal disponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta; ne deriva che la stabilità dell’attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell’atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiario, salvo che ricorra l’ipotesi della donazione di modico valore».
8. – I motivi in cui si compendia il ricorso – che possono essere scrutinati congiuntamente, stante la loro stretta connessione – si appalesano, a questo punto, fondati.
Ha infatti errato la Corte d’appello a considerare l’ordine di bonifico del disponente atto idoneo a veicolare lo spirito di liberalità e a qualificarlo, sulla base di una ritenuta equiparazione all’operazione di cointestazione del deposito in conto corrente, come una donazione indiretta, per la quale soltanto non si richiede la forma solenne prevista per la donazione tipica, pur quando il risultato di liberalità sia di ammontare elevato.
9. – La sentenza impugnata è cassata.
La causa deve essere rinviata ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste.
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
PER QUESTI MOTIVI
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 18 luglio 2017.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 04 gennaio 2017, n. 106, per SS.UU, 27 luglio 2017, n. 18725, in tema di donazione a mezzo banca
SS.UU, 27 luglio 2017, n. 18725, in tema di donazione a mezzo banca
In tema di successione legittima – SS.UU, 27 febbraio 2013, n. 4847
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott, ROBERTO PREDEN – Primo Pres.te f. f. –
Dott. FRANCESCO TRIFONE – Presidente Sezione –
Dott. RENATO RORDORE – Presidente Sezione –
Dott. MAURIZIO MASSERA – Consigliere –
Dott. FABRIZIO FORTE – Consigliere –
Dott. GIOVANNI AMOROSO – Consigliere –
Dott. VINCENZO MAZZACANE – Rel, Consigliere –
Dott. MARIA MARGHERITA CHIARINI – Consigliere –
Dott. VINCENZO DI CERBO – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 257/7/3-2010 proposto da:
elettivamente
domiciliate in ROMA, VIA
presso lo studio
dell’avvocato che le rappresenta e
difende unitamente all’avvocato
per delega a margine del ricorso;
– ricorrenti –
elettivamente domiciliato in ROMA,
VIALE
presso lo studio dell’avvocato
che lo rappresenta e difende, per delega a margine del controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 1646/2009 della CORTE D’APPELLO dì VENEZIA, depositata il 06/10/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/01/2013 dal Consigliere Dott. VINCENZO MAZZACANE;
udito l’Avvocato
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. RAFFAELE CENICCOLA, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 26-7-2002 e esponevano che in data 23-12-1987 era deceduto “ab intestato” lasciando quali eredi la moglie ed i figli e , che l’eredità era composta da diversi immobili per un valore complessivo di euro 608.127,99, e che a norma degli artt. 581 e 540 c.c. a ciascuno degli eredi spettava la quota indivisa di un terzo del patrimonio ereditario, fermo restando che al coniuge superstite doveva essere riconosciuto il diritto reale di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la corredavano.
Le attrici quindi convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Venezia chiedendo lo scioglimento della comunione ereditaria con assegnazione in natura della quota spettante a ciascun erede previa imputazione nella quota del convenuto dell’avvenuto prelievo dall’asse ereditario di euro 136.823,00, e previa detrazione dal valore della casa già familiare del valore attualizzato del diritto di abitazione spettante “ex lege” al coniuge superstite.
Si costituiva in giudizio il convenuto non opponendosi allo scioglimento della comunione e sostenendo che tutti i beni erano nella disponibilità esclusiva delle attrici, le quali avrebbero dovuto rendere conto degli introiti percepiti.
Il Tribunale adito con sentenza del 13-4-2005, rigettata ogni altra domanda, dichiarava lo scioglimento della comunione ereditaria limitatamente al 50% delle unità immobiliari indicate in citazione, provvedendo alla assegnazione delle porzioni ed alla determinazione dei conguagli, in particolare assegnando alla il 50% dell’immobile di viale in Mestre già costituente la residenza coniugale; il Tribunale osservava tra l’altro che, vertendosi in materia di successione legittima, alla quota spettante al coniuge ai sensi degli artt. 581 e 582 c.c. non potevano cumularsi i diritti di abitazione e di uso previsti in tema di successione necessaria dall’art. 540 secondo comma c.c.
Proposto gravame da parte di cui resistevano la 3 che proponevano appello incidentale la Corte di Appello di Venezia con sentenza del 6-10-2009, a parziale modifica della sentenza impugnata, ha assegnato alla Il suddetto immobile di viali in Mestre nella misura del 100%, ed ha confermato nel resto l’impugnata sdentenza, ribadendo che, in presenza di una successione legittima, non spettano al coniuge superstite, in aggiunta alla quota intestata prevista dagli artt. 581 e 582 c.c., i diritti di abitazione e di uso previsti dall’art. 540 secondo comma c.c.
Per la cassazione di tale sentenza la e hanno proposto un ricorso articolato in un unico motivo cui ha resistito con controricorso introducendo altresì a sua volta un ricorso incidentale affidato anch’esso ad un unico motivo e depositando successivamente una memoria.
Con ordinanza del 4-5-2012 la Seconda Sezione Civile di questa Corte, ritenuto che la decisone del ricorso principale — riguardante in tema di successione legittima il riconoscimento o meno al coniuge superstite dei diritti di abitazione ed uso previsti dall’art. 540 secondo comma c.c. nell’ambito della successione necessaria — comportava la soluzione di questioni di particolare importanza, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della trattazione
del ricorso alla Sezioni Unite.
Le ricorrenti principali hanno successivamente depositato una memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza.
Venendo quindi all’esame del ricorso principale, si rileva che con l’unico motivo formulato e censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che, vertendosi in materia di successione legittima, al coniuge superstite non spettano, in aggiunta alla quota intestata prevista dagli artt. 581 e 582 c.c., i diritti di abitazione ed uso previsti dall’art. 540 secondo comma c.c.
Le ricorrenti principali assumono che, nonostante la mancanza di un espresso richiamo normativo, la corretta interpretazione degli artt. 553 e 540 c.c. induce a ritenere che nella successione legittima la quota del coniuge superstite debba avere un valore complessivo non inferiore a quella al medesimo garantita dalle norme sulla successione necessaria, costituita dalla somma del valore della quota di riserva e dei diritti di uso e di abitazione.
La censura è fondata.
La Corte territoriale, menzionando a sostegno del proprio assunto la pronuncia di questa stessa Corte 6-4-2000 n. 4329, ha rilevato anzitutto che in tema di successione legittima non trovano applicazione gli istituti della disponibile e della riserva, ha poi aggiunto che la riserva, di cui fanno parte i diritti di abitazione e di uso, rappresenta il minimo che il legislatore vuole assicurare ai più stretti congiunti del “de cuius”, anche contro la volontà di quest’ultimo, sottolineando che l’art. 553 c.c., al fine di evitare che attraverso la disciplina della successione legittima vengano pregiudicati i diritti dei legittimari, stabilisce che le porzioni fissate nelle successioni legittime, ove risultino lesive dei diritti dei legittimari, si riducono proporzionalmente per integrare tali diritti; è vero poi che dal sistema della successione necessaria emerge che il legislatore interviene quando la quota spettante nella successione intestata andrebbe al di sotto della quota di riserva; peraltro non sussiste nessuna norma che modifichi il regime della successione intestata per attribuire agli eredi legittimi, che siano anche legittimari, più di quanto viene loro riservato con la successione necessaria; quindi deve escludersi che alla quota intestata prevista dagli artt. 581 e 582 c.c. si aggiungano i diritti di abitazione ed uso; pertanto nella fattispecie il diritto di abitazione della , valutato in euro 85.960,00 con riferimento alla sola casa coniugale, era compreso nella quota di 1/3 della massa ereditaria ad essa spettante ed ammontante ad euro 164.333,00.
La decisione relativa all’enunciato motivo comporta l’esame anzitutto della questione — evidenziata nella menzionata ordinanza di rimessione — riguardante la spettanza o meno in favore del coniuge superstite, nella successione legittima, dei diritti di abitazione e di uso previsti dall’art. 540 secondo comma c.c. (comunemente qualificati dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza come legati “ex /ege”, vedi al riguardo Cass. 10-3-1987 n. 2474; Cass. 6-4-2000 n. 4329; Cass. 15-5- 2000 n. 6231), e, nell’ipotesi di risposta affermativa in proposito, dell’ulteriore questione se tali diritti debbano o meno aggiungersi alla quota intestata prevista dagli artt. 581 e 582 c.c.
La prima questione nasce dal rilievo che, mentre l’art. 540 secondo comma c.c., che disciplina la riserva a favore del coniuge superstite, prevede che a quest’ultimo “anche quando concorra con altri chiamati, sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni”, gli artt. 581 e 582 c.c., i quali disciplinano nell’ambito della successione legittima rispettivamente il concorso del coniuge con i figli ovvero con ascendenti legittimi, fratelli e sorelle del “de cuius”, non fanno riferimento a tali diritti; peraltro l’art. 584 c.c., che regola la successione del coniuge putativo, prevede espressamente l’applicabilità in favore di quest’ultimo della disposizione dell’art. 540 secondo comma c.c.
La Corte Costituzionale, affrontando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 581 c.c. in relazione agli artt. 3 e 29 della Costituzione nella parte in cui non attribuisce al coniuge, chiamato all’eredità con altri eredi, i diritti previsti dall’art. 540 secondo comma c.c. viceversa riconosciuti al coniuge putativo, con ordinanza del 5-5-1988 n. 527 l’ha ritenuta manifestamente infondata, rilevando che detti diritti nella successione “ob intestato” sono attribuiti al coniuge nella sua qualità di legittimario, che l’omesso richiamo dell’art. 540 secondo comma c.c. da parte degli artt. 581 e 582 c.c. vale unicamente ad escludere che i diritti in oggetto competano al coniuge autonomamente, ovvero che si cumulino con la quota riconosciutagli dagli articoli medesimi, che per converso il rinvio contenuto nell’art. 584 c.c. significa soltanto che la legittima aggiuntiva costituita dai due diritti di godimento spetta anche al coniuge putativo, ed ha quindi concluso “che, pertanto, le suddette disposizioni già vivono nell’ordinamento con l’identico contenuto e portata che si vorrebbe raggiungere per via di reductio ad legitimitatem…”.
Rilevato che comunque tale decisione non ha superato i dubbi interpretativi suscitati dal sopra richiamato quadro normativo di riferimento, si segnala che questa Corte con sentenza del 13-3- 1999 n. 22639, dopo aver premesso come indubitabile l’estensione dei diritti di abitazione ed uso previsti dall’art. 540 secondo comma c.c. al coniuge nella successione legittima in quanto l’eventualità che il coniuge putativo potesse godere di un trattamento diverso e più favorevole rispetto al coniuge legittimo sarebbe contraria al principio di eguaglianza, ha prospettato due diverse soluzioni delle modalità attraverso le quali tali diritti vengono riconosciuti al coniuge nella successione legittima; secondo un primo indirizzo essi sono riservati al coniuge come prelegati oltre la quota di riserva, mentre un’altra ricostruzione, partendo dal presupposto che nella successione legittima non trovano applicazione gli istituti della disponibile e della quota di riserva, afferma che i diritti in questione non si aggiungono, ma vengono a comprendersi nella quota spettante a titolo di successione legittima; tuttavia la Corte non ha risolto tale questione, ritenendola irrilevante nella fattispecie sottoposta al suo esame.
La successiva pronuncia di questa Corte del 6-4-2000 n. 4329 (cui, come esposto in precedenza, ha aderito la sentenza impugnata), l’unica che ha affrontato più approfonditamente e risolto la questione in ordine al riconoscimento al coniuge superstite dei diritti di abitazione ed uso nella successione legittima, ha ritenuto che in tema di successione necessaria l’art. 540 secondo comma c.c. determina un incremento quantitativo della quota contemplata in favore del coniuge in quanto i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la corredano (quindi il loro valore capitale) si sommano alla quota riservata al coniuge in proprietà; posto che la norma stabilisce che tali diritti gravano, in primo luogo, sulla disponibile, si deve anzitutto calcolare la disponibile sul patrimonio relitto ai sensi dell’art. 556 c.c. e, per conseguenza, determinare la quota di riserva; calcolata poi la quota del coniuge nella successione necessaria in base agli artt. 540 primo comma-542 e 543 c.c., alla quota di riserva così ricavata si aggiungono i diritti di abitazione ed uso, il cui valore viene a gravare sulla disponibile, sempre che questa sia capiente; se la disponibile non è sufficiente, i diritti di abitazione ed uso gravano anzitutto sulla quota di riserva del coniuge, che viene così ad essere diminuita della misura proporzionale a colmare l’incapienza della disponibile; se neppure la quota di riserva del coniuge risulta sufficiente, i diritti di abitazione e di uso gravano sulla riserva dei figli o degli altri legittimari.
La sentenza in esame ha quindi evidenziato che il primo ostacolo che si oppone all’accoglimento della tesi favorevole all’applicabilità del meccanismo di calcolo previsto dall’art. 540 secondo comma c.c. al coniuge nella successione legittima è data dal rilievo che in tema di successione legittima non trovano applicazione gli istituti della disponibile e della riserva; ma sussisterebbe un’altra ragione più persuasiva per disattendere tale applicabilità, considerato che la riserva rappresenta il minimo che il legislatore vuole assicurare ai prossimi congiunti anche contro la volontà del defunto, e che i diritti di abitazione ed uso fanno parte della riserva e dunque sono compresi nel minimo; orbene, per evitare che attraverso la disciplina delle successioni legittime vengano pregiudicati i diritti dei legittimari, l’art. 553 c.c., che serve di raccordo tra la successione legittima e quella necessaria, stabilisce che le porzioni fissate nelle successioni legittime, ove risultino lesive dei diritti dei legittimari, si riducono proporzionalmente per integrare tali diritti; peraltro dal sistema della successione necessaria emerge che il legislatore interviene nel meccanismo delle successioni legittime quando la quota spettante nella successione necessaria andrebbe al di sotto della quota di riserva, mentre da nessuna norma risulta che il legislatore abbia modificato il regime della successione legittima per attribuire agli eredi legittimi (che siano anche legittimari) più di quanto viene loro riservato con la successione necessaria; poiché l’art. 553 c.c. vuole fare salva l’intera riserva del coniuge (secondo il sistema della successione necessaria), i diritti di abitazione e di uso si aggiungono alla quota di riserva regolata dagli artt. 540 primo comma e 542 c.c.; per contro, non essendo ciò previsto da nessuna norma in tema di successione legittima, non vi è ragione per ritenere che alla quota intestata contemplata dagli artt. 581 e 582 c.c. si aggiungano i diritti di abitazione e di uso.
Tanto premesso, si ritiene di dover dare risposta affermativa relativamente alla prima questione sottoposta all’esame di questo Collegio, avente ad oggetto il riconoscimento o meno in favore del coniuge anche nella successione legittima dei diritti di abitazione ed uso riservati espressamente dall’art. 540 secondo comma c.c. al coniuge stesso, conformemente all’opinione espressa ormai unanimemente dalla dottrina.
In tal senso milita anzitutto la “ratio” di tali diritti, riconducibile alla volontà del legislatore di cui alla L. 19-5-1975 n. 151 di realizzare anche nella materia successoria una nuova concezione della famiglia tendente ad una completa parificazione dei coniugi non solo sul piano patrimoniale (mediante l’introduzione del regime imperniato sulla comunione legale), ma anche sotto quello etico e sentimentale, sul presupposto che la ricerca di un nuovo alloggio per il coniuge superstite potrebbe essere fonte di un grave danno psicologico e morale per la stabilità delle abitudini di vita della persona; ebbene è evidente che tale finalità dell’istituto è valida per il coniuge supersite sia nella successione necessaria che in quella legittima, cosicché i diritti in questione trovano necessariamente applicazione anche in quest’ultima.
D’altra parte tale convincimento riceve conferma anche sul piano del diritto positivo, posto che l’art. 540 secondo comma c.c. prevede la riserva dei diritti di abitazione ed uso al coniuge “anche quando concorra con altri chiamati”, e che un concorso con “altri chiamati” ricorre, oltre che nella successione testamentaria, anche in quella legittima; da tale disposizione pertanto si evince che il legislatore ha voluto attribuire al coniuge superstite, in conformità della sopra enunciata ‘ratio legis”, i suddetti diritti sulla casa adibita a residenza familiare sia nella successione testamentaria che in quella legittima, disciplinandone poi l’effettiva realizzazione onde incidere soltanto entro ristretti limiti sulle quote di riserva di altri legittimari (invero tali diritti debbono essere soddisfatti nell’ambito della porzione disponibile ed eventualmente per il rimanente sulla quota di riserva del coniuge, mentre le quote dei figli vengono sacrificate soltanto se l’eccedenza del valore di essi superi anche la riserva del coniuge); ciò comporta che l’attribuzione di tali diritti previsti dall’art. 540 secondo comma c.c. ha una valenza anche al di fuori dell’ambito nel quale sono stati disciplinati, relativo alla tutela dei legittimari, e spiega il mancato richiamo ad essi da parte degli artt. 581 e 582 c.c.
Una volta ritenuto che i diritti in oggetto spettano al coniuge anche nella successione “ab intestato”, occorre esaminare la conseguente questione relativa ai criteri di calcolo del valore della quota di detto coniuge, osservando che al riguardo sono state prospettate sostanzialmente due diverse soluzioni.
Un primo indirizzo sostiene l’applicazione dell’art. 553 c.c., norma di collegamento tra la successione legittima e successione necessaria, che dispone, in caso di concorso di legittimari con altri successibili, la riduzione proporzionale delle porzioni di questi ultimi nei limiti in cui è necessario per integrare la quota riservata ai legittimari; in altri termini, se l’operatività delle norme sulla successione legittima comporti in concreto una lesione delle quote dei legittimari, tale articolo sancisce che la successione legittima si realizzi con il rispetto della quote destinate a questi ultimi, con la conseguenza che, poiché i diritti di abitazione ed uso fanno parte della legittima, si deve ritenere che essi trovino piena attuazione nell’ambito della successione legittima secondo il disposto dell’art. 553 c.c.; pertanto tali diritti devono essere attribuiti in aggiunta alla quota di riserva prevista dal primo comma dell’art. 540 c.c. o alla quota di riserva risultante dal concorso con altri legittimari ai sensi degli artt. 542 e 544 c.c., con la conseguenza che essi in base all’art. 540 secondo comma c.c. non sono imputati per il loro valore alla quota astratta di legittima spettante al coniuge, ma gravano sulla disponibile; tuttavia la dispensa dall’imputazione per tali attribuzioni opera solo nei limiti della disponibile, cosicché, qualora tali diritti oltrepassino la disponibile, essi potranno incidere sulla legittima dei figli solo dopo che la legittima del coniuge si sia rivelata insufficiente a soddisfarli; nell’ipotesi invece che il valore della quota “ab intestato” risulti superiore rispetto alla quota di riserva maggiorata del valore dei diritti di abitazione ed uso, i diritti del coniuge troveranno realizzazione automaticamente nella porzione a lui spettante in base – alla successione legittima, e si configureranno, secondo una autorevole dottrina, come legati in conto alla quota intestata.
Secondo un altro orientamento i diritti di abitazione e di uso del coniuge si configurerebbero nella successione legittima come prelegati “ex /ege”, cumulandosi alla sua quota come prevista dagli artt. 581 e 582 c.c.; pertanto il valore capitale di tali diritti attribuiti al coniuge viene detratto dalla massa ereditaria, che poi viene divisa tra tutti i coeredi secondo le norme sulla successione legittima non tenendo conto, quindi, di tale attribuzione.
Il Collegio ritiene che il primo indirizzo sopra enunciato non possa essere condiviso per le seguenti considerazioni.
A prescindere dalle perplessità sul piano sistematico di interpretare l’effettivo ambito di operatività dell’art. 540 c.c., introdotto dal legislatore con la L. 19-5-1975 n. 151, alla luce di un coordinamento con una norma come l’art. 553 c.c., risalente all’impianto originario del codice civile del 1942, il richiamo a quest’ultima norma non appare persuasivo per almeno due diverse ragioni.
Sotto un primo profilo, infatti, si osserva che l’art. 553 c.c. disciplina il concorso tra legittimari ed eredi legittimi e prevede la riduzione proporzionale delle porzioni spettanti a questi ultimi sull’asse ereditario nei limiti in cui è necessario per integrare le quote riservate ai primi, mentre i diritti di abitazione ed uso vengono comunemente assimilati a legati o prelegati “ex lege”, e dunque non si configurano quali quote; la suddetta riduzione delle porzioni degli eredi legittimi ex art. 553 c.c. opera poi sul piano quantitativo, mentre il riconoscimento al coniuge dei suddetti diritti si realizza in senso qualitativo con l’attribuzione ad esso del godimento di un bene determinato, e quindi con la correlativa preclusione per gli altri eredi del godimento della casa già adibita a residenza familiare dei coniugi e dei mobili che la arredano; sotto tale aspetto pertanto l’art. 553 c.c. non appare idoneo a dare fondamento a questa modalità di realizzazione di tali diritti, che in effetti resta estranea al suo ambito di operatività.
Inoltre occorre rilevare che il prospettato coordinamento tra l’art. 553 c.c. e l’art. 540 secondo comma c.c. trova un impedimento nella parziale incompatibilità del disposto delle due norme; infatti la prima di tali disposizioni prevede che, nel determinare la quota riservata ai legittimari al fine della eventuale riduzione proporzionale delle porzioni spettanti agli eredi legittimi, iM legittimari devono imputare alla quota riservata, ai sensi dell’art. 564 c.c., il valore delle donazioni o dei legati ricevuti dal defunto; orbene, rilevato che, come, già esposto in precedenza, i diritti di abitazione ed uso vengono comunemente qualificati come dei legati “ex lege”, si osserva che l’art. 540 secondo comma c.c., nel disporre che tali diritti gravano anzitutto sulla disponibile, ha previsto in tal modo una dispensa da tale imputazione, sia pure nei limiti della sola disponibile; pertanto l’orientamento che prospetta l’attribuzione dei diritti in questione al coniuge nella successione legittima ai sensi dell’art. 540 secondo comma c.c. legittimando tale assunto sulla base della norma di raccordo di cui all’art. 553 c.c. tra successione legittima e successione necessaria non sembra farsi carico di tale difficoltà di coordinamento.
Il Collegio ritiene di poter invece aderire al secondo indirizzo sopra richiamato, che afferma che i diritti in oggetto vengono attribuiti al coniuge nella successione legittima in aggiunta alla quota a lui spettante ai sensi degli artt. 581 e 582 c.c.
In proposito occorre evidenziare come dato significativo che una autorevole dottrina è giunta a tale conclusione proprio argomentando “a contrario” dalla previsione della riserva di tali diritti al coniuge ai sensi dell’art. 540 secondo comma c.c.; infatti è rilevante osservare che nella successione legittima non si pone in radice un problema di incidenza dei diritti degli altri legittimari per effetto dell’attribuzione dei diritti di abitazione e di uso al coniuge, cosicché le disposizioni previste dalla norma ora richiamata, finalizzate, come si è già esposto, a contenere in limiti ristretti la compressione delle quote di riserva dei figli del “de cuius” in conseguenza dell’attribuzione al coniuge dei diritti suddetti, non possono evidentemente trovare applicazione in tema di successione intestata; in proposito non sembra superfluo aggiungere che la soluzione della questione in esame deve essere svincolata dal riferimento all’art. 540 secondo comma c.c., e quindi dalla comparazione con il parametro normativo relativo alla riserva al coniuge dei diritti di abitazione ed uso nel concorso con altri legittimari, anche perché, secondo un orientamento ormai consolidato in dottrina cui si aderisce pienamente, il nostro ordinamento prevede due sole forme di successione, la legittima e la testamentaria (art. 457 c.c.), mentre le norme sulla successione necessaria non costituiscono un “tertium genus”, ma sono finalizzate soltanto a tutelare i diritti di determinate categorie di persone {i legittimari) ponendo dei limiti sia alle disposizioni testamentarie lesive di tali diritti sia alle norme disciplinanti la successione legittima, riconoscendo in particolare ai legittimari l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive delle proprie quote di riserva.
Pertanto le modalità di attribuzione dei diritti di abitazione ed uso nella successione legittima devono prescindere dal procedimento di imputazione previsto dalla norma sopra menzionata – procedimento invero strettamente inerente alla tutela delle quote di riserva dei figli del “ de cuius”, nel cui solo ambito ha rilievo il riferimento alla disponibile di cui all’art. 540 secondo comma c.c. — e quindi i diritti in questione, non trovando tali limitazioni nella loro concreta realizzazione, devono essere riconosciuti pienamente, avuto riguardo alla già evidenziata volontà del legislatore che ha introdotto la L. 19-5-1975 n. 151 di attribuire al coniuge superstite una specifica tutela del suo interesse alla continuazione della sua permanenza nella casa adibita a residenza familiare durante il matrimonio anche dopo la morte dell’altro coniuge, con i conseguenti riflessi di carattere successorio in ordine alla effettiva consistenza patrimoniale dell’asse ereditario; conseguentemente ai fini del calcolo di tali diritti occorrerà stralciare il valore capitale di essi secondo modalità assimilabili al prelegato, e poi dare luogo alla divisione tra tutti gli eredi, secondo le norme della successione legittima, della massa ereditaria dalla quale viene detratto il suddetto valore, rimanendo invece compreso nell’asse il valore della nuda proprietà della casa familiare e dei mobili.
Venendo quindi all’esame del ricorso incidentale si osserva che con l’unico motivo articolato deducendo insufficiente e contraddittoria motivazione, sostiene che erroneamente la Corte territoriale ha confermato il rigetto della domanda proposta dall’esponente avente ad oggetto la condanna delle controparti al pagamento della somma di euro 52.366,79 per canoni percepiti dall’affitto dei beni ereditari e non corrisposti “pro guota”all’esponente; al riguardo richiama le risposte rese da all’interrogatorio formale deferitole, la mancata presentazione della a rendere l’interrogatorio formale deferitole e la deposizione della teste , dottoressa commercialista che fino al 2001 aveva tenuto la contabilità di tutte le parti in causa, e che aveva dichiarato che i canoni di locazione relative alle diverse unità immobiliari al netto delle spese venivano introitate dalle controparti.
La censura è infondata.
La Corte territoriale ha ritenuto al riguardo che non solo non era stata raggiunta la prova che e avessero ricavato dalla locazione degli immobili oggetto dell’asse ereditario, al netto delle spese, la somma richiesta dall’appellante, ma che addirittura non sussistevano elementi certi di prova in ordine all’effettiva misura dei canoni percepiti relativamente a quegli immobili che, non essendo nella disponibilità dei singoli eredi, erano locati; in particolare il giudice di appello ha richiamato le dichiarazioni rese da in sede di risposta all’interrogatorio formale deferitole secondo cui gli eredi avevano l’uso personale di quattro immobili ereditari, due dei quali in uso al fratell e che i canoni percepiti dagli unici due immobili dati in locazione erano impiegati per le spese di manutenzione dei beni ereditari, evidenziando che l’appellante non aveva contestato specificatamente tali circostanze con i conseguenti effetti sul piano probatorio ex art. 2734 c.C.; ha poi aggiunto che le dichiarazioni della teste erano piuttosto generiche e comunque tali da non consentire l’esatta determinazione dei canoni di locazione percepiti, e che infine la mancata comparizione della a rendere l’interrogatorio formale deferitole non poteva giovare a , in quanto la formulazione del capitolato di prova non conteneva alcuna indicazione dell’importo dei canoni che sarebbe stato incamerato dalla stessa e da cosicché non avrebbe potuto ritenersi ammessa ai sensi dell’art. 232 c.p.c. la circostanza relativa all’entità delle somme introitate ed oggetto della domanda.
Orbene, avendo il giudice di appello puntualmente indicato le fonti del proprio convincimento, si è in presenza di un accertamento di fatto sorretto da congrua e logica motivazione, come tale incensurabile in questa sede laddove il ricorrente incidentale, prospettando inammissibilmente una diversa ricostruzione della vicenda che ha dato luogo a tale aspetto della controversia, senza peraltro censurare specificatamente la evidenziata mancata contestazione delle dichiarazioni rese da in sede di risposta all’interrogatorio formale deferitole con gli effetti sul piano probatorio previsti dall’art. 2734 c.c. in materia di confessione cosiddetta complessa, trascura di considerare i poteri al riguardo devoluti dall’ordinamento al giudice di merito nella valutazione delle risultanze probatorie, purché accompagnati da un corretto ed adeguato “iter“”argomentativo, come nella fattispecie.
Il ricorso incidentale deve quindi essere rigettato.
In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al ricorso principale accolto, e la causa deve essere rinviata anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia che si uniformerà ai seguenti principi di diritto: “Nella successione legittima spettano al coniuge del de cuius i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano previsti dall’art. 540 secondo comma c.c.; il valore capitale tali diritti deve essere stralciato dall’asse ereditario per poi procedere alla divisione di quest’ultimo tra tutti i coeredi secondo le norme della successione legittima, non tenendo conto dell’attribuzione dei suddetti diritti secondo un meccanismo assimilabile al prelegato”.
P.Q.M.
La Corte
Riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia la causa anche per la pronuncia sulle spese del predente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia.
Così deciso in Roma il 29-1-2013
Il Presidente
Il Consigliere estensore
Allegati:
SS.UU, 27 febbraio 2013, n. 4847, in tema di successione legittima
In tema di donazione di cosa altrui – SS.UU, 15 marzo 2016, n. 5068
Civile Sent. Sez. U Num. 5068 Anno 2016
Presidente: CICALA MARIO
Relatore: PETITTI STEFANO
Data pubblicazione: 15/03/2016
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COMI Nicola, COMI Emilia e COMI Cesare, in proprio e quali eredi di Cama Luisa ved. Corni, rappresentati e difesi, per procura speciale a margine del ricorso, dall’Avvocato Antonino Pellicanò, presso lo studio del quale in Roma, piazzale delle Belle Arti n. 8, sono elettivamente domiciliati;
– ricorrenti –
contro
MONTESANO Emilia in Panuccio, rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del controricorso, dagli Avvocati Alberto Panuccio e Giuseppe Panuccio, presso lo studio dei quali in Roma, via Sistina n. 121, è elettivamente domiciliata;
– controricorrente –
e contro
SCAPPATURA Angelina, SCAPPATURA Emilia e SCAPPATURA Vincenza, rappresentate e difese, per procura speciale in calce al controricorso, dall’Avvocato Filippo Zuccarello, elettivamente domiciliate presso Io studio dell’Avvocato Elisa Neri in Roma, via dei Gracchi n. 130;
– controricorrente –
contro
MONTESANO Paolo Francesco Maria, MONTESANO Alessandro Salvatore Maria e MONTESANO Giovanna Rosa Maria, SCAPPATURA Vincenzo, Curatela dei Fallimenti di Montesano Nicola e di Zaccaria Maria Rosaria, ZACCARIA Maria Rosaria, MONTESANO Chiara e MONTESANO Luca, gli ultimi tre in qualità di eredi di Montesano Nicola;
– intimati –
nonché nei confronti di
BRANCA Gaia Cosima Fortunata, quale erede di Emilia Scappatura, rappresentata e difesa, per procura a margine della memoria di costituzione, dall’Avvocato Giuseppe Morabito, elettivamente domiciliata in Roma, via G. Donati n. 32, presso lo studio dell’Avvocato Roberto Marino;
– resistente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria n. 232 depositata il 23 novembre 2006;
udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 10 marzo 2015 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;
sentiti gli Avvocati Antonino Pellicanò, per parte ricorrente, e Giuseppe Panuccio, anche per delega, per parte resistente;
sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Umberto APICE, che ha concluso per li rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Emilia Montesano adiva il Tribunale di Reggio Calabria con citazione del gennaio 1989 chiedendo che venisse: a) dichiarata aperta la successione di Corni Pietro, da devolversi secondo le norme della successione legittima per 1/4 in favore del fratello Carni Francesco, per 1/4 in favore di Corni Nicola, Comi Emilia e Corni Cesare (in rappresentazione di Comi Giuseppe, fratello di Corni Pietro), per 1/4 in favore della sorella Corni Vincenza e per 1/4 in favore dei figli e dei discendenti dell’altra sorella Corni Giovanna; b) dichiarata aperta, altresì, la successione di Carni Francesco, da devolversi secondo le norme della successione legittima per 1/3 in favore dei figli del fratello Corni Giuseppe, per 1/3 in favore dei figli della sorella premorta Corni Vincenza (a lei subentrati per rappresentazione) e per 1/3 in favore dei figli e dei discendenti della sorella premorta Corni Giovanna (a lei subentrati per rappresentazione); 3) disposta la formazione delle masse ereditarie comprendendo in esse tutti i beni relitti risultanti dalle dichiarazioni di successione; 4) disposta la divisione dei beni relitti e lo scioglimento della comunione; 5) disposta la divisione per stirpi, attribuendo a ciascuna stirpe beni corrispondenti alle quote di diritto di ciascuna; 6) ordinata la formazione del progetto divisionale e gli adempimenti consequenziali.
Instauratosi il contraddittorio, si costituivano le germane Scappatura Angelina, Scappatura Emilia e Scappatura Vincenza (aventi causa di Corni Vincenza), le quali aderivano alla domanda di divisione e chiedevano che tra i beni da dividere fossero inclusi anche quelli oggetto della donazione fatta da Corni Francesco al nipote Comi Nicola con atto pubblico del 1987, deducendone la nullità per inesistenza dei beni donati nella sfera giuridica del donante, nonché che venisse ordinato a Corni Nicola di rendere il conto della gestione degli immobili facenti parte dell’eredità di Pietro e di Corni Francesco.
Si costituiva anche Scappatura Vincenzo, che aderiva alla domanda di divisione, nonché i germani Comi Nicola, Corni Emilia e Comi Cesare, i quali pur non opponendosi alla divisione, chiedevano che dalla eredità venissero detratti i beni oggetto della donazione per atto notaio Miritello del 1987.
Nel giudizio si costituivano anche i germani Montesano Paolo Francesco Maria, Montesano Alessandro Salvatore Maria e Montesano Giovanna Rosa Maria, figli di Montesano Pasquale, avente causa di Corni Giovanna, aderendo alla domanda principale, nonché Montesano Luca e Zaccaria Maria Rosaria, in qualità di eredi di Montesano Nicola, quest’ultima in proprio e quale esercente la potestà sulla figlia minore Montesano Chiara, che ugualmente facevano proprie le domande dell’attrice.
Nei processo interveniva la curatela del fallimenti di Montesano Nicola e Zaccaria Maria Rosaria che, oltre a costituirsi in qualità di eredi di Cama Luisa, Corni Nicola, Corni Emilia e Carni Cesare, ribadiva le richieste già formulate.
Con sentenza non definitiva del 30 aprile 2004, il Tribunale adito dichiarava aperta la successione di Corni Pietro e devoluta secondo le norme della successione legittima la sua eredità, nonché quella di Comi Francesco, parimenti devoluta secondo le norme della successione legittima.
Il Tribunale dichiarava, altresì, la nullità dell’atto di donazione per atto notaio Miritello del 1° ottobre1987 e rimetteva la causa sul ruolo con separata ordinanza per il prosieguo.
Avverso la sentenza non definitiva i germani Corni Nicola, Comi Emilia e Comi Cesare, in proprio e nella qualità di eredi di Cama Luisa, censurando II capo della sentenza con cui era stata dichiarata la nullità dell’atto di donazione del 1987.
Nella resistenza di Scappatura Emllia, Scappatura Angelina, Scappatura Emilia e Scappatura Vincenza, nonché di Montesano Paolo Francesco Maria, Montesano Alessandro Salvatore Maria e Montesano Giovanna Rosa Maria, contumaci le restanti parti, la Corte di appello di Reggio Calabria rigettava il gravame e per l’effetto confermava integralmente la sentenza impugnata.
A sostegno della decisione adottata la Corte distrettuale evidenziava che avendo il defunto Corni Francesco donato al nipote Comi Nicola la nuda proprietà della sua quota (corrispondente ai 5/12 indivisi dell’intero) dei due appartamenti costituenti l’intero secondo piano del fabbricato di vecchia costruzione a sei piani sito in via Pietro Foti, dalla lettura sistematica degli artt. 769 e 771 cod. civ., doveva ritenersi la nullità dell’atto di donazione, potendo costituire oggetto di donazione solo ed esclusivamente i beni facenti parte del patrimonio del donante al momento in cui veniva compiuto l’atto di liberalità, tali non potendosi ritenere quelli di cui il donante era comproprietario pro indiviso di una quota ideale.
Avverso tale sentenza i Corni hanno proposto ricorso per cassazione, articolato su quattro motivi, al quale hanno resistito gli Scappatura e l’originaria attrice con separati controricorsi.
Con ordinanza interlocutoria n. 11545 del 2011, emessa all’esito dell’udienza del 13 febbraio 2013, la Seconda Sezione di questa Corte, disattese le eccezioni di inammissibilità formulate dai controricorrenti e ritenuto non fondato il primo motivo di ricorso, ha, in relazione al secondo, al terzo e al quarto motivo di ricorso, rimesso gli atti al Primo Presidente della Corte per la eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, ravvisando nella questione oggetto del ricorso una questione di massima di particolare importanza.
Disposta la trattazione del ricorso presso queste Sezioni Unte, in vista dell’udienza del 10 marzo 2015 i ricorrenti e la controricorrente Emilia Montesano hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Deve preliminarmente essere dichiarata la inammissibilità della costituzione di Branca Gaia Cosirna Fortunata, per difetto di procura speciale, essendo la stesa intervenuta in un giudizio iniziato prima del 4 luglio 2009 (Cass. n. 7241 del 2010; Cass. n. 18323 del 2014),
2. – Come già rilevato, il primo motivo di impugnazione è stato già disatteso dalla Seconda Sezione.
2.1. – Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti deducono vizio di motivazione sul rilievo che, non essendo stato acquisito il fascicolo di primo grado ed avendo la Corte d’appello esaminato l’atto di donazione solo per la parte riportata nell’atto di appello, il convincimento del giudice di appello sarebbe il frutto di una presunzione non vera, essendo il tenore della donazione molto più esteso rispetto ai brani esaminati in sede di gravame.
Prosegue parte ricorrente che la lettura integrale dell’atto di liberalità avrebbe consentito di rilevare che l’oggetto della donazione era costituito, in parte, da un diritto proprio di Francesco Corni, e cioè della quota di comproprietà degli immobili di cui Comi Francesco era titolare in modo esclusivo, per avere ciascuno dei fratelli Corni Francesco, Corni Pietro e Corni Giuseppe la piena disponibilità di una quota pari ad 1/3 degli immobili di cui al rogito; per altra parte, dalla quota di 1/3 a lui pervenuta dalla eredità del fratello Corni Pietro: circostanza, questa, di cui non vi era alcun cenno nella sentenza impugnata. La Corte d’appello avrebbe quindi errato nell’accomunare i due cespiti in una indistinta “quota ereditaria”.
2.2. – Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 769 e 771 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 1103 cod. civ., oltre alla illegittimità della sentenza impugnata per difetto di motivazione ed errata valutazione dei presupposti di fatto, per non avere i giudici di merito riconosciuto che Corni Francesco poteva validamente donare al nipote la quota di proprietà di cui era esclusivo titolare con riferimento all’immobile di via Foti n. 16, essendo tale bene nella sua piena disponibilità, potendo essere le argomentazioni del Tribunale riferite semmai alla residua quota di 1/12 pervenuta al donante per successione ereditaria dal fratello Corni Pietro. A conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se il divieto di cui all’art. 771 c.c. può essere legittimamente esteso anche ai beni di cui il donante è titolare in comunione ordinaria con i propri fratelli”.
2.3. – Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la violazione ed erronea applicazione degli artt. 771_ e 769 cod. civ., in combinato disposto con gli artt. 1103 e 757 cod. civ., nonché carenza assoluta di motivazione, per avere ritenuto i giudici di merito “beni altrui”, fino al momento della divisione, anche i beni in comproprietà ordinaria, in aperto contrasto con i principi che regolano l’istituto della comproprietà e dell’art. 1103 cod. civ., che sancisce il principio della piena disponibilità dei beni in comproprietà nei limiti della quota di titolarità del disponente. Ad avviso dei ricorrenti eguali considerazioni varrebbero anche per la c.d. quota ereditaria. Quanto alla conclusione del giudice di appello circa l’irrilevanza della qualificazione della fattispecie quale condizione sospensiva, i ricorrenti rilevano che la divisione dei beni ereditari, seppure avvenga dopo Il decesso di uno dei coeredi, non cancella i diritti nascenti sui beni ereditari.
A conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte di Cassazione se l’art. 771 c.c. può essere legittimamente interpretato equiparando a tutti gli effetti la categoria dei “beni futuri” con quella dei “beni altrui”.
3. – La Seconda Sezione, con l’ordinanza interlocutoria n. 11545 del 2014 ha innanzi tutto ricordato come, nonostante l’art. 769 cod. civ. abbia assoggettato la donazione al principio consensualistico, sia risultato prevalente in giurisprudenza, in via di interpretazione analogica dell’art. 771 cod. civ., la tesi della nullità della donazione di bene altrui, assumendosi il carattere della necessaria immediatezza dell’arricchimento altrui e, dunque, dell’altrettanto necessaria appartenenza del diritto al patrimonio del donante al momento del contratto (sono in proposito richiamate Cass. 23 maggio 2013, n. 12782; Cass. 5 maggio 2009, n. 10356; Cass. 18 dicembre 1996, n. 1131; Cass. 20 dicembre 1985, n. 6544). La Seconda Sezione ha, per contro, ricordato, da un lato, le critiche di parte della dottrina, fondate sullo stesso testo dell’art. 769 cod. civ., il quale contempla l’arricchimento della parte donataria operato “assumendo verso la stessa un’obbligazione”; e, dall’altro, Cass. 5 febbraio 2001, n. 1596, che ha considerato la donazione di cosa altrui non nulla, ma semplicemente inefficace, con conseguente sua idoneità a valere quale titolo per l’usucapione immobiliare abbreviata. La Seconda Sezione ha quindi aggiunto che la soluzione della questione posta è evidentemente correlata alla ratio dell’ad. 771 cod. civ.
Nella specie, la questione non riguarderebbe la donazione dei quattro dodicesimi di cui il donante era titolare inter vivos, dovendosi M parte qua la liberalità intendere come di cosa propria, in quanto relativa alla quota del partecipante in comunione ordinaria, alienata ai sensi e nei limiti dell’ad, 1103 cod. civ.. La questione si porrebbe, piuttosto, quanto all’ulteriore dodicesimo del bene di provenienza ereditaria, e per il quale il donante intendeva trasferire il proprio diritto di coerede, ricadente, tuttavia, sulla quota ex art. 727 cod. civ. e non (ancora) su quel determinato immobile compreso nell’asse.
3.1. – In conclusione, la Seconda Sezione ha rimesso all’esame di queste Sezioni Unite la seguente questione: “Se la donazione dispositiva di un bene altrui debba ritenersi nulla alla luce della disciplina complessiva della donazione e, in particolare, dell’art. 771 cod civ., poiché il divieto di donazione dei beni futuri ricomprende tutti gli atti perfezionati prima che il loro oggetto entri a comporre Il patrimonio del donante e quindi anche quelli aventi ad oggetto i beni altrui, oppure sia valida ancorché inefficace, e se tale disciplina trovi applicazione, o no, nel caso di donazione di quota di proprietà pro indiviso”.
4. – Come riferito, sulla questione se la donazione di cosa altrui sia nulla o no, la giurisprudenza di questa Corte si è reiteratamente espressa, nel senso della nullità.
4.1. – Secondo Cass. n. 3315 del 1979, «la convenzione che contenga una promessa di attribuzione dei propri beni a titolo gratuito configura un contratto preliminare di donazione che è nullo, in quanto con esso si viene a costituire a carico del promittente un vincolo giuridico a donare, il quale si pone in contrasto con il principio secondo cui nella donazione l’arricchimento del beneficiario deve avvenire per spirito di liberalità, in virtù cioè di un atto di autodeterminazione del donante, assolutamente libero nella sua formazione». La successiva Cass. n. 6544 del 1985, ha affermato che la donazione di beni altrui non genera a carico del donante alcun obbligo poiché, giusta la consolidata interpretazione dell’art. 771 cod. civ., dal sancito divieto di donare beni futuri deriva che è invalida anche la donazione nella parte in cui ha per oggetto una cosa altrui; a differenza di quanto avviene, ad esempio, nella vendita di cosa altrui, che obbliga il non dominus alienante a procurare l’acquisto al compratore. Tale decisione ha quindi affermato che «ai fini dell’usucapione abbreviata a norma dell’art. 1159 cod. civ. non costituisce titolo astrattamente idoneo al trasferimento la donazione di un bene altrui, attesa l’invalidità a norma dell’art. 771 cod. civ. di tale negozio».
Sempre nell’ambito della nullità si colloca Cass. n. 11311 del 1996, così massimata: «l’atto con il quale una pubblica amministrazione, a mezzo di contratto stipulato da un pubblico funzionario, si obblighi a cedere gratuitamente al demanio dello Stato un’area di sua proprietà, nonché un’altra area che si impegni ad espropriare, costituisce una donazione nulla, sia perché, pur avendo la pubblica amministrazione la capacità di donare, non è ammissibile la figura del contratto preliminare di donazione, sia perché l’atto non può essere stipulato da un funzionario della pubblica amministrazione (possibilità limitata dall’art. 16 del R.D. n. 2440 del 1923 ai soli contratti a titolo oneroso), sia perché l’art. 771 cod. civ. vieta la donazione di beni futuri, ossia dell’area che non rientra nel patrimonio dell’amministrazione “donante” ma che la stessa si impegna ad espropriare».
Particolarmente significativa è poi Cass. n. 10356 del 2009, secondo cui «la donazione dispositiva di un bene altrui, benché non espressamente disciplinata, deve ritenersi nulla alla luce della disciplina complessiva della donazione e, in particolare, dell’art. 771 cod. civ., poiché il divieto di donazione dei beni futuri ricomprende tutti gli atti perfezionati prima che il loro oggetto entri a comporre il patrimonio del donante; tale donazione, tuttavia, è idonea ai fini dell’usucapione decennale prevista dall’art. 1159 cod. civ., poiché il requisito, richiesto da questa norma, dell’esistenza di un titolo che legittimi l’acquisto della proprietà o di altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente trascritto, deve essere inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere suscettibile in astratto, e non in concreto, di determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l’acquisto del diritto si sarebbe senz’altro verificato se l’alienante ne fosse stato titolare».
Da ultimo, Cass. n. 12782 del 2013 si è espressa in senso conforme alla decisione da ultimo richiamata.
4.2. – In senso difforme si rinviene Cass. n. 1596 del 2001, che ha affermato il principio per cui «la donazione di beni altrui non può essere ricompresa nella donazione di beni futuri, nulla ex art. 771 cod. civ., ma è semplicemente inefficace e, tuttavia, idonea ai fini dell’usucapione abbreviata ex art. 1159 cod. civ., in quanto il requisito, richiesto dalla predetta disposizione codicistica, della esistenza di un titolo che sia idoneo a far acquistare la proprietà o altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente trascritto, va inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere idoneo in astratto, e non in concreto, a determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l’acquisto del diritto si sarebbe senz’altro verificato se l’alienante ne fosse
stato titolare».
4.3. – A ben vedere, il contrasto tra i due orientamenti giurisprudenziali non coinvolge il profilo della efficacia dell’atto a costituire titolo idoneo per l’usucapione abbreviata, ma, appunto, la ascrivibilità della donazione di cosa altrui nell’area della invalidità, e segnatamente della nullità, ovvero in quella della inefficacia.
5. Il Collegio ritiene che alla questione debba essere data risposta nel senso che la donazione di cosa altrui o anche solo parzialmente altrui è nulla, non per applicazione in via analogica della nullità prevista dall’art. 771 cod. civ. per la donazione di beni futuri, ma per mancanza della causa del negozio di donazione.
5.1. – Deve innanzi tutto rilevarsi che la sentenza n. 1596 del 2001 evoca la categoria della inefficacia, che presuppone la validità dell’atto, e si limita ad affermare la non operatività della nullità in applicazione analogica dell’art. 771, primo comma, cod. civ., in considerazione di una pretesa natura eccezionale della causa di nullità derivante dall’avere la donazione ad oggetto beni futuri, ma non verifica la compatibilità della donazione di cosa altrui con la funzione e con la causa del contratto di donazione. La soluzione prospettata appare, quindi, non condivisibile, vuoi perché attribuisce al divieto di cui alla citata disposizione la natura di disposizione eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica; vuoi e soprattutto perché non considera la causa del contratto di donazione.
Al contrario, una piana lettura dell’art. 769 cod. civ. dovrebbe indurre a ritenere che l’appartenenza del bene oggetto di donazione al donante costituisca elemento essenziale del contratto di donazione, in mancanza del quale la causa tipica del contratto stesso non può realizzarsi. Recita, infatti, la citata disposizione: «La donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione».
Elementi costitutivi della donazione sono, quindi, l’arricchimento del terzo con correlativo depauperamento del donante e lo spirito di liberalità, il c.d. animus donandi, che connota il depauperamento del donante e l’arricchimento del donatario e che, nella giurisprudenza di questa Corte, va ravvisato «nella consapevolezza dell’uno di attribuire all’altro un vantaggio patrimoniale in assenza di qualsivoglia costrizione, giuridica o morale » (Cass, n. 8018 del 2012; Cass. n. 12325 del 1998; Cass. n. 1411 dei 1997; Cass. n. 3621 del 1980).
Appare evidente che, in disparte il caso della donazione effettuata mediante assunzione di una obbligazione, nella quale oggetto dell’obbligazione del donante sia il trasferimento al donatario di un bene della cui appartenenza ad un terzo le parti siano consapevoli, l’esistenza nel patrimonio del donante del bene che questi intende donare rappresenti elemento costitutivo del contratto; e la consustanzialità di tale appartenenza alla donazione è delineata in modo chiaro ed efficace dalla citata disposizione attraverso il riferimento all’oggetto della disposizione, individuato in un diritto del donante (“un suo diritto”). La non ricorrenza di tale situazione – certamente nel caso in cui né il donante né il donatario ne siano consapevoli, nel qual caso potrebbe aversi un’efficacia obbligatoria della donazione – comporta la non riconducibilità della donazione di cosa altrui allo schema negoziale della donazione, di cui all’art. 769 cod. civ. In altri termini, prima ancora che per la possibile riconducibilità del bene altrui nella categoria dei beni futuri, di cui all’art. 771, primo comma, cod. civ., la altruità del bene incide sulla possibilità stessa di ricondurre il trasferimento di un bene non appartenente al donante nello schema della donazione dispositiva e quindi sulla possibilità di realizzare la causa del contratto (incremento del patrimonio altrui, con depauperamento del proprio).
5.2. – La mancanza, nel codice del 1942, di una espressa previsione di nullità della donazione di cosa altrui, dunque, non può di per sé valere a ricondurre la fattispecie nella categoria del negozio inefficace. Invero, come si è notato in dottrina, il fatto stesso che il legislatore del codice civile abbia autonomamente disciplinato sia la compravendita di cosa futura che quella di cosa altrui, mentre nulla abbia stabilito per la donazione a non domino, dovrebbe suggerire all’interprete di collegare il divieto di liberalità aventi ad oggetto cose d’altri alla struttura e funzione del contratto di donazione, piuttosto che ad un esplicito divieto di legge. Pertanto, posto che l’art. 1325 cod. civ. individua tra i requisiti del contratto “la causa”; che, ai sensi dell’art. 1418, secondo comma, cod. civ., la mancanza di uno dei requisiti indicati dal’art. 1325 cod. civ. produce la nullità del contratto; e che l’altruità del bene non consente di ritenere integrata la causa del contratto di donazione, deve concludersi che la donazione di un bene altrui è nulla.
5.3. – Con riferimento alla donazione deve quindi affermarsi che se il bene si trova nel patrimonio del donante al momento della stipula del contratto, la donazione, in quanto dispositiva, è valida ed efficace; se, invece, la cosa non appartiene al donante, questi deve assumere espressamente e formalmente nell’atto l’obbligazione di procurare l’acquisto dal terzo al donatario.
La donazione di bene altrui vale, pertanto, come donazione obbligatoria di dare, purché l’altruità sia conosciuta dal donante, e tale consapevolezza risulti da un’apposita espressa affermazione nell’atto pubblico (art. 782 cod. civ.). Se, invece, l’altruità del bene donato non risulti dal titolo e non sia nota alle parti, il contratto non potrà produrre effetti obbligatori, né potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui.
5.4. – La sanzione di nullità si applica normalmente alla donazione di beni che il donante ritenga, per errore, propri, perché la mancata conoscenza dell’altruità determina l’impossibilità assoluta di realizzazione del programma negoziale, e, quindi, la carenza della causa donativa. La donazione di bene non appartenente al donante e quindi affetta da una causa di nullità autonoma e indipendente rispetto a quella prevista dall’art. 771 cod. civ., ai sensi del combinato disposto dell’art. 769 cod. civ. (il donante deve disporre «di un suo diritto») e degli artt. 1325 e 1418, secondo comma, cod. civ. In sostanza, avendo l’animus donandi rilievo causale, esso deve essere precisamente delineato nell’atto pubblico; in difetto, la causa della donazione sarebbe frustrata non già dall’altruità del diritto in sé, quanto dal fatto che il donante non assuma l’obbligazione di procurare l’acquisto del bene dal terzo.
5.5. – Alle medesime conclusioni deve pervenirsi per il caso in cui, come nella specie, oggetto della donazione sia un bene solo in parte altrui, perché appartenente pro indiviso a più comproprietari per quote differenti e donato per la sua quota da uno dei coeredi. Non è, Infatti, dato comprendere quale effettiva differenza corra tra i “beni altrui” e quelli “eventualmente altrui”, trattandosi, nell’uno e nell’altro caso, di beni non presenti, nella loro oggettività, nel patrimonio del donante al momento dell’atto, l’unico rilevante al fine di valutarne la conformità all’ordinamento.
In sostanza, la posizione del coerede che dona uno dei beni compresi nella comunione (ovviamente, nel caso in cui la comunione abbia ad oggetto una pluralità di beni) non si distingue in nulla da quella di qualsivoglia altro donante che disponga di un diritto che, al momento dell’atto, non può ritenersi incluso nel suo patrimonio.
Né una distinzione può desumersi dall’art. 757 cod. civ., in base al quale ogni coerede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione anche se per acquisto all’incanto e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli atri beni ereditari. Invero, proprio la detta previsione impedisce di consentire che il coerede possa disporre, non della sua quota di partecipazione alla comunione ereditaria, ma di una quota del singolo bene compreso nella massa destinata ad essere divisa, prima che la divisione venga operata e il bene entri a far parte del suo patrimonio.
6. – In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto: «La donazione di un bene altrui, benché non espressamente vietata, deve ritenersi nulla per difetto di causa, a meno che nell’atto si affermi espressamente che il donante sia consapevole dell’attuale non appartenenza del bene al suo patrimonio. Ne consegue che la donazione, da parte del coerade, della quota di un bene indiviso compreso in una massa ereditaria è nulla, non potendosi, prima della divisione, ritenere che il singolo bene faccia parte del patrimonio del coerede donante ».
7. In applicazione di tale principio, il ricorso deve essere quindi rigettato.
Non possono essere infatti condivise le deduzioni dei ricorrenti in ordine alla circostanza che l’atto di donazione riguardava non solo una quota ereditaria del bene specificamente oggetto di donazione, ma anche una quota della quale il donante era già titolare per averla acquistata per atto inter vivos. Invero, posto che è indiscutibile che l’atto di donazione aveva ad oggetto la quota di un dodicesimo dei beni immobili indicati nell’atto stesso rientrante nella comunione ereditaria, deve ritenersi che non sia possibile operare la prospettata distinzione tra la donazione dei quattro dodicesimi riferibili al donante e del restante dodicesimo, comportando l’esistenza di tale quota la attrazione dei beni menzionati nella disciplina della comunione ereditaria. Ne consegue che la nullità dell’atto di donazione per la parte relativa alla quota ereditaria comporta la nullità dell’intero atto, ai sensi dell’art. 1419 cod, civ,, non risultando che nei precedenti gradi di giudizio sia emersa la volontà del donatario di affermare la validità della donazione per la quota spettante al donante.
D’altra parte, non può non rilevarsi che l’inclusione, anche se solo in parte, degli immobili oggetto di donazione nella comunione ereditaria comportava la astratta possibilità della loro assegnazione, in sede di divisione, a soggetto diverso dal donante; con ciò dimostrandosi ulteriormente la sostanziale inscindibilità della volontà negoziale manifestatasi con l’atto di donazione dichiarato nullo dal Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza confermata dalla Corte d’appello.
8. – In conclusione, il ricorso va rigettato.
In considerazione della complessità della questione e dei diversi orientamenti giurisprudenziali, che hanno reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite, le spese del giudizio possono essere interamente compensate tra le parti.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte suprema di cassazione, in data 10 marzo 2015.
Allegati:
SS.UU, 15 marzo 2016, n. 5068, in tema di donazione di cosa altrui
In tema di azione di riduzione – SS.UU, 09 giugno 2006, n. 13429
Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 27/04/2006) 09/06/2006, n. 13429
SUCCESSIONE > Riduzione di donazioni e di disposizioni testamentarie
Intestazione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo – Presidente aggiunto
Dott. DUVA Vittorio – Presidente di sezione
Dott. SENESE Salvatore – Presidente di sezione
Dott. PROTO Vincenzo – Consigliere
Dott. ALTIERI Enrico – Consigliere
Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Consigliere
Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere
Dott. TRIOLA Roberto Michele – rel. Consigliere
Dott. GRAZIADEI Giulio – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
V.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VARRONE 9, presso lo studio dell’avvocato SILVIA MARIA CINQUEMANI, rappresentata e difesa dall’avvocato ARMANI Saverio, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
R.G., RI.GI., T.F., T. I., M.G., M.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’avvocato PANARITI Benito, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIO DAPOR, giusta delega a margine del controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 393/2000 della Corte d’Appello di TRENTO, depositata il 01/12/2000;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 27/04/2006 dal Consigliere Dott. Roberto Michele TRIOLA;
udito l’Avvocato Nicola DI PIERRO, per delega dell’avvocato Benito Panariti;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto notificato il 12 luglio 1994 V.A. conveniva davanti al Tribunale di Rovereto i nipoti G. e R. G., I. e T.F., A. e M. G. e premesso che in data (OMISSIS) era deceduta, la propria madre R.I., che l’aveva completamente pretermessa con il testamento pubblico in data (OMISSIS), con il quale aveva Istituito eredi i figli delle altre tre figlie, chiedeva si procedesse alla riduzione delle disposizioni testamentarie, con attribuzione della quota di legittima che le spettava.
I convenuti, costituitisi, resistevano alla domanda.
Con sentenza non definitiva in data 14 aprile 1999 il Tribunale di Rovereto affermava che ad V.A. spettava una quota di legittima pari ad 1/4 sulla eredità della madre.
G. e Ri.Gi., I. e T.F., A. e M.G. proponevano appello, sostenendo, tra l’altro, che la quota eventualmente
spettante ad V. A. era pari ad 1/6.
V.A., a sua volta, proponeva appello incidentale, sostenendo che la quota a cui aveva diritto era pari ai 2/3 dell’eredità (per il principio dell’accrescimento, avendo le sorelle accettato l’eredità, ma rinunciato ad esperire l’azione di riduzione) o, in subordine, alla metà (qualora non si accettasse il principio dell’accrescimento), La Corte di Appello di Trento con sentenza in data 1 dicembre 2000 confermava la decisione di primo grado in base alla seguente motivazione:
Sostiene l’appellata che le spetterebbero, in base alla teoria dell’accrescimento (avendo le sorelle di fatto accettato l’eredità e rinunciato ad agire in riduzione) i due terzi o quanto meno, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 537 c.c., comma 1, la metà dell’eredità.
Nessuna delle sueesposte tesi merita accoglimento.
Come ricordato la testatrice ha nominato eredi universali i suoi sei nipoti, figli delle di lei figlia V.R., A. e M.R..
Le figlie della testatrice non risultando eredi non possono aver rinunciato all’eredità spettando una tale facoltà ovviamente solo agli eredi.
Le sorelle dell’ A. devono per contro ritenersi legittimarie pretermesse che hanno peraltro rinunciato tacitamente ad esperire l’azione di riduzione prestando acquiescenza alla volontà della de cuius. Ciò non incide comunque sul calcolo della, quota dell’ A., in quanto la rinunzia delle altre legittimarle non da luogo ad alcuna vacanza di quota, e quindi non pone un problema di collocazione della medesima, per essere la riserva priva della porzione di beni ad essa correlativa, fin tanto che non venga esperita dai legittimar l’azione di riduzione.
Ne consegue non solo l’esclusione dell’accrescimento ma anche, al tempo stesso, che quella rinunzia possa incidere sull’entità aritmetica della riserva per cui debba procedersi ad un diverso computo dello stesso.
La quota dell’ A., dunque, è stata correttamente quantificata in un 1/6 dell’eredità e solo per errore materiale indicata in 1/4 nel dispositivo dell’impugnata sentenza.
V.A. ha proposto ricorso per Cassazione, con un unico motivo, illustrato da memoria.
Resistono con controricorso G. e Ri.Gi., I. e T.F., A. e M.G..
Con ordinanza in data 29 luglio 2004 la Sezione Seconda Civile di questa S.C. ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite, in considerazione del fatto che ai fini della decisione occorre risolvere alcune questioni di particolare rilevanza giuridica, cui la dottrina da contrastanti soluzioni e che non sono state affrontate ex professo da questa S.C.; in particolare occorre stabilire: a) quale sia il criterio di determinazione della quota di riserva nella ipotesi in cui vi siano più legittimari pretermessi, dei quali uno solo abbia esperito l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie; b) se a tale ipotesi possa ritenersi applicabile l’art. 522 cod. civ..
Motivi della decisione
Con l’unico motivo del ricorso V.A. ripropone la tesi secondo la quale:
a) non avendo le altre tre sorelle (anch’esse figlie pretermesse dalla de cuius, esperito l’azione di riduzione, la quota di riserva era pari ai 2/3 del patrimonio, come se vi fosse un unico legittimario;
b) in via subordinata, sè la quota di riserva doveva essere determinata nella metà dell’asse ereditario per l’esistenza di più figli legittimari, la stessa doveva esserle attribuita per intero per effetto dell’accrescimento in suo favore determinato dal mancato esperimento dell’azione di riduzione da parte delle altre legittimarle.
Il motivo non può trovare accoglimento.
Questa S.C. ha avuto occasione di affermare che se più sono i legittimar (nell’ambito della categoria dei discendenti), ciascuno ha diritto ad una frazione della quota di riserva e non all’intera quota, o comunque ad una frazione più ampia di quella che gli spetterebbe se tutti gli altri (non) facessero valere il loro diritto (sent. 22 ottobre 1975 n. 3500, 1978 n. 5611).
Tale orientamento, peraltro, si pone in implicito contrasto con la giurisprudenza formatasi con riferimento alla ipotesi in cui disponibile e legittima variano in funzione della esistenza di più categorie di legittimari o del numero di legittimari nell’ambito di una stessa categoria.
Ad es., in base all’art. 542 cod. civ., comma 1, se chi muore lascia, oltre al coniuge, un solo figlio, legittimo o naturale, a quest’ultimo è riservato un terzo del patrimonio ed un altro terzo spetta al coniuge; in base all’art. 542 cod. civ., comma 2, quando, invece, i figli, legittimi o naturali, sono più di uno, ad essi è complessivamente riservata la metà del patrimonio ed al coniuge spetta un altro quarto.
Con riferimento ad entrambe le ipotesi si pone il problema se il mancato esercizio dell’azione di riduzione da parte del coniuge pretermesso comporta che la legittima dell’unico figlio o dei più figli si “espanda”, diventando rispettivamente pari alla metà o ai due terzi del patrimonio del de cuius, secondo quando previsto dall’art. 537 cod. civ., comma 1 e 2.
Con riferimento alla ipotesi prevista dall’art. 542 cod. civ., comma 1, si pone il problema se il mancato esercizio dell’azione di riduzione da parte dell’unico figlio comporta la espansione della legittima del coniuge, in modo da farle raggiungere la misura prevista dall’art. 540 cod. civ., comma 1.
Con riferimento, infine all’ipotesi prevista dall’art. 542 cod. civ., comma 2, si pone il problema se l’esperimento dell’azione di riduzione da parte di uno solo dei figli comporta che la legittima allo stesso spettante debba essere determinata secondo quanto disposto dal comma 1.
La giurisprudenza di questa S.C. si è mostrata favorevole alla tesi della c.d. espansione della quota di riserva con riferimento all’ipotesi di mancato esercizio dell’azione di riduzione da parte del coniuge superstite (sent. 26 ottobre 1976 n. 3888; 9 marzo 1987 n. 2434; il febbraio 1995 n. 1529).
Si è, in proposito, affermato (sent. 9 marzo 1987, cit.) che .. occorre tenere presente che, a norma dell’art. 521 c.c., la rinunzia all’eredità è retroattiva nel Benso che l’erede rinunziante si considera come se non fosse mai stato chiamato all’eredità. E’ dunque impossibile far riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione, dal momento che tale situazione è soggetta a mutare, per effetto di eventuali rinunzie, con effetto retroattivo. E’ quindi alla situazione concreta che occorre far riferimento, e non a quella teorica, riferita al momento dell’apertura della successione, indipendentemente dalle vicende prodottesi in seguito; devesi dunque far riferimento agli eredi che concretamente concorrono nella ripartizione dell’asse ereditario e non a quelli che in teoria a tale riparto avrebbero potuto partecipare.
Tale orientamento è conforme a quanto sostenuto in dottrina, in cui ugualmente si è invocato il principio della retroattività della rinuncia fissato nell’art. 521 c.c., e si è sostenuto che un argomento a favore dello stesso sarebbe desumibile dall’art. 538 cod. civ., che regola la riserva spettante agli ascendenti “se chi muore non lascia figli legittimi”, in quanto la norma dovrebbe applicarsi soltanto nel caso in cui l’ereditando non abbia avuto figli o questi siano tutti presenti o assenti; se invece sopravvivessero figli capaci di succedere e tutti rinunziassero, si dovrebbe concludere nel senso che o rimane ferma a beneficio degli ascendenti la quota riservata di due terzi stabilita dall’art. 537 c.c., oppure che non sorge alcun diritto di riserva in favore degli ascendenti, conclusioni, l’una e l’altra, evidentemente inammissibili.
Si tratta di un orientamento che il collegio ritiene di non poter condividere.
Appare, in primo luogo, inopportuno il richiamo agli effetti della rinuncia di uno dei chiamati in tema di successione legittima, secondo quanto previsto dagli artt. 521 e 522 cod. civ., per vari motivi.
Nella successione legittima il c.d. effetto retroattivo della rinuncia di uno dei chiamati e il conseguente accrescimento in favore degli accettanti trovano una spiegazione logica nel fatto che, diversamente, non si saprebbe quale dovrebbe essere la sorte della quota del rinunciante.
La situazione è ben diversa con riferimento alla c.d. successione necessaria.
Il legislatore, infatti, si è preoccupato di far sì che ad ognuno del legittimari considerati venga garantita una porzione del patrimonio del de cuius anche contro la volontà di quest’ultimo.
Mancando una chiamata congiunta ad una quota globalmente considerata con riferimento alla ipotesi di pluralità di riservatari (ed anzi essendo proprio la mancanza di chiamata ereditaria il fondamento della successione necessaria), da un lato, viene a cadere il presupposto logico di un teorico accrescimento, e, dall’altro, non esistono incertezze in ordine alla sorte della quota (in teoria) spettante al legittimario che non eserciti l’azione di riduzione: i donatari o gli eredi o i legatari, infatti, conservano una porzione dei beni del de cuius maggiore di quella di cui quest’ultimo avrebbe potuto disporre.
La lettera della legge, poi, costituisce un ostacolo insormontabile per l’adesione alla tesi finora sostenuta in dottrina ed in giurisprudenza.
Dalla formulazione degli artt. 537 cod. civ., comma 1 (“se il genitore lascia”), art. 538 cod. civ., comma 1 (“se chi muore non lascia”), art. 542 cod. civ., comma 1 (“se chi muore lascia”), art. 542 cod. civ., comma 2 (“quando chi muore lascia”), risulta chiaramente che si deve fare riferimento, ai fini del calcolo della porzione di riserva, alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione; non viene preso, invece, in considerazione, a tal fine, l’esperimento dell’azione di riduzione da parte di alcuno soltanto dei legittimari.
Mancano, pertanto, le condizioni essenziali (esistenza di una lacuna da colmare e possibilità di applicare il principio ubi eadem ratio ibi eadem legis dispositio) per una estensione in via analogica delle norme in tema di successione legittima.
La tesi criticata, poi, sembra in contrasto con la ratio ispiratrice della successione necessaria, che non è solo quella di garantire a determinati parenti una porzione del patrimonio del de cuius, ma anche (come rovescio della medaglia) quella di consentire a quest’ultimo di sapere entro quali limiti, in considerazione della composizione della propria famiglia, può disporre del suo patrimonio può disporre in favore di terzi. E’ evidente che l’esigenza di certezza in questione non verrebbe soddisfatta ove tale quota dovesse essere determinata, successivamente all’apertura della successione, in funzione del numero di legittimari che dovessero esperire l’azione di riduzione.
Non possono, poi, essere taciuti gli inconvenienti pratici connessi alla adesione della ed. espansione della quota di riserva.
Occorre, a tal fine, partire dalla considerazione che l’esercizio dell’azione di riduzione è soggetto all’ordinario termine di prescrizione decennale e che non è prevista una actio interrogatoria, al contrario di quanto avviene con riferimento all’accettazione dell’eredità (art. 481 cod. civ.).
Ne consegue che all’apertura della successione ogni legittimario può esperire l’azione di riduzione solo con riferimento alla porzione del patrimonio del de cuius che gli spetterebbe in base alla situazione familiare di quest’ultimo a tale momento. Solo dopo la rinunzia all’esercizio dell’azione di riduzione da parte degli altri legittimari o la maturazione della prescrizione in danno degli stessi potrebbe agire per ottenere un supplemento di legittima, con evidente incertezza medio tempore in ordine alla sorte di una quota dei beni di cui il de cuius ha disposto per donazione o per testamento a favore di terzi.
Nè utili argomenti a favore della tesi criticata possono desumersi dall’art. 538 cod. civ..
In primo luogo, nel ragionamento sopra trascritto è incomprensibile il riferimento ad una quota pari a due terzi riservata in favore dagli ascendenti dall’art. 537 cod. civ., dal momento che tale disposizione fa riferimento alla quota riservata ai figli legittimi o naturali.
Non si comprende, poi, perchè sarebbe inammissibile la conclusione (cui si perverrebbe aderendo alla tesi che il collegio ritiene preferibile) secondo la quale, ove sopravvivessero al de cuius figli legittimi e tutti rinunziassero non sorgerebbe alcun diritto di legittima a favore degli ascendenti.
Va, innanzitutto, rilevato che non è chiaro se la rinunzia viene riferita all’accettazione dell’eredità o all’esperimento dell’azione di riduzione.
Nel primo caso un problema di tutela degli ascendenti non si porrebbe neppure, in quanto in loro favore di aprirebbe la successione legittima ex art. 569 cod. civ., dovendo i figli legittimi, a seguito della rinunzia all’eredità, considerarsi come mai chiamati alla successione.
Nel secondo caso la esclusione della configurabilità di una quota di riserva in favore degli ascendenti sarebbe espressione della scelta del legislatore di garantire il conseguimento di una quota del patrimonio del de cuius solo ai parenti più prossimi (oltre che al coniuge) esistenti al momento dell’apertura della successione. I parenti di grado successivo, che sono considerati come legittimari solo in mancanza di quelli di grado più vicino, pertanto, non possono essere rimessi in corsa in caso di mancato esercizio dell’azione di riduzione da parte di questi ultimi.
Il definitiva, il legislatore ha considerato iniquo il fatto che il de cuius disponga dell’intero suo patrimonio a favore di estranei nel caso in cui abbia solo discendenti o solo ascendenti; non ha considerato, invece, iniquo il fatto che rimangano fermi gli atti con i quali il de cuius, il quale lasci discendenti e ascendenti, abbia disposto dell’intero suo patrimonio a favore di estranei, nel caso in cui i discendenti (unici legittimari considerati) non esperiscano l’azione di riduzione.
Alla luce delle considerazioni svolte si può, pertanto, concludere che ai fini della individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari e ai singoli legittimari nell’ambito della stessa categoria occorre fare riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione e non a quella che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento (per rinunzia o prescrizione) dell’azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari.
Il ricorso va, pertanto, rigettato, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida nella complessiva somma di Euro 5.100,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari, ed oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 27 aprile 2006.
Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2006
Allegati:
SS.UU, 09 giugno 2006, n. 13429, in tema di azione di riduzione
In tema di divisione ereditaria – SS.UU, 7 ottobre 2019, n. 25021
Civile Sent. Sez. U Num. 25021 Anno 2019
Presidente: MAMMONE GIOVANNI
Relatore: LOMBARDO LUIGI GIOVANNI
Data pubblicazione: 07/10/2019
SENTENZA
sul ricorso 17912-2014 proposto da:
CURATELA DEL FALLIMENTO DI LA ROSA CARMELO, in persona del curatore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Viale Giulio Cesare 71, presso lo studio dell’avvocato Aloisia Bonsignore, rappresentata e difesa dall’avvocato Domenico Carota;
– ricorrente –
contro
LA ROSA MARIA GIUSEPPA, LA ROSA FRANCESCO;
– intimati –
avverso la sentenza n. 868/2013 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 23/05/2013;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/04/2019 dal Consigliere Luigi Giovanni Lombardo;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Lucio Capasso, che ha concluso per il rigetto del primo motivo del ricorso e per l’accoglimento del secondo;
Udito l’Avvocato Aloisia Bonsignore, per delega dell’avvocato Domenico Carota.
FATTI DI CAUSA
1. – La Curatela del fallimento di La Rosa Carmelo convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Palermo, La Rosa Maria e La Rosa Francesco, onde ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria esistente tra il fallito ed i convenuti (germani del medesimo) relativamente ad un fabbricato destinato a civile abitazione (composto da quattro elevazioni fuori terra) sito in Bagheria e proveniente dalla successione legittima del comune genitore; chiese l’assegnazione alla curatela della quota (pari a 2/9) di proprietà del cespite spettante al fallito; in subordine, per il caso di non comoda divisibilità e di mancata richiesta di attribuzione, chiese la vendita del fabbricato e la ripartizione del ricavato; domandò anche la condanna dei convenuti al pagamento di una indennità per l’occupazione dell’immobile.
Nella contumacia dei convenuti, il Tribunale rigettò le domande attoree.
2. – Sul gravame proposto dalla Curatela del fallimento, la Corte di Appello di Palermo, confermò la pronuncia di primo grado.
Secondo la Corte territoriale, il chiesto scioglimento della comunione ereditaria non poteva essere disposto, perché il fabbricato di cui si chiedeva la divisione, originariamente costituto dal solo piano terra (edificato prima del 1940), era stato sopraelevato nel periodo compreso tra il 1970 e il 1976 in assenza di concessione edilizia. A dire dei giudici di appello, lo scioglimento della comunione ereditaria rientrerebbe a pieno titolo tra gli atti inter vivos e, come tale, sarebbe assoggettato alle disposizioni di cui agli artt. 17 e 40 della legge n. 47 del 1985, che vietano – comminando la sanzione della nullità – la stipulazione di atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici (o a loro parti) dai quali non risultino gli estremi della concessione edilizia o della concessione in sanatoria o ai quali non sia allegata copia della domanda di sanatoria corredata dalla prova del versamento delle prime due rate di oblazione (c.d. “menzioni urbanistiche”).
Secondo la Corte di merito, poi, nella specie sarebbe inapplicabile l’art. 46, comma 5, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che esclude la nullità degli atti posti in essere nell’ambito di procedure esecutive immobiliari, dovendo tale norma intendersi riferita solo alle vendite disposte nell’ambito di procedure esecutive e non essendo estensibile alle divisioni. Infine, secondo i giudici del gravame, la domanda di condanna dei convenuti al pagamento di una indennità per il godimento dell’immobile non poteva comunque essere accolta, non essendovi prova che i predetti avessero avuto l’esclusiva disponibilità del cespite.
3. – Per la cassazione della sentenza di appello ha proposto ricorso la Curatela del fallimento di La Rosa Carmelo sulla base di due motivi.
La Rosa Maria e La Rosa Francesco, ritualmente intimati, non hanno svolto attività difensiva.
4. – All’esito dell’udienza pubblica del 13 giugno 2018, la Seconda Sezione Civile di questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 25836 del 16 ottobre 2018, ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando come il ricorso presentasse una “questione di massima di particolare importanza”.
L’ordinanza interlocutoria ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la nullità prevista dall’art. 17 della legge n. 47 del 1985 (ora art. 46 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) per i negozi aventi ad oggetto immobili privi di concessione edificatoria (compresi quelli di “scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti”) deve ritenersi limitata ai soli atti “tra vivi” e non riguarda, invece, gli atti “mortis causa” e quelli non autonomi rispetto ad essi, tra ì quali deve ritenersi compresa la divisione ereditaria quale atto conclusivo della vicenda successoria (Cass., Sez. 2, n. 15133 del 28/11/2001; Cass., Sez. 2, n. 630 del 17/01/2003; Cass., Sez. 2, n. 2313 del 01/02/2010); ed ha ritenuto che tale giurisprudenza meriti di essere rimeditata alla luce delle critiche avanzate dalla dottrina, sia con riferimento alla inclusione dello scioglimento della comunione ereditaria tra gli atti mortis causa, sia con riferimento alla presupposta efficacia meramente dichiarativa dell’atto divisorio.
5. – Il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell’art. 374, secondo comma, cod. proc. civ., che sulla questione la Corte pronunci a Sezioni Unite.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Col primo motivo di ricorso, si deduce (ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) la violazione e la falsa applicazione dell’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 (che ha sostituito, mutuandone il contenuto, l’art. 17 della legge n. 47 del 1985) e dell’art. 40, comma 2, della detta legge n. 47 del 1985, quest’ultimo relativo agli abusi edilizi realizzati (originariamente) entro il 10 ottobre 1983.
Sotto un primo profilo, la ricorrente curatela lamenta che la Corte territoriale, dopo aver accertato che le opere abusive erano state realizzate tra l’anno 1970 e il 1976, non abbia poi considerato che l’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 – applicabile proprio in relazione all’epoca di realizzazione delle opere abusive – non prevede espressamente gli atti di scioglimento della comunione tra quelli per i quali commina la sanzione della nullità ove da essi non risultino le menzioni urbanistiche ovvero non sia prodotta la dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante l’inizio della costruzione in epoca anteriore al 10 settembre 1967.
Sotto un secondo profilo, poi, la ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia qualificato gli atti di scioglimento della comunione ereditaria come atti inter vivos, come tali sottostanti alle previsioni di cui agli artt. 46, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 se relativi a fabbricati abusivi, in contrasto con i princìpi enunciati, nella materia, dalla giurisprudenza di legittimità.
Il motivo, in sostanza, sottopone due questioni di diritto collegate tra di loro.
Innanzitutto, per quanto rileva nella presente controversia (avuto riguardo alla data di realizzazione dell’edificio abusivo), si tratta di stabilire se, tra gli atti tra vivi per i quali l’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, commina la sanzione della nullità al ricorrere delle condizioni ivi previste, debbano ritenersi compresi o meno gli atti di scioglimento delle comunioni (“prima questione di diritto”).
Ove la risposta a tale questione risulterà positiva (ove cioè debba ritenersi che lo scioglimento delle comunioni sia ricompreso tra gli atti tra vivi per i quali l’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, commina la sanzione della nullità), si tratterà di risolvere un’altra conseguente questione di diritto: se possano considerarsi atti inter vivos, come tali soggetti alla comminatoria di nullità prevista dall’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 (ma anche dall’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001), solo gli atti di scioglimento della comunione “ordinaria” o anche quelli di scioglimento della comunione “ereditaria” (“seconda questione di diritto”).
2. – La soluzione della prima questione deve muovere dal confronto tra il testo della disposizione di cui all’art. 17 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (ora corrispondente all’art. 46, comma 1, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che ne ha mutuato il contenuto) e quello della disposizione di cui all’art. 40, comma 2, della medesima legge n. 47 del 1985, nonché dall’analisi del significato dei relativi enunciati normativi sul piano logico-semantico.
Com’è noto, la legge 28 febbraio 1985, n. 47 (denominata “Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive”) ha predisposto un complesso sistema sanzionatorio degli abusi edilizi, che si muove su tre direttrici: le sanzioni penali dell’arresto e dell’ammenda nei confronti di chi ha realizzato l’edificio abusivo (art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001); le sanzioni amministrative della demolizione dell’edificioabusivo o dell’acquisizione di esso al patrimonio del comune (art. 31 d.P.R. cit.); le sanzioni civili della non negoziabilità con atti tra vivi dei diritti reali relativi al detto edificio (artt. 17 e 40 d.P.R. cit.).
Mentre le sanzioni penali hanno carattere “personale” (art. 27 Cost.) e – come tali – non possono trasmettersi agli eredi di colui che ha commesso l’abuso edilizio, le sanzioni amministrative e quelle civili hanno, invece, carattere “ambulatorio”, nel senso che afferiscono al regime giuridico del bene (sono, cioè, propter rem) e valgono anche nei confronti degli eredi dell’autore dell’abuso.
Tali ultime sanzioni sono state configurate dalla legge in modo da perseguire il duplice scopo di reprimere – con riguardo al futuro – il fenomeno dell’abusivismo edilizio e di sanare – con riguardo al passato – gli abusi edilizi già consumati.
Nella prima direzione temporale, l’art. 17, comma 1, della legge n. 47 del 1985 ha stabilito, quanto alle sanzioni civili, che «Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo l’entrata in vigore della presente legge, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria rilasciata ai sensi dell’articolo 13. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù».
Nella seconda direzione, il successivo art. 40, comma 2, della medesima legge ha disposto – con riferimento alle costruzioni abusive realizzate prima dell’entrata in vigore della legge n. 47 del 1985 – che «Gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, relativi ad edifici o loro parti, sono nulli e non possono essere rogati se da essi non risultano, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ai sensi dell’art. 31 ovvero se agli stessi non viene allegata la copia per il richiedente della relativa domanda, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione, ovvero copia autentica di uno degli esemplari della domanda medesima, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione e non siano indicati gli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione di cui al sesto comma dell’art. 35. Per le opere iniziate anteriormente al 10 settembre 1967, in luogo degli estremi della licenza edilizia può essere prodotta una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, rilasciata dal proprietario o altro avente titolo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, attestante che l’opera risulti iniziata in data anteriore al 10 settembre 1967».
Com’è noto, il menzionato art. 17 della legge n. 47 del 1985 è stato abrogato (a differenza dell’art. 40, che è tuttora vigente) dall’art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”) a far data dalla entrata in vigore di tale ultimo decreto, ma è stato sostanzialmente riprodotto dall’art. 46 del medesimo d.P.R. n. 380, il cui comma 1 dispone: “Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”.
Queste Sezioni Unite hanno recentemente statuito che «La nullità comminata dall’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della I. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 cod. civ., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile. Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato» (Cass., Sez. Un., n. 8230 del 22/03/2019). Trattasi di una nullità che costituisce la sanzione per la violazione di norme imperative in materia urbanistico-ambientale, dettate a tutela dell’interesse generale all’ordinato assetto del territorio (cfr. Cass., Sez. 1, n. 13969 del 24/06/2011); ciò spiega perché tale nullità sia rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio (cfr. Cass. Sez. Un., n. 23825 del 11/11/2009; Cass., Sez. 2, n. 6684 del 07/03/2019).
Si deve avvertire che, seppur la nullità scaturisca dalla mancata dichiarazione nell’atto degli estremi del titolo abilitativo dell’edificio, e non dal carattere illecito dell’edificio in sé (la nullità, tuttavia, non è impedita dalla dichiarazione di un titolo abilitativo inesistente; mentre la mancata dichiarazione del titolo abilitativo esistente può essere emendata – ex art. 46, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, comma 3, della legge n. 47 del 1985 – con atto successivo che contenga la dichiarazione prescritta), per ragioni di brevità nel prosieguo si parlerà di edifici “abusivi”, con ciò intendendo nondimeno riferirsi (in conformità alla configurazione della fattispecie giuridica) a quegli edifici oggetto di atti negoziali in cui non siano menzionati gli estremi dei titoli abilitativi ad essi relativi.
Orbene, dal confronto tra la disposizione dell’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e quella dell’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 risulta come soltanto nella prima gli “atti di scioglimento della comunione” sono espressamente contemplati tra quelli colpiti da nullità ove da essi non risultino le menzioni urbanistiche; nella seconda disposizione (l’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985), invece, nessun riferimento espresso vi è agli atti di scioglimento della comunione.
Questa mancata coincidenza tra il testo delle due disposizioni ha indotto in passato questa Corte ad affermare, facendo applicazione del canone interpretativo “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, che l’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 – a differenza di quanto vale per l’art. 17, comma 1, della stessa legge (ora art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001) – non è applicabile agli atti di scioglimento della comunione (Cass., Sez. 2, n. 14764 del 13/07/2005); sicché nessuna comminatoria di nullità esisterebbe per gli atti di scioglimento della comunione di qualsiasi tipo (anche comunione ordinaria) relativa ad edifici abusivi, non sanati, realizzati prima dell’entrata in vigore della legge n. 47 del 1985.
Le Sezioni Unite ritengono che vi siano validi argomenti per rivedere tale conclusione.
In primo luogo, sul piano della interpretazione letterale, va considerata la diversa struttura semantica delle due disposizioni normative.
Infatti, mentre l’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 (come prima l’art. 17, comma 1, della legge n. 47 del 1985) individua gli atti tra vivi aventi ad oggetto diritti reali relativi ad edifici abusivi (o a loro parti), per i quali commina la sanzione della nullità, avendo riguardo al loro effetto giuridico («trasferimento, costituzione o scioglimento di comunione»), l’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, invece, individua gli atti inter vivos per i quali commina la nullità avendo riguardo solo al loro “oggetto”, richiedendo cioè che si tratti di «atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali (…) relativi ad edifici o loro parti», prescindendo dal loro effetto giuridico (il richiamo all’effetto giuridico degli atti, contenuto nella locuzione «esclusi quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù», si rinviene nella disposizione solo con funzione eccettuativa, ossia per escludere, dal campo di applicazione della norma, gli atti costitutivi, modificativi ed estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù).
In sostanza, l’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 indica gli atti oggetto della comminatoria di nullità in modo ellittico e sintetico, attraverso l’amplissima formula «atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali (…) relativi ad edifici o loro parti»; tale espressione, sul piano logico-semantico, risulta comprensiva di tutti gli atti inter vivos aventi ad oggetto diritti reali relativi ad edifici, qualunque effetto giuridico abbiano, eccettuati solo gli atti espressamente esclusi.
Pertanto, come – nella detta formula – devono ritenersi senza dubbio compresi gli atti di trasferimento o di costituzione di diritti reali aventi ad oggetto edifici o loro parti (anch’essi non espressamente previsti), così non vi sono ragioni per escludere – sul piano dell’interpretazione letterale – gli atti di scioglimento della comunione se e in quanto aventi ad oggetto edifici (o loro parti).
In secondo luogo, poi, sul piano della interpretazione teleologica e avuto riguardo allo scopo perseguito dal legislatore, va considerato che sia l’art. 46 che l’art. 40 disciplinano comunque atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici abusivi o a loro parti.
Non potrebbe comprendersi, allora, in mancanza di espressa previsione di legge, perché lo scioglimento della comunione di un immobile abusivo e non sanabile dovrebbe ritenersi consentito per il solo fatto che il fabbricato sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della legge n. 47 del 1985; considerato, peraltro, che le sanzioni amministrative della demolizione dell’edificio abusivo e dell’acquisizione di esso al patrimonio del comune valgono anche per i fabbricati realizzati prima della entrata in vigore della detta legge.
Tantomeno potrebbe comprendersi perché dovrebbe essere vietata la compravendita o la costituzione di usufrutto relativamente ad un tale immobile e dovrebbe invece essere consentito lo scioglimento della comunione, pur se trattasi di comunione non ereditaria.
In entrambi i casi si è dinanzi ad un immobile edificato illecitamente e non ricondotto a legittimità sul piano amministrativo.
La omogeneità delle situazioni non consente, in mancanza di una espressa previsione normativa, di concludere per una diversità di disciplina.
In definitiva, va preso atto che l’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, sia pure attraverso un diverso percorso semantico, ha la medesima estensione applicativa dell’art. 46 del d.P.R. n. 380 cit. (e della disposizione che lo ha preceduto). Nulla autorizza a ritenere che la comminatoria di nullità prevista dall’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 abbia un ambito oggettivo diverso da quello della comminatoria prevista dall’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001; nulla autorizza a ritenere che gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi o loro parti siano esclusi, alle condizioni stabilite, dalla comminatoria di nullità, considerato che essi rientrano comunque nella classe degli atti contemplati nella disposizione di cui all’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985; nulla autorizza a ritenere che il legislatore abbia inteso prevedere una disciplina differenziata per gli atti di scioglimento di comunione aventi ad oggetto edifici, a seconda che la costruzione sia stata realizzata in data anteriore o successiva rispetto all’entrata in vigore della legge n. 47 del 1985.
Alla stregua di quanto sopra, deve concludersi che l’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 è applicabile anche agli atti di scioglimento della comunione. Restano fuori dal campo di applicazione dell’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, così come – d’altra parte – dal campo di applicazione dell’art. 46, comma
1, del d.P.R. n. 380 del 2001 (e prima dell’art. 17, comma 1, della legge n. 47 del 1985), gli atti mortis causa e, tra quelli inter vivos, gli atti privi di efficacia traslativa reale (ossia quelli ad effetti meramente obbligatori), gli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù (espressamente esclusi dalle richiamate disposizioni) e – come si vedrà nel prosieguo – gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali (artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985).
La prima questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite va dunque risolta con l’enunciazione – ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc. civ. – del seguente principio di diritto:
«Gli atti di scioglimento delle comunioni relativi ad edifici, o a loro parti, sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità prevista dall’art. 40, secondo comma, della legge n. 47 del 1985 per gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici realizzati prima della entrata in vigore della legge n. 47 del 1985 dai quali non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ovvero ai quali non sia unita copia della domanda di sanatoria corredata dalla prova del versamento delle prime due rate di oblazione o dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante che la costruzione dell’opera è stata iniziata in data anteriore al 10 settembre 1967».
Dal principio di diritto appena enunciato scaturisce l’infondatezza della censura in esame, giacché l’applicabilità dell’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 alla fattispecie per cui è causa (per essere state le parti abusive dell’edificio in comunione edificate – secondo l’accertamento in fatto compiuto dalla Corte territoriale – prima della entrata in vigore della detta legge) non comporta affatto l’esclusione della comminatoria della nullità per gli atti di scioglimento della comunione.
Una volta risolta la prima questione di diritto nel senso che lo scioglimento della comunione deve ritenersi ricompreso tra gli atti tra vivi per i quali l’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 commina la sanzione della nullità, è necessario passare all’esame della seconda questione sottoposta col primo motivo di ricorso.
3. – La questione di diritto ora da risolvere è la seguente: se nel novero degli atti tra vivi, per i quali l’art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (come sopra interpretato) commina la sanzione della nullità, possa includersi solo l’atto di scioglimento della comunione ordinaria, dovendo ritenersi l’atto di divisione della comunione ereditaria un negozio assimilabile agli atti mortis causa, ovvero debba includersi anche l’atto di scioglimento della comunione ereditaria, da qualificarsi invece come negozio inter vivos.
Seppure, nella presente causa, in relazione all’epoca di realizzazione dell’abuso edilizio, rilevi solo l’applicazione dell’art. 40 cit., la questione ha valenza più ampia, investendo, nei medesimi termini, anche l’interpretazione dell’art. 46, comma 1, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. Essa, pertanto, può essere trattata in termini generali, in rapporto ad entrambe le norme.
Com’è noto, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto di risolvere la questione in esame affermando che l’atto di scioglimento della comunione ereditaria è un negozio assimilabile agli atti mortis causa, come tale sottratto alla disciplina della legge n. 47 del 1985.
Si è affermato, in particolare, che la nullità prevista dall’art. 17 della legge n. 47 del 1985 con riferimento alle vicende negoziali relative a beni immobili privi della necessaria concessione edificatoria, tra le quali sono da ricomprendere anche gli atti di “scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti”, deve ritenersi limitata ai soli “atti tra vivi”, rimanendo esclusa, quindi, tutta la categoria degli atti “mortis causa” e di quelli non autonomi rispetto ad essi, tra i quali deve ritenersi compresa la divisione ereditaria, quale atto conclusivo della vicenda successoria (Cass., Sez. 2, n. 15133 del 28/11/2001; Cass., Sez. 2, n. 2313 del 01/02/2010). E si è ritenuto di trovare sostegno a tale conclusione nel dato positivo offerto dall’art. 757 cod. civ., che assegna “efficacia retroattiva” alle attribuzioni scaturenti dall’atto divisionale, essendosi da tale disposizione dedotto che la divisione non ha efficacia traslativa, non è cioè un atto di alienazione, ma ha natura puramente dichiarativa (Cass., Sez. 2, n. 9659 del 24/07/2000; Cass., Sez. 3, n. 7231 del 29/03/2006; Cass., Sez. 2, n. 17061 del 05/08/2011; Cass., Sez. 2, n. 26351 del 07/11/2017).
Il Collegio ritiene di non poter condividere queste conclusioni per le ragioni qui di seguito illustrate.
Prima di esaminare funditus la questione circa la natura giuridica dell’atto di scioglimento della comunione ereditaria, appare opportuno svolgere alcune essenziali premesse volte a illustrare l’attuale configurazione codicistica della comunione ereditaria e del suo scioglimento.
4. – La legge non definisce la comunione “ereditaria”, la cui nozione va ricavata da quella – più generale – dettata dall’art. 1100 cod. civ. per la comunione c.d. “ordinaria”, definita come quella situazione in cui «la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone». Ogni comunione consiste nella contitolarità della proprietà di un bene o di altro diritto reale sopra di esso, di modo che ogni compartecipe è titolare del diritto sull’intero bene per una quota ideale: la “quota” è la misura della contitolarità spettante al partecipe alla comunione.
Ma la peculiarità della comunione ereditaria, che ne fa una “figura speciale” rispetto alla più generale figura della comunione (è questa la ragione per cui è soggetta alla medesima disciplina della comunione ordinaria – artt. 1100 e segg. cod. civ. – in quanto con essa compatibile), consiste nel fatto che essa ha ad oggetto i beni che componevano il patrimonio del de cuius e si costituisce ipso iure tra gli eredi quando, a seguito dell’apertura di una successione mortis causa, vi siano una pluralità di chiamati all’eredità ed una pluralità di accettazioni (espresse o tacite).
La comunione ereditaria è, perciò, indipendente dalla volontà dei chiamati alla eredità (non è una comunione “volontaria”, mancando un atto negoziale diretto a costituirla) e va annoverata tra le comunioni “incidentali” (“communio incidens”), in quanto sorge per il verificarsi del mero “fatto giuridico” della pluralità di acquisti della medesima eredità; tale fatto è indipendente ed esterno rispetto al negozio di accettazione, diretto com’è – quest’ultimo – solo a perfezionare l’acquisto della eredità (per la qualificazione della comunione ereditaria come comunione incidentale, cfr. Cass., Sez. 2, n. 355 del 10/01/2011; Cass., Sez. 2, n. 1085 del 30/01/1995). Con l’apertura della successione e con l’accettazione, gli eredi subentrano in universum ius defuncti in modo indistinto e promiscuo, divenendo (con)titolari dell’intero patrimonio del de cuius e di tutte le attività che lo compongono.
Carattere peculiare della comunione ereditaria è il fatto che essa – a differenza della comunione ordinaria, la quale può avere ad oggetto solo i diritti reali, ma non quelli personali – comprende anche i crediti del de cuius, i quali – secondo quanto prevede l’art. 727 cod. civ. – vanno inclusi nelle porzioni da formare ai fini della divisione della eredità (Cass., Sez. Un., n. 24657 del 28/11/2007; Cass., Sez. 2, n. 11128 del 13/10/1992; Cass., Sez. 3, n. 15894 del 11/07/2014). Non fanno parte della comunione ereditaria, invece, i debiti del defunto, i quali si ripartiscono automaticamente tra i coheredes in proporzione delle rispettive quote ereditarie (art. 752 cod. civ.), di modo che ogni coerede può essere chiamato a rispondere di essi solo nei limiti della propria quota (“debita hereditaria ipso iure dividuntur”).
Ogni comunione è, per sua natura, “transitoria”, potendo in ogni momento cessare. La cessazione della comunione può determinarsi per fatti o atti giuridici (come il perimento della cosa comune; l’usucapione di essa da parte del contitolare o di un terzo; la donazione di quota tra compartecipi; l’acquisto della quota del compartecipe per successione mortis causa; l’accrescimento; la rinunzia abdicativa); ma ciascuno dei partecipanti può chiedere in ogni tempo lo scioglimento della comunione (c.d. “divisione”), anche in disaccordo con gli altri compartecipi, mediante l’esercizio di un apposito diritto potestativo individuale riconosciutogli dall’ordinamento (art. 1111, primo comma, cod. civ.): vale il principio “In communione nemo compellitur invitus detineri”.
Tale principio, che nella comunione ordinaria può essere derogato con l’accordo dei compartecipi di rimanere in comunione purché per un tempo non superiore a dieci anni (art. 1111, secondo comma, cod. civ.), è inderogabile nella comunione ereditaria, in quanto «i coeredi possono sempre domandare la divisione» (art. 713 cod. civ.); anche se in taluni casi la legge prevede una indivisibilità temporanea della comunione ereditaria, a tutela degli interessi di particolari chiamati (art. 715 cod. civ.) o del patrimonio ereditario (art. 717 cod. civ.).
La divisione – la cui disciplina codicistica, dettata con riferimento alla comunione ereditaria, si applica anche alla comunione ordinaria in quanto compatibile (art. 1116 cod. civ.) – può essere “contrattuale”, quando è conseguita attraverso l’accordo tra i tutti i partecipanti alla comunione, culminante nella stipulazione di un apposito contratto divisionale (divisio ex contractu); oppure “giudiziale”, quando è disposta con apposita pronuncia del giudice (divisio ope iudicis) a seguito dell’azione di divisione esercitata da uno dei partecipanti alla comunione (si tratta dell’azione che le fonti giustineanee denominano “actio familiae erciscundae”, che corrisponde, con riguardo alla comunione ordinaria, all’ “actio communi dividundo”).
Il negozio divisorio (che, quando concerne beni immobili, è soggetto alla forma scritta ad substantiam: art. 1350 n. 11 cod. civ.) è un contratto plurilaterale, cui devono necessariamente prendere parte tutti i partecipanti alla comunione, con il quale la quota ideale spettante a ciascun condividente (pars quota) viene convertita in una “porzione concreta” (pars quanta) dei beni comuni in titolarità esclusiva (c.d. “apporzionamento”).
L’apporzionamento determina l’attribuzione in titolarità esclusiva dei diritti in comunione su una porzione di essi, il cui valore, rispetto al valore dei beni divisi, deve corrispondere al valore della quota spettante al condividente sui beni comuni.
Anche la divisione giudiziale, come quella contrattuale, esige la partecipazione al giudizio di tutti i compartecipi (l’art. 784 cod. proc. civ. prevede espressamente che, nel giudizio divisorio, vi è litisconsorzio necessario tra tutti gli eredi o condomini: cfr. Cass., Sez. 2, n. 4891 del 26/04/1993; Cass., Sez. 1, n. 7954 del 13/08/1998). Con essa alla contitolarità del diritto sopra i beni comuni si sostituisce il diritto esclusivo di ciascuno degli originari partecipanti su una parte di tali beni; ma la legge prevede che, qualora i beni ereditari non possano essere divisi in natura, si possa procedere all’attribuzione congiunta (se più coeredi la chiedano) o alla vendita all’incanto con successiva divisione del ricavato (artt. 720 e 722 cod. civ.).
5. – Premesso quanto sopra in ordine alla natura della comunione ereditaria e della relativa divisione, può passarsi all’esame degli argomenti posti a fondamento della tesi secondo cui l’atto di scioglimento della comunione ereditaria avente ad oggetto un edificio abusivo o parti di esso non sarebbe tra quelli sanzionati con la nullità dagli artt. 46 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, pur se da esso non risultino le menzioni urbanistiche.
5.1. – Il primo argomento su cui si fonda la tesi di cui sopra è quello secondo cui l’atto di divisione di una comunione ereditaria non sarebbe un atto inter vivos, ma sarebbe assimilabile agli atti mortis causa (così, Cass., n. 15133 del 2001, cit.).
Sul punto, va ricordato che, secondo la dottrina, i negozi a causa di morte si distinguono dai negozi tra vivi per il fatto che i loro effetti giuridici sono collegati all’evento della morte del loro autore, del quale sono destinati a regolamentare la vicenda successoria o a disporre per il tempo successivo alla sua morte. Nei negozi mortis causa, la morte è l’evento in forza del quale l’effetto giuridico si produce e senza il quale il negozio non produce alcun effetto.
Nel nostro ordinamento, che vieta i patti successori (eccettuati ora i patti di famiglia: art. 458, come novellato dall’art. 1, legge 14 febbraio 2006, n. 55), si ritiene tradizionalmente che l’unico negozio a causa di morte sia il testamento (art. 587 cod. civ.); accanto al quale si pongono – quali negozi mortis causa a struttura inter vivos – la dispensa dalla imputazione (art. 564, comma 2, cod. civ.) e la dispensa dalla collazione (art. 737 cod. civ.), ove contenute in un atto di donazione o in un atto inter vivos posteriore alla donazione.
Orbene, se la morte dell’autore del negozio è l’evento che connota i negozi mortis causa e che determina la produzione dei loro effetti, è da escludere che il contratto di scioglimento della comunione ereditaria possa essere qualificato come negozio mortis causa.
Il contratto di divisione ereditaria, infatti, produce i propri effetti indipendentemente dalla morte del de cuius (che costituisce un fatto del passato, i cui effetti giuridici si sono esauriti con l’insorgere della comunione ovvero con l’eventuale divisione disposta dal testatore ex art. 734 cod. civ.). Esso, piuttosto, produce i propri effetti immediatamente, col mero scambio dei consensi espresso dai condividenti nelle forme di legge; il suo contenuto – ossia l’attribuzione di un cespite o di un altro in titolarità esclusiva – dipende dalla volontà degli eredi, non da quella del de cuius: ciò ne determina, indubbiamente, il carattere di negozio inter vivos.
L’atto di scioglimento della comunione ereditaria va dunque assimilato, quanto alla natura e ai suoi effetti, all’atto di scioglimento della comunione ordinaria: entrambi costituiscono contratti plurilaterali ad effetti reali e con funzione distributiva, con i quali i contraenti si ripartiscono le cose comuni in proporzione alle rispettive quote, facendo cessare lo stato di contitolarità in cui essi si trovano rispetto ad un bene o ad un complesso di beni; entrambi i negozi producono i loro effetti col mero scambio dei consensi espresso nelle forme di legge.
In sostanza, la diversa origine della comunione non muta né la natura né gli effetti del negozio divisorio, che ha carattere unitario. Di ciò, del resto, si trae conferma dalla previsione dell’art. 1116 cod. civ., che estende l’applicazione delle norme sulla divisione dell’eredità alla divisione delle cose comuni, in quanto non contrastino con le norme che regolano la comunione.
Non può condividersi, perciò, l’affermazione secondo cui lo scioglimento della comunione ereditaria sarebbe un atto non autonomo rispetto alla vicenda successoria, della quale costituirebbe l’evento terminale, permeandosi così della medesima natura.
Innanzitutto, lo scioglimento della comunione – seppure corrisponda all’id quod plerumque accidit – non costituisce un atto necessariamente conseguente all’evento successorio; è un atto “eventuale”, che potrebbe non essere compiuto dagli eredi ove essi decidano di rimanere in comunione.
Va poi considerato che il fatto che un negozio si inserisca nella vicenda successoria non implica affatto che esso debba essere qualificato mortis causa: persino l’accettazione dell’eredità (art. 459 cod. civ.), che pur costituisce un atto necessario della vicenda successoria essendo indispensabile al suo completamento, non costituisce un negozio mortis causa, dovendosi piuttosto qualificare come un negozio unilaterale tra vivi avente contenuto patrimoniale (art. 1324 cod. civ.).
In realtà, una volta che la successione si è perfezionata con le accettazioni dell’eredità da parte dei chiamati, il fenomeno successorio si è esaurito, rimanendo ad esso estranee le vicende negoziali successive.
Infine, va considerato che assimilare l’atto di divisione ereditaria ai negozi mortis causa, così da sottrarlo alla comminatoria di nullità prevista, per gli edifici abusivi, dagli artt. 46 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, condurrebbe a conseguenze incongrue ove, non potendosi addivenire all’assegnazione dei beni ai compartecipi (c.d. divisione “naturale”), debba farsi luogo alla divisione “civile” mediante la vendita all’incanto ai sensi dell’art. 720 cod. civ. (ad es., in ragione della indivisibilità dell’immobile). La vendita all’incanto, infatti, quale atto indubbiamente inter vivos, sarebbe colpita comunque dalla sanzione della nullità di cui agli artt. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985; con la conseguenza che risulterebbe consentita (sarebbe cioè esente da nullità) la divisione naturale, mentre sarebbe vietata la divisione civile, con conseguente contraddittorietà ed illogicità del sistema.
Deve allora concludersi, sul punto, che l’atto di scioglimento della comunione ereditaria costituisce un negozio inter vivos, allo stesso modo dell’atto di scioglimento della comunione ordinaria.
5.2. – Altro argomento posto (da Cass. n. 15133 del 2001, cit.) a fondamento della tesi secondo cui l’atto di scioglimento della comunione ereditaria avente ad oggetto un edificio abusivo o parti di esso non sarebbe assimilabile all’atto di scioglimento della comunione ordinaria (come tale colpito dalla comminatoria di nullità ai sensi degli artt. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, comma 2, della stessa legge n. 47 del 1985) è quello secondo cui, diversamente opinando, si perverrebbe ad una irragionevole disparità di trattamento rispetto all’ipotesi, ritenuta “omogenea”, in cui la divisione sia stata operata dal testatore, ipotesi questa in cui pacificamente si ritiene non applicabile la disciplina dettata dalle disposizioni sopra richiamate.
Anche questo argomento non può essere condiviso.
La divisione testamentaria, prevista dall’art. 734 cod. civ. (derivata dall’antica “divisio inter liberos”), consiste in ciò, che il testatore, nell’istituire gli eredi, provvede alla materiale composizione delle quote a ciascuno di essi destinate.
Ora, carattere precipuo della divisione testamentaria è quello di evitare la comunione ereditaria e dar luogo, piuttosto, ad una successione “individuale” di ciascun singolo erede. Perciò, alla morte del testatore, neppure sorge una comunione tra gli eredi; non viene a formarsi alcuna situazione di contitolarità del patrimonio ereditario tra i coeredi, bensì direttamente una situazione di titolarità solitaria di ciascun erede (ciò, naturalmente, a condizione che la divisione del testatore riguardi tutti i beni ereditari; altrimenti, la successione individuale sarà limitata ai soli beni divisi dal de cuius, instaurandosi per gli altri la comunione tra i coeredi).
E allora, anche a voler rinvenire una omogeneità tra la divisione testamentaria e quella contrattuale, tale omogeneità è limitata al profilo funzionale dell’apporzionamento dei beni tra gli eredi (disposto nell’un caso con le disposizioni testamentarie, nell’altro con quelle contrattuali), ma essa non attinge la natura degli atti giuridici attraverso i quali l’apporzionamento viene conseguito, che rimane sostanzialmente diversa.
E infatti, la divisione testamentaria costituisce certamente un atto mortis causa, perché scaturisce dalla volontà del testatore e produce i propri effetti, ipso iure, con la morte del testatore e con l’apertura della successione; la divisione contrattuale, invece, non può che essere un negozio tra vivi, in quanto scaturisce dalla volontà degli eredi ed i suoi effetti sono indipendenti dall’evento della morte del de cuius.
Né può ritenersi illogico che al de cuius sia consentito – mediante il testamento – dividere tra i futuri eredi l’edificio abusivo di cui è proprietario, mentre agli eredi sia vietato dividere tra loro il medesimo edificio con apposito contratto divisorio.
La ratio delle disposizioni di cui all’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e all’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 è, infatti, quella di rendere i diritti reali sugli edifici abusivi “non negoziabili” con atto tra vivi e, nel contempo, di assicurare – a garanzia della certezza e della stabilità dei rapporti giuridici – la loro trasmissibilità iure ereditatis.
Gli eredi subentrano nella medesima posizione del defunto ed acquistano, perciò, il fabbricato abusivo nel medesimo stato di fatto e di diritto in cui era posseduto dal de cuius.
È naturale allora che, come il de cuius non avrebbe potuto alienare l’immobile abusivo a terzi o dividerlo con l’eventuale comproprietario di esso, così – ove l’edificio abusivo cada in comunione ereditaria – anche i coheredes non possano alienare a terzi o dividere tra loro il fabbricato abusivo edificato dal loro dante causa, essendo tale immobile destinato a rimanere in comunione fino a quando non sia sanato (ove possibile) o fino a quando l’abuso edilizio non sia materialmente eliminato.
5.3. – Ulteriore argomento, posto a sostegno della tesi secondo cui l’atto di scioglimento della comunione ereditaria avente ad oggetto un edificio abusivo (o parti di esso) non sarebbe oggetto della comminatoria di nullità di cui agli artt. 46 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, è quello che fa perno sull’efficacia retroattiva della divisione.
La retroattività – com’è noto – è un fenomeno giuridico di tutto rilievo nella successione mortis causa, cui il legislatore ricorre per ricondurre gli effetti di determinati atti al momento dell’apertura della successione e assicurare così la continuità della titolarità dei beni tra il defunto e l’erede (così: l’art. 459 cod. civ. per l’accettazione della eredità; l’art. 521 cod. civ. per la rinunzia alla eredità; l’art. 649 cod. civ. per l’acquisto del legato).
Con riferimento alla divisione, l’art. 757 cod. civ. stabilisce che «Ogni coerede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione, anche per l’acquisto all’incanto, e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari».
L’efficacia retroattiva della divisione – le cui radici risalgono al diritto intermedio (dove aveva lo scopo di evitare che il tributo feudale dovuto per l’acquisto dell’eredità dovesse essere corrisposto due volte, all’atto della successione e all’atto della divisione) – si traduce nella negazione di una successione fra i compartecipi, nel senso che il condividente viene considerato proprietario esclusivo del bene assegnatogli con effetto ex tunc, fin dal momento dell’apertura della successione, come se su quel bene non vi fosse stato – nel periodo intermedio intercorso tra la morte del de cuius e lo scioglimento della comunione – un rapporto di comunione tra gli eredi.
La vis retroactiva opera, tuttavia, solo sul piano dell’effetto distributivo proprio della divisione (il c.d. “apporzionamento”), ossia solo per quanto riguarda l’acquisto della titolarità dei beni assegnati; ma essa non cancella gli altri effetti della comunione e le situazioni attive e passive acquisite dal condividente o dai terzi durante lo stato di comunione: ad es., i frutti naturali della cosa comune già separati al momento della divisione restano acquisiti alla comunione e non competono all’assegnatario del bene che li aveva prodotti (cfr., Cass., Sez. 2, n. 2975 del 20/03/1991); i condividenti sono tenuti a reciproca garanzia per l’evizione (art. 759 cod. civ.); sopravvivono pure i diritti reali costituiti in favore di terzi durante la comunione (salva la garanzia ipotecaria costituta dal compartecipe che, ai sensi dell’art. 2825 cod. civ., si trasferisce sui beni a lui assegnati); restano opponibili i rapporti di locazione.
Orbene, la dottrina tradizionale e la giurisprudenza hanno ritenuto che l’efficacia retroattiva della divisione deponesse per la natura meramente dichiarativa dell’atto divisorio, con esclusione di ogni efficacia costitutiva o traslativa, in quanto, in forza dell’effetto previsto dall’art. 757 cod. civ., ciascun singolo erede acquista direttamente dal de cuius e non dagli altri condividenti ed è come se la comunione non fosse mai esistita (Cass., Sez. 2, n. 26351 del 07/11/2017; Cass., Sez. 2, n. 17061 del 05/08/2011; Cass., Sez. 3, n. 7231 del 29/03/2006; Cass., Sez. 2, n. 9659 del 24/07/2000).
L’efficacia retroattiva della divisione – si assume – escluderebbe che l’atto divisorio possa avere efficacia traslativa, quale atto di alienazione, dovendosi l’efficacia traslativa retrodatare al momento dell’apertura della successione; dal che troverebbe conferma l’esclusione della sua natura di atto inter vivos.
L’idea che l’efficacia retroattiva della divisione, prevista dall’art. 757 cod. civ., implichi la necessità di configurare l’atto divisorio come un negozio meramente dichiarativo costituisce una delle costruzioni dogmatiche più risalenti e resistenti nella dottrina tradizionale; un “dogma” che, tuttavia, ad un attento esame, si rivela privo di solide fondamenta.
Diverse sono le ragioni che non consentono di aderire a tale tesi.
5.3.1. – In primo luogo, va osservato, sul piano della teoria generale, che il fenomeno della retroattività di un atto giuridico si accompagna, per sua natura, all’efficacia costitutiva dell’atto stesso ed è incompatibile con l’efficacia meramente dichiarativa del medesimo.
Invero, non possono retroagire gli effetti di un atto che si limita a dichiarare o accertare la situazione giuridica già esistente; possono retroagire, invece, gli effetti dell’atto che immuta la realtà giuridica. È per tale ragione che non hanno effetto retroattivo le sentenze che accertano la nullità di un negozio, mentre hanno effetto retroattivo le sentenze che pronunciano l’annullamento o la risoluzione di un contratto.
In sostanza, l’efficacia retroattiva di un negozio si coniuga, per sua natura, col carattere costitutivo, traslativo, con l’efficacia reale dello stesso; essa, invece, non si attaglia al negozio che abbia carattere meramente dichiarativo.
D’altra parte, l’art. 757 cod. civ. – laddove prevede che l’efficacia retroattiva si estende a tutti i beni ereditari pervenuti al coerede «anche per acquisto all’incanto» – attribuisce espressamente l’efficacia retroattiva ad atti con effetti costitutivi-traslativi, come l’acquisto dei beni in comunione che il compartecipe faccia mediante compravendita o all’incanto (artt. 719 e 720 cod. civ.).
È, dunque, lo stesso art. 757 cod. civ. che lega l’efficacia retroattiva ad atti tipicamente di natura costitutivo-traslativa.
5.3.2. – In secondo luogo, poi, va considerato che lo scioglimento della comunione non accerta o dichiara affatto una situazione giuridica preesistente, ma immuta sostanzialmente la realtà giuridica. Con la divisione, infatti, ogni condividente perde la (com)proprietà di tutti i cespiti costituenti l’asse ereditario e concentra il proprio diritto su uno solo o su alcuni di essi (“aliquid datum, aliquid retentum”); sorgono, dunque, tante proprietà individuali laddove, prima, esisteva una comproprietà.
È chiaro, dunque, che l’idea secondo cui la divisione non costituirebbe titolo di acquisto dei beni assegnati in proprietà esclusiva può essere condivisa solo a patto di restringerne il significato al piano puramente economico, essendo chiaro che il passaggio dalla contitolarità pro quota dei beni comuni alla titolarità esclusiva della porzione non si traduce in un incremento patrimoniale per il condividente.
Tuttavia, sul piano della modificazione della sfera giuridica dei condividenti, è indubbio come nel fenomeno divisorio sia insito un effetto costitutivo, sostanzialmente traslativo, perché con la divisione ogni condividente perde la (com)proprietà sul tutto (che prima aveva) e – correlativamente – acquista la proprietà individuale ed esclusiva sui beni a lui assegnati (che prima non aveva): le quote ideali spettanti a ciascun condividente su tutti i beni facenti parte della comunione sono convertite in titolarità esclusiva su taluni singoli beni.
Deve, pertanto, riconoscersi che la divisione ha una natura specificativa, attributiva, che impone di collocarla tra gli atti ad efficacia tipicamente costitutiva e traslativa (efficacia, peraltro, della quale non si dubitava né nel diritto romano né in quello intermedio).
D’altra parte, l’acquisto che il compartecipe consegue tramite la divisione non è diverso, sul piano effettuale, da quello che il compartecipe potrebbe ottenere ove acquistasse la proprietà esclusiva dello stesso cespite in virtù di un normale negozio traslativo (ad es. compravendita), per volontà unanime dei coeredi.
5.3.3. – Va piuttosto osservato come la tesi che vorrebbe far discendere la natura di atto meramente dichiarativo della divisione dalla sua efficacia retroattiva finisca, in realtà, per confondere l’efficacia “legale” dell’atto, derivante dall’art. 757 cod. civ., con la natura dell’atto stesso.
È vero che la legge (art. 757 cod. civ.) fa retroagire l’efficacia della divisione al momento dell’apertura della successione; ma tale effetto giuridico non è dichiaratività: è semplice retroattività.
Se non vi fosse l’art. 757 cod. civ., infatti, l’acquisto ex divisione sarebbe sottoposto alle medesime regole che valgono per ogni contratto traslativo ed avrebbe, perciò, effetti ex nunc, ossia dal momento del perfezionamento del contratto divisorio.
È il legislatore che, per assicurare continuità tra la posizione giuridica del defunto e quella dell’erede attributario del bene diviso, fa retroagire gli effetti dell’acquisto al momento dell’apertura della successione. Questa retrodatazione prevista dalla legge è, tuttavia, limitata agli “effetti” della divisione (come si evince dalla stessa locuzione adoperata dall’art. 757 cod. civ.: «ogni coerede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota»); ma non incide sulla natura dell’atto, che è e rimane costitutiva.
La divisione, come si è detto, dà luogo ad un mutamento della situazione giuridico-patrimoniale del condividente; e tale mutamento, che vale a determinare la natura costitutivo-traslativa dell’atto divisorio, è logicamente precedente ed indipendente rispetto all’effetto retroattivo.
D’altra parte, è pacifico che il principio dell’efficacia retroattiva della divisione ereditaria di cui all’art. 757 cod. civ. si applichi anche agli atti di scioglimento della comunione ordinaria (cfr. Cass., Sez. 3, n. 7231 del 29/03/2006; Cass., Sez. 2, n. 17061 del 05/08/2011; Cass., Sez. 2, n. 8315 del 16/08/1990), che indubbiamente sono sottoposti alla comminatoria di nullità di cui all’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001. Non può logicamente sostenersi – allora – che sia l’efficacia retroattiva della divisione ad imporre di sottrarre gli atti di scioglimento della comunione ereditaria alla medesima comminatoria di nullità.
5.3.4. – In conclusione, dalla disposizione di cui all’art. 757 cod. civ. e dall’efficacia retroattiva dell’atto divisionale, non può argomentarsi la natura meramente dichiarativa del contratto di divisione ereditaria e, tantomeno, la sua natura di atto mortis causa.
La divisione non ha causa ricognitiva di effetti giuridici già verificatisi, ma – al contrario – ha causa attributiva e distributiva, in quanto ciascun condividente può divenire l’unico titolare di questo o di quel bene ricadente in comunione solo se vi sia stato un procedimento (contrattuale o giudiziale) che abbia determinato, con effetti costitutivi, lo scioglimento di quella comunione.
Essa costituisce, pertanto, un atto assimilabile a quelli di natura traslativa, per i quali la legge n. 47 del 1985 e il d.P.R. n. 380 del 2001 comminano la sanzione della nullità ove abbiano ad oggetto edifici abusivi o parti di essi.
5.4. – La tesi secondo cui l’atto di scioglimento della comunione ereditaria avente ad oggetto un edificio abusivo non sarebbe oggetto della comminatoria di nullità di cui agli artt. 46 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 è, d’altra parte, smentita dal testo delle disposizioni appena richiamate, interpretate secondo i canoni previsti dall’art. 12, primo comma, disp. prel. cod. civ
5.4.1. – Innanzitutto, sul piano dell’interpretazione letterale della legge, secondo il «significato proprio delle parole» (art. 12, primo comma, prima parte, delle preleggi), va considerato che l’art. 46 d.P.R. n. 380 del 2001 (come, prima di esso, l’art. 17 della legge n. 47 del 1985) include espressamente l’atto di scioglimento della comunione avente ad oggetto edifici abusivi (o loro parti) tra gli atti inter vivos colpiti da nullità; ed analoga inclusione deve ritenersi – per quanto si è veduto supra (par. 2.) – con riferimento all’art. 40 della legge n. 47 del 1985.
È dunque la legge che commina espressamente la nullità dell’atto di scioglimento della comunione che abbia ad oggetto edifici abusivi, senza distinguere in alcun modo tra scioglimento della comunione ordinaria e scioglimento della comunione ereditaria.
La previsione – negli artt. 46 d.P.R. n. 380 del 2001 e 40 legge n. 47 del 1985 – di un “unico” regime giuridico per ogni tipo di scioglimento di comunione comporta, in applicazione del canone interpretativo “ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus”, che lo scioglimento della comunione ereditaria, ove abbia ad oggetto fabbricati abusivi (o parti di essi), deve ritenersi sottoposto al medesimo trattamento giuridico (“comminatoria di nullità”) previsto per lo scioglimento della comunione ordinaria.
Si è già rilevato, peraltro, che il fenomeno divisorio ha carattere unitario, tanto che la disciplina dettata dal codice civile per la divisione ereditaria si applica anche allo scioglimento della comunione ordinaria in quanto compatibile (art. 1116 cod. civ.) e che persino l’effetto retroattivo previsto per la divisione ereditaria vale anche per le divisioni dei beni comuni.
Non vi sono, pertanto, valide ragioni per ritenere che lo scioglimento della comunione ereditaria sia sottratto alla comminatoria di nullità di cui agli artt. 46 d.P.R. n. 380 del 2001 e 40 legge n. 47 del 1985.
Piuttosto, va rilevato che l’inclusione degli atti di scioglimento della comunione ereditaria relativa a fabbricati abusivi tra quelli colpiti da nullità ai sensi degli artt. 46 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 è coerente con la ratio legis e con la scelta del legislatore di contrastare gli abusi edilizi mediante sanzioni civilistiche che colpiscano la negoziabilità dell’immobile.
La non negoziabilità con atti inter vivos dei diritti reali su edifici abusivi costituisce, infatti, un importante deterrente alla realizzazione degli abusi edilizi; e tale deterrente risulterebbe indubbiamente depotenziato ove gli artt. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 fossero interpretati nel senso di consentire agli eredi di colui che ha realizzato la costruzione abusiva di sciogliersi dalla comunione ereditaria. Né avrebbe senso, sul piano della formazione delle quote in natura tra i condividenti, sciogliere la comunione su un edificio abusivo (non sanato), attribuendolo in titolarità esclusiva ad uno dei coeredi, quando un tale edificio deve essere comunque demolito o acquisito al patrimonio dell’ente comunale.
5.4.2. – Conferma della correttezza di tale conclusione si ricava, d’altra parte, sempre sul piano dell’interpretazione letterale della legge, dalla considerazione che il legislatore, quando ha inteso sottrarre le divisioni ereditarie all’applicazione della normativa dettata in tema di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, lo ha detto espressamente.
Decisiva è, in tal senso, la previsione dell’art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 18 della legge n. 47 del 1985) in materia di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio.
Tale disposizione, dopo aver stabilito, nel primo periodo del secondo comma, che «Gli atti tra vivi (..) aventi ad oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali relativi a terreni sono nulli e non possono essere stipulati (..) ove agli atti stessi non sia allegato il certificato di destinazione urbanistica contenente le prescrizioni urbanistiche riguardanti l’area interessata», aggiunge poi, nel decimo e ultimo comma, che «Le disposizioni di cui sopra (..) non si applicano comunque alle divisioni ereditarie, alle donazioni fra coniugi e fra parenti in linea retta e ai testamenti, nonché agli atti costitutivi, modificativi od estintivi di diritti reali di garanzia e di servitù».
Com’è agevole osservare, quest’ultima previsione svolge una funzione eccettuativa rispetto al resto della disposizione, essendo destinata ad escludere dalla comminatoria di nullità – prevista per gli atti di lottizzazione di terreni ai quali non sia allegato il certificato di destinazione urbanistica – una serie di atti espressamente elencati, tra i quali le «divisioni ereditarie»: ciò non altro significa che, in mancanza di tale previsione derogatoria, anche le divisioni ereditarie sarebbero state sottoposte al regime dettato dall’art. 30 cit.
Orbene, tale previsione non può non riflettersi nella interpretazione delle altre norme del d.P.R. n. 380 del 2001, dovendo ritenersi che il legislatore, ogni volta che ha inteso escludere un determinato tipo di atto dall’applicazione della normativa sanzionatoria dettata in via generale, lo ha detto espressamente. L’interprete, perciò, non può estendere la deroga al di là dei casi espressamente previsti dalla legge (“ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”).
In altri termini, la determinazione dell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 deve tener conto della circostanza che tale articolo non contiene una previsione eccettuativa analoga a quella dell’ultimo comma dell’art. 30 della stessa legge. La mancanza di una tale previsione fornisce conferma alla conclusione secondo cui le divisioni ereditarie non sono sottratte alla comminatoria di nullità posta dall’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001.
5.4.3. – Anche l’interpretazione “secondo lo spirito della legge”, secondo la c.d. «intenzione del legislatore» (art. 12, primo comma, seconda parte, delle preleggi), corrobora tale conclusione.
Il fatto che il legislatore abbia ritenuto di sottrarre le divisioni ereditarie al regime giuridico dettato dall’art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001 per le lottizzazioni di terreni ed abbia ritenuto, invece, di sottoporre le stesse al regime giuridico previsto per i fabbricati abusivi dagli artt. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 corrisponde ad una precisa, quanto razionale, scelta di politica legislativa.
Molto diversa è, infatti, la ratio delle sanzioni comminate dagli artt. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 rispetto a quella della sanzione comminata dall’art. 30, comma 2, dello stesso d.P.R.
Invero, mentre gli artt. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, nel sancire la non negoziabilità inter vivos dei diritti reali relativi a fabbricati abusivi, perseguono lo scopo di colpire un abuso edilizio già consumatosi (con conseguente attualità della lesione all’ordinato assetto del territorio), la disposizione di cui all’art. 30, comma 2, dello stesso d.P.R. ha, invece, il diverso scopo di ostacolare il fenomeno della lottizzazione abusiva, sulla presunzione che la divisione del fondo in lotti sia finalizzata alla futura realizzazione di edifici abusivi.
In realtà, la comminatoria di nullità della lottizzazione abusiva svolge una funzione, non repressiva di illeciti edilizi già consumati, ma preventiva rispetto ad illeciti edilizi ancora da consumarsi, presumendo la legge che la divisione del fondo in lotti sia finalizzata alla realizzazione di edifici abusivi.
Tale funzione meramente preventiva degli abusi edilizi, svolta dall’art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, spiega perché la legge sottragga una serie di atti aventi ad oggetto la lottizzazione di terreni alla comminatoria di nullità. Si tratta di atti che il legislatore, in considerazione della loro natura e della qualità soggettiva dei contraenti, non reputa indici espressivi di un pericolo di abusivismo edilizio.
In particolare, per la divisione di terreni provenienti da eredità, laddove su di essi non sia stato consumato alcun abuso edilizio, il legislatore ha inteso far prevalere l’intento dei coeredi di sciogliersi da una comunione che – in quanto originata da una successione mortis causa – essi non hanno voluto; ritenendo di non poter presumere che i coheredes, che intendano sciogliersi dalla comunione dei beni ereditari, abbiano – per ciò stesso – l’ulteriore intento di destinare il terreno ricevuto in eredità a scopo edificatorio illecito.
In sostanza, la diversa “ratio” della nullità di cui all’art. 30, comma 2, del d.P.R., rispetto a quella di cui all’art. 46, comma 1, dello stesso d.P.R., spiega perché la legge escluda la comminatoria di nullità solo per lo scioglimento della comunione ereditaria relativa a terreni, e non anche per lo scioglimento della comunione ereditaria relativa ad edifici abusivi, prevalendo in tale ultimo caso l’intento del legislatore di sanzionare l’illecito già consumato.
Anche sotto tale profilo, risulta corroborata la conclusione secondo cui l’atto di scioglimento della comunione ereditaria che abbia ad oggetto edifici e sia privo delle menzioni urbanistiche è nullo ai sensi degli artt. 46 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47.
5.5. – In definitiva, sulla base degli argomenti svolti nei paragrafi che precedono, la seconda questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite può essere risolta con l’enunciazione – ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc. civ. – del seguente principio di diritto:
«Gli atti di scioglimento della comunione ereditaria sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità, prevista dall’art. 46, comma 1, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (già art. 17 della legge 28 febbraio 1985, n. 47) e dall’art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, per gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici o a loro parti dai quali non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria».
6. – Rimangono da verificare le implicazioni che le conclusioni cui si è pervenuti, relativamente allo scioglimento della comunione ereditaria in generale, hanno sulla divisione “giudiziale” dell’eredità.
Le questioni da esaminare sono due: la prima, di carattere più generale, attiene all’applicabilità alla divisione giudiziale dell’eredità del medesimo regime che vale per la divisione convenzionale; la seconda concerne la possibilità di procedere ad una divisione giudiziale parziale dell’asse ereditario, con esclusione dell’edificio
abusivo.
6.1. – Con riguardo alla prima questione, va ricordato come questa Suprema Corte abbia già avuto occasione di precisare che la disposizione di cui all’art. 17, comma 1, della legge n. 47 del 1985 (ora art. 46, comma 1, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) si applica non solo alle “divisioni volontarie”, ossia a quelle contrattuali, ma anche alle divisioni giudiziali, risultando, in caso contrario, oltremodo agevole per i condividenti, mediante il ricorso al giudice, l’elusione della norma imperativa in questione (Cass., Sez. 2, n. 15133 del 28/11/2001; Cass., Sez. 2, n. 630 del 17/01/2003).
Il principio si pone in linea con quanto la giurisprudenza di legittimità ha affermato in tema di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di edifici o di loro parti; laddove questa Corte ha statuito che non può essere emanata sentenza di trasferimento coattivo, ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., in assenza di dichiarazione – contenuta nel preliminare o prodotta successivamente in giudizio – sugli estremi della concessione edilizia, che costituisce requisito richiesto a pena di nullità dall’art. 17 della legge n. 47 del 1985 ed integra una condizione dell’azione ex art. 2932 cod. civ., non potendo tale pronuncia realizzare un effetto maggiore e diverso da quello possibile alle parti nei limiti della loro autonomia negoziale (Cass., Sez. 6 – 2, n. 8489 del 29/04/2016 ; analogamente, Cass., Sez. 6 – 2, n. 1505 del 22/01/2018).
Sul punto, e con riferimento alla fattispecie per cui è causa, va ribadito come l’ordinamento giuridico non possa consentire che le parti, attraverso il ricorso al giudice, conseguano un effetto giuridico ad esse precluso per via negoziale, così aggirando il complesso sistema di sanzioni posto a tutela dell’ordinato assetto del territorio; né il giudice potrebbe – contraddittoriamente – da un lato dichiarare la nullità delle divisioni negoziali poste in essere in violazione degli artt. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40 della legge n. 47 del 1985 e, dall’altro, disporre la divisione giudiziale dei fabbricati abusivi.
Invero, la regolarità edilizia del fabbricato in comunione, come costituisce presupposto giuridico della divisione convenzionale, parimenti costituisce presupposto giuridico della divisione giudiziale; più precisamente, costituisce condizione dell’azione ex art. 713 cod. civ. sotto il profilo della “possibilità giuridica” (in questo senso, in tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita di un immobile, Cass., Sez. Un., n. 23825 del 11/11/2009, secondo cui la sussistenza della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, di cui all’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, rilasciata dal proprietario o da altro avente titolo, attestante l’inizio dell’opera in data anteriore al 2 settembre 1967, non costituisce un presupposto della domanda, bensì una condizione dell’azione, che può intervenire anche in corso di causa e sino al momento della decisione della lite; da ultimo, Cass., Sez. 2, n. 6684 del 07/03/2019).
Non può pertanto il giudice disporre lo scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria) avente ad oggetto fabbricati, senza osservare le prescrizioni dettate dall’art. 46 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985, rispettivamente applicabili a seconda che l’edificio sia stato costruito successivamente o anteriormente alla entrata in vigore della legge n. 47 del 1985.
Essendo la regolarità edilizia del fabbricato posta a presidio dell’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio, la carenza della documentazione attestante tale regolarità è rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio (Cass., Sez. Un., n. 23825 del 11/11/2009, cit.); parimenti, è rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, il mancato esame di tale documentazione da parte del giudice.
Sul punto, va pertanto enunciato il seguente principio di diritto:
«Quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall’art. 46 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall’art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 cod. civ., sotto il profilo della “possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell’edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio».
6.2. – Con riguardo alla diversa questione relativa alla possibilità di procedere ad una divisione parziale dell’asse ereditario, con esclusione dell’edificio abusivo che ne faccia parte, tale possibilità potrebbe apparire, ad un primo esame, preclusa per il fatto di porsi in contrasto col principio della c.d. “universalità” della divisione ereditaria, in forza del quale la divisione dell’eredità deve comprendere, di norma, tutti i beni facenti parte dell’asse ereditario.
Com’è noto, a differenza dello scioglimento della comunione ordinaria (che ha sempre ad oggetto le singole cose comuni, atomisticamente considerate), lo scioglimento della comunione ereditaria si presenta per sua natura “universale”, nel senso che deve comprendere tutte le situazioni giuridiche facenti parte dell’asse ereditario. Si tratta di un principio che, pur non trovando esplicita enunciazione nel diritto positivo, è comunque desumibile dal sistema e trova la sua ragion d’essere nell’esigenza di garantire agli eredi l’attribuzione di porzioni tra loro omogenee e proporzionali ai valori delle rispettive quote di partecipazione alla comunione.
Nondimeno, la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell’affermare che il principio dell’universalità della divisione ereditaria non è assoluto e inderogabile, in quanto, oltre a trovare eccezioni legislativamente previste (artt. 713, terzo comma; 720; 722; 1112 cod. civ.), può essere derogato dall’accordo unanime dei condividenti.
Tale conclusione poggia sul disposto dell’art. 762 cod. civ., il quale, stabilendo che l’omissione di uno o più beni dell’eredità non dà luogo a nullità della divisione, ma determina solo la necessità di procedere ad un supplemento della stessa, sancisce, implicitamente, la piena validità ed efficacia della “divisione parziale” ed esclude la possibilità di considerare tale divisione come una struttura negoziale provvisoria e priva di autonomia (cfr. Cass., Sez. 2, n. 8448 del 03/09/1997, che ha affermato l’esperibilità dell’azione di rescissione per lesione oltre il quarto, ai sensi dell’art. 763 cod. civ., anche rispetto alla sola divisione parziale).
Questa Suprema Corte ha perciò affermato che è possibile una “divisione parziale” dei beni ereditari (in questo senso, Cass., Sez. Un., n. 1323 del 16/03/1978; Cass., Sez. Un., n. 1145 del 24/03/1977), sia per via contrattuale, allorquando vi sia apposito accordo tra tutti i coeredi, sia per via giudiziale, quando, essendo
stata richiesta tale divisione da uno dei coeredi, gli altri non amplino la domanda, chiedendo a loro volta la divisione dell’intero asse (Cass., Sez. 2, n. 6931 del 08/04/2016; Cass., Sez. 2, n. 5869 del 24/03/2016; Cass., Sez. 2, n. 573 del 12/01/2011; Cass., Sez. 2, n. 10220 del 29/11/1994; per l’affermazione del carattere abnorme dell’ordinanza del giudice che approvi un progetto di divisione parziale dei beni ereditari in difetto di consenso esplicito di tutti i condividenti, v. Cass., Sez. 2, n. 4699 del 24/05/1990; Cass., Sez. 2, n. 1297 del 23/02/1980; Cass., Sez. 2, n. 1012 del 12/02/1980).
Con la divisione parziale dei beni ereditari, ciò che viene attribuito a ciascun partecipante assume la natura di acconto sulla porzione spettante in sede di divisione definitiva. I beni non divisi rimangono in comunione (Cass., Sez. 2, n. 905 del 09/02/1980; Cass., Sez. 1, n. 1398 del 16/05/1973) e tale comunione conserva la sua originaria natura ereditaria, con la conseguenza che al suo scioglimento sono applicabili i principi, anche di carattere processuale, propri della divisione ereditaria (Cass., Sez. Un., n. 1323 del 16/03/1978; Cass., Sez. 2, n. 8448 del 03/09/1997) e che l’ultima porzione da attribuirsi va determinata, salvo patto contrario, attraverso una valutazione globale di tutti i beni, quelli già divisi e quelli rimasti in comunione, secondo un criterio uniforme e riferito allo stesso
momento temporale (Cass., Sez. Un., n. 1145 del 24/03/1977).
Alla luce dei principi appena richiamati, deve ritenersi certamente ammissibile la divisione giudiziale parziale dell’asse ereditario con esclusione del fabbricato abusivo che ne faccia parte, quando vi sia la concorde volontà di tutti i coeredi.
L’esclusione del fabbricato abusivo dall’atto di scioglimento della comunione, infatti, rende tale atto conforme al disposto degli artt. 46 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 e lo sottrae alla comminatoria di nullità ivi prevista.
Il giudice, perciò, non può sottrarsi al dovere di procedere alla divisione parziale con esclusione del fabbricato abusivo, quando uno dei coeredi abbia proposto domanda in tal senso (eventualmente anche in corso di causa, mediante la riduzione della originaria domanda di divisione) e vi sia il consenso degli altri coeredi
convenuti, nel senso che questi ultimi si astengano dal chiedere la divisione dell’intero asse.
Rimane da stabilire se uno dei coeredi possa validamente opporsi alla domanda di divisione giudiziale parziale dell’asse ereditario, proposta da altro coerede, con la sola esclusione del fabbricato abusivo.
Per dare risposta a tale quesito, occorre considerare che la necessità del consenso di tutti i coeredi alla divisione parziale dell’eredità ha come suo presupposto logico la giuridica divisibilità di tutti i beni ereditari.
Quando tutti i beni ereditari sono giuridicamente divisibili, la pretesa di uno dei coeredi di ottenere, secondo una propria scelta di convenienza, solo una divisione parziale dell’eredità, facendo proseguire la comunione ereditaria per taluni cespiti, deve essere necessariamente coniugata col diritto di ciascuno dei condividenti di ottenere la divisione dell’intero patrimonio ereditario comune.
Come si è detto, ciascuno dei partecipanti alla comunione è titolare di un apposito diritto potestativo di ottenere la divisione (art. 1111, primo comma, cod. civ.); e l’esercizio di tale diritto è indipendente dal consenso degli altri compartecipi, giacché “in communione nemo compellitur invitus detineri”.
Si comprende allora perché, quando sia possibile la divisione universale di tutti i beni ereditari, il diritto di ciascun coerede di chiedere la divisione parziale dei beni comuni debba necessariamente coniugarsi col diritto degli altri coeredi di ottenere la divisione dell’intero asse ereditario: è il diritto di ciascuno ad ottenere la divisione di tutti i beni ereditari ad implicare che possa accedersi alla divisione parziale solo con la concorde volontà di ogni partecipante alla comunione.
Diverso è però il caso in cui, tra i beni costituenti il patrimonio del de cuius, vi sia un fabbricato abusivo.
In tale ipotesi, il coerede che limita la domanda di divisione ai beni diversi dall’edificio abusivo non compie una scelta di convenienza, ma si adegua semplicemente al disposto degli artt. 46 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, che vietano lo scioglimento della comunione relativa ad un tale immobile, per il quale non è possibile indicare nell’atto gli estremi del titolo abilitativo (inesistente).
Non vi è ragione, pertanto, di dar rilievo alla volontà degli altri coeredi, convenuti nel giudizio di divisione, e di consentire loro di opporsi alla domanda di divisione che investa tutti i beni dell’asse ereditario con la sola esclusione di quelli che per legge non sono divisibili.
Diversamente opinando, ne risulterebbe illogicamente compresso il diritto potestativo, spettante ad ogni coerede, di ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria; e si conferirebbe ai coeredi convenuti nel giudizio divisorio il potere di impedire, negando il loro consenso, lo scioglimento della comunione ereditaria con riferimento all’intero complesso dei beni per i quali essa è giuridicamente possibile.
In definitiva, deve ritenersi che il divieto di scioglimento della comunione relativa ad un fabbricato abusivo determina solo una limitata compressione del diritto del coerede di ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria; una compressione che è limitata al detto immobile, ma non riguarda gli altri beni ereditari, per i quali il coerede, ai sensi dell’art. 713, primo comma, cod. civ., ha diritto di chiedere lo scioglimento della comunione.
Sul punto, va enunciato il seguente principio di diritto:
«Allorquando tra i beni costituenti l’asse ereditario vi siano edifici abusivi, ogni coerede ha diritto, ai sensi all’art. 713, primo comma, cod. civ., di chiedere e ottenere lo scioglimento giudiziale della comunione ereditaria per l’intero complesso degli altri beni ereditari, con la sola esclusione degli edifici abusivi, anche ove non vi sia il consenso degli altri condividenti».
7. – Dai principi sopra enunciati discende l’infondatezza anche del secondo profilo della censura formulata col primo motivo, dovendosi ritenere che l’atto di scioglimento della comunione ereditaria è incluso nel novero degli atti tra vivi per i quali gli artt. 46 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 comminano la sanzione della nullità.
Ne consegue il rigetto dell’intero primo motivo di ricorso.
8. – Risolte le questioni di ordine generale relative all’applicabilità degli artt. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985 allo scioglimento della comunione ereditaria, va ora affrontata l’ulteriore questione circa l’applicabilità o meno della comminatoria di nullità di cui alle menzionate disposizioni di legge allo scioglimento della comunione ereditaria relativa ad un edificio abusivo che sia chiesto, in sede di procedura esecutiva immobiliare, dai creditori di uno dei coeredi ai fini della liquidazione della quota a quest’ultimo spettante (nella fattispecie per cui è causa, la curatela del fallimento del coerede ha chiesto lo scioglimento della comunione ereditaria esistente su un edificio abusivo, onde ottenere la liquidazione della quota di comproprietà spettante al fallito, pari a 2/9 dell’intera proprietà).
In particolare, col secondo motivo di ricorso, la ricorrente curatela fallimentare deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985, per avere la Corte di Appello ritenuto di dover negare la divisione dell’edificio abusivo chiesta dalla detta curatela nell’interesse dei creditori, sul presupposto che dovesse escludersi che tale divisione rientrasse tra gli «atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali» che le disposizioni di cui sopra sottraggono alla comminatoria di nullità di cui agli artt. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 2, della legge n. 47 del 1985.
Prima di procedere all’esame della questione di diritto sottoposta, va osservato come quest’ultima si ponga nei medesimi termini sia per la divisione c.d. “endoesecutiva” (la divisione disposta nel corso del processo di espropriazione individuale) sia per la divisione c.d. “endoconcorsuale” (quella – che ricorre nella fattispecie oggetto della presente causa – chiesta in seno alla procedura fallimentare, ma anche alle altre procedure concorsuali), essendo entrambe accomunate dalla necessità, nell’ambito delle rispettive procedure esecutive, di far cessare lo stato di comunione e di liquidare la quota spettante al debitore. Per tale ragione, il problema verrà esaminato in termini generali.
A tal fine, va ricordato che l’art. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce (come già l’art. 17 della legge n. 47 del 1985) che «Le nullità di cui al presente articolo non si applicano agli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali. L’aggiudicatario, qualora l’immobile si trovi nelle condizioni previste per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, dovrà presentare domanda di permesso in sanatoria entro centoventi giorni dalla notifica del decreto emesso dalla autorità giudiziaria»; parimenti, l’art. 40, comma 5, della legge n. 47 del 1985 stabilisce che «Le nullità di cui al secondo comma del presente articolo non si applicano ai trasferimenti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali nonché a quelli derivanti da procedure di amministrazione straordinaria e di liquidazione coatta amministrativa» e il comma 6 della stessa disposizione soggiunge che «Nell’ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge».
La Corte territoriale ha ritenuto che queste disposizioni eccettuative – tali in quanto sottraggono alla sanzione della nullità (altrimenti applicabile) gli «atti derivanti da procedure esecutive immobiliari» aventi ad oggetto edifici abusivi – si riferirebbero esclusivamente alle vendite; ed ha fondato tale conclusione, da un lato, sul rilievo che, secondo la normativa asseritamente applicabile ratione temporis, il giudizio di divisione non potrebbe essere qualificato come “atto del processo esecutivo” in quanto sarebbe autonomo rispetto al procedimento di esecuzione e, dall’altro, sull’idea che le disposizioni degli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985 porrebbero “norme eccezionali”, come tali insuscettibili di interpretazione estensiva o analogica.
La ricorrente curatela ha contestato tale interpretazione, sostenendo, al contrario, che non vi sarebbero valide ragioni per ritenere che la divisione richiesta dal curatore fallimentare (avente ad oggetto l’edificio abusivo appartenente al fallito in comunione indivisa) sia sottoposta ad un regime giuridico diverso da quello previsto per le vendite disposte nell’ambito delle procedure esecutive: a suo dire, la divisione dei beni del debitore esecutato o del fallito costituirebbe senz’altro un “atto derivante dalla procedura esecutiva immobiliare” (individuale o concorsuale), come tale ricadente nel regime giuridico eccettuativo previsto dalle richiamate disposizioni.
Questa Corte è chiamata, dunque, a risolvere la seguente questione di diritto: se la divisione di un edificio abusivo che si renda necessaria nell’ambito dell’espropriazione di beni indivisi (di cui al capo V del titolo I del libro III del codice di procedura civile) (divisione c.d. “endoesecutiva”) o nell’ambito delle procedure concorsuali (divisione c.d. “endoconcorsuale”), sia vietata in quanto colpita dalla comminatoria di nullità prevista per gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi ovvero sia sottratta a tale comminatoria in forza delle disposizioni eccettuative di cui all’art. 46, comma 5 del d.P.R. n. 380 del 2001 e all’art. 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985.
Il Collegio ritiene che la divisione endoesecutiva e quella endoconcorsuale vadano ricomprese tra gli atti sottratti alla comminatoria di nullità di cui agli artt. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40 della legge n. 47 del 1985. Tale conclusione è imposta da plurimi argomenti qui di seguito illustrati.
8.1. – Com’è noto, nell’ambito della disciplina dell’espropriazione forzata di cui al vigente codice di procedura civile, l’art. 599 cod. proc. civ. prevede che i beni indivisi possano essere sottoposti a pignoramento «anche quando non tutti i comproprietari sono obbligati verso il creditore».
In tali casi, l’art. 600, primo comma, cod. proc. civ. stabilisce che «Il giudice dell’esecuzione, su istanza del creditore pignorante o dei comproprietari e sentiti tutti gli interessati, provvede, quando è possibile, alla separazione della quota in natura spettante al debitore»; il secondo comma della medesima disposizione – come sostituito dall’art. 2, comma 3, lett. e), del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 – soggiunge poi che «Se la separazione in natura non è chiesta o non è possibile, il giudice dispone che si proceda alla divisione a norma del codice civile, salvo che ritenga probabile la vendita della quota indivisa ad un prezzo pari o superiore al valore della stessa, determinato a norma dell’articolo 568».
A fronte di tale vigente normativa, la prima questione da risolvere è quella se il novello testo del secondo comma dell’art. 600 cod. proc. civ. – che, come si dirà, accentua, rispetto alla disciplina precedente, il ruolo affidato alla divisione nell’ambito dell’espropriazione forzata dei beni indivisi – sia applicabile ratione temporis alla controversia in esame (come sostiene la ricorrente) ovvero non sia ad essa applicabile (come sostiene la Corte di Palermo), per essere stata la domanda di divisione proposta (con atto di citazione del 22 luglio 2003) prima dell’entrata in vigore della nuova disposizione.
La questione va risolta sulla base del disposto dell’art. 2, comma 3-sexies, del richiamato d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (aggiunto dal comma 6 dell’art. 1, della legge 28 dicembre 2005, n. 263 e modificato dall’art. 39-quater del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51), a tenore del quale il nuovo testo del secondo comma dell’art. 600 cod. proc. civ. si applica anche alle procedure esecutive pendenti alla data della sua entrata in vigore (1° marzo 2006), salvo che sia stata già ordinata la vendita (che, in tal caso, dovrà aver luogo con l’osservanza delle norme precedentemente in vigore).
Nella specie, dunque, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la nuova disposizione deve ritenersi applicabile al presente giudizio di divisione, nel quale la vendita del cespite non è stata disposta; ciò, peraltro, in coerenza col principio “tempus regit actum”, che regola – in via generale – l’efficacia temporale delle norme processuali.
8.2. – Dall’applicabilità alla presente controversia del nuovo testo dell’art. 600 cod. proc. civ. discende la necessità di rivedere la conclusione della Corte territoriale circa l’asserita autonomia che andrebbe riconosciuta alla divisione endoesecutiva rispetto al processo di esecuzione.
E infatti, mentre l’originario testo dell’art. 600 cod. proc. civ. prevedeva che – qualora non fosse possibile la separazione della quota in natura spettante al debitore – il giudice poteva ordinare indifferentemente la vendita della quota indivisa o la divisione del bene, scegliendo tra tali due opzioni secondo criteri di opportunità e convenienza (cfr. Cass., Sez. 3, n. 10334 del 17/05/2005), il nuovo testo dell’art. 600 configura invece il giudizio divisorio come lo sviluppo normale di ogni procedura di espropriazione di beni indivisi.
È vero che la nuova norma attribuisce preferenza alla separazione in natura della quota spettante al debitore; tuttavia, tale preferenza è soltanto teorica, subordinata com’è alla possibilità materiale di tale separazione e alla richiesta del creditore pignorante o dei comproprietari.
In mancanza, «il giudice dispone che si proceda alla divisione a norma del codice civile».
La divisione è, dunque, la via ordinaria, indicata dalla legge, per attuare l’espropriazione dei beni indivisi; considerato, peraltro, che la possibilità di procedere alla vendita della quota indivisa (per sua natura scarsamente appetibile sul mercato) è normativamente relegata ad un ruolo “residuale” e di assoluta eccezione, essendo condizionata al verificarsi di una situazione di fatto di difficile realizzazione pratica (ossia al caso in cui la vendita della quota appaia, sulla base di un giudizio prognostico ex ante, in grado di assicurare un prezzo almeno pari al valore della quota stessa, determinato ai sensi dell’art. 568 cod. proc. civ.) (cfr. Cass., Sez. 3, n. 20817 del 20/08/2018; Cass., Sez. 3, n. 6072 del 18/04/2012).
In sostanza, sulla base del vigente testo dell’art. 600 cod. proc. civ., deve ritenersi che la liquidazione della quota di comproprietà indivisa su di un bene avviene, di norma, proprio tramite lo scioglimento della comunione su quel bene. La divisione del bene è, dunque, strutturalmente funzionale all’espropriazione forzata della quota.
Non rileva in senso contrario il fatto che il giudizio divisionale endoesecutivo sia comunque un giudizio di cognizione, distinto – soggettivamente ed oggettivamente – dal procedimento di espropriazione. Esso, nondimeno, è inserito nell’ambito del processo di espropriazione, del quale costituisce una parentesi, finendo per costituirne un’articolazione procedimentale.
Di ciò si trae conferma dal nuovo testo dell’art. 181 disp. att. cod. proc. civ. (introdotto dall’art. 2, comma 3 ter, lett. f, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80), che assegna al giudice dell’esecuzione – previa sospensione della procedura esecutiva ai sensi dell’art. 601 cod. proc. civ. – la competenza funzionale alla trattazione del giudizio di divisione, da svolgersi secondo l’ordinaria disciplina di cui agli artt. 784 e segg. cod. proc. civ.
Il legame di dipendenza strumentale del giudizio divisorio rispetto al procedimento espropriativo è poi confermato dalla speciale legittimazione ad agire per lo scioglimento della comunione che è riconosciuta al creditore procedente (ma anche all’interventore munito di titolo esecutivo); legittimazione che trova il proprio
fondamento nel credito per la soddisfazione del quale l’azione esecutiva è esercitata, di tal che il giudizio di divisione dei beni pignorati non può essere iniziato e, se iniziato, non può proseguire ove venga meno in capo all’attore la qualità di creditore e, con essa, la legittimazione e lo stesso interesse ad agire (cfr. Cass., Sez. 3, n. 6072 del 18/04/2012).
In definitiva, contrariamente da quanto ritenuto dai giudici di appello, deve concludersi che il giudizio di divisione endoesecutiva non è affatto autonomo dal processo di espropriazione, ma si trova in rapporto di “strumentalità necessaria” rispetto ad esso.
8.3. – Infondata è anche l’affermazione della Corte territoriale secondo cui le disposizioni degli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985 porrebbero “norme eccezionali”, come tali insuscettibili di interpretazione estensiva o analogica.
A parte la dibattuta questione circa la possibilità di sottoporre le norme eccezionali ad interpretazione estensiva ovvero la necessità di sottoporle ad interpretazione restrittiva, nella specie va del tutto escluso che le norme poste dagli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985 possano qualificarsi “eccezionali”.
Le norme eccezionali, secondo la definizione normativa, sono quelle che «fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi» (art. 14 disp. prel. cod. civ.); esse, dunque, possono essere tali solo nel confronto con altre norme di legge (espresse) ovvero con regole o principi generali dell’ordinamento giuridico (anche inespressi, ma ricavabili dal sistema per via interpretativa).
Secondo la dottrina e la giurisprudenza, una norma è eccezionale innanzitutto quando “deroghi” ad altra norma di carattere generale, altrimenti applicabile; a tal fine, non basta che essa costituisca un complemento o una specializzazione della disciplina comune, ma è necessario che rappresenti un’interruzione della consequenzialità logica della norma più ampia, ponendo una disciplina contrastante ed antinomica rispetto a quella posta dalla norma generale.
Orbene, nella specie, non può dirsi che le disposizioni eccettuative di cui agli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985 dettino una disciplina contrastante con la ratio legis posta a fondamento della comminatoria di nullità di cui all’art. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e all’art. 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985. Anzi, l’esclusione di tale comminatoria per gli «atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali» si colloca proprio nel solco della detta ratio normativa.
Se è vero, infatti, che – come si è detto – la comminatoria di nullità degli atti inter vivos che abbiano ad oggetto edifici abusivi ha natura sanzionatoria nei confronti del proprietario di essi e dei suoi eredi, precludendo loro la possibilità di negoziare i diritti reali relativi a tali edifici, è evidente come tale comminatoria di nullità non abbia ragion d’essere rispetto agli atti strumentali all’espropriazione forzata intrapresa nei confronti del proprietario del fabbricato abusivo.
Gli atti di espropriazione dei beni pignorati o di quelli soggetti a procedura concorsuale, invero, lungi dal promanare dalla volontà negoziale del proprietario del fabbricato abusivo, costituiscono invece atti che quest’ultimo deve patire nell’ambito dell’esecuzione forzata intrapresa nei suoi confronti dai creditori. Non si tratta di atti posti in essere ad iniziativa e nell’interesse del proprietario dell’immobile abusivo (che è il debitore esecutato o il fallito), ma di atti posti in essere in suo danno, ad iniziativa e a vantaggio dei suoi creditori.
Non avrebbe senso, allora, una comminatoria di nullità che si estendesse agli atti traslativi posti in essere nell’ambito delle procedure esecutive individuali o concorsuali, perché una comminatoria di tal fatta, piuttosto che svolgere la sua tipica funzione di sanzione nei confronti del proprietario dell’edificio abusivo, finirebbe – al contrario – per avvantaggiare quest’ultimo in pregiudizio dei creditori.
Deve ritenersi, perciò, che le disposizioni di cui agli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985, lungi dal derogare al disposto del comma 1 dell’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e del comma 2 dell’art. 40 della legge n. 47 del 1985, ne costituiscono invece il coerente completamento.
Va escluso anche che le disposizioni di cui agli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985 deroghino ai principi generali dell’ordinamento giuridico.
Al contrario, la possibilità di espropriare i fabbricati abusivi, nell’ambito delle procedure esecutive individuali e concorsuali, è necessaria per assicurare ai creditori di chi è proprietario esclusivamente di fabbricati abusivi la medesima tutela giurisdizionale dei diritti che è assicurata ai creditori di chi è proprietario di fabbricati urbanisticamente legittimi, risultando così implicata dai principi costituzionali di cui agli artt. 3, primo comma e 24 Cost. e coerente con essi.
Dunque, le disposizioni eccettuative di cui agli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985, non solo sono in linea con la ratio posta a fondamento della generale comminatoria di nullità di cui ai precedenti commi delle medesime disposizioni, ma si accordano appieno anche coi principi generali dell’ordinamento, dai quali anzi sono implicate.
Deve pertanto escludersi che le disposizioni di cui agli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985 pongano norme che possano essere definite “eccezionali” e che l’interpretazione di esse incontri limiti di sorta.
8.4. – Rimane a questo punto da stabilire cosa debba intendersi per «atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali» (art. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001) e per «trasferimenti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali» (art. 40, comma 5, della legge n. 47 del 1985).
Nessuno dubita che la vendita forzata, posta in essere in sede di esecuzione immobiliare individuale o in sede concorsuale, sia sottratta alla generale comminatoria di nullità prevista per gli atti tra vivi, aventi ad oggetto diritti reali relativi ad edifici, privi delle c.d. menzioni urbanistiche.
Si tratta, in questa sede, di stabilire se tale esclusione dalla comminatoria di nullità valga anche per lo scioglimento della comunione finalizzata alla esecuzione individuale o concorsuale.
Orbene, ritiene il Collegio che le disposizioni eccettuative di cui sopra si applicano anche alle divisioni endoesecutive e a quelle endoconcorsuali.
Innanzitutto, sul piano dell’interpretazione letterale, l’uso del plurale nella espressione «Le nullità di cui al presente articolo non si applicano (..)», contenuta nell’art. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 (ma, analogamente, nell’art. 40, comma 5, della legge n. 47 del 1985) ed il carattere generale e onnicomprensivo di tale rinvio significano chiaramente che il legislatore ha inteso riferirsi all’intera serie degli atti colpiti dalla sanzione della nullità ai sensi della medesima disposizione.
Pertanto, poiché – alla stregua di quanto in precedenza osservato – l’atto di scioglimento della comunione (anche ereditaria) avente ad oggetto fabbricati abusivi rientra tra gli atti tra vivi colpiti dalla comminatoria di nullità di cui agli artt. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40 della legge n. 47 del 1985, deve ritenersi che tale atto, ove afferente a procedure esecutive immobiliari (individuali o concorsuali), sia parimenti compreso tra quelli sottratti alla comminatoria di nullità.
In secondo luogo, poi, sempre sul piano dell’interpretazione letterale, va considerato che il legislatore, con l’espressione «atti derivanti da procedure esecutive immobiliari», mostra di volersi riferire ad un novero di atti più ampio di quelli facenti parte stricto sensu della procedura di espropriazione forzata immobiliare.
Tale locuzione, indubbiamente, è tale da includere non solo le vendite poste in essere nell’ambito della procedura esecutiva, ma anche le divisioni disposte, con separato giudizio, nell’ambito (e previa sospensione) del medesimo procedimento esecutivo.
Anche l’espressione «trasferimenti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali», di cui all’art. 40, comma 5, della legge n. 47 del 1985, è tale da includere gli atti di divisione dell’immobile abusivo; considerato, peraltro, che – come si è detto (supra, par. 5.3.2.) – agli atti divisionali va riconosciuta
efficacia costitutivo-traslativa.
D’altra parte, come sì è veduto, nell’ambito del procedimento di espropriazione della quota, la divisione costituisce lo strumento principale previsto dalla legge per soddisfare il credito de quo agitur.
Impedire la divisione dell’edificio privo di legittimità urbanistica vorrebbe dire, perciò, ridurre l’espropriazione forzata alla vendita della quota indivisa, indirizzandola così verso esiti economicamente irrisori quanto al possibile ricavato.
E invece la legge punta a massimizzare il risultato della esecuzione forzata. In tal senso depongono le disposizioni eccettuative in esame, laddove esse prevedono, in favore dell’aggiudicatario dell’immobile abusivo, la riapertura dei termini per presentare domanda di sanatoria dell’abuso (quando consentita).
In sostanza, sia la lettera delle disposizioni di cui agli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985 sia la loro la ratio normativa depongono nel senso che la divisione “endoesecutiva” e quella “endoconcorsuale” sono sottratte alla comminatoria di nullità prevista per gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi.
Considerato il carattere unitario del fenomeno divisorio, è appena il caso di osservare che non vi sono ragioni per distinguere tra scioglimento della comunione ordinaria e scioglimento della comunione ereditaria: le disposizioni eccettuative sopra esaminate sottraggono entrambe le divisioni alla comminatoria di nullità di cui agli artt. 46, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, comma 2, della legge n. 47 del 1985.
8.5. – In definitiva, deve ritenersi che, con le disposizioni di cui agli artt. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 e 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985, la legge ha inteso esentare dalla comminatoria di nullità tutti gli atti finalizzati a portare a termine la procedura esecutiva immobiliare, individuale o concorsuale.
Tra tali atti va compresa la divisione dell’edificio abusivo, di cui il debitore sia comproprietario pro quota, da disporsi con apposito giudizio divisorio, comunque inserito nell’ambito del processo di espropriazione individuale; e vanno compresi gli atti di divisione, contrattuali o giudiziali, promossi dal curatore in seno al procedimento fallimentare disciplinato dal r.d. 16 marzo 1942 n. 267 e successive modificazioni (la cui disciplina continua ad applicarsi alla presente causa ratione temporis, considerato che il “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, introdotto dal d.lgs. 12/01/2019 n. 14, non sì applica alle procedure di fallimento pendenti alla data della sua entrata in vigore, le quali – ai sensi dell’art. 390 d.lgs. n. 14 del 2019 – continuano ad essere regolate dalla precedente disciplina) o dall’omologo organo gestorio delle altre procedure concorsuali.
Sul punto va dunque enunciato, ai sensi dell’art. 384, primo comma, cod. proc. cìv., il seguente principio di diritto:
«In forza delle disposizioni eccettuative di cui all’art. 46, comma 5 del d.P.R. n. 380 del 2001 e all’art. 40, commi 5 e 6, della legge n. 47 del 1985, lo scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria) relativa ad un edificio abusivo che si renda necessaria nell’ambito dell’espropriazione di beni indivisi (divisione c. d. “endoesecutiva o nell’ambito del fallimento (ora, liquidazione giudiziale) e delle altre procedure concorsuali (divisione c. d. “endoconcorsuale”) è sottratta alla comminatoria di nullità prevista, per gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi, dall’art. 46, comma 1, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall’art. 40, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47».
Alla stregua di tale principio, va accolto il secondo motivo di ricorso e va cassata sul punto la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale.
9. – In definitiva, va rigettato il primo motivo di ricorso; va accolto il secondo; la sentenza impugnata va cassata con riferimento alla censura accolta, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo, che si conformerà al principio di diritto enunciato a conclusione dell’esame della detta censura.
Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese relative al presente giudizio di legittimità.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, addì 16 aprile 2019.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 16 settembre 2018, n. 25836, per SS.UU, 07 ottobre 2019, n. 25021, in tema di divisione ereditaria
SS.UU, 07 ottobre 2019, n. 25021, in tema di divisione ereditaria
In tema di contributo di solidarietà per i Senatori – SS.UU, 20 novembre 2020, n. 26494
Civile Sent. Sez. U Num. 26494 Anno 2020
Presidente: LOMBARDO LUIGI GIOVANNI
Relatore: CONTI ROBERTO GIOVANNI
Data pubblicazione: 20/11/2020
SENTENZA
sul ricorso 5801-2013 proposto da:
ROEHRSSEN FRANCA, REBECCHINI FLAVIA, REBECCHINI LAVINIA, REBECCHINI LIVIA, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA CRESCENZIO 2, presso lo studio dell’avvocato GUGLIELMO FRANSONI, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato PASQUALE RUSSO;
– ricorrenti –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– resistente –
avverso la decisione n. 4452/2012 della COMMISSIONE TRIBUTARIA CENTRALE di ROMA, depositata il 16/07/2012.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/10/2020 dal Consigliere ROBERTO GIOVANNI CONTI;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Guglielmo Fransoni ed Eugenio De Bonis per l’Avvocatura Generale dello Stato.
FATTI DI CAUSA
A seguito del decesso del senatore Rebecchini il coniuge Roherssen Franca riceveva il contributo di solidarietà di cui all’art.8 del Regolamento del Fondo di solidarietà fra gli onorevoli senatori determinato in £. 112.142.438, sul quale il Senato operava una ritenuta alla fonte a titolo di imposta di £. 35.512.804, liquidando alla beneficiaria la somma di £. 76.729.634.
Successivamente, il coniuge ed i figli del Senatore Rebecchini proponevano istanza dì rimborso della ritenuta fiscale operata, sostenendo che l’assegno di solidarietà, in quanto tratto dal Fondo di solidarietà, non costituiva reddito ma somma capitale del tutto analoga a quella corrisposta in dipendenza di contratti di
assicurazione sulla vita, esenti da Irpef. Aggiungevano gli istanti che se si fosse inteso assimilare l’assegno anzidetto all’indennità di buonuscita prevista per gli statali la stessa, secondo quanto chiarito da Corte cost. n. 82/1973, doveva considerarsi esente da imposizione diretta, ponendosi accanto alla pensione ed alle altre indennità per fini previdenziali e/o assistenziali, in ogni caso dovendo pervenirsi alle medesime conclusioni ove l’assegno di solidarietà per senatori fosse stato assimilato all’indennità di buonuscita ENPAS.
Impugnato il silenzio rifiuto innanzi alla Commissione tributaria di primo grado di Roma anche in relazione ai principi affermati da Corte cost. n. 178/1986 in tema di parziale illegittimità costituzionale del prelievo fiscale sull’indennità di buonuscita erogata dall’ENPAS e al contenuto dell’art. 4, comma 3 ter del d.l. n. 70/1988, il giudice di primo grado accoglieva il ricorso ritenendo che il contributo di solidarietà in esame, traendo origine in via esclusiva da somme erogate dal Fondo di solidarietà sulla base di un contributo di previdenza corrisposto del senatore nella misura del 100 °/0, era stato sottoposto ad imposizione fiscale in violazione dell’art. 17 del T.U. delle imposte dirette. Tale disposizione, recependo i principi fissati da Corte cost. n. 178/1986, aveva previsto, nel disciplinare la tassazione dell’indennità di fine rapporto, che dalla stessa fosse dedotto il contributo previdenziale a carico del beneficiario. Secondo la Commissione di primo grado, pertanto, nessuna ritenuta poteva essere operata sull’assegno di solidarietà corrisposto agli eredi del senatore Rebecchini per mancanza del presupposto impositivo.
La Commissione tributaria di secondo grado, investita dall’impugnazione proposta dall’Intendenza di finanza di Roma, accoglieva l’appello sul presupposto che non era stata fornita la prova che il fondo che aveva erogato il contributo fosse stato costituito in via esclusiva con il contributo dei singoli senatori, né conoscendosi la percentuale di tale contribuzione, dovendo l’onere della prova essere assolto dai contribuenti.
Gli eredi Rebecchini proponevano ricorso innanzi alla Commissione tributaria centrale di Roma che, con ordinanza istruttoria del 6 giugno 2011, disponeva di acquisire elementi informativi presso il Senato della Repubblica in ordine: a) alla natura giuridica del fondo di solidarietà; b) alla sottoposizione a tassazione dell’indennità parlamentare dalla quale veniva prelevato il contributo mensile destinato al Fondo di solidarietà ed all’eventuale aliquota applicata; c) all’applicazione di imposta sulla somma prelevata e destinata al fondo di solidarietà.
Con nota del 22 settembre 2011 il Senato della Repubblica riscontrava la richiesta, precisando, per quel che qui rileva, che il contributo di solidarietà era istituto legato allo status di parlamentare, estraneo al sistema di diritto comune e definito dall’autonomo ordinamento interno delle Camere. Chiariva che l’ammontare del contributo era pari all’80 % dell’importo mensile lordo dell’indennità parlamentare, moltiplicato per ogni anno di mandato. Il fondo di solidarietà, veniva ancora chiarito, era alimentato dal versamento di un contributo mensile pari al 6.70 per cento dell’indennità parlamentare lorda- che, moltiplicata per i dodici mesi dell’anno, risulta pari all’80 % dell’indennità mensile lorda- interamente a carico dei parlamentari, pure aggiungendo che la somma ritenuta mensilmente, a titolo di contribuzione in favore del Fondo di solidarietà, era considerata onere deducibile ai fini della formazione dell’imponibile fiscale, infine evidenziando che il contributo di solidarietà non poteva essere giuridicamente assimilato né al trattamento di fine rapporto né all’indennità di buonuscita.
Successivamente, la Commissione tributaria centrale, con la sentenza indicata in epigrafe, respingeva il ricorso degli eredi del Senatore Rebecchini, ritenendo la “piena assimilazione del vitalizio in questione al reddito di lavoro dipendente, in corretta applicazione del disposto dell’art. 47, lett. h) del d.P.R. n.917/1986”. Secondo la Commissione centrale l’assegno liquidato agli eredi era stato correttamente sottoposto a tassazione, applicata secondo il regime della tassazione separata.
Gli eredi del senatore Rebecchini hanno proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo.
L’Agenzia delle entrate si è costituita tardivamente al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione orale della causa.
All’esito dell’udienza camerale del 19.9.2019, la Sezione tributaria ha disposto la trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l’eventuale rimessione della causa alle Sezioni Unite in relazione alla questione di massima di particolare importanza così sintetizzata:
Se l’assegno di fine mandato (o di solidarietà) erogato ai Senatori in caso di mancata rielezione, ovvero corrisposto ai beneficiari designati o agli eredi legittimi in caso di decesso del parlamentare nel corso della legislatura, e gravante sul “Fondo di solidarietà fra gli onorevoli senatori”, abbia natura di retribuzione differita, sia manifestazione di capacità contributiva e debba essere sottoposto a tassazione al momento della sua erogazione, oppure se esso abbia natura di “indennità equipollente” al TFR e debba andare esente da imposizione in quanto costituito esclusivamente attraverso contributi a carico del Senatore beneficiario.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
La causa è stata posta in decisione all’udienza pubblica del 6 ottobre 2020, nel corso della quale il Procuratore generale si è riportato alla requisitoria scritta, nella quale aveva concluso per il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo di ricorso proposto le ricorrenti prospettano la violazione o falsa applicazione degli artt.16, comma 1, lett.a) e 17, comma 1, del TUIR- d.P.R. n.917/1986- nella versione vigente ratione temporis, in relazione all’art. 111, comma settimo, Cost. sostenendo che la CTC avrebbe erroneamente applicato le argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale n. 289 del 1994 a proposito del trattamento fiscale privilegiato riconosciuto ai vitalizi dei parlamentari, tralasciando di considerare che oggetto della controversia era il contributo di solidarietà e non il vitalizio, peraltro poi concludendo nel senso della piena assimilabilità del vitalizio al reddito di lavoro dipendente.
1.1. Secondo i ricorrenti il contributo di solidarietà sarebbe da qualificare come indennità equipollente al trattamento di fine rapporto, ai sensi dell’art. 17, c.1, lett. a), del TUIR che assoggetta a tassazione separata sia il trattamento di fine rapporto che le indennità equipollenti, comunque denominate, commisurate alla durata dei rapporti di lavoro dipendente, compresi quelli di cui alle lett. a), d) e g) del comma 1 dell’art.57 (oggi, 50). Essendo formato per intero da contributi a carico del Parlamentare, tale contributo, proseguono le ricorrenti, è esente da imposizione per espressa previsione dell’art. 17 (oggi 19, comma 2 bis, ultima parte) TUIR, in base al principio posto dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 178 del 1986, secondo cui le indennità percepite in relazione alla cessazione del rapporto di lavoro, formate anche da contribuzioni poste a carico dei beneficiari, non sono imponibili senza che, a tal fine, rilevi la circostanza che in tal modo non si applichi alcuna forma di tassazione. A tale stregua, l’imponibilità del contributo di solidarietà va esclusa, trattandosi di un emolumento formato per intero da contribuzioni di tipo previdenziale poste a totale carico dei Parlamentari.
1.2. Le ricorrenti hanno in conclusione posto alla Corte il seguente quesito di diritto: “se sia o meno conforme a diritto, ed in particolare agli artt. 16, comma 1 e 17, comma 1 del TUIR, nella versione vigente ratione temporis, la decisione dei giudici a quibus la quale, non tenendo conto del fatto che il contributo di solidarietà spettante agli eredi del parlamentare deceduto in costanza di mandato costituisce un’indennità equipollente al trattamento di fine rapporto formata per intero da contribuzioni previdenziali obbligatorie poste a carico del parlamentare medesimo, ne riconosce l’imponibilità negando il rimborso della ritenuta alla fonte operata su tale contributo dal competente ramo del Parlamento al momento della relativa erogazione”.
L’ordinanza interlocutoria della sezione tributaria.
2. Nell’ordinanza interlocutoria n. 32571/2019 la Sezione tributaria ricorda che l’assegno dì fine mandato (o assegno di solidarietà se corrisposto a terzi beneficiari) è erogato sulla base di contributi posti interamente a carico dei Senatori, ai quali è trattenuto mensilmente il 6,7% dell’indennità lorda, corrispondente a circa l’80% dell’indennità mensile lorda. La somma viene dedotta annualmente dal reddito imponibile ed è sottoposta al regime di tassazione separata, ai sensi dell’art. 17, d.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR).
2.1. Secondo la sezione, seguendo la tesi difensiva che equipara l’assegno di fine mandato alle indennità equipollenti, si avrebbe come conseguenza che, qualora il Senato elevasse la misura del contributo dì solidarietà ad una percentuale anche molto superiore all’attuale, le somme percepite in forma differita dal Parlamentare sarebbero totalmente esenti da IRPEF, stante il regime di deduzione dall’imponibile delle somme destinate al Fondo di solidarietà e di esenzione da imposizione al momento del versamento dell’indennità.
2.2. Inoltre, essendo tale Fondo alimentato mediante distrazione di una parte dell’indennità percepita dal Senatore, la stessa avrebbe necessariamente natura sostanziale di retribuzione differita, corrisposta in dipendenza dalla cessazione dall’incarico. A sostegno di tale assunto, viene richiamata Cass. n. 8200/2007 che, a proposito delle quote del Fondo di previdenza aziendale dell’Isveimer corrisposte agli iscritti a seguito della messa in liquidazione dell’ente, ha escluso che esse siano assimilabili a prestazioni corrisposte in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita o di redditi di capitale e che pertanto costituiscano redditi di capitale. Tale pronuncia ha, altresì, escluso la natura risarcitoria di dette indennità, affermando che esse, in quanto destinate ad essere erogate dopo la cessazione del rapporto di lavoro, trovano in questo la loro fonte di giustificazione ed, essendo volte a compensare la perdita di redditi futuri, hanno natura di retribuzione differita e funzione previdenziale tale da giustificare l’applicazione analogica del regime fiscale di cui agli artt. 16, 18 e 48 TUIR per il trattamento di fine rapporto e le altre indennità ad esso equiparabili.
2.3. La sezione tributaria, inoltre, richiama Cass. Sez. 6-5, n. 25396/2017 ove si è specificato che l’indennità supplementare corrisposta, all’atto della cessazione dal servizio, dal Fondo di previdenza per i dipendenti del Ministero delle finanze ha funzione esclusivamente previdenziale ed è assimilabile alle “indennità equipollenti” di cui all’art. 17, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, sicché rappresenta una forma di retribuzione differita con applicazione di tassazione separata e non integrale.
2.4. L’ordinanza di rimessione rileva, altresì, che, a differenza di quanto affermato dai ricorrenti, il Senato nel parere reso alla CTC, ha escluso la riconducibilità dell’assegno di solidarietà al trattamento di fine rapporto. Secondo la Sezione rimettente, pertanto, il suddetto contributo avrebbe natura di retribuzione a corresponsione posticipata e sarebbe manifestazione di capacità contributiva la quale, non essendo assoggettata ad imposizione al momento dell’accantonamento, dovrebbe esserlo al momento della sua erogazione, potendo il Senatore giovarsi del beneficio conseguente alla tassazione separata.
Brevi cenni sul trattamento economico dei Senatori.
3. La soluzione della questione prospettata richiede preliminarmente l’esame del complessivo trattamento economico riconosciuto ai Senatori.
3.1. Occorre muovere dall’art. 69 Cost., ove si stabilisce che «I membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita dalla legge».
3.2. In attuazione di tale disposizione, la legge 31 ottobre 1965, n. 1261 disciplina tale indennità, la quale costituisce la componente principale dello status economico del parlamentare, alla quale si affiancano altre componenti aventi natura di rimborsi spese.
3.3. L’art. 1 della citata legge n. 1261 del 1965 attribuisce agli Uffici di Presidenza delle Camere il compito di determinare l’ammontare della indennità mensile in misura tale che non superi il dodicesimo del trattamento complessivo massimo annuo lordo dei magistrati con funzioni di presidente di Sezione della Corte di cassazione ed equiparate. Gli Uffici di Presidenza delle Camere hanno, pertanto, individuato il parametro stipendiale inferiore al trattamento complessivo massimo sopra indicato (l’indennità risulta esser stata parametrata al sedicesimo scatto dell’ottava classe stipendiale dei magistrati di riferimento) pure progressivamente ridotto per effetto di successivi interventi normativi.
3.4. Discussa è la natura giuridica dell’indennità parlamentare in oggetto e la sua equiparabilità alla nozione dì stipendio, specie in relazione alla specificità della carica ricoperta dal parlamentare. Ma la questione, pure affrontata da questa Corte (cfr. Cass. Sez. 3, n. 13445 del 2004; Cass., S.U., 8 luglio 2019, n. 18266) e della Corte costituzionale- Corte cost. n. 379 del 1996; Corte cost. n. 289 del 1994; Corte cost. n. 454 del 1997; Corte cost. n. 52 del 1997- non va qui ulteriormente approfondita, non assumendo i tratti della rilevanza, ai fini della decisione del presente contenzioso, nel quale si discute del trattamento fiscale al quale è soggetto l’assegno di solidarietà erogato alla cessazione del mandato parlamentare.
I trattamenti riconosciuti ai Senatori alla cessazione del mandato.
4. Al termine del mandato spetta al Senatore il trattamento pensionistico. Dal 10 gennaio 2012 è stato introdotto il nuovo trattamento previdenziale dei parlamentari, basato sul sistema di calcolo contributivo già adottato per il personale dipendente della Pubblica Amministrazione. Dal punto dì vista terminologico, il nuovo regolamento parlamentare ha utilizzato il vocabolo “pensione” preferendolo a quello di “vitalizio” che invece compariva nella disciplina normativa precedente. Secondo le disposizioni in atto vigenti il diritto al trattamento pensionistico si matura al conseguimento di un duplice requisito, anagrafico e contributivo: l’ex parlamentare ha infatti diritto a ricevere la pensione a condizione di avere svolto il mandato parlamentare per almeno cinque anni e di aver compiuto 65 anni di età. Per ogni anno di mandato oltre il quinto, il requisito anagrafico è diminuito di un anno sino al minimo inderogabile di sessant’anni.
4.1. Vi è, poi, ed è quello che qui più direttamente rileva, l’assegno di fine mandato disciplinato dal Regolamento del Fondo di solidarietà fra gli onorevoli senatori approvato dal Consiglio di Presidenza del 23 ottobre 1975.
4.2. Tale regolamento, sostitutivo del precedente approvato dal Consiglio di Presidenza del Senato del 17 aprile 1969, istituisce un “Fondo di solidarietà” che ha carattere permanente ed al quale è devoluta una quota del contributo di previdenza previsto dal “Regolamento per la Previdenza e assistenza degli onorevoli senatori e loro familiari” (art. 1).
4.3. Oltre a prevedere per i Senatori che non siano stati rieletti un’indennità di reinserimento (artt. 2-7), predeterminata negli importi massimi, e versata con decreto del Presidente del Senato all’inizio di ogni legislatura, tale Fondo disciplina, in caso di decesso del senatore, il contributo di solidarietà (art. 8), che, pur liquidato nella stessa misura dell’indennità di reinserimento, è corrisposto nel corso della legislatura a favore dei beneficiari designati e, in mancanza, al coniuge o, in sua assenza, agli eredi legittimi.
4.4. L’art. 9 rimette al Consiglio di Presidenza la determinazione della quota mensile del contributo di previdenza da devolvere al Fondo ed al quale i senatori Questori, che lo amministrano congiuntamente, presentano annualmente un rendiconto della gestione (art. 11). Sempre l’art. 11 prevede che in caso di disponibilità insufficienti del fondo per la liquidazione dell’indennità/contributo si provvede con anticipazione a carico del bilancio del Senato nella misura strettamente necessaria, aggiungendosi che tale anticipazione sarà restituita dal Fondo mediante storno dei proventi delle contribuzioni mensili dei senatori.
L’art. 12 aggiunge che il Fondo di solidarietà può assumere altri compiti e funzioni, oltre quelli previsti dai precedenti articoli, “aventi finalità previdenziali, mutualistiche e assistenziali”.
4.5. Quanto all’importo del contributo ed alle modalità con le quali esso viene determinato è utile rinviare a quanto indicato dalla nota del Direttore del servizio per le competenze dei parlamentari del 22 settembre 2011 inoltrata alla Commissione tributaria centrale e già richiamata. Con essa si è chiarito che l’ammontare dell’indennità è determinata nella misura dell’80% dell’importo mensile lordo dell’indennità parlamentare, moltiplicato per ogni anno di mandato. Il Fondo di solidarietà su cui grava tale assegno è alimentato dal versamento di un contributo mensile pari al 6,70% dell’indennità lorda, ed è interamente a carico dei Parlamentari. Il Senato ha, altresì, precisato che l’indennità parlamentare è interamente assoggettata ad imposta sui redditi, ai sensi dell’art. 50 TUIR e che la quota trattenuta mensilmente a titolo di contribuzione in favore del Fondo di solidarietà è considerata onere deducibile ai fini della formazione dell’imponibile.
4.6. La nota si conclude affermando che l’assegno di solidarietà, per le sue caratteristiche, non può essere assimilato né al trattamento di fine rapporto, né all’indennità di buonuscita.
Il regime fiscale del trattamento dei parlamentari, con particolare riferimento a quello dei Senatori della Repubblica.
5. Quanto al trattamento fiscale, inizialmente l’art. 5 della I. n. 1261 del 1965 disponeva che l’indennità parlamentare mensile prevista dall’art. 1 della medesima legge, limitatamente ai quattro decimi del suo ammontare e detratti i contributi per la cassa di previdenza dei parlamentari della Repubblica fosse soggetta ad un’imposta unica sostitutiva di quelle di ricchezza mobile, complementare e relative addizionali, con aliquota globale pari al 16%.
5.1. L’indennità mensile era poi assoggettata, nei limiti e con le detrazioni di cui al comma 1, ad un’imposta sostitutiva dell’imposta di famiglia per la quota di reddito imponibile al suo ammontare netto, con aliquota forfetaria pari all’8 per cento. L’indennità mensile e la diaria per il rimborso delle spese di soggiorno previste dall’articolo 32 erano invece considerate esenti da qualsiasi imposta o tributo dovuti sia allo Stato che ad altri enti o a qualsiasi altro effetto.
5.2. L’art. 2, comma 6- bis, I. n. 154 del 1989, aveva introdotto un regime agevolato, dei c.d. vitalizi dei parlamentari, prevedendone l’assoggettamento ad imposta nella misura ridotta del 60% dell’ammontare percepito, analogamente a quanto previsto dall’art. 47, comma 1, lett. h) TUIR, per le rendite vitalizie.
5.3. Il menzionato art. 2, comma sesto-bis è stato poi abrogato ad opera dell’art. 14, comma diciotto, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, in seguito alla sentenza n. 289/1993 della Consulta che lo aveva ritenuto incostituzionale -sotto il profilo dell’irragionevole parificazione del trattamento fiscale del vitalizio dei parlamentari con quello riconosciuto alla rendita vitalizia, nell’ambito di un giudizio di costituzionalità originato da un’ordinanza emessa dalla Corte costituzionale in relazione ai giudizi di costituzionalità proposti dalla Commissione tributaria di primo grado di Biella e dalla Commissione tributaria di primo grado dì Torino ove era in discussione il sistema di tassazione delle pensioni spettanti ai dipendenti pubblici per le quali era previsto un trattamento fiscale più oneroso rispetto a quello introdotto per i vitalizi dei parlamentari.
5.4. Occorre a questo punto passare all’esame delle disposizioni che all’interno del Testo Unico sull’imposta dei redditi – che andrà considerato tenendo conto della vicenda processuale, come detto all’inizio originata dal decesso del senatore Rebecchini avvenuta il 6 gennaio 1988, dalla comunicazione dell’accreditamento delle somme liquidate dal Senato in data 22 marzo 1988 e dal ricorso giurisdizionale proposto avverso il silenzio rifiuto sull’istanza di rimborso del 12 maggio 1989- che hanno specificamente introdotto disposizioni concernenti i trattamenti economici di cui qui si è detto, distinguendo quelle che si occupano delle indennità parlamentari da quelle concernenti i vitalizi e le ulteriori indennità equipollenti corrisposte all’atto della cessazione della carica.
5.5. Orbene, l’art. 47, lett. g), TUIR nella formulazione vigente ratione temporis – poi divenuto art. 50 – ha previsto espressamente l’assimilazione al reddito da lavoro dipendente delle indennità parlamentari, nonché dei conseguenti assegni vitalizi percepiti in dipendenza della cessazione delle cariche elettive, prevedendo in ispecie: “Sono assimilati ai redditi di lavoro dipendente: g) le indennità di cui all’art. 1 della legge 31 ottobre 1965, n.1261, e all’art. 1 della legge 13 agosto 1979, n. 384 percepite dai membri del Parlamento nazionale e del Parlamento europeo e le indennità, comunque denominate, percepite per le cariche elettive e per le funzioni di cui agli articoli 114 e 135 della Costituzione e alla legge 27 dicembre 1985, n. 816 nonché i conseguenti assegni vitalizi percepiti in dipendenza dalla cessazione delle suddette cariche elettive e funzioni e l’assegno del Presidente della Repubblica”.
5.6. È l’art. 48 bis (divenuto successivamente art. 52) TUIR ad occuparsi, poi, dei redditi assimilati, ancora una volta espressamente richiamando le indennità parlamentari previste ex lege e i vitalizi precisando che concorrono a determinare il reddito solo per la “quota parte che non deriva da fonti riferibili a trattenute effettuate al percettore già assoggettate a ritenute fiscali “-v. 48 bis, c.1, lett.b) del Tuir, introdotto dall’art. 4 d.lgs. 2.9.1997, n. 314 con effetto dal 1.1.1998 (art. 9) -.
5.7. Anche nelle disposizioni del TUIR che si occupano del regime di tassazione separata e delle indennità equipollenti all’indennità di fine lavoro si riscontrano espliciti riferimenti ai trattamenti economici spettanti ai parlamentari.
5.8. L’art.16, comma 1, lett. a) TUIR – ratione temporis vigente- prevede che l’imposta si applica separatamente al “trattamento di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile e indennità equipollenti, comunque denominate, commisurate alla durata dei rapporti di lavoro dipendente, compresi quelli contemplati alle lettere a) e g) del comma 1 dell’articolo 47, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 2122 del codice civile; altre indennità e somme percepite una volta tanto in dipendenza della cessazione dei predetti rapporti, comprese l’indennità di preavviso, le somme risultanti dalla capitalizzazione di pensioni e quelle attribuite a fronte dell’obbligo di non concorrenza ai sensi dell’articolo 2125 del codice civile”. Si tratta di una disposizione che, dunque, si occupa non solo dei c.d. vitalizi spettanti ai parlamentari – in relazione al richiamo alla lett. g) dell’art.47- ma anche a tutte le indennità percepite una volta tanto in dipendenza della cessazione dalla carica elettiva parlamentare.
5.9. L’art. 17 TUIR ha chiarito in termini generali l’imponibilità del trattamento di fine rapporto e delle altre indennità equipollenti, comunque denominate, commisurate alla durata dei rapporti di lavoro dipendente di cui alla lett. a) del comma 1 dell’art.16.
5.10. In particolare, la parte finale del citato art.17 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, entrato in vigore 1’1.1.1988 -v. art.136 d.P.R., cit. – ha previsto, in ossequio alla sentenza n. 178 del 1986 della Corte Cost. (su cui infra), che ” Per la indennità di buonuscita corrisposta ai pubblici dipendenti dal Fondo di previdenza dell’Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i dipendenti statali, l’ammontare netto è computato previa detrazione di una somma pari alla percentuale di tale indennità corrispondente al rapporto, alla data del collocamento a riposo, tra il contributo del 2,50 per cento posto a carico del dipendente e l’aliquota complessiva del contributo previdenziale obbligatorio”.
5.11. La disposizione in commento è stata poi modificata dall’art. 4, comma 3-ter del di. 14 marzo 1988, n. 70, conv. nella l. n. 154/1986 con effetto dal 17 luglio 1986 – ed in vigore fino al 13 maggio 1988- nel senso di prevedere che “L’ammontare netto delle indennità equipollenti al trattamento di fine rapporto, comunque denominate, alla cui formazione concorrono contributi previdenziali posti a carico dei lavoratori dipendenti e assimilati, è computato previa detrazione di una somma pari alla percentuale di tali indennità corrispondente al rapporto, alla data del collocamento a riposo o alla data in cui è maturato il diritto alla percezione, fra l’aliquota del contributo previdenziale posto a carico dei lavoratori dipendenti e assimilati e l’aliquota complessiva del contributo stesso versato all’ente, cassa o fondo di previdenza». Tale ultima disposizione è stata quindi traslata nell’art.19, c.2 bis del TUIR in atto vigente.
5.12. Mette conto ricordare, altresì, l’art. 17, c. 2, del TUIR, nel testo originario, prevedeva l’imponibilità delle altre indennità indicata alla lett. a) del comma primo dell’art. 16, anche se commisurate alla durata del rapporto di lavoro e anche se corrisposte da soggetti diversi dal datore di lavoro per il loro ammontare netto complessivo.
5.13. Non va infine sottaciuta la successiva scelta del legislatore di sopprimere i regimi fiscali particolari concernenti le indennità percepite dai membri del Parlamento e gli assegni vitalizi ai medesimi riconosciuti – v. art. 26, c.1, lett. a) e b) della I. n. 724 del 1994, in esito alla quale sono state abrogate le disposizioni legislative incompatibili con quelle di cui al comma 1 e, in particolare, l’articolo 48, comma 6, TUIR, il quale stabiliva che “Le indennità indicate alla lettera g) del comma 1 dell’articolo 47 costituiscono reddito nella misura del 70 per cento del loro ammontare al netto dei contributi previdenziali”, e l’articolo 19 della legge 27 dicembre 1985, n. 816, che estendeva tale trattamento alle indennità degli amministratori locali.
Il valore dei regolamenti parlamentari
6. La rilevanza ai fini del decidere dei contenuti del Regolamento istitutivo del Fondo impone qualche brevissima precisazione in ordine al valore giuridico del detto regolamento.
6.1. Sul punto è sufficiente rammentare che i regolamenti parlamentari sono fonti dell’ordinamento giuridico generale, di rango primario. Sono tali tanto i c.d. regolamenti maggiori, adottati da ciascuna Camera ai sensi dell’art. 64 Cost., che quelli minori, cosiddetti di diritto parlamentare amministrativo, approvati dall’Ufficio di Presidenza della Camera o dal Consiglio di Presidenza del Senato.
6.2. Usando l’espressione di Corte cost. n. 120/2014, tali regolamenti “sono fonti dell’ordinamento generale della Repubblica, produttive di norme sottoposte agli ordinari canoni interpretativi, alla luce dei principi e delle disposizioni costituzionali, che ne delimitano la sfera di competenza”.
6.3. Anche la Corte edu, nella sentenza Savino c. Italia del 28 aprile 2009, ha qualificato i regolamenti parlamentari come “legge” ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU.
6.4. Nella materia delle indennità parlamentari si fronteggiano, dunque, l’art.69 Cost. che fissa il principio in base al quale “I membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita dalla legge” e la disciplina regolamentare che, sotto la copertura dell’ art.64 Cost. ha previsto il c.d. vitalizio e il contributo di solidarietà (indennità di reinserimento se riscossa dall’ex senatore) al momento della cessazione della carica.
6.5. Quando esiste la fonte normativa il giudice eventualmente chiamato ad applicarla dovrà procedere all’esegesi della stessa secondo i canoni ordinari, fra i quali rientra quello dell’interpretazione costituzionalmente orientata che, pur non disconoscendo in alcun modo le prerogative costituzionali attribuite dalla Costituzione alle Camere-Corte cost.n.154/1985-, tenga in considerazione eventuali valori costituzionali coinvolti – arg. da Corte cost. n. 120 del 2014, Corte cost. n. 379 del 1996, Corte cost. n. 120/2016-.
6.6. Peraltro, la specificità della materia e la sua riferibilità ad organi costituzionali impongono di considerare lo specifico contenuto degli atti normativi che vengono volta a volta in rilievo, atteggiandosi il ruolo del giudice in maniera tale da dovere tenere in considerazione le prerogative riconosciute all’organo costituzionale. In questa prospettiva Corte cost. n. 9/1959 aveva del resto già chiarito che compete a ciascuna Camera l’interpretazione e la garanzia dell’osservanza delle previsioni contenute nei regolamenti, pure laddove a questi ultimi il testo costituzionale espressamente rinvii. In tale occasione si affermò che ai finì della interpretazione di una norma «posta dalla Camera nel suo regolamento, è da ritenersi decisivo l’apprezzamento della Camera» stessa.
Le questioni da risolvere
7. Secondo le ricorrenti il contributo di solidarietà non è tassabile in quanto indennità equipollente al trattamento di fine rapporto, dovendosi, appunto, applicare la parte finale del comma 1 dell’art.17 TUIR poi divenuta parte finale dell’art. 19, c. 2 bis TUIR.
7.1. La tesi non è fondata.
7.2. Va premesso che la sussumibilità dell’indennità di reinserimento/contributo di solidarietà nell’alveo delle indennità equipollenti alle quali si riferiscono espressamente tanto l’art. 17, c. 1, che l’art. 19, c.2 bis, TUIR nel testo attualmente vigente risulta essere circostanza che non può essere contestata: si tratta, all’evidenza, di una provvidenza che si matura per effetto della cessazione della carica parlamentare e che, come chiarisce in modo inequivocabile il ricordato Regolamento, i Senatori direttamente o gli altri beneficiari hanno pieno diritto a ricevere al momento della cessazione della carica attraverso l’erogazione proveniente da un fondo le cui finalità previdenziali sono espressamente previste da tale fonte regolamentare sopra rammentata.
7.3. L’indennità/contributo di solidarietà è dunque una provvidenza di natura sicuramente previdenziale che si atteggia in modo diverso rispetto al vitalizio, in quanto, non solo è corrisposta una tantum, ma è alimentata in via esclusiva da contributi che vengono prelevati direttamente dall’indennità lorda riservata al senatore durante il mandato e che, quanto alla quota prelevata in forma di contribuzione, costituiscono onere deducibile rispetto all’indennità parlamentare soggetta a tassazione, come risulta dalla nota del Senato alla quale ha fatto riferimento la Commissione tributaria centrale.
7.4. Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, deve quindi convenirsi che il contributo di solidarietà rientra tra le indennità equipollenti soggette a tassazione.
7.5. Il punto è solo quello di stabilire se a tale indennità si applichi o meno la parte finale dell’art.17 TUIR ratione temporis vigente – poi divenuto comma 2 bis, parte finale, dell’art.19-.
7.6. Ed a tale quesito va data risposta negativa, sulla scorta dei seguenti argomenti di natura testuale e sistematica.
7.7. La tesi che esclude la tassabilità del contributo di solidarietà fatta propria dalle ricorrenti trae la sua fonte di giustificazione nella già ricordata sentenza n. 178/1986 della Corte costituzionale e nella disciplina normativa che costituisce di essa gemmazione.
7.8. Con tale pronunzia ultima la Corte, chiamata a verificare la costituzionalità del sistema di tassazione applicato alle indennità di fine rapporto erogate dall’ENPAS ai dipendenti statali alimentate tanto con contributi del dipendente che dello Stato, ha ritenuto irrazionale l’assoggettamento a tassazione anche di quella parte dell’indennità di buonuscita percepita in relazione ai contributi versati dal dipendente, dovendo il legislatore commisurare il carico fiscale in modo da colpire effettive manifestazioni dì quella capacità.
7.9. Ora, secondo la Corte costituzionale, «lo Stato, verrebbe a colpire col tributo un esborso da se stesso effettuato (ma con incidenza diretta sul pubblico dipendente a seguito della rivalsa), trascurando anche la circostanza che le somme versate sono affidate alla esclusiva ed autonoma gestione di un apposito ente con relativi redditi ed incrementi, dei quali nessun meccanismo assicura i favorevoli riflessi sul soggetto inciso al momento della percezione della indennità di liquidazione». La Corte costituzionale ha quindi ritenuto illogico e arbitrario profilare l’indennità di buonuscita come reddito quanto alla contribuzione gravante sul dipendente aggiungendo, in via incidentale, il convincimento che tale considerazione «priva di fondamento il rilievo che il vizio impositivo potrebbe essere superato dalla circostanza che non è prevista alcuna tassazione né al momento del versamento dei contributi (che, come si è detto, viene effettuato direttamente dallo Stato all’E.N.P.A.S., in esecuzione di una obbligazione ex lege, sia pure con diritto a rivalsa) né in quello della percezione dell’indennità».
7.10. In tale pronunzia la Corte costituzionale è intervenuta riferendosi, però, al caso, diverso da quello in esame, in cui l’indennità di buonuscita era composta dalla concorrente contribuzione del dipendente e del datore di lavoro, ed è pervenuta alla conclusione che in tale evenienza l’assoggettabilità a tassazione della parte dell’indennità derivante dal versamento del contributo del dipendente costituiva violazione del canone di cui all’art.53 Cost.-v. sent. ult. cit.-
7.11. Ritengono, dunque, queste Sezioni Unite che l’ambito di intervento di quella decisione sia limitato alle varie ipotesi di buonuscita di dipendenti pubblici composta da doppia contribuzione.
7.12. Di ciò vi è conferma dalla stessa giurisprudenza della Corte costituzionale successiva (Corte cost. n. 400/1987, Corte cost. n. 877/1988, Corte cost. n. 513/1990) ed in particolare nella sentenza Corte cost. n. 42/1992, nella quale la Corte, chiamata ad estendere i principi della sentenza n. 178/1986 rispetto all’ipotesi di contributi previdenziali versati da un dipendente per il riscatto di anzianità convenzionale ed alla quota di indennità di buonuscita relativa sulla quale era stata applicata l’IRPEF, ha precisato che la sentenza n. 178/1986 aveva inteso preservare “l’esigenza di un trattamento tributario differenziato per quelle indennità formate, oltre che da contributi obbligatori del datore di lavoro, anche da quelli obbligatori del lavoratore…” e che le pronunzie ad essa successive che ne avevano esteso i principi avevano riguardato indennità “… caratterizzate anch’esse dall’essere erogate in base a contributi obbligatoriamente versati dal datore di lavoro e dal lavoratore…”
7.13. La Corte costituzionale, in altri termini, ha proceduto nel tempo a decisamente circoscrivere la portata dei principi espressi dalla sentenza n.178/1986, applicandoli ad ipotesi che fossero esattamente sovrapponibili, quanto ai presupposti, a quella vicenda scrutinata e riconducendo l’intervento caducatorio alle ipotesi di indennità di buonuscita prevista in favore di diverse categorie di dipendenti pubblici per le quali fosse ineludibilmente presente, a monte, il meccanismo della contribuzione tanto del datore di lavoro che del dipendente.
7.14. Del resto, la tendenza a ridurre l’ambito operativo della disciplina positiva oggi prevista dall’art.19, c. 2 bis, cit., è fatta propria dalla sezione tributaria di questa Corte.
7.15. Ed invero, Cass. n. 10584/1997, chiamata a verificare la possibilità di estendere il meccanismo previsto dalla sentenza n. 178/1986 al caso di indennità di buonuscita composta in quota da contributi volontariamente versati dal dipendente per il riscatto di anzianità di servizio, ha escluso che potessero applicarsi al contribuente le modifiche apportate all’art. 17 del D.P.R. 917/1986 dall’art. 4 del D.L. n. 70/1988 convertito in legge n. 154/1988, ritenendo che tale disposizione “chiaramente presuppone che ci si trovi di fronte ad una indennità di buonuscita corrisposta per periodi in cui vi è stata una contribuzione parte a carico del datore di lavoro, parte a carico del lavoratore; ed in esecuzione della giurisprudenza della Corte Costituzionale (sent. 7 luglio 1986, n. 178) stabilisce che la non tassabilità venga determinata in base al rapporto, alla data in cui è maturato il diritto alla percezione, fra l’aliquota del contributo previdenziale posto a carico dei lavoratori dipendenti e l’aliquota complessiva del contributo. La disposizione non appare dunque applicabile nelle ipotesi di contribuzione volontaria totalmente a carico del lavoratore.”
7.16. Certo, il precedente di questa Corte appena ricordato riguarda la contribuzione volontaria e non quella obbligatoria nascente dal regolamento del Senato concernente il fondo di solidarietà. Ma tale circostanza non sembra elidere il fatto che la prevista esenzione sia riferita, tanto per la Corte costituzionale che per il legislatore che l’ha recepita, al caso in cui i trattamenti riconosciuti al dipendente fossero alimentati tanto da contribuzioni del dipendente che dal datore di lavoro.
7.17. Peraltro, all’interno della tendenza volta a ridurre l’ambito operativo dei principi fissati dalla sentenza n.178/1986 si colloca anche Corte cost. n. 25/2000 che, nel ritenere l’ipotesi della tassazione alla quale è soggetta la liquidazione riconosciuta dalla Cassa nazionale del notariato ai notai quale indennità di cessazione dalle funzioni, ha precisato che la fattispecie non è assimilabile a quella riguardante la tassazione dell’indennità di buonuscita per i dipendenti statali prevista dagli artt. 2 e 4, commi primo e quarto, della legge n. 482 del 1985 su cui è intervenuta la sentenza di questa Corte n. 178 del 1986. Anche in tale occasione la Corte ha, appunto, chiarito che: “Quanto, invece, alla disciplina tributaria indifferenziata dettata dal legislatore per tutte le indennità di fine rapporto, con detta sentenza è stata prevista l’esigenza di un trattamento tributario differenziato per quelle indennità formate, oltre che da contributi obbligatori del datore di lavoro, anche da quelli obbligatori del lavoratore.”
7.18. Ed all’interno della ricognizione giurisprudenziale qui esposta particolarmente significativa, per diverse ragioni, risulta essere la più recente sentenza della Corte costituzionale n. 412/2000, relativa alla legittimità costituzionale del regime impositivo previsto per i c.d. vitalizi spettanti ai Consiglieri della Regione Lazio.
7.19. Sollecitata a verificare l’estensibilità dei principi affermati dalla sent. n. 178 del 1986 al caso di specie per la parte dei vitalizi corrispondente ai contributi versati dai Consiglieri regionali sul rilievo che essi non avrebbero costituito reddito, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità, rilevando che la quota parte di reddito relativa ai contributi versati dai consiglieri regionali era stata esclusa dal reddito imponibile, in quanto considerato obbligatorio per legge, e dunque non era stata tassata ai fini IRPEF.
7.20. In quella circostanza, sottolineata la diversità tra le indennità-vitalizi corrisposti dopo la cessazione dalla carica e collegati a un fondo istituito per la carica elettiva e che traggono origine da contributi versati dai medesimi consiglieri beneficiari, rispetto alle indennità di buonuscita e di fine rapporto quali istituti tipici del lavoro dipendente, la Corte ha valorizzato la circostanza che detti contributi non erano stati sottoposti a tassazione e che gli stessi ben potevano essere considerati reddito costituente indice di capacità retributiva, come tali assoggettati ad IRPEF per concludere che “… di conseguenza, sul piano costituzionale, non vi è alcun vincolo specifico per il legislatore di escludere completamente dalla tassazione IRPEF detti assegni, potendo questi essere considerati reddito, proprio in quanto le somme di origine, corrispondenti ai contributi versati (intesi come obbligatori), non erano state assoggettate ad imposizione”.
7.21. E ciò proprio riconoscendo che il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, può fissare la base imponibile per i redditi aventi carattere misto assistenziale e previdenziale, e «…può anche determinare esclusioni o limitazioni in ordine a quanto concorre a formare il reddito (…) ma non è tenuto a escludere, in ogni caso, considerati come reddito e indice di capacità contributiva».
7.22. Ora, risulta evidente la rilevanza di tale pronunzia ai fini della presente controversia, se solo si consideri che la Corte costituzionale ha mostrato, per l’un verso, di non ritenere in alcun modo vincolanti i principi espressi dalla sentenza n.178/1986 rispetto ad un’ipotesi di vitalizio formato esclusivamente da contributi dei consiglieri regionali iscritti al Fondo di previdenza e, per altro verso, di tenere in massima considerazione e valorizzare- a sostegno della legittimità della disciplina fiscale vigente- la circostanza che, a monte, le somme corrispondenti ai contributi versati non fossero imponibili, a differenza del vitalizio, costituente manifestazione di ricchezza tassabile.
7.23. A tale stregua, il contributo di solidarietà, pur equipollente al trattamento di fine rapporto- in questo senso anche la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 2/1986- non può dirsi pienamente sovrapponibile all’indennità di buonuscita ed al regime fiscale derivato ai dipendenti pubblici per effetto della sentenza n.178/1986 e del filone delle pronunzie ad essa successive, non vedendosi in un’ipotesi nella quale vi sia contribuzione “concorrente” fra datore di lavoro- a tale qualifica potendosi assimilare, ai fini fiscali quella del Senato- e lavoratore- recte, senatore-.
7.24. La conclusione qui esposta trae, d’altra parte, conferma dalla circostanza che il contributo che alimenta il fondo di cui si è detto non entra a far parte dell’imponibile dell’indennità parlamentare corrisposta ai senatori.
7.25. Il che dà agio di comprendere che la mancata tassazione “a monte” delle somme che alimentano il fondo non elide la natura sostanziale di retribuzione differita del contributo di solidarietà, “a valle” versato ai beneficiari alla cessazione del mandato parlamentare, in tal senso dovendosi richiamare quanto già espresso da Corte cost. n. 412/2000, cit.
7.26. In definitiva, l’indennità di reinserimento/contributo di solidarietà ricevuta dal senatore o dagli eredi è sicuro indice di capacità contributiva, generando una ricchezza in favore del beneficiario e dunque costituendo voce tassabile, proprio in quanto le somme di origine, corrispondenti ai contributi trattenuti -in forza del regolamento del Senato già ricordato – dall’indennità parlamentare traggono alimento dall’indennità inerente al mandato senatoriale, non sono assoggettate ad imposizione ed attengono alla carica precedentemente svolta dal senatore, mentre le somme erogate alla cessazione della carica provengono da un fondo costituito all’interno del Senato e sono liquidate dal Presidente del Senato.
7.27. L’assoggettamento al sistema degli oneri deducibili al quale provvede il Senato – come precisato nella nota del Senato più volte ricordata – orienta dunque verso l’interpretazione del contributo di solidarietà quale forma del tutto originale e sui generis previdenziale, in questa direzione deponendo anche l’art.48 bis, c.1, lett. b) del TUIR già ricordato (v. punto 5.6.), nel quale il legislatore ha mostrato in modo esplicito di orientarsi, quanto ai vitalizi spettanti ai parlamentari, verso un orizzonte speculare a quello qui tratteggiato.
7.28. Le conclusioni qui raggiunte risultano, peraltro, in piena sintonia con l’interpretazione del Regolamento relativo al Fondo di Commissione tributaria centrale e già ricordata( v., supra, p. 4.5. ).
7.29. Conclusione, quest’ultima, che dunque risulta coerente tanto con le guarentigie del regolamento che con l’interpretazione del contributo di solidarietà fornita alla Commissione tributaria centrale dal servizio dalla nota senatoriale sopra ricordata, ponendosi così in linea di continuità con i principi fissati dalla Corte costituzionale (v., p. 6.5. e 6.6.) e con la tendenza legislativa volta a contenere le agevolazioni fiscali in tema di indennità corrisposte in dipendenza di solidarietà fornite nella nota del Senato inoltrata su richiesta della cariche parlamentari manifestatasi con la soppressione dei regimi speciali in materia-cfr. art. 26 della I. n. 724 del 1994, cit.-
7.30. Tale soluzione risulta, peraltro, in piena armonia con l’art. 53 Cost. che, secondo i principi giurisprudenziali ribaditi proprio nelle sentenze della Corte costituzionale (qui richiamate ai punti 7.12. 7.13., 7.15., 7.17.), precisano come “l’art. 53, primo comma, Cost. va interpretato nel senso che a situazioni uguali debbono corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse un trattamento tributario disuguale”.
7.31. Ora, verificando la tenuta delle conclusioni appena espresse rispetto al parametro costituzionale, mette conto osservare che la non applicazione al contributo di solidarietà del regime di cui alla parte finale dell’art.17, c.1, TUIR si giustifica in relazione alla diversità contenutistica e di disciplina di tale ipotesi di indennità
equipollente da quelle disciplinate dalla parte finale della disposizione appena ricordata.
7.32. Per altro verso, la soluzione qui affermata si pone in piena linea di continuità con il canone della capacità contributiva previsto dall’art.53.
7.33. Ed invero, giova ricordare che secondo la giurisprudenza costituzionale, il principio espresso dall’art. 53 Cost., in forza del quale «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva», pur non costituendo un vincolo rigido per il legislatore, non lo esime tuttavia dal rispetto dei limiti di razionalità e coerenza. E proprio considerando che tale parametro costituisce espressione particolare del principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., la Corte costituzionale non ha mancato di ricordare che, se «la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria, [essa esige comunque] un indefettibile raccordo con la capacità contributiva…» (Corte cost. n. 111/1997; in senso conforme, Corte cost. n. 116/2013 e n. 341/2000; Corte cost. n. 142/2014).
7.34. Ora, ritenendo di perseguire la ricerca di soluzioni compatibili con i principi costituzionali -cfr. Corte cost. n. 823 del 1988, Corte cost., sentt. nn. 370 del 1988 e 495 del 1993, nonché Corte cost. n. 82/1995- queste Sezioni Unite sono dell’avviso che la soluzione qui prospettata dimostra la piena ragionevolezza del regime fiscale previsto per il contributo di solidarietà di cui si è detto, attuando il vincolo di solidarietà fra tutti i consociati che il legislatore è tenuto a garantire, come risulta avere fatto nel caso dì specie.
7.35. Alla luce di tali considerazioni, deve quindi affermarsi che all’istituto “indennità di reinserimento/contributo di solidarietà” vada applicato il regime di tassazione separata alla stregua del combinato disposto di cui agli artt. 16 e 17, c.1,TUIR vigenti ratione temporis, non applicandosi il meccanismo di cui all’art. 17 c. 1 ult. parte TUIR – poi refluito nell’art. 19, c. 2 bis TUIR -.
8. Va dunque fissato il seguente principio di diritto:
L’indennità di reinserimento (o contributo di solidarietà) erogato ai Senatori al momento della cessazione dalla carica parlamentare previsto dal Regolamento del Fondo di solidarietà fra gli onorevoli senatori, ovvero corrisposto ai beneficiari designati o agli eredi legittimi in caso di decesso del parlamentare nel corso della legislatura, e gravante sul “Fondo di solidarietà fra gli onorevoli senatori” ha natura di retribuzione differita, è manifestazione di capacità contributiva e va sottoposto a tassazione al momento della sua erogazione secondo la disciplina prevista in tema di tassazione separata previsto dall’art. 17 TUIR.
9. Sulla base di tali conclusioni, il motivo proposto dalle ricorrenti non può che essere disatteso, avendo la Commissione tributaria centrale adottato una decisione conforme al principio sopra indicato, anche sotto il profilo della ritenuta applicabilità al contributo di solidarietà liquidato alle eredi del Senatore Rebecchini il regime di tassazione separata- tenuto conto della circostanza che il contributo di solidarietà si è formato nel corso di periodi d’imposta precedenti quello di percezione delle somme e che è dunque necessario evitare il meccanismo della progressività dell’IRPEF- dovendosi soltanto correggere la motivazione della sentenza impugnata nei termini sopra esposti.
10. La novità della questione impone la compensazione delle spese del giudizio.
11. Poiché il ricorso dichiarato infondato è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono i presupposti processuali (a tanto limitandosi la declaratoria di questa Corte: Cass., S.U., 20/02/2020, n. 4315) per dare atto – ai sensi della I. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, in capo ai ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per la rispettiva impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Compensa le spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso rispettivamente proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso il 13 ottobre 2020 dalle Sezioni Unite civili.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 12 dicembre 2019, n. 32571, per SS.UU, 20 novembre 2020, n. 26494, in tema di contributo di solidarietà per i Senatori
SS.UU, 20 novembre 2020, n. 26494, in tema di contributo di solidarietà per i Senatori