In tema di usi civici – SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938
Civile Ord. Sez. U Num. 13938 Anno 2024
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: ORILIA LORENZO
Data pubblicazione: 20/05/2024
Oggetto
USI CIVICI
R.G.31329/2018
Cron.
Rep.
Ad. 30/01/2024
CC
ORDINANZA
sul ricorso 31329-2018 proposto da:
ENEL PRODUZIONE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RUGGERO FAURO 43, presso lo studio dell’avvocato UGO PETRONIO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI ANVERSA DEGLI ABRUZZI, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI DI MASSA;
– controricorrente –
nonchè
REGIONE ABRUZZO;
– intimata –
avverso la sentenza n. 4754/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 10/07/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/01/2024 dal Presidente di Sezione LORENZO ORILIA.
FATTI DI CAUSA
Il Prefetto dell’Aquila, con decreto del 7.7.1932, espropriò alcuni terreni gravati da usi civici nel territorio del Comune di Anversa degli Abruzzi. Con l’espropriazione, fu autorizzata l’occupazione permanente dei suoli in favore delle Ferrovie dello Stato, ente a cui è succeduta, per effetto di trasferimenti immobiliari, l’Enel Produzione spa. Successivamente, il Comune di Anversa degli Abruzzi effettuò una verifica demaniale del territorio segnalando alla Regione Abruzzo la richiesta di reintegra in via amministrativa delle terre civiche avanzata dall’Enel.
A seguito dell’opposizione formalizzata dall’ENEL venne quindi disposta la convocazione delle parti davanti al Commissario per il Riordino degli Usi Civici nella Regione Abruzzo e in quella sede venne nominato un consulente tecnico di ufficio, il quale concluse la sua relazione ravvisando la natura demaniale delle particelle n. 72, 733, 145, 348, 722, 724, 725 del foglio 9 e n. 813, 814, 815, 816, 817, foglio 14.
Con sentenza n. 18/2016 il Commissario dichiarò il proprio difetto di giurisdizione osservando che il decreto di espropr d e l 1932 aveva legittimamente trasferito i fondi, attualmente occupati dall’Enel, all’allora Ferrovie dello Stato, trasformandoli in beni allodiali o comunque appartenenti al patrimonio disponibile dello Stato. Argomentò quindi sulla inapplicabilità delle pronunzie della Corte Costituzionale n. 391/1989 e n. 156/1995 e sulla conseguente idoneità dello stesso decreto ad eliminare ogni diritto gravante sui fondi espropriati trasferendoli sull’indennità di esproprio (compresi i diritti di uso civico), in conformità con i principi generali enunciati dall’ art. 52 l. n. 2359/1865 (Espropriazione per Pubblica Utilità) e da alcune leggi richiamate (art. 3 L. n.1834/1938 e art. 9 L. n. 230/1950).
Contro tale pronuncia il Comune di Anversa degli Abruzzi propose reclamo, accolto dalla Corte d’Appello di Roma Sezione Usi Civici con sentenza n. 4754/2018.
Per giungere a tale conclusione, la Corte territoriale, sulla scorta di alcuni precedenti di questa Corte, ha ritenuto che la controversia investe l’accertamento della qualitas soli, precisando che il decreto prefettizio di esproprio del 1932 non aveva comportato la cessazione del vincolo di demanialità civica, non essendo intervenuto nessun provvedimento autorizzativo alla alienazione o al mutamento di destinazione dei fondi: mancava quindi la sdemanializzazione delle aree.
L’ENEL Produzione spa ricorre davanti a questa Corte con due motivi di ricorso contrastati con controricorso dal Comune di Anversa degli Abruzzi.
La Regione Abruzzo è rimasta invece intimata.
Con ordinanza interlocutoria n. 24988 del 2023 il Collegio della seconda sezione civile, su richiesta conforme del Pubblico Ministero, ha rimesso il ricorso alla Prima Presidente per l’assegnazione alle Sezioni unite, vertendosi su questioni di giurisdizione.
In prossimità dell’adunanza camerale le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1 Col primo motivo la società ricorrente denunzia plurime violazioni di norme di diritto: violazione degli artt. 12 e 29 della legge n. 1766/1927 in relazione agli artt. 111 Cost. e 132 cpc; violazione dell’art. 5 della legge n. 2248/1865 allegato E; violazione del principio del riparto di giurisdizione e del principio del giusto processo (artt. 102, 103 e 111 Cost.). Difetto di giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici (art. 360 n. 1 cpc).
1.2 Col secondo motivo denunzia violazione degli artt. 12 e 29 della legge n. 1766/1927 in relazione dell’art. 12 delle preleggi; violazione dell’art. 52 della legge n. 2359/1865; della legge n. 431/1985, del DPR n. 327/2001 art. 4 e 21 septies della legge n. 241/1990 (come successivamente modificati); ancora, violazione dell’art. 5 della legge n. 2248/1865 allegato E. Violazione del principio del riparto di giurisdizione e del principio del giusto processo (artt. 102, 103 e 111 Cost.). Difetto di giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici (art. 360 n. 1 cpc).
Osserva in particolare la società ricorrente:
- la giurisdizione si determina sulla base della “causa petendi” sostanziale che, nella specie, consiste nella possibilità o nella impossibilità che le terre di uso civico – quelle di cd. Demanio civico e quelle private gravate da usi civici – siano espropriabili per pubblica utilità;
- quindi l’accertamento sulla giurisdizione, pur implicando l’apprezzamento di elementi di merito, non può implicare che la statuizione sulla giurisdizione possa confondersi con la decisione sul merito né che la decisione possa essere determinata secundum eventus litis;
- la Corte d’Appello ha deciso sulla scorta di principio di diritto oramai superato nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha successivamente chiarito che l’espropriazione per pubblica utilità, ex l. n. 2359/1865, art. 52, co. 2, si applica anche ai diritti d’uso civico (cita n. 9986/2007); invero, i terreni di uso civico sono suscettibili d’esecuzione forzata nel pubblico interesse, essendo soggetti ad un regime di alienabilità controllata (cita Corte Cost. n. 391/1989);
- la Corte d’Appello ha erroneamente dichiarato assorbita ogni altra questione e, in particolare, quella concernente l’impossibilità, per il Commissario, di dichiarare la nullità dell’espropriazione (peraltro, solo in epoca successiva la legge -art. 4, D. P.R. n. 327/2001- aveva previsto la non espropriabilità dei beni gravati da uso civico, salvo compatibilità col predetto uso);
- all’epoca l’art. 12, l. n. 1766/1927 escludeva alienabilità e usucapibilità in assenza di autorizzazione al mutamento di destinazione, ma non v’era accenno all’espropriazione per pubblica utilità; per contro la Corte cost. (sent. n. 391/1989) aveva affermato sussistere un regime di alienabilità controllata e quindi di suscettibilità all’espropriazione per pubblica utilità.
In sintesi, secondo la tesi della società ricorrente, la sentenza della Corte d’Appello è nulla per avere dichiarato la giurisdizione commissariale senza tener contro della successiva giurisprudenza; ed è altresì nulla per avere ritenuto che le terre di uso civico non sono espropriabili in assenza di un provvedimento di mutamento della destinazione, senza considerare il diritto vigente nel 1932 (quando i beni non avevano rilevanza ambientale), violando in tal modo i principi di imperatività ed effettività dell’atto amministrativo.
La sentenza avrebbe inoltre erroneamente dichiarato assorbiti gli elementi di fatto e di diritto tesi a dimostrare l’impossibilità per il Commissario di dichiarare la nullità dell’esproprio come atto amministrativo.
2 Le due censure – che ben si prestano ad esame unitario per il comune riferimento alla questione di giurisdizione – sono prive di fondamento.
Le tematiche poste dal ricorso sono due, tra loro strettamente collegate: una riguardante i limiti della giurisdizione del Commissario per il Riordino degli Usi Civici e l’altra riguardante l’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico di dominio della collettività.
2.1 Sulla prima questione, si rende opportuno partire da una ricognizione del panorama normativo: come già chiarito da questa Corte (v. tra le varie Sez. U, Sentenza n. 9280 del 20/05/2020; Sez. U – , Ordinanza 28802 del 04/10/2022), con la locuzione «usi civici», si indicano i diritti spettanti a una collettività insediata su un territorio e ai suoi componenti (cives), il cui contenuto consiste nel trarre utilità dalla terra, dai boschi e dalle acque. La materia degli usi civici è stata disciplinata dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 e dal R.D. 26 febbraio 1928, n. 332 (con il quale è stato approvato il regolamento per la esecuzione della detta legge), nonché dalla legge 10 luglio 1930, n. 1078, recante norme sulla definizione delle controversie in materia di usi civici. Più recentemente, la legge 20 novembre 2017 n. 168 è intervenuta sulla materia, sancendo il riconoscimento degli assetti collettivi fondiari – denominati “domini collettivi” – e dei diritti dei cittadini di uso e di gestione dei beni di collettivo godimento, dei quali ha affidato la gestione agli enti esponenziali delle collettività titolari (ossia alle amministrazioni separate dei beni frazionali e alle associazioni o università agrarie, già individuate dall’art. 11 della l. n. 1766 del 1927) e, in mancanza, ai Comuni sia pure col ricorso ad “amministrazione separata” (art. 2, comma 4). La legge n. 1766/1927, nell’istituire l’ufficio del Commissario per la liquidazione degli usi civici, con funzioni amministrative e giurisdizionali (art. 27), ha individuato – nell’art. 1 – due diverse situazioni giuridiche: da un lato, i diritti di uso e di promiscuo godimento spettanti agli abitanti di un comune o di una frazione su terre di proprietà privata (c.d. “iura in re aliena“), destinati ad essere liquidati ai sensi degli artt. 1-7 della stessa legge e degli artt. 11-15 del RD. n. 332 del 1928; dall’altro, i diritti di uso collettivo sulle terre possedute da comuni, frazioni, università ed altre associazioni agrarie (c.d. “iura in re propria” o proprietà collettive di diritto pubblico), destinati invece ad essere valorizzati e sottoposti alla normativa di tutela dell’ambiente e del paesaggio. Inizialmente, le funzioni attribuite al Commissario erano prevalentemente amministrative, svolte sotto la supervisione del Ministero dell’Economia Nazionale (poi del Ministero dell’Agricoltura e Foreste, art. 37 L. n. 1766/1927 cit.) e dirette al riordinamento degli usi civici; in tale quadro, l’attività giurisdizionale risultava incidentale, destinata a risolvere, in contraddittorio delle parti e con forza di giudicato, le controversie che si potessero profilare. Trasferite le funzioni amministrative (anche di liquidazione) alle Regioni (art. 1 d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11 e art. 66 d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616), il Commissario è rimasto quasi esclusivamente titolare di funzioni giurisdizionali e, quindi, giudice delle controversie circa l’esistenza, la natura e la estensione dei diritti di uso civico (art. 29 L. n. 1766/1927 cit.). È stato altresì chiarito che il Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici, in sede contenziosa, ha natura di organo di giurisdizione speciale, sicché le questioni che insorgano sul riparto di attribuzioni fra detto Commissario ed il giudice ordinario attengono alla giurisdizione (v. SSUU Sentenza n. 9280 del 2020 cit. che a sua volta richiama, ex plurimis, Cass., Sez. Un. n. 6373 del 28/10/1983; Cass., Sez. Un., n. 1174 del 19/04/1968; Sez. Un., n. 2425 del 10/10/1966).
L’ambito della giurisdizione devoluta al Commissario per la liquidazione degli usi civici si ricava dall’art. 29 della L. n. 1766 del 1927, il quale stabilisce al primo comma: «I commissari procederanno, su istanza degli interessati od anche di ufficio, all’accertamento, alla valutazione ed alla liquidazione dei diritti di cui all’art. 1, allo scioglimento delle promiscuità ed alla rivendica e ripartizione delle terre»; e al secondo comma soggiunge: «I commissari decideranno tutte le controversie circa la esistenza, la natura e la estensione dei diritti suddetti, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni loro affidate». Come è dato rilevare dalla lettura dell’art. 29, il secondo comma attribuisce alla giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici le controversie relative ai diritti di cui al primo comma, il quale – a sua volta – rimanda ai diritti menzionati dall’art. 1 della I. n. 1766 del 1927: si tratta degli «usi civici» e di «qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento delle terre». In sostanza, la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici è limitata alla materia che riguarda gli “usi civici” e i “diritti di uso collettivo delle terre”, esulando ogni altra controversia dalla sua giurisdizione.
Nella giurisprudenza di questa Corte, in linea col citato dettato normativo, si è dunque da tempo affermato che la giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici ha ad oggetto tutte le controversie relative all’accertamento, alla valutazione e alla liquidazione dei diritti di uso civico, allo scioglimento delle promiscuità e alla rivendicazione e ripartizione delle terre, e quindi, in sostanza, ogni controversia circa l’esistenza, la natura e l’estensione dei diritti di uso civico e degli altri diritti di promiscuo godimento delle terre spettanti agli abitanti di un Comune o di una frazione, comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonché tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni affidate ai Commissari stessi (Cass., Sez. Un., n. 7894 del 20/05/2003; analogamente, Cass., Sez. Un., n. 720 del 15/10/1999; Cass., Sez. Un., n. 33012 del 20/12/2018; Cass., Sez. Un., n. 605 del 15/01/2015). E ancora, l’accertamento della qualità di un terreno che si assume di “uso civico”, ossia l’accertamento della c.d. “qualitas soli”, rientra nella giurisdizione del Commissario regionale per la liquidazione degli usi civici soltanto quando la relativa questione sia sollevata dal preteso titolare o dal preteso utente del diritto civico e debba essere risolta con efficacia di giudicato; invece, la controversia tra privati nella quale la demanialità civica di un bene sia stata eccepita al solo scopo di negare l’esistenza del diritto soggettivo di cui la controparte sostenga di essere titolare – eccezione questa che si risolve nella contestazione di un fatto costitutivo del diritto azionato dalla controparte – deve essere decisa dal giudice ordinario, con statuizione sul punto efficace solo incidenter tantum (Cass., Sez. Un., n. 836 del 18/01/2005; Cass., Sez. Un., n. 7429 del 27/03/2009; Cass., Sez. Un., n. 7894 del 20/05/2003; Cass., Sez. Un., n. 3031 del 01/03/2002). Va, dunque, affermato che la giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici presuppone una controversia che abbia ad oggetto l’accertamento di usi civici o di diritti di uso collettivo delle terre ovvero l’accertamento dell’appartenenza di un terreno al “demanio civico” (secondo la definizione di cui all’art. 3 della I. 20/11/2017, n. 168). Deve quindi ribadirsi che le questioni circa l’esistenza, la natura e l’estensione dei diritti di uso civico, nonché quelle relative alla qualità demaniale del suolo, postulano la giurisdizione dei Commissari agli usi civici, prevista dall’art. 29 della legge 16 giugno 1927 n. 1766, solo se attengano a controversie aventi ad oggetto detto accertamento fra i soggetti titolari delle rispettive posizioni soggettive e non, invece, quando debbano essere risolte in via meramente incidentale, come nelle controversie tra privati relative al rilascio di beni (cfr. Sez. U, Sentenza n. 28654 del 03/12/2008 Rv. 605653 in tema di locazione a terzi del suolo sottoposto al regime di demanialità collettiva; v. altresì Sez. U, Ordinanza n. 20183 del 2019 che richiama a sua volta Sez. U, Ordinanza n. 26816 del 19/12/2009).
In definitiva, restano escluse dalla giurisdizione commissariale le domande che postulano un già intervenuto definitivo accertamento della qualitas soli (cfr. Sez. U, Ordinanza n. 20183 del 2019 cit.).
2.2 Sulla seconda questione (relativa all’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico di dominio della collettività), queste Sezioni Unite sono di recente intervenute ponendo fine ad incertezze giurisprudenziali ed hanno affermato, in relazione ad un caso di espropriazione di beni demaniali pronunciata nel 1960 sempre dal Prefetto dell’Aquila, il seguente principio: i diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti) per effetto di un decreto di espropriazione per pubblica utilità, poiché la loro natura giuridica assimilabile a quella demaniale lo impedisce, essendo, perciò, necessario, per l’attuazione di una siffatta forma di espropriazione, un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il citato decreto espropriativo che implichi l’estinzione di eventuali usi civici di questo tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull’indennità di espropriazione (cfr. Sez. U – , Sentenza n. 12570 del 10/05/2023).
E’ bene porre subito in evidenza che nella fattispecie (sovrapponibile a quella per cui è causa) decisa con la citata pronuncia delle sezioni unite del 2023 nessuno pose in discussione la giurisdizione commissariale: difatti in quel caso la Corte di appello di Roma – Sezione Specializzata per gli usi civici, con sentenza n. 6/2017, depositata il 4 aprile 2017, si pronunciò sul merito in ordine al reclamo dell’Enel Produzione spa contro la sentenza n. 15/2015 del Commissario per il Riordino degli usi civici nella Regione Abruzzo che, a sua volta, esaminando sempre il merito della vicenda, aveva accolto la domanda del Comune di Alfedena, con la dichiarazione della natura demaniale civica dei fondi in contestazione, la nullità ed inefficacia degli atti pubblici e privati, disposti sugli stessi, ed ordinata la reintegra nel possesso dei fondi in favore della collettività del Comune.
3 Venendo al caso in esame, e sulla scorta della esposta ricostruzione normativa e giurisprudenziale, non vi è dubbio che – contrariamente a quanto si assume in ricorso – il petitum sostanziale investe proprio l’accertamento della qualitas soli: l’indagine tesa a stabilire se sia o meno consentita l’espropriabilità per pubblica utilità dei terreni pubblici gravati da usi civici con la conseguenza della eventuale estinzione della loro natura (questione, come si è visto, ormai definitivamente chiarita da queste Sezioni Unite con la citata sentenza n. 12570 del 10/05/2023) investe proprio la verifica della qualitas soli. La risposta positiva al quesito comporta infatti il venir meno della natura demaniale e l’acquisto della natura giuridica di beni allodiali, mentre a conclusioni diametralmente opposte deve giungersi qualora la risposta al quesito debba essere negativa e rimanga ferma la natura demaniale.
Si rivela pertanto giuridicamente corretta la decisione della Corte d’Appello di Roma laddove, discostandosi dalla pronuncia commissariale, ha ravvisato – nella controversia sulla espropriabilità dei beni assoggettati ad usi civici – una lite sulla qualitas soli dichiarando conseguentemente la giurisdizione commissariale.
In conclusione, il ricorso va respinto, ma il fatto che l’intervento nomofilattico chiarificatore sul tema della all’assoggettabilità ad espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da uso civico sia intervenuto dopo la proposizione del ricorso per cassazione giustifica senz’altro, ad avviso del Collegio, la compensazione delle spese del giudizio di legittimità tra le parti.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; dichiara la giurisdizione del Commissario per il Riordino degli Usi Civici della Regione Abruzzo; compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 30.1.2024.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 22 agosto 2023, n. 24988, per SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938, in tema di usi civici
SS.UU, 20 maggio 2024, n. 13938, in tema di usi civici
In tema di ricorso per cassazione – SS.UU, 12 marzo 2024, n. 6477
Civile Sent. Sez. U Num. 6477 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: VINCENTI ENZO
Data pubblicazione: 12/03/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 5062/2020 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
-ricorrente-
contro
UNICAR S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 1, presso lo studio dell’avvocato PAOLO VITALI, che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso la sentenza n. 3852/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL LAZIO – SEZIONE STACCATA di LATINA, depositata il 25/06/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/01/2024 dal Consigliere ENZO VINCENTI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale ROBERTO MUCCI, che ha concluso per l’ammissibilità del ricorso, con restituzione alla Sezione Tributaria, e, in subordine, per l’accoglimento;
uditi l’avvocato dello Stato GIANNI DE BELLIS e l’avvocato PAOLO VITALI.
FATTI DI CAUSA
- – Con ricorso affidato a due motivi, l’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale (C.T.R.) del Lazio, sezione staccata di Latina, resa pubblica in data 25 giugno 2019, che, in riforma della decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Frosinone del 7 novembre 2017, accoglieva l’appello della Unicar s.r.l. e annullava, di conseguenza, l’avviso di accertamento emesso nei confronti di detta società con il quale, per l’anno di imposta 2013, era contestata la detrazione di I.V.A. per l’acquisto di n. 12 autovetture usate, giacché attinente ad operazioni soggettivamente inesistenti in ragione dell’interposizione fittizia della società “cartiera” Blue Eagle di Costa M. & C. s.a.s.
- – La T.R. del Lazio, con la sentenza impugnata in questa sede, accoglieva l’appello del contribuente reputando che il comportamento da esso tenuto non dimostrasse “la sua consapevolezza nella partecipazione ad un meccanismo di frode”, non essendo egli “nella possibilità di sapere o di dover sapere” e ciò in forza di una pluralità di elementi, ossia: l’acquisto di veicoli che, al momento della consegna, sono soggetti a registrazione; il mancato coinvolgimento (desumibile dalle “intercettazioni telefoniche”) del legale rappresentante della Unicar s.r.l. “nel meccanismo criminoso”; il numero esiguo di autoveicoli acquistati, “pari ad una irrisoria percentuale del totale”; l’incidenza sull’acquisto “ad un prezzo inferiore” delle “politiche aziendali, che mirano ad ottenere un maggior profitto”.
- – L’Agenzia delle Entrate, con il primo motivo di ricorso, ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli 2697, 2727 e 2729 c.c., nonché degli artt. 19 e 21 del d.P.R. n. 633/1972, per aver la C.T.R. utilizzato a sostegno della decisione argomentazioni “fuorvianti e ultronee”, nonché prove “inesistenti, inconsistenti, ininfluenti, non allegate dalle parti”, così da invertire lo stesso onere probatorio incombente su di esse, gravando sul contribuente la dimostrazione della propria buona fede, una volta provata dall’amministrazione (come nella specie) “la natura di cartiera della società a monte” dell’operazione in frode.
Con il secondo motivo è, quindi, censurata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione degli artt. 19 e 21, comma settimo, del d.P.R. n. 633/1972, per aver la C.T.R. infranto i principi dettati dalla giurisprudenza eurounitaria e nazionale sull’onere di “diligenza esigibile da un operatore accorto”, in assenza di dimostrazione, da parte della Unicar s.r.l., impresa con “esperienza pluriennale maturata nel settore del commercio degli autoveicoli”, di essersi comportata, nella vicenda, in conformità a detto parametro.
- – Ha resistito con controricorso l’intimata Unicar s.r.l., la quale, oltre ad argomentare sull’infondatezza dell’impugnazione, ne ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità per “inesistenza” del ricorso, redatto in originale informatico, in quanto privo di sottoscrizione digitale del difensore.
- – La trattazione del ricorso è stata rimessa alla pubblica udienza della Sezione Tributaria con ordinanza interlocutoria 13879 del 2022 adottata, ai sensi del terzo comma dell’art. 380-bis c.p.c. (ratione temporis vigente), dalla Sezione Sesta Tributaria, dinanzi alla quale la controricorrente aveva depositato memoria, insistendo nell’anzidetta eccezione preliminare.
- – All’esito dell’udienza pubblica, preceduta dal deposito delle conclusioni scritte del pubblico ministero (nel senso dell’accoglimento del ricorso) e delle memorie di entrambe le parti, la Sezione Tributaria, con ordinanza interlocutoria 16454 del 2023, reputando sussistente una questione di massima di particolare importanza in ordine al vizio ravvisabile nel ricorso per cassazione nativo digitale privo della firma digitale del difensore (nella specie, dell’avvocato dello Stato il cui nominativo è indicato in calce al ricorso stesso), ha trasmesso gli atti al Primo Presidente ai sensi dell’art. 374 c.p.c., il quale ha assegnato la causa a queste Sezioni Unite.
- – La Unicar r.l. ha depositato ulteriore memoria ex art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
- – Queste Sezioni Unite, su sollecitazione della Sezione Tributaria, sono chiamate a pronunciarsi sulla questione di diritto, di massima di particolare importanza, che attiene ad un requisito di forma del ricorso per cassazione redatto in originale informatico, ossia, se mancando la sottoscrizione con firma digitale del difensore (come nel caso in esame, quale circostanza incontestata dalla stessa difesa erariale dell’Agenzia delle Entrate), un tale vizio sia da ricondursi alla categoria dell’inesistenza, in applicazione del principio generale desumibile dall’art. 161, secondo comma, c.p.c., ovvero a quella della nullità suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, terzo comma, c.p.c.
- – La Sezione rimettente evidenzia che, nel caso, trova rilievo “un possibile deficit strutturale dell’atto processuale”, richiedendo l’art. 365 p.c. (in coerenza con la regola generale posta dall’art. 125 c.p.c.) che il ricorso per cassazione sia “sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto in apposito albo”, là dove la causa dell’inammissibilità – come ritenuto, segnatamente, da Cass. n. 18623/2016 – “non può essere trattata come una causa di nullità cui applicare il criterio del raggiungimento dello scopo”.
L’ordinanza interlocutoria, richiamando la decisione di questa Corte evocata dalla controricorrente (Cass. n. 3379/2019), espressione di un orientamento consolidato in relazione a ricorso redatto in modalità analogica (tra le altre: Cass. n. 4078/1986; Cass. n. 2691/1994; Cass. n. 6111/1999; Cass. n. 4116/2001; Cass., S.U., n. 11632/2003; Cass. n. 1275/2011), cui si oppone soltanto una pronuncia “assolutamente isolata” (Cass. n. 9490/2007), ricorda che il difetto di sottoscrizione degli atti da parte del difensore (o della parte abilitata a stare in giudizio personalmente) è riconducibile alla categoria dell’inesistenza, in applicazione del “principio generale circa la sorte della sentenza priva di sottoscrizione del giudice, ex art. 161, comma 2, c.p.c.”, essendo la sottoscrizione “elemento indispensabile per la formazione” dell’atto processuale.
Quanto, poi, al caso di specie, di ricorso nativo digitale privo di sottoscrizione digitale, la giurisprudenza di questa Corte in medias res – dal Collegio rimettente richiamata – si concentra in due (sole) pronunce: Cass. n. 14338/2017 e Cass., S.U., n. 22438/2018.
Secondo Cass. n. 14338/2017, che “si muove senz’altro nell’egida dell’orientamento tradizionale”, la mancanza della firma digitale comporta la nullità del ricorso, essendo la stessa equiparata dal d.lgs. n. 82/2005 alla sottoscrizione autografa, la quale, ai sensi dell’art. 125 c.p.c., costituisce “requisito dell’atto introduttivo (anche del processo di impugnazione) in formato analogico”.
Con Cass., S.U., n. 22438/2018 si è affermato (sebbene – come riconosce l’ordinanza n. 16454/2023 – quale “snodo logico- giuridico” dell’approdo nomofilattico ex art. 363 c.p.c. sulla questione, diversa, della improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c.) il principio secondo cui il ricorso predisposto in originale in forma di documento informatico e notificato in via telematica deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell’atto stesso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo.
La Sezione rimettente, pur dando atto della specifica portata nomofilattica di quel principio, anche ai sensi del terzo comma dell’art. 374 c.p.c., ritiene meritevole di approfondimento la questione di diritto alla luce di una serie di argomentate considerazioni.
Anzitutto, l’inserirsi del precedente del 2018 in contesto giurisprudenziale in cui il vizio attinente al requisito della sottoscrizione del ricorso, dettato ai fini dell’ammissibilità dello stesso atto, è ricondotto alla categoria dell’inesistenza e non della nullità.
Ed ancora, l’ordinanza interlocutoria evidenzia che proprio attraverso il richiamo della nullità le citate Sezioni Unite ipotizzano “il ricorso alla sanatoria del vizio, ove sia possibile attribuire la paternità dell’atto”, pur non soffermandosi – per non essere nel caso allora esaminato necessario – ad approfondire se detta paternità “debba pur sempre ricollegarsi ad una sottoscrizione comunque apposta sull’atto, anche se ad altri fini” oppure “una simile indagine possa anche condursi in forza di altri elementi, esterni all’atto processuale”.
La Sezione rimettente sostiene, quindi, che, sebbene “diverse disposizioni normative esprimono il c.d. principio di non discriminazione del documento informatico, rispetto a quello
analogico o tradizionale” (artt. 20 e 23, comma 2, del C.A.D.; art. 25, parr. 1 e 2, del Reg. UE n. 910/2014), il documento informatico, alla stregua di una sorta di “discriminazione al contrario”, “non può di per sé supplire al deficit strutturale da cui esso sia eventualmente affetto, rispetto ai requisiti di forma richiesti dalla norma, salvo che detti requisiti siano direttamente evincibili dal suo corredo informativo”.
E nel caso della mancanza della firma digitale – soggiunge l’ordinanza interlocutoria – è ben difficile che la paternità del ricorso possa desumersi aliunde dalle “proprietà” del documento stesso o “dall’utilizzo di una casella PEC inequivocabilmente riferibile all’avvocato che avrebbe apparentemente redatto il ricorso”. In quest’ultima ipotesi, non potrebbe “comunque escludersi un accesso alla medesima casella PEC del mittente da parte di soggetto diverso dal suo titolare”, là dove, poi, “è solo l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale a determinare la presunzione (relativa) di riconducibilità della stessa al suo titolare, ex art. 20, comma 1-ter, del C.A.D., non anche l’uso della casella PEC del mittente, per quanto ovviamente personale”.
La Sezione Tributaria, infine, assume, con specifico riferimento all’Avvocatura dello Stato, che, sebbene la relativa difesa abbia carattere impersonale, è “imprescindibile”, tuttavia, “che l’atto processuale debba essere comunque riferibile con certezza ad avvocato dello Stato perfettamente identificabile”. Difatti, il patrocinio assunto dall’Avvocatura erariale esclude soltanto la necessità del rilascio della procura speciale ex art. 365 c.p.c., ma non “l’assunzione di paternità circa il contenuto dell’atto, riconducibile evidentemente alla sottoscrizione”, a tal fine non potendosi neppure ricorrere alla firma per autentica di detta procura, per l’appunto non necessaria nel caso in cui la parte sia abilitata ad avvalersi del suo patrocinio. - – L’impugnazione proposta dall’Agenzia delle Entrate, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, contro la Unicar s.r.l. per la cassazione della sentenza emessa il 25 giugno 2019 dalla C.T.R. del Lazio, sezione staccata di Latina, è ammissibile.
3.1. – Viene in rilievo un ricorso redatto in forma di documento informatico, privo di firma digitale, e, come tale, notificato a mezzo p.e.c. (dall’indirizzo del mittente:_____________) il 27 gennaio 2020, ma depositato in copia analogica l’11 febbraio 2020 (unitamente alle copie cartacee dei messaggi di p.e.c. e della relata di notificazione) e munito di attestazione di conformità, ex art. 9 della legge n. 53 del 1994, con sottoscrizione autografa dell’Avvocato dello Stato Salvatore Faraci.
Tale, dunque, è la fattispecie processuale che – nell’ottica di necessaria compenetrazione tra l’esercizio dei compiti di nomofilachia e la vicenda portata alla cognizione del giudice – segna il perimetro entro il quale si colloca la decisione di ammissibilità.
3.2. – Nella specie occorre tenere conto, pertanto, del regime precedente a quello che si è venuto a determinare, dapprima, con la facoltatività, dal 31 marzo 2021, del deposito telematico a valore legale degli atti di parte nel giudizio di cassazione (e ciò per effetto del decreto direttoriale DGSIA del 27 gennaio 2021, pubblicato sulla G.U. 28 gennaio 2021, n. 22 ed emanato ai sensi dell’art. 221, comma 5, del d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020) e, quindi, a definire con l’obbligatorietà di detto deposito a partire dal 1° gennaio 2023 (in virtù dell’art. 196-quater disp. att. cod. proc. civ., introdotto dall’art. 4 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149).
Il contesto è, dunque, quello in cui, non potendosi procedere in cassazione al deposito telematico del ricorso nativo digitale come tale notificato, era affidato alla parte l’onere di attestare, ai sensi dell’art. 9, commi 1-bis e 1-ter, della legge n. 53 del 1994 (e successive modificazioni), la conformità al predetto atto processuale originale della copia analogica depositata.
Ed è in siffatto contesto che la sentenza n. 22438 del 2018 di queste Sezioni Unite ha avuto modo di affermare – nello sviluppo dell’iter argomentativo avente ad oggetto, segnatamente, la questione di procedibilità ex art. 369, primo comma, c.p.c. di ricorso nativo digitale notificato a mezzo p.e.c. e depositato in copia analogica priva di asseverazione ai sensi del citato art. 9 della legge n. 53/1994 – che la mancanza di sottoscrizione digitale del ricorso nativo digitale notificato (ossia, del documento informatico originale) costituisce un “vizio che potrebbe determinare la nullità dell’atto, se non fosse possibile aliunde ascriverne la paternità certa, in ragione del principio del raggiungimento dello scopo”.
3.3. – A tal riguardo varrà rammentare che la giurisprudenza di questa Corte (tra cui quella stessa indicata dall’ordinanza interlocutoria n. 16454/2023) assegna all’elemento formale della sottoscrizione la funzione di nesso tra il testo ed il suo apparente autore, affinché possa dirsi certa la paternità dell’atto processuale.
A tal fine, dunque, la sottoscrizione si rivela elemento indispensabile per la formazione dell’atto stesso, il cui difetto ne comporta (come, per l’appunto, sovente affermato) l’inesistenza (in forza dell’estensione del principio della nullità insanabile stabilito dal secondo comma dell’art. 161 c.p.c.), qualora, però, non ne sia desumibile la paternità da altri elementi, come, in particolare, la sottoscrizione per autentica della firma della procura in calce o a margine dello stesso (tra le altre: Cass. n. 4078/1986; Cass. n. 6225/2005; Cass. n. 9490/2007; Cass. n. 1275/2011; Cass. n. 19434/2019; Cass. n. 32176/2022).
La funzione di rendere certa la paternità dell’atto processuale può, quindi, essere assolta tramite elementi, qualificanti, diversi dalla sottoscrizione dell’atto stesso, che consentano, tuttavia, di avere certezza su chi ne sia l’autore; uno scopo, dunque, che, in siffatti stretti termini, è conseguibile aliunde.
3.3.1. – Un orientamento, questo, che la citata Cass., S.U., n. 22438/2018, muovendosi nella ricordata realtà ‘ibrida’ del processo civile telematico di legittimità (in cui, come detto, il ricorso, nativo digitale e notificato a mezzo p.e.c., doveva necessariamente essere depositato in formato analogico corredato da attestazione di conformità), ha ribadito alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU) il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (così anche: Cass., S.U., n. 25513/2016; Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024).
Di qui, pertanto, anche la rinnovata vitalità assegnata al principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo, dalla legge prescritte non per la realizzazione di un valore in sé o per il perseguimento di un fine proprio ed autonomo, ma in quanto strumento più idoneo per la realizzazione di un certo risultato, il quale si pone come il traguardo che la norma disciplinante la forma dell’atto intende conseguire (tra le molte: Cass. n. 9772/2016; Cass., S.U., n. 14916/2016; Cass., S.U., n. 10937/2017; Cass. n. 8873/2020; Cass. n. 31085/2022; Cass. n. 14692/2023).
3.4. – L’atto su cui, pertanto, queste Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è la copia cartacea del ricorso per cassazione depositata dall’Agenzia delle Entrate e asseverata, unitamente alle copie cartacee dei messaggi di p.e.c., dall’Avvocato dello Stato Salvatore Faraci.
3.4.1. – Nella specie, non è in discussione la conformità della copia al contenuto del ricorso nativo digitale, perché nulla è stato eccepito sul punto dal controricorrente.
I rilievi della Unicar s.r.l., infatti, si concentrano soltanto sull’assenza di firma digitale sull’originale del documento informatico, contestandosi, altresì, che l’apposta asseverazione ex art. 9 della legge n. 53/1994 sulla copia in formato analogico possa assolvere allo scopo di riferire l’atto al suo autore e cioè all’Avvocato dello Stato Faraci, anche perché in essa è attestato “un fatto non vero: ovverosia il fatto che il ricorso fosse stato sottoscritto digitalmente” (così a p. 9 della memoria depositata per l’udienza del 16 gennaio 2024; ma la contestazione era già presente a p. 3 della memoria depositata per l’udienza del 29 settembre 2022).
3.4.2. – Invero, pur essendo pacifica la circostanza della mancanza di sottoscrizione del ricorso nativo digitale notificato via p.e.c., non è, anzitutto, in discussione (neppure da parte della società controricorrente) la riferibilità del ricorso stesso alla difesa erariale dell’Avvocatura generale dello Stato in quanto tale, essendo ciò comprovato, comunque, dalla relativa notificazione eseguita dall’indirizzo p.e.c. (____________________) censito nei pubblici registri e riferibile alla medesima Avvocatura, alla quale, in forza dell’art. 1, comma primo, del r.d. n. 1611 del 1933, spettano “(l)a rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo”.
E tanto è consentito ritenere proprio in forza della natura impersonale del relativo patrocinio dalla legge stabilita e che viene a configurare un “unicum” rispetto alla difesa in giudizio di tutti gli altri enti pubblici che si avvalgano di avvocati del libero foro o dei propri uffici legali, essendo in questi casi il mandato difensivo sempre conferito al singolo avvocato in rappresentanza dell’ente.
Di ciò se ne ha ora conferma esplicita in base alle modifiche recentemente apportate al d.m. 44/2011 dal d.m. n. 217/2023 (modifiche entrate in vigore il 14 gennaio 2024), per cui l’Avvocatura dello Stato è espressamente menzionata, anche nelle sue articolazioni distrettuali, all’art. 2, comma 1, lettera m), n. 4, tra i soggetti abilitati esterni pubblici. Pertanto, è l’Avvocatura dello Stato in quanto tale ad essere censita sul registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della giustizia (c.d. REGINDE: art. 7 del d.m. n. 44/2011), quale difensore abilitato a operare nell’ambito del p.c.t., non i singoli avvocati e procuratori dello Stato e tanto in ragione proprio della ricordata natura impersonale del relativo patrocinio.
Del resto, il carattere impersonale della difesa dell’Avvocatura dello Stato è profilo più volte rimarcato dalla giurisprudenza di questa Corte che, anche in riferimento alla rappresentanza e difesa in giudizio delle Agenzie fiscali, ha affermato che gli avvocati dello Stato sono pienamente fungibili nel compimento di atti processuali relativi ad un medesimo giudizio, per cui l’atto introduttivo di questo è valido anche se la sottoscrizione è apposta da avvocato diverso da quello che materialmente ha redatto l’atto, unica condizione richiesta essendo la spendita della qualità professionale abilitante alla difesa (tra le altre: Cass. n. 4950/2012; Cass. n. 13627/2018). E nella stessa prospettiva si è, altresì, precisato che, nel caso di ricorso proposto per conto di un’amministrazione dello Stato, se non si contesta che la sottoscrizione provenga da un legale dell’Avvocatura generale dello Stato, non rileva neanche se lo stesso si identifichi o meno con il nominativo indicato nell’epigrafe o in calce al ricorso (Cass., S.U., n. 59/1999; Cass. n. 21473/2007).
3.4.3. – Quanto, poi, alla necessità della sottoscrizione del ricorso nativo digitale depositato in modalità analogica da un determinato avvocato dello Stato, una siffatta esigenza è, nella specie, da ritenersi soddisfatta dall’attestazione di conformità sottoscritta dall’avvocato dello Stato Faraci, di cui non è affatto contestata tale qualità.
L’asseverazione datata 29 gennaio 2020, nonostante attesti, in contrasto con la realtà fenomenica, che l’originale informatico dell’atto sia “sottoscritto con firma digitale dall’Avvocato dello stato Avv. Salvatore Faraci”, risulta comunque chiaramente riferita al ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate contro la Unicar s.r.l. e agli allegati messaggi di p.e.c. relativi alla notificazione del ricorso medesimo in data 27 gennaio 2020. E la inequivoca riferibilità dell’attestazione anzidetta al ricorso per cui è causa è circostanza che, invero, non è messa in discussione neppure dalla parte controricorrente, le cui difese, come detto, insistono sul profilo giuridico dell’inesistenza di ricorso nativo digitale privo di sottoscrizione e sulla inidoneità dell’attestazione ex lege n. 53/1994 a supplire a tale carenza.
Contrariamente, dunque, a quanto ritenuto dalla Unicar s.r.l., detta asseverazione esprime la paternità certa dell’atto, proveniente dall’Avvocatura generale dello Stato, in capo allo stesso avvocato dello Stato Faraci, operando in termini che, nello specifico contesto dato, possono ben essere assimilati alla certificazione dell’autografia della sottoscrizione della procura alle liti, palesando anzi, in maniera anche più evidente di quest’ultima (che si riferisce indirettamente all’atto cui accede), il nesso tra l’atto e il suo autore.
3.5. – Pertanto, nella peculiarità della delineata situazione processuale ‘ibrida’ e in continuità con l’indirizzo, ribadito anche da Cass., S.U., n. 22438/2018 (alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale, cui si raccorda quello di strumentalità delle forme processuali), per cui è possibile desumere aliunde, da elementi qualificanti, la paternità certa dell’atto processuale, va ritenuto che la notificazione del ricorso nativo digitale dalla casella p.e.c. dell’Avvocatura generale dello Stato censita nel REGINDE e il deposito della copia di esso in modalità analogica con attestazione di conformità sottoscritta dall’avvocato dello Stato, rappresentano elementi univoci da cui desumere la paternità dell’atto, rimanendo così superato l’eccepito vizio in ordine alla mancata sottoscrizione digitale dell’originale informatico del ricorso. - – Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate va, dunque, dichiarato ammissibile e il relativo esame rimesso alla Sezione Tributaria.
P.Q.M.
dichiara ammissibile il ricorso e ne rimette l’esame alla Sezione Tributaria.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 09 giugno 2023, n. 16454, per SS.UU, 12 marzo 2024, n. 6477, in tema di ricorso per cassazione
SS.UU, 12 marzo 2024, n. 6477, in tema di ricorso per cassazione
In tema di sospensione feriale dei termini – SS.UU, 13 maggio 2024, n. 12946
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sig.ri Magistrati:
Oggetto
SEPARAZIONE DIVORZIO –
oscuramento
R.G.N. 28091/2021
Cron.
Rep.
Ud. 30/01/2024
PU
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 28091-2021 proposto da:
T. D., rappresentata e difesa dagli avvocati ROBERTO BOCCHINI e GIANLUCA BIANCAMANO;
-ricorrente –
contro
M. L. rappresentato e difeso dall’avvocato SABRINA VARRICCHIO;
-controricorrente –
avverso il DECRETO della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositato il 23/06/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2024 dal Consigliere FRANCESCO TERRUSI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Luisa De Renzis, che ha concluso perché il ricorso sia dichiarato ammissibile; in subordine, perché sia disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea;
udito l’Avvocato Roberto Bocchini.
Fatti di causa
M. L. ha chiesto, ai sensi dell’art. 9 legge div., di essere esonerato dall’obbligo di versare all’ex coniuge T. D. l’assegno di mantenimento delle figlie, S. e L. , stabilito nel giudizio di divorzio in 5.000,00 EUR.
Il tribunale di Napoli ha respinto il ricorso osservando che le giovani, per quanto maggiorenni e laureate, erano ancora in una condizione di permanenza temporanea fuori sede, con conseguente conservazione della legittimazione della madre a ricevere l’assegno.
La decisione è stata riformata dalla corte d’appello di Napoli perché la mancanza di convivenza delle figlie con la madre aveva costituito una condizione determinativa del venir meno della di lei legittimazione a chiedere e ottenere, iure proprio, l’assegno.
Specificamente la corte d’appello ha ritenuto che l’età delle figlie, i percorsi intrapresi in conformità degli studi e le esperienze lavorative e professionali successivamente svolte fossero tali da sostenere la conclusione della possibilità di accesso ad altre esperienze lavorative qualificanti, in linea con le prospettive di ognuna, del contesto familiare e dell’ambiente socioeconomico nel quale esse erano inserite; sicché la residenza di entrambe a Milano doveva essere considerata come oramai non più temporanea. Era quindi venuto meno il presupposto della convivenza delle figlie con la madre e di conseguenza non poteva ritenersi esistente neppure la legittimazione di quest’ultima a pretendere l’assegno in nome delle stesse, salva rimanendo la loro eventuale iniziativa diretta.
La T. D. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi.
Il M. L. ha resistito con controricorso.
Con ordinanza interlocutoria n. 27514 del 2023 la Prima sezione civile di questa Corte ha chiesto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite sulla pregiudiziale questione relativa alla tempestività del mezzo, perché il ricorso è stato notificato il 26-10-2021 a fronte di decreto a sua volta notificato, per ammissione della stessa parte, il 27-7-2021. Ne deriverebbe la necessità di stabilire se alle liti in materia di mantenimento per i figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti sia applicabile, o meno, la sospensione dei termini processuali prevista dagli artt. 3 della l. n. 742 del 1969 e 92, primo comma, dell’ord. giud.; soluzione condizionata dal significato da annettere alla locuzione “cause civili relative ad alimenti” prevista da tale seconda norma quanto agli affari civili da trattare in periodo feriale, perché sottratti alla sospensione dei termini.
A tal riguardo il collegio rimettente ha ravvisato l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza insorto per effetto di una recente ordinanza della stessa Prima sezione (la n. 18044 del 2023) che, mutando il quadro dei principi fin a ora espressi in modo all’apparenza consolidato, ha stabilito che nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori non è più applicabile la sospensione feriale dei termini processuali; sicché tali cause sarebbero ormai tutte assimilabili a quelle in materia di alimenti, per definizione urgenti e non soggette a pause processuali obbligatorie.
La Prima Presidente ha disposto in conformità.
Le parti hanno depositato memorie.
Ragioni della decisione
I.- In esito alla citata recente decisione n. 18044-23, la Primasezione ha chiesto che fosse riservata alle Sezioni Unite una questione divenuta di particolare importanza per due ordini di ragioni: perché correlata a un tentativo di mutamento di giurisprudenza ritenuto necessario dal tenore della normativa europea asseritamente rilevante (il regolamento CE n. 4 del 2009 del Consiglio in data 18-12-2008); e perché coinvolgente, negli effetti potenziali, un numero indeterminato di controversie familiari.
II.- L’ordinanza n. 18044-23 ha fissato il seguente principio: “intema di obbligazioni alimentari come regolate dall’art. 1, comma 1, del Regolamento CE n. 4/2009 del Consiglio del 18 dicembre 2008 (relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari), a norma dell’art. 83, comma 3, del d. l. n. 18 del 2020, convertito nella l. n. 27 del 2020, che della prima costituisce una derivazione, nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori non è più applicabile la sospensione feriale dei termini processuali, di cui agli artt. 1 e 3 l. n. 742 del 1969; tali cause sono ormai tutte assimilabili a quelle in materia di alimenti, per definizione urgenti e non soggette a pause processuali obbligatorie; ove pertanto si controverta di siffatte obbligazioni, la sospensione dei termini non si applica parimenti ai casi in cui la causa comprenda, in connessione, anche altre questioni familiari o riguardanti i minori, pur se non espressamente contemplate dall’art. 92 del decreto regio n. 12/1941”.
III.- In effetti il principio si pone in discontinuità rispetto a unpanorama giurisprudenziale consolidato in senso opposto, incentrato sull’affermazione per cui al procedimento di revisione del contributo di mantenimento dei figli è applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale in quanto il diritto dei figli al mantenimento da parte dei genitori, anche dopo la separazione o il divorzio, previsto rispettivamente dagli artt. 155 cod. civ. e 6 della l. n. 898 del 1970, non ha natura alimentare (ex artt. 433 e seg. cod. civ.), neppure per assimilazione (Cass. Sez. 1 n. 8417-00, Cass. Sez. 1 n. 8567-91, Cass. Sez. 1 n. 2050-88; e v. pure Cass. Sez. 1 n. 1874-19).
Poiché l’assegno divorzile non si può equiparare all’assegno alimentare, essendo diverse la natura e le finalità proprie dei due tipi di assegno, in nessuna delle controversie concernenti l’assegno divorzile può trovare applicazione – si dice – l’esclusione dalla sospensione dei termini durante il periodo feriale prevista dall’art. 3 della legge n. 742 del 1969, in relazione all’art. 92, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, riguardo alle cause relative agli alimenti. Per dette controversie può escludersi la sospensione soltanto ove consegua, a norma del secondo comma dell’art. 92, il decreto di riconoscimento dell’urgenza della controversia, nel presupposto – previsto dallo stesso primo comma dell’art. 92 da intendersi richiamato dal citato art. 3 – che la ritardata trattazione possa provocare un grave pregiudizio alle parti (v. Cass. Sez. 1 n. 5862-99).
IV.– Occorre dire che nel solco del menzionato orientamento larilevanza della distinzione è stata ribadita anche di recente, in relazione alla normativa emergenziale di contrasto all’epidemia da Covid-19.
A questa normativa ha fatto riferimento anche l’ordinanza n. 18044-23, per giungere (tuttavia) a una conclusione opposta.
Secondo la tesi prevalente, alle cause relative ad alimenti o a obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, considerate rilevanti ai fini dell’eccezione alla sospensione generalizzata dei termini processuali per effetto dell’art. 83, terzo comma, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020, convertito con modificazioni in l. n. 27 del 2020, non possono essere equiparate le cause relative all’assegno divorzile, sempre per l’impossibilità di correlare l’assegno divorzile all’assegno alimentare, stante l’evidente diversità dei fini e della natura dei due assegni (Cass. Sez. 1 n. 5393-23, Cass. Sez. 1 n. 6639-23).
V.- L’ordinanza della Prima sezione n. 18044 del 2023 ha espressoil suo diverso convincimento sulla scorta dei seguenti passaggi argomentativi:
(i)l’art. 83, terzo comma, lett. a), del d.l. n. 18 del 2020 ai finidell’emergenza pandemica ha distinto – è vero – le due fattispecie (quella delle cause relative agli alimenti, riferibile all’art. 433 e seg. cod. civ., e quella relativa all’obbligazione alimentare), ma le ha poi assoggettate alla medesima disciplina;
(ii)così facendo la norma ha recepito la più ampia accezionecontemplata dall’art. 1, primo comma, del regolamento (CE) n. 4/2009 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari;
(iii)la stessa relazione illustrativa del d.l. n. 18 del 2020 hacorrelato la locuzione “cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio odi affinità” al significato che a essa viene dato nella normativacomunitaria, e in particolare nell’art. 1 del citato regolamento (CE) n. 4/2009;
(iv)quindi, anche ai fini interpretativi delle norme sullasospensione dei termini processuali, la nozione di obbligazioni alimentari, siccome accolta nel diritto della UE, dovrebbe essere intesa nell’accezione “autonoma” declinata dal Considerando n. 11 del suddetto regolamento, con estensione a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, in senso comprensivo dei diversi istituti che coinvolgono le obbligazioni di mantenimento.
Ne deriverebbe la necessità di un mutamento radicale di assetti quanto agli indirizzi giurisprudenziali anteriori, perché “la norma sull’emergenza Covid-19, per il suo chiaro tenore letterale, sottrae entrambe le fattispecie alla sospensione dei termini processuali e stabilisce per le due tipologie di accertamento (concernenti l’alimentare puro e l’alimentare da mantenimento da valere nell’ambito familiare) una trattazione in sede giurisdizionale destinata ad operare anche durante la sospensione feriale e pur in un periodo segnato dalla necessità di contenimento del rischio pandemico”.
La normativa emergenziale costituirebbe – così – un’espressione della discrezionalità del legislatore eurounitario volta a bilanciare gli interessi da tutelare mediante un’innovativa ratio, diretta ad accomunare, seppure ai fini della disciplina della sospensione dei termini processuali, due istituti (l’obbligazione alimentare e l’obbligazione di mantenimento) da sempre oggetto di differente regolamentazione per antica tradizione dommatica.
VI.- L’orientamento sostenuto dalla Prima sezione con l’ordinanzan.18044-23 non può essere condiviso.
A composizione del contrasto va fissato, in coerenza con l’indirizzo tradizionale, il principio per cui ai giudizi o ai procedimenti di revisione delle condizioni di separazione o di divorzio, nei quali si discuta del contributo di mantenimento o dell’assegno divorzile nelle varie forme, resta applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, salvo che non ricorra il decreto di riconoscimento dell’urgenza della controversia (art. 92 ord. giud.) nel presupposto che la sua ritardata trattazione possa provocare grave pregiudizio alle parti.
VII.– È necessario prender le mosse dalla ratio della sospensione feriale, che è strettamente correlata alla tutela giurisdizionale dei diritti.
L’istituto della sospensione dei termini processuali in periodo feriale costituisce un presidio della tutela giurisdizionale dei diritti.
Quando l’azione giudiziaria sia l’unico rimedio funzionale a far valere un diritto che si assuma leso, la sospensione dei termini in periodo feriale, per il tramite della necessità di assicurare riposo agli avvocati, garantisce altresì che non sia menomato il diritto alla tutela giurisdizionale secondo quanto previsto in generale dall’art. 24 cost. (v. tra le varie C. cost. n. 380 del 1992, C. cost. n. 61 del 1990, C. cost. n. 49 del 1990).
In guisa di tale ratio, la l. n. 742 del 1969 ha dettato come regola generale, in relazione all’art. 92 ord. giud., quella della sospensione degli affari civili in periodo feriale, salvo l’elenco tassativo dei casi (eccezionali) nei quali invece una certa tipologia di cause, specificamente indicate, va considerata urgente per definizione, così da risultare sottratta alla medesima regola (v. Cass. Sez. 1 n. 8567-91, Cass. Sez. 1 n. 12964-02).
VIII.- Nell’elenco delle cause alle quali la sospensione non èapplicabile compaiono quelle “relative ad alimenti” (art. 92 ord. giud. come richiamato nell’art. 3 della l. n. 742 del 1969).
Codeste sono però distinte – ontologicamente – dalle cause di separazione o di divorzio nelle quali semplicemente si discuta dell’obbligazione alimentare o dell’assegno di mantenimento o divorzile.
Queste ultime attengono a obbligazioni avvinte dal fine di solidarietà familiare o post-familiare considerato rilevante nella crisi della famiglia. Le relative prestazioni possono certo rispondere alla necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, ma in un’accezione più ampia di (e indiscutibilmente differente da) quella sottesa alla prestazione alimentare strettamente intesa, non essendo necessario lo stato di indigenza o di bisogno al quale allude, invece, l’art. 438 cod. civ.
Simile constatazione distintiva è del tutto ovvia e non è punto messa in discussione dall’ordinanza n. 18044-23.
Essa d’altronde trova riscontro, per i giudizi divorzili o per quelli di cui all’art. 9 della legge div. che qui specificamente interessano, nella funzione polivalente riconosciuta all’assegno nelle sue varie declinazioni:
-natura assistenziale e anche perequativo-compensativa quantoall’ex-coniuge, diretta conseguenza del principio costituzionale di solidarietà, che conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (Cass. Sez. U n. 18287-18);
-concretizzazione, quanto al figlio, del diritto di ricevere daigenitori, sia se minore, sia se maggiorenne ma non economicamente indipendente, l’adempimento degli obblighi di mantenimento, istruzione, educazione e assistenza morale e materiale (artt. 147, artt. 155 e 337-bis e seg. cod. civ.).
Ciò vuol dire che, sempre in rapporto ai figli, al diritto ritenuto preminente fa da contraltare un obbligo che a sua volta si impone come dovere preminente: un dovere che sul genitore grava anche ove l’altro non possa o non voglia adempiere al proprio eguale dovere, nell’essenziale interesse dei figli stessi e onde far fronte comunque e per intero alle loro esigenze con tutte le sostanze patrimoniali e con la propria capacità di lavoro – salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui.
Con riguardo al contributo relativo alla prole, che nella presente causa interessa specificamente, questa constatazione prescinde in toto dal cd. stato di bisogno e – radicata nella giurisprudenza in modo pressoché costante – induce a precisare che l’ammontare del contributo dovuto dal genitore per il mantenimento dei figli, minorenni o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, implica semmai l’osservanza del principio di proporzionalità (art. 337-ter cod. civ.); il quale richiede la valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori nella considerazione non delle necessità di mera prestazione alimentare –art. 438 cod. civ. -, bensì delle esigenze attuali del figlio e del tenoredi vita da lui goduto (tra le più recenti Cass. Sez. 1 n. 4811-18; Cass. Sez. 1 n. 19299-20, Cass. Sez. 1 n. 32466-23).
IX.- Per incidens può osservarsi che il riscontro di una distinta eben più articolata funzione di tutte le menzionate prestazioni, rispetto a quella alimentare in senso stretto, è al fondo della recente sottolineatura fatta da queste Sezioni Unite a proposito dell’operare della regola della condictio indebiti.
Per l’assegno di mantenimento nella separazione o per l’assegno divorzile, la condictio è stata riconosciuta come espressione di regola generale ove risulti accertata – nella sentenza di primo o di secondo grado – l’insussistenza ab origine, in capo all’avente diritto, dei presupposti per il versamento del contributo (ancorché riconosciuto in sede presidenziale o dal giudice istruttore in sede di conferma o modifica).
E tuttavia questa stessa regola può essere derogata, si è detto, con conseguente applicazione del principio di irripetibilità, nelle due ipotesi (a) dell’esclusione della debenza del contributo in virtù di una diversa valutazione con effetto ex tunc delle sole condizioni economiche dell’obbligato già esistenti al tempo della pronuncia e (b) della rimodulazione al ribasso di una misura originaria idonea a soddisfare esclusivamente i bisogni essenziali del richiedente, sempre che la modifica avvenga nell’ambito di somme modeste, presumibilmente destinate al consumo da un coniuge, o ex coniuge, in condizioni di debolezza economica (Cass. Sez. U n. 32914-22).
Nel dire questo è stata dalla giurisprudenza valorizzata proprio l’esistenza delle differenze funzionali (e in parte anche strutturali) tra ciò che costituisce oggetto di alimenti (nel presupposto unico e specifico dello stato di bisogno dell’avente diritto e dell’impossibilità di provvedere altrimenti a tale stato) e ciò che invece, in termini compositi, integra la cifra del diritto al mantenimento, sia del coniuge, o dell’ex coniuge, che della prole, e sia nella separazione che nel divorzio.
X.– Ora, da tale excursus ben può dirsi dimostrata la solidamatrice di riferimento della tesi restrittiva a proposito del correlato ambito di applicazione dell’art. 3 della l. n. 742 del 1967 in relazione all’art. 92 ord. giud.
L’esigenza di certezza, che sempre si impone laddove si discuta di garanzie di difesa giurisdizionale, implica che quella matrice sia individuata nel testo di legge in rapporto alla constatata differenza tra le fattispecie, giacché il testo del richiamato art. 92, parlando di cause “relative ad alimenti”, sottende un rinvio alla prestazione alimentare strettamente intesa, quella di cui agli artt. 433 e seg. cod. civ., così che un simile rinvio possa infine ritenersi refrattario a qualunque fraintendimento.
XI.- L’ordinanza n. 18044-23, senza porre in dubbio l’effettivitàdella differenza tra le sottostanti fattispecie, ha ritenuto di individuare un diverso margine valutativo facendo leva su due argomenti: la normativa da Covid-19 e il regolamento (CE) n. 4 del 2009 al quale la prima si sarebbe ispirata.
Nessuno di essi è decisivo.
XII.- Non lo è innanzi tutto quello incentrato sulla normativaemergenziale da Covid-19.
È vero che codesta, ai fini dell’eccezione alla sospensione generalizzata dei termini processuali dopo la modifica dell’art. 83 del d.l. n.18 del 2020 fatta in sede di conversione, ha sostituito (a decorreredal 30-6-2020) l’originaria formulazione, contemplante le “cause relative alla tutela dei minori, ad alimenti”, con la frase “cause relative ai diritti delle persone minorenni, al diritto all’assegno di mantenimento, agli alimenti e all’assegno divorzile”.
Ma non è ravvisabile una concreta incidenza di un simile fatto sull’assetto di principi che concernono la l. n. 742 del 1967.
Nel d.l. n. 18 del 2020 e nella relativa legge di conversione è da rinvenire niente altro che una disciplina temporanea (per la cui ricostruzione può rinviarsi a Cass. Sez. 1 n. 5393-23).
La disciplina è stata indirizzata a stabilire quali fossero, in relazione all’andamento dei contagi e delle misure di distanziamento sociale nelle varie fasi del contrasto alla pandemia, le eccezioni alla regola di sospensione generalizzata dell’attività giudiziaria; regola riguardante i procedimenti e i termini processuali in vista della medesima unica esigenza di contenimento degli effetti della diffusione epidemica.
S’è trattato dunque di una normativa specifica e a termine, non avente altre finalità che la tutela della salute pubblica in un contesto eccezionale e provvisorio – e peraltro cessato prima delle date essenziali che in questa sede interessano (e che – per vero – interessavano anche la fattispecie risolta da Cass. Sez. 1 n. 18044-23) per stabilire la tempestività del ricorso. Una normativa nella quale, oltre tutto, sebbene nell’ampliamento delle fattispecie sottratte alla sospensione generalizzata ex lege lì rilevante, risulta esplicitata la piena consapevolezza del legislatore in ordine alla diversità di ambito tra le cause relative agli alimenti in senso stretto (da un lato) e quelle relative alle prestazioni di mantenimento o alimentari nell’ambito dei giudizi di separazione e divorzio (dall’altro).
La menzionata diversità è stata tenuta da conto al punto da indurre infatti – pur nella logica dell’emergenza – all’estensione dei diritti processuali previsti dall’originaria formulazione dell’art. 83; estensione alla categoria delle prestazioni da assolvere nei giudizi di separazione o di divorzio, attraverso una modifica del testo altrimenti inspiegabile.
L’elemento di specialità insito nella normativa richiamata testimonia che nessun effetto è da attribuire al divenire delle formulazioni dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 per ciò che riguarda l’esegesi degli artt. 3 della l. n. 742 del 1967 e 92 ord. giud. a proposito del diverso operare della regola da tali articoli desumibile.
XIII.- Quanto al regolamento (CE) n. 4 del 2009, si tratta inquesto caso della fissazione in ambito UE delle regole relative alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari.
Anche qui è indubbiamente vero che il regolamento ha adottato una propria nozione di obbligazione alimentare; ed è vero che codesta non è rapportabile a quella sottesa agli artt. 433 e seg. cod. civ.
Ma, per quanto il regolamento già nel Considerando n. 11 (richiamato dall’ordinanza n. 18044-23) abbia enunciato che la nozione di obbligazione alimentare “dovrebbe essere interpretata in maniera autonoma”, vi è che poi nell’art. 1.1 ha precisato che l’ambito di applicazione del testo è quello delle “obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità” solo in rapporto al fine.
Detto altrimenti: il complesso delle previsioni del regolamento, ivi compreso l’ambito delle definizioni, è da intendere circoscritto dal fine del regolamento stesso. E il fine è quello di “istituire specifiche norme procedurali comuni speciali per semplificare e accelerare la composizione delle cause transfrontaliere riguardanti in particolare i crediti alimentari”.
Questa cosa è stata fatta mediante soppressione delle misure intermedie necessarie per permettere il riconoscimento e l’esecuzione nello Stato richiesto di una decisione emessa in un altro Stato membro, e in particolare una decisione riguardante – giustappunto – un credito alimentare (v. i Considerando 4 e 9).
Sicché in tal modo il regolamento citato ha perseguito lo scopo di consentire a un creditore di alimenti – qualunque ne sia il contesto e la fonte di diritto interno – “di ottenere facilmente in uno Stato membro una decisione che sia automaticamente esecutiva in un altro Stato membro senza ulteriori formalità”, così preservando l’obiettivo mediante la creazione di uno strumento comunitario in materia di obbligazioni alimentari teso a raggruppare le disposizioni concernenti i conflitti di giurisdizione, i conflitti di leggi, il riconoscimento e l’esecutività, l’esecuzione, il patrocinio a spese dello Stato nonché la cooperazione tra le autorità centrali (v. il Considerando 10).
XIV.- Solo, quindi, in rapporto a questa specifica funzione sispiega la precisazione alla quale ha alluso l’ordinanza n. 18044 del 2023.
Erroneamente quella precisazione è stata valorizzata in modo assoluto.
L’ambito di applicazione del regolamento deve estendersi “a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità”. E però “al fine di garantire la parità di trattamento tra tutti i creditori di alimenti”, onde preservare gli interessi dei creditori di alimenti e favorire la corretta amministrazione della giustizia all’interno dell’Unione europea, tanto da venir simultaneamente auspicato un adattamento delle stesse norme eurounitarie sulla competenza (pro tempore, il regolamento (CE) n. 44/2001).
Sicché la circostanza che un convenuto abbia la residenza abituale in uno Stato terzo non deve escludere – come ancora si dice nel regolamento n. 4 del 2009 – l’applicazione delle norme comunitarie in materia di competenza, così da non rendere necessario un ulteriore rinvio alle norme in materia di competenza contemplate dal diritto nazionale.
Per questo, e non per altro, nel Considerando n. 11 si rinviene la specificazione che “ai fini del presente regolamento”, la nozione di «obbligazione alimentare» dovrebbe essere interpretata “in maniera autonoma”.
XV.- Ne deriva che le previsioni del citato regolamento (CE) n. 4del 2009 non incidono affatto sulle modalità con le quali le legislazioni dei singoli Stati (e tra queste in particolare la legislazione nazionale italiana) abbiano ritenuto – e ritengano – di disciplinare gli istituti di riferimento sul piano dei presupposti, degli effetti e delle modalità di tutela.
Il regolamento viene in considerazione solo ove si discuta del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni o della competenza in materia di obbligazioni alimentari.
L’ampliamento del concetto di obbligazione alimentare declinato dal regolamento non fuoriesce dai casi in cui sia in discussione il suo ambito specifico di applicazione. Ed è quindi ininfluente rispetto alla disciplina della sospensione dei termini feriali quanto ai giudizi di diritto interno. Ciò anche perché la stessa (sottesa) esigenza di una più celere definizione di tali giudizi è dagli istituti di diritto interno comunque assicurata, stante la possibilità offerta dall’art. 92 ord. giud. di dichiarare urgente – e come tale sottratta alla sospensione feriale – la singola causa quando la ritardata trattazione potrebbe provocare un grave pregiudizio alle parti.
XVI.- Nel caso concreto risulta che il decreto impugnato è statonotificato il 27-7-2021 e che il ricorso per cassazione a sua volta è stato notificato il 26-10-2021 a fronte della sospensione dei termini in periodo feriale.
Deve concludersi che il ricorso medesimo è ammissibile perché tempestivo.
XVII.- Fissato nel senso indicato al superiore punto VI il principiodi diritto volto a comporre il contrasto di giurisprudenza, e stabilito che il ricorso è ammissibile, gli atti possono essere restituiti alla sezione rimettente per l’esame delle censure consegnate ai singoli motivi.
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, dichiara ammissibile il ricorso e rimette gli atti alla Prima sezione civile per l’esame dei singoli motivi.
Dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, addì 30 gennaio 2024.
Il Presidente
Pasquale D’Ascola
Il Consigliere estensore
Francesco Terrusi
Allegati:
SS.UU, 13 maggio 2024, n. 12946, in tema di sospensione feriale dei termini
In tema di società in house – SS.UU, 19 febbraio 2024, n. 4413
Civile Ord. Sez. U Num. 4413 Anno 2024
Presidente: CASSANO MARGHERITA
Relatore: CRISCUOLO MAURO
Data pubblicazione: 19/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso 12016-2023 proposto da:
PUTZU ALESSIO, rappresentato e difeso dagli avvocati BALLERO BENEDETTO e BALLERO FRANCESCO, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI ORISTANO, PERRA BARBARA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 4067/2023 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 21/04/2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/02/2024 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
FATTI DI CAUSA
1. Alessio Putzu ha proposto appello avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda), 00866/2022, con cui era stata declinata la giurisdizione in favore di quella del giudice ordinario in relazione al ricorso avente ad oggetto l’impugnazione del provvedimento n. 53614 del 20.08.2022 del sindaco del Comune di Oristano, con cui era stata disposta la revoca del ricorrente, con decorrenza immediata, dall’incarico di amministratore unico della società Oristano Servizi Comunali S.r.l., quale società in house a capitale interamente pubblico, nonché l’impugnazione della Determina del Sindaco di Oristano n. 23 del 02.09.2022, che aveva disposto la nomina del nuovo amministratore unico della Società Oristano Servizi.
La sentenza appellata aveva fatto applicazione dell’art. 2449 c.c., facendo richiamo al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 16335 del 18.06.2019 nel caso relativo alla revoca dell’amministratore della società Milano Ristorazione s.p.a. da parte dell’Ente Pubblico.
Secondo l’appellante, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, lo Statuto della società Milano Ristorazione Spa riportava un espresso riferimento al potere dell’Ente pubblico di disporre la revoca dell’amministratore, ai sensi dell’art. 2449 c.c., mentre tale richiamo non era presente nello Statuto della società Oristano Servizi comunali S.r.l., il che escludeva che la controversia in esame rientrasse nella giurisdizione del giudice ordinario, venendo in effetti in rilievo un normale potere di imperio ed un correlato interesse legittimo in capo all’amministratore revocato.
Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4067 del 21 aprile 2023 ha rigettato l‘appello.
Richiamata la regola per cui la giurisdizione si determina in base alla domanda, a prescindere dal vaglio della sua fondatezza, e che, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il “petitum” sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della “causa petendi“, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione, ha osservato che nella specie non poteva trovare accoglimento la tesi di parte appellante secondo la quale, in difetto di un espresso richiamo contenuto nello Statuto comunale all’art. 2449 c.c., i poteri dell’Ente pubblico avrebbero carattere autoritativo.
In realtà doveva ritenersi che il potere di nomina dell’amministratore, previsto nell’ipotesi di specie dallo statuto (art. 7 ed 8), era attuazione di quanto previsto dall’art. 2449 c.c. e che a detto potere privatistico si accompagni quello contrario, avente del pari carattere paritetico, di revoca, nella cui logica si inscrive anche il potere previsto dall’art. 50 del TUEL, secondo quanto ritenuto dalla Suprema Corte con la pronuncia Sez. Un., 18/06/2019, n.16335, con cui si è affermato che i commi 8 e 9 dell’articolo 50 TUEL sono norme etero-integrative dell’articolo 2449 c.c., che, nei limiti temporali previsti, consentono all’ente pubblico, in deroga alla previsione statutaria di durata minima dell’incarico, di revocare i componenti dell’organo di gestione in precedenza nominati.
La stessa giurisprudenza di legittimità aveva affermato (Cass. Sez. Un. 6 maggio 1995, n. 4989; Cass., Sez. un., 26 agosto 1998, n. 8454; Cass., Sez. un., ord. 3 ottobre 2016, n. 19676; Cass., Sez. un., ord. 14 settembre 2017, n. 21299; Cass., Sez. un., ord. 1 dicembre 2016, n. 24591) – che “una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale”, e ciò in quanto il rapporto che lega la società e l’ente pubblico è di assoluta autonomia, “posto che l’ente può incidere sul funzionamento e sull’attività della società non già attraverso l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei componenti degli organi sociali di sua nomina”.
Invero, la PA quando nomina o revoca gli amministratori “non esercita un potere a titolo proprio ma esercita l’ordinario potere dell’assemblea, ad essa surrogandosi, quale organo della società, per autorizzazione della legge o dello statuto”. Inoltre, “l’amministratore di designazione pubblica non è soggetto agli ordini dell’ente nominante ed anzi, per testuale previsione del codice civile (articolo 2449 c.c.), ha i medesimi diritti ed i medesimi obblighi dell’amministratore di nomina assembleare”. Infine, l’equiparazione tra amministratori di nomina assembleare e quelli designati dall’ente pubblico si riscontra anche nella forma di tutela a cui possono accedere, atteso che entrambi possono giovarsi solo della “monetizzazione della funzione” ai sensi dell’art. 2383 c.c.
Da ciò discende, “l’inquadramento privatistico delle società in mano pubblica, col relativo assoggettamento alla giurisdizione ordinaria”, come del resto evincibile dall’art. 1 comma 3 del D.Lgs. n. 175/2016 (c.d. TUSP).
Confortava tale conclusione anche l’art. 2449, comma 1, c.c., che chiarisce che la facoltà del compimento dei predetti atti deve essere “conferita al socio pubblico dallo statuto, cioè da un atto fondamentale di natura negoziale (articolo 2328 c.c., comma 3) e che, con l’abrogazione (…) dell’articolo 2450 c.c. – a norma del quale la legge o lo statuto potevano attribuire la nomina e la revoca ad un ente pubblico estraneo al capitale sociale – è stato posto in chiaro che gli atti in questione competono all’ente pubblico uti socius, e dunque iure privatorum e non iure imperii”. In particolare in materia di società partecipate da enti pubblici, al giudice amministrativo vanno attribuite le controversie relative ai provvedimenti unilaterali di natura autoritativa, che sono, di fatto, preliminari rispetto alle successive deliberazioni societarie, “con i quali l’ente pubblico delibera di costituire la società o di parteciparvi o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della stessa o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della medesima”, mentre spettano al giudice ordinario le cause “aventi ad oggetto gli atti societari “a valle” della scelta di fondo dell’utilizzazione del modello societario”, ovvero quelle connesse con l’esercizio da parte dell’ente pubblico delle facoltà proprie del socio, “fra le quali rientrano quelle volte ad accertare l’intera gamma delle patologie e delle inefficacie negoziali inerenti la struttura del contratto sociale, ancorché ad essa estranee e/o sopravvenute e derivanti da irregolarità- illegittimità della procedura amministrativa a monte”
Ove si dibatta della legittimità dell’atto di revoca degli amministratori di una partecipata emesso dal Sindaco neoeletto entro quarantacinque giorni dal suo insediamento, la lite deve essere devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di atto che è esercizio di quanto previsto dall’art. 50 del TUEL, e che attiene ad una fase successiva alla costituzione della società e, in quanto idoneo ad incidere sulla struttura societaria, deve essere ricondotto alla “potestà di diritto privato ascrivibile all’ente pubblico uti socius, che il Sindaco esercita in conformità degli indirizzi, di natura politico-amministrativa stabiliti dal consiglio”.
Le Sezioni unite hanno poi precisato che l’art. 50 TUEL risponde all’esigenza “della nuova amministrazione di poter contare sull’immediata disponibilità di soggetti che si rendano interpreti delle sue nuove linee di indirizzo e delle diverse finalità della gestione, senza dover sottostare ai tempi lunghi occorrenti per verificare se gli amministratori in carica, “ereditati'” del precedente governo cittadino, siano in grado di corrispondere a tali mutate esigenze”.
I principi affermati dal giudice di legittimità risultavano poi applicabili alla fattispecie, in quanto, come evidenziato dal Comune appellato, lo Statuto della Oristano Servizi s.r.l. contiene numerosi richiami alle norme privatistiche. In particolare, l’art. 7 co. 1 dello Statuto espressamente riserva alla competenza del socio unico le decisioni nelle materie di cui agli artt. 2479 e 2487 c.c.; la prima di dette norme, rubricata “decisione dei soci” al comma 2, numero 2, prevede che: “In ogni caso sono riservate alla competenza dei soci: … 2) la nomina, se prevista nell’atto costitutivo, degli amministratori”. L’art. 8 prevede che la società può essere amministrata, alternativamente, su decisione del socio unico, da un amministratore unico o da un consiglio di amministrazione.
Era, pertanto, evidente come il potere di nomina del socio unico si inquadrasse nel disposto dell’art. 2449 c.c., il cui comma 2 prevede che “gli amministratori e i sindaci …nominati a norma del primo comma possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati”.
Poiché il Comune di Oristano è socio unico della Oristano Servizi s.r.l., al potere di nomina previsto dallo statuto non può che accompagnarsi anche quello contrario di revoca, a norma dell’art. 2449 comma 2 c.c., essendo quest’ultimo contrarius actus rispetto alla nomina.
Inoltre, l’art. 19 dello Statuto dispone che: “ Per quanto non espressamente disciplinato dal presente Statuto, valgono le norme dettate dal codice civile e dalle leggi in materia” (in coerenza con la clausola ermeneutica generale di cui all’art. 1 co. 3 D.Lgs. n. 175 del 19 agosto 2016 (TUSP) secondo la quale: “Per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”), con la conseguenza che doveva ravvisarsi il carattere paritetico di tale potere, come rilevato anche da Cass. S.U., n. 34473 del 27.12.2019.
La sentenza aggiungeva, poi, che il definitivo transito delle società partecipate nell’orbita del diritto comune si evinceva anche da tre disposizioni, ed in primo luogo, dall’art. 1 comma 3, TUSP (D.lgs. 175/2016) a mente del quale “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali del diritto privato”.
In secondo luogo l’art. 12 del D.lgs. 175/2016 sposta il baricentro della responsabilità degli organi di governance verso il diritto civile, prevedendo che “i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali”, con la sola salvezza della giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house.
Infine, l’art. 14 del T.U. società partecipate, in tema di crisi d’impresa, afferma in maniera netta che tutte le compagini pubbliche (anche in house) “sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39”.
Andava perciò riaffermata la natura giuridica privata delle società in cui le Amministrazioni detengono delle partecipazioni, come precisato anche nel Parere del Consiglio di stato n. 968/2016 reso sul Testo Unico società partecipate.
La costruzione in chiave civilistica delle società partecipate era anche avvalorata dall’art. 2449 c.c., il quale, con riferimento alle società per azioni che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio in cui lo Stato o gli enti pubblici detengono partecipazioni, prevede esclusivamente un “particolare” potere di nomina (e revoca) degli organi di governance, con la conseguenza che per tutti gli altri profili si applica la disciplina del diritto comune.
Ne discende che, quando l’ente pubblico nomina e revoca gli amministratori della partecipata, non esercita un proprio potere, ma si surroga al potere che ordinariamente spetterebbe all’assemblea, in quanto la facoltà attribuita all’ente si qualifica come “sostitutiva della generale competenza dell’assemblea ordinaria, trovando la sua giustificazione nella peculiarità di quella tipologia di soci, e deve essere qualificata estrinsecazione non di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di diritto privato, in quanto espressiva di una potestà attinente ad una situazione giuridica societaria, restando esclusa qualsiasi sua valenza amministrativa” (Cass., Sez. un., ordinanza 23 gennaio 2015, n. 1237).
Tale esito trovava, poi, anche il conforto della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE sentenza 23 ottobre 2007, nella causa C-112/05; CGUE sentenza 6 dicembre 2007 nelle cause riunite C-463/04 C-464/04; CGUE sentenza 26 marzo 2009, causa C-326/07), a mente della quale il c.d. principio di neutralità delle forme giuridiche, sancito all’art. 345 TFUE, implica che “i trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri rendendo ininfluente la proprietà pubblica o privata del capitale sociale”.
2. Avverso la sentenza del Consiglio di Stato è stato proposto ricorso per cassazione da Putzu Alessio sulla base di un Gli intimati non hanno svolto difese in questa fase.
La Prima Presidente, in data 7 settembre 2023, ha formulato proposta di definizione del giudizio ex art. 380-bis c.p.c., nel testo novellato dal D. Lgs. n. 149/2022, avendone rilevato l’inammissibilità.
Parte ricorrente ha però chiesto la decisione del ricorso, formulando apposita istanza nel termine di cui al secondo comma dell’art. 380 bis c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli 2449, 2479 e 2479-bis c.c., sotto il profilo dell’art. 103 Cost. e dell’art. 7 c.p.a., nonché degli artt. 1 e 9 del D. Lgs. n. 175/2016.
Si deduce che la sentenza impugnata ha inteso radicare la giurisdizione del giudice ordinario con il richiamo all’art. 2449 c.c., sebbene gli artt. 7 ed 8 dello Statuto della società non contengano un esplicito riferimento alla norma de qua ma all’art. 2479 c.c. Inoltre, non si è tenuto conto che quella interessata dal presente giudizio non è una società per azioni, ma una società a responsabilità limitata, né di quanto previsto dall’art. 9, co. 7, del D. Lgs. n. 175/2016, dal quale si evince che, per radicare la giurisdizione del giudice ordinario è necessario che lo statuto societario faccia un esplicito richiamo al testo dell’art. 2449 c.c.
In definitiva, ad avviso del ricorrente, l’atto con il quale è stato revocato è atto esterno all’assemblea, cui competeva il potere di nomina o revoca dell’amministratore, e si qualifica alla stregua di un atto iure imperii, sottoposto quindi alla giurisdizione del giudice amministrativo.
2. Il motivo è manifestamente infondato.
Già nella proposta di definizione depositata in corso di causa è stato compiuto il puntuale richiamo ai precedenti di questa Corte che hanno reiteratamente affermato che la giurisdizione per la domanda in questa sede avanzata compete al giudice ordinario.
Questa Corte ha, infatti, affermato che spetta al giudice ordinario, e non al giudice amministrativo, la cognizione della controversia relativa all’impugnazione dell’atto con il quale il sindaco, nella specie, abbia espresso un giudizio di non idoneità nei confronti di un candidato alla nomina, riservata al Comune, di componente del consiglio di amministrazione di una fondazione, trattandosi di atto che – come avviene per la nomina (e la revoca) di amministratori e sindaci delle società a partecipazione pubblica (anche costituite secondo il modello delle società “in house providing“) – non è riconducibile all’esercizio di alcun pubblico potere e riguarda un soggetto di diritto privato, non rientrando le fondazioni nella pur ampia nozione di pubblica amministrazione, di cui all’art. 7, comma 2, d.lgs. n. 104 del 2010 (Cass. S.U. n. 34473 del 27/12/2019).
Con specifico riferimento alle società per azioni con partecipazione pubblica, è stata ribadita la giurisdizione del giudice ordinario, quanto alla controversia relativa alla revoca dell’amministratore nominato ai sensi dell’art. 2449 c.c., in quanto trattasi di atto posto in essere dall’ente pubblico “a valle” della scelta iniziale di avvalersi dello strumento societario, emanato avvalendosi degli strumenti che il diritto comune attribuisce al socio e dunque interamente regolato dal diritto privato, come si evince chiaramente dal testo del richiamato art. 2449 c.c., il quale individua nello statuto sociale, e dunque in un atto fondamentale di natura negoziale, la fonte esclusiva dell’attribuzione al socio pubblico della facoltà di nominare un numero di amministratori proporzionale alla sua partecipazione, con la correlata facoltà di revocarli (Cass. S.U. n. 29078 del 11/11/2019).
I principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite (cfr., tra le molte: Cass. S.U. n.4989/1995; n. 7799/2005; n. 30167/2011; n. 1237/2015; n. 19676/2016; n. 24591/2016; n. 21299/2017; n. 16335/2019), oltre che dello stesso Consiglio di Stato (cfr. Adunanza Plenaria 3 giugno 2011 n.10), confermano il fatto che la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto privato solo perché l’Ente pubblico ne possegga, in tutto o in parte, le azioni: il rapporto tra società ed ente pubblico azionista è, in altri termini, di assoluta autonomia.
Ciò significa che all’ente pubblico non è consentito incidere unilateralmente sugli atti di gestione e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario dei quali dispone nella sua qualità di socio. Del resto, il richiamo alla disciplina del codice civile in materia di società di capitali per quanto non diversamente stabilito dalla legge – e salve deroghe espresse -, trova esplicita e chiara conferma normativa nell’art. 4, comma 13, quarto periodo, del D.L. n. 95/2012 convertito nella L. n. 135/2012, oltre che nell’analogo art. 1, comma 3, del D. Lgs. n. 175/2016.
Trattasi di previsioni normative che fungono da “clausola ermeneutica generale” di chiusura (in senso privatistico) e che entrambe esprimono rilevanza significativa.
Il profilo involgente la disciplina di diritto pubblico, segnato dall’agire dell’ente pubblico come autorità, si esaurisce nella scelta iniziale dell’ente di costituire una società, o di parteciparvi, nel mentre il profilo privatistico è relativo alla adozione, durante lo svolgimento dell’attività sociale, degli atti (c.d. “a valle” di quella scelta iniziale) che l’ente pone in essere avvalendosi degli strumenti che il diritto comune gli attribuisce nella sua qualità di socio.
Quello posto in essere dal Comune di Oristano, proprio alla luce delle previsioni contenute nello Statuto della Oristano Servizi Comunali S.r.l. (che prevedono sia il potere di nomina che di revoca dell’amministratore unico ad opera del socio unico), si pone come atto da collocare “a valle” della scelta iniziale di avvalersi dello strumento societario, e quindi resta interamente regolato dal diritto privato
Tale conclusione non muta anche nel caso in cui la revoca sia stata dettata dall’applicazione della previsione dell’art. 50, commi 8 e 9, del d.lgs. n. 267 del 2000, che attribuisce al Sindaco il potere di revoca degli amministratori delle società partecipate dal Comune entro 45 giorni dal suo insediamento, (Cass. S.U. n. 16335 del 18/06/2019, che ribadisce che si radica la giurisdizione ordinaria, poiché quello di revoca resta un provvedimento attinente ad una situazione giuridica successiva alla costituzione della società stessa, idoneo ad incidere internamente sulla sua struttura ed espressione di una potestà di diritto privato ascrivibile all’ente pubblico “uti socius” ed esercitata dal medesimo Sindaco in conformità degli indirizzi stabiliti dal Consiglio comunale).
3. Va pertanto riaffermata la giurisdizione del giudice ordinario (in termini nella giurisprudenza meno recente si veda anche S.U. n. 21299/2017; Cass. S.U. n. 24591/2016; Cass. S.U. n. 1237/2015), senza che possa influire sulla correttezza di tale conclusione la circostanza che nella specie la società dalla cui carica è stato revocato il ricorrente era una società a responsabilità limitata, anziché una società per azioni.
Tale differenza che, come ricordato da Cass. S.U. n. 4309/2010, non preclude di estendere alle società a responsabilità limitata i principi dettati per le società per azioni a partecipazione pubblica, ove tale partecipazione assuma connotazioni analoghe per le prime, consente di affermare come non sia esigibile un espresso richiamo alla previsione di cui all’art. 2449 c.c., norma dettata specificamente per le società per azioni con partecipazione dello Stato o di enti pubblici.
Piuttosto, è proprio il richiamo alla disciplina di cui all’art. 2468 co. 3, c.c., che consente l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società, a far concludere che le previsioni statutarie che dispongano in tal senso (come appunto l’art. 8 dello statuto della società per cui è causa) legittimano l’adozione di un potere di revoca che resta però nell’ambito della sfera privatistica (peccando di eccessivo formalismo la tesi sostenuta dal ricorrente, che pretende che la previsione statutaria debba necessariamente accompagnarsi ad un esplicito richiamo alla norma codicistica).
Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile.
4. Nulla a disporre quanto alle spese nei confronti delle parti intimate.
5. Considerato che la trattazione del ricorso è stata chiesta ai sensi dell’art. 380-bis p.c., ultimo comma, a seguito di proposta di inammissibilità a firma della Prima Presidente, la Corte, considerato che il giudizio è stato definito in conformità della proposta, deve applicare il terzo e il quarto comma dell’articolo 96, come previsto dal citato art. 380-bis, ultimo comma.
Trattasi di una novità normativa (introdotta dall’art. 3, comma 28, lett. g, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a decorrere dal 18 ottobre 2022, ai sensi di quanto disposto dall’art. 52, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 149/2022) che contiene, nei casi di conformità tra proposta e decisione finale, una valutazione legale tipica, ad opera del legislatore, della sussistenza dei presupposti per la condanna di una somma equitativamente determinata a favore della controparte (art. 96, terzo comma) e di una ulteriore somma di denaro non inferiore ad euro 500,00 e non superiore ad euro 5.000,00 (art. 96 quarto comma).
In tal modo, risulta codificata una ipotesi di abuso del processo, peraltro da iscrivere nel generale istituto del divieto di lite temeraria nel sistema processuale (cfr. Cass. S.U. nn. 27195 e 27433 del 2023).
Quanto alla disciplina intertemporale sull’applicazione ai giudizi di cassazione delle disposizioni di cui all’art. 96, terzo e quarto comma, per effetto del rinvio operato dall’ultimo comma dell’art. 380-bis nel testo riformato, rileva la Corte che la predetta normativa – in deroga alla previsione generale contenuta nell’art. 35 comma 1 del Lgs. n. 149/2022 – sia immediatamente applicabile a seguito dell’adozione di una decisione conforme alla proposta, sebbene per giudizi già pendenti alla data del 28 febbraio 2023 (Cass. S.U. n. 27195/2023).
Sulla scorta di quanto esposto, ed in assenza di indici che possano far propendere per una diversa applicazione della norma, la parte ricorrente va condannata al pagamento della somma di €. 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
6. Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Condanna il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di € 2.000,00;
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 13 febbraio
Allegati:
SS.UU, 19 febbraio 2024, n. 4413, in tema di società in house
In tema di responsabilità degli intermediari finanziari – SS.UU, 12 aprile 2024, n. 9956
Civile Ord. Sez. U Num. 9956 Anno 2024
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 12/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 228/2023 R.G. proposto da:
ROSSI GIANCARLA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA R. ZANDONAI 55, presso lo studio dell’avvocato PINELLI MARIO, rappresentata e difesa dall’avvocato LEONARDI RICCARDO
-ricorrente-
contro
SCOCCO BRUNO, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA DI VILLA CARPEGNA, 43, presso lo studio dell’avvocato GREGORIS MARCO, rappresentato e difeso dall’avvocato FORMICA DOMENICO
-controricorrente-
Avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ANCONA n. 1329/2022 depositata il 20/10/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30/01/2024 dal Consigliere ANTONIO SCARPA.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Giancarla Rossi ha proposto ricorso articolato in due motivi avverso la sentenza n. 1329/2022 della Corte d’appello di Ancona, pubblicata il 20 ottobre 2022.
Resiste con controricorso Bruno Scocco.
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma dell’art. 380-bis.1, c.p.c.
La ricorrente ha depositato memoria.
2. La Corte d’appello di Ancona ha rigettato l’appello proposto da Giancarla Rossi, in proprio e quale erede di Enzo Baglioni, e da Giorgia Baglioni, quale erede di Enzo Baglioni, avverso la sentenza del Tribunale di Pesaro n. 602/2017 del 13 settembre 2017, che aveva dichiarato il difetto della giurisdizione del giudice italiano in favore di quello della Confederazione Svizzera sulla domanda avanzata da Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni nei confronti di Bruno Scocco e della Clerical Medical Italia s.r.l. con citazione del 22 aprile 2013.
3. La domanda di Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni era volta all’‹‹accertamento della responsabilità extra contrattuale›› di Bruno Scocco per i fatti esposti in citazione ed alla conseguente condanna risarcitoria, nonché, ‹‹previo accertamento della responsabilità›› di Bruno Scocco e della Clerical Medical Italia s.r.l. sempre per i fatti esposti, a ‹‹dichiarare la nullità delle polizze n. 2312609T, 2313674 e 2323399D e condannare i predetti ex art. 2055 c.c. al pagamento della somma di € 350.000,00 di cui € 208.874,13 a titolo di danno patrimoniale ed il residuo a titolo di danno non patrimoniale, o in quella diversa maggiore o minore ….››. In via subordinata, le attrici chiedevano di accertare l’‹‹inadempimento contrattuale›› imputabile a Bruno Scocco e alla Clerical Medical Italia s.r.l., con condanna risarcitoria di entrambi ex art. 2055 c.c.
All’udienza del 10 luglio 2014 gli attori dichiararono di rinunciare alla domanda proposta nei confronti della Clerical Medical Italia s.r.l.
3.1. I fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, culminante nelle predette conclusioni, concernevano la sottoscrizione di polizze assicurative da parte di Giancarla Rossi e del defunto coniuge Enzo Baglioni, a far tempo dal dicembre 1998. Tali investimenti, a dire delle attrici, erano stati proposti ai coniugi Rossi e Baglioni da Bruno Scocco e da un terzo, i quali li avevano rassicurati sulla redditività delle operazioni e sulla carenza di rischi. I contatti tra le parti si sarebbero svolti dapprima presso i domicili degli investitori, mentre poi gli stessi avrebbero aperto un conto corrente presso la Filiale della UBS di Lugano. Le operazioni erano descritte come avvenute mediante consegna ad opera dei coniugi Rossi e Baglioni di denaro contante ammontante alla cifra complessiva di € 309.874,13, in relazione alle polizze n. 2312609T, 2313674 e 2323399D. Trascorsi alcuni anni, Giancarla Rossi aveva tuttavia appurato che di tali somme investite col coniuge erano residuati solo circa € 101.000,00. Fu dato corso anche ad un procedimento penale, nel corso del quale venne accertato che gli investimenti eseguiti consistevano in prodotti finanziari, e non in polizze assicurative, e che lo Scocco aveva svolto abusivamente l’attività di promotore finanziario. La citazione lamentava, allora, che Bruno Scocco avesse ‹‹omesso di riferire, alla sig.ra Rossi ed al coniuge Baglioni, in merito agli elementi costitutivi del prodotto finanziario››, non ‹‹consegnato, al momento della proposta dell’investimento, la nota informativa o prospetto informativo obbligatorio per legge ex art. 94 D.lgs. 58/98››, ‹‹esposto notizie non veritiere in relazione alla titolarità ed agli obblighi relativi al capitale di debito›› ed infine ‹‹collocato sul mercato prodotti finanziari non risultando iscritto nell’apposito albo››, così ravvisandone la ‹‹responsabilità contrattuale per inosservanza degli obblighi prescritti dal decreto legislativo 58/98, dagli art. 1337, 1375, 1775 e 1776 c.c. e contenuti nel Regolamento Consob n. 11522/1998, comportante la nullità dei contratti››.
Il convenuto Bruno Scocco oppose di non aver mai avuto rapporti di natura contrattuale e di non aver mai effettuato operazioni di intermediazione finanziaria con Enzo Baglioni e Giancarla Rossi, essendosi limitato a prestare in favore di quest’ultima una attività di consulenza relativa all’apertura di un conto corrente, da parte dei coniugi Baglioni, presso un istituto di credito svizzero e ad un prestito di € 62.000,00 da lui fatto in favore della Rossi.
3.2. L’adito Tribunale di Pesaro, con sentenza n. 602/2017 del 13 settembre 2017, dichiarò il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana, per essere la controversia riservata all’autorità giudiziaria della Svizzera, alla stregua dell’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968, argomentando dalla natura extracontrattuale dell’azione esperita da Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni, in quanto dagli atti di causa non sarebbe emersa “la sussistenza di alcun rapporto obbligatorio tra parte attrice ed il convenuto, giacché (in ragione dell’inidoneità probatoria della documentazione prodotta da parte attrice) non sono state prodotte le polizze che la Rossi sostiene di aver sottoscritto con lo Scocco e neanche le copie degli investimenti fatti dai coniugi Baglioni e dalla Rossi personalmente né risulta provata l’attività di intermediazione finanziaria che lo Scocco avrebbe posto in essere in favore di parte attrice”. La sentenza di primo grado aggiungeva che “[a] prescindere dalla documentazione riferita alla Clerical Medical, dagli atti di causa non emerge dunque alcuna riferibilità allo Scocco degli stessi documenti, rilevato che non appare dimostrata la sottoscrizione delle polizze da parte della Rossi per tramite dello Scocco né può dirsi provato che lo stesso abbia ingannato la medesima a tal fine, cosi come carente di prova appare il nesso di causalità tra il danno asseritamente subìto ed il comportamento dello Scocco”. Il Tribunale di Pesaro aggiungeva che, dovendosi perciò aver riguardo ai fini della giurisdizione al luogo in cui l’evento dannoso era avvenuto, assumevano rilievo: “- la gestione delle “fantomatiche” polizze dalla Pro Trust, società con sede in Svizzera; – il versamento del denaro in un istituto di credito di Lugano e relativo investimento in Svizzera; – i rapporti diretti tra la Baglioni con soggetti svizzeri (cfr. la corrispondenza diretta con la HBV Luxembourg e la Pro Trust); – i contatti diretti tra le parti avvenuti solo in Svizzera e nell’occasione dell’apertura del c/c bancario svizzero”.
3.3. Sul gravame proposto da Giancarla Rossi e da Giorgia Baglioni nei confronti di Bruno Scocco, la Corte d’appello di Ancona ha confermato la declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice italiano, rilevando come Bruno Scocco fosse residente in Svizzera e come, trattandosi di un illecito extracontrattuale, trovasse applicazione il criterio di individuazione della giurisdizione fissato dall’articolo 7, n. 2, del Regolamento (UE) n. 1215 del 2012. La Corte di Ancona ha sostenuto che la natura extracontrattuale dell’azione esperita dalle attrici “discende dal fatto che dagli atti di causa non emerge la sussistenza di alcun rapporto obbligatorio tra parte attrice e convenuto”, mancando prova del “titolo” della responsabilità contrattuale, non essendo state prodotte “le polizze che parte attrice sostiene di aver sottoscritto e, dall’altro, la documentazione prodotta deve considerarsi inidonea al fine probatorio”. Pertanto, ha concluso la sentenza impugnata, “la giurisdizione non può che ritenersi delle autorità giurisdizionali svizzere, posto che la condotta che si assume essere stata pregiudizievole si è verificata nel territorio svizzero dove sono state sottoscritte le polizze ed effettuati gli investimenti mediante versamento delle somme presso un istituto di credito svizzero”.
4. Va premesso che il ricorso di Giancarla Rossi non risulta intimato né notificato a Giorgia Baglioni, parte dei pregressi giudizi di merito, quale attrice prima ed appellante poi. Si tratta, comunque, di giudizio a litisconsorzio facoltativo, in cui più attori hanno proposto domande risarcitorie contro lo stesso convenuto, sicché anche il ricorso ex art. 360, comma 1, n. 1, c.p.c. per motivi attinenti alla giurisdizione rientra nell’ipotesi di cui all’art. 332 c.p.c., e non va perciò ordinata la notificazione dell’impugnazione a Giorgia Baglioni, essendo la stessa ormai preclusa.
5. Il primo motivo del ricorso di Giancarla Rossi deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 n. 3 della Convenzione di Lugano 2007, norma che nella specie starebbe a regolare la giurisdizione, ed in relazione alla quale i giudici del merito non avrebbero rilevato che il luogo dove si sono verificate le conseguenze dell’illecito è Pesaro, ove la ricorrente aveva, ed ha, il centro dei propri interessi, ove inoltre è avvenuto il depauperamento del suo patrimonio e si è anche realizzato il danno-evento, ove lo Scocco aveva fraudolentemente rappresentato le operazioni di investimento ed avuto in consegna il denaro, versato dapprima in una banca lussemburghese e poi trasferito a Lugano, ed ove era avvenuta la sottoscrizione delle polizze, di cui era stato allegato il relativo certificato.
Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione e/o falsa applicazione, dell’art. 132 comma 2 n. 4 c.p.c. e dell’art. 111 Cost. per motivazione apparente. La ricorrente evidenzia che in tutti gli atti di causa, ed in particolare nella citazione introduttiva, le attrici avevano affermato che il collocamento e la sottoscrizione delle polizze, come anche la consegna del denaro, erano avvenuti negli incontri avuti con lo Scocco a Pesaro. Tale ricostruzione dei fatti era stata indicata anche nella deduzione della prova per testimoni e per interrogatorio formale. Del pari, la documentazione prodotta avrebbe dimostrato che tutte tali vicende del rapporto oggetto di lite si erano svolte a Pesaro.
6. Il controricorrente Bruno Scocco replica che le censure sono inammissibili, che le attrici “non hanno dato la prova della esposizione fattuale offerta sin dal primo atto”, che i suoi rapporti con le stesse si erano svolti “solamente a Lugano, quando chiesero la di lui consulenza per aprire dei conti correnti in Svizzera” e che mai vi erano stati “rapporti di natura contrattuale”, tanto meno in Italia.
7. Il ricorso, le cui censure vanno esaminate congiuntamente, è fondato nei sensi di cui alla motivazione che segue.
8. Occorre inizialmente considerare che la decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda stessa (art. 386 c.p.c.). Ciò significa che la decisione a rendersi avviene rispetto alla domanda, come individuata nei suoi elementi, e deve perciò ricostruire quale rapporto intercorreva tra le parti, ma ai soli fini di attribuire la giurisdizione, e non anche il diritto che essa afferma esistente.
Così si spiega il consolidato principio secondo cui, in ordine ai motivi attinenti alla giurisdizione ex art. 360, primo comma, n.1, c.p.c., la Corte di cassazione è giudice anche del fatto, cioè conosce dei fatti processuali ed altresì di tutti i fatti dai quali dipenda la soluzione della questione, mediante orientato esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio (ad esempio, tra le tante, Cass. Sez. Unite n. 28332 del 2019).
In particolare, ai fini del riparto della giurisdizione tra il giudice italiano ed il giudice straniero, in applicazione del criterio del “petitum” sostanziale, pur dovendosi prescindere dalle difese del convenuto, che sono invece rilevanti per la decisione di merito, occorre tenere conto delle allegazioni di fatto dell’attore, come anche delle risultanze istruttorie legittimamente acquisite agli atti di causa (Cass. Sez. Unite n. 16296 del 2007; n. 13702 del 2022). Le Sezioni Unite procedono, così, alla qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio sulla base dell’oggetto della domanda e degli accertamenti di fatto che sono loro consentiti, e tale qualificazione rientra nel giudicato che viene a formarsi sulla giurisdizione in forza della decisione raggiunta, ma la questione dell’esistenza o meno del preteso diritto rimane da valutare in sede di merito della controversia.
9. Per la invocata decisione sulla giurisdizione, la domanda di Giancarla Rossi va, dunque, valutata non già in base al criterio cosiddetto della soggettiva prospettazione della domanda (ossia in base alla qualificazione compiutane dall’interessata), ma alla stregua del “petitum” sostanziale individuato dagli elementi oggettivi che caratterizzano la sostanza del rapporto giuridico posto a fondamento delle pretese, ovvero tenendo conto della natura della situazione dedotta e della protezione sostanziale ad essa accordata dall’ordinamento.
Va subito detto che la sentenza impugnata, come prima ancora quella di primo grado, hanno errato nel fondare le loro decisioni non già sulla “prova della giurisdizione”, quanto sulla “prova della pretesa di merito azionata”, affermando che la natura extracontrattuale dell’azione doveva desumersi “dal fatto che dagli atti di causa non emerge la sussistenza di alcun rapporto obbligatorio tra parte attrice e convenuto”, non essendovi prova del “titolo” della responsabilità contrattuale. L’apprezzamento del giudice sulla giurisdizione ed il correlato potere-dovere di qualificazione giuridica del rapporto litigioso devono operarsi in riferimento agli elementi dedotti ed allegati, seppur non ancora effettivamente accertati (Cass. Sez. Unite, n. 4894 del 2006).
9.1. La domanda di Giancarla Rossi e Giorgia Baglioni (sebbene nelle conclusioni richiedeva in via principale l’‹‹accertamento della responsabilità extra contrattuale›› di Bruno Scocco, nonché di ‹‹dichiarare la nullità delle polizze n. 2312609T, 2313674 e 2323399D››, con condanna al risarcimento dei danni, mentre soltanto in via subordinata chiedeva di accertare l’‹‹inadempimento contrattuale›› imputabile al convenuto), nell’esporre i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della stessa (art. 163, comma 3, n. 4, c.p.c.), narrava che Bruno Scocco aveva proposto ai coniugi Rossi e Baglioni la sottoscrizione di polizze assicurative, rassicurandoli sulla redditività delle operazioni e sulla carenza di rischi. Il contatto tra le parti si era instaurato presso i domicili degli investitori Rossi e Baglioni in Pesaro. In tale luogo era avvenuta la consegna del denaro in contanti, tant’è che gli esibiti ordini di pagamento, rivolti alla UBS di Lugano, risultavano poi sottoscritti dallo Scocco. Lo stesso convenuto Bruno Scocco ha ammesso di aver svolto in favore di Giancarla Rossi una attività di consulenza, seppur soltanto relativa all’apertura di un conto corrente presso un istituto di credito svizzero e ad un prestito. La citazione lamentava che Bruno Scocco avesse ‹‹omesso di riferire, alla sig.ra Rossi ed al coniuge Baglioni, in merito agli elementi costitutivi del prodotto finanziario››, non ‹‹consegnato, al momento della proposta dell’investimento, la nota informativa o prospetto informativo obbligatorio per legge ex art. 94 D.lgs. 58/98››, ‹‹esposto notizie non veritiere in relazione alla titolarità ed agli obblighi relativi al capitale di debito›› ed infine ‹‹collocato sul mercato prodotti finanziari non risultando iscritto nell’apposito albo››, così ravvisandone la ‹‹responsabilità contrattuale per inosservanza degli obblighi prescritti dal decreto legislativo 58/98, dagli art. 1337, 1375, 1775 e 1776 c.c. e contenuti nel Regolamento Consob n. 11522/1998, comportante la nullità dei contratti››.
9.2. Le allegazioni di fatto delle attrici e i documenti esibiti a sostegno del “petitum” sostanziale azionato depongono per la qualificazione di natura contrattuale del rapporto dedotto in giudizio.
La domanda delineava che fra i coniugi Rossi e Baglioni e Bruno Scocco si fosse instaurato un rapporto contrattuale di consulenza finanziaria, avendo quest’ultimo prestato una attività professionale di assistenza ai clienti in materia di investimenti finanziari e poi operato presso un istituto di credito, quale incaricato dei servizi di negoziazione degli ordini. Gli attori avevano lamentato la violazione di norme di comportamento, in particolare di diligenza, correttezza e trasparenza, da parte dello Scocco, che si sarebbero invece dovute osservare nella formazione e nell’esecuzione del contratto, sia per aver indirizzato i clienti verso un prodotto inadatto per il profilo di rischio, sia per non aver consegnato alcun prospetto informativo, sia per non aver loro comunicato le perdite subite. La violazione di questi obblighi dà luogo a responsabilità contrattuale (arg. da Cass. Sez. Unite n. 14939 del 2023).
10. La giurisdizione va valutata facendo applicazione della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007 (ratificata dall’UE con decisione del Consiglio del 27 novembre 2008 ed entrata in vigore nei rapporti con la Confederazione elvetica il 1° gennaio 2011).
Ai sensi dell’art. 5, paragrafo 1, della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007, la persona domiciliata nel territorio di uno Stato vincolato dalla stessa convenzione può essere convenuta in un altro Stato vincolato dalla presente convenzione:
“a) in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita.
b) Ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è:
– nel caso della compravendita di beni, il luogo, situato in uno Stato vincolato dalla presente convenzione, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto;
– nel caso della prestazione di servizi, il luogo, situato in uno Stato vincolato dalla presente convenzione, in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto”.
11. Ne consegue che, con riguardo, come nella specie, ad un contratto concluso in Italia tra un soggetto ivi domiciliato ed un soggetto domiciliato nella Confederazione Svizzera, avente ad oggetto la prestazione da parte di quest’ultimo del servizio di consulenza in materia di investimenti finanziari in favore del cliente domiciliato in Italia, relativa ad una o più operazioni di sottoscrizione di strumenti finanziari, va affermata la giurisdizione del giudice italiano sulla controversia in materia di responsabilità contrattuale per violazione delle norme di comportamento da parte del consulente, in applicazione del criterio di collegamento dettato dell’art. 5, paragrafo 1, lettera b) della Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007, facendo, cioè, riferimento al luogo in cui la prestazione del servizio di consulenza è stata o avrebbe dovuto essere eseguita, in rapporto all’obbligo di informazione da fornire al cliente caratterizzante il contratto.
12. Va perciò accolto il ricorso e la sentenza impugnata va cassata, dichiarando la giurisdizione del giudice italiano, e la causa, ai sensi dell’art. 383, comma 3, c.p.c. in relazione all’art. 353 c.p.c., ratione temporis operante, va rimessa al Tribunale di Pesaro, in persona di diverso magistrato, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte accoglie il ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice italiano, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Pesaro, in persona di diverso magistrato, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite
Allegati:
SS.UU, 12 aprile 2024, n. 9956, in tema di responsabilità degli intermediari finanziari
In tema di impugnazioni – SS.UU, 28 marzo 2024, n. 8486
Civile Sent. Sez. U Num. 8486 Anno 2024
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: CARRATO ALDO
Data pubblicazione: 28/03/2024
Oggetto
Azione di
risarcimento danno
– questione di
massima di
particolare
importanza
sull’interpretazione
dell’art. 334 cpc in
materia di
obbligazioni
solidali
R.G.N. 23425/2016
Cron.
Rep.
Ud. 13/02/2024
PU
SENTENZA
sul ricorso 23425-2016 proposto da:
LEONESSA INVESTIMENTI S.R.L. a socio unico, assuntrice del Concordato Fallimentare del Fallimento Addventure s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PASUBIO 4, presso lo studio dell’avvocato PIETRO SARROCCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LINO GERVASONI;
– ricorrente –
contro
CARLO ALBERTO CARNEVALE MAFFE’, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TRIONFALE 5637, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE FERABECOLI, rappresentato e difeso dall’avvocato ANDREA RODOLFO MASERA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2346/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 14/06/2016.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/02/2024 dal Consigliere ALDO CARRATO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale CARMELO CELENTANO, che ha chiesto l’enunciazione dei principi di diritto, nonostante l’istanza di rinuncia.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Il Tribunale di Varese, con sentenza n. 281 del 2011, in accoglimento della domanda proposta dal fallimento di Addventure s.p.a., in liquidazione, condannava Pietro Pozzobon, Carlo Alberto Carnevale Maffè e Stefano Perboni, in solido fra loro, a pagare, in favore dell’attore, la somma di € 2.413.810,63, oltre accessori fino alla concorrenza di € 2.500.000,00 per il danno arrecato, nella loro qualità di amministratori delegati, alla società e ai creditori sociali per la perdita di bancali non rinvenuti dal Curatore.
La Curatela del citato Fallimento aveva originariamente convenuto in giudizio anche altri amministratori e i sindaci, con i quali, però, nelle more del giudizio di primo grado, erano intervenute una serie di transazioni pro quota.
1.1. Avverso la sentenza di primo grado formulava appello principale Pietro Pozzobon (con atto di citazione notificato anche ai condebitori), a seguito del quale Stefano Perboni, nel costituirsi in giudizio (con comparsa del 29 dicembre 2011), avanzava appello incidentale, chiedendo, a sua volta, in riforma della sentenza del Tribunale, il rigetto delle domande del menzionato Fallimento nonché della domanda di manleva spiegata dal Pozzobon nei suoi confronti.
Nel giudizio di appello interveniva la Leonessa Investimenti s.r.l., quale assuntrice del concordato fallimentare di Addventure s.p.a. in liquidazione, proponendo appello incidentale condizionato, con cui invocava la condanna del Pozzobon e del Perboni in solido, nei limiti della somma di euro 2.500.000,00, in ragione delle ulteriori condotte addebitate con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado e disattese dalla sentenza di primo grado.
All’udienza (del 25 gennaio 2012, differita ex art. 168-bis, comma 4, c.p.c. al 26 gennaio 2012) fissata per la prima comparizione delle parti, si costituiva in giudizio anche Carlo Alberto Carnevale Maffè, attraverso una comparsa “contenente di fatto” un’impugnazione incidentale (così qualificata dalla Corte di appello ed adesiva a quella dell’appellante principale Pozzobon).
Inoltre, lo stesso Carlo Alberto Carnevale Maffè, con autonomo atto di citazione notificato a Leonessa Investimenti s.r.l. (costituitasi nel giudizio di appello, nella qualità di assuntore del Concordato fallimentare del Fallimento Addventure s.p.a.), impugnava la sentenza di primo grado sollecitando il rigetto delle pretese risarcitorie del Fallimento.
La Corte d’appello di Milano, riunite le impugnazioni proposte contro la medesima sentenza, con sentenza n. 2346 del 2016 (depositata il 14 giugno 2016) , in accoglimento degli appelli proposti da Pietro Pozzobon, Carlo Alberto Carnevale Maffè e Stefano Perboni, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava che gli stessi nulla dovevano al predetto Fallimento per essere il relativo credito già estinto in conseguenza dell’intervenuto pagamento da parte degli originari coobbligati, nonché, conseguentemente, assorbita la domanda di manleva proposta dal Pozzobon nei confronti del Perboni.
Con la medesima sentenza la Corte d’appello riteneva infondate le eccezioni di inammissibilità dell’impugnazione proposta da Carlo Alberto Carnevale Maffè, sollevate da Leonessa Investimenti s.r.l., in ragione del fatto che il suo interesse all’impugnazione sarebbe sorto dall’appello incidentale del coobbligato Perboni.
Al riguardo, nella sentenza della Corte d’appello si legge (alle pagg. 17-18) testualmente: «…Discende da quanto argomentato che Stefano Perboni ha, comunque, impugnato tempestivamente la sentenza de qua. Benché analoghe conclusioni non si possano trarre nei confronti di Carlo Alberto Carnevale Maffè posto che la sua costituzione nell’ambito dell’appello iscritto al N. R.G. 3322/2011 (ancorché allo stesso modo contenente di fatto impugnazione incidentale) è avvenuta direttamente all’udienza, quindi senza il rispetto dei termini di cui all’art. 334, comma 1, c.p.c., ritiene tuttavia la Corte che l’impugnazione notificata a Leonessa il 26/01/2012 possa valere quale impugnazione incidentale tardiva, ex art. 334, comma 2, c.p.c. e sia perciò da ritenersi ammissibile. Ciò sul rilievo che l’impugnazione incidentale del coobbligato Stefano Perboni (nel procedimento N. R.G. 3322/2011) ha determinato l’insorgere in capo a Carlo Aberto Carnevale Maffè di nuovo ed autonomo interesse ad impugnare la sentenza nei confronti di Leonessa s.r.l., conseguendo ad essa la possibilità – in caso di accoglimento (anche) del gravame proposto da detto coobbligato – di vedere definitivamente perso il vincolo della solidarietà e di trovarsi perciò esposto, da solo e per l’intero, alla pesante condanna emessa dal tribunale (arg. ex Cass. S.U. 24627/2007)».
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.2. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione Leonessa Investimenti r.l., quale assuntrice del Concordato fallimentare del Fallimento Addventure s.p.a., nei confronti del solo Carlo Alberto Carnevale Maffè, censurandola, nella sostanza, per avere ritenuto ammissibile il relativo appello incidentale avverso la sentenza di primo grado sulla base del percorso motivazionale poc’anzi riportato.
1.2.1 Con il primo motivo si denuncia – ai sensi dell’art. 360, comma 1, 3, c.p.c. – la violazione e falsa applicazione degli artt. 343, comma 2, e 100 c.p.c., deducendo che, essendo stato introdotto l’appello principale, proposto nei confronti della Curatela, dal Pozzobon, Carnevale Maffè avrebbe dovuto proporre il proprio gravame in via incidentale, nelle modalità previste dall’art. 343, comma 1, c.p.c. o notificando un atto introduttivo nel termine di venti giorni prima dell’udienza fissata; l’appellato, non avendo rispettato questo termine, avrebbe dovuto essere considerato decaduto dalla possibilità di impugnare, non potendo trovare applicazione il comma 2 dell’art. 343 c.p.c., in quanto – contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello – nessun “nuovo e autonomo” interesse ad impugnare sarebbe sorto dall’impugnazione incidentale del Perboni.
Si sostiene che, d’altra parte, il precedente delle Sezioni unite n. 24627 del 2007 (evocato nella sentenza impugnata), che ha ritenuto ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva e adesiva del coobbligato, nel caso di impugnazione principale esperita dall’altro coobbligato avverso la sentenza di condanna in solido, sarebbe stato erroneamente posto a sostegno della conclusione di ammissibilità dell’appello del Carnevale Maffè, in quanto da esso non potrebbe trarsi alcun argomento ai fini dell’applicabilità, al caso di specie, dell’art. 343, comma 2, c.p.c.
Si evidenzia che la citata pronuncia delle Sezioni unite, infatti, da un lato si riferirebbe a una diversa norma, l’art. 334 c.p.c., e, quindi, all’appello incidentale tardivo in senso stretto, e, dall’altro lato, risolvendo il contrasto sull’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva adesiva, individuerebbe proprio nell’impugnazione principale la fonte dell’interesse all’impugnazione.
Si precisa che, nel caso di specie, invece, avrebbe dovuto escludersi che l’interesse all’impugnazione di Carnevale Maffè, tesa ad ottenere la riforma della sentenza di primo grado per gli stessi motivi dedotti a sostegno dell’impugnazione principale proposta dal Pozzobon, e quindi adesiva alla principale, fosse sorto dall’impugnazione incidentale (anch’essa adesiva alla principale) del Perboni «perché solo l’impugnazione principale segna, a tutto concedere, il discrimine tra la definitività dell’assetto stabilito in sentenza, che potrebbe essere accettata dalle parti soccombenti (di qui la ratio dell’art. 334 c.p.c.) e un possibile diverso assetto del rapporto, che può evidentemente essere anche di natura quantitativa».
Si aggiunge che a ragionare diversamente, cioè individuando nell’appello incidentale tempestivo del coobbligato (nel giudizio di impugnazione promosso da altro coobbligato) un fatto idoneo a far sorgere un nuovo e distinto interesse di un terzo coobbligato (nel caso di specie il Carnevale Maffè), consentendone l’appello incidentale tardivo nel termine di cui all’art. 343, comma 2, c.p.c., si sovvertirebbe il sistema di preclusioni delineato dal codice di procedura civile in tema di impugnazioni, rendendosi ammissibili appelli incidentali tardivi “a catena”, tanti quanti sono gli obbligati, con successive fissazioni di udienze, tante quante sono le parti in lite.
Si segnala, inoltre, che lo stesso precedente delle Sezioni unite del 2007 è stato superato dalla successiva giurisprudenza di questa Corte, che è tornata ad affermare l’inammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva adesiva (si citano Cass. 25 febbraio 2008, n. 1610; Cass. 28 aprile 2014, n. 9369; Cass. 23 luglio 2014, n. 16787).
1.2.2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta – con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione e falsa applicazione degli 333, 334 e 343 c.p.c., perché la Corte di merito, dichiarando tardivo l’appello incidentale proposto da Carnevale Maffè nella comparsa depositata all’udienza del 26 gennaio 2012 e, viceversa, tempestivo l’appello incidentale proposto con citazione notificata nella stessa data, sarebbe contraddittoria e non avrebbe considerato che, stante la natura incidentale dell’impugnazione, l’atto di citazione con cui la stessa era stata introdotta doveva essere notificato entro il termine previsto dall’art. 343, comma 1, c.p.c. (vale a dire entro il 5 gennaio 2012).
1.2.3. Con il terzo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., si deduce – per il caso in cui non si ritenesse che la Corte di merito, nel riferirsi all’art. 334 c.p.c., anziché all’art. 343 c.p.c., sia incorsa in un mero errore materiale – la violazione e falsa applicazione dell’art. 334 c.p.c., in quanto tale norma non stabilisce il termine per la proposizione dell’appello incidentale, ma solo la possibilità per le parti convenute di proporlo.
1.3. Ha resistito con controricorso l’intimato Carnevale Maffè, il quale deduce l’applicabilità al caso di specie del principio enunciato dalle Sezioni Unite nella già indicata sentenza 24627 del 2007, ritenendo irrilevante il fatto che nella pronuncia la Corte di legittimità si sia specificamente occupata di stabilire l’ammissibilità dell’impugnazione ai sensi dell’art 334 c.p.c. e che abbia individuato nell’impugnazione principale la fonte dell’interesse ad impugnare. Con tale sentenza, infatti, la Corte di cassazione ha affermato il principio secondo cui «l’impugnazione incidentale tardiva va sempre concessa contro le sentenze di condanna di coobbligati solidali, anche quando le loro posizioni siano sicuramente coincidenti e non si verifichi tra esse alcun rapporto di interrelazione che dia luogo a cause dipendenti». Non vi sarebbe, pertanto, ragione di distinguere tra impugnazione incidentale tardiva, perché proposta successivamente alla scadenza dei termini ex art. 325 e ss., ed impugnazione incidentale tardiva ex art. 343, comma 2, c.p.c., né tra l’ipotesi in cui l’interesse derivi dall’impugnazione principale e quella in cui l’interesse derivi da altra impugnazione incidentale di un coobbligato in solido.
Quanto allo specifico interesse all’impugnazione sorto dall’impugnazione del Perboni, lo stesso controricorrente rappresenta che l’accoglimento del gravame di Perboni avrebbe per lui comportato il venir meno di coobbligati solidali con cui ripartire l’esito negativo della soccombenza. Ritiene che la proposizione dell’impugnazione adesiva del secondo coobbligato (a quella principale proposta dal primo coobbligato) aggraverebbe la posizione personale del terzo coobbligato, ulteriormente rispetto a quanto determinato dall’impugnazione principale, perché rischierebbe di far venir meno un altro (e ultimo) coobbligato.
In ordine al secondo motivo di ricorso, oltre a dedurne l’inammissibilità riproponendo la censura già svolta con il primo motivo, il medesimo controricorrente ne sostiene l’infondatezza nel merito. Rileva che non corrisponde al vero che la Corte d’appello abbia dichiarato tardivo l’appello incidentale proposto con la comparsa depositata all’udienza, essendosi limitata ad accertare che la costituzione era avvenuta senza il rispetto dei termini di cui all’art. 343, comma 1, c.p.c. qualificando ammissibile il suo appello quale impugnazione incidentale tardiva ex art. 343, comma 2, c.p.c.
Infine, con riferimento al terzo motivo di ricorso, il controricorrente riconosce che la Corte d’appello è incorsa in errore materiale e che, pertanto, il richiamo all’art. 334 c.p.c. va inteso come richiamo all’art. 343 c.p.c., e conclude, quindi, per l’inammissibilità del motivo.
2. Fissata la trattazione del ricorso dinanzi alla I Sezione civile, il collegio designato per la stabilita adunanza camerale del 30 maggio 2023 adottava, all’esito, l’ordinanza interlocutoria 20588 del 2023 (pubblicata il 17 luglio 2023), con la quale si ravvisava la necessità del “superamento della distonia tuttora persistente nella giurisprudenza di questa Corte” (di cui – si rammenta – ha già dato atto Cass., Sez. 3, n. 26139 del 5/09/2022) sulla disciplina delle impugnazioni incidentali tardive prevista, in via generale, dall’art. 334 c.p.c., anche in relazione agli artt. 331 e 332 c.p.c.
L’ordinanza parte dall’evocazione dei principi sanciti sulla questione dalle Sezioni unite con la citata sentenza n. 24627/2007, ma evidenzia che – nel successivo sviluppo giurisprudenziale – sono state emesse decisioni contrastanti (si richiama, in particolare, l’ordinanza della Sesta Sezione civile-1 n. 12584 del 22/05/2018), le quali implicano l’esigenza di ritornare sulla portata e sull’impianto motivazionale addotto a sostegno della suddetta sentenza e sulle relative conseguenze applicative con riguardo ad una serie di tematiche correlate
Nella stessa ordinanza di rimessione si rileva, infatti, che la decisione della Corte di appello sull’ammissibilità del ricorso incidentale tardivo adesivo del Carnevale Maffè si è fondata sull’esplicito richiamo alla sentenza delle Sezioni unite n. 24627 del 27/11/2007, nonché sulla considerazione che i principi in essa affermati siano applicabili con riferimento non solo all’appello principale di un coobbligato, ma anche all’appello incidentale di un diverso coobbligato, che avrebbe determinato l’insorgere in capo al terzo coobbligato di un nuovo e autonomo interesse a impugnare, in conseguenza della possibile ulteriore restrizione del novero degli obbligati solidali.
2.1. Secondo il collegio rimettente, il primo problema posto dai motivi di ricorso è dato dal fatto che il principio affermato dalle Sezioni unite del 2007, riguardo all’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva adesiva nel processo con pluralità di parti, non appare univoco e incontroverso, essendosi registrato un più recente approdo interpretativo non del tutto in linea con il citato arresto delle Sezioni unite con la pronuncia 24627 del 2007, riconducibile alla sentenza n. 23903 del 29/10/2020 delle stesse Sezioni unite.
Viene, perciò, individuata una prima questione consistente nel «verificare se l’impugnazione incidentale tardiva sia ammissibile anche quando rivesta le forme dell’impugnazione adesiva rivolta contro la parte investita dell’impugnazione principale, in ragione del fatto che l’interesse alla sua proposizione sorge dall’impugnazione principale (la quale, se accolta, comporterebbe una modifica dell’assetto delle situazioni giuridiche originariamente accettate dal coobbligato solidale), oppure se la stessa possa essere esperita (tenuto conto del tenore letterale dell’art. 334, comma 1, cod. proc. civ. e del carattere riflesso, e non diretto, dell’interesse suscitato nell’obbligato solidale dall’impugnazione principale del coobbligato) soltanto dalla parte “contro” la quale è stata proposta l’impugnazione principale o da quella chiamata ad integrare il contraddittorio a norma dell’art. 331 cod. proc. civ.».
2.2. Quindi, l’ordinanza di rimessione, rilevando che il principio affermato dalle Sezioni Unite nel 2007 si riferisce all’ipotesi in cui l’impugnazione principale metta in discussione l’assetto di interessi derivante dalla sentenza alla quale il coobbligato solidale aveva prestato acquiescenza (e quindi all’ipotesi di cui all’art. 343, comma 1, c.p.c., in cui un coobbligato aderisca, con l’impugnazione incidentale, all’appello principale di altro coobbligato), segnala che la sentenza impugnata ha applicato tale principio alla diversa ipotesi in cui un terzo coobbligato aderisca, con l’impugnazione incidentale tardiva, all’appello incidentale del secondo coobbligato, adesivo all’appello principale del primo coobbligato.
Tale diversa ipotesi sarebbe riconducibile al secondo comma dell’art. 343 c.p.c., che contempla il caso in cui l’interesse all’impugnazione incidentale sorga dall’impugnazione proposta da “altra parte che non sia l’appellante principale”, quindi necessariamente da un appellante incidentale.
La I Sezione civile rileva, quindi, la necessità di verificare non solo se il principio fissato dalle Sezioni Unite, nella sentenza n. 24627 del 2007, possa essere confermato, ma anche – così ponendo una seconda specifica questione – se lo stesso «possa essere applicato con riferimento all’interesse insorto a seguito di un’impugnazione non principale, ma incidentale adesiva».
2.3. L’ordinanza di rimessione ritiene, inoltre, indispensabile considerare se una simile impugnazione incidentale tardiva, ove ammissibile, possa essere introdotta non solo “nella prima udienza successiva alla proposizione dell’impugnazione stessa”, come prevede la norma, ma anche con autonomo atto di citazione, come avvenuto nel caso di specie.
2.4. Infine, muovendo dalla considerazione che l’impugnazione proposta in risposta all’appello principale del Pozzobon (per quanto adesiva rispetto a questa, in base alla sintesi dei relativi contenuti evincibili dalla impugnata sentenza di appello) è stata ritenuta inammissibile, perché tardiva, da una statuizione che non è stata impugnata, l’ordinanza ritiene – così ponendo un terza questione – che si debba, altresì, verificare «se, una volta dichiarata inammissibile l’impugnazione incidentale tardiva proposta reagendo all’impugnazione principale, debba considerarsi inammissibile, per consumazione del diritto di impugnazione, una seconda impugnazione incidentale presentata dalla stessa parte in relazione all’impugnazione incidentale di un differente coobbligato solidale».
Ciò in applicazione, nel particolare ambito per cui è causa, del principio – fissato dalla richiamata ordinanza della Sesta Sezione civile-1 n. 12584 del 22/05/2018 – secondo cui «è inammissibile l’appello incidentale tardivo che riproponga le medesime censure già presentate dalla stessa parte mediante l’appello principale, sebbene proposto prima che l’originario gravame sia dichiarato inammissibile, perché, qualora sia decorso il termine utile per l’impugnazione principale, non trova applicazione il principio desumibile dall’art. 358 cod. proc. civ., secondo cui la consumazione del diritto di impugnazione si verifica solo se, al momento dell’introduzione del nuovo gravame, sia già intervenuta la dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità di quello precedente».
3. Occorre, innanzitutto, rilevare che la ricorrente Mael s.p.a. (già Leonessa Investimenti s.r.l. a socio unico) ha depositato in cancelleria dichiarazione – sottoscritta dal suo legale rappresentante oltre che dal suo difensore – del 6 febbraio 2024, con la quale ha rinunciato al ricorso e agli atti del giudizio.
Il controricorrente Carnevale Maffè Carlo Alberto ha, di seguito, depositato, a sua volta, dichiarazione del 7 febbraio 2024 – dal medesimo sottoscritta, congiuntamente al suo difensore – con la quale ha accettato la suddetta rinuncia della ricorrente.
Sussistono, pertanto, le condizioni per dichiarare – ai sensi dell’art. 391 c.p.c. – l’estinzione del giudizio di cassazione senza far luogo ad alcuna pronuncia sulle spese, ricorrendo le condizioni di cui al comma 4 della citata norma e rimanendo, altresì, esclusa la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, in funzione dell’attestazione della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Ciò malgrado, queste Sezioni unite ritengono che – alla stregua della particolare rilevanza delle questioni processuali (specialmente di quella riferita all’interpretazione dell’art. 334, comma 1, c.p.c.) poste con l’ordinanza di rimessione, anche per effetto della sollecitata possibile rimeditazione della conclusione raggiunta (in tempi ormai non più recenti) dalle Sezioni unite con la più volte menzionata sentenza n. 24627/2007 (sottoposta a critica da parte di un certo orientamento di questa Corte e particolarmente dibattuta anche in dottrina, soprattutto con riguardo alle conseguenze derivanti in tema di obbligazioni solidali) e della notevole incidenza riconducibile alla sua soluzione (anche per gli effetti correlati che può produrre su questioni processuali dipendenti) – emerga una effettiva opportunità di enunciare i correlati principi di diritto ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., ovviamente all’esito di un percorso logico-giuridico- argomentativo che supporti la soluzione che si riterrà conferente rispetto alle plurime questioni poste con l’ordinanza di rimessione.
Occorre, peraltro, rimarcare che, pur facendo la norma appena richiamata specifico riferimento alla possibilità di pronunciare il principio di diritto, anche d’ufficio, quando il ricorso proposto è inammissibile, tale potere – in continuità con l’evoluzione giurisprudenziale di questa Corte (cfr., ad es., Cass. SU, ordinanza 6 settembre 2010, n. 19051; Cass. SU, sentenza 24 settembre 2018, n. 22438 e, da ultimo, Cass. Sezione 1, ordinanza 28 febbraio 2023, n. 6074, nonché Cass. SU, sentenza 6 aprile 2023, n. 9479) – deve ritenersi esercitabile anche in caso di declaratoria di estinzione conseguente alla rinuncia al ricorso, sulla scorta della valorizzazione della ratio sottesa a tale norma, la quale è stata concepita in funzione dell’attivazione della funzione nomofilattica pur a prescindere, eccezionalmente, dalla decisione sul fondo delle censure con effetti sul concreto diritto dedotto in giudizio.
Questa esigenza viene, infatti, certamente in rilievo anche nel caso di estinzione del giudizio di cassazione qualora la questione da risolvere sia di particolare importanza o, ancor di più, se riguarda una questione oggetto di contrasto giurisprudenziale (al limite rinnovatosi nel tempo dopo una già intervenuta decisione delle Sezioni unite) all’interno delle Sezioni civili della Corte, e, quindi, soprattutto quando la decisione è rimessa alle Sezioni unite, nella sussistenza delle condizioni previste dall’art. 374, comma 2, c.p.c. (come verificatosi nel caso di specie).
Si è, al riguardo, opportunamente sottolineato che, nell’applicazione dell’istituto del principio di diritto nell’interesse della legge, rimane viva e vitale quella necessaria compenetrazione tra l’esercizio dei compiti di nomofilachia e i “fatti della vita” portati dalle parti dinanzi al giudice; ciò dà fondamento alle ragioni di una disciplina che, a fronte di questioni di diritto e di fatto rivestenti particolare importanza, consente di pronunciare una regola di giudizio che, sebbene non influente sulla concreta vicenda processuale, serva tuttavia come criterio di decisioni di casi analoghi o simili (v. Cass. SU n. 27187/2007; Cass. SU n. 19051/2010 e Cass. SU n. 9479/2023, cit.), finalità che si prospetta ancora più avvertita quando trattasi di pronunciarsi su questione processuale di carattere generale, come quella che viene in rilievo nella presente sede.
4. Tutto ciò premesso, si può, dunque, passare allo svolgimento motivazionale supportante le risposte risolutive delle importanti e controverse questioni poste con la su richiamata ordinanza interlocutoria.
Quanto al tema dei limiti oggettivi dell’impugnazione incidentale tardiva (anche se tale non costituisce un aspetto sollecitato con l’ordinanza di rimessione, ma che – tuttavia – risulta connesso a quello dei “limiti soggettivi” di tale forma di impugnazione e che si ritiene opportuno richiamare), si osserva quanto segue. La giurisprudenza di questa Corte – dopo un lungo periodo in cui aveva imposto rigorosi confini oggettivi alla possibilità di esperire l’impugnazione incidentale tardiva, ritenendola ammissibile solo in quanto rimanesse nell’ambito del capo della sentenza investita dall’impugnazione principale o riguardasse un capo connesso con quest’ultimo o da questo dipendente – a partire dagli anni ottanta del secolo scorso aveva avviato un percorso di ripensamento, consacrato dalla sentenza delle SU n. 4640 del 7/11/1989, con la quale venne affermato il seguente principio di diritto: «l’art. 334 cod. proc. civ., che consente alla parte, contro cui è stata proposta impugnazione (o chiamata ad integrare il contraddittorio a norma dell’art. 331 cod. proc. civ.), di esperire impugnazione incidentale tardiva, senza subire gli effetti dello spirare del termine ordinario o della propria acquiescenza, è rivolto a rendere possibile l’accettazione della sentenza, in situazione di reciproca soccombenza, solo quando anche l’avversario tenga analogo comportamento, e, pertanto, in difetto di limitazioni oggettive, trova applicazione con riguardo a qualsiasi capo della sentenza medesima, ancorché autonomo rispetto a quello investito dall’impugnazione principale».
Con questa pronuncia si ritenne che:
(a) la ratio dell’art. 334 c.p.c. è una finalità “transattivo- ritorsiva”: la norma, infatti, ha lo scopo di indurre la parte parzialmente vittoriosa a rinunciare all’impugnazione, per non correre il rischio che l’appellato, attraverso l’impugnazione tardiva, possa rimettere in discussione anche le parti della sentenza favorevoli all’appellante principale;
(b) se questa è la ratio della norma, essa sarebbe frustrata se si impedisse all’appellato di impugnare tardivamente anche capi di sentenza diversi da quelli impugnati in via principale, perché l’esigenza di favorire la definitiva composizione della lite, dissuadendo le parti dall’impugnazione, sussiste anche in questa ipotesi;
(c) pertanto, l’interesse a proporre l’impugnazione tardiva non coincide con quello che sorge dalla mera soccombenza, ma è un interesse diverso e sorge dall’impugnazione altrui, “che tende a modificare l’assetto di interessi che l’impugnato, in mancanza dell’altrui impugnazione principale, avrebbe accettato”. Per effetto della sentenza appena ricordata, cadde il limite all’impugnazione incidentale tardiva rappresentato dalla medesimezza o dipendenza tra il capo di sentenza impugnato dall’impugnante principale e quello impugnato dall’impugnante incidentale. A quest’ultimo, di conseguenza, si è consentito impugnare qualsiasi capo della sentenza, anche se diverso da quello investito dall’impugnazione principale (cfr., ad , Cass., Sez. 3, n. 14596 del 9/07/2020) e anche se autonomo rispetto a questo (v. Cass., Sez. 3, n. 26139 del 5/09/2022).
E’ importante rimarcare che questo principio è stato recepito nell’art. 96 del d. lgs. n. 104/2010 – che reca la nuova disciplina sul processo amministrativo – prevedendosi proprio, al comma 4, che «Con l’impugnazione incidentale proposta ai sensi dell’art. 334 del codice di procedura civile possono essere impugnati anche capi autonomi della sentenza; tuttavia, se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione incidentale perde ogni efficacia», impugnazione che la giurisprudenza amministrativa ha denominato come impugnazione incidentale tardiva c.d. “impropria”.
5. La prima questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite coinvolge, direttamente, i temi della legittimazione attiva e passiva all’impugnazione incidentale tardiva e quello – comunque correlato – dei limiti oggettivi di tale impugnazione, nei processi con pluralità di parti, nella peculiare fattispecie delle obbligazioni solidali cd. “paritarie” o “a interesse comune”.
L’impugnazione incidentale tardiva c.d. adesiva, nella fattispecie oggetto del ricorso oggi rimesso alle Sezioni Unite, infatti:
- proviene da un soggetto (il coobbligato condannato in solido) diverso da quello contro il quale è rivolta l’impugnazione principale (proposta dall’altro coobbligato, pure condannato in solido, nei confronti del creditore), e coinvolge, pertanto, il tema della legittimazione attiva all’impugnazione incidentale tardiva;
- è rivolta contro una parte diversa da quella che ha proposto l’impugnazione principale, e coinvolge, pertanto, anche sotto questo profilo, il problema della legittimazione passiva all’impugnazione incidentale tardiva;
- ha ad oggetto un capo diverso della sentenza (la condanna dell’impugnante incidentale) rispetto a quello oggetto dell’impugnazione principale (la condanna dell’impugnante principale).
5.1. Con riferimento a tale questione si registrava nella giurisprudenza di questa Corte un contrasto – persistito per un tempo considerevole – che fu risolto dal successivo intervento delle Sezioni unite, con la (più volte indicata) sentenza 24627 del 27/11/2007.
Questa pronuncia venne emessa con riferimento ad una causa avente ad oggetto un caso in cui, rimasti soccombenti due coobbligati solidali, solo uno di essi impugnò tempestivamente la sentenza, mentre l’altro l’impugnò tardivamente in via incidentale. Tutte e due le impugnazioni erano ovviamente rivolte contro il creditore comune. Chiamate a stabilire se l’impugnazione incidentale tardiva fosse in questo caso ammissibile, le Sezioni Unite dettero a tale quesito risposta affermativa, facendo leva sul concetto di “interesse” all’impugnazione e sulla necessità soddisfare l’esigenza della tutela dell’«assetto comune» dell’interesse delle parti e della conservazione dell’unitarietà del rapporto sostanziale già dedotto in giudizio in primo grado.
Nella motivazione, infatti, si affermò che sussiste un interesse all’impugnazione tardiva, meritevole di tutela, tutte le volte che l’impugnazione proposta da uno qualsiasi dei litisconsorti, se accolta, comporterebbe una modifica dell’assetto delle situazioni giuridiche accettate da uno qualsiasi degli altri, poiché darebbe luogo o ad una soccombenza totale, oppure ad una soccombenza più grave di quella stabilita dalla sentenza impugnata.
Con questa sentenza le Sezioni unite stabilirono, quindi, che l’impugnazione incidentale tardiva potesse essere rivolta anche contro parti diverse dall’impugnante principale (conformandosi come “adesiva”). Peraltro, fu precisato che questa ammissibilità non è automatica e non sussiste sempre e comunque, ma esige che il giudice valuti se l’interesse all’impugnazione tardiva, nel caso concreto, possa davvero reputarsi sorto per effetto dell’impugnazione principale: dunque si tratterà di stabilire caso per caso se l’accoglimento eventuale di quest’ultima possa pregiudicare o meno l’impugnante incidentale tardivo. In caso affermativo l’impugnazione tardiva sarà ammissibile, nel caso contrario no.
Così ricostruito il contrasto, le Sezioni Unite del 2007 ritennero di dover sottoporre a revisione «l’orientamento dominante – secondo cui l’impugnazione principale fissa immodificabilmente l’oggetto del giudizio determinando in modo automatico l’ambito dell’eventuale impugnazione incidentale in considerazione dei limiti derivanti dalla decadenza, dall’acquiescenza e dalla mancata riproposizione delle domande e delle eccezioni non espressamente riproposte» perché messo in crisi dalla enorme casistica con la quale viene valorizzato un diverso elemento, e cioè la ricerca dell’interesse all’impugnazione.
Il principio definitivamente statuito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 24627 del 2007 è stato condensato nella massima ufficiale di seguito riportata: «Sulla base del principio dell’interesse all’impugnazione, l’impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile, a tutela della reale utilità della parte, tutte le volte che l’impugnazione principale metta in discussione l’assetto di interessi derivante dalla sentenza alla quale il coobbligato solidale aveva prestato acquiescenza; conseguentemente, è ammissibile, sia quando rivesta la forma della controimpugnazione rivolta contro il ricorrente principale, sia quando rivesta le forme della impugnazione adesiva rivolta contro la parte investita dell’impugnazione principale, anche se fondata sugli stessi motivi fatti valere dal ricorrente principale, atteso che, anche nelle cause scindibili, il suddetto interesse sorge dall’impugnazione principale, la quale, se accolta, comporterebbe una modifica dell’assetto delle situazioni giuridiche originariamente accettate dal coobbligato solidale».
5.2. Nello sviluppo successivo della giurisprudenza di questa Corte si è, tuttavia, constatato che:
– mentre un orientamento ha continuato a fare applicazione dei principi espressi dalle citate Sezioni Unite del 2007 – e, quindi a ritenere ammissibile, sotto il profilo della legittimazione attiva, l’impugnazione incidentale tardiva anche proveniente da parte diversa da quella contro la quale è rivolta l’impugnazione principale o chiamata ad integrare il contraddittorio ex art. 331 c.p.c. -, un diverso orientamento della Corte ha negato che l’art. 334 c.p.c. sia applicabile al di fuori delle ipotesi ivi espressamente previste e quindi che sia ammissibile, in ipotesi di cause scindibili, l’impugnazione incidentale tardiva di un soggetto diverso da quelli indicati da tale norma.
Il contrasto sulla legittimazione attiva a proporre impugnazione incidentale tardiva assume rilievo soprattutto, nel campo delle obbligazioni solidali a “interesse comune”, in quanto in ambiti in cui la connessione di cause è meno rilevante la giurisprudenza della Corte, sulla base dei diversi principi affermati, è giunta a conclusioni non contrastanti.
Tale contrasto può, peraltro, assumere rilievo anche nei settori delle obbligazioni solidali a interesse unisoggettivo e, in generale, delle cause connesse per pregiudizialità-dipendenza, ove non ricondotte sotto la disciplina di cui all’art. 331 c.p.c., come ad esempio nel caso in cui il debitore principale condannato in primo grado in solido con il condebitore (o il convenuto, nel caso di accoglimento tanto della domanda principale quanto quella di garanzia) proponga impugnazione nei soli confronti dell’attore, essendo, in tal caso, il condebitore o il terzo chiamato condannati parti diverse da quelle a cui l’art. 334 c.p.c. consente espressamente l’impugnazione incidentale tardiva.
I principi affermati dalle Sezioni Unite del 2007 sembrano, invece, essere rimasti consolidati nella giurisprudenza della Corte quanto all’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva nei confronti di soggetti diversi da quello che ha proposto impugnazione principale.
D’altra parte, la giurisprudenza di questa Corte esclude pianamente tanto che la riforma della sentenza di condanna di un coobbligato in solido abbia efficacia nei confronti del condebitore non impugnante, sia che il giudicato formatosi nei confronti di un condebitore in solido all’esito di un giudizio a cui non abbia partecipato un altro condebitore, possa esplicare efficacia nel successivo giudizio di regresso tra costoro, in ragione dei limiti soggettivi del giudicato.
5.3. Le Sezioni unite del 2007 avevano, quindi, affrontato e risolto due questioni distinte: – quella dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva rivolta contro una parte diversa dall’impugnante principale, che attiene ai limiti della “legittimazione passiva” del gravame ex 334 c.p.c., che ritengono diversa da quella su cui vi era il contrasto; – quella dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva adesiva proposta dal coobbligato nelle cause scindibili, a fronte dell’impugnazione di altro coobbligato, relativamente ai limiti della legittimazione attiva del medesimo gravame, in quanto proveniente da soggetto diverso da quello contro il quale è proposta l’impugnazione principale.
L’ampiezza dei temi sottostanti alla specifica questione dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva adesiva proposta dal coobbligato in solido a seguito dell’impugnazione proposta in via principale da altro coobbligato fu immediatamente sottoposta dalla dottrina alla sua attenzione.
5.3.1. L’eliminazione ad opera delle Sezioni Unite dei limiti soggettivi, sotto il profilo della “legittimazione passiva”, dell’impugnazione incidentale tardiva proposta dalla parte contro la quale è proposta l’impugnazione principale, è stata accolta con favore da una parte della dottrina, secondo cui tali limiti non sono previsti dall’art. 334 c.p.c. La soluzione è stata ritenuta coerente con la ratio di tale norma, che è quella di evitare la “corsa” all’impugnazione e di consentire alla parte parzialmente soccombente disposta ad accettare l’esito complessivo della lite di stare “alla finestra” sapendo che se la sentenza, nella parte ad essa favorevole, sarà impugnata, potrà a sua volta impugnare nei termini ordinari, qualunque sia la ragione del cumulo nello stesso processo di più cause tra parti differenti.
La parte contro la quale è stata proposta l’impugnazione avrebbe, infatti, un concreto interesse a proporre l’impugnazione incidentale tardiva, anche nei confronti di una parte diversa da quella che ha proposto l’impugnazione principale, derivante dalla circostanza che l’impugnazione (principale) rimette in discussione il risultato pratico complessivamente determinato dalla sentenza impugnata, potendo condurre ad una soccombenza «più grave» di quella che l’impugnante incidentale era disposto ad accettare.
Tale indirizzo dottrinale ha illustrato i positivi effetti della eliminazione dei limiti soggettivi in questione, nel settore delle obbligazioni solidali, nel caso in cui, avendo il creditore ottenuto la condanna di taluno soltanto dei più condebitori convenuti (che tuttavia potrebbe soddisfarlo pienamente, qualora egli faccia affidamento sulla solvibilità del soccombente), la sentenza sia impugnata da quest’ultimo, con il conseguente rischio per l’attore di un rigetto totale della domanda, che lo abilita ad avvalersi dell’impugnazione incidentale tardiva nei confronti degli altri coobbligati risultati vittoriosi in primo grado. Effetti altrettanto positivi – come rilevato dalla stessa decisione delle Sezioni Unite del 2007 – conseguirebbero con riferimento alle fattispecie di garanzia c.d. impropria (facendo l’esempio della vendita a catena, in cui l’ultimo acquirente faccia valere i vizi della cosa nei confronti dell’ultimo venditore, e questi chiami a sua volta in causa il proprio dante causa), allorché, avendo la sentenza accolto tanto la domanda principale quanto quella di rivalsa, l’impugnazione (principale) sia proposta dal garante, con l’evidente effetto di porre a rischio il risultato pratico derivante al convenuto-garantito dalla sentenza impugnata, che ha perciò interesse a proporre tardivamente l’impugnazione nei confronti dell’originario attore, senza che rilevi la circostanza che il garante abbia censurato la sentenza impugnata solo nella parte relativa alla sussistenza ed ai limiti dell’obbligo di garanzia ovvero anche per ragioni concernenti l’esistenza dell’obbligazione principale in capo al convenuto.
5.3.2. Altra parte della dottrina ha, invece, criticato la sentenza delle Sezioni Unite 24627 del 2007 per aver ritenuto ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva proposta dal coobbligato soccombente a fronte dell’impugnazione principale proposta da altro coobbligato pure soccombente, sia perché proveniente da una parte diversa da quella contro la quale è proposta l’obbligazione principale, in contrasto con la lettera dell’art. 334 c.p.c., sia perché, con detta pronuncia, si sarebbe data per scontata l’efficacia dell’eventuale riforma della sentenza di primo grado in accoglimento dell’impugnazione principale, nel successivo giudizio di regresso tra i condebitori, che sarebbe, invece, da escludersi.
Altri indirizzi teorici sembrano far leva sui limiti soggettivi del giudicato, escludendo tale efficacia «in quanto quella sentenza non ha avuto alla base un giudizio che vedesse davvero ancora come parte il condebitore solidale inerte», perché la notifica, dell’impugnante principale, nei casi di cui all’art. 332 c.p.c., dovrebbe considerarsi una mera litis denuntiatio, con la conseguenza di doversi recisamente negare in apicibus il fatto che chi riceve questa notifica diventi parte del giudizio di gravame e possa subire un qualsivoglia tipo di deterioramento della sua complessiva situazione giuridica quale fuoriuscente dalla sentenza di primo grado che egli ha espressamente, o tacitamente, o semplicemente facendo decorrere i termini, sostanzialmente accettato, facendo sì che si consolidi il capo di sentenza scindibile relativo alla propria condanna.
Si è, infine, ritenuto che la soluzione tracciata dalle Sezioni Unite con la più volte citata sentenza del 2007 finisca per prestare eccessiva attenzione alla posizione dei coobbligati (in vista di un diritto, quello di regresso, non ancora esercitato) a scapito della posizione del creditore che, per essere certo della propria vittoria, non dovrebbe soltanto attendere il decorso dei termini brevi o lunghi per l’impugnazione, ma anche chiedersi se, in ragione del gravame proposto da un coobbligato, l’altro o gli altri coobbligati rimasti inerti possano subire un qualche pregiudizio, sia pure di mero fatto, tali da legittimarli all’esercizio dell’impugnazione incidentale tardiva, in contrasto con la funzione stessa della solidarietà, intesa quale istituto che tutela, in via prioritaria, la posizione del creditore.
6. Il principio di diritto enunciato con la sentenza delle Sezioni unite 24627 del 2007 è stato ribadito dalla prevalente successiva giurisprudenza di questa Corte che ha valorizzato la sussistenza in capo al condebitore solidale di un suo reale interesse a proporre impugnazione incidentale tardiva congiuntamente al soddisfacimento – innanzi ricordato – dell’esigenza di garantire l’assetto complessivo delle situazioni giuridiche dedotte in causa fin dalla sua introduzione nell’ottica di addivenire ad una soluzione riguardante un rapporto comune nella sua unitarietà (cfr., tra quelle massimate ufficialmente, come conformi Cass., Sez. L, n. 9264 del 9/04/2008; Cass., Sez. 3, n. 10125 del 30/04/2009; Cass., Sez. L, n. 15050 del 26/06/2009; Cass., SU, n. 18049 del 4/08/2010, ancorché in modo solamente reiterativo; Cass., Sez. 1, n. 5146 del 30/03/2011; Cass., Sez. L, n. 5086 del 29/03/2012; Cass. SU, n. 18752 del 7/08/2013, sempre in senso soltanto reiterativo; Cass., Sez. 3, n. 25848 del 9/12/2014; Cass., Sez. 1, n. 23396 del 16 novembre 2015; nonché, tre le più recenti, Cass., Sez. 2, n. 1879 del 25/01/2018; Cass., Sez. 2, n. 5876 del 12/03/2018; Cass., Sez. 2, n. 14596 del 9/07/2020; Cass., Sez. 3, n. 25285 dell’11/11/2020; Cass., Sez. 3, n. 26139 del 5/09/2022).
Si è, in special modo, affermato – ad es., con Cass., Sez. 3, n. 25285 dell’11/11/2020, cit. (ampiamente motivata sulla questione in oggetto) – che l’impugnazione incidentale tardiva del coobbligato in solido, rivolta contro la parte investita dell’impugnazione principale, è ammissibile anche se fondata su motivi diversi da quelli fatti valere dal ricorrente principale, rilevandosi che «una diversa e più restrittiva interpretazione indurrebbe ciascuna parte a cautelarsi proponendo un’autonoma impugnazione tempestiva sulla statuizione rispetto alla quale è rimasta soccombente, con inevitabile proliferazione dei processi d’impugnazione».
Sotto il profilo dell’interesse all’impugnazione, con la stessa Cass. n. 25285 del 2020, si è, poi, osservato che «nel caso delle obbligazioni solidali l’interesse è dato dal possibile mutamento dell’ampiezza della propria responsabilità, a nulla valendo la circostanza che la decisione da impugnare abbia, come nell’ipotesi, lasciato impregiudicato il profilo dei rapporti interni tra coobbligati, ovvero che, astrattamente, l’intera responsabilità, in sede di rivalsa (trattandosi di titoli differenti), potrebbe essere imputata a un solo soggetto: infatti, proprio perché il profilo in parola è impregiudicato, e proprio perché il soggetto in questione potrebbe essere o meno pregiudicato dalla rivalsa, è evidente che ha un interesse specifico che sorge dall’impugnazione del coobbligato, poiché quella vuole incidere sull’assetto regolato dalla decisione oggetto di censura e che lo coinvolge».
Quanto alla compatibilità con la lettera dell’art. 334 c.p.c. dell’interpretazione che, in base al principio dell’interesse all’impugnazione, ritiene ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva adesiva del coobbligato in solido, con la medesima pronuncia è stato evidenziato che mancano «limitazioni letterali evincibili dall’art. 334, primo comma, cod. proc. civ., dovendosi intendere per “parte contro cui è proposto” il gravame ogni parte che ne potrebbe subire effetti pregiudizievoli dall’accoglimento dell’impugnazione proposta da altri» (in termini omologhi v., da ultimo Cass., Sez. 3, n. 26139 del 5/09/2022, anch’essa diffusamente motivata sulla questione, con il riesame di tutto il pregresso stato giurisprudenziale e la riaffermazione della condivisibilità dell’impianto logico-giuridico-argomentativo della sentenza delle SU n. 24627/2007: è opportuno segnalare che con quest’ultima ordinanza citata si era ritenuto non necessario investire nuovamente della specifica questione le Sezioni Unite, giacché quello che si era definito come “orientamento minoritario” poteva in realtà ascriversi a fisiologiche oscillazioni giurisprudenziali, non convincenti nell’elaborazione dei presupposti ed in ogni caso non tali da ingenerare un autentico contrasto o contrapposizione tra indirizzi consolidati).
6.1. All’orientamento giurisprudenziale, adesivo alla sentenza delle Sezioni Unite 24627 del 2007, se ne è contrapposto un altro secondo cui, a fronte dell’impugnazione principale, proposta da un coobbligato contro la sentenza di condanna in solido, l’altro coobbligato, pur avendo il potere di impugnare in via incidentale adesiva, non può farlo quando siano spirati i termini lungo o breve per proporre impugnazione (tra quelle massimate si richiamano Cass., Sez. 5, n. 1610 del 25/01/2008; Cass., Sez. 3, n. 1120 del 21/01/2014; Cass., Sez. 5, n. 20040 del 7/10/2015; Cass., Sez. 3, n. 17614 del 24/08/2020 e Cass., SU, n. 23903 del 29/10/2020). E’ stata esclusa l’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva del coobbligato in solido, sulla base del principio secondo cui «l’art. 334 cod. proc. civ., che consente di proporre l’impugnazione incidentale tardiva nei confronti di qualsiasi capo della sentenza impugnata dalla controparte, si riferisce infatti esclusivamente all’impugnazione incidentale in senso stretto, ovverosia a quella proveniente dalla parte contro la quale è stata proposta l’impugnazione principale o che sia stata chiamata ad integrare il contraddittorio, a norma dell’art. 331 cod. proc. civ.: quando invece il ricorso incidentale abbia contenuto adesivo a quello principale, la parte che lo propone è tenuta a rispettare il termine lungo di cui all’art. 327, primo comma, cod. proc. civ.».
Occorre evidenziare che l’ordinanza della Sez. 6-1 n. 12584 del 22/05/2018 evocata nell’ordinanza interlocutoria si è pronunciata, infatti, in una fattispecie in cui, pubblicata una sentenza di divorzio che aveva altresì disposto un assegno a carico del marito in favore della moglie, entrambi i coniugi avevano proposto impugnazione in via principale, ma mentre quello della moglie era tempestivo, quello del marito era tardivo. Il marito, quindi, aveva altresì riproposto lo stesso appello in via incidentale tardiva a seguito dell’appello principale proposto dalla moglie, e prima che venisse dichiarata l’inammissibilità dell’appello da lui proposto in via principale.
Con tale pronuncia è stato ritenuto inapplicabile, al caso di specie, l’orientamento assolutamente prevalente della Corte sopra descritto, in ragione del fatto che, con riferimento all’appello principale, tale principio richiede che, al momento della proposizione del nuovo gravame, non sia ancora decorso il termine per l’impugnazione, mentre, nel caso al suo esame, tale termine era decorso tanto al momento della proposizione dell’appello principale del marito, quanto al tempo della proposizione dell’appello incidentale da parte dello stesso.
Nella sostanza, quindi, parrebbe che tale pronuncia sia stata determinata dalla necessità di evitare che in base ad un principio consolidato nella giurisprudenza della Corte si potesse consentire alla parte di eludere i termini previsti dalla legge per il suo appello principale.
Va segnalato, inoltre, che tale decisione non si è pronunciata sulla questione relativa alla possibilità di conversione dell’appello principale del marito, successivo a quello della moglie, in appello incidentale tardivo (paragonabile a quella che si pone nel giudizio oggi rimesso a queste Sezioni unite), perché con il ricorso era stata rimessa la diversa questione dell’ammissibilità dell’appello incidentale tardivo, nonostante l’inammissibilità di quello principale per tardività.
Il caso oggetto del ricorso oggi rimesso alle Sezioni Unite si presenta, quindi, ben diverso, perché non viene in gioco la questione della recuperabilità, attraverso la conversione in appello incidentale tardivo, di un appello principale tardivamente proposto, bensì quella, diversa, dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva proposta, anziché attraverso un’impugnazione incidentale, nelle forme di un’impugnazione autonoma, peraltro con l’osservanza dei termini previsti per tale impugnazione, ai sensi dell’art. 343, comma 2, c.p.c., ove ritenuta ammissibile.
L’ordinanza interlocutoria di rimessione della questione pone riferimento anche alla più recente pronuncia delle Sezioni unite n. 23903 del 2020, con cui è stata negata l’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva del coobbligato in solido al risarcimento del danno erariale, aderendo all’orientamento più restrittivo, sul rilievo del carattere reciprocamente scindibile e indipendente dei distinti rapporti processuali.
Detta decisione delle Sezioni unite riguardava, in effetti, la particolare ipotesi della responsabilità contabile (nell’ambito della risoluzione di un questione di giurisdizione), che è connotata, in virtù degli interessi pubblici coinvolti nell’azione di responsabilità, da caratteristiche precipue, quali la distinzione fra le figure dell’obbligato principale e del coobbligato secondario o la non operatività della c.d. rinunzia alla solidarietà da parte del creditore-Erario, a favore di uno dei condebitori.
7. La giurisprudenza di questa Corte ha sempre inquadrato il caso delle obbligazioni solidali a interesse comune nelle cause «scindibili» ex 332 c.p.c. (v., tra le tante, Cass., SU, n. 14700 del 18/06/2010; Cass., Sez. 3, n. 11795 del 30/08/2011; Cass., Sez. 2, n. 2854 del 12/02/2016), a condizione che non sia stata da alcuna parte richiesta la pronuncia sulle pretese di regresso o sulla «ripartizione» nei rapporti interni.
Questa posizione è stata fondata sul presupposto che l’obbligazione solidale determina la costituzione di tanti rapporti obbligatori (plasticamente si discorre di “fascio di rapporti”), quanti sono i condebitori, con la duplice conseguenza che, «nel caso di giudizio di impugnazione promosso da uno solo dei debitori solidali, la sentenza passa in giudicato nei confronti dei condebitori riguardo ai quali l’impugnazione non è stata svolta e che, qualora l’esercizio del diritto di impugnazione sia avvenuto da parte di tutti i condebitori, con la deduzione, però, da parte di ciascuno, di specifici motivi diversi da quelli dedotti dagli altri, i motivi dedotti dal condebitore non si comunicano agli altri».
Al riguardo si è, infatti, sostenuto che la sentenza con cui ci si pronuncia sulla domanda proposta dal creditore nei confronti di una pluralità di condebitori, «pur essendo formalmente unica, consta di tante distinte pronunce quanti sono i coobbligati con riguardo ai quali essa è stata emessa», con la conseguenza che, in caso di mancata impugnazione da parte di un condebitore, si determina il passaggio in giudicato della sentenza nei suoi confronti (Cass., Sez. 3, n. 16390 del 14/07/2009), senza che egli possa giovarsi dell’eventuale accoglimento dell’impugnazione del coobbligato, neanche qualora gli sia stata notificata l’impugnazione (Cass., Sez. 2, n. 24728 dell’8/10/2018).
Ciò in quanto «la regola di cui all’art. 1306, secondo comma, cod. civ., secondo cui i condebitori in solido hanno facoltà di opporre al creditore la sentenza pronunciata tra questi ed uno degli altri condebitori, trova applicazione soltanto nel caso in cui la sentenza suddetta sia stata resa in un giudizio cui non abbiano partecipato i condebitori che intendano opporla. Se, invece, costoro hanno partecipato al medesimo giudizio, operano le preclusioni proprie del giudicato, con la conseguenza che la mancata impugnazione da parte di uno o di alcuni dei debitori solidali, soccombenti in un rapporto obbligatorio scindibile, qual è quello derivante dalla solidarietà, determina il passaggio in giudicato della sentenza nei loro confronti, ancorché altri condebitori solidali l’abbiano impugnata e ne abbiano ottenuto l’annullamento o la riforma» (cfr. Cass., Sez. 3, n. 20559 del 30/09/2014).
La disciplina delle cause scindibili di cui all’art. 332 c.p.c., viene ritenuta applicabile dalla giurisprudenza di questa Corte, nell’ambito delle cause aventi ad oggetto obbligazioni solidali a interesse comune, sia nel caso in cui, risultando entrambe le domande accolte, l’impugnazione principale sia proposta da uno dei condebitori nei riguardi del comune creditore (Cass., Sez. L, n. 7308 del 26/03/2007; Cass., Sez. 3, n. 13607 del 21/06/2011 e Cass., Sez. 2, n. 24728 dell’8/10/2018, appena cit.), sia nel diverso caso in cui, a seguito del rigetto (anche parziale) di tutte le (o di alcune delle) domande, il creditore proponga impugnazione nei confronti di alcuni soltanto degli originari convenuti (Cass., Sez. 3, n. 3338 dell’11/02/2009 e Cass., Sez. 3, n. 9625 del 19/04/2018, non mass.).
Condividendo il riportato inquadramento, la dottrina assolutamente prevalente afferma che ogniqualvolta, indipendentemente dal tipo di connessione che è alla base del cumulo soggettivo di cause, una delle parti sia destinataria di una vera e propria impugnazione (id est di una domanda di riforma o annullamento di una statuizione a lui sfavorevole), non soltanto la ratio, ma anche la stessa lettera dell’art. 334, comma 1, c.p.c., inducono ad escludere che l’impugnazione incidentale tardiva dell’impugnato sia soggetta, dal lato passivo, ad alcuna limitazione di ordine soggettivo.
7.1. Alla regola della scindibilità delle cause, la giurisprudenza di questa Corte ritiene si deroghi, allorquando nel processo uno dei due condebitori eserciti azione di regresso nei confronti dell’altro, oppure la responsabilità dell’uno presupponga quella dell’altro «venendo a configurarsi una situazione di inscindibilità di cause e quindi di litisconsorzio processuale necessario, quando le stesse siano in rapporto di dipendenza ovvero quando le distinte posizioni dei coobbligati presentino obiettiva interrelazione, alla stregua della loro strutturale subordinazione anche sul piano del diritto sostanziale, sicché la responsabilità dell’uno presupponga la responsabilità dell’altro» (v., di recente, , Sez. III, n. 34899 del 28/11/2022).
La Corte ritiene, inoltre, riconducibile alla disciplina di cui all’art. 331 c.p.c. anche il caso in cui nel giudizio in cui sia chiesta la condanna di varie parti in solido al risarcimento dei danni e tra le stesse insorga controversia circa la determinazione delle rispettive quote di corresponsabilità, versandosi in un’ipotesi di cause dipendenti (Cass. SU n. 3074 del 3/03/2003 e Cass., Sez. I, n. 19584 del 27/08/2013).
8. Passando, ora, a tirare le fila del ragionamento – in un’ottica di complesso argomentativo di sistema – occorre evidenziare che le due questioni principali che discendono dall’esame del rapporto tra obbligazione solidale “paritaria” e impugnazione incidentale tardiva pongono i seguenti interrogativi: a) chi, risultato soccombente rispetto ad una pronuncia di condanna in solido, possa impugnarla in via incidentale tardiva (ciò che attiene al profilo della legittimazione attiva); b) quale sia la parte contro cui l’impugnazione ai sensi dell’art. 334 c.p.c. possa essere proposta (e ciò investe il profilo della legittimazione passiva).
E’ stato già sottolineato che, per individuare chi abbia legittimazione a proporre gravame incidentale tardivo contro una sentenza (o decisione equiparabile quanto agli effetti) pronunciata su un’obbligazione solidale (ad interesse comune, che viene in rilievo nella causa oggetto di ricorso nel caso in esame), diventa imprescindibile partire dal presupposto – recepito dalla giurisprudenza pressoché consolidata di questa Corte (in precedenza illustrata), dalla quale non si ha motivo per discostarsi, peraltro seguita anche dalla dottrina predominante – che la pluralità di cause in tale ipotesi cumulate e poi decise con sentenza è riconducibile alla disciplina delle cause scindibili (prevista dall’art. 332 c.p.c.).
E’ risaputo che la scindibilità, in sede di gravame, del cumulo di condanne in solido proposto in primo grado è ritenuta un corollario dell’ambito applicativo dell’art. 1306, comma 1, c.c., in base al quale la sentenza emessa tra un coobbligato ed il creditore non ha effetto nei confronti dei coobbligati rimasti estranei alla controversia. E’ questa norma, pertanto, a legittimare la formazione di una pluralità di pronunce sull’esistenza e sull’atteggiarsi dell’obbligazione solidale, senza che possa assume rilevanza la circostanza che le domande formulate contro i singoli coobbligati abbiano determinato un cumulo litisconsortile (non necessario) in primo grado ovvero che abbia formato oggetto di separati giudizi. Del resto, il principio desumibile dal citato art. 1306, comma 1, c.c. non costituisce altro che il riflesso della legittimazione disgiunta a contraddire in capo a ciascun coobbligato e, prima ancora, del concetto stesso di solidarietà, per effetto della regola generale secondo cui il creditore può domandare a ciascuno dei coobbligati l’adempimento dell’intera obbligazione.
Orbene, sulla scorta di questo presupposto (ovvero del fatto che la sentenza che abbia condannato in solido i coobbligati sia sottoposta alla disciplina delle cause scindibili) e pur prendendosi atto che il disposto dell’art. 334, comma 1, c.p.c. attribuisce il potere di impugnare in via incidentale tardiva a colui che riceve l’impugnazione o a coloro che sono chiamati ad integrare il contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c., non può dirsi che la sola lettera del citato art. 334 c.p.c. sia di per sé impeditiva – con riguardo a tali tipi di obbligazioni caratterizzate da un vincolo di solidarietà “ad interesse comune” – della possibilità per il coobbligato non impugnante, a cui sia notificata l’impugnazione principale, di proporre gravame incidentale tardivo. Ciò perché con riferimento a questo tipo di situazioni giuridiche soggettivamente complesse che trovano fonte in un’obbligazione comune connotata da una eadem ratio, in capo al suddetto coobbligato non impugnante si configura un interesse qualificato che – per effetto dell’impugnazione altrui diretta contro il creditore – lo legittima a potersi servire di tale rimedio impugnatorio, ancorché in via tardiva: è per questo che – proprio per tali tipi di situazioni (non ricomprese nella previsione di un principio generale testuale, ma che lo diventano in un’ottica ermeneutica di carattere sistematico) – si afferma che, in effetti, il dettato del comma 1 dell’art. 334 c.p.c. minus dixit quam voluit.
Tale interesse – con riferimento, per l’appunto, ad un’obbligazione solidale “paritaria” – si identifica nel pregiudizio, non di mero fatto ma giuridicamente rilevante (pur se lo si voglia qualificare come riflesso o indiretto o – seconda parte della dottrina – condizionato), che il coobbligato acquiescente potrebbe subire se fosse riformata la sentenza di condanna impugnata in via principale dall’altro condebitore. In termini più concreti, il rischio che si vuole salvaguardare è quello che il coobbligato inerte – che abbia, nel frattempo, pagato il creditore – non riesca ad ottenere, in sede di regresso, la quota parte dovuta dal coobbligato, che, invece, abbia visto riformata in sede di impugnazione la sentenza di condanna. Ed è in quest’ottica che, quindi, trova giustificazione (nella valorizzazione del soddisfacimento di un interesse propriamente riconducibile nell’alveo applicativo dell’art. 100 c.p.c.) la legittimazione del coobbligato ad impugnare la sentenza in via incidentale tardiva: la proposizione di questo gravame, legato o anche solo condizionato all’esito di quello principale e ai motivi con esso formulati, garantirebbe in ogni caso un risultato decisorio uniforme circa l’esistenza e il modo di essere dell’obbligazione solidale, funzionale ad un corretto riparto dell’obbligazione in sede di regresso (non si tratterebbe propriamente di una contro-impugnazione, ma di un’impugnazione tardiva dal contenuto adesivo).
Ecco, dunque, che viene in risalto (in modo ancora una volta condivisibile) quanto è stato sostenuto nella sentenza delle Sezioni unite n. 24627 del 2007 nel passaggio logico- argomentativo centrale della motivazione, laddove si argomenta che – poiché l’unità del giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, la cui intima coerenza verrebbe meno se ogni parte di esso fosse suscettibile di esame separato, con conseguente (pericolo) di difformità dei giudicati scaturenti dal medesimo rapporto, seppur tra parti diverse – «l’impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile a tutela della reale utilità della parte tutte le volte che l’impugnazione principale metta in discussione l’assetto di interessi derivanti dalla sentenza alla quale il coobbligato solidale aveva prestato acquiescenza».
E’, dunque, la prospettiva dell’interesse (qualificato e concreto, e non insito solo nell’evitare un “pregiudizio di fatto” che può derivare dall’esito del giudizio conseguente al gravame principale) ad impugnare (dal cui esercizio discende l’acquisizione della qualità di parte che fa valere uno ius quo utimur) che legittima il coobbligato solidale (a cui venga notificata l’impugnazione principale) a proporre l’impugnazione incidentale tardiva ai sensi dell’art. 334, comma 1, c.p.c.
In tal modo si ottiene non solo una semplificazione del quadro che le Sezioni unite del 2007 hanno inteso tracciare nel contesto ispirato da un intento teleologico, ma anche una tutela maggiormente effettiva e garantistica nonché un’efficace economia processuale, evitando la moltiplicazione di processi a causa di sentenze che producano effetti soltanto tra alcune parti, a seguito di scissioni intervenute nello svolgersi delle impugnazioni, pur essendo il giudizio iniziato ab origine nei confronti di una pluralità di parti e pur risentendo queste, quantomeno in via riflessa o indiretta (ma pur sempre giuridicamente apprezzabile), dei pregiudizi che si originano dalla formazioni di giudicati interni o soggettivamente parziali. In tal modo si garantisce una tutela effettiva delle situazioni sostanziali e degli interessi in gioco, finalità che – con una previsione normativa, efficace ed esaustiva nella sua più ampia rappresentazione testuale e non, invece, improntata a genericità (come nel nuovo c.p.c., laddove non si pone uno specifico riferimento alle obbligazioni solidali) – perseguiva il codice di procedura civile del 1865. Il relativo art. 471, dopo avere stabilito, al comma 2, n. 1, che la riforma o l’annullamento della sentenza giovasse anche a “coloro i quali (quantunque non l’abbiano domandato) hanno un interesse essenzialmente dipendente dalla persona che l’ottenne”, al n. 3 dello stesso comma disponeva che della riforma o dell’annullamento della sentenza beneficiassero anche coloro che, pur non intervenuti nei gradi di impugnazione, fossero stati condannati in solido con la persona, che successivamente aveva ottenuto la riforma o l’annullamento (parte della dottrina ha acutamente sottolineato che – mediante questa complessiva previsione normativa – il sistema processuale previgente permetteva, per così dire, “una perfetta quadratura del cerchio”).
Detta finalità può rinvenirsi – pur se il testo del richiamato art. 471 c.p.c. 1865 non è, come detto, stato riprodotto nell’art. 334, comma 1, del nuovo codice di rito civile – attraverso un inquadramento ermeneutico-sistematico che di quest’ultimo ha operato la sentenza delle Sezioni unite n. 24627 del 2007.
Sussistono, perciò, sul piano della salvaguardia degli assetti generali di un istituto processuale di particolare rilievo, le condizioni per dare continuità all’orientamento espresso dalle Sezioni unite con la citata sentenza del 2007. Con la stessa si è inteso subordinare l’interesse ad impugnare alla messa in discussione, mediante la proposizione dell’appello principale, del “complessivo” risultato del giudizio di primo grado da parte del coobbligato solidale che si era astenuto dal proporre gravame, così consentendo, altresì, di pervenire ad un accertamento uniforme dell’esistenza e del modo di essere dell’obbligazione solidale nell’alveo di operatività dell’art. 332 c.p.c.
Come è stato opportunamente messo in evidenza (e già ricordato) da un’autorevole dottrina, ammettendo l’impugnazione incidentale tardiva si evita, more solito, la “corsa all’impugnazione precauzionale” da parte del coobbligato soccombente che sia soddisfatto dal complessivo risultato del giudizio di primo grado, ma che tema l’appello di altro coobbligato, così conseguendosi – come già evidenziato – una indubbia, coerente ed apprezzabile finalità di economia processuale.
Alla luce di tali considerazioni non si riscontrano, pertanto, idonee ragioni che inducano queste Sezioni unite ad un ripensamento, in risposta alla sollecitazione di cui al primo quesito, rispetto al principio statuito con la sentenza delle stesse Sezioni unite n. 24627/2007.
Peraltro, in proposito, si ravvisa l’opportunità di richiamare le valutazioni svolte – su un piano generale ed ispirato dall’esigenza di tenuta (per quanto possibile) del sistema giurisprudenziale del giudice della nomofilachìa che deve favorire la “stabilizzazione” dei principi giuridici che incidono soprattutto su questioni di rilevanza ed applicazione diffuse (come quelle in materia processuale) – da queste stesse Sezioni unite con l’ordinanza n. 23675 del 2014, ricordata anche dal P.G. nelle sue conclusioni. Con la citata decisione si è affermato che “la salvaguardia dell’unità e della stabilità” dell’interpretazione giurisprudenziale (soprattutto di quella del giudice di legittimità e, in essa, di quella delle Sezioni unite) è ormai da considerare alla stregua di un criterio legale di interpretazione delle norme giuridiche. Non l’unico certo e neppure quello su ogni altro prevalente, ma di sicuro un criterio di assoluto rilievo.
Occorre dunque, per derogarvi, che vi siano fondate, rilevanti ed univoche ragioni (che, in relazione alla questione qui esaminata, non si rinvengono).
In particolare, quando si tratta di interpretazione delle norme processuali, è necessaria la ricorrenza di ragioni ancora più apprezzabili e di più ampia vastità, come insegna il “travaglio” che ha caratterizzato negli ultimi anni l’evoluzione giurisprudenziale di queste Sezioni unite civili con riguardo all’overruling in materia di interpretazione di norme processuali, posto che, soprattutto in tale ambito, la “conoscenza” delle regole (quindi, a monte, l’affidabilità, prevedibilità ed uniformità della relativa interpretazione) costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di “giustizia” del processo medesimo (in senso conforme v., più recentemente, Cass., SU, n. 29862/2022 e Cass., Sez. L, n. 33012/2022).
E’ necessario “garantire al sistema giuridico-normativo la possibilità di evolversi, adattarsi, correggersi e al tempo stesso conservare, entro ragionevoli limiti, l’uniformità e la prevedibilità dell’interpretazione, soprattutto con riguardo a quella avente ad oggetto norme strumentali (come quelle processuali o comunque procedimentali)”.
9. Il contrasto sulla prima questione – alla luce del complesso delle argomentazioni svolte – va, quindi, risolto affermando il seguente principio di diritto ai sensi dell’art. 363, comma 3, p.c.:
l’impugnazione incidentale tardiva è ammissibile anche quando rivesta le forme dell’impugnazione adesiva rivolta contro la parte destinataria dell’impugnazione principale, in ragione del fatto che l’interesse alla sua proposizione può sorgere dall’impugnazione principale.
10. In ordine alle altre due questioni sottoposte a queste Sezioni unite, non costituendo oggetto di contrasto all’interno della giurisprudenza della Corte, si ritiene di potere limitare l’analisi in questa sede a brevi considerazioni e a sintetici richiami della giurisprudenza consolidata sulla cui base possono trovare agevole soluzione.
10.1 La risposta alla seconda questione non può che essere consequenziale a quella data alla prima.
Con essa – come detto in premessa – l’ordinanza di rimessione chiede «se il principio fissato da Cass., Sez. U., 24627/2007, ove confermato, possa essere applicato anche con riferimento all’interesse insorto a seguito di un’impugnazione incidentale tardiva (introdotta, peraltro, con autonomo atto di citazione)».
Ritenendosi ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva proposta dal secondo coobbligato in solido, in conseguenza dell’impugnazione principale proposta dal primo coobbligato, non ci sono ragioni per escludere l’ammissibilità dell’impugnazione incidentale del terzo coobbligato, perché egli versa, nei confronti del secondo, nella stessa situazione in cui quest’ultimo si trova nei confronti del primo, quale che sia la ragione per cui si ritenga ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva del secondo.
Si intende dire che ove, ad esempio, la ragione dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva del secondo coobbligato venisse ravvisata (come avevano fatto le Sezioni Unite nel 2007) nella perdita del diritto di regresso del secondo coobbligato nei confronti del primo in caso di accoglimento dell’impugnazione principale proposta dal primo, il terzo coobbligato, a fronte dell’impugnazione incidentale tardiva del secondo, si troverebbe esposto non solo al rischio, conseguente alla proposizione dell’impugnazione principale, della perdita del diritto di regresso nei confronti del primo, ma, a seguito dell’impugnazione incidentale tardiva proposta dal secondo coobbligato, all’ulteriore rischio della perdita del diritto di regresso anche nei confronti del secondo.
Il prospettato quesito sulla seconda questione va, perciò, risolto affermando il seguente principio di diritto ai sensi del citato art. 363, comma 3, c.p.c.:
Il principio secondo cui l’impugnazione incidentale tardiva è ammissibile pure quando rivesta le forme dell’impugnazione adesiva rivolta contro la parte destinataria dell’impugnazione principale è applicabile anche con riferimento all’interesse insorto a seguito di un’impugnazione incidentale tardiva.
D’altra parte, la stessa lettera dell’art. 343 c.p.c. prevede la possibilità di un appello incidentale il cui interesse sorga dall’impugnazione proposta da altra parte che non sia l’appellante principale, disponendo che esso, anziché con comparsa depositata venti giorni prima dell’udienza, debba e possa proporsi nella prima udienza successiva alla proposizione dell’impugnazione stessa.
Inoltre, il medesimo art. 343 c.p.c. disciplina le forme e i termini per la proposizione dell’appello incidentale tanto tempestivo quanto tardivo.
10.2. Infine, rilevando che l’impugnazione proposta in risposta all’appello principale del Pozzobon (per quanto adesiva rispetto a questa, in base alla sintesi dei relativi contenuti risultanti dalla sentenza di appello) è stata ritenuta inammissibile, perché tardiva, attraverso una statuizione che non è stata impugnata, l’ordinanza interlocutoria rileva che si debba verificare se l’impugnazione incidentale fosse inammissibile in ragione della consumazione del diritto di impugnazione avvenuta con l’appello incidentale tardivo presentato a seguito dell’appello principale.
Ciò tenendo presente, nel particolare ambito per cui è causa, il principio fissato dalla richiamata Cass., Sez. 6-1, n. 12584 del 22/05/2018.
Sul punto si ricorda che, nel caso all’esame di queste Sezioni unite, secondo quanto indicato nell’ordinanza di rimessione, mentre il Perboni ha proposto impugnazione incidentale tardiva all’atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell’art. 166 c.p.c., il Carnevale Maffé ha a sua volta proposto impugnazione incidentale, adesiva a quella dell’appellante principale Pozzobon, con comparsa depositata alla prima udienza, e impugnazione incidentale, adesiva a quella dell’appellante incidentale Perboni, con atto di citazione notificato nella stessa data dell’udienza.
La Corte d’appello ha, contestualmente, dichiarato la tardività dell’impugnazione proposta con la comparsa depositata direttamente all’udienza, quindi senza il rispetto dei termini di cui all’art. 343, comma 1, c.p.c., e l’ammissibilità dell’impugnazione proposta dalla stessa parte e notificata alla società “Leonessa Investimenti s.r.l.” il giorno stesso di tale udienza, potendo valere quale impugnazione incidentale tardiva, ex art. 343, comma 2, c.p.c., sul rilievo – come in precedenza rammentato – che l’impugnazione incidentale del coobbligato Stefano Perboni «ha determinato l’insorgere in capo a Carlo Aberto Carnevale Maffè di nuovo ed autonomo interesse ad impugnare la sentenza nei confronti di Leonessa s.r.l., conseguendo ad essa la possibilità – in caso di accoglimento (anche) del gravame proposto da detto coobbligato – di vedere definitivamente perso il vincolo della solidarietà e di trovarsi perciò esposto, da solo e per l’intero, alla pesante condanna emessa dal tribunale (arg. ex Cass. S.U. 24627/2007)».
Il primo dato da tenere in considerazione è, quindi, la legittimità della contestuale dichiarazione di inammissibilità e di quella di ammissibilità delle due impugnazioni pure congiuntamente proposte dal Carnevale Maffè, alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte, secondo cui «il divieto di riproposizione di un secondo appello quando il primo sia inammissibile o improcedibile è correlata – a norma dell’art. 358 c.p.c. – non al momento in cui è stato proposto il primo appello inammissibile o improcedibile, bensì alla dichiarazione di tali inammissibilità o improcedibilità da parte del giudice dell’appello, con la conseguenza che la riproposizione non è impedita dalla pregressa verificazione di una fattispecie di inammissibilità o di improcedibilità del precedente appello che non sia stata ancora dichiarata dal giudice» (v., per tutte, Cass. Sezione 5, n. 4658 del 21/02/2020).
Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il principio della consumazione dell’impugnazione, che preclude la riproposizione di un secondo atto di appello, opera soltanto ove sia intervenuta una declaratoria d’inammissibilità o improcedibilità del primo, con la conseguenza che, nel caso in cui il primo atto di appello sia viziato, e fino a quando la declaratoria di inammissibilità non venga adottata, può essere notificato un secondo atto di appello, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo (cfr. Cass., Sezione Sesta- 5, n. 4754 del 28/02/2018 e Cass., Sezione Sesta-3, n. 14214 del 4/06/2018).
Peraltro, la fattispecie che viene in rilievo nella causa di cui trattasi non è in concreto riconducibile al divieto di riproposizione di un secondo appello quando il primo sia inammissibile o improcedibile, perché al momento della proposizione dell’appello del Carnevale Maffé, adesiva a quella incidentale del Perboni, con citazione notificata il 26 gennaio 2012, la sua impugnazione incidentale adesiva a quella dell’appellante principale Pozzobon non era stata ancora dichiarata inammissibile.
La terza questione posta con l’ordinanza di rimessione va, quindi, risolta con l’affermazione (sempre ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c.) del seguente principio di diritto nell’interesse della legge:
il principio di consumazione dell’impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo atto di impugnazione, immune dai vizi del precedente, destinato a sostituirlo e relativo anche a capi della sentenza diversi da quelli oggetto del precedente atto di impugnazione.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, dichiara l’estinzione del giudizio di cassazione ed enuncia, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., i principi nell’interesse della legge, così come riportati in parte motiva.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 17 luglio 2023, n. 20588, per SS.UU, 28 marzo 2024, n. 8486, in tema di impugnazioni
SS.UU, 28 marzo 2024, n. 8486, in tema di impugnazioni
In tema di interessi legali – SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
OPPOSIZIONE
ESECUZIONE
R.G.N. 16260/2023
Cron.
Rep.
Ud. 26/03/2024
PU
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
e
Fatti di causa
- Cordusio Società Fiduciaria per Azioni propose innanzi al Tribunale di Milano opposizione al precetto, notificato sulla base di sentenza emessa dal medesimo Tribunale, per il pagamento della somma di 116.819,15, oltre agli interessi maturandi sulla sorte capitale, denunciando l’erroneo calcolo degli interessi di mora dal momento in cui era stata proposta la domanda giudiziale, nonostante il titolo esecutivo giudiziale non recasse la condanna al pagamento degli stessi con la decorrenza indicata (né vi era stata domanda in tal senso) ed il credito riconosciuto dal titolo giudiziale escludesse l’applicazione dell’art. 1284, comma 4, cod. , trattandosi di credito risarcitorio ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. Aggiunse che il giudice dell’esecuzione non poteva integrare il titolo esecutivo giudiziale della previsione mancante circa gli interessi.
- Con ordinanza di data 25 luglio 2023, il Tribunale adito ha disposto rinvio pregiudiziale degli atti ai sensi dell’art. 363 bis proc. civ. per la risoluzione della seguente questione di diritto: «se in tema di esecuzione forzata – anche solo minacciata – fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore, limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di “interessi legali” o “di legge” ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si debbano ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284 primo comma c.c. o – a partire dalla data di proposizione della domanda – possano ritenersi liquidati quelli di cui al quarto comma del predetto articolo».
- Con decreto di data 18 settembre 2023, la Prima Presidente ha assegnato la questione alle Sezioni Unite per l’enunciazione del principio di diritto.
Il Pubblico Ministero ha depositato la requisitoria scritta, concludendo nei termini che gli interessi di cui all’art. 1284, comma 4, cod. civ. devono ritenersi computati dalla data di proposizione della domanda giudiziale fino al soddisfo. E’ stata depositata memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
- La questione di diritto, assegnata a queste Sezioni unite a seguito di rinvio pregiudiziale disposto dal giudice del merito ai sensi dell’art. 363 bis proc. civ., è se la mera previsione degli «interessi legali» nella pronuncia di condanna da parte del giudice della cognizione, possa essere interpretata, per la parte di interessi decorrenti dopo il momento della proposizione della domanda giudiziale, nei termini del saggio di interessi previsto dal comma quarto dell’art. 1284 cod. civ., oppure se, per l’assenza di specificazioni nella decisione, il saggio degli interessi debba restare limitato a quello previsto dal primo comma della medesima disposizione.
Preliminare è il tema dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale, tema trattato anche dal Pubblico Ministero, alla luce del fatto che trattasi di questione già affrontata dalla giurisprudenza di questa Corte. L’assegnazione della questione da parte della Prima Presidente per l’enunciazione del principio di diritto non preclude la valutazione di ammissibilità del rinvio pregiudiziale da parte del Collegio investito della decisione, secondo quanto emerge dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite (cfr. Cass. Sez. U. 13 dicembre 2023, n. 34851).
Secondo un indirizzo emerso in questa Corte, in presenza di esecuzione forzata fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi che ha comminato, limitandosi alla generica qualificazione degli stessi in termini di «interessi legali» o «di legge», si devono ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284, comma 1, in ragione della portata generale di questa disposizione, rispetto alla quale le altre ipotesi di interessi previste dalla legge hanno natura speciale, atteso che l’applicazione di una qualsiasi delle varie ipotesi di interessi legali, diversi da quelli previsti dalla disposizione citata, presuppone l’avvenuto accertamento degli elementi costitutivi della relativa fattispecie speciale, ed ove dal titolo non emerga un siffatto accertamento non è consentita l’integrazione in sede esecutiva, ma è esperibile soltanto il rimedio dell’impugnazione (Cass. 27 settembre 2017, n. 22457). Trattasi di opzione ermeneutica che risulta condivisa da una serie di pronunce delle sezioni semplici di questa Corte (Cass. 23 aprile 2020, n. 8128; 25 luglio 2022, n. 23125; 14 luglio 2023, n. 20273; 4 agosto 2023, n. 23846). La particolarità dell’indirizzo in esame è che esso è sorto in relazione al rapporto fra il primo comma dell’art. 1284 e la legge speciale (d. lgs. n. 231 del 2002), ma non con riferimento alla relazione fra il primo ed il quarto comma dell’art. 1284, salvo la pronuncia più recente (Cass. n. 23846 del 2023), la quale si è limitata puramente e semplicemente ad affermare che il tasso che trova applicazione è quello del primo comma.
Vi è tuttavia un altro indirizzo, soggiacente una serie di pronunce della Corte (essenzialmente della Sezione lavoro), non emerso al livello di principio di diritto, secondo cui la formula dei commi 4 e 5 dell’art. 1284 è chiara nel predeterminare la misura degli interessi legali, nel caso in cui il credito venga riconosciuto da una sentenza a seguito di un giudizio anche arbitrale, senza necessità di apposita precisazione del loro saggio in sentenza (Cass. 20 gennaio 2021, n. 943; 23 settembre 2020, n. 19906; 12 novembre 2019, n. 9212; 25 marzo 2019, n. 8289; 7 novembre 2018, n. 28409). In relazione ad impugnazioni che denunciavano l’omesso riconoscimento, da parte del giudice del merito, degli interessi legali di cui al quarto comma, si è risposto che il provvedimento doveva ritenersi integrato da quest’ultima previsione.
La formazione del primo indirizzo in un contesto normativo nel quale non veniva in rilievo il comma quarto dell’art. 1284, ma soltanto la legge speciale, da una parte, ed il contrasto latente fra i due orientamenti, dall’altra, inducono a far concludere nel senso dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale. L’art. 363 bis, comma 1, prevede quale condizione di ammissibilità del rinvio, fra l’altro, che la questione non sia stata ancora «risolta» dalla Corte di Cassazione. E’ significativa la differenza di formulazione fra la disposizione del codice processuale e la previsione della legge delega, che parlava di questione di diritto non «ancora affrontata dalla Corte di Cassazione». Ai fini dell’ammissibilità del rinvio è perciò ora necessario che la questione, pur affrontata dalla Corte, non sia stata dalla stessa ancora risolta.
La mancata risoluzione emerge, nel presente caso, sulla base del concorso dei due profili sopra evidenziati: la formazione di un indirizzo di legittimità sulla base di un contesto normativo non direttamente ed immediatamente riconducibile alla norma oggetto di interpretazione in sede di rinvio pregiudiziale – ossia la legge speciale, la cui applicabilità, si noti, non è condizionata dalla domanda giudiziale, come per il quarto comma dell’art. 1284, ma da un presupposto sostanziale – e la presenza di una latente divergenza di valutazioni fra sezioni della Corte. Dal punto di vista della funzione dell’istituto del rinvio pregiudiziale, che deve consentire al giudice di merito di concludere nel senso di una questione già risolta dalla Corte di Cassazione, il concorso dei due profili evidenziati esclude che ad una tale conclusione possa pervenirsi. Ricorre pertanto la condizione di ammissibilità di cui al n. 1 dell’art. 363 bis, unitamente alle ulteriori condizioni già valutate dal provvedimento presidenziale.
- Alla trattazione della questione di diritto deve essere premesso il richiamo dell’intera disposizione di cui all’art. 1284 (“Saggio degli interessi”):
«1. Il saggio degli interessi legali è determinato in misura pari al 5 per cento in ragione d’anno. Il Ministro del tesoro, con proprio decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana non oltre il 15 dicembre dell’anno precedente a quello cui il saggio si riferisce, può modificarne annualmente la misura, sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell’anno. Qualora entro il 15 dicembre non sia fissata una nuova misura del saggio, questo rimane invariato per l’anno successivo.
2. Allo stesso saggio si computano gli interessi convenzionali, se le parti non ne hanno determinato la
3. Gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto; altrimenti sono dovuti nella misura
4. Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni
5. La disposizione del quarto comma si applica anche all’atto con cui si promuove il procedimento arbitrale».
L’evidenza della questione di diritto risiede nel fatto che il giudice dell’esecuzione, al cospetto del titolo esecutivo giudiziale, non ha poteri di cognizione, ma deve limitarsi a dare attuazione al comando contenuto nel titolo esecutivo medesimo, mediante un’attività che ha, sul punto, natura rigorosamente esecutiva. Si tratta pertanto di attività di interpretazione (latu sensu, perché svolta in sede esecutiva), e non di integrazione, in quanto volta ad estrarre il contenuto precettivo già incluso nel titolo esecutivo ed in funzione non di risoluzione di controversia, e cioè cognitiva in senso stretto, ma di esecuzione del comando disposto dal titolo. Se dunque il richiamo agli “interessi legali” nel titolo esecutivo giudiziale possa avere – dopo la proposizione della domanda – la valenza del saggio previsto per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, è questione che attiene a ciò che deve intendersi già incluso nel titolo esecutivo, senza che il suo riconoscimento da parte del giudice dell’esecuzione possa avere una valenza integrativa derivante da cognizione. Si tratta di un potere, in definitiva, che non è di accertamento (cognizione) in senso proprio, ma di precisazione dell’oggetto del titolo esecutivo, allo scopo di dare attuazione al relativo comando. Come ricorda Cass. Sez. U. 6 aprile 2023, n. 9479, la distinzione fra il piano della cognizione e quello dell’esecuzione comporta che i poteri cognitivi riconosciuti dal codice di rito al giudice dell’esecuzione sono, comunque, funzionali all’espletamento dell’esecuzione stessa. La questione posta attiene, così, rigorosamente al profilo di identificazione del contenuto del titolo esecutivo giudiziale in funzione della sua esecuzione.
- La premessa da cui partire, per la risoluzione della questione di diritto, è che il quarto comma dell’art. 1284 non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi (cui la legge collega la relativa misura), ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono per una parte certamente rinvenibili in quelli cui la legge in generale collega l’effetto della spettanza degli interessi legali, ma per l’altra è integrata da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale. Entro tali limiti, viene a stabilirsi una soluzione di continuità fra la fattispecie costitutiva dell’effetto della spettanza degli interessi legali in generale e quella degli interessi legali contemplati dal quarto comma dell’art. 1284.
La relativa autonomia della fattispecie produttiva dei c.d. super-interessi (relativa perché contenente ulteriori elementi di specificazione), rispetto a quella produttiva degli ordinari effetti legali, fa sì che uno dei diversi profili oggetto di accertamento giurisdizionale, a seguito della introduzione della controversia con la deduzione in giudizio di un determinato rapporto giuridico, sia anche quello della ricorrenza dei presupposti applicativi dell’art. 1284, comma 4. Con la domanda giudiziale insorge una controversia ed è parte di questa controversia anche la spettanza, dopo la domanda giudiziale, del saggio degli interessi legali previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La controversia, sul punto, per il generale obbligo del giudice di provvedere sulla domanda, deve essere risolta con uno specifico accertamento giurisdizionale.
La necessità della risoluzione di questa specifica controversia, nell’ambito del complessivo rapporto dedotto in giudizio, è la conseguenza, come si è appena detto, della relativa autonomia della fattispecie costitutiva della spettanza dei c.d. super-interessi rispetto a quella produttiva degli ordinari interessi legali, il cui saggio è previsto dal primo comma dell’art. 1284. L’attenzione va così rivolta alla varietà dei presupposti applicativi degli interessi maggiorati che deve essere oggetto dell’attività di accertamento del giudice della cognizione, il quale emetterà il titolo esecutivo. Fra i presupposti applicativi che possono emergere, se ne possono qui enumerare i seguenti.
In primo luogo, la natura della fonte dell’obbligazione, la quale, in base all’art. 1173 cod. civ., può essere la più varia. Vengono in rilievo la generale distinzione fra obbligazioni contrattuali ed obbligazioni derivanti da responsabilità extracontrattuale e l’area dei crediti di lavoro (con la specifica disciplina di cui all’art. 429, comma 3, cod. civ.), ma anche, a titolo soltanto esemplificativo, una congerie di crediti, quali quelli in materia di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo di cui alla legge n. 89 del 2001, i crediti per gli alimenti (dovuti, in base all’art. 445 cod. civ., proprio dal giorno della domanda giudiziale) ed in generale i crediti derivanti da obblighi familiari, nonché, in questo quadro, i crediti non preesistenti al processo, tutti crediti, questi ultimi, per i quali può indubbiamente essere controversa la spettanza degli interessi in questione. Che l’obbligazione dedotta in giudizio, e destinata ad entrare nel titolo esecutivo giudiziale, sia suscettibile di produrre i super-interessi, in relazione a ciascuna delle tipologie di obbligazioni sommariamente indicate, deve essere oggetto di specifico accertamento da parte del giudice della cognizione, il che implica anche la compiuta qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio.
Vi è poi da accertare se vi sia una (valida ed efficace) determinazione contrattuale della misura degli interessi, prevista dall’art. 1284, comma 4, quale circostanza la cui esistenza impedisce la produzione degli interessi nella misura prevista dalla legge speciale richiamata. Ulteriore profilo meritevole di accertamento potrebbe essere quello dell’identificazione della domanda giudiziale, quale momento rilevante per la decorrenza degli interessi legali in discorso. Se non vi sono dubbi circa la rilevanza della data di notifica dell’atto di citazione o del deposito del ricorso introduttivo, può essere controverso se l’epoca della domanda giudiziale debba risalire ad una domanda cautelare, quale l’istanza di sequestro conservativo di cui all’art. 671 cod. proc. civ. o di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art. 696 bis cod. proc. civ.), ma si pensi anche alla domanda di accertamento tecnico preventivo obbligatorio di cui all’art. 445 bis cod. proc. civ.. Potrebbe, ancora, essere oggetto di controversia, ad esempio, se i super-interessi spettino durante lo svolgimento del procedimento di mediazione, ai sensi del d. lgs. n. 28 del 2010, introdotto dopo la domanda giudiziale per il mancato previo esperimento da parte del creditore.
Si tratta, in definitiva, di svolgere l’accertamento, propriamente giurisdizionale, di corrispondenza della fattispecie concreta a quella astratta di spettanza degli interessi maggiorati. Il giudizio sussuntivo, risolutivo sul punto della controversia, ricade nell’attività di cognizione, che fonda il titolo esecutivo giudiziale e che deve essere necessariamente svolta ai fini del provvedimento da emettere sulla domanda.
L’esigenza di cognizione dei presupposti applicativi della misura degli interessi previsti dal quarto comma dell’art. 1284 comporta che il titolo esecutivo giudiziale contenga l’accertamento di spettanza degli interessi legali nella misura indicata. Dal punto di vista del giudice dell’esecuzione, la mera previsione, nel dispositivo e/o nella motivazione del titolo esecutivo, degli “interessi legali” è inidonea ad integrare il detto accertamento, in ragione della evidenziata autonomia relativa della fattispecie produttiva degli interessi maggiorati rispetto alla ordinaria produzione degli interessi legali. Si tratta, come si è ormai più volte detto, di una fattispecie (relativamente) autonoma, che cade nella controversia da risolvere e rispetto alla quale l’accertamento, suscettibile di diventare cosa giudicata, deve essere specificatamente svolto.
Se il titolo esecutivo è silente, il creditore non può conseguire in sede di esecuzione forzata il pagamento degli interessi maggiorati, stante il divieto per il giudice dell’esecuzione di integrare il titolo, ma deve affidarsi al rimedio impugnatorio. Il titolo esecutivo giudiziale, nel dispositivo e/o nella motivazione, alla luce del principio di necessaria integrazione di dispositivo e motivazione ai fini dell’interpretazione della portata del titolo, deve così contenere la previsione della spettanza degli interessi maggiorati.
- Va in conclusione enunciato il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
- Va disposta la restituzione degli atti al Tribunale di Milano, anche per la regolamentazione delle spese per l’attività difensiva svolta nella presente sede.
P. Q. M.
La Corte, a Sezioni Unite, pronunciando sul rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363 bis cod. proc. civ, disposto dal Tribunale di Milano con ordinanza di data 25 luglio 2023, enuncia il seguente principio di diritto: “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
Spese al merito.
Dispone la restituzione degli atti al Tribunale di Milano.
Così deciso in Roma il giorno 26 marzo 2024
Il consigliere estensore
Dott. Enrico Scoditti
Il Presidente
Dott. Pasquale D’Ascola
Allegati:
Decreto, 18 settembre 2023, per SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449, in tema di interessi legali
SS.UU, 07 maggio 2024, n. 12449, in tema di interessi legali
In tema di fallimento – SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337
Civile Sent. Sez. U Num. 7337 Anno 2024
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO
Data pubblicazione: 19/03/2024
FALLIMENTO
preliminare di
vendita
immobiliare –
prima casa –
subentro del
curatore –
cancellazione
di gravami –
art. 108 l.f. –
R.G.N. 7704/2021
Cron. Rep.
Ud. 12/12/2023
PU
SENTENZA
sul ricorso 7704-2021 proposto da:
LEVITICUS SPV S.R.L., CF LIBERTY SERVICING S.P.A., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI 7, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO SILVETTI, rappresentate e difese dagli avvocati EDOARDO STAUNOVO POLACCO e GIORGIO TARZIA;
– ricorrenti –
contro
FALLIMENTO GLI ARTIGIANI SOC. COOP. EDILIZIA S.C. A R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 19, presso lo studio dell’avvocato LUCA IACOPINI, rappresentata e difesa dall’avvocato BARBARA ROVATI;
DE ANGELIS LUCA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.G. BELLI 27, presso lo studio dell’avvocato PAOLA PETRILLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA FOLCO;
– controricorrenti –
avverso il decreto del TRIBUNALE di MONZA emesso il 13/01/2021 (r.g. 136-2018).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/12/2023 dal Consigliere FRANCESCO TERRUSI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Edoardo Staunovo Polacco, Giorgio Tarzia, Paola Petrilli e Barbara Rovati.
Fatti di causa
La Leviticus SPV s.r.l. propose reclamo contro il decreto col quale il giudice delegato al fallimento de Gli Artigiani soc. coop. edilizia in liquidazione, dopo aver autorizzato il curatore a subentrare in un contratto preliminare di assegnazione in proprietà della porzione di un immobile a un socio, Luca De Angelis, aveva disposto la cancellazione dei gravami insistenti sul bene. Tra i detti gravami era compresa un’ipoteca iscritta in data 30-10-2006 a favore della Banca popolare di Milano, la quale prima del fallimento aveva promosso l’azione esecutiva a mezzo di pignoramento trascritto il 17-7-2018. La Leviticus si era resa cessionaria del credito garantito.
Nel proporre il reclamo la cessionaria evidenziò che il contratto preliminare era stato trascritto in data anteriore al fallimento e che il prezzo dovuto dal promissario acquirente era stato già interamente versato alla società cooperativa, sempre in epoca anteriore alla sentenza dichiarativa. Sostenne che alla fattispecie non fosse applicabile l’art. 108, secondo comma, legge fall., essendosi trattato di un mero subentro ex lege del curatore nel contratto preliminare (trascritto) di un immobile destinato a costituire abitazione principale dell’acquirente, e quindi non di una vendita forzata bensì di un atto consequenziale al preliminare, di natura totalmente privatistica.
L’adito tribunale di Monza ha respinto il reclamo, e per motivare la decisione ha osservato che secondo l’orientamento evinto da una sentenza di questa Corte (Cass. Sez. 1 n. 3310-17) la vendita ex art. 72, ultimo comma, legge fall., sebbene attuata con forme privatistiche, rimane una vendita fallimentare. E questo perché la vendita avviene comunque coattivamente, ossia a prescindere dalla volontà del titolare del diritto sul bene (l’impresa fallita), e all’interno di un procedimento di liquidazione concorsuale mediante un atto del curatore, soggetto rappresentante la massa dei creditori e lo stesso fallito.
Richiamando un conforme indirizzo di merito, il tribunale di Monza ha evidenziato che l’unica differenza rispetto agli altri atti di liquidazione fallimentare risiede, in tal caso, nel fatto che la scelta su come liquidare il bene è compiuta direttamente dal legislatore. Il quale ha inteso accordare al promissario acquirente della casa di abitazione una tutela privilegiata, facendo prevalere il suo diritto alla stipula del contratto definitivo sul diritto alla migliore soddisfazione economica delle ragioni del creditore ipotecario. Sicché invece l’accoglimento della diversa tesi della società reclamante avrebbe determinato un’abrogazione di fatto della tutela riconosciuta dall’art. 72 legge fall.
Il tribunale ha infine ritenuto non ostativo il diverso principio espresso da altra più recente decisione di questa Corte (Cass. Sez. 1 n. 23139-20), in quanto relativo alla fattispecie del concordato, e ha richiamato a ulteriore supporto della propria tesi la disciplina introdotta dall’art. 173, quarto comma, del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (breviter CCII), per la quale spetta al giudice delegato la potestà di cancellare, per l’appunto, le ipoteche gravanti sull’immobile venduto al promissario acquirente dal curatore subentrato nel contratto preliminare salva l’inopponibilità della metà degli acconti già versati.
La Leviticus SPV, tramite la mandataria CF Liberty Servicing s.p.a., ha proposto ricorso per cassazione contro il decreto del tribunale di Monza, deducendo un solo motivo.
Il Fallimento e il De Angelis hanno resistito con distinti controricorsi.
Le parti hanno depositato memorie.
La causa è stata chiamata in adunanza camerale dinanzi alla Prima sezione civile.
La Prima sezione, con ordinanza interlocutoria n. 16166 del 2023, dopo aver ritenuto il ricorso ammissibile perché proposto contro un provvedimento di natura decisoria in tema di cancellazione delle ipoteche, ai sensi dell’art. 108, secondo comma, legge fall. (v. già Cass. Sez. 1 n. 30454-19, Cass. Sez. 1 n. 3310-17), ha disposto la rimessione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Ha rilevato che si è dinanzi a una questione di massima di particolare importanza, molto dibattuta e oggetto di contrasto, integrata dall’interrogativo se l’art. 108, secondo comma, legge fall. sia o meno applicabile anche alla vendita attuata non all’esito di una procedura competitiva pubblicizzata e svoltasi sulla base di valori di stima, ma in forma contrattuale, in adempimento di un contratto preliminare in cui il curatore sia subentrato ex lege in applicazione del disposto dell’art. 72, ottavo comma, stessa legge.
La Prima Presidente ha disposto in conformità.
Ragioni della decisione
I. – Con l’unico motivo la ricorrente, denunziando la violazione o falsa applicazione degli 72 e 108 legge fall., anche in relazione agli artt. 2645-bis, 2808, 2878 e 2882 cod. civ., assume errata la decisione del tribunale sotto entrambi i profili: (a) della qualificazione come vendita concorsuale del contratto definitivo concluso dal curatore in esecuzione del preliminare trascritto ex art. 72, ultimo comma, legge fall., ai fini dell’art. 108 stessa legge; (b) della presunta esistenza di una ragione di prevalenza del fine di tutela dei diritti del promissario acquirente rispetto ai diritti del creditore ipotecario, da tutelare mediante l’esercizio del potere di purgazione.
Dal primo punto di vista la ricorrente sottolinea che l’art. 108 legge fall. si inserisce nell’alveo della liquidazione dell’attivo, mentre la trascrizione del preliminare, per i conseguenti effetti prenotativi, esclude che in esito al definitivo il bene che ne forma oggetto entri a far parte della massa attiva concorsuale.
Dal secondo punto di vista segnala che la tutela del promissario acquirente rispetto ai diritti del creditore ipotecario rimane, nell’ordinamento, affidata alla pubblicità immobiliare e alla possibilità di conoscere le iscrizioni pregiudizievoli gravanti sul bene che egli intenda acquistare, mentre l’interpretazione condivisa dal tribunale di Monza avrebbe come conseguenza la soppressione sostanziale del diritto di sequela riconosciuto dall’art. 2808 cod. civ. al creditore ipotecario, cosa inammissibile in difetto di un’espressa previsione normativa. Invero il creditore si troverebbe a concorrere solo sulla frazione di prezzo dell’immobile eventualmente suscettibile di esser pagato dal promissario acquirente al curatore (cosa che peraltro nella specie è esclusa dall’avere il promissario integralmente pagato il prezzo prima del fallimento), e subirebbe la cancellazione fuori dalla disciplina dell’estinzione delle ipoteche prevista dagli artt. 2878 e 2882 cod. civ., non essendo l’esecuzione del contratto pendente equiparabile a un esproprio.
Secondo la ricorrente, non sarebbe possibile trarre conferma della bontà del ragionamento del tribunale dalla disciplina offerta al riguardo dal CCII (art. 173, quarto comma), poiché codesta ha introdotto una regola completamente innovativa di bilanciamento tra la tutela del promissario acquirente e quella del creditore ipotecario, a condizioni del tutto diverse e come tali inestensibili alla legge fallimentare.
II. – La questione controversa attiene al fatto se possa o meno considerarsi come vendita concorsuale, ai fini dell’art. 108 legge fall. e delle conseguenze da esso stabilite, la modalità dell’alienazione che si realizza in esito al subentro ex lege del curatore fallimentare nel contratto preliminare di vendita di un immobile da adibire ad abitazione principale del promissario, trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis civ.; o, il che è lo stesso, del contratto preliminare di assegnazione del bene al socio di una cooperativa edilizia.
III. – L’art. 108, secondo comma, legge fall., quanto ai beni immobili (e agli altri beni iscritti in pubblici registri), prevede – all’esito del lgs. n. 5 del 2006 e poi del d.lgs. n. 169 del 2007 – che “una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, il giudice delegato ordina, con decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo”.
Nella visione del tribunale di Monza questa norma – sebbene inserita tra quelle relative (all’esercizio provvisorio e) alla liquidazione dell’attivo – andrebbe coniugata con la disciplina degli effetti del fallimento sui rapporti pendenti.
Per i rapporti pendenti l’art. 72 legge fall. stabilisce, al primo comma, la regola generale secondo cui “se un contratto è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento, l’esecuzione del contratto, fatte salve le diverse disposizioni della presente Sezione, rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto”. Come poi precisato dal terzo comma, la previsione si applica anche al contratto preliminare di vendita immobiliare, fatto salvo quanto previsto nell’art. 72-bis per i contratti relativi a immobili da costruire.
Per la vendita immobiliare soccorre inoltre – in generale – il settimo comma dell’art. 72, il quale prevede che, ove a fronte di un preliminare trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ. vi sia stato lo scioglimento da parte del curatore, “l’acquirente ha diritto di far valere il proprio credito nel passivo, senza che gli sia dovuto il risarcimento del danno e gode del privilegio di cui all’articolo 2775-bis del codice civile a condizione che gli effetti della trascrizione del contratto preliminare non siano cessati anteriormente alla data della dichiarazione di fallimento.”.
È bene rammentare a tal riguardo che questa Corte ha chiarito che l’afferente privilegio speciale sul bene immobile, che assiste ai sensi dell’art. 2775-bis cod. civ. i crediti del promissario acquirente conseguenti alla mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ., essendo subordinato a una particolare forma di pubblicità costitutiva (come previsto dall’ultima parte dell’art. 2745 cod. civ.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza del privilegio sull’ipoteca, sancita, se non diversamente disposto, dal secondo comma dell’art. 2748 cod. civ., e soggiace agli ordinari principi in tema di pubblicità degli atti. Sicché, nel caso in cui il curatore del fallimento della società costruttrice dell’immobile scelga lo scioglimento del contratto preliminare (ai sensi dell’art. 72 della legge fall.), il conseguente credito del promissario acquirente per la restituzione di caparre o acconti, benché assistito da privilegio speciale, è collocato in grado inferiore rispetto a quello dell’istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull’immobile stesso ipoteca a garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice (v. Cass. Sez. U n. 21045-09 e poi anche Cass. Sez. 1 n. 4195-12, Cass. Sez. 1 n. 17270-14, Cass. Sez. 1 n. 17141-16).
In sostanza è principio fondamentale che in ipotesi di scioglimento dal contratto resta prevalente il diritto derivante dall’iscrizione ipotecaria.
IV. – Sempre sul piano della disciplina normativa il dato diverge nel caso del preliminare avente a oggetto un immobile per uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero un immobile per uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente stesso.
In questa situazione l’ultimo comma dell’art. 72 ha introdotto una deroga rispetto alla potestà del curatore di sciogliersi dal vincolo: “le disposizioni di cui al primo comma non si applicano al contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’articolo 2645-bis del codice civile avente ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado ovvero un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente”.
È bene ribadire che la deroga non attiene (ovviamente) al meccanismo tipico del preliminare, ma solo alla dianzi citata (ordinaria) potestà di scioglimento dal contratto.
Come esattamente osservato dall’ordinanza interlocutoria, l’effetto che ne deriva è che il curatore, in presenza di un contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ., avente a oggetto un immobile con la destinazione suddetta, non ha possibilità di scegliere se subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendosi tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo. Egli succede necessariamente nel contratto, ex lege, e quindi è tenuto a darvi esecuzione.
V. – Da qui il problema se, considerata l’esistenza di un simile obbligo di legge, possa dirsi che l’alienazione effettuata in questi casi dal curatore fallimentare sia tale da rientrare essa stessa – ancora ex lege – nell’ambito dell’attività liquidatoria: di quell’attività, cioè, che il curatore è tenuto a compiere nel corso della procedura concorsuale.
La risposta affermativa si basa sul rilievo che la vendita fatta dal curatore è da considerare come tale anche se non effettuata secondo le regole della esecuzione concorsuale, o (come dice l’ordinanza interlocutoria) a mezzo di procedure competitive.
VI. – Il tema è stato fin qui variamente considerato nelle sedi di merito, in adesione ora all’una ora all’altra delle possibili soluzioni.
Su di esso si è registrato un contrasto anche nella giurisprudenza di questa Corte, contrasto che per vero non ha risparmiato neppure la dottrina a valle della considerazione in ordine alla ratio di favore che governa l’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Si allude al fatto che con l’art. 72, ultimo comma, la legge fallimentare ha inteso accordare una tutela rafforzata – in forma specifica – al diritto alla proprietà del bene destinato alla prima abitazione del promissario acquirente che abbia trascritto il preliminare prima del fallimento; sicché il diritto del promissario sarebbe per tale ragione assoggettabile a una regolazione indiretta in ambito concorsuale.
Un orientamento di tal genere è quello fatto proprio dal tribunale di Monza.
La premessa di tale orientamento è che sono da qualificare come vendite concorsuali quelle che, comunque attuate, possiedono natura coattiva perché avvengono invito domino in un ambito procedimentalizzato.
Anche queste vendite sarebbero soggette all’efficacia purgativa.
In particolare, la vendita immobiliare fatta in esecuzione di un preliminare stipulato dal fallito e previamente trascritto diventerebbe vendita concorsuale, ai fini dell’art. 108 legge fall., perché disposta dal curatore fallimentare con la autorizzazione del comitato dei creditori.
Nella prospettiva così – appunto – “procedimentalizzata”, essa stessa parteciperebbe dell’ambito dell’attività liquidatoria che il curatore è tenuto a compiere nel corso della procedura concorsuale, anche se concretizzata al di fuori delle regole di cui alla Sezione II (“Della vendita dei beni”) alle quali, come detto all’inizio, la norma si riferisce.
L’indirizzo interpretativo ha trovato avallo nella sentenza della Prima sezione di questa Corte citata sia dal tribunale di Monza che dall’ordinanza interlocutoria.
La sentenza ha affermato il principio secondo cui, in tema di vendita fallimentare, anche se attuata nelle forme contrattuali e non tramite esecuzione coattiva, trova applicazione l’art. 108, secondo comma, legge fall., con la conseguente cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione a opera del giudice delegato e ammissione del creditore ipotecario al concorso, con rango privilegiato, sull’intero prezzo pagato, ivi compreso l’acconto eventualmente versato al venditore ancora in bonis (Cass. Sez. 1 n. 3320-17).
L’indirizzo che si riallaccia a tale orientamento segnala che non si giustificherebbe altrimenti la rilevanza assunta dal bene protetto – e cioè la casa di abitazione – quale fondamento dell’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 72 cit.
VII. – A questa tesi si è contrapposta quella per cui, invece, il risultato al quale tende l’art. 108, secondo comma, legge fall. non è concepibile al di fuori di una procedura coattiva aperta al mercato e finalizzata al realizzo dell’intero (e anzi del migliore) prezzo di vendita del bene acquisito all’attivo.
Ciò sarebbe in certa misura presupposto dalla norma, per essere codesta riferibile al profilo di necessaria competizione nell’ambito di una procedura pubblica di dismissione dei beni. La quale procedura pubblica dovrebbe sempre muovere da un prezzo di stima e favorire la massima informazione e partecipazione di tutti i soggetti interessati, al fine di assicurare il conseguimento del maggior risultato possibile e con esso la miglior soddisfazione dei creditori.
In tale diversa prospettiva, alla quale si riferisce l’ordinanza interlocutoria, la base di riferimento delle vendite fallimentari sarebbe dunque solo quella delineata dalla norma sulla vendita propriamente procedimentalizzata, e solo in tal guisa si giustificherebbe l’effetto purgativo.
Espressione di simile differente criterio di giudizio è l’ordinanza della Prima sezione n. 23139-20 che, sebbene in tema di concordato preventivo con continuità aziendale, ha affermato che l’assegnazione dell’immobile al socio di una cooperativa, che avvenga in esecuzione di un piano gestionale teso all’ultimazione degli alloggi rimasti incompiuti, non può essere accompagnata dalla cancellazione ex art. 108 legge fall. delle iscrizioni pregiudizievoli, dal momento che i detti effetti purgativi si giustificano solo qualora la vendita si compia in esito a una procedura competitiva a evidenza pubblica secondo le regole di cui agli artt. 105 e ss. legge fall. richiamate dall’art. 182, quinto comma, legge fall., non anche quando essa sia il frutto della continuazione dell’attività di impresa.
VIII. – Occorre dire che vanamente il tribunale di Monza, da un lato, e parte della dottrina dall’altro, hanno tentato di sminuire la rilevanza di codesto precedente in esito alla citata ultima frase (“non anche quando essa sia il frutto della continuazione dell’attività di impresa”).
Si è detto che quel precedente è relativo alla liquidazione condotta in sede concordataria e in relazione alla prevista continuità aziendale (e v. peraltro anche Cass. Sez. 1 n. 30454-19); quindi vale solo per essa.
Può osservarsi che non è dubbio che il principio di diritto enunciato da Cass. Sez. 1 n. 23139-20 attenga alla situazione del concordato in continuità aziendale, il quale è istituto orientato alla prosecuzione dell’attività d’impresa a opera di chi, essendone titolare, non abbia subito lo spossessamento.
Ma è evidente che non da ciò può giustificarsi la convivenza del diversamente argomentato margine di valutazione reso da quel precedente a proposito della operatività della regola di cui all’art. 108, secondo comma, legge fall., attesa l’analogia di disciplina dettata per le modalità della cessione dei beni nel concordato dall’art. 182 legge fall. (nel rinvio agli artt. da 105 a 108-ter stessa legge).
Del resto, anche l’ordinanza interlocutoria n. 16166-23 mostra di non voler ribadire l’indirizzo assunto con la sentenza n. 3310 del 2017. Per cui è innegabile che il contrasto di giurisprudenza sussiste in modo netto presso questa Corte a proposito della coordinazione dei principi fondamentali in materia.
E in ogni caso la questione di massima è indubbiamente di particolare importanza.
IX. – Il contrasto va risolto affermando il principio per cui nel sistema della legge fallimentare l’art. 108, secondo comma, prevede il potere purgativo del giudice delegato in stretta ed esclusiva consonanza con l’espletamento della liquidazione concorsuale dell’attivo disciplinata nella Sezione II del Capo VI secondo le alternative indicate nell’art. 107, perché in essa il curatore esercita la funzione di legge secondo il parametro di legalità dettato nell’interesse esclusivo del ceto creditorio mediante gli appositi procedimenti destinati al fine; mentre è da escludere che la norma possa essere applicata – e il potere purgativo esercitato dal giudice delegato – nei diversi casi in cui il curatore agisca nell’ambito dell’art. 72, ultimo comma, legge fall. quale semplice sostituto del fallito, nell’adempimento di obblighi contrattuali da questo assunti con un preliminare di vendita.
X. – È necessario partire dalla considerazione che quanto previsto dall’art. 108, secondo comma, legge fall. trae diretto fondamento dalla funzione liquidatoria della vendita espropriativa, esattamente come accade per l’esecuzione individuale con l’art. 586 cod. proc. civ.
Ciò costituisce riflesso della natura giuridica della vendita fallimentare secondo un modello acquisito già prima della riforma.
Nel vigore del testo antecedente al d.lgs. n. 5 del 2006 la cosa era agevolmente desunta dall’art. 105 legge fall., il cui senso onnicomprensivo risaltava per l’espresso richiamo alle norme del codice di procedura civile, base dell’inquadramento delle vendite fallimentari nell’ambito delle vendite giudiziali o, come anche si dice, forzate.
In coerenza con tale inquadramento, era acquisito il principio secondo cui nella procedura fallimentare l’alienazione degli immobili non potesse avvenire che nelle forme della vendita forzata, con o senza incanto, culminante nel decreto di trasferimento, senza alcuna possibilità di una vendita a trattativa privata. E quindi che l’art. 108 legge fall. non consentisse mai la vendita di un bene immobile a trattativa privata, ma solo – si diceva comunemente – l’alienazione nelle forme della vendita forzata, con o senza incanto, che si concludono col decreto di trasferimento del bene. Era in vero considerato illegittimo il provvedimento del giudice delegato che autorizzasse una vendita non pienamente corrispondente a uno dei due tipi, con o senza incanto, espressamente previsti e disciplinati (ex multis Cass. Sez. 1 n. 5751- 93, Cass. Sez. 1 n. 3624-04, Cass. Sez. 1 n. 26954-16, Cass. Sez. 1 n. 11464-17).
XI. – È da puntualizzare che, prima della riforma attuata col lgs. n. 5 del 2006 e completata col d.lgs. n. 169 del 2007, la natura propriamente esecutiva delle vendite era un dato acquisito anche rispetto al concordato previdente la cessione dei beni, tanto da aver costituito elemento di comparazione per l’esegesi delle norme afferenti seppur declinate in relazione ai poteri del commissario.
In relazione alle vecchie norme le Sezioni Unite di questa Corte ne hanno precisato il senso rispondendo affermativamente al quesito se sia o meno possibile assoggettare a ricorso straordinario per cassazione il provvedimento con cui il tribunale abbia accolto o rigettato un reclamo proposto contro il decreto emesso dal giudice delegato in tema di vendita dei beni del debitore nella fase esecutiva del concordato preventivo con cessione.
Netta è stata l’affermazione che anche nel procedimento liquidatorio dei beni del debitore, per quanto avente in ambito concordatario un fondamento originario di natura negoziale, la vendita deve dirsi sottesa da una finalità satisfattoria dei creditori del tutto analoga a quelle della procedura esecutiva fallimentare, tanto da muoversi in un ambito di controlli pubblici del pari destinati a garantire il raggiungimento di tale finalità.
Anche la fase esecutiva del concordato per cessione dei beni – è stato precisato – deve considerarsi riconducibile “a una più vasta categoria di procedimenti di esecuzione forzata (in senso lato) al pari della procedura fallimentare”, tanto che pure la liquidazione concordataria, proprio come quella fallimentare, risulta disciplinata “da rigorose disposizioni sul cui rispetto gli organi della procedura sono chiamati a vigilare” (Cass. Sez. U n. 19506-08).
Questa correlazione è suscettibile di essere mantenuta anche dopo la riforma del diritto concorsuale del 2006-2007.
Già nella sentenza citata è stato invero rimarcato che nel contesto della riforma “nulla suggerisce che il legislatore abbia inteso modificare la natura e le caratteristiche essenziali della procedura di concordato – e tanto meno far perdere ad essa i suoi connotati originariamente negoziali in favore di un impianto pubblicistico prima non configurabile”. E al tempo stesso è stato convincentemente segnalato il carattere confermativo di una tale conclusione nelle pertinenti norme dovute al d.lgs. n. 169 del 2007, giacché pure in queste è stato oggettivato l’accostamento delle funzioni del liquidatore concordatario a quelle del curatore del fallimento.
In sostanza, e in relazione al tema che qui rileva, la riforma del diritto concorsuale del 2006-2007 si è mossa – sia per il concordato che per il fallimento – nel solco di un medesimo schema procedimentalizzato. Per riprendere le parole della citata sentenza delle Sezioni Unite, nel prescrivere che alla vendita dei beni oggetto della cessione ai creditori si debbano applicare (sia pure con la clausola della compatibilità) le disposizioni della stessa legge fall., art. 105 e seg., ivi compreso l’art. 107 in ordine alle modalità attuative, la nuova disciplina rafforza la convinzione “che la liquidazione concordataria sia, proprio come quella fallimentare, disciplinata da rigorose disposizioni sul cui rispetto gli organi della procedura sono chiamati a vigilare” (così testualmente Cass. Sez. U n. 19506-08). E tali rigorose disposizioni, senza modificare la natura e le caratteristiche essenziali della procedura di concordato, confermano la preesistente assimilabilità tra la fase esecutiva del concordato per cessione dei beni del debitore (pur con la sua origine negoziale e con le sue ovvie peculiarità) e “il procedimento di vendita coatta di detti beni” sotteso dalla vendita fallimentare propriamente intesa.
XII. – Una duplice conseguenza è possibile trarre dal sintetizzato percorso giurisprudenziale: se da un lato l’applicazione dell’art. 108 legge presuppone la cd. vendita fallimentare, dall’altro l’elemento centrale di una tale vendita è ravvisabile nella natura esecutiva (e procedimentale) della vendita coattiva (forzata); cosa data per acquisita dalla ripetuta sentenza n. 19506-08 delle Sezioni Unite al punto da farne un elemento di comparazione idoneo a coordinare (alla sua stessa stregua) le norme relative alla cessione dei beni nel concordato preventivo.
Un simile modello di ragionamento è stato contraddetto (soltanto) dalla ripetuta sentenza della Prima sezione n. 3310-17.
Codesta ha posto la base dell’estensione del concetto di vendita fallimentare oltre lo steccato delle modalità di cui all’art. 107, seppur richiamate (quelle modalità) anche per la vendita di aziende, di rami, di beni e di rapporti in blocco dall’art. 105, secondo comma, legge fall.
Tanto ha fatto riferendosi alla successiva e conseguente necessità di ammissione del creditore ipotecario al concorso, con rango privilegiato, “sull’intero prezzo pagato, ivi compreso l’acconto eventualmente versato” dal promissario acquirente.
Epperò senza che di tale e asseritamente consequenziale assunto sia individuabile un minimo riscontro sul piano normativo.
XIII. – Ora va detto che dopo la riforma del 2006-2007 l’art. 107 legge fall. disciplina le “Modalità delle vendite”, e lo fa mediante un ridimensionamento dei rinvii al processo esecutivo previsto dal codice di procedura civile.
Nel testo dell’art. 107 è oggi declinata una trama ripartibile in tre modalità di vendita, in nessuna delle quali rientra l’ipotesi (mera) della cessione per atto negoziale.
Le vendite e gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione possono essere effettuate alternativamente (i) dal curatore, ma tramite procedure competitive, (ii) dal giudice delegato, secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili, (iii) ancora secondo le disposizioni del codice di procedura civile ove il curatore decida di subentrare nelle procedure esecutive che siano pendenti alla data della dichiarazione di fallimento.
Per i fini del conseguente art. 108, la comune caratteristica delle vendite fallimentari non è stata messa in discussione nell’alveo della normativa riformata, nel senso che quanto ai provvedimenti purgativi il legislatore, anche dopo la riscrittura delle norme, ha mostrato di non voler dissociare i provvedimenti stessi dal tipo di vendita forzata presupposta, che è e resta una vendita procedimentalizzata.
E difatti nella Relazione ministeriale illustrativa si legge: “per ciò che riguarda le forme delle vendite ed i loro effetti, si è innovato molto e si è ritenuto di eliminare ogni rinvio alla disciplina del processo esecutivo individuale, fermo restando, comunque, il fondamentale effetto purgativo delle vendite forzate”.
In altre parole, la maggiore flessibilità dei parametri di riferimento non ha determinato effetti a proposito del presupposto di adozione del decreto del giudice delegato conseguente alla vendita e alla riscossione per intero del prezzo, tale essendo sempre la vendita esecutiva procedimentalizzata in funzione liquidatoria di cui alle alternative ipotesi disciplinate nell’art. 107, perché questa – e solo questa – è la “vendita forzata”.
XIV. – L’orientamento teso a ritenere l’estensione del potere del giudice delegato di ordinare la cancellazione delle ipoteche e degli altri vincoli al caso ulteriore (rispetto a quello sotteso al procedimento ex 107) della vendita effettuata dal curatore (subentrato ex lege) in adempimento del preliminare stipulato dal fallito muove da un profilo di similitudine.
Il profilo si assume rinvenibile in ciò: che l’atto di vendita (in adempimento del preliminare) sarebbe comunque posto in essere da un organo del fallimento, non proprietario del bene, né delegato a vendere dal proprietario. Donde si sarebbe in presenza di un soggetto (il curatore) che agisce mettendo in pratica un potere proprio, che gli deriva dal fallimento e che partecipa della natura del potere di liquidare il patrimonio, a prescindere dalla volontà del titolare del diritto di proprietà (il fallito).
Da questa constatazione trarrebbe forza la similitudine, perché – ancora si dice – quale che sia la forma con la quale l’alienazione si realizza, l’atto finale è pur sempre qualificabile come atto traslativo di un bene, e solo questo conta, poiché per riconoscere natura di vendita forzata alla vicenda traslativa di diritti rileva la natura del potere e non la forma del suo esercizio.
XV. – Questa conclusione così come il ragionamento che la sottende non possono essere condivisi.
La vendita effettuata dal curatore in adempimento del preliminare stipulato dal fallito non possiede natura coattiva, né funzione liquidatoria dell’attivo, neppure quando il preliminare abbia riguardato la casa di abitazione del promissario e sia stato trascritto prima del fallimento.
Nel caso disciplinato dall’art. 72, ultimo comma, legge fall. rileva il subentro del curatore nel contratto preliminare, al quale consegue (art. 72, primo comma) l’assunzione di “tutti i relativi obblighi”.
L’unica particolarità (rispetto alla disciplina del primo comma) è che il subentro, in questo caso, è obbligatorio per legge.
In tale evenienza il curatore è tenuto a eseguire la vendita; ed è tenuto anche a adempiere all’eventuale obbligazione accessoria di far conseguire il bene al promissario libero dalle ipoteche, obbligazione che sia stata assunta già dal promittente venditore.
Tutto questo, però, è l’effetto (ovvio) del subentro.
Non consente alcun accostamento con la vendita forzata perché nel caso dell’art. 72, ultimo comma, si rimane nell’ambito delle obbligazioni negoziali, anche a proposito della garanzia dell’evizione (art. 1483 cod. civ.).
Quella che legittima l’effetto purgativo discendente dall’art. 108 legge fall. è una cosa ben diversa.
Per codificare l’effetto purgativo e giungere al decreto del giudice delegato non basta l’obbligazione del curatore di stipulare una vendita come conseguenza del subentro (volontario o ex lege) in un anteriore obbligo assunto dal fallito in bonis, e neppure quella di garantire la liberazione del bene secondo la promessa fatta dal fallito medesimo.
Non basta perché l’art. 108 riguarda – in sé e per sé – la vendita esecutiva.
Codesta è la vera vendita forzata e non ogni vendita che avviene in ambito fallimentare può esser considerata tale.
L’incontestabilità di tale fatto è testimoniata dalla diversità di schema sotteso all’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Per ripetere il concetto: (i) nel caso dell’art. 72, ultimo comma, legge fall. viene in risalto il mero subentro ex lege del curatore nel preliminare stipulato dal fallito; (ii) l’atto col quale è poi eseguita la vendita resta avvinto dalla ordinaria funzione di adempimento delle obbligazioni discendenti dal preliminare; (iii) per tale ragione la vendita non costituisce un atto esecutivo di liquidazione dell’attivo fallimentare, a prescindere dal fatto che il prezzo sia stato – come emblematicamente si dice essere accaduto nella specie – versato interamente o meno, e che il curatore, in luogo del fallito, possa ottenere a sua volta il pagamento di un residuo.
Invero nemmeno quando prima del fallimento il promissario acquirente abbia versato semplici acconti può dirsi sussistere, nella vendita negoziale fatta in esecuzione del contratto preliminare, una finalità propriamente liquidatoria dell’attivo concorsuale, perché la finalità vera è sempre quella di adempiere l’obbligo a contrarre.
La funzione liquidatoria esclude di contro il vincolo negoziale, essendo l’organo fallimentare astretto all’osservanza delle (sole) modalità procedimentali dettate per il legittimo esercizio del potere di realizzazione coattiva.
XVI. – Non può allora forzarsi il concetto di “procedimentalizzazione” della vendita in nome della maggiore elasticità del sistema delineato dagli attuali 105 e seg. legge fall., così da farne un denominatore comune di una generica finalità liquidatoria.
La vendita procedimentalizzata è altra rispetto alla vendita negoziale semplicemente autorizzata dal comitato dei creditori.
La finalità liquidatoria non implica una procedimentalizzazione purchessia (del tipo di quella evincibile dall’eventuale necessità di previa autorizzazione del comitato dei creditori alla stipula di un contratto), ma la procedimentalizzazione dettata dall’art. 107 legge fall. in vista del miglior soddisfacimento delle ragioni creditorie.
Tale è la spiegazione del collegamento esistente tra l’art. 108 e l’art. 107 legge fall., anche considerando la natura necessariamente competitiva delle procedure tramite le quali deve avvenire la vendita ove non si ricorra alle alternative parimenti indicate nella norma.
Si rivela così inappropriato svilire il profilo formale della vendita forzata in nome di una presunta rilevanza dell’aspetto “sostanziale” del potere esercitato dall’organo del fallimento.
Ben vero nell’adempimento del preliminare, nel quale è subentrato, il curatore non esercita alcun potere.
A ogni modo, non si disconosce che l’art. 107 legge fall., nella riscrittura delle norme sulla vendita dei beni (art. 105 e seg.), abbia attuato il passaggio da una disciplina irrigidita dal rinvio alle norme del codice di procedura relative al processo esecutivo a una ispirata, invece, a maggiore elasticità.
Ma per quanto ciò sia vero, e per quanto la norma sia ispirata a un più elastico principio di libertà di forme, è evidente che tale libertà è perseguita alla condizione specificamente considerata, e cioè che “le vendite e gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione” siano svolti dal curatore “tramite procedure competitive”.
In altre parole, è la procedura competitiva il limite intrinseco del pur canonizzato (nel nuovo testo dell’art. 107 legge fall.) principio di libertà delle forme (e v. infatti Cass. Sez. 1 n. 22383-19, Cass. Sez. 1 n. 21007-22).
Sicché, fatte salve le concorrenti previsioni del medesimo art. 107, l’elasticità esiste – certo – ma rimane confinata all’interno del concetto di competitività.
Questa nozione (la procedura competitiva) non è astretta a uno schema predefinito, ma ai fattori ritenuti essenziali allo scopo: la stima, la pubblicità, la possibilità di gara, quali presupposti inderogabili di trasparenza e correttezza anche a salvaguardia della parità fra gli offerenti (v. Cass. Sez. 1 n. 26076-22).
Ai fini dell’effetto purgativo è perciò necessario che la vendita sia stata attivata nel senso indicato dall’art. 107, perché questo rende la vendita declinabile in senso procedimentale come atto di liquidazione dell’attivo, per effetto della messa in esecuzione di un programma di liquidazione all’esito delle conseguenti possibilità offerte dalla norma.
E poiché in situazioni del genere può discorrersi di vendita procedimentalizzata, l’art. 108 coerentemente prevede che, “una volta riscosso interamente il prezzo”, il giudice delegato ordini, con suo decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione e delle trascrizioni dei pignoramenti, dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo incidente sul bene.
XVII. – Se si tiene a mente tutto questo, è abbastanza chiaro che né la struttura giuridica del fenomeno, né la sua caratterizzazione funzionale, né l’attitudine a perseguire l’effetto pratico possono ragionevolmente confluire in un elemento di similitudine per l’ipotesi di semplice esecuzione di un contratto preliminare.
Un parallelismo del genere non è sostenibile nemmeno quando, per mero accidente, il prezzo di stipula indicato nel preliminare si riveli essere poi, in base alle peculiari condizioni di mercato, quello più vantaggioso.
La differenza resta radicale, perché il curatore, essendo la stipulazione del definitivo obbligatoria a seguito del subentro nella posizione del fallito previsto per legge, si trova a operare, ai fini del definitivo, come sostituto del fallito, non in rappresentanza della massa e a tutela delle ragioni di questa. Egli non può che vendere al prezzo indicato nel preliminare e non può recuperare in alcun modo gli acconti già versati, così che la massa resta esposta finanche all’eventualità di non ricevere proprio niente ove, come nella specie, prima del fallimento risulti che sia stato versato dal promissario l’intero prezzo.
XVIII. – Le superiori considerazioni dimostrano che, indipendentemente dal riconoscimento o meno della facoltà del curatore fallimentare di sciogliersi dal contratto, e indipendentemente dalla natura più o meno vantaggiosa della vendita, l’esecuzione del preliminare, da un lato, è sempre tecnicamente qualificabile come vendita negoziale (e non come vendita esecutiva concorsuale), e dall’altro non è in grado (ontologicamente) di garantire la realizzazione dell’effetto pratico che la vendita concorsuale persegue per il tramite della sua procedimentalizzazione.
L’atto al quale è tenuto il curatore, dopo il subentro ex lege nel preliminare, esaurisce la sua funzione nel contesto del preesistente rapporto obbligatorio, cosa che ne impedisce la ventilata comune prospettiva funzionale rispetto alla disciplina dei trasferimenti coattivi, quali che siano.
Ciò è d’altronde palpabile conseguenza del fatto che un trasferimento coattivo – come esattamente osservato in dottrina – non è mai fine a sé stesso.
Punta sempre a conseguire un fine pratico distinto, rispetto al quale semplicemente si pone come mezzo: il mezzo astrattamente più idoneo per giungere, coattivamente, ad avere ciò che è necessario alla realizzazione dei diritti patrimoniali dei creditori.
Mancando un tale requisito, cui è paradigmaticamente funzionale il procedimento che conduce alla vendita secondo l’art. 107 legge fall., non può invocarsi il successivo art. 108, e dunque non può discorrersi di potere purgativo del giudice delegato.
XIX. – Il tribunale di Monza, riprendendo argomentazioni più volte utilizzate dalla giurisprudenza di merito, ha richiamato, quale dato esegetico asseritamente rafforzativo della diversa tesi, la disciplina dell’art. 173, quarto comma, del CCII.
Questa norma, nei casi di subentro del curatore nel contratto preliminare di vendita, riconosce esplicitamente la possibilità del giudice delegato di ordinare con decreto la cancellazione delle iscrizioni pregiudizievoli.
La previsione dell’art. 173 del CCII non è applicabile al caso di specie, ratione temporis. Ma secondo il tribunale potrebbe essere impiegata quale corrispondente esegetico, a conferma della bontà dell’orientamento sostenuto in ordine al nesso tra l’art. 108 e l’art. 72, ultimo comma, legge fall.
A una simile possibilità di interpretazione evolutiva ha fatto ampio riferimento anche il procuratore generale nelle sue conclusioni.
Ed eguale associazione è stata ipotizzata dall’ordinanza interlocutoria, per il fine di verificare – s’è detto – “se ricorra un ambito di continuità tra il regime fallimentare e quello successivo e se la nuova norma sia quindi idonea a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare”, secondo le possibilità offerte dalla giurisprudenza formatasi dinanzi a queste Sezioni Unite in merito al limite e alle condizioni di rilevanza di una simile pratica (Cass. Sez. U n. 12476-20, Cass. Sez. U n. 2061-21, Cass. Sez. n. 8504-21, Cass. Sez. U n. 42093-21, e infine anche Cass. Sez. U n. 8557-23).
XX. – In verità il richiamo all’art. 173 del CCII non è risolutivo nel senso indicato dal tribunale di Monza; a tutto concedere dimostra semmai il contrario.
In ogni caso tale richiamo non è un elemento di raffronto utile sul versante esegetico perché l’effetto che si pretende finisce con l’interferire sul terreno della vigenza della legge, connesso alla sua entrata in vigore e al correlato ambito di applicazione temporale.
XXI. – L’art. 173, sebbene nella relazione di accompagnamento ne sia illustrata la finalità in termini congiunti, di tutela dell’ “interesse del promissario acquirente ad acquistare un bene libero da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli” e di risoluzione dei “contrasti giurisprudenziali in ordine alla natura – coattiva o meno – della vendita effettuata dal curatore in adempimento del contratto preliminare”, non ha revisionato la disciplina anteriormente rinvenibile nell’art. 72 legge fall. mediante una previsione di estensione mera del potere purgativo del giudice delegato.
L’art. 173 ha introdotto un precetto nuovo all’interno della disciplina degli interessi in gioco.
Il curatore può sempre sciogliersi dal contratto preliminare di vendita immobiliare anche quando il promissario acquirente abbia proposto e trascritto prima dell’apertura della liquidazione giudiziale una domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’articolo 2932 cod. civ., fermo che “lo scioglimento non è opponibile al promissario acquirente se la domanda viene successivamente accolta”.
Dopodiché, quanto alla situazione del contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cod. civ. avente a oggetto un immobile a uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale del promissario acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero un immobile a uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa del promissario acquirente, il contratto non si scioglie – dice l’art. 173 – “sempre che gli effetti della trascrizione non siano cessati anteriormente alla data dell’apertura della liquidazione giudiziale e il promissario acquirente ne chieda l’esecuzione nel termine e secondo le modalità stabilite per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi sui beni compresi nella procedura”.
In concorrenza di codeste ulteriori condizioni – la seconda del tutto innovativa – il preliminare di vendita relativo a immobili di tal genere è postulato come oggetto di un subentro ex lege.
In tal prospettiva l’art. 173, quarto comma, ha introdotto la terza, e ancor più innovativa, regola, involgente la falcidia degli acconti versati: “nei casi di subentro del curatore nel contratto preliminare di vendita, l’immobile è trasferito e consegnato al promissario acquirente nello stato in cui si trova” e “gli acconti corrisposti prima dell’apertura della liquidazione giudiziale sono opponibili alla massa in misura pari alla metà dell’importo che il promissario acquirente dimostra di aver versato”.
Come conseguenza della falcidia “il giudice delegato, una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, ordina con decreto la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo”.
XXII. – L’esito fondamentale è questo.
Da un lato, la disciplina non si pone in linea di continuità con quella della legge fallimentare, secondo l’ottica alla quale invece le citate decisioni delle Sezioni Unite hanno inteso doversi riferire il legittimo utilizzo del CCII quale dato comparativo funzionale a dirimere dubbi esistenti a proposito delle vecchie norme. Non si pone in linea di continuità perché l’art. 173 innova completamente il testo che caratterizza l’antecedente art. 72 legge fall. nel momento stesso in cui enfatizza una condizione che in quello non era data: e cioè che, non essendo gli effetti della trascrizione cessati prima dell’apertura della procedura, il promissario acquirente richieda l’esecuzione del preliminare nel termine e con le modalità per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi su beni compresi nella procedura stessa.
Dall’altro, non è vero che la previsione finale di cui al quarto comma dell’art. 173 sia confermativa della bontà dell’indirizzo giurisprudenziale sostenuto dal tribunale di Monza quanto all’art. 72 legge fall. (e all’art. 108 stessa legge).
Non è così perché l’art. 173, quarto comma, non ha previsto il potere purgativo quale semplice effetto del subentro del curatore nel contratto preliminare e della conseguente vendita.
L’art. 173 ha invece ritenuto di coniugare l’ambito delle tutele facendo perno proprio sulla necessità di garantire (per quanto parzialmente) i diritti di prelazione, tanto è vero che ha previsto il potere purgativo a valle della opponibilità alla massa degli acconti, nella misura pari alla metà dell’importo che il promissario acquirente possa dimostrare di aver versato prima dell’apertura della liquidazione giudiziale.
Nel CCII non viene in considerazione il fatto (mero) della vendita obbligatoria, e non trova diritto di cittadinanza neppure l’assunto che ogni vendita fatta in ambito concorsuale sia una vendita forzata.
Vengono in considerazione invece l’onere del promissario di conformarsi a un ben preciso schema procedimentale (la domanda di adempimento da fare con le modalità e nel termine stabilito per ordinarie le domande di accertamento dei diritti dei terzi) e il legame con la falcidia degli acconti già versati; la quale è l’unica che, sebbene limitatamente, consente di attuare un (parziale) soddisfacimento del creditore ipotecario, e che quindi permette (ancorché in questa misura) di prospettare l’effetto purgativo come sintonico alle caratteristiche effettuali di una vendita forzata.
È quindi vero che l’intervento sopra menzionato ha avuto (anche) il fine di risolvere in qualche modo il problema che interessa; ma è altrettanto vero che la soluzione è stata incentrata sulla codificazione della potestà di purgare le ipoteche (e di cancellare le iscrizioni, le trascrizioni o gli altri vincoli) come effetto di una accurata regolamentazione del tutto nuova.
XXIII. – Ora qui deve essere fatta una puntualizzazione a chiarimento.
Che il legislatore del CCII abbia inteso declinare in modo diverso il rischio dell’insolvenza quanto alla fattispecie del preliminare di vendita relativo alla casa di abitazione (o a quelle equiparate), per modo da estenderlo (parzialmente) anche al creditore ipotecario, è un fatto (per certi versi problematico, se lo si pone a paragone con la disciplina dell’esecuzione individuale) che in sé non aggiunge niente al caso di specie, e che soprattutto non può essere considerato per i fini di un’interpretazione evolutiva delle diverse previsioni della legge fallimentare del tutto silenti al riguardo.
Sono messi in gioco i limiti dell’interpretazione, ai quali il giudice è inevitabilmente astretto.
L’attività di interpretazione delle norme non può superare i limiti che si impongono nel contesto del suo svolgimento, perché sono codesti limiti a dare il senso della distinzione dei piani.
Il legislatore, fatto salvo il rispetto dei canoni costituzionali di ragionevolezza, è libero di modulare le tutele introducendo precetti nuovi; viceversa, il giudice non può che applicare al caso concreto “la legge intesa secondo le comuni regole dell’ermeneutica” (cfr. C. cost. n. 155 del 1990), per modo da disvelarne sì il corretto significato, ma purché codesto possa considerarsi insito in essa.
Questa cosa influisce sulla funzione dichiarativa della giurisprudenza – anche di legittimità – da contenere all’interno del confine proprio (v. già Cass. Sez. U n. 21095-04, Cass. Sez. U n. 4135- 19, Cass. Sez. U n. 2061-21).
L’attività di interpretazione, per quanto la si voglia dilatare in funzione “evolutiva” (e in molti casi è opportuno dilatarla in tale chiave onde superare altrimenti inaccettabili lacune dell’ordinamento), non può mai spingersi fino a superare il limite di tolleranza e di elasticità di un enunciato, ossia – come efficacemente è stato detto – del significante testuale della disposizione che il legislatore ha posto, giacché da quel significante, previamente individuato, non può che muovere la dinamica di inveramento della norma nella concretezza del suo operare.
Ecco perché insistere sulla diversa scelta operata dal CCII non è produttivo nel caso di specie.
XXIV. – Naturalmente la Corte deve farsi carico del problema che il tribunale di Monza ha rappresentato quanto alla finalità di tutela sottesa alla disciplina dell’art. 72, ultimo comma, legge fall.
Si tratta di stabilire se il riferimento a una simile finalità consenta o imponga una soluzione diversa da quella fin qui indicata.
La risposta deve essere negativa.
La norma citata ha avuto (e ha) l’obiettivo di tutelare il promissario acquirente che abbia trascritto il preliminare di acquisto della casa di abitazione.
E tuttavia questa finalità rileva solo a fronte del rischio di sopravvenienza del fallimento.
Nella legge fallimentare il promissario acquirente resta tutelato dalla anteriorità della trascrizione del preliminare in vista dell’eventualità della dichiarazione di fallimento del promittente, non in rapporto alla posizione dei terzi titolari di anteriori diritti di prelazione.
La trascrizione del preliminare neutralizza quel rischio nel senso che, ai fini dell’adempimento degli obblighi discendenti dal preliminare, il fallimento è come se non ci fosse.
La tutela rispetto al creditore ipotecario è cosa diversa.
È diversa da quella presupposta dall’art. 72, e nella legge fallimentare non è considerata affatto. E non perché sussista una lacuna, ma molto semplicemente perché una simile ulteriore tutela si basa – come sempre accade nelle vendite immobiliari – sugli effetti della pubblicità costitutiva, che è materia del codice civile, non della legge fallimentare.
Ne deriva che l’anteriorità della trascrizione del preliminare secondo il regime dell’art. 2645-bis cod. civ. scongiura il rischio correlato all’eventualità del fallimento del promittente ma non può indurre a prospettare di per sé, in mancanza di una specifica previsione di legge, un’alterazione dei nessi di priorità delle iscrizioni ipotecarie già esistenti.
Quindi la ratio di tutela, sottesa all’art. 72, ultimo comma, legge fall., non è idonea a sostenere l’estensione del potere purgativo in caso di attuazione degli obblighi discendenti dal subentro del curatore nel contratto preliminare.
Né lo è il fatto che il promittente venditore, poi fallito, si sia assunto l’obbligo, col preliminare, di assicurare la liberazione del bene dalle ipoteche.
Tanto di dice avvenuto nella specie.
Ma neppure quest’obbligo, nel quale pur subentra ex lege lo stesso curatore per effetto della regola dettata dall’art. 72, ultimo comma, legge fall., sposta i termini del problema.
Esso non trasforma la vendita privatistica (e negoziale) in vendita attuata nell’alveo di un procedimento officioso finalizzato alla liquidazione dell’attivo fallimentare.
Suppone invece che ogni questione abbia a risolversi nell’ordinario operare dei rimedi privatistici, ivi compresa la garanzia per il caso di evizione (artt. 1482, ultimo comma, e 1483 cod. civ.).
XXV. – Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso della società Leviticus deve essere accolto e il decreto del tribunale di Monza cassato.
Segue il rinvio al medesimo tribunale il quale, in diversa composizione, si uniformerà al principio all’inizio esposto.
Il tribunale provvederà sulle spese del giudizio di merito.
Quelle del giudizio di legittimità possono essere interamente compensate, ravvisandosi gravi motivi della intrinseca complessità della questione di massima oggetto di contrasto.
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa al tribunale di Monza anche per le spese del giudizio di merito; compensa le spese del giudizio di cassazione.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili,
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 08 giugno 2023, n. 16166, per SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337, in tema di fallimento
SS.UU, 19 marzo 2024, n. 7337, in tema di fallimento
In tema di diritto internazionale privato – SS.UU, 28 febbraio 2024, n. 5303
Civile Ord. Sez. U Num. 5303 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: MERCOLINO GUIDO
Data pubblicazione: 28/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 32050/2018 R.G. proposto da
AZIMUT MARINE DENIZCILIK SAN. VE TIC A.S., in persona dei legali rappresentanti p.t. Nese Yildiz e Fatih Okur, rappresentata e difesa dall’Avv. Denise D’Annibale, con domicilio eletto in Roma, via G.G. Belli, n. 36, presso lo studio dell’Avv. Luca Pardini;
– ricorrente –
contro
SYSNAV S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t. Fabio Concezzi, rappresentata e difesa dall’Avv. Gianrocco Catalano, con domicilio eletto in Roma, via Lutezia, n. 11;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1972/18, depositata il 28 marzo 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16 gennaio 2024 dal Consigliere Guido Mercolino;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alessandro PEPE, che ha chiesto l’accoglimento del primo motivo di ricorso, con l’assorbimento degli altri motivi.
FATTI DI CAUSA
1. L’Azimut Marine Denizcilik San. Ve Tic A.s. convenne in giudizio la Sysnav S.r.l., proponendo opposizione al decreto ingiuntivo n. 15845/11, emesso il 10 agosto 2011, con cui il Tribunale di Roma le aveva intimato il pagamento della somma di Euro 230.358,00, oltre interessi, a titolo di corrispettivo per la fornitura di dispositivi digitali e pannelli operatore costituenti il sistema «AMX id Proteo», ai fini della realizzazione di un nuovo modello di imbarcazione.
A sostegno dell’opposizione, l’attrice riferì che il sistema, finalizzato alla gestione digitale dell’impianto elettrico dell’imbarcazione, aveva manifestato fin dall’origine problemi di funzionamento, che avevano reso necessario l’intervento dei tecnici della Sysnav, e per la cui soluzione quest’ultima aveva chiesto che la fornitura dei pannelli elettrici fosse affidata ad un subfornitore di sua fiducia. Essendo fallito ogni tentativo di porre rimedio ai predetti inconvenienti, essa attrice era stata costretta a richiamare tutte le imbarcazioni dotate del predetto sistema ed a sostituirlo con un sistema elettromeccanico tradizionale, offrendo in restituzione alla fornitrice i componenti smontati o giacenti in magazzino. Tanto premesso, l’attrice eccepì il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, spettando la controversia al Giudice turco, la violazione dell’art. 641 cod. proc. civ. e il grave inadempimento della Sysnav, chiedendo la risoluzione del contratto e la dichiarazione dell’obbligo della convenuta di risarcire i danni da essa subìti.
Si costituì la Sysnav, e resistette all’opposizione, chiedendo la condanna dell’attrice al pagamento della somma di Euro 154.690,00 per l’illegittima cancellazione di ordini relativi a prodotti già realizzati, ed al risarcimento dei danni.
1.1. Con sentenza del 30 luglio 2015, il Tribunale di Roma dichiarò la giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana ed accolse l’opposizione, ritenendo provata l’esistenza di malfunzionamenti nel sistema fornito, e revocando quindi il decreto ingiuntivo; escluse peraltro la gravità dell’inadempimento, e condannò l’Azimut al pagamento della somma di Euro 171.618,50, oltre interessi, a titolo di corrispettivo per la fornitura dei pannelli di controllo e del materiale elettrico, dichiarando invece inammissibili le domande di risarcimento reciprocamente proposte dalle parti.
2. L’impugnazione proposta dall’Azimut è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Roma con sentenza del 28 marzo 2018.
A fondamento della decisione, la Corte, per quanto ancora rileva in questa sede, ha confermato la spettanza della controversia alla giurisdizione italiana, ritenendo inoperanti sia l’art. 5, n. 1, lett. b), del Regolamento CE n. 44/2001 del 22 dicembre 2000 che il Regolamento CE n. 1215/2012 del 12 dicembre 2012, poiché l’opponente aveva la sua sede in Turchia, ed affermando l’applicabilità dell’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, resa esecutiva con legge 21 giugno 1971, n. 804; ha rilevato infatti che la sostituzione del Regolamento alla Convenzione, prevista dall’art. 68 di entrambi i Regolamenti, opera esclusivamente tra gli Stati membri dell’UE, aggiungendo che, ai fini dell’individuazione del luogo in cui doveva essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio, non poteva trovare applicazione l’art. 57 della Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 sulla vendita internazionale di merci, resa esecutiva con legge 11 dicembre 1985, n. 765, che disciplina il rapporto sostanziale, ma l’art. 1182 cod. civ., ai sensi del quale doveva tenersi conto del luogo in cui aveva sede la venditrice.
Nel merito, premesso che la sentenza di primo grado era rimasta incensurata sia nella parte in cui aveva ritenuto impossibile accertare l’esistenza e la causa dei vizi lamentati, sia nella parte in cui aveva escluso la riferibilità degli stessi al materiale elettrico fornito dalla Sysnav, la Corte ha osservato che l’Azimut non aveva dimostrato il malfunzionamento dell’intera fornitura e la necessità di rimuoverla senza poterla riutilizzare almeno parzialmente, ritenendo insufficienti, a tal fine, le deposizioni rese dai testi escussi, e aggiungendo che il sistema era progettato per funzionare, in caso di emergenza, anche in modo meccanico. Ha escluso pertanto la possibilità di pronunciare la risoluzione del contratto per inadempimento della venditrice, dovendo quest’ultimo essere valutato sotto il profilo meramente quantitativo del materiale fornito, la cui parziale riutilizzazione da parte dell’acquirente escludeva la configurabilità di un adempimento totale, non essendo stato dedotto che il materiale fosse affetto da vizi tali da renderlo inutilizzabile con qualsiasi tipo di comando.
La Corte ha confermato infine l’inammissibilità della domanda di risarcimento del danno proposta con l’atto di opposizione, per mancata precisazione del petitum, essendosi l’opponente riservata di agire dinanzi al Giudice turco, con la conseguente impossibilità di operare una valutazione quantitativa ai fini della compensazione con il credito fatto valere dalla Sysnav.
3. Avverso la predetta sentenza l’Azimut ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. La Sysnav ha resistito con controricorso, illustrato anche con memoria.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione dinanzi alla Seconda Sezione civile, che con ordinanza interlocutoria del 13 settembre 2023 ha rimesso gli atti alla Prima Presidente, la quale ne ha disposto l’assegnazione alle Sezioni Unite, alla luce della questione di giurisdizione sollevata con il primo motivo, in ordine alla quale la più recente giurisprudenza di legittimità ha fatto registrare un mutamento d’indirizzo, che ha dato luogo a reazioni critiche in dottrina.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità dell’impugnazione, sollevata dalla difesa della controricorrente in relazione alla mancanza dell’attestazione di conformità all’originale della procura alle liti ed alla mancata indicazione, in quest’ultima, degli estremi della sentenza impugnata, nonché al difetto di rappresentanza dei soggetti che l’hanno rilasciata.
1.1. La procura speciale, conferita su supporto cartaceo, risulta infatti redatta su un foglio separato ma congiunto materialmente al ricorso, anche esso predisposto in formato analogico, ed è stata notificata unitamente allo stesso a mezzo PEC, nonché depositata in Cancelleria, con l’attestazione di conformità, la quale si riferisce sia al ricorso che alla procura e alle ricevute comprovanti la spedizione e la consegna del messaggio di posta elettronica. La circostanza che l’attestazione di conformità non sia stata inserita nella relata di notifica, come prescritto dall’art. 3-bis, comma quinto, lett. g), della legge 21 gennaio 1994, n. 53, non comporta la nullità della notificazione, e quindi l’inammissibilità dell’impugnazione, configurandosi, nel contesto normativo vigente all’epoca della proposizione del ricorso, che prevedeva la costituzione in formato cartaceo, come una mera irregolarità non invalidante, nella specie sanata dalla successiva allegazione in sede di deposito (cfr. Cass., Sez. Un., 21/12/2020, n. 29175).
Ininfluente, ai fini della validità della procura, deve considerarsi anche la mancata indicazione della data e degli estremi della sentenza impugnata, trattandosi di un’omissione inidonea a generare incertezza in ordine al conferimento del potere rappresentativo per il giudizio di legittimità, avuto riguardo alla congiunzione materiale dell’atto al ricorso ed al preciso riferimento alla Corte di cassazione, in esso contenuto, nonché alla data di rilascio, successiva alla pronuncia della sentenza impugnata ed anteriore alla notificazione del ricorso, che ne assicurano la compatibilità con il requisito della specialità prescritto dall’art. 365 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. III, 17/01/2022, n. 1165; Cass., Sez. V, 21/12/2019, n. 34259; Cass., Sez. II, 27/05/2019, n. 14437).
Parimenti inidonea a determinare la nullità della procura o del ricorso deve considerarsi la mancata specificazione della partita IVA della società ricorrente e del codice fiscale dei soggetti che hanno conferito il mandato in nome della stessa, trattandosi di un’indicazione non prescritta dall’art. 366, n. 1 cod. proc. civ., la cui omissione non impedisce peraltro di risalire all’identità di tali soggetti, agevolmente individuabili sulla base dell’indicazione della sede della società e dei dati anagrafici delle persone che la rappresentano legalmente (cfrr. Cass., Sez. I, 24/02/2021, n. 5067; Cass., Sez. III, 19/014/2016, n. 767; Cass., Sez. V, 17/12/2015, n. 25399).
2. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 3 della legge 31 maggio 1995, n. 218, censurando la sentenza impugnata per aver affermato la spettanza della controversia alla giurisdizione italiana, senza tenere conto dell’avvenuta conclusione del contratto in Turchia, dove era stata eseguita anche la prestazione caratterizzante, costituita dalla fornitura del sistema digitale. Premesso di non avere sede in Italia e di non avervi neppure un rappresentante autorizzato a stare in giudizio, afferma che, ai sensi dell’art. 68 del Regolamento CE n. 44/2001, il rinvio alla Convenzione di Bruxelles contenuto nell’art. 3 cit. deve intendersi oggi riferito al medesimo Regolamento, avendo come unico scopo quello di estendere ai rapporti con gli Stati extracomunitari le regole di diritto internazionale privato vigenti nei rapporti tra gli Stati membri. Precisato che la soluzione non sarebbe stata diversa, anche nel caso in cui fosse stato applicato l’art. 5 della Convenzione di Bruxelles, afferma l’inconferenza del richiamo alla Convenzione di Vienna, in quanto non avente ad oggetto il riparto di giurisdizione tra gli Stati contraenti, ma l’unificazione della disciplina sostanziale della vendita internazionale.
3. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1453 e 1492 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di risoluzione del contratto, nonostante l’accertamento dei difetti del sistema fornito. Sostiene infatti che la Corte territoriale ha immotivatamente separato il sistema dalle componenti elettriche che lo costituivano, senza tenere conto dell’oggetto dell’incarico conferito alla Sysnav, consistente sia nella fornitura dei dispositivi digitali e dei pannelli operatore che nella progettazione di tutto l’impianto elettrico, né della gestione completa ed autonoma del sistema da parte della Sysnav, né della richiesta, dalla stessa avanzata successivamente, di affidare la fornitura dei quadri elettrici ad un subfornitore di sua fiducia. Aggiunge che la sentenza impugnata ha omesso di valutare le deposizioni rese dai testi, da cui risultava che il malfunzionamento del sistema dipendeva anche dai componenti elettrici che ne costituivano il corpo, i quali avevano dovuto essere in gran parte sostituiti, essendone rimasta sulle imbarcazioni soltanto una parte marginale. Precisa infine di aver censurato la sentenza di primo grado anche nella parte concernente la valutazione dell’importanza dell’inadempimento, nonché di aver dedotto che le contestazioni sollevate riguardavano anche il materiale elettrico.
4. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha posto a carico di essa appellante l’onere di fornire la prova dei vizi del sistema fornito, spettante invece alla venditrice, la quale avrebbe quindi dovuto dimostrare di aver consegnato una cosa conforme alle caratteristiche del tipo ordinariamente prodotto o la regolarità del processo di fabbricazione o di realizzazione.
5. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per aver dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno, configurabile in realtà come eccezione riconvenzionale, in quanto volta a paralizzare la domanda proposta dalla Sysnav, mediante la sollecitazione di un accertamento incidentale del diritto al risarcimento, ai fini di un’eventuale compensazione.
6. Il primo motivo, con cui la ricorrente insiste sul difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, è fondato.
Nell’escludere la spettanza della giurisdizione all’Autorità giudiziaria della Turchia, la Corte d’appello ha richiamato infatti l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai sensi dell’art. 3, comma secondo, della legge 31 maggio 1995, n. 218, per determinare l’ambito della giurisdizione italiana, nelle materie non escluse dal campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, occorre fare riferimento ai criteri stabiliti dalle Sezioni II, III e IV del Titolo II della medesima Convenzione, i quali trovano applicazione anche nei confronti del convenuto non domiciliato né residente in Italia e non appartenente ad uno Stato contraente, giacché il rinvio ai predetti criteri è destinato ad operare oltre la sfera dell’efficacia personale della stessa (cfr. Cass., Sez. Un., 2/12/2013, n. 26937; 12/04/2012, n. 5765; 11/02/2003, n. 2060). Com’è noto, nell’ambito di tale orientamento è stato precisato che il rinvio contenuto nell’art. 3, comma secondo, della legge n. 218 del 1995 si riferisce esclusivamente alla Convenzione di Bruxelles, e non può essere esteso al Regolamento CE n. 44/2001, non avendo quest’ultimo sostituito definitivamente (e quindi implicitamente abrogato) la Convenzione, la quale continua ad operare relativamente ai rapporti con soggetti non domiciliati in uno degli Stati dell’Unione ovvero domiciliati in uno degli Stati che, pur facendo parte dell’Unione, non hanno adottato il predetto regolamento (cfr. Cass., Sez. Un., 21/10/2009, n. 22239). Conformemente a tale precisazione, la sentenza impugnata ha escluso l’applicabilità sia del Regolamento CE n. 44/2001, vigente alla data di proposizione della domanda, sia del Regolamento UE n. 1215/2012, che lo ha sostituito, osservando che, ai sensi dell’art. 68 di entrambi i Regolamenti, il rinvio alla Convenzione di Bruxelles s’intende riferito ai Regolamenti stessi soltanto nei limiti in cui questi ultimi sostituiscono, tra gli Stati membri, le disposizioni della Convenzione, e richiamando il nono considerando del primo Regolamento, secondo cui «i convenuti non domiciliati in uno Stato membro sono generalmente soggetti alle norme nazionali in materia di competenza vigenti nel territorio dello Stato membro del giudice adìto e i convenuti domiciliati in uno Stato membro non vincolato dal presente regolamento devono continuare ad essere soggetti alla Convenzione di Bruxelles».
Tale orientamento ha costituito peraltro oggetto di rimeditazione da parte della giurisprudenza più recente, la quale, richiamando anche la giurisprudenza unionale (cfr. Corte di giustizia UE, sent. 3/09/2020, in causa C-186/ 19, Supreme Site Services GmbH; 29/07/2019, in causa C-451/18, Tibor), ha osservato che la Convenzione di Bruxelles, nazionalizzata dall’art. 3, comma secondo, della legge n. 218 del 1995, s’intende ormai trasfusa nel Regolamento n. 1215/2012, che ha sostituito il Regolamento n. 44/2001, con la conseguenza che le disposizioni di quella Convenzione restano operanti per i soli territori degli Stati membri che rientrano nell’ambito di applicazione territoriale della stessa e che sono esclusi dal Regolamento ai sensi dell’art. 355 del TFUE. Premesso che, così come l’art. 4 della Convenzione di Bruxelles, l’art. 6 del Regolamento UE n. 1215/2012 stabilisce che, se il convenuto non è domiciliato in uno Stato membro, la competenza delle autorità giurisdizionali di ciascuno Stato membro è disciplinata dalla legge di tale Stato, si è rilevato che la legge dello Stato italiano alla quale rinvia l’art. 6 cit. è oggi costituita, per l’appunto, dall’art. 3 della legge n. 218 del 1995, il quale al comma secondo richiama, per le materie già comprese nel campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles, i criteri stabiliti dalla medesima Convenzione e dalle sue successive modificazioni in vigore per l’Italia, i quali sono dichiarati applicabili «anche allorché il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente». Si è pertanto concluso che, alla stregua dello art. 3, comma secondo, della legge n. 218 del 1995, se il convenuto non è domiciliato in uno Stato membro, la giurisdizione italiana, quando si tratti di una delle materie già comprese nel campo di applicazione della Convenzione di Bruxelles, sussiste in base ai criteri stabiliti dal Regolamento n. 1215/2012, il quale ha sostituito il Regolamento n. 44/2001, che aveva a sua volta sostituito la Convenzione (cfr. Cass., Sez. Un., 8/01/2024, n. 613; 10/07/2023, n. 19571; 24/11/2021, n. 36371; 10/11/2021, nn. 33002 e 33003; 25/06/ 2021, n. 18299).
Le predette conclusioni, cui questa Corte è pervenuta sulla base della disciplina dettata dal Regolamento n. 1215/2012, meritano di essere ribadite in questa sede anche con riferimento a quella prevista dal precedente Regolamento n. 44/2001, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, in quanto vigente alla data dell’instaurazione del presente giudizio: l’art. 4 di tale Regolamento prevede infatti, allo stesso modo dell’art. 6 del Regolamento che lo ha sostituito, che «se il convenuto non è domiciliato nel territorio di uno Stato membro, la competenza è disciplinata, in ciascuno Stato membro, dalla legge di tale Stato», in tal modo estendendo indirettamente il campo di applicazione della disciplina eurounitaria anche ai soggetti non domiciliati negli Stati membri, attraverso il recepimento dei criteri dalla stessa dettati nell’ambito della normativa nazionale (cfr. Cass., Sez. Un., 20/02/2013, n. 4211).
6.1. Non possono quindi condividersi le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata, la quale, sulla base della disciplina dettata dall’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles, ha ritenuto che, trattandosi di controversia in materia contrattuale, la giurisdizione spettasse all’Autorità giudiziaria italiana, in qualità di forum destinatae solutionis, individuando l’obbligazione dedotta in giudizio in quella avente ad oggetto il pagamento del prezzo dei beni forniti dalla Sysnav e il luogo in cui la prestazione avrebbe dovuto essere eseguita nella sede di affari della venditrice, in virtù del richiamo alla disciplina uniforme dettata dall’art. 57 della Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 sulla vendita internazionale di merci.
Com’è noto, infatti, l’art. 5, n. 1 della Convenzione di Bruxelles viene comunemente interpretato nel senso che il forum destinatae solutionis deve essere individuato avendo riguardo al luogo in cui è stata o dev’essere eseguita la specifica obbligazione intorno alla quale le parti controvertono, da determinarsi in conformità della legge sostanziale applicabile al rapporto sulla base del diritto internazionale privato del giudice adìto (cfr. Cass., Sez. Un., 6/06/2002, n. 8224; 6/08/1998, n. 7714; 19/12/1994, n. 10910; v. anche Corte di Giustizia UE, 5/10/1999, in causa C-420/97, Leathertex; 29/06/ 1994, in causa C-288/92, Custom Made Commercial Ltd.; 6/10/1976, in causa C-14/76, De Bloos); ove poi, come nella specie, la controversia abbia ad oggetto una vendita internazionale di merci, si è ritenuto che debba farsi riferimento alla Convenzione di Vienna, la quale, dettando una disciplina sostanziale uniforme, si sostituisce alle legislazioni dei singoli Stati e prevale anche sulla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, resa esecutiva con legge 18 dicembre 1984, n. 975 (cfr. Cass., Sez. Un., 21/10/2009, n. 22239; 9/02/2009, n. 3059; 20/04/ 2004, n. 7503).
Nonostante la parziale identità della formulazione letterale, recante in entrambi i casi il riferimento al «luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita», l’art. 5, n. 1 del Regolamento n. 44/01 è stato invece interpretato nel senso che, ai fini dell’individuazione del forum destinatae solutionis, occorre avere riguardo non già all’obbligazione fatta valere dall’attore, ma a quella caratterizzante il contratto (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 14/07/2016, in causa C-196/15, Granarolo S.p.a.; 25/02/ 2010, in causa C-381/08, Car Trim): il Giudice unionale ha infatti osservato che con tale disposizione il legislatore comunitario ha inteso rompere esplicitamente con la precedente soluzione secondo cui il luogo di esecuzione doveva essere individuato per ciascuna delle obbligazioni controverse in base al diritto internazionale privato del giudice adìto, designando autonomamente come luogo di esecuzione il luogo in cui l’obbligazione che caratterizza il contratto deve essere adempiuta, ed introducendo quindi una competenza speciale fondata su un collegamento particolarmente stretto tra il contratto e il giudice chiamato a conoscerne, in modo tale da centralizzare presso quest’ultimo la competenza giurisdizionale per le controversie relative a tutte le obbligazioni derivanti dal contratto, in una logica di ottimizzazione del processo (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 19/12/2013, in causa C-9/12, Corman-Collins SA; 11/03/2010, in causa C-19/09, Wood Floor Solutions Andreas Domberger GmbH; 3/05/2007, in causa C-386/05, Color Drack GmbH). Questa Corte ha a sua volta rilevato che, ai sensi della lett. c) dell’art. 5, n. 1, il riferimento al luogo in cui è stata o deve essere eseguita l’obbligazione dedotta in giudizio, contenuto nella lett. a), riveste una portata meramente residuale, giacché, ove si tratti di compravendita di beni, la lett. b) conferisce rilievo, in via principale, al luogo in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto, il quale coincide, salvo diversa convenzione, con il luogo in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati, da individuarsi con riferimento al luogo di recapito finale della merce, al luogo cioè in cui la stessa entra nella disponibilità materiale, e non solo giuridica, dell’acquirente (cfr. Cass., Sez. Un., 22/11/2021, n. 35784; 19/03/2009, n. 6598; 20/06/ 2007, n. 14299; nel medesimo senso, in riferimento all’art. 7, n. 1, lett. b), primo trattino, del Regolamento n. 1215/2012, Cass., Sez. Un., 13/12/2018, n. 32362).
6.2. Sulla base di tali principi, e tenuto conto che in tema di riparto della giurisdizione questa Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto, procedendo non solo alla verifica della corretta individuazione ed interpretazione della disciplina applicabile, ma anche all’identificazione del giudice cui spetta la cognizione della controversia attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dalle ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata (cfr. Cass., Sez. Un., 5/11/2019, n. 28332; 8/06/2007, n. 13397; 10/07/2003, n. 10840), si rileva che nel caso di specie l’obbligazione caratterizzante il contratto stipulato tra le parti è costituita indubbiamente dalla fornitura del sistema digitale e dell’impianto elettrico prodotti dalla Sysnav, la cui consegna ha avuto pacificamente luogo in Turchia, presso la sede legale o comunque presso l’azienda della società ricorrente. La controversia esula pertanto dall’ambito della giurisdizione italiana, in applicazione del criterio di collegamento previsto dall’art. 5, n. 1, lett. a), del Regolamento CE n. 44/ 2001, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la circostanza, fatta valere dalla controricorrente, che la progettazione e la produzione dei sistema digitale fossero state originariamente commissionate dalla Azimut Benetti S.p.a., socia della Azimut Marine Denizcilik ed avente sede in Italia: come ha riconosciuto la stessa controricorrente, infatti, tra le parti è intervenuto successivamente un accordo, in virtù del quale il rapporto è proseguito esclusivamente con la ricorrente, che, in qualità di destinataria della fornitura ed obbligata al pagamento del corrispettivo, risulta pertanto l’unico soggetto legittimato a resistere alla domanda proposta dalla venditrice.
7. In accoglimento del primo motivo d’impugnazione, va pertanto dichiarato il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, restando assorbiti gli altri motivi, aventi ad oggetto questioni che attengono al merito della controversia.
La sentenza impugnata va conseguentemente cassata, senza rinvio.
La complessità della questione trattata, che ha costituito oggetto di un mutamento di giurisprudenza intervenuto in corso di causa, giustifica l’integrale compensazione delle spese relative ai tre gradi di giudizio.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata e dichiara il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana. Compensa integralmente le spese processuali.
Così deciso in Roma il 16/01/2024
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 13 settembre 2023, n. 26422, per SS.UU, 28 febbraio 2024, n. 5303, in tema di dir. internaz. privato
SS.UU, 28 febbraio 2024, n. 5303, in tema di diritto internazionale privato
In tema di concessioni demaniali – SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736
Civile Ord. Sez. U Num. 3736 Anno 2024
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: BERTUZZI MARIO
Data pubblicazione: 09/02/2024
O R D I N A N Z A
sul ricorso N. 16978/2017 proposto da:
Stabilimento Balneare D’Aquila s.r.l., in persona dell’amministratore unico sig. Giampaolo D’Aquila, rappresentata e difesa dall’Avvocato Silvio Pinna, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avvocato Giorgio Carta in Roma, viale Parioli n. 55.
Ricorrente
contro
Regione Autonoma della Sardegna, in persona del suo Presidente, rappresentata e difesa dagli Avvocati Andrea Secchi e Mattia Pani, elettivamente domiciliata presso l’Ufficio di rappresentanza della Regione medesima in Roma, via Lucullo n. 21.
Controricorrente
avverso la sentenza n. 435/2017 della Corte di appello di Cagliari, depositata il 26. 5. 2017.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21. 11. 2023 dal consigliere Mario Beruzzi.
Fatti di causa
Con sentenza n. 435 del 26. 5. 2017 la Corte di appello di Cagliari, accogliendo l’appello incidentale proposto dalla Regione Autonoma della Sardegna, dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in favore del giudice amministrativo, sulla domanda proposta, ai sensi dell’art. 702 bis cod. proc. civ., dallo Stabilimento Balneare D’Aquila s.r.l. nei confronti della Regione per la restituzione della somma di euro 479.998,00, corrisposta a titolo di sovracanone dal 2004 al 2012.
La società Stabilimento Balneare D’Aquila, titolare di una concessione su porzione di demanio marittimo, aveva motivato la domanda di ripetizione esponendo che il pagamento del sovracanone era stato previsto dalla Regione con determinazioni nn. 2081/D del 28. 12. 2001 e 2220/D del 29. 12. 2003, emanate ai sensi dell’art. 46 del d.P.R. n. 348 del 1979, e che tale obbligo era stato poi riprodotto nell’atto di concessione demaniale; tuttavia, su ricorso di altro concessionario, la società cooperativa Golfo degli Aranci, il Tar Sardegna, con sentenza 14. 12. 2012, n. 1122, aveva annullato ” a causa della carenza del necessario presupposto normativo o legittimazione della pretesa impositiva “ non solo il provvedimento del comune che imponeva il sovracanone ma anche i suindicati atti regionali presupposti, facendo così venire meno il titolo per ottenere la sua corresponsione.
La Regione Autonoma della Sardegna aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e l’infondatezza nel merito della domanda.
Con ordinanza del 20. 10. 2015 il Tribunale di Cagliari affermò la propria giurisdizione ma rigettò la domanda, negando ogni rilevanza alla sentenza del giudice amministrativo invocata dalla parte privata, per essere la debenza del sovracanone prevista dalla convenzione n. 1176 del 2004 stipulata dalla società attrice in sede di concessione del bene demaniale, non oggetto di impugnativa.
La Corte di appello di Cagliari, investita da appello in via principale dalla società attrice ed in via incidentale dalla Regione Autonoma della Sardegna, dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario affermando che, ai sensi dell’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., le controversie in materia di concessione di beni pubblici sottratte alla giurisdizione del giudice amministrativo e quindi sottoposte a quella del giudice ordinario sono solo quelle di contenuto meramente patrimoniale che attengono all’ammontare del canone, nelle quali non viene in rilievo l’esercizio dei poteri discrezionali spettanti alla pubblica amministrazione, mentre nel caso di specie la società concessionaria aveva contestato proprio il corretto esercizio del potere della Regione nella imposizione del sovracanone.
Per la cassazione di questa sentenza, con atto notificato a mezzo posta con invio il 28. 6. 2017, ha proposto ricorso la s.r.l. Stabilimento Balneare D’Aquila, affidandosi ad un unico motivo.
La Regione Autonoma della Sardegna ha notificato controricorso e depositato successiva memoria.
Con ordinanza interlocutoria n. 16368 del 2023, la prima Sezione di questa Corte ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per la sua trattazione da parte delle Sezioni unite.
Ragioni della decisione
1.Con l’unico motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 1), cod. proc. civ.
La ricorrente assume che la statuizione di diniego della giurisdizione del giudice ordinario adottata dalla Corte di appello è errata, non conformandosi al modello legale di ripartizione stabilito dalla disposizione di legge citata. Ciò in quanto la esponente non aveva “ affatto contestato dinanzi al Tribunale l’azione autoritativa della Regione Sardegna “, e neppure “ contestato la concessione demaniale nella parte in cui (art. 4) imponeva il pagamento del sovracanone regionale “, ma aveva “ inteso esclusivamente azionare il proprio diritto soggettivo alla ripetizione delle somme riscosse sine titulo nel corso degli anni dalla Regione Sardegna a titolo di sovracanone, a seguito e per l’effetto della declaratoria di illegittimità da parte del TAR Sardegna non sentenza n. 1122 del 14 dicembre 2012 del medesimo sovracanone e dell’efficacia erga omnes di tale sentenza “.
La causa petendi dell’azione proposta non aveva pertanto ad oggetto la contestazione dell’esercizio di poteri discrezionali dell’amministrazione concedente, bensì il diritto di ripetere quanto versato in ragione del venir meno, in forza dell’annullamento disposto dal giudice amministrativo, degli atti amministrativi che avevano imposto il sovracanone.
Si aggiunge che, come emerge chiaramente dalla lettura dell’art. 4 dell’atto di concessione demaniale, in esso non si era formato alcun accordo, neppure mediato, tra concedente e concessionario in ordine al pagamento del sovracanone, la cui imposizione era pertanto diretta conseguenza della autoritativa applicazione da parte della Regione della determinazione, ivi richiamata, n. 2220/D del 29. 12. 2003.
2. Il ricorso è fondato.
2.1. L’art. 133, comma 1 lett. b), cod. proc. amm., stabilisce che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “ le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche“.
Questa Corte ha chiarito che le controversie concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, riservate, in materia di concessioni amministrative, alla giurisdizione del giudice ordinario, sono solo quelle con un contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo, cioè, il potere d’intervento della Pubblica Amministrazione a tutela di interessi generali; quando, invece, la controversia coinvolge la verifica dell’azione autoritativa della P.A. sull’intera economia del rapporto concessorio, la medesima è attratta nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo.
Sulla base di questo criterio distintivo è stato più volte sottolineato che ricorre la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della legittimità del provvedimento di determinazione del canone di concessione, in relazione al quale è ravvisabile un potere discrezionale della amministrazione concedente (Cass. Sez. un. 16459 del 2020; Cass. Sez. un. n. 11687 del 2020; Cass. Sez. un. n. 13903 del 2011; Cass. Sez. un. n. 15644 del 2010 ).
2.2. Ai sensi dell’art. 5 cod. proc. civ. si desume che la giurisdizione si determina sulla base della domanda, avuto riguardo al c.d. petitum sostanziale ed alla causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio ed individuata dal giudice stesso con riguardo ai fatti allegati ( Cass. Sez. un. n. 21677 del 2013; Cass. Sez. un. n. 10375 del 2007; Cass. Sez. un. n. 17461 del 2006 ). In sede di applicazione dell’art. 133 cod. dir. amm. il riparto della giurisdizione deve pertanto prendere in considerazioni le ragioni che il concessionario pone a fondamento della propria pretesa riguardante il canone concessorio.
Nel caso di specie, la società concessionaria ha avanzato la sua domanda di restituzione dei sovracanoni versati deducendo che essi erano stati previsti nell’atto concessorio senza che si fosse formata sul punto alcuna convenzione o accordo tra le parti, in virtù della mera applicazione ed esecuzione delle determinazioni regionali sopra menzionate e che, essendo esse state annullate con efficacia erga omnes dal Tar Sardegna, era venuto meno il titolo in forza del quale l’Amministrazione concedente potesse trattenere le somme versate. La pretesa azionata in giudizio va pertanto qualificata come domanda di ripetizione di indebito per sopravvenuta mancanza del titolo, fondata sull’efficacia ultra partes dell’invocato giudicato amministrativo di annullamento.
L’esame dei fatti costitutivi dell’azione dedotti dalla società attrice porta a ritenere che la presente controversia sia annoverabile tra quelle a contenuto patrimoniale aventi a oggetto le indennità i canoni o gli altri corrispettivi, devolute al giudice ordinario.
Ed invero l’azione si fonda non già sulla contestazione della legittimità dei provvedimenti che hanno imposto la prestazione che si assume non dovuta, bensì sulla mera richiesta di accertare che gli stessi sono venuti meno in forza di un giudicato amministrativo. Ciò che viene eccepito non è quindi un non corretto esercizio dei poteri discrezionali spettanti alla amministrazione concedente, prodromo al sindacato tipico del giudice amministrativo, ma la loro inefficacia ai fini della regolamentazione del rapporto di concessione. La domanda ha quindi ad oggetto la tutela di un diritto soggettivo patrimoniale a fronte della dedotta inesistenza del potere del concedente di imporre la corresponsione di una prestazione pecuniaria aggiuntiva a titolo di canone, esercitabile come tale dinanzi al giudice ordinario ( Cass. Sez. un. n. 13193 del 2018; Cass. Sez. un. n. 2295 del 2014 ). Mentre, è da aggiungere, appartengono al merito della controversia e non sono pertanto scrutinabili in sede di decisione sulla giurisdizione, le questioni inerenti alla estensione dell’efficacia del dedotto giudicato amministrativo al rapporto in essere tra le parti ed alla ricostruzione della regolamentazione dello stesso alla luce delle clausole e condizioni presenti nell’atto di concessione.
3. Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche a liquidare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e dichiara la giurisdizione del giudice ordinario; rinvia la causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche a liquidare le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite il 21 novembre
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 09 giugno 2023, n. 16368, per SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736, in tema di concessioni demaniali
SS.UU, 09 febbraio 2024, n. 3736, in tema di concessioni demaniali