In tema di appello – SS.UU, 12 maggio 2017, n. 11799
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CANZIO Giovanni – Primo Presidente –
Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sezione –
Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente di Sezione –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sezione –
Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –
Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 2753/2011 proposto da:
R.A., in proprio e quale erede di T.R.L., B.M. in proprio e quale erede di B.L., B.P.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SALARIA 259, presso lo studio dell’avvocato — (Studio Bonelli erede Pappalardo), rappresentati e difesi dall’avvocato —, giuste procure in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
SOCIETA’ SEMPLICE D. & G.Z., in persona dei suoi soci omonimi, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BOCCA DI LEONE 78, presso lo studio dell’avvocato —, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati — e —, giusta delega a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 749/2010 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 15/07/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/12/2016 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;
udito l’Avvocato —;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Nel gennaio del 1995 T.R.L., R.A.M., B.L. ed B.P.E., questi ultimi due quali eredi di B.G., convenivano in giudizio dinnanzi al Tribunale di Parma la “D. e G.Z. società semplice”, chiedendo:
a) in via principale, l’accertamento della nullità della compravendita di una porzione di terreno facente parte di un podere denominato “(OMISSIS)”, conclusa il 16 marzo 1989 per atto notarile, fra la T.R., in proprio e quale rappresentante della figlia R.A.M., e B.G., quali venditrici, e la società convenuta, all’epoca Azienda Agricola G.Z. & C. s.a.s., oltre al risarcimento dei danni;
b) in via subordinata l’annullamento dello stesso contratto per dolo ovvero per errore;
c) in via ulteriormente subordinata, previa “revoca” della quietanza contenuta nell’atto di compravendita, la condanna della società al pagamento del prezzo pari a 69 milioni di lire, oltre interessi legali dalla data del rogito, ed il maggior danno.
1.1. La convenuta si costituiva e chiedeva il rigetto della domande, evidenziando, altresì, la contemporanea pendenza di un procedimento penale, nel quale Z.G., nella veste di loro procuratore, risultava imputato per il reato di truffa contrattuale, in relazione alla vendita delle altre parti residue del detto podere, nonchè sostenendo l’estinzione del processo, in quanto l’azione civile era stata esercitata dalle attrici in sede penale, al fine di ottenere la restituzione e il risarcimento del danno.
Nel corso del lungo svolgimento processuale di primo grado, nel quale veniva disattesa l’istanza di estinzione, interveniva la condanna dello Z. in sede penale.
2. Il Tribunale di Parma, con sentenza del febbraio 2002, accoglieva soltanto la domanda delle attrici avente ad oggetto la condanna della società al pagamento della somma di 69 milioni di Lire, mentre rigettava le altre domande.
3. Le parti attrici proponevano appello in via principale contro Z.D. e Z.G., in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili della società semplice Azienda Agricola D. e G.Z., lamentando l’erroneità del rigetto delle altre domande, mentre gli appellati, in sede di costituzione, proponevano appello incidentale chiedendo la riforma della sentenza appellata nella parte in cui aveva accolto la domanda di pagamento del corrispettivo della compravendita.
4. La Corte di Appello di Bologna, con sentenza del 5 luglio 2010, ha rigettato l’appello principale ed accolto quello incidentale, caducando la condanna degli appellati al pagamento della somma corrispondente al prezzo pattuito.
5. Avverso tale sentenza, Z.D. e Z.G. e R.A.M., in proprio e quale erede di T.R.L., B.M., quale unico erede di B.L., deceduto nel corso del giudizio, ed B.P.E., hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a dieci motivi, contro la società semplice Azienda Agricola D. e G.Z., in persona dei soci illimitatamente responsabili.
6. Al ricorso ha resistito con controricorso l’intimata.
7. La trattazione del ricorso veniva fissata per l’udienza del 4 febbraio 2016 davanti alla Seconda Sezione Civile della Corte e i ricorrenti depositavano memoria ex art. 378 c.p.c..
All’esito della camera di consiglio, la Seconda Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 4058 del 2016, rimetteva gli atti al Primo Presidente, per la risoluzione di un contrasto di giurisprudenza, la cui soluzione reputava rilevante per la decisione del quinto motivo di ricorso.
8. Il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e seguiva la fissazione dell’odierna udienza, in vista delle quali le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. In via preliminare, deve disattendersi l’eccezione dei resistenti, di inammissibilità del ricorso, in quanto sarebbe stato proposto contro Z.D. e Z.G. in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili dell’Azienda Agricola D. e G.Z., mentre in primo grado era stata convenuta la D. e G.Z. società semplice, in persona del suo legale rappresentante pro tempore.
L’assunto – ove si dovesse intendere nel senso che i due soci sarebbero stati evocati in giudizio in proprio, mentre non erano parti come tali ma come soci – è basato su un dato inesistente, giacchè il ricorso per cassazione è stato espressamente proposto contro la società semplice Azienda Agricola D. e G.Z., in persona dei soci illimitatamente responsabili, Z.D. e Z.G..
1.1. Peraltro, ancorchè l’intestazione della sentenza rechi l’indicazione come parte appellata di “Z.D. e Z.G., in proprio e nella loro qualità di soci illimitatamente responsabili della società semplice Azienda Agricola D. e G.Z.”, dall’esame della sentenza non emerge alcunchè che evidenzi che la legittimazione a stare in giudizio di dette persone fosse stata spesa anche in proprio ed il dispositivo della sentenza, in punto di regolamento delle spese giudiziali, reca la condanna a favore dell’appellata, cioè della società semplice.
2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, senza indicare nell’intestazione alcuna norma di diritto violata, la “violazione di legge sostanziale (art. 360, n. 3) in tema di giudicato esterno”.
2.1. La violazione del giudicato esterno riguarderebbe la sentenza, pronunciata dalla stessa Corte di Appello felsinea in sede penale in data 18 gennaio 2010 e divenuta successivamente irrevocabile, con la quale Z.G. venne definitivamente condannato per il reato di truffa in danno dei ricorrenti.
A fronte dell’eccezione di cosa giudicata, la sentenza impugnata ha ritenuto che il precedente di questa Corte, invocato da parte delle appellanti (cioè Cass. civ. 15 febbraio 2001 n. 2200), non potesse trovare applicazione nella fattispecie, in quanto la vendita del 16 marzo 1989, della quale si era chiesto l’accertamento della nullità ovvero l’annullamento, non rientrava tra gli atti traslativi, che erano stati sottoposti direttamente all’attenzione del giudice penale, onde verificare la sussistenza degli estremi del delitto contestato allo Z..
Secondo il giudice di appello, infatti, sebbene nella sentenza penale fosse presente un riferimento all’atto del 16 marzo 1989, esso era finalizzato esclusivamente a giustificare le incongruenze, dimenticanze ed errori del racconto delle parti lese, mentre non vi era stato un immediato accertamento circa l’incidenza causale della condotta delittuosa dell’imputato sulla volontà delle venditrici.
2.2. Il motivo è inammissibile e comunque privo di fondamento.
E’ inammissibile, perchè non censura espressamente la ratio decidendi, enunciata a pagina 10 dalla sentenza impugnata con l’espressione “a prescindere dalla difficoltà di ritenere opponibili gli eventuali fatti penalmente accertati nei confronti di un soggetto terzo rispetto a quel giudizio, qual è l’attuale appellata”.
Il motivo di ricorso non si fa carico di questa affermazione e, poichè essa vale di per sè a sorreggere la negazione dell’efficacia del preteso giudicato esterno, ne consegue che il suo consolidarsi per mancanza di impugnazione fa passare in cosa giudicata la relativa ratio decidendi e tanto preclude la possibilità di esaminare l’altra sottoposta a critica.
2.3. Peraltro, il motivo, nella stessa sua astratta prospettazione in iure, è infondato.
Il giudicato penale sarebbe riferibile alla società, in quanto formatosi nei confronti dello Z., che ne è socio e la rappresenta nel presente giudizio civile.
L’assunto è privo di fondamento.
La mancanza della personalità giuridica, nella società semplice, come, del resto, nelle società personali in genere, non esclude che la società abbia una sua soggettività, strumentale, volta a consentire alla pluralità di soci una unitarietà delle forme d’azione (in termini: Cass. n. 8399 del 2003 e Cass. n. 7886 del 2006).
Ora, se un socio della società semplice agisce nella qualità di amministratore della società e commette un reato a vantaggio della società e viene attinto da un processo penale, all’esito del quale viene affermata la sua responsabilità, la connotazione di essa come personale e, dunque, come responsabilità della persona fisica, non consente di riferire il giudicato penale alla società personale e, dunque, alla società semplice, per la ragione che la presenza nel giudizio penale come imputato del socio che pure ha agito in sua rappresentanza come amministratore è riferibile esclusivamente alla sua persona e non alla società.
La presenza nel giudizio penale della società suppone, invece, che essa vi venga chiamata come responsabile civile a norma dell’art. 83 c.p.p..
3. Il secondo motivo è così intestato: “Sulla nullità. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più fatti controversi e decisivi (art. 360 c.p.c., n. 5)”.
In esso nemmeno vengono identificati i termini dell’azione di nullità, che risulta difficile individuare nella stessa struttura complessiva del ricorso.
L’illustrazione del motivo, peraltro, non evidenzia alcuna critica in iure con riferimento alla categoria della nullità e deve, pertanto, apprezzarsi solo come critica svolta alla stregua del paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
3.1. Senonchè, si deve rilevare, in proposito, che lo stesso esordio dell’illustrazione del motivo rivela che i ricorrenti si sono posti del tutto al di fuori della logica che esigeva il paradigma dell’art. 360, n. 5.
Si dice, infatti, nell’exordium, che “allorchè si accosta alla vicenda, l’intera motivazione può presentarsi come logica solo letteralmente chiudendo gli occhi sui fatti accertati in sede penale (e, complessivamente, in altri 7 giudizi tutti persi dall’Ing. Z.). In realtà, la motivazione impugnata è gravemente illogica, è superficiale perchè basata su una mera presunzione (peraltro non grave, nè univoca e pure smentita per tabulas e tradisce una errata valutazione di questioni fondamentali ai fini della decisione della causa”.
Ebbene, già questo incipit esclude che, nella successiva illustrazione, le ricorrenti abbiano potuto argomentare il dedotto motivo di cui all’art. 360, n. 5, nel testo applicabile al presente giudizio di cassazione, che avrebbe richiesto l’indicazione sia dei “fatti controversi” oggetto del vizio denunciato (ex multis, Cass. n. 17761 del 2016, da ultimo), sia della motivazione articolata dalla sentenza impugnata riguardo ad essi, sia delle ragioni di decisività evocate nel paradigma del n. 5.
E la lettura dell’illustrazione lo conferma e non consente di attribuirgli la struttura di idoneo motivo a sensi dell’art. 360, n. 5, secondo il testo già richiamato.
Queste le ragioni:
a) nell’intera esposizione del motivo non viene mai evocato, innanzitutto, il concetto di fatto controverso, ma si svolgono critiche a quella che si definisce presunzione applicata dalla corte territoriale, indicandola nell’avere ritenuto, con motivazione che si dice “inconsistente”, che le ricorrenti non potevano non sapere che la famosa vendita non riguardava un cespite diverso da quello già oggetto di una precedente vendita;
b) il motivo, dunque, appare rivolto a criticare l’approdo di un ragionamento presuntivo svolto dalla corte territoriale, ma la critica non viene svolta con argomenti in iure circa l’erronea applicazione dei caratteri individuatori della presunzione semplice alla stregua dell’art. 2729 c.c., comma 1, (che è possibile denunciare come vizio di violazione di tale norma di diritto: Cass. n. 17457 del 2007);
c) il motivo fa riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, ma si limita ad individuarla in modo atomistico, sicchè il lettore, essendo investito della lettura di parti non raccordate, non si trova di fronte ad una individuazione effettiva della motivazione della corte territoriale, ma di affermazioni che, in quanto estrapolate, non possono essere considerate rivelatrici del convincimento della corte di merito;
d) la critica svolta al ragionamento presuntivo che avrebbe svolto la corte territoriale, pur collocata nell’art. 360 c.p.c., n. 5, prospetta, peraltro, esclusivamente una ricostruzione della posizione dei ricorrenti nella conclusione della vendita del marzo 1989 in termini di mera possibilità alternativa a quella (che sarebbe stata) ritenuta dalla corte territoriale;
e) in tal modo, ci si pone al di fuori del paradigma del n. 5, applicabile al ricorso, con riferimento alla critica del ragionamento presuntivo, svolta non in iure, ma con riferimento ad una errata ricostruzione della quaestio facti, funzionale all’applicazione della regola presuntiva: una simile critica esigeva, infatti, il rispetto del principio di diritto secondo cui “In tema di ricorso per cassazione, il riferimento contenuto nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, applicabile ratione temporis) – al “fatto controverso e decisivo per il giudizio” implicava che la motivazione della quaestio facti fosse affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che fosse tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione” (Cass. n. 17037 del 2015).
4. Il terzo motivo è intestato in questi termini: “Sulla valutazione delle prove riguardo la nullità e l’annullamento. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più fatti controversi e decisivi (art. 360 c.p.c., n. 5) e violazione delle regole in tema di presunzioni (art. 360 c.p.c., n. 3)”.
Anche questo motivo, pur dichiarando di voler assumere come oggetto di critica la valutazione delle prove riguardo all’azione di nullità ed a quella di annullamento, si astiene dall’individuarne i termini e per entrambe costringerebbe il lettore a ricercarli inammissibilmente aliunde.
Fermo quanto già detto a proposito del precedente motivo per la prima, per la seconda si apprende alla pagina 34 dell’esposizione del fatto che l’azione di annullamento era stata esercitata in via subordinata a quella di nullità in primo luogo ai sensi dell’art. 1439 c.c., comma 2, cioè per c.d. dolo del terzo e, a pagina 35, in via ulteriormente subordinata per errore ai sensi dell’art. 1428 c.c. e ss..
Con riferimento al primo profilo, peraltro, la spiegazione ed individuazione dell’atteggiarsi dello Z. in posizione di terzo resta oscura, dato che non solo si richiama un orientamento giurisprudenziale secondo cui “il contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti ai danni dell’altro è annullabile per dolo”, così contraddicendo la posizione di terzo dello Z., ma, di seguito, si dice, con contraddizione ancora maggiore, che “Z. era un contraente, in quanto – sebbene avesse simulato il contrario – era intervenuto nel negozio non solo in qualità di procuratore delle venditrici, ma anche quale socio-amministratore-legale rappresentante della società acquirente”.
Affermazioni queste che rendono, inoltre, assolutamente contraddittorio che, quando si riferisce dell’azione di annullamento per errore, si definisca lo Z. come “consigliere infedele”.
Inoltre, sempre nella pagina 35, rimane del tutto oscura la modalità di verificazione del preteso errore, giacchè i suoi termini non vengono esattamente e specificamente individuati attraverso la descrizione delle circostanze percepite delle ricorrenti ed allegate a fondamento della domanda, che avrebbero integrato una falsa rappresentazione della realtà determinativa della conclusione della vendita.
In tal modo, al lettore è prospettato assertoriamente che l’errore sarebbe stato nel convincimento di non vendere alcunchè, che non fosse stato già oggetto delle vendite precedenti.
4.1. Si deve, poi, aggiungere che in tutta l’illustrazione non viene mai evocata in modo specifico la motivazione della sentenza impugnata se non con un accenno del tutto indiretto e generico a pagina 45.
Nella descritta situazione, la serie di rilievi sul modo in cui sarebbero state valutate risultanze probatorie o si sarebbe omesso di valutarne altre si dovrebbe apprezzare senza che si sappia quale era stato il tenore dei fatti costitutivi allegati a fondamento delle domande di declaratoria della nullità e dell’annullabilità e senza l’indicazione della motivazione che sarebbe incorsa nell’erronea ed omessa valutazione.
Tanto evidenzia, già su un piano generale, la mancanza dei dati necessari per vagliare la prospettazione delle ricorrenti.
In ogni caso, i rilievi sulla erroneità od omissione della valutazione delle risultanze probatorie sono svolti senza una precisa individuazione dei fatti controversi e senza il rispetto del principio di diritto richiamato a proposito del motivo precedente, cioè adombrando una mera possibilità di valutazione alternativa.
4.2. Si aggiunga che nell’illustrazione non si coglie mai alcun distinguo dell’argomentare rispetto alle due tipologie di azione, che permetta di correlarlo alla rispettiva motivazione della sentenza.
4.3. Infine, si deve rilevare che, a proposito dell’azione di annullamento, la sentenza impugnata articola la motivazione – a partire dalla seconda proposizione della pagina 12 e fino a metà della pagina 13 – con due distinte ed autonome rationes decidendi.
Con la prima, la Corte felsinea ha affermato, in senso opposto a quanto ritenuto dal primo giudice, la fondatezza della questione di prescrizione dell’azione di annullamento.
Con la seconda, la Corte ha enunciato che “in ogni caso, meriterebbero di essere condivise le ragioni esposte dal giudice di primo grado, da intendersi qui richiamate (sub B e sub C del capo della sentenza “Le domande attrici”) che avrebbero, comunque, comportato il rigetto della domanda di annullamento”.
In tale situazione, le ricorrenti, nel motivo di ricorso in esame si sarebbero dovute fare carico di criticare dette ragioni, evocando necessariamente e criticando la motivazione resa in quei capi dal Tribunale e fatta propria dalla Corte territoriale, mentre la critica viene svolta con assoluto disinteresse di quella motivazione, con conseguente ulteriore ragione di inammissibilità (Cass. sez. un. n. 16598 del 2016, che ha ribadito il principio di cui a Cass. n. 359 del 2005).
5. Il quarto motivo è così intestato: “Sulla domanda di nullità e annullamento. Violazione di legge sostanziale (art. 360 c.p.c., n. 3) in tema di non necessità della denuncia querela per l’ipotesi di difetto del consenso e di dolo contrattuale ovvero per errore ostativo”.
L’illustrazione esordisce assumendo che “la Corte d’Appello ha mostrato di non conoscere” la giurisprudenza di legittimità, che evidenzia che la querela di falso contro un atto rogato da notaio non è esperibile, se si assume che le dichiarazioni rese non sono diverse da quelle documentate, ma divergono dalla reale volontà comune o di una delle parti, perchè in tali casi le azioni esperibili sono rispettivamente di simulazione o di vizio del consenso.
Si sostiene che la corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto “non proponibile (o, comunque, non plausibile e, quindi, presuntivamente infondata) l’azione di annullamento per il fatto che non sia stato impugnato il contenuto dell’atto 16.3.1989, quando, invece, era chiarissimo che le Signore non hanno mai negato di essere intervenute innanzi al notaio, bensì hanno escluso di aver voluto vendere (scientemente) qualche cosa e, tanto meno, di voler vendere a soli 69 milioni di lire un cespite che valeva 15-20 volte tanto…”.
Sia queste deduzioni, sia quella svolte nel prosieguo, non recano alcuna individuazione anche indiretta della motivazione della sentenza impugnata, sicchè l’illustrazione non evidenzia una critica alla sentenza impugnata e, dunque, non ha la struttura di un motivo di impugnazione, secondo il principio già in precedenza richiamato.
6. Appare a questo punto opportuno, per la sua connessione con il terzo motivo, l’esame dell’ottavo motivo di ricorso, che deduce: “Sulla domanda di annullamento. Il merito. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa più punti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”.
Esso presenta la seguente articolazione.
In primo luogo si lamenta che la Corte territoriale non avrebbe motivato “per quale ragione non fosse accoglibile l’istanza di acquisizione dei verbali delle udienze penali nei quali i testimoni C., Notaio G. e Avvocato S.A. avevano reso deposizioni decisive”.
La deduzione è inammissibile, perchè non si indica se, come e dove era stata formulata tale istanza, e non si spiegano le ragioni di decisività di quella acquisizione.
Nella parte successiva, a partire dalla seconda proposizione, si riporta innanzitutto, paludandolo, con omissione dell’incipit, da motivazione resa dalla Corte territoriale, un’affermazione che essa ha fatto a pagina 12 (quinta proposizione), ma in essa è stata solo fornita l’interpretazione della motivazione del primo giudice a proposito della questione del decorso della prescrizione.
Di seguito, pur dando atto che la corte territoriale ha reso sull’azione di annullamento una motivazione per relationem, dichiarando di condividere i punti “B” e “C” della motivazione del primo giudice, si passa, senza riferire anche in questo caso quali fossero stati i contenuti di detta motivazione, a svolgere considerazioni su una serie di circostanze fattuali, anche evocative di passi della sentenza penale, che vizierebbero la motivazione della corte d’appello e si indicano, in fine, talune “affermazioni” che presenterebbero evidenti contraddizioni.
Il motivo è inammissibile.
La sentenza impugnata ha dichiarato di condividere le motivazioni espresse dal primo giudice quanto al rigetto della domanda di annullamento.
Ora, tali motivazioni non sono in alcun modo evocate, come sarebbe stato necessario e, pertanto, non si sa che cosa la sentenza impugnata ha condiviso e non si sa neppure se quelle che si dicono “affermazioni” siano state indicate come tali, volendo alludere al fatto che erano state fatte dal primo giudice nei punti “B” e “C”.
Il motivo, in conseguenza, non individua la motivazione sottoposta a critica ed è perciò privo della struttura di motivo di impugnazione.
7. Con il quinto motivo, che è quello che ha occasionato la rimessione alle Sezioni Unite della questione di particolare importanza, si deduce testualmente: “Sulla domanda di annullamento. Violazione di legge processuale e sostanziale (art. 360 c.p.c., n. 3) in tema di giudicato interno, di rilevazione d’ufficio della prescrizione e di termine di decorrenza della prescrizione”.
Nella prima parte del motivo si invoca la rilevanza del giudicato penale per quanto concerne l’individuazione del termine di prescrizione, evidenziandosi che dalle motivazioni delle sentenze penali intervenute nei confronti dello Z. emergeva che le venditrici solo nel 1993 avevano avuto piena contezza della condotta criminale del loro ex tecnico di fiducia, cosicchè la sentenza impugnata erroneamente avrebbe ritenuto che la prescrizione dell’azione di annullamento per dolo doveva decorrere dalla data stessa di stipulazione dell’atto di compravendita, anzichè da quella conoscenza.
Nella seconda parte del motivo – che è quella cui specificamente si correla la rimessione alle Sezioni Unite – si deduce, altresì, che il Tribunale, nell’esaminare e rigettare l’eccezione di prescrizione, sollevata dalla convenuta, aveva osservato che le attrici solo nel 1993 erano venute a conoscenza dei fatti dolosi posti in essere dall’ingegner Z. nei loro confronti e che, ancorchè l’ignoranza circa l’esistenza di un diritto non influisca sul decorso della prescrizione, tale regola viene tuttavia meno allorquando l’ignoranza sia frutto del comportamento doloso della controparte.
Si sostiene, pertanto, che l’eccezione in oggetto era stata espressamente disattesa dal giudice di primo grado e che inopinatamente la Corte di Appello ha riesaminato tale questione, accogliendola in violazione di un giudicato interno venutosi a formare, in ragione della mancata proposizione di un appello incidentale da parte dell’appellata, che era stato invece proposto soltanto riguardo all’accoglimento della domanda di condanna al pagamento del corrispettivo della compravendita.
Per quanto concerneva lo specifico problema della prescrizione, l’appellata si era, invece, limitata – a pagina 17 della comparsa di risposta, al punto 3.3 – ad affermare solo che “non può non eccepirsi la prescrizione nella quale le controparti sono incorse”.
Sostengono i ricorrenti che tali espressioni non consentivano di ritenere formalmente proposto appello incidentale in ordine al rigetto dell’eccezione di prescrizione, cosicchè su tale punto si era formato un giudicato.
In ogni caso, le espressioni letterali utilizzate dall’appellata, come sopra riportate, quando pure si fossero potute intendere come propositive di un appello incidentale, non sarebbero state in grado di soddisfare il requisito della specificità dei motivi di appello, richiesto dall’art. 342 c.p.c., con la conseguenza che sarebbe stato precluso alla Corte felsinea di poter ritornare sulla questione, relativa alla prescrizione dell’azione proposta.
7.1. L’esame di questo motivo dovrebbe, a questo punto, dirsi assorbito: entrambe le censure, infatti, riguardano solo una delle due rationes decidendi, con cui la sentenza impugnata ha ritenuto infondata l’azione di annullamento, id est quella con cui l’ha reputata estinta per prescrizione. Poichè, per effetto dell’esito dello scrutinio dei due motivi precedenti al quinto, nonchè dell’ottavo motivo, la valutazione di infondatezza di detta azione sotto altri profili, quelli con cui la sentenza ha dichiarato di condividere le ragioni di infondatezza enunciate sub B e C dalla sentenza di primo grado, risulta consolidata e, dunque, la sentenza impugnata ormai risulta sul punto confermata, diventa inutile scrutinare se sia stata corretta l’altra ratio decidendi relativa alla prescrizione.
E ciò, perchè la cosa giudicata sulla infondatezza della domanda di annullamento a prescindere dalla fondatezza della sua prescrizione impedisce di scrutinare la ratio fondata su di essa (così Cass. n. 14740 del 2005; o viene a mancare l’interesse al suo esame: Cass., Sez. Un., n. 16602 del 2005).
8. Ritengono, tuttavia, le Sezioni Unite, nonostante l’inammissibilità del quinto motivo per la ragione ora detta, di esaminare comunque, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, la questione di particolare importanza sollevata dalla Seconda Sezione, giacchè la rimessione da essa disposta ha evidenziato che sulla stessa perdurano contrasti in seno alle sezioni semplici.
8.1. La Seconda Sezione:
a) ha rilevato che il Tribunale di Parma aveva disatteso l’eccezione di prescrizione riguardo alla domanda di annullamento del contratto per dolo, sollevata dalla società convenuta, che, però, rispetto a detta domanda era risultata vittoriosa per altre ragioni;
b) ha, quindi, osservato che, proposto l’appello principale delle qui ricorrenti avverso la decisione del Tribunale, la controricorrente aveva svolto nella comparsa di costituzione un appello incidentale sull’accoglimento della domanda relativa alle somme, di cui alla quietanza contestuale alla vendita, mentre si era limitata soltanto a riproporre l’eccezione di prescrizione;
c) ha rilevato ancora che, in ragione dell’accoglimento di tale eccezione da parte della Corte territoriale, la seconda censura svolta nel quinto motivo esigeva di stabilire se, a fronte non già del semplice assorbimento o della mancata disamina, ma dell’espresso rigetto dell’eccezione di prescrizione della parte, la qui resistente, per il resto totalmente vittoriosa ed interessata ad una sua nuova disamina da parte del giudice di appello, dovesse a tal fine proporre appello incidentale ovvero potesse limitarsi alla mera riproposizione della questione ex art. 346 c.p.c., com’era in concreto avvenuto.
8.2. In proposito, la Seconda Sezione ha ravvisato l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza della Corte, reputando che esso, “già esistente negli anni passati”, risulterebbe “essere stato altresì acuito dal noto intervento delle Sezioni Unite di cui all’ordinanza del 16 ottobre 2008 n. 25246, con la quale si è affermato che la parte risultata vittoriosa nel merito nel giudizio di primo grado, al fine di evitare la preclusione della questione di giurisdizione risolta in senso ad essa sfavorevole, è tenuta a proporre appello incidentale, non essendo sufficiente ad impedire la formazione del giudicato sul punto la mera riproposizione della questione, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., in sede di costituzione in appello, stante l’inapplicabilità del principio di rilevabilità d’ufficio nel caso di espressa decisione sulla giurisdizione e la non applicabilità dell’art. 346 c.p.c. (riferibile, invece, a domande o eccezioni autonome sulle quali non vi sia stata decisione o non autonome e interne al capo di domande deciso) a domande o eccezioni autonome espressamente e motivatamente respinte, rispetto alle quali troverebbe applicazione la previsione dell’art. 329, secondo comma, cod. proc. civ., per cui in assenza di puntuale impugnazione opera su di esse la presunzione di acquiescenza.
Il punto di perdurante frizione interpretativa è rappresentato dal divergente apprezzamento del concetto di “eccezioni autonome”, da cui far discendere che il loro espresso rigetto imporrebbe la proposizione dell’appello incidentale a cura della parte che sia comunque risultata totalmente vittoriosa nel merito, essendo oggetto di non univoca interpretazione nella successiva giurisprudenza di questa Corte”.
Per coerenziare tale assunto, la Seconda sezione ha proceduto alla rassegna di una serie di precedenti delle sezioni semplici e, dopo aver rilevato che la giurisprudenza della Corte, “pur partendo dal comune dato giurisprudenziale costituito dal citato intervento delle Sezioni Unite, perviene tuttavia a conclusioni applicative assolutamente divergenti”, ha reputato che “tale contrasto non sia obiettivamente suscettibile di essere composto individuando una complementarità logica tra le opposte posizioni” ed ha anche soggiunto che “la risoluzione della questione risulta avere rilevanti riflessi applicativi anche per quanto attiene al giudizio di legittimità (attesa la pacifica inapplicabilità in questa sede della previsione di cui all’art. 346 c.p.c., ove si opti per la tesi della superfluità dell’impugnazione incidentale, la parte totalmente vittoriosa nel merito all’esito del giudizio di appello, non sarebbe tenuta a proporre ricorso incidentale condizionato per far valere l’erroneo rigetto dell’eccezione, conservando la possibilità di riproporla eventualmente in sede di rinvio)”; dal che ha tratto anche il rilievo che si sarebbe in presenza di una questione di massima di particolare importanza.
9. Tanto premesso, rilevano le Sezioni Unite che, effettivamente, nella giurisprudenza delle sezioni semplici perdurava al momento della rimessione una situazione di contrasto sui confini, in punto di modalità della devoluzione al giudice di appello, fra l’istituto della c.d. mera riproponibilità di cui all’art. 346 c.p.c., e quello dell’appello incidentale, regolato dall’art. 343 c.p.c..
Peraltro, successivamente all’ordinanza di rimessione è sopravvenuta, in data 19 aprile 2016, Cass., Sez. un., n. 7700 del 2016, la quale, pur occupandosi del problema della necessità o meno della proposizione dell’appello incidentale, anzichè della sufficienza della mera riproposizione, quanto alla domanda (nella specie di garanzia) rimasta assorbita in primo grado per il rigetto della domanda principale, si è anche soffermata sull’identica questione con riferimento alle eccezioni, svolgendo considerazioni anche a favore della sua soluzione.
Nel senso che, allorquando, riguardo ad una eccezione c.d. di merito svolta dal convenuto o comunque da colui che, difendendosi rispetto all’azione altrui assuma quella posizione sostanziale, il giudice di primo grado si sia pronunciato affermandone l’infondatezza, e, tuttavia, l’azione sia stata rigettata nel merito per altra ragione, il convenuto formale o sostanziale, di fronte all’appello della controparte che si dolga di tale rigetto e, dunque, rimetta in discussione la tutela conseguita per effetto di esso, deve necessariamente, per ottenere che il giudice d’appello riesamini la decisione del giudice di primo grado di rigetto dell’eccezione, proporre appello incidentale e non può limitarsi, invece, alla c.d. mera riproposizione cui allude l’art. 346 c.p.c..
Il Collegio, dunque, potrebbe limitarsi a rinviare alle considerazioni colà svolte (particolarmente, nel paragrafo 5.6. e nei relativi sottoparagrafi).
Senonchè, appare necessaria qualche ulteriore considerazione:
a) sia perchè, nonostante l’arresto oramai risalente di cui a Cass. sez. un. n. 25246 del 2008, nella giurisprudenza delle sezioni semplici, si erano manifestati i contrasti lumeggiati dall’ordinanza di rimessione, i quali risultano verosimilmente indotti dall’uso, da parte di quella decisione, del concetto di eccezione c.d. autonoma, che in quell’occasione originava dalla circostanza che oggetto di scrutinio era un caso in cui veniva in rilievo un’eccezione di rito, quella di giurisdizione;
b) sia perchè, proprio alla luce di Cass. sez. un. n. 7700 del 2016, in un’ottica di completezza della nomofilachia, ulteriori precisazioni risultano necessarie, per un verso sul concetto di decisione implicita dell’eccezione di merito e per altro verso per marcare la differenza di approccio che merita l’analoga questione rispetto alle c.d. eccezioni di rito.
9.1. Giova prendere le mosse dal concetto di eccezione c.d. di merito.
L’eccezione di merito si identifica in quel fatto che, in relazione alla struttura della fattispecie costitutiva del diritto fatto valere dalla parte attrice con la domanda, assume la natura di fatto impeditivo, modificativo o estintivo dell’efficacia dei fatti costitutivi (evocata in qualche modo dall’art. 2697 c.c.), per essere così individuato e qualificato dalla stessa fattispecie normativa astratta relativa al diritto azionato.
Tale fatto, per la sua inerenza sul piano normativo alla fattispecie dedotta in giudizio, assume il rilievo di c.d. fatto principale non diversamente dai fatti costitutivi della domanda.
La sua entrata nel processo suppone innanzitutto che esso vi sia stato introdotto come fatto storico, il che può avvenire in primo luogo tramite l’attività di allegazione dei fatti svolta delle parti e, quindi, tanto e soprattutto (per evidenti ragioni di interesse) tramite quella della parte convenuta, ma anche, inconsapevolmente, tramite quella dell’attore.
Detta attività può avvenire direttamente ed espressamente, cioè tramite la narrazione del fatto storico integrante l’eccezione, oppure indirettamente, in quanto il fatto emerga dai documenti prodotti, che lo rappresentino.
L’introduzione del fatto storico integratore dell’eccezione può poi avvenire anche per effetto delle emergenze dell’istruzione probatoria (in termini, Cass. Sez. Un., (ord.) n. 10531 del 2013).
La rilevanza del fatto integratore dell’eccezione di merito nel processo suppone, accanto alla sua introduzione, un’attività di c.d. rilevazione della sua efficacia giuridica sulla fattispecie dedotta in giudizio con la domanda e, com’è noto, l’ordinamento talvolta riserva tale attività soltanto alla parte, di modo che si è in presenza di un’eccezione c.d. in senso stretto (o, come taluno dice, in senso proprio), mentre, se la riserva non vi sia, il potere di rilevazione è affidato sia alla parte sia al giudice e si è in presenza di una eccezione c.d. in senso lato.
Supposta l’allegazione e rilevazione di un’eccezione di merito (in senso stretto o in seno lato) nel giudizio di primo grado da parte del convenuto, rispetto al tenore della decisione di primo grado, essa:
a) può risultare considerata dalla sentenza impugnata, la quale su di essa ha adottato una statuizione, cioè una motivazione che può essere articolata o con affermazioni espresse o con affermazioni enunciate in modo indiretto, le quali, però, rivelino in modo chiaro la sua valutazione di fondatezza o infondatezza;
b) può risultare, invece, non considerata affatto.
9.2. Nel primo caso, se la decisione è stata di riconoscimento del diritto e, quindi, di accoglimento della domanda, essa, valutando il fatto integratore dell’eccezione, deve averlo riconosciuto infondato ed è evidente che l’interesse a riottenerne l’esame da parte del giudice d’appello farà capo al convenuto con l’appello principale, il quale, dovrà riguardare il ragionamento svolto dal primo giudice per disattendere l’eccezione, se l’appellante intende riottenerne l’esame.
Mentre, se tale interesse egli non abbia, si asterrà dallo svolgimento come motivo di appello di una critica della decisione di primo grado quanto al rigetto dell’eccezione, sicchè il secondo comma dell’art. 329 cod. proc. civ. determinerà l’acquiescenza sulla relativa parte di sentenza e la formazione della cosa giudicata interna sull’infondatezza dell’eccezione, tanto se si tratti di eccezione in senso stretto, quanto se si tratti di eccezione in senso lato, con preclusione in questo secondo caso del potere del giudice di cui all’art. 345 c.p.c., comma 2.
9.2.1. Può darsi, al contrario, che la domanda sia stata rigettata.
Questo rigetto può essere dipeso dall’essere stata ritenuta fondata l’eccezione (che era appunto idonea a definire il giudizio) ed allora è palese che, essendo l’attore interessato a ridiscutere la decisione finale, in quanto determinata da tale fondatezza, la devoluzione della cognizione dell’eccezione al giudice d’appello resterà affidata all’appello principale del medesimo, con la critica della decisione di primo grado quanto alla decisiva valutazione di fondatezza dell’eccezione.
9.2.2. Il rigetto può, però, essere avvenuto per altre ragioni, che possono essere state, o la stessa inidoneità in iure dei fatti costitutivi a giustificare il diritto fatto valere con la domanda giudiziale, o la loro mancata dimostrazione a livello probatorio come fatti storici, o anche una valutazione di fondatezza di un’altra eccezione di merito.
In questi casi è palese che l’interesse ad impugnare con l’appello la decisione sarà dell’attore, perchè egli ha visto rigettata la domanda ed è in posizione di c.d. soccombenza pratica rispetto all’esito finale della lite, mentre l’interesse ad ottenere che in appello si ridiscuta dell’eccezione di merito ritenuta infondata, sarà del convenuto, che ha solo una soccombenza c.d. virtuale sull’eccezione, cioè una soccombenza che non ha inciso sull’esito finale della decisione che gli è favorevole e che non può venire in rilievo in sede di impugnazione se non ove l’appello sia svolto dall’attore.
In questa ipotesi si pone l’alternativa sulla individuazione del modo in cui egli può ottenere che l’eccezione sia riesaminata dal giudice d’appello, rispettivamente con un appello incidentale oppure con la riproposizione ai sensi dell’art. 346 c.p.c.; mentre, ove si tratti di eccezione in senso lato, in mancanza di verificazione di quella fra le due alternative ritenuta applicabile, ha luogo il fenomeno di cui all’art. 329, comma 2, citato e la preclusione, per formazione di giudicato interno, del potere del giudice di appello di rilevare detta eccezione.
La valutazione di infondatezza dell’eccezione risulta enunciata in modo logicamente superfluo, se la si considera rispetto alle prime due evenienze indicate: infatti, il giudice di primo grado che abbia ritenuto l’inidoneità in iure dei fatti costitutivi allegati a fondamento della domanda o non li ritenga dimostrati in fatto, una volta ritenuta questa ragione di infondatezza, non avrebbe avuto bisogno di scrutinare anche l’eccezione e di dirla infondata.
Nella terza evenienza, avuto riguardo alla struttura della fattispecie astratta, l’eccezione disattesa potrebbe collocarsi logicamente come antecedente, ma anche successiva, rispetto a quella invece reputata dirimente ed in tale secondo caso parimenti il giudice non avrebbe avuto bisogno di scrutinarla.
9.3. Nel secondo caso sopra ipotizzato, quello in cui la decisione di primo grado non abbia considerato in alcun modo (cioè nè espressamente nè con motivazione indiretta) il fatto integratore dell’eccezione, parimenti si deve distinguere, in relazione all’esito della decisione sulla domanda.
9.3.1. Se la domanda è stata accolta, l’interesse ad impugnare la decisione sarà del convenuto ed egli, proponendo l’appello in via principale, potrà:
a1) criticare la motivazione svolta dal primo giudice, senza dolersi del mancato esame dell’eccezione: in questo caso sull’eccezione non si formerà alcun giudicato, ma l’eccezione diventerà irrilevante nel giudizio di appello, se in senso stretto, mentre, se si tratta di eccezione in senso lato, resterà possibile solo la sua rilevazione per effetto del potere del giudice d’appello art. 345 c.p.c., ex comma 2, dovendo l’attività di rilevazione ad istanza di parte necessariamente avvenire con l’appello principale (perchè si trattava di critica da svolgere alla sentenza di primo grado per l’omessa pronuncia);
a2) dedurre anche, come ragione di dissenso rispetto all’accoglimento della domanda, in aggiunta alla critica della ragione posta a suo fondamento, l’omesso esame dell’eccezione, denunciando la violazione dell’art. 112 c.p.c., da parte del giudice di primo grado (che è stata incidente sull’esito finale), ma necessariamente con un motivo d’appello, con il quale lamenterà che la domanda avrebbe dovuto rigettarsi, oltre che per quanto esposto a critica della ragione esaminata dalla sentenza, anche e comunque se fosse stata esaminata l’eccezione;
a3) dedurre, invece, solo l’omesso esame dell’eccezione (ex art. 112 c.p.c.) ed astenersi dalla critica della motivazione enunciata dalla sentenza, ma ciò solo qualora, nella struttura della fattispecie astratta, l’eccezione non esaminata risulti, ove fondata, logicamente preclusiva della rilevanza della ragione di fondatezza ritenuta dal primo giudice, nel senso che, se risultasse fondata l’eccezione, la domanda dovrebbe essere rigettata nonostante la fondatezza del diverso ragionamento seguito dal primo giudice nel rigettarla: in questo caso l’eccezione ha una rilevanza che la autonomizza rispetto alla motivazione di accoglimento del primo giudice, la critica della quale non risulta perciò necessaria.
In tutte e tre le ipotesi, la devoluzione al giudice d’appello dell’eccezione di merito dev’essere necessariamente veicolata dall’appello principale, perchè è al convenuto, quale soccombente in senso pratico, che spetta l’iniziativa della devoluzione della controversia al giudice d’appello.
Tutte le ragioni di dissenso rispetto alla decisione del primo giudice debbono essere veicolate con l’appello e ciò anche rispetto a quanto quel giudice non ha deciso affatto. Il referente normativo dell’art. 342 c.p.c., lo conferma.
9.3.2. Se la domanda è stata, invece, respinta senza alcuna considerazione dell’eccezione di merito che il convenuto aveva svolto, bensì per altre ragioni, l’interesse all’impugnazione della decisione sarà dell’attore, che è soccombente in senso pratico; mentre quello a ottenere che la discussione in appello abbia luogo anche sull’eccezione non considerata sarà del convenuto e qui si pone ed ha senso l’alternativa fra l’appello incidentale e la riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c..
9.3.3. Mette conto di considerare che, quando l’eccezione non risulti affatto considerata dalla decisione, si deve, tuttavia, anche valutare l’incidenza di due possibili evenienze.
9.3.3.1. La prima è che il tenore finale della decisione possa essere di contenuto tale che, avuto riguardo alla ragione enunciata ed ancorchè la motivazione non riveli nemmeno in modo indiretto una valutazione sull’eccezione, tuttavia, esclusivamente sotto un profilo astratto, inerente all’ordine logico con cui, con riferimento alla fattispecie dedotta in giudizio, l’eccezione si poneva, possa apparire che quella ragione implichi che l’eccezione sia infondata.
Così, se la domanda, in presenza di un’eccezione di prescrizione del convenuto, viene rigettata dal giudice di primo grado, perchè egli ritiene che i fatti costitutivi non sono stati provati, non è predicabile nemmeno in astratto che il tenore della decisione implichi una valutazione (sebbene astratta) di infondatezza dell’eccezione di prescrizione, e ciò perchè un diritto di cui non è stata dimostrata l’insorgenza non si può prescrivere o non prescrivere.
Viceversa, sempre in caso di rigetto della domanda per mancata prova dei fatti costitutivi, ma in presenza di un’eccezione di nullità del rapporto dedotto o di un’eccezione di annullabilità o di invalidità o di inefficacia o relativa ad altro fatto in astratto incidente sui fatti costitutivi, come per esempio una transazione o una novazione, in astratto è ipotizzabile tanto che il giudice di primo grado, scrutinando i fatti costitutivi del rapporto e reputandoli non provati, abbia potuto supporre implicitamente che quelle eccezioni non erano fondate, quanto che non abbia fatto invece alcuna supposizione in tal senso, ma si sia limitato ad enunciare la motivazione basata sulla manata prova semplicemente perchè essa era di immediata percezione (c.d. ragione più liquida) e comunque giustificava la reiezione della domanda.
In questa seconda ipotesi, deve ritenersi che, mancando una decisione sull’eccezione, sia per affermazioni espresse, sia per affermazioni indirette, chiaramente individuatrici, dal solo esito della decisione finale non possa evincersi che l’eccezione sia stata decisa nel senso della infondatezza.
E’ partendo da tale acquisizione, che si deve procedere, in questi casi, a scegliere la soluzione corretta nell’alternativa fra appello incidentale e mera riproposizione ex art. 346 c.p.c..
9.3.3.2. La seconda evenienza da considerare è che il convenuto, nell’articolare il suo atteggiamento difensivo, abbia espressamente indicato al giudice un ordine di preferenza dell’esame delle sue difese e, quindi, anche rispetto alle sue eccezioni di merito, se ne ha proposte più di una.
Questa graduazione dell’ordine di richiesta di esame delle difese potrebbe essere giustificata dal criterio dell’interesse, eventualmente apprezzato anche con riferimento alle possibili ricadute della decisione su altre controversie fra le parti o su controversie fra il convenuto e terzi.
Si tratta di una graduazione che non sembra vietata, perchè l’ordinamento nell’art. 276 c.p.c., comma 2, stabilisce un ordine di esame e decisione delle questioni, distinguendo soltanto fra le questioni e, dunque, le eccezioni, pregiudiziali di rito e, genericamente, il “merito”, mentre non stabilisce un ordine all’interno dell’esame di quest’ultimo (e, quindi, della pluralità di eccezioni, in ipotesi proposte).
Tanto evidenzia che il giudice, mentre deve necessariamente seguire un criterio di decisione che gli impone di decidere prima le questioni di rito, in quanto esse pregiudicano astrattamente la possibilità di decidere nel merito, viceversa è libero di decidere sul merito, individuando la questione posta a base della decisione.
Tuttavia, se la parte eccipiente richieda l’esame gradato di eccezioni inerenti al merito, si deve ritenere che il potere del giudice ne risenta, sicchè egli dovrebbe osservare nell’esame tale gradazione, se risponda ad un interesse.
Se questo è vero, può ritenersi che, qualora la domanda venga rigettata sulla base dell’esame di un’eccezione formulata dal convenuto, senza rispettare la graduazione fra le varie eccezioni che egli, in ipotesi, aveva indicato, la decisione, se pure non ha ad oggetto le eccezioni di cui il giudice non si è occupato, tuttavia, risulta avere certamente disatteso la richiesta di graduazione.
9.4. Può passarsi ora all’esame dei confini fra appello incidentale e c.d. mera riproposizione.
La loro individuazione, come già le Sezioni Unite hanno rilevato nella sentenza n. 7700 del 2016, sottolineando al riguardo l’assoluta irrilevanza della struttura marcatamente di revisio prioris istantiae, riacquisita oramai dal giudizio di appello ordinario, rispetto a quella di c.d. novum iudicium, introdotta a suo tempo dalla c.d. riforma del 1950, va fatta:
a) in primo luogo, tenendo conto che la riproposizione si deve collocare dove non risulta necessario l’appello incidentale;
b) in secondo luogo, considerando che l’appello incidentale di cui all’art. 343 c.p.c., è riconducibile, sotto il profilo funzionale e contenutistico, alla figura dell’impugnazione incidentale in genere, che è disciplinata in generale dall’art. 333 c.p.c., come species del genus “impugnazione”, ma è inoltre soggetto alla disciplina dell’art. 342 cod. proc. quale species dell’appello.
Ne segue che, “poichè al concetto di impugnazione in generale, cui l’appello incidentale deve ascriversi, è coessenziale la necessaria implicazione di mezzo con cui si rivolgono critiche (sulla base di motivi limitati oppure senza limitazione di motivi, a seconda della natura dello specifico mezzo di impugnazione) all’oggetto dell’impugnazione e, quindi, alla decisione, ne deriva che anche l’appello incidentale necessariamente doveva, come deve risolversi, in una critica alla decisione impugnata” (cit. sentenza).
Ciò consente agevolmente di ritenere e ribadire la soluzione data dalla sentenza del 2008 a favore della necessità dell’appello incidentale le quante volte, in presenza di un rigetto della domanda e, quindi, di esito favorevole al convenuto, che, dunque, si trovi in posizione di c.d. soccombenza soltanto teorica, una sua eccezione di merito sia stata oggetto di valutazione da parte della sentenza di primo grado con una motivazione espressa, che abbia enunciato il suo rigetto, oppure sia stata oggetto di una motivazione che, pur non enunciando espressamente il rigetto, lo evidenzi indirettamente, cioè riveli, in modo chiaro ed inequivoco, che il giudice parimenti abbia inteso rigettare l’eccezione.
9.4.1. Poichè l’eccezione è stata oggetto di decisione e tale valutazione fa parte del tessuto motivazionale della sentenza di primo grado, di modo che non rileva più la circostanza che l’eccezione era stata introdotta nell’oggetto del giudizio fra i fatti che avrebbero dovuto essere decisi, ma risulta che essa abbia acquisito rilevanza in quanto ormai oggetto in concreto della decisione, la circostanza che quest’ultima esprime una posizione di soccombenza, di “torto”, sebbene virtuale, a carico del convenuto, costringe, attesa la presenza nel nostro ordinamento dell’istituto dell’appello incidentale accanto a quello della c.d. riproposizione, a collocare la modalità di investitura del giudice d’appello nel primo e non nella seconda.
La ragione è che la valutazione del primo giudice sull’eccezione è consacrata in una parte della motivazione della sua sentenza, onde, rispetto ad essa, la posizione del convenuto non può che essere omologa a quella dell’attore appellante principale, che, di fronte ad una parte della motivazione che gli dà torto, se la vuole ridiscutere, deve farla oggetto dell’appello.
Tanto – ha osservato Cass., Sez. Un., n. 7700 – “ora è anche formalmente evidenziato dall’art. 342 nel testo vigente, là dove parla di “parti del provvedimento”, così evocando il contenuto della decisione come oggetto della critica espressa con l’appello principale, e là dove, nel comma 2, n. 2, evidenzia il carattere della decisività, con l’espressione “rilevanza a fini della decisione impugnata”“, pur non essendo “dubbio che il vecchio art. 342 c.p.c., quanto parlava dei “motivi specifici dell’impugnazione”, lo comprendesse già”.
9.4.2. A sostegno di tale conclusione cospirano, del resto, gli argomenti, che – sebbene in un contesto in cui veniva in rilievo una eccezione pregiudiziale di rito – aveva già enunciato Cass., Sez. Un., (ord.) n. 25246 del 2008.
Il primo di essi si desume dal regime delle modalità della pronuncia del giudice sulle eccezioni di merito.
La circostanza che, come emerge dall’art. 187 c.p.c., comma 2, nel giudizio di primo grado la decisione su un’eccezione di merito, in quanto essa è idonea in astratto a definire il giudizio sulla domanda riguardo alla quale è stata proposta ed è riconducibile alle questioni di merito aventi carattere preliminare, può essere fatta oggetto di una decisione parziale, che si esprime nella sentenza non definitiva (parziale), di cui al n. 4 del secondo comma dell’art. 279 cod. proc. civ., evidenzia che la decisione sull’eccezione, quando la pronuncia non ne rileva la fondatezza e, pertanto, definisce il giudizio ma la reputa infondata nel merito o per ragioni di rito, si connota, sebbene soltanto espressione di una “parte” del dovere decisionale del giudice, in una sentenza.
La correlazione – a differenza che nel regime originario del codice alla pronuncia della sentenza parziale di rigetto dell’eccezione alternativamente o della riserva di appello o dell’appello immediato, e in entrambi i casi la previsione della necessità di un’impugnazione, evidenzia che tale decisione dev’essere oggetto di reazione sempre con il mezzo dell’appello; e ciò, allorquando la successiva decisione di merito definitiva veda vincitrice la parte, che aveva visto disatteso la eccezione con la sentenza parziale, con il mezzo dell’appello incidentale ai sensi dell’art. 343 c.p.c., ancorchè il testo dell’art. 340 c.p.c., comma 2, non risulti prevedere tale ipotesi per un difetto di coordinamento redazionale (si veda già in tal senso di Cass. n. 779 del 1987 e, da ultimo, Cass. n. 15784 del 2013).
Da questo regime emerge che, se il giudice di primo grado non faccia luogo alla sentenza parziale sull’eccezione di merito e si pronunci su quest’ultima con la sentenza definitiva, dando ragione al convenuto nonostante il rigetto (espresso o indiretto) dell’eccezione, il regime di devoluzione al giudice d’appello, non potendo mutare la forza della decisione sull’eccezione, secondo che su di essa quel giudice si pronunci con la sentenza parziale o con la definitiva, esige l’impugnazione con l’appello incidentale, essendovi sull’eccezione solo una soccombenza virtuale e non pratica e non potendo il convenuto prendere l’iniziativa di devolvere la controversia al giudice d’appello.
9.4.3. In base alle considerazioni svolte si deve allora ribadire (con la sentenza n. 7700 del 2016) “che al concetto della riproposizione deve ritenersi estraneo ogni profilo di deduzione di una critica alla decisione impugnata (…) e, quindi, di ciò che è connaturato al concetto di impugnazione” e che con la riproposizione il legislatore ha inteso alludere, invece, alla prospettazione al giudice di appello di domande ed eccezioni che possano essere appunto soltanto “riproposte”, cioè proposte come lo erano state al primo giudice.
Il fatto che, come dice la norma, esse lo possano essere, perchè risultano da quel giudice “non accolte”, significa che tale mancato accoglimento non è dipeso da una motivazione della sentenza di primo grado che le ha considerate espressamente o indirettamente, ma da mero disinteresse del giudice; sicchè la decisione finale, nella sua struttura motivazionale, non possa in alcun modo reputarsi averle ritenute infondate e, dunque, rigettate.
E’ per questo che l’attività di devoluzione al giudice d’appello della cognizione dell’eccezione non deve espletarsi con il profilo di critica inerente alla figura dell’appello incidentale, ma è sufficiente che si realizzi con la c.d. riproposizione, sebbene essa debba avvenire in modo espresso, cioè con una specifica attività di richiesta al giudice d’appello di esaminare l’eccezione.
In questo caso è vero che si potrebbe pensare che l’omissione della decisione abbia integrato comunque un’omessa pronuncia e che, dunque, abbia determinato la decisione sotto tale profilo, cioè nel senso in cui una decisione, che omette di pronunciare su qualcosa su cui era stato chiesto di pronunciare, pur sempre è frutto anche di tale omissione.
Senonchè, solo se nel regime dell’appello non esistesse l’art. 346 c.p.c., cioè l’istituto della riproposizione, ma solo quello dell’appello incidentale, il cui profilo ricostruito nel senso sopra indicato risente dell’esistenza di tale istituto, certamente, di fronte ad un’omessa pronuncia su un’eccezione di merito, cioè all’astensione sia espressa sia indiretta dalla decisione, sarebbe giocoforza concludere che la denuncia di essa, da parte del convenuto soccombente virtuale, non avrebbe altro veicolo che quello di un appello incidentale.
L’esistenza dell’art. 346 c.p.c., non consente, invece, tale conclusione.
Ciò è tanto vero che, con riferimento ad un’impugnazione come il ricorso in cassazione, nel cui regime non esiste una norma omologa dell’art. 346 c.p.c., è notorio che, invece, il mezzo per devolvere alla Corte la cognizione di eccezioni e questioni non esaminate sia il ricorso incidentale da parte del resistente, che versi in posizione di vincitore in senso pratico e veda dalla controparte rimessa in discussione la sentenza che gli ha dato ragione.
9.4.4. Restano a questo punto da svolgere alcune precisazioni in relazione all’evenienza in cui il convenuto avesse graduato, naturalmente in modo espresso, l’ordine di proposizione di più eccezioni di merito oppure avesse chiesto in via preliminare e sempre espressamente di pronunciarsi sull’eccezione di merito proposta, prima delle altre sue mere difese di merito.
In tal caso, se il giudice non abbia in alcun modo esaminato nè espressamente nè indirettamente l’eccezione e abbia pronunciato sentenza favorevole al convenuto, emerge comunque che in tal modo ha disatteso la richiesta di graduazione o di anteposizione e, dunque, la motivazione, se non rivela quell’esame, rivela certamente che il giudice ha disatteso quella richiesta.
In questa ipotesi, se il convenuto intende mantenere la richiesta di graduazione, è necessario che egli proponga appello incidentale, mentre se si limita a riproporre l’eccezione la conseguenza è che detta richiesta è abbandonata ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2.
9.4.5. E’ opportuna un’ulteriore precisazione, che si correla alla distinzione fra le eccezioni di merito affidate al potere di rilevazione soltanto della parte e quelle in cui tale potere spetta anche al giudice.
In questo secondo caso, se vi è stata una decisione espressa o indiretta sull’eccezione nel senso della infondatezza, la mancata proposizione dell’appello incidentale da parte del convenuto vittorioso ha come conseguenza la formazione della cosa giudicata interna sulla infondatezza.
Ne consegue che resta precluso, per effetto di tale formazione, il potere del giudice di rilevare l’eccezione ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2 (si veda già Cass. n. 1560 del 1987).
9.4.6. Mette conto di rilevare ancora, per ragioni di completezza e considerato che l’arresto del 2008 era stato enunciato in situazione nella quale la Corte doveva occuparsi di un’eccezione di rito, che la ricostruzione proposta del rapporto fra appello incidentale e riproposizione a proposito dell’eccezione di merito non può valere negli stessi termini per le eccezioni di rito.
S’è già veduto che l’art. 276, stabilisce un ordine delle questioni in base al quale il giudice deve esaminare prima le eccezioni di rito e poi il merito.
Con riferimento alle eccezioni di rito, qualora esse siano state disattese espressamente o indirettamente dal primo giudice, che, dunque, su di esse abbia pronunciato, non è dubbio che la parte soccombente su di esse, ma vittoriosa quanto all’esito finale della lite e, dunque, in posizione di soccombenza teorica, se vuole ottenere che esse siano riesaminate dal giudice, investito dell’appello principale sul merito della controparte, deve farlo proponendo appello incidentale e non ai sensi dell’art. 346 c.p.c..
Può accadere che il giudice, nel pronunciare nel merito, rigettando la domanda, ometta di decidere su un’eccezione di rito proposta dal convenuto, nel senso che se ne disinteressi completamente. In tal caso il giudice non solo ha violato l’art. 276 c.p.c., ma il suo disinteresse, a differenza di quello su un’eccezione di merito, non si presta affatto solo ad una valutazione astratta di infondatezza dell’eccezione ma senza alcuna possibilità di considerarla come effettiva, potendo, come s’è detto, il giudice solo avere scelto la soluzione più liquida.
In questo caso, poichè l’eccezione di rito doveva esaminarsi prima del merito e ne condizionava l’esame, il silenzio del giudice si risolve però – ancorchè la sua opinione sull’eccezione di rito non sia stata manifestata e possa in ipotesi essere espressione di scelta della soluzione più liquida – in un error in procedendo, cioè nell’inosservanza della regola per cui il merito si sarebbe potuto esaminare solo per il caso di infondatezza dell’eccezione di rito.
La violazione di tale regola, in quanto ha inciso sulla decisione, esige allora una reazione con l’appello incidentale e non la riproposizione dell’eccezione di rito, perchè è necessario che essa venga espressa con un’attività di critica del modus procedendi del giudice di primo grado, che necessariamente avrebbe dovuto esaminare l’eccezione di rito (circa il modo in cui il giudice d’appello andrà investito si ricorda che non si tratterà della denuncia del vizio di omessa pronuncia, bensì della denuncia dell’esistenza del vizio della sentenza per l’eccezione di rito di cui trattasi: in termini Cass. n. 1791 del 2009 e n. 5482 del 1997; adde: Cass. n. 10073 del 2003, n. 14670 del 2001; n. 3927 del 2002; n. 603 del 2003).
Il discorso che si è svolto per le eccezioni di merito, tuttavia, potrà essere riproposto, allorquando il convenuto avesse proposto più gradate eccezioni di rito ed il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda in rito, accogliendo la prima, oppure ne abbia accolto una di grado successivo senza pronunciarsi espressamente o indirettamente su di essa. Ma non è questa la sede per indugiare ad esemplificare.
9.4.7. Conclusivamente, deve enunciarsi nell’interesse della legge, il seguente principio di diritto: “Qualora un’eccezione di merito sia stata ritenuta infondata nella motivazione della sentenza del giudice di primo grado o attraverso un’enunciazione in modo espresso, o attraverso un’enunciazione indiretta, ma che sottenda in modo chiaro ed inequivoco la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione da parte sua dell’appello incidentale, che è regolato dall’art. 342 c.p.c., non essendo sufficiente la mera riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c.. Qualora l’eccezione sia a regime di rilevazione affidato anche al giudice, la mancanza dell’appello incidentale preclude, per il giudicato interno formatasi ex art. 329 c.p.c., comma 2, anche il potere del giudice d’appello di rilevazione d’ufficio, di cui all’art. 345 c.p.c., comma 2. Viceversa, l’art. 346 c.p.c., con l’espressione eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, nell’ammettere la mera riproposizione dell’eccezione di merito da parte del convenuto rimasto vittorioso con riguardo all’esito finale della lite, intende riferirsi all’ipotesi in cui l’eccezione non sia stata dal primo giudice ritenuta infondata nella motivazione nè attraverso un’enunciazione in modo espresso, nè attraverso un’enunciazione indiretta, ma chiara ed inequivoca. Quando la mera riproposizione (che dev’essere espressa) è possibile, la sua mancanza rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di rilevazione riguardo ad essa è riservato alla parte, mentre, se il potere di rilevazione compete anche al giudice, non impedisce ferma la preclusione del potere del convenuto – che il giudice d’appello eserciti detto potere a norma dell’art. 345 c.p.c., comma 2”.
10. Riprendendo l’esame dei residui motivi, si deve rilevare che il sesto ed il settimo motivo di ricorso – denuncianti rispettivamente, sempre in merito alla domanda di annullamento, la violazione di legge ovvero l’omessa, insufficiente motivazione in ordine al valore interruttivo del corso della prescrizione di una missiva del 5 ottobre 1993 e l’errore di diritto commesso dai giudici di appello nel ritenere applicabile all’azione di annullamento e alla derivante azione risarcitoria il termine di prescrizione quinquennale anzichè quello maggiore previsto per il reato di truffa aggravata – restano assorbiti, stante il già segnalato consolidarsi dell’infondatezza dell’azione di annullamento per la ratio decidendi diversa dalla prescrizione.
11. Con il nono motivo si denunzia l’omessa pronunzia da parte della Corte distrettuale su una non meglio identificata domanda risarcitoria parimenti proposta dalle originarie parti attrici, svolta nella citazione e riprodotta in appello.
11.1. Il motivo è inammissibile, sia perchè omette di individuare i termini, cioè i fatti costitutivi, sulla base dei quali era stata proposta la non meglio identificata azione risarcitoria, sia per l’assoluta genericità della sua illustrazione.
12. Con il decimo motivo si denunzia, infine, l’iniquità della pronuncia impugnata, nella parte in cui ha condannato le ricorrenti a restituire l’importo di cui alla quietanza contestuale all’atto di vendita, in accoglimento dell’appello incidentale della controparte.
Il motivo, nella prima parte della sua illustrazione, dichiara che la decisione della Corte territoriale sul punto sarebbe stata “frutto degli errori sopra dedotti”: sotto tale profilo non può che risentire della sorte dei precedenti motivi in cui si sono denunciati inutilmente tali errori.
Nella seconda parte espone una postulazione, meramente assertiva e, peraltro, in termini di mera possibilità, di una diversa ricostruzione in fatto, senza, però, evocare e considerare espressamente la motivazione della sentenza impugnata, risultando privo di decisività e inidoneo allo scopo.
13. Il ricorso è, conclusivamente, rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, avuto riguardo all’operatività nella controversia del regime di cui all’art. 92 c.p.c., comma 2, anteriore alla riforma intervenuta nel 2006, possono compensarsi, atteso che il quinto motivo, pur inammissibile all’esito dello scrutinio di quelli precedenti e dell’ottavo, si evidenziava astrattamente fondato nella sua seconda censura, alla stregua del principio di diritto che è stato qui riaffermato nell’interesse della legge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 6 dicembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2017.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 01 marzo 2016, n. 4058, per SS.UU, 12 moggio 2017, n. 11799, in tema di appello
SS.UU, 12 maggio 2017, n. 11799, in tema di appello
In tema di presupposizione – SS.UU, 20 aprile 2018, n. 9909
Civile Sent. Sez. U Num. 9909 Anno 2018
Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: D’ASCOLA PASQUALE
Data pubblicazione: 20/04/2018
SENTENZA
sul ricorso 428-2015 proposto da:
COMUNE DI FRASSINORO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI 39, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA GIUFFRE’, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati FAUSTA BRIGHENTI e CONCETTA DONATACCI CIRELLI;
– ricorrente –
contro
ACQUEDOTTO DRAGONE IMPIANTI S.R.L. (già ACQUEDOTTO DRAGONE IMPIANTI S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE PARIOLI 180, presso lo studio dell’avvocato MARIO SANINO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NICOLA AICARDI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 185/2013 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE PUBBLICHE, depositata il 19/11/2013.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
23/05/2017 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. TOMMASO BASILE, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli Avvocati Fausta Brighenti, Concetta Donatacci Cirelli e Nicola Aicardi.
Fatti di causa
Si apprende dagli atti di causa che nel 1959 il comune di Frassinoro aveva pattuito con il Consorzio Intercomunale dell’ Acquedotto Dragone che non si sarebbe opposto alla captazione e utilizzo delle acque dalle fonti site nel Comune, in cambio dell’erogazione di sei litri di acqua al secondo, di cui 4 a pagamento e due gratuitamente.
L’accordo era stato attuato pacificamente fino al 30 giugno 2000.
Dal 1 luglio 2000 il Comune aveva affidato l’acquedotto alla Meta spa e la società Acquedotto Dragone Impianti srl (in cui il Consorzio si era trasformato) aveva sospeso l’erogazione gratuita dei due litri d’acqua al secondo e preteso il pagamento di tutta la fornitura, per impossibilità sopravvenuta della prestazione, causata dalla circostanza che il comune non gestiva più direttamente il servizio di acquedotto.
Nel 2009 il Comune ha agito contro la società davanti al TRAP Toscana chiedendo la risoluzione del contratto e la condanna alla restituzione della somma equivalente alla mancata erogazione gratuita dell’acqua (232mila euro circa).
Il Tribunale Regionale ha accolto la domanda con sentenza del 30 settembre 2011.
Il Tribunale Superiore ha capovolto la decisione e con sentenza 19 novembre 2013 ha rigettato tutte le domande proposte dal Comune.
Il comune di Frassinoro ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, resistiti da controricorso di Acquedotto Dragone Impianti srl.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
2) Nella memoria depositata in vista dell’udienza, parte ricorrente ha eccepito l’inammissibilità del controricorso “per vizio riguardante la procura ad litem”. Ha osservato che nel mandato rilasciato da parte ricorrente era stata menzionata una delibera – datata 14 giugno 2012 – con cui era stato conferito “all’organo della società controricorrente lo specifico potere di rappresentarla nel presente giudizio”, procura che avrebbe dovuto essere “prodotta da controparte al momento di costituirsi”.
Il rilievo è infondato, perché si basa su un’errata lettura del mandato rilasciato a margine del ricorso.
La delibera assembleare del giugno 2012 non poteva riferirsi infatti alla impugnazione della sentenza del TSAP, che è stata resa nel 2013, oltre un anno dopo. La lettura più piana del testo fa comprendere che il mandato si riferiva alla delibera con cui l’amministratore Unico e legale rappresentante pro tempore era stato investito della suddetta funzione, subito prima menzionata per indicare la qualità in forza della quale veniva rilasciato il mandato. Detta qualità abilitava a tale atto, in mancanza di specifica contestazione di essa (SU 20596/07).
3) Sempre in via preliminare va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività. Secondo la resistente, il termine lungo per proporre il ricorso per cassazione sarebbe stato di sei mesi – e non di un anno – perché la causa sarebbe iniziata dopo l’entrata in vigore della legge 69/2009 (4 luglio 2009), che ha novellato in tal senso l’art. 327 c.p.c..
Il rilievo è infondato perché, come controdedotto da parte ricorrente, la data di inizio della causa davanti al Tribunale Regionale di Firenze non è quella di deposito del ricorso in cancelleria (14 ottobre 2009), ma quella di notifica del ricorso stesso alla controparte, che è l’8 giugno 2009, come si legge in esordio della sentenza di primo grado.
4) La sentenza qui impugnata ha premesso che l’accordo tra il Comune e la resistente era nato dalla non opposizione del Comune nel procedimento di concessione delle acque pubbliche, concessione che doveva essere rilasciata da altro soggetto, e dall’interesse dell’ente ad assicurarsi la fornitura di acqua per la somministrazione del servizio. Ha affermato (pag. 16) che presupposto dell’obbligazione di fornitura di acqua da parte della società convenuta fosse l’utilizzo dell’acqua da parte del Comune per erogare il servizio di acquedotto alla propria collettività.
Ha ritenuto che, come dedotto dalla società, l’intervenuta riorganizzazione del servizio con affidamento della gestione dell’acquedotto alla società pluricomunale META spa di Modena, implicando la perdita del ruolo di gestore, aveva determinato l’esaurimento dell’impegno e un’oggettiva impossibilità di effettuare la prestazione gratuita.
Il comune avrebbe perso sia il ruolo di gestore sia la disponibilità degli impianti funzionali; inoltre esso non avrebbe neppure spiegato dove e come l’acqua avrebbe potuto essere consegnata.
Il TSAP ha affermato che l’esecuzione dell’obbligazione assunta con l’accordo sarebbe possibile solo in favore di un “soggetto che sia gestore di un acquedotto”; che negli accordi con Meta non v’è traccia delle pattuizioni del 1959 e neppure la si ritrova, tra il 2000 e il 2007, nelle pattuizioni tra Consorzio e Meta.
Ha aggiunto che il Comune non avrebbe subìto perdita economica perché, non essendo più gestore, non avrebbe potuto più vendere ai cittadini l’acqua fornitagli gratuitamente dalla società.
Né rileverebbe l’originaria pattuizione, in forza della quale il Comune aveva dato il proprio assenso alla captazione, in quanto all’epoca il Comune si sarebbe soltanto non opposto alla captazione senza assumere la veste di concedente, cosicchè non vi sarebbe violazione del sinallagma su cui si basava la obbligazione della spa Dragone, in quanto non sarebbe il “consenso” del Comune la fonte del diritto della società di “prelevare le acque”.
5) Il primo motivo di ricorso del comune di Frassinoro lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c.. Espone che, in contrasto con criterio ermeneutico dell’interpretazione letterale del
contratto, la sentenza impugnata ha ritenuto che «presupposto indefettibile per il prodursi e il permanere degli effetti» della convenzione del 1959 fosse la «gestione diretta da parte del comune di Frassinoro del proprio servizio di acquedotto». Ha rilevato come tale previsione contrattuale non era in alcun modo contemplata nel testo della delibera 5/1959 di Acquedotto Dragone, riportata in ricorso, con la quale era stato stabilito di stipulare con l’ente locale un accordo “inteso a consentire l’utilizzazione delle acque sorgive»; né, aggiunge il ricorso, se ne trova traccia nella delibera del Comune n.68/1959, pure riportata, delibera che aveva riscontrato quella (n.5/1959) dell’Assemblea del Consorzio.
La censura è fondata.
La sentenza impugnata (pag. 15) e ancor più chiaramente lo stesso controricorso (pag. 11) danno atto della circostanza che finalità alla base dell’accordo era che il Comune si assicurasse una fornitura d’acqua sufficiente a soddisfare i bisogni di acqua potabile della “collettività comunale”.
Sviluppo imprevisto di questa considerazione è stato, in sentenza, l’affermazione che il servizio di acquedotto per acqua potabile ai cittadini debba essere gestito direttamente dal Comune. In tal modo è stata introdotta interpretativamente nel contratto, contro il canone letterale, la presupposizione che il Comune dovesse assumere e mantenere indispensabilmente in modo diretto il «ruolo di gestore del servizio» (sentenza pag. 17 e 18) ed che fosse illegittimo il conferimento in uso alla società Meta spa (adesso Hera), mediante concessione degli impianti utilizzati, della gestione del servizio acquedottistico.
Una siffatta costrittiva condizione non risulta però contrattualmente pattuita, cosicchè introdurla sotto le spoglie della presupposizione contrasta con i canoni ermeneutici e anche, ineludibilmente, con le premesse che la sentenza stessa aveva posto.
E’ noto che si rinviene la presupposizione allorquando (cfr la sintesi che svolge in motivazione Cass.12235/07) «una determinata situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso – pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali – come presupposto condizionante il negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), richiedendosi pertanto a tal fine: 1) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti; 2) che l’evento supposto sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti (e in ciò la presupposizione differisce dalla condizione); 3) che si tratti di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione (Cass. 31.10.1989, n. 4554; tra le più recenti, Cass. 21.11.2001 n. 14629).
Sicché la “presupposizione è … configurabile quando dal contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo soltanto subordinatamente all’esistenza di una data situazione di fatto che assurga a presupposto comune e determinante della volontà negoziale, la mancanza del quale comporta la caducazione del contratto stesso, ancorché a tale situazione, comune ad entrambi i contraenti, non si sia fatto espresso riferimento” (Cass. 9.11.1994, n. 9304)».
Si ha insomma presupposizione , per tornare a una lontana massima (Cass n. 1064 del 1985), quando una determinata situazione di fatto comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere obiettivo, essendo il suo verificarsi indipendente dalla loro volontà e attività, sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto comune in modo da assurgere a fondamento – pur in mancanza di un espresso riferimento – dell’esistenza ed efficacia del contratto.
Se tale è la nozione, alla luce delle pattuizioni cui le parti hanno dato vita sembra chiaro che non la gestione diretta del servizio acquedottistico da parte del Comune fosse il presupposto indefettibile dell’intesa, ma, per quanto si legge in sentenza e nelle deduzioni delle parti, la destinazione dell’acqua fornita dal Consorzio (ora spa resistente) ai bisogni della collettività residente nel Comune.
E’ dunque fondata la doglianza dell’ente locale.
6) La fondatezza del primo motivo comporta l’accoglimento anche degli altri motivi del ricorso.
Il secondo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1256 e 1463.
Il terzo denuncia violazione di questi articoli del codice civile e degli articoli 1218 e 2697 c.c.
Le censure hanno di mira la conseguenza che la sentenza impugnata ha tratto dall’aver considerato la gestione diretta degli impianti alla stregua di fondamento contrattuale: l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore.
Ora, tralasciando, poiché non è richiesto dal ricorso in esame, l’approfondimento giurisprudenziale circa il rimedio al venir meno del presupposto, rimedio talora individuato nel recesso, altre volte nella risoluzione generica o per impossibilità della prestazione (come ritenuto dal TSAP) o per fatto non imputabile alle parti, etc, va detto che il ricorso è fondato laddove evidenzia che in, mancanza della presupposizione censurata, non v’è luogo per dichiarare la risoluzione del contratto. La sentenza impugnata ha infatti tratto partito per l’applicazione dell’art. 1256 da un presupposto non contemplato in contratto e non desumibile secondo i canoni ermeneutici ordinari.
Ne consegue che la norma è stata applicata senza specifico fondamento.
Ed errato è, per conseguenza, il rimprovero all’ente locale di non aver provato in che modo l’Acquedotto Dragone avrebbe potuto continuare ad adempiere l’obbligazione di consegnare l’acqua. Questo onere probatorio sarebbe stato addebitabile al convenuto in presenza di un’omessa richiesta fornitura da parte del concessionario del Comune o di un rifiuto del concessionario Meta di ricevere l’acqua, o di una comprovata omessa destinazione della fornitura ai bisogni della collettività comunale (indiscussa finalità dell’intesa), ma non ha immancabile nesso con l’esercizio diretto degli impianti acquedottistici da parte del Comune.
Non a caso il motivo si conclude invocando il principio di buona fede quale presidio dell’esecuzione del contratto e lamenta in proposito che parte resistente abbia nelle more continuato a captare l’acqua e ad addurla; trattasi di rilievo che permea inevitabilmente tutta la controversia, in quanto la stessa nozione di presupposizione è innervata da esso, ditalchè la fallacia della sua applicazione, da riconsiderare anche in vista di questo principio, provoca la caducazione della costruzione giuridica che ne è scaturita in sentenza.
Il giudice di rinvio in sede di riesame dovrà quindi verificare quale sia la sorte del rapporto, in relazione alle domande delle parti, alla luce di una corretta interpretazione dell’intesa e di quanto eventualmente in essa presupposto e del configurarsi del rapporto in seguito alla concessione alla Nera della gestione degli impianti.
Discende da quanto esposto l’accoglimento del ricorso.
La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa al Tribunale Superiore delle Acque, in diversa composizione, per il riesame dell’impugnazione alla luce dei principi affermati in ordine all’interpretazione del l’accordo negoziale, nonché per la liquidazione delle spese di questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale Superiore delle Acque, in diversa composizione, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite civili tenuta il 23 maggio 2017
Allegati:
SS.UU, 20 aprile 2018, n. 9909, in tema di presupposizione
In tema di licenziamento – SS.UU, 22 maggio 2018, n. 12568
Civile Sent. Sez. U Num. 12568 Anno 2018
Presidente: CAPPABIANCA AURELIO
Relatore: MANNA ANTONIO
Data pubblicazione: 22/05/2018
SENTENZA
sul ricorso 26171-2015 proposto da:
ANGIUS ANTONIO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE AVENTINO 98, presso lo studio dell’avvocato PAOLO LA BARBERA, rappresentato e difeso dall’avvocato ROBERTA MELAS;
– ricorrente –
BANCO DI SARDEGNA S.P.A., in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PAOLA FALCONIERI 100, presso lo studio dell’avvocato PAOLA FIECCHI, rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE MACCIOTTA;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 385/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 04/11/2014.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/03/2018 dal Presidente ANTONIO MANNA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale RENATO FINOCCHI GHERSI, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, inammissibilità o in subordine rigetto del ricorso incidentale;
uditi gli avvocati Roberto Luca Lo Buono Tajani per delega orale dell’avvocato Roberta Melas e Paola Fiecchi per delega dell’avvocato Giuseppe Macciotta.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza pubblicata il 27.10.15 la Corte d’appello di Cagliari rigettava il gravame di Antonio Angius contro la sentenza del 5.10.12 con cui il Tribunale della stessa sede aveva respinto la sua impugnativa del licenziamento intimatogli con lettera dell’8.7.04 dal Banco di Sardegna S.p.A. per superamento del periodo di comporto e dichiarava assorbito l’appello incidentale della società.
2. Statuivano i giudici di merito che, sebbene il periodo di comporto in realtà non risultasse esaurito alla data di intimazione del licenziamento, nondimeno il recesso fosse da considerarsi non già invalido, bensì meramente inefficace fino all’ultimo giorno di malattia, vale a dire fino al 27.7.04, data in cui il periodo massimo di comporto risultava ormai scaduto.
3. Aggiungevano a tal fine che era irrilevante che il lavoratore si fosse presentato in azienda per riprendere servizio nei giorni 14, 15 e 16 luglio 2004, non essendo in possesso d’un certificato medico che ne attestasse la guarigione.
4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Antonio Angius affidandosi a tre motivi, mentre Banco di Sardegna S.p.A. ha resistito con controricorso ed ha spiegato ricorso incidentale basato su un unico motivo.
5. Entrambe le parti hanno poi depositato memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
6. Con ordinanza interlocutoria n. 24766/17 la sezione lavoro di questa S.C. ha rilevato l’esistenza di due non coerenti indirizzi giurisprudenziali: l’uno afferma la mera inefficacia del licenziamento irrogato in costanza di malattia, efficacia posticipata alla cessazione dello stato patologico, l’altro asserisce la nullità del licenziamento irrogato prima che risulti esaurito il periodo di comporto.
7. Pertanto, con la predetta ordinanza interlocutoria i ricorsi sono stati rimessi al Primo Presidente, il quale li ha poi assegnati alle sezioni unite.
6. Le parti hanno depositato nuove memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione dell’art. 2110 cod. civ., censurandosi la decisione di appello per avere ritenuto che il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto e prima della scadenza dello stesso fosse inefficace anziché nullo; si afferma la necessità della sussistenza della situazione giustificativa del recesso datoriale già al momento dell’intimazione del licenziamento, come statuito da varie pronunce di legittimità.
1.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ. e nullità della sentenza perché sorretta da, una motivazione solo apparente, non avendo la Corte di merito chiarito le ragioni della ritenuta preferibilità, rispetto alla tesi della nullità, di quella della mera inefficacia del licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto.
1.3. Il terzo motivo deduce violazione degli artt. 2110 cod. civ. e 49 c.c.n.l. settore credito del 1999 e omesso esame circa un fatto decisivo, rappresentato dal criterio di calcolo utilizzato ai fini del computo del periodo di comporto; in proposito si censura la sentenza impugnata nella parte in cui, pur convenendo con il fatto che i giorni di malattia da considerare nell’arco dei quarantotto mesi, corrispondenti al periodo di comporto, erano settecentotrenta, aveva ritenuto legittimo il licenziamento senza considerare che, ai sensi dell’art. 2110 cod. civ., solo il superamento di detto periodo rendeva legittimo il recesso datoriale; quanto all’omesso esame, esso riguardava l’atto di recesso, la sua interpretazione e la mancata esplicitazione delle ragioni per le quali il riferimento ai settecentotrenta giorni di assenza sarebbe risultato decisivo per ritenere legittimo il licenziamento.
2.1. Con unico motivo il ricorso incidentale deduce violazione dell’art. 2110 cod. civ. e dell’art. 49 c.c.n.l. 9.7.99, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto applicabile il calcolo del comporto secondo il calendario comune anziché in base ad una durata mensile convenzionale di trenta giorni, nonostante che la prassi seguita e il costante orientamento giurisprudenziale in materia militassero nel senso indicato dalla società.
3.1. Il primo motivo del ricorso principale è fondato.
Si, premetta che, secondo ormai consolidato indirizzo interpretativo di questa S.C. (cfr., ex aliis, v. Cass. n. 24525/14; Cass. n. 12031/99; Cass. n. 9869/91), ai sensi dell’art. 2110 cod. civ. illicenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di licenziamento, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. 2119 cod. civ. e agli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966.
D’altronde, il mero protrarsi di assenze oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva – o, in difetto, dagli usi o secondo equità – di per sé non costituisce inadempimento alcuno
(trattandosi di assenze pur sempre giustificate); né per dare luogo a licenziamento si richiede un’accertata incompatibilità fra tali prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo
dell’impresa, ben potendosi intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto pur ove, in concreto, il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali.
In altre parole, nell’art. 2110, comma 2, cod. civ. si rinviene un’astratta predeterminazione (legislativo-contrattuale) del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia od infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale.
Si noti che l’assunto secondo cui quella in esame è un’autonoma fattispecie di licenziamento non è smentito dalla giurisprudenza (v. Cass. n. 284/17; Cass. n. 8707/16; Cass. n. 23920/2010; Cass. n. 23312/2010; Cass. n. 11092/2005) che ritiene tale recesso assimilabile ad uno per giustificato motivo oggettivo anziché per motivi disciplinari: si tratta d’una mera <<assimilazione» (e non <<identificazione») affermata al solo fine di escludere la necessità d’una previa completa contestazione (indispensabile, invece, in tema di responsabilità disciplinare), da parte datoriale, delle circostanze di fatto (le assenze per malattia) relative alla causale e di cui il lavoratore ha conoscenza personale e diretta (fermo restando – ovviamente – l’onere del datore di lavoro di allegare e provare l’avvenuto superamento del periodo di non recedibilità).
3.2. La questione per cui sono state investite queste Sezioni Unite – che risiede nell’alternativa tra il considerare il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia del lavoratore, ma prima del superamento del periodo di comporto, soltanto inefficace fino a tale momento o, invece, il ritenerlo ab origine nullo per violazione dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. – va sgomberata da possibili equivoci.
Invero, i precedenti di Cass. n. 1657/93 e Cass. n. 9037/01, nell’affermare che il licenziamento intimato in ragione del protrarsi delle assenze per malattia del lavoratore, ma prima che si sia esaurito il periodo di conservazione del posto di lavoro (previsto dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, dagli usi o stabilito secondo equità), è meramente inefficace fino a quando tale periodo non si consumi, rinviano puramente e semplicemente a Cass. n. 1151/88 e a Cass. n. 9032/2000, che tuttavia, a ben vedere, muovono da presupposti diversi.
Infatti, Cass. n. 1151/88 statuisce che prima che scada il comporto non è consentito licenziare il lavoratore per perdurante morbilità, a meno che non ricorra l’ipotesi – eccezionale e diversa dal quella oggi in esame – di malattia irreversibile e inemendabile tale da rendere certo che il dipendente non sarà più in grado di riprendere la propria normale attività lavorativa. È chiaro che in siffatta evenienza il licenziamento non deriva più dal protrarsi delle assenze per malattia, ma da una differente situazione che a sua volta prescinde anche da eventuali assenze del lavoratore e dalla loro durata, ossia scaturisce dall’impossibilità di proseguire il rapporto per sopravvenuta inidoneità fisica del dipendente (accertabile ai sensi dell’art. 5, comma 2, legge n. 300 del 1970): quest’ultima è una fattispecie ben distinta (come questa S.C. ha evidenziato fin da Cass. n. 140/83 e, in tempi meno remoti, con Cass. n. 1404/12) da quella per cui oggi è processo.
Neppure il richiamo alla citata Cass. n. 9032/2000 è conferente, poiché tale sentenza si occupa della mera questione interpretativa – e del relativo onere probatorio – della condotta datoriale che si sia risolta nell’intimare il licenziamento pur sempre dopo la scadenza del periodo di comporto.
In realtà, le sentenze di questa S.C. che hanno statuito il differimento dell’efficacia del licenziamento sino allo scadere del periodo di comporto l’hanno fatto in relazione a licenziamenti alla cui base vi era già un motivo di recesso diverso e autonomo dal mero protrarsi della malattia, vale a dire a licenziamenti intimati o per giustificato motivo oggettivo (Cass. n. 23063/13 e Cass. n. 4394/88), o per giustificato motivo oggettivo derivante da sopravvenuta inidoneità a determinate mansioni (Cass. n. 239/05), o per riduzione di personale (Cass. n. 7098/90), o per giusta causa (Cass. n. 11087/05), o per giustificato motivo oggettivo rispetto al quale era, poi, sopraggiunta una giusta causa di recesso considerata come idonea di per sé p risolvere immediatamente il rapporto, ancpr prima che cessasse lo stato di malattia (Cass. n. 64/17), o per licenziamento ad nutum (Cass. n. 133/89).
In tutte tali evenienze, dunque, il perdurante stato di malattia funge non già da motivo di recesso, ma da elemento ad esso estrinseco e idoneo soltanto a differire l’efficacia del licenziamento, mentre nella vicenda di cui oggi si controverte tale situazione integra di per sé l’unica ragione del licenziamento medesimo.
Pertanto, in tale giurisprudenza il richiamo al differimento dell’efficacia del recesso datoriale sino alla cessazione della malattia o fino all’esaurirsi del periodo di comporto vale solo a ribadire la nota regola in virtù della quale la quiescenza del rapporto (conseguente all’assenza per malattia od infortunio) impedisce l’immediato prodursi dell’effetto risolutivo: si tratta di asserto ininfluente ai fini della questione in oggetto.
In breve, le uniche sentenze (Cass. n. 9037/01 e Cass. n. 1657/93) che hanno espressamente affermato che il licenziamento intimato solo per perdurante morbilità e prima dello scadere del periodo di comporto sia valido, ancorché meramente inefficace fino alla scadenza medesima, si sono basate su precedenti giurisprudenziali che – in realtà – statuivano altro.
3.3. L’opzione interpretativa secondo cui sarebbe già validamente disposto il licenziamento per il protrarsi delle assenze per malattia del lavoratore, con l’unico limite del mero differimento dell’efficacia del recesso fino a quando non si sia consumato il periodo massimo di comporto, contrasta con la sentenza n. 2072/80 di queste Sezioni Unite e con la successiva conforme giurisprudenza – cui deve darsi continuità anche nella presente sede – ed è altresì impraticabile in termini di coerenza, dogmatica all’interno della teoria generale del negozio giuridico.
La citata sentenza n. 2072/80 delle Sezioni Unite già da lungo tempo ha statuito che ai sensi dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. (riferito tanto al comporto c.d. secco quanto a quello c.d. per sommatoria) il datore di lavoro può recedere dal rapporto solo dopo la scadenza del periodo all’uopo fissato dalla contrattazione collettiva (ovvero, in difetto, determinato secondo usi o equità) ed ha espressamente escluso che reiterate assenze per malattia del dipendente integrino un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ai sensi dell’art. 3 legge n. 604 del 1966.
Ammettere come valido (sebbene momentaneamente inefficace) il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto significherebbe consentire un licenziamento che, all’atto della sua intimazione, è ancora sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo e non è sussumibile in altra autonoma fattispecie legittimante.
Si tratterebbe, quindi, d’un licenziamento sostanzialmente acausale (nell’accezione giuslavoristica del termine) disposto al di fuori delle ipotesi residue previste dall’ordinamento (lavoratori in prova, dipendenti domestici, dirigenti, lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia).
Sarebbe – questo – un modo per aggirare l’interpretazione (accolta dalla costante giurisprudenza di questa S.C.) dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. e di ignorarne la ratio, che è quella di garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia od infortunio senza per ciò solo perdere l’occupazione.
Né si dica che il fatto giustificativo debba essere valutato non in concreto, bensì in astratto ed ex ante, secondo la prospettiva del datore di lavoro al momento di intimazione del licenziamento, fermo restando che il fatto medesimo dovrà poi essere accertato in sede giudiziaria: ove pure il datore di lavoro fosse convinto, nel momento in cui ha comunicato il licenziamento, dell’avvenuta consumazione del periodo di comporto, non per questo il licenziamento potrebbe considerarsi meramente inefficace sol in base all’erroneo calcolo effettuato dal dichiarante.
Infatti, mentre l’oggetto dell’accertamento giurisdizionale va calibrato in ragione del motivo di licenziamento enunciato, l’individuazione dell’eventuale sanzione applicabile (nullità, inefficacia, annullamento etc.) va pur sempre parametrata al fatto come in concreto emerso all’esito del giudizio, a prescindere dall’originaria prospettiva di parte datoriale.
Ad esempio, un licenziamento nullo (v. art. 18, comma 1, legge n. 300 del 1970, nel testo novellato ex lege n. 92 del 2012) perché discriminatorio o viziato da motivo illecito e determinante non si sottrarrà alla sanzione della nullità sol perché nella lettera di licenziamento sia stata enunciata un’inesistente infrazione disciplinare astrattamente integrante giusta causa di recesso.
Neppure può distinguersi fra il caso in cui il datore di lavoro abbia erroneamente calcolato le assenze e/o i termini interno ed esterno del comporto e quello in cui egli, pur consapevole del mancato esaurirsi del comporto medesimo, nondimeno abbia ritenuto di poter licenziare il dipendente per il solo fatto d’una eccessiva morbilità: in entrambe le evenienze il licenziamento risulterà difforme dal modello legale delineato dall’art. 2110, comma 2, cod. civ. (come interpretato da costante giurisprudenza di questa S.C.).
L’opzione ermeneutica della mera inefficacia non può suffragarsi neppure adducendo che, ad ogni modo, la fattispecie legittimante il recesso (vale a dire il, superamento del periodo di comporto) si
potrebbe realizzare successivamente: a ciò è agevole obiettare che i requisiti di validità del negozio vanno valutati al momento in cui viene posto in essere (sulla necessità che i requisiti di validità del licenziamento sussistano al momento in cui esso si perfeziona v. Cass. n. 7596/03) e non già al momento della produzione degli effetti (salvo il caso, che qui non ricorre, disciplinato dall’art. 1347 cod. civ.).
Intuitive esigenze di coerenza dogmatica all’interno della teoria generale del negozio giuridico sconsigliano forzature.
3.4. Per completezza espositiva deve infine segnalarsi che, nel caso di specie, neppure la tesi della mera inefficacia del licenziamento intimato prima dello spirare del termine di comporto consentirebbe il rigetto della domanda di reintegra, atteso che dalla sentenza impugnata emerge che il termine massimo di comporto sarebbe spirato (secondo i calcoli effettuati dai giudici di merito) il 27 luglio 2004, mentre già nei giorni 14, 15 e 16 luglio 2004 il ricorrente si era presentato in azienda per riprendere servizio, non riuscendovi sol perché la società aveva rifiutato la sua prestazione pretendendo che presentasse un certificato di avvenuta guarigione.
A tale ultimo proposito va puntualizzato che – contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata – per poter riprendere il lavoro il prestatore non ha l’onere di munirsi di un tale certificato, non esistendo nel settore creditizio alcuna norma di legge in tal senso.
Né un onere del genere potrebbe ricavarsi dall’art. 41, comma 2, lett. e-ter), d.lgs. n. 81 del 2008, come modificato dalla legge n. 106 del 2009, che si limita a prevedere che la sorveglianza sanitaria sia effettuata dal medico competente (di cui al precedente art. 38), anche mediante visita sanitaria precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute protrattasi per più di sessanta giorni continuativi, visita finalizzata a verificare l’idoneità alle mansioni: si tratta di controllo che la legge non configura come condicio iuris della ripresa dell’attività lavorativa e che, per di più, va attivato ad iniziativa datoriale e non del lavoratore.
Infatti, non solo il «medico competente», come definito dall’art. 2, comma 1, lett. h), cit. d.lgs. n. 81 del 2008, è nominato dallo stesso datore di lavoro, con il quale collabora, ma il comma 4 del cit. art. 41 stabilisce che le visite mediche di cui al comma 2 sono «a cura e spese del datore di lavoro», al punto che la loro omissione può anche costituire grave inadempimento del datore di lavoro che, se del caso, legittima l’eccezione di inadempimento del lavoratore ex art. 1460 cod. civ. (come questa S.C. ha già avuto modo di pronunciarsi con sentenza n. 24459/16).
3.5. Deve altresì escludersi che il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla sua scadenza, sia meramente ingiustificato, tale dovendosi – invece – considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d’un giustificato motivo o d’una giusta causa che risulti, poi, smentita (in punto di fatto e/o di diritto) all’esito della verifica giudiziale.
Al contrario, come premesso nel paragrafo che precede sub 3.1., il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. art. 2119 cod. civ. e agli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966.
Prova ne sia che la giurisprudenza di questa S.C., disattendendo un contrario e minoritario indirizzo dottrinale, ha sempre statuito – e da lungo tempo – che l’avvenuto decorso del termine di comporto abilita senz’altro il datore di lavoro a recedere per tale solo fatto, vale a dire senza che siano necessarie la sussistenza e l’allegazione di ulteriori elementi integranti un giustificato motivo a norma dell’art. 3 legge n. 604 del 1966 (cfr. Cass. n. 9869/91; Cass. n. 382/88; Cass. n. 2090/81; Cass. n. 1277/80; Cass. n. 2971/79; Cass. n. 2491/79).
Né per definire come meramente ingiustificato il licenziamento intimato prima dello spirare del termine massimo di comporto si dica che, esclusa tale ipotesi, quel che residua è un licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo e, come tale, ingiustificato: si tratta d’un mero artificio dialettico che trascura il dato di fatto che il licenziamento è stato pur sempre intimato per il protrarsi delle assenze del lavoratore sul presupposto giuridicamente erroneo (perché contrastante con l’art. 2110, comma 2, cod. civ.) che ciò sia consentito ancora prima dello spirare del termine massimo di comporto.
Diversamente opinando, qualunque licenziamento nullo (perché discriminatorio, viziato da motivo illecito determinante o lesivo di norma imperativa di legge) verrebbe pur sempre a collocarsi nell’area della mera mancanza di giustificazione.
3.6. Deve, invece, darsi continuità alla giurisprudenza di questa S.C. che considera nullo il licenziamento intimato solo per il protrarsi delle assenze dal lavoro, ma prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto (cfr. Cass. n. 24525/14; Cass. n. 1404/12; Cass. n. 12031/99; Cass. n. 9869/91).
Muovendo dall’interpretazione, dell’art. 2110, comma 2, cod. civ. accolta fin dalla summenzionata Cass. S.U. n. 2072/80, va evidenziato che il carattere imperativo della norma, in combinata lettura con l’art. 1418 stesso codice, non consente soluzioni diverse.
È noto che dottrina e giurisprudenza definiscono l’imperatività delle norme in rapporto all’esigenza di salvaguardare valori morali o sociali o valori propri d’un dato ordinamento giuridico.
E il valore della tutela della salute è sicuramente prioritario all’interno dell’ordinamento – atteso che l’art. 32 Cost. lo definisce come «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» – così come lo è quello del lavoro (basti pensare, in estrema sintesi, agli artt. 1, comma 1, 4, 35 e ss. Cost.).
In questa cornice di riferimento è agevole evidenziare come la salute non possa essere adeguatamente protetta se non all’interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro.
All’affermazione della nullità del licenziamento in discorso non osta l’avere il vigente testo dell’art. 18 legge n. 300 del 1970 (come novellato ex lege n. 92 del 2012) collocato la violazione dell’art. 2112, comma 2, cod. civ., nel comma 7 anziché nel comma 1 (riservato ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge), con conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato anziché pieno.
Infatti, in considerazione d’un minor giudizio di riprovazione dell’atto assunto in violazione di norma imperativa, ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullità, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell’art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta ,nel comma 1 là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge.
3.6. La tesi – qui confermata – della nullità del licenziamento intimato prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto non presenta le controindicazioni ipotizzate da talune voci di dottrina.
Non si ravvisa quella secondo cui addosserebbe al datore di lavoro un onere eccessivo, vale a dire quello dell’esatto calcolo del comporto massimo applicabile al singolo caso: a parte il rilievo che in ogni ipotesi di recesso diverso da quello ad nutum il datore di lavoro sopporta il rischio d’un licenziamento viziato da un’erronea valutazione dello stato di fatto e/o di diritto che lo consenta (sicché non si comprende perché la soluzione dovrebbe qui essere difforme), basti osservare che eventuali incertezze a riguardo possono essere superate prudenzialmente attendendo una sicura verifica e, se del caso, posticipando la decisione al rientro del lavoratore.
Infatti, come questa S.C. ha già avuto modo di statuire (cfr. Cass. n. 18411/16; Cass. n. 24899/11), fermo restando il potere datoriale di recedere non appena esaurito il periodo comporto e, quindi, anche prima del rientro al lavoro del dipendente, nondimeno il datore di lavoro ha altresì la facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del lavoratore all’interno dell’assetto organizzativo, se del caso mutato, dell’azienda.
Ne deriva che solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore l’eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinunciare all’esercizio del potere di licenziamento e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente.
Né un’eventuale errore di calcolo del termine massimo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva – errore che abbia indotto il datore di lavoro ad anticipare il licenziamento rispetto al reale momento di esaurimento di tale periodo – impedisce che il licenziamento, nullo, possa poi essere tempestivamente rinnovato una volta che le assenze del lavoratore effettivamente superino il termine massimo di conservazione del posto di lavoro.
Infatti, all’interno della stessa giurisprudenza che afferma la nullità – e non la mera inefficacia – del licenziamento intimato prima che il periodo di comporto si sia esaurito, emerge altresì la statuizione che consente il rinnovo dell’atto di recesso una volta che sopraggiunga la scadenza del temine massimo di comporto, atteso che il nuovo licenziamento, risolvendosi in un negozio diverso dal precedente, esula dal divieto di cui all’art. 1423 cod. civ. (cfr. Cass. n. 24525/14).
4.1. L’accoglimento del primo motivo del ricorso principale assorbe la disamina del secondo e del terzo.
5.1. Il ricorso incidentale è inammissibile per mancanza di interesse.
Infatti, essendo indirizzato non già contro una statuizione della sentenza di merito (che ha visto totalmente vittoriosa la S.p.A. Banco di Sardegna), ma solo contro il passaggio motivazionale in cui la Corte territoriale calcola il periodo di comporto, risulta proposto in difetto di quella soccombenza che costituisce il presupposto indispensabile dell’impugnazione (cfr., da ultimo e per tutte, Cass. n. 22095/17), non potendo impugnarsi una pronuncia giurisdizionale al solo fine di correggerne la motivazione , (cfr., ex aliis, Cass. n. 18674/11; Cass. n. 14970/07; Cass. n. 6601/05; Cass. n. 9637/01; Cass. n. 8924/98).
Né la carenza di interesse viene meno sol per l’accoglimento del primo motivo del ricorso principale, atteso che in tal caso il ricorrente incidentale ha la facoltà di riproporre al giudice del rinvio le questioni non accolte o ritenute assorbite dalla sentenza cassata (cfr., ancora da ultimo e per tutte, Cass. n. 22095/17, cit.).
6.1. In conclusione, accolto il primo motivo del ricorso principale, vanno dichiarati assorbiti il secondo e il terzo, mentre deve dichiararsi inammissibile il ricorso incidentale.
Per l’effetto, si cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e si rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Cagliari in diversa composizione, che si atterrà al seguente principio di diritto:
«Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, cod. civ.».
P.Q.M.
accoglie il primo motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti il secondo e il terzo, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Cagliari in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 13.3.2018.
L’estensore
Dott. Antonio Manna
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 19 ottobre 2017, n. 24766, per SS.UU, 22 moggio 2018, n. 12568, in tema di licenziamento
SS.UU, 22 maggio 2018, n. 12568, in tema di licenziamento
In tema di luogo dell’adempimento – SS.UU, 13 settembre 2016, n. 17989
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RENATO RORDORF – Primo Presidente f.f. –
Dott. GIOVANNI AMOROSO – Presidente Sezione –
Dott. ANIELLIO NAPPI – Presidente Sezione –
Dott. ETTORE CIRILLO – Consigliere –
Dott. BRUNO BIANCHINI – Consigliere –
Dott. ADELAIDE AMENDOLA – Consigliere –
Dott. GIUSEPPE BRONZINI – Consigliere –
Dott. CARLO DE CHIARA – Rel. Consigliere –
Dott. FRANCO DE STEFANO – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 25410/2014 proposto da:
(omissis) S-P.A. elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (omissis) presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (omissis) e (omissis), per delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(omissis) S.R.L;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2751/2014 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il 24/09/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/05/2016 dal Consigliere Dott. CARLO DE CHIARA;
udito l’Avvocato (omissis)
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. TOMMASO BASILE, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il (omissis) s.p.a., con sede in (omissis), convenne davanti al Tribunale di Firenze (nel cui circondario rientra (omissis)) la (omissis) s.r.l. di (omissis) per il pagamento di 9.000 euro più IVA quale corrispettivo di un servizio (studio e sviluppo di due linee di calzature) reso alla convenuta.
Accogliendo l’eccezione di quest’ultima il giudice adito si è dichiarato incompetente in favore del Tribunale di Macerata, individuato sia quale foro del convenuto, sia quale foro in cui era sorta l’obbligazione, sia quale foro del pagamento della somma di danaro oggetto della causa. In particolare, quanto a quest’ultimo criterio di collegamento (i primi due pacificamente radicando presso il tribunale marchigiano la competenza sulla domanda della società attrice), ha osservato che le obbligazioni pecuniarie si identificano – anche ai fini di cui all’art. 1182, terzo comma, c.c., che ne prevede l’adempimento al domicilio del creditore – esclusivamente in quelle sorte originariamente come tali, ossia aventi ad oggetto sin dalla loro costituzione la prestazione di una determinata somma di denaro; con la conseguenza che nella specie non può farsi applicazione della predetta norma, non essendo indicato nel contratto l’importo del corrispettivo spettante all’attrice, onde il luogo di adempimento dell’obbligazione, rilevante agli effetti della determinazione del giudice competente ai sensi dell’art. 20 c.p.c., ult. parte, si identifica, ai sensi del richiamato art. 1182, comma 4, nel domicilio della società debitrice.
Il (omissis) ha proposto ricorso per regolamento di competenza, cui non ha resistito l’intimata (omissis)
Il ricorso è stato inizialmente esaminato in camera di consiglio della Sesta Sezione civile – Sottosezione Seconda, davanti alla quale P.M. ha concluso, ai sensi dell’art. 380 ter c.p.c., per l’accoglimento dell’istanza di regolamento, identificandosi il forum destinatae solutionis con quello del domicilio del creditore tutte le volte che quest’ultimo chieda in giudizio, come nella specie, il pagamento di una somma di denaro determinata, senza che rilevi, ai fini della competenza territoriale, la maggiore o minore complessità dell’indagine sull’ammontare effettivo del credito.
La Sesta Sezione ha promosso l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite avendo rilevato l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla questione “se sia applicabile l’art. 1182 c.c., comma 3, qualora nel contratto non risulti predeterminato l’importo del corrispettivo di una prestazione, ma tale importo venga autodeterminato dall’attore nell’atto con cui fa valere la propria pretesa creditoria”.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Davanti a queste Sezioni Unite il ricorso è stato discusso in pubblica udienza ancorchè, trattandosi di regolamento di competenza, sarebbe stata più corretta la trattazione in camera di consiglio. Tale irregolarità, tuttavia, non ha conseguenze sulla validità degli atti poichè la pubblica udienza assicura alle parti garanzie non certo minori del procedimento camerale.
2. – Secondo l’ordinanza di rimessione della Sesta Sezione, il contrasto di giurisprudenza da dirimere attiene al concetto di obbligazione pecuniaria rilevante ai sensi dell’art. 1182 c.p.c., comma 3, e sussiste tra:
a) un primo orientamento (per il quale l’ordinanza menziona Cass. 22326/2007) secondo cui, ove la somma di danaro oggetto dell’obbligazione debba essere ancora determinata dalle pani o, in loro sostituzione, liquidata dal giudice mediante indagini ed operazioni diverse dal semplice calcolo aritmetico, trova applicazione l’art. 1182, comma 4, secondo cui l’obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza;
b) un secondo orientamento (al quale vengono ricondotte Cass. 7674/2005, 12455/2010, 10837/2011, richiamate nel ricorso per regolamento e nella requisitoria scritta del P.M.) secondo cui il forum destinatae solutionis previsto dall’art. 1182, comma 3, è applicabile in tutte le cause aventi ad oggetto una somma di denaro qualora l’attore abbia richiesto il pagamento di una somma determinata, non incidendo sulla individuazione della competenza territoriale la maggiore o minore complessità dell’indagine sull’ammontare effettivo del credito, che attiene esclusivamente alla successiva fase di merito.
L’ordinanza evidenzia che, secondo quest’ultimo orientamento, è irrilevante che la prestazione richiesta non sia convenzionalmente prestabilita, essendo sufficiente che l’attore abbia agito per il pagamento di una somma da lui puntualmente indicata.
Soggiunge che il contrasto ha talora trovato “una via di fuga” nel rilievo che ai fini della competenza occorre avere riguardo ai fatti per come prospettati dall’attore, prescindendo dalla fondatezza delle contestazioni sollevate del convenuto o comunque concernenti il merito della causa.
3. – Può osservarsi anzitutto che il contrasto non riguarda la necessità del requisito della liquidità affinchè un’obbligazione pecuniaria debba essere adempiuta al domicilio del creditore (requisito in realtà non espressamente previsto dalla legge, tanto che in dottrina non è mancato chi ne ha ritenuto la natura puramente pretoria); riguarda piuttosto il modo di intendere tale requisito.
In effetti nella giurisprudenza di legittimità non è stato mai messo in discussione che obbligazioni pecuniarie “portabili”, ai sensi dell’art. 1182 c.c., comma 3, sono soltanto quelle liquide, essendo assolutamente consolidato il principio che detta disposizione si riferisce alle sole obbligazioni pecuniarie derivanti da titolo convenzionale o giudiziale che ne abbia stabilito la misura, trovando altrimenti applicazione la regola di cui al quarto comma, per la quale la prestazione va eseguita al domicilio del debitore (i precedenti sono numerosissimi, ci si limita a segnalarne alcuni: Cass. 391/1966, 3422/1972, 2591/1997, 21000/2011), precisandosi che la liquidità sussiste anche nel caso
in cui l’ammontare del credito può essere determinato con un semplice calcolo aritmetico e senza indagini od operazioni ulteriori (a Cass. 22326/2007, già richiamata nell’ordinanza di rimessione, si aggiungano, tra le altre, Cass. 3422/1971, 3538/1995, 3808/1999, 4511/2001, 10226/2001, 7021/2002, 9092/2004, 22306/2007) in base a quanto risulta dal titolo.
Si è altresì precisato che sulla determinazione del forum destinatae solutionis a norma dell’art. 1182 c.c., comma 3, e art. 20 c.p.c., seconda parte, non può influire l’eccezione del convenuto che neghi l’esistenza dell’obbligazione, perchè il principio stabilito dall’art. 10 c.p.c., per la determinazione della competenza per valore – secondo il quale il collegamento tra il giudice e la controversia è determinato in base alla domanda – è una regola di portata generale e quindi applicabile anche ai criteri stabiliti per determinare la competenza territoriale per le cause relative a diritti di obbligazione, ai sensi dell’art. 20 c.p.c., sui quali perciò non influisce la fondatezza o meno della domanda (Cass. 789/1998, 1877/1999, 8121/2003, 20177/2004, 8359/2005, 11400/2006); mentre l’unico limite alla rilevanza dei fatti allegati dall’attore ai fini della determinazione della competenza è l’eventuale prospettazione artificiosa, finalizzata a sottrarre la controversia al giudice precostituito per legge (Cass. 10226/2001,8189/2012).
Anche queste Sezioni Unite, allorchè sono state chiamate a pronunciarsi sull’applicabilità del terzo ovvero del quarto comma dell’art. 1182 c.c., al fine di individuare il forum destinatae solutionis quale criterio speciale di competenza giurisdizionale in materia contrattuale, a norma dell’art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 e dell’art. 5, n. 1, del Regolamento (CE) n. 44/2001 del 22 dicembre 2000, hanno confermato la necessità del requisito della liquidità delle obbligazioni pecuniarie (v.sentenze 9214/1987, 5899/1997), nonchè l’indifferenza delle contestazioni del convenuto circa la sussistenza dell’obbligazione dedotta in giudizio dall’attore, poichè anche la giurisdizione nei confronti dello straniero deve essere riscontrata in base alla domanda, indipendentemente da ogni questione circa il suo fondamento nel merito, non operando tale principio solo nel caso in cui la prospettazione della domanda sia artificiosamente finalizzata a sottrarre la controversia al giudice precostituito per legge (ordinanza 6217/2006, sentenza 13900/2013).
Proprio la necessità di fare riferimento alla domanda, secondo la regola dettata dall’art. 10 c.p.c., è alla base dell’orientamento, richiamato dalla ricorrente e dal P.M., che considera sufficiente a integrare il requisito della liquidità dell’obbligazione, al fine di rendere quest’ultima “portabile” ai sensi dell’art. 1182 c.c., comma 3, la quantificazione della propria pretesa da parte dell’attore.
Si legge in Cass. 7674/2005, che ha introdotto tale orientamento, cui si sono poi uniformare Cass. 12455/2010 e 10837/2011, citt.: “Occorre ricordare che, a norma dell’art. 10 c.p.c., il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda, e, più precisamente, per l’art. 14 comma 1, nelle cause relative a somme di danaro (…) il valore si determina in base alla somma indicata (…) dall’attore. Per esigenze di armonia ed omogeneità del sistema, la stessa regola deve valere, nei limiti del possibile, anche ai fini della competenza per territorio, nel senso che anche per questa dovrà tenersi conto non dell’effettiva realtà sostanziale sottostante alla domanda, ma del tenore di quest’ultima, indipendentemente dal suo maggiore o minore fondamento. E pertanto, nelle obbligazioni, come quella dedotta in giudizio, aventi ad oggetto una somma di denaro determinata, n’entrano nella previsione dell’art. 1182 c.c., comma 3, quelle che siano come tali indicate dall’attore, mentre il diverso e successivo problema della effettiva sussistenza di esse attiene al merito (vedansi, sul punto, Cass. 27 gennaio 1998 n. 789; 5 marzo 1999 n. 1877). Nella specie il giudice a quo (…) avrebbe dovuto pertanto rivolgere la propria attenzione al contenuto dell’atto di citazione, e, poichè esso indicava, quale credito dell’attrice, una specifica somma di denaro asseritamente dovuta per effetto del rapporto contrattuale tra le parti (…), avrebbe dovuto riconoscere che trattavasi di una somma di ammontare già determinato e trarne le debite conseguenze in termini di competenza“. Con il che la mera quantificazione della pretesa da parte dell’attore fa premio sull’intrinseca liquidità della stessa, la prospettazione della domanda nel processo prevale sulle caratteristiche sostanziali del diritto azionato.
4. – Ritengono queste Sezioni Unite che il contrasto così determinatosi rispetto all’orientamento, in precedenza costante, che richiedeva la effettiva liquidità dell’obbligazione, in base al titolo, ai fini della qualificazione dell’obbligazione stessa come portabile, per gli effetti di cui al combinato disposto dell’art. 1182 c.c., comma 3, e art. 20 c.p.c., vada risolto confermando l’orientamento tradizionale.
4.1. – Tra le obbligazioni pecuniarie, invero, quelle illiquide hanno una particolarità: ai fini dell’adempimento del debitore è necessario un passaggio ulteriore, è necessario cioè un ulteriore titolo, convenzionale o giudiziale.
Questa particolarità non è indifferente rispetto alla disciplina di tale categoria di obbligazioni.
Si consideri che la nozione di obbligazione portabile, di cui all’art. 1182 c.c., comma 3, rileva non soltanto ai fini dell’individuazione del forum destinatae solutionis contemplato dall’art. 20 c.p.c., seconda parte, ma anche ai fini del prodursi della mora ex re ai sensi dell’art. 1219 c.c., comma 2, n. 3, che esclude la necessità della costituzione in mora “quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore”, come appunto stabilito per le obbligazioni pecuniarie dall’art. 1182, comma 3, cit..
La giurisprudenza di questa Corte nega che la mora ex re si verifichi anche per le obbligazioni pecuniarie illiquide (Cass. 535/1999, 9092/2004). Se tra le obbligazioni pecuniarie “portabili” contemplate da tale disposizione rientrassero quelle illiquide, la mora – e con essa la responsabilità ai sensi dell’art. 1224 c.c. – scatterebbe automaticamente anche a carico del debitore la cui prestazione non sia in concreto possibile perchè l’ammontare della sua prestazione è ancora incerto: il che sarebbe ingiustificato, nonchè contrario al sistema, il quale esclude la responsabilità del debitore la cui prestazione sia impossibile per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). L’interpretazione restrittiva della nozione di obbligazione portabile è inoltre coerente anche con il favor debitoris che ispira la regola generale di cui all’art. 1182, comma 2, n. 4 cit..
Le indicate esigenze di protezione del debitore, che sono a fondamento dell’interpretazione restrittiva dell’art. 1182 c.c., comma 3, richiedono evidentemente che la liquidità del credito sia ancorata a dati oggettivi, mentre sarebbero frustrate se essa si facesse coincidere con la pura e semplice precisazione, da parte dell’attore, della somma di denaro dedotta in giudizio, pur in mancanza di indicazioni nel titolo, come sostenuto da Cass. 7674/2005, cit., e dagli altri precedenti che vi si richiamano discostandosi dall’orientamento tradizionale. In tal modo, infatti, non il dato oggettivo della liquidità del credito radicherebbe la controversia presso il forum creditoris, bensì il mero arbitrio del creditore stesso, il quale scelga di indicare una determinata somma come oggetto della sua domanda giudiziale, con conseguente lesione anche del principio costituzionale del giudice naturale.
Va dunque ribadito che rientrano nella previsione di cui all’art. 1182 c.c., comma 3, esclusivamente le obbligazioni pecuniarie liquide, il cui ammontare, cioè, sia determinato direttamente dal titolo ovvero possa essere determinato in base ad esso con un semplice calcolo aritmetico.
4.2. – Peraltro il riferimento di alcuni precedenti di legittimità (sopra richiamati al capoverso del p.3) alla non necessità di indagini ulteriori ai fini della liquidazione del credito, quale requisito di liquidità dello stesso, ha determinato il prodursi di qualche equivoco, di cui vi è traccia nella requisitoria scritta del P.M. davanti alla Sesta Sezione, nella quale non a caso viene sottolineata l’irrilevanza, ai fini della determinazione della competenza territoriale ai sensi dell’art. 20 c.p.c., ultima parte, della “maggiore o minore complessità dell’indagine sull’ammontare effettivo del credito, la quale attiene esclusivamente alla successiva fase di merito”.
Si impone, pertanto, una puntualizzazione.
Liquidità, come si è visto, significa che la somma dovuta risulta dal titolo e dunque non è necessario, per determinarla, un ulteriore titolo negoziale o giudiziale. L’ammontare della somma dovuta potrà risultare direttamente dal titolo originario, che la precisi, oppure solo indirettamente dallo stesso, allorchè questo indichi il criterio o i criteri applicando i quali tale somma va determinata (cfr. Cass. 19958/2005). Deve trattarsi, però, di criteri stringenti, tali, cioè, che la somma risultante dalla loro applicazione sia necessariamente una ed una soltanto: questo è ciò che si intende affermare, nella giurisprudenza di questa Corte, allorchè si ammette una liquidità scaturente da semplici operazioni aritmetiche. Se, infatti, il risultato dell’applicazione dei predetti criteri non fosse obbligato, residuando un margine di scelta discrezionale, il credito non potrebbe dirsi liquido, perchè quel margine di discrezionalità non potrebbe essere superato se non mediante un ulteriore titolo (convenzionale o giudiziale).
Dovendo, inoltre, la liquidità del credito essere effettiva, il principio che la competenza va determinata in base alla domanda non può essere esteso sino al punto di consentire all’attore di dare dei fatti una qualificazione giuridica diversa da quella prevista dalla legge, o di allegare fatti (ad esempio un contratto che indichi l’ammontare del credito) privi di riscontro probatorio. Resta fermo, ovviamente, che tali fatti sono accertati dal giudice, ai soli fini della competenza, allo stato degli atti secondo la regola di cui all’art. 38 c.p.c., u.c..
4.3. – Può in conclusione enunciarsi il seguente principio di diritto: “Le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditore, secondo il disposto dell’art. 1182 c.c., comma 3, sono – agli effetti sia della mora ex re ai sensi dell’art. 1219 c.c., comma 2, n. 3, sia della determinazione del forum destinatae solutionis ai sensi dell’art. 20 c.p.c., ultima parte, – esclusivamente quelle liquide, delle quali, cioè, il titolo determini l’ammontare, oppure indichi i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale, e i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti secondo quanto dispone l’art. 38 c.p.c., u.c. “.
5. – Tanto premesso, l’istanza di regolamento deve essere respinta, atteso che dalla ricorrente non viene neppure dedotto che nel contratto fosse indicato l’ammontare del credito dell’attrice o i criteri per determinarlo.
In mancanza di attività difensiva della parte intimata non occorre provvedere sulle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il 3 maggio 2016.
Il Consigliere relatore
Carlo De Chiara
Il Primo Presidente f.f.
Renato Rordorf
Allegati:
SS.UU, 13 settembre 2016, n. 17989, in tema di luogo dell’adempimento
In tema di eccezione di compensazione – SS.UU, 15 novembre 2016, n. 23225
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CANZIO Giovanni – Primo Presidente –
Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –
Dott. CHIARINI Maria Margherita – rel. Presidente Sezione –
Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –
Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –
Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 24178/2012 proposto da:
AI MORI DI L.F. & C. S.N.C., in persona dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CESI 72, presso lo studio dell’avvocato LUIGI ALBISINNI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati CARLO STRAULINO e GIOVANNI CESARI, per delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
GEFIM RE S.R.L., (già GEFIM IMMOBILIARE DI E.S. & C. S.A.S.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DEI MELLINI 10, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO CASTELLANI, rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLA GIGLIO, per delega a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1106/2012 del TRIBUNALE di VENEZIA, depositata il 19/06/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/03/2016 dal Presidente Dott. MARIA MARGHERITA CHIARINI;
udito l’Avvocato Filippo CASTELLANI per delega dell’avvocato Paola Giglio;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per l’accoglimento dei primi due motivi del ricorso, assorbiti gli altri.
Svolgimento del processo
1.– Il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 1160 in data 27 aprile 2009, accolse l’opposizione della società Ai Mori al decreto ingiuntivo ottenuto dalla società GE.F.IM. e condannò quest’ultima al pagamento delle spese di giudizio (Euro 2.240,29).
La società ai Mori, con atto notificato l’11 febbraio 2010, intimò alla società GE.F.IM. precetto per il pagamento, oltre le spese.
L’intimata si oppose all’esecuzione dinanzi al giudice di Pace di Venezia contestando alcuni diritti di procuratore richiesti ed eccependo la compensazione legale del debito, fino alla concorrenza, con un credito di minor importo ex altera causa, ma omogeneo – condanna della società ai Mori a rimborsarle le spese giudiziali, emessa con sentenza n. 16 del Tribunale di Venezia il 5 gennaio 2010 – e chiese di accertare l’inefficacia o la nullità del precetto per le somme non dovute, con vittoria di spese, quantificando il residuo credito della società ai Mori in Euro 1.640,35.
La società Ai Mori eccepì la cessazione della materia del contendere perchè il 15 marzo 2010 la GE.F.IM. aveva pagato all’ufficiale giudiziario senza riserve l’importo intimato.
Si oppose alla compensazione perchè il controcredito – spese giudiziali – non era certo in quanto la sentenza del Tribunale n. 16 del 5 gennaio 2010 non era passata in giudicato, e contestò la voce “spese per registrazione sentenza”.
2.– Con sentenza del 16 luglio 2010 il Giudice di Pace accolse l’opposizione poichè a decorrere dalla pubblicazione della sentenza a favore della GE.FI.M. – 5 gennaio 2010 – era venuto a coesistenza il credito, liquido ed esigibile, di detta società; dichiarò perciò l’estinzione dei crediti, fino alla concorrenza, accertò il residuo credito della società ai Mori (Euro 1.140) e dichiarò la nullità del precetto per l’eccedenza. Poichè la società GE.F.IM. aveva pagato all’ufficiale giudiziario la somma intimata, condannò la società Ai Mori a restituire alla società GE.F.IM. la somma di Euro 2.183,33 oltre agli interessi dal giorno del pagamento all’ufficiale giudiziario.
La società Ai Mori propose appello per erronea applicazione dell’art. 1243 c.c., perchè il credito opposto in compensazione dalla GE.F.IM. non era certo sì che il giudice dell’opposizione all’esecuzione non poteva dichiarare l’estinzione di ogni reciproca ragione fino alla concorrenza, travalicando l’ambito del relativo giudizio, e sconfinando nella potestas iudicandi del giudice dell’impugnazione.
3.– Con sentenza del 19 giugno 2012 il Tribunale di Venezia ha respinto l’appello della s.n.c. Ai Mori nei confronti della GE.F.IM. s.a.s..
Ha proposto ricorso per cassazione la società Ai Mori, con atto del 25 ottobre 2012. Ha proposto controricorso la s.r.l. GEFIM RE, già GEFIM Immobiliare s.a.s. per atto di scissione del 2 maggio 2011, già GE.F.IM. s.a.s. per atto di scissione dell’11 marzo 2010.
La ricorrente ha depositato memoria.
4.– La Terza Sezione Civile di questa Corte, con ordinanza n. 18001 del 2015, ritenuta l’ammissibilità del ricorso notificato alla s.a.s. GE.F.IM., società scissa e perciò non estinta, e la facoltà della s.r.l. GEFIM RE di intervenire nel giudizio a norma dell’art. 111 cod. proc. civ., allegando i presupposti della sua legittimazione, rilevava il contrasto tra l’orientamento di legittimità, secondo il quale se il credito opposto in compensazione non è certo, e cioè se il titolo giudiziale non è definitivo, non opera la compensazione, e la sentenza n. 23573 del 2013, secondo cui tale circostanza non è di ostacolo alla possibilità di opporre il controcredito in compensazione, e rimetteva la relativa questione al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. Fissata l’udienza dinanzi alle Sezioni Unite, la ricorrente ha depositato altra memoria.
5.– Il P.M., ritenuta l’ammissibilità del ricorso, ha pregiudizialmente rilevato l’estraneità al thema decidendum della questione di contrasto perchè si è formato il giudicato interno sulla premessa giuridica della sentenza impugnata secondo cui possono essere compensati esclusivamente i crediti certi, che, se contestati in giudizio, divengono tali solo a seguito del passaggio in cosa giudicata della sentenza che ne riconosca l’an e il quantum.
Da questa premessa, costituente autonoma ratio decidendi, non impugnata, il Tribunale ha però addossato al creditore, che contesti il controcredito, l’onere probatorio del mancato passaggio in giudicato della sentenza che lo accerta, e questa statuizione è stata impugnata dalla società Ai Mori sul presupposto che alla data del 5 gennaio 2010 non era ancora infruttuosamente elasso il termine per impugnare la sentenza che l’aveva condannata a pagare le spese giudiziali alla società GE.F.IM. Perciò, essendosi formato il giudicato interno sulla non deducibilità in compensazione di un credito litigioso, la questione in contrasto – ossia la opponibilità o meno in compensazione di un credito contestato – non può esser rimessa in discussione sollevandola ex officio.
In subordine, il P.M. ha concluso per la riaffermazione dei principi di diritto consolidati di questa Corte, argomentandone le ragioni.
Motivi della decisione
1.– Va pregiudizialmente disatteso il rilievo della società GEFIM RE s.r.l. di inammissibilità del ricorso della società Ai Mori s.n.c. in quanto proposto nei confronti della società GE.FIM. s.a.s. anzichè della GEFIM RE s.r.l., nuovo soggetto risultante dalla scissione del 2 maggio 2011 della società GEFIM Immobiliare s.a.s., già GE.F.IM. s.a.s. per scissione dell’11 marzo 2010.
Ed invero, la scissione, disciplinata dagli artt. 2506 e segg. a decorrere dal 1 gennaio 2004 per effetto dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, consistente nel trasferimento del patrimonio a una o più società, preesistenti o di nuova costituzione, contro l’assegnazione delle azioni o delle quote di queste ultime ai soci della società scissa, si traduce in una fattispecie traslativa, che, sul piano processuale, non determina l’estinzione della società scissa ed il subingresso di quella risultante dalla scissione nella totalità dei rapporti giuridici della prima, ma si configura come una successione a titolo particolare nel diritto controverso, che, ove intervenga nel corso del giudizio, comporta l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 111 cod. proc. civ.(Cass. 30246 del 2011); con la conseguenza che il processo prosegue fra le parti originarie (Cass. 6471 del 2012), con facoltà per il successore di resistere con controricorso all’impugnazione “ex adverso” proposta davanti alla Corte di Cassazione nei confronti del suo dante causa, pur non avendo partecipato al processo nei precedenti gradi di giudizio (tra le altre, Cass. 11757 del 2006, 10902 del 2004, 2889 del 2002, 5822 del 1999, 4742 del 1998).
2.– Con il primo motivo di ricorso la società Ai Mori lamenta: “Art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione dell’art. 1243 c.c., per difetto di presupposto della compensazione legale”.
3.– Con il secondo motivo lamenta: “Art. 360 c.p.c., n. 3, – Violazione dell’art. 2697 c.c., per errata attribuzione di un onere probatorio inesistente”.
4.– Con il terzo motivo la medesima deduce: “Art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 615 c.p.c.“, per avere il Giudice di Pace non soltanto pronunciato la compensazione legale tra contrapposti crediti non ancora certi, ma altresì accertato il residuo credito della società Ai Mori di Euro 1.140, così incidendo sui titoli costitutivi giudiziali e modificandone il decisum.
5.– Con il quarto motivo censura: “Art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione della norma di diritto di cui all’art. 112 c.p.c.“, per avere il giudice dell’opposizione illegittimamente rilevato eccezioni di ufficio.
6.– Con il quinto motivo si duole: “Art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’art. 494 c.p.c.. Motivazione insufficiente sulla mancata declaratoria di cessazione della materia del contendere conseguente all’avvenuto pagamento del debito della società GE.F.IM. eseguito a mani dell’ufficiale giudiziario senza riserva di ripetizione”.
7.– I motivi, congiunti, sono inammissibili per carenza di interesse non essendovi più controversia tra le parti sulla certezza dei reciproci crediti.
Ed infatti la controricorrente rileva che la sentenza n. 16 del 2010 – titolo costitutivo del suo credito opposto in compensazione – era passata in giudicato il 21 giugno 2010 in quanto notificata ai sensi degli artt. 170 e 285 c.p.c., il 21 maggio 2010 e quindi prima della notifica del 26 ottobre 2010 dell’appello della società Ai Mori, così come era divenuto incontrovertibile il credito di quest’ultima società, fondato sulla sentenza n. 1160 del 2009, notificata il 19 novembre 2009 e non impugnata dalla GE.F.IM..
E la ricorrente – in specie nella memoria del 27 gennaio 2015 – è d’accordo sulla circostanza che i rispettivi titoli costitutivi – sentenze di condanna al rimborso delle spese giudiziali – sono divenuti incontrovertibili prima della sentenza di primo grado del 16 luglio 2010 che ha definito il giudizio di opposizione all’esecuzione, dichiarando l’avvenuta estinzione per compensazione del credito della società Ai Mori dalla coesistenza, e fino alla concorrenza, del controcredito della GE.F.IM.
Perciò è ormai venuto meno l’interesse della ricorrente alla decisione delle censure proposte.
8.- Tuttavia le Sezioni Unite ritengono di comporre il contrasto originato dalla sentenza 23573/2013 della Terza Sezione Civile ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, ribadendo i consolidati principi di diritto.
8.1– La compensazione è disciplinata dal libro quarto, capo 4^ – Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dalli adempimento – Sezione III del codice civile (dopo la novazione e la remissione).
L’art. 1241 – Estinzione per compensazione – dispone: “Quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti, secondo le norme degli articoli che seguono”.
L’art. 1242, comma 1, prosegue: “La compensazione estingue i due debiti dal giorno della loro coesistenza. Il giudice non può rilevarla d’ ufficio”.
L’art. 1243 – Compensazione legale e giudiziale – continua: “La compensazione si verifica solo tra due debiti che hanno per oggetto una somma di danaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere e che sono ugualmente liquidi ed esigibili”.
Il secondo comma stabilisce: “Se il debito opposto in compensazione non è liquido ma è di facile e pronta liquidazione, il giudice può dichiarare la compensazione per la parte del debito che riconosce esistente, e può anche sospendere la condanna per il credito fino all’accertamento del credito opposto in compensazione”.
Per credito liquido – espressione letterale dell’art. 1243 c.c., comma 1, che si attaglia alle obbligazioni pecuniarie o omogenee e fungibili deve intendersi il credito determinato nell’ammontare in base al titolo, come si desume anche dall’identica espressione contenuta in altre norme: l’art. 1208 c.c., n. 3, sui requisiti di validità dell’offerta reale dell’obbligazione prevede una somma per le spese “liquide” e un’altra somma per quelle “non liquide”; l’art. 1282 c.c., stabilisce che i crediti liquidi (ed esigibili) producono interessi; l’art. 633 c.p.c., stabilisce come condizione di ammissibilità del provvedimento monitorio un credito di una somma liquida di danaro.
L’ulteriore requisito della certezza sull’esistenza del credito non si desume dalla formulazione dell’art. 1243 c.c., comma 1, perchè la liquidità attiene all’oggetto della prestazione, mentre la certezza attiene all’esistenza dell’obbligazione, e quindi al titolo costitutivo del credito. Perciò la contestazione del titolo non è in sè contestazione sull’ammontare del credito, come determinato in base al titolo, ma se questo è controverso la liquidità e l’esigibilità sono temporanee e a rischio del creditore. E allora, attesa la finalità dell’istituto della compensazione – estinzione satisfattoria reciproca (il che peraltro postula che anche il credito principale sia certo, liquido ed esigibile), che non può verificarsi se la coesistenza del controcredito è provvisoria, la giurisprudenza, da tempo risalente (Cass. n. 620 del 1970) ha affermato che non ricorre il requisito della liquidità del credito non solo quando esso non sia certo nel suo ammontare, ma anche quando ne sia contestata l’esistenza.
Da qui l’ormai consolidato principio che per l’operatività della compensazione legale il titolo del credito deve essere incontrovertibile, ossia non essere più soggetto a modificazioni a seguito di impugnazione (Cass. 6820 del 2002, 8338 del 2011) non solo nella sua esattezza, ma anche nella sua esistenza (credito certus nell’an, nel quid, nel quale, nel quantum debeatur).
Perciò accanto ad una nozione di liquidità sostanziale del credito in base al titolo, si è aggiunta una nozione di “liquidità” processuale stabilizzata che non sussiste se il creditore principale contesta, non pretestuosamente, nell’an e/o nel quantum, il titolo che accerta il controcredito o potrebbe contestarlo (credito litigioso).
La locuzione contenuta nell’art. 1243 c.c., comma 2, – “Se il debito opposto in compensazione.. è di facile e pronta liquidazione..” – è stata interpretata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità nel senso che soltanto l’“accertamento” – nel senso di determinabilità – pronto, ossia in tempo processuale breve, e facile, ossia metodicamente semplice (es. mediante calcolo degli interessi), del controcredito – e per questo riservato dalla norma al giudice dinanzi al quale il processo deve proseguire – può giustificare il ritardo della decisione sul credito principale – certo, liquido ed esigibile – onde dichiarare estinti entrambi i rispettivi crediti per compensazione, secondo la ratio dell’istituto: il vantaggio delle parti di risolvere celermente in unica soluzione le reciproche pretese salvaguardando una ragione di equità, perchè non è giusto che sia condannato all’adempimento chi a sua volta ha un concorrente credito.
Questa Corte, con orientamento pressochè unanime, ha enunciato i seguenti principi:
1) la compensazione legale opera di diritto, su eccezione di parte, e per avere efficacia estintiva “satisfattoria” deve avere ad oggetto due contrapposti crediti certi, liquidi, ossia determinati nella consistenza ed ammontare, omogenei ed esigibili (requisiti desumibili dai rispettivi titoli costitutivi: Cass. 22 ottobre 2014, n. 22324; Cass. 11 gennaio 2006, n. 260);
2) se il requisito della liquidità del controcredito opposto in compensazione manca, ma il giudice dinanzi al quale è formulata l’eccezione ne ritiene la facile e pronta liquidabilità – giudizio di fatto, insindacabile in cassazione può dichiarare la compensazione fino alla concorrenza per la parte del controcredito che riconosce esistente, e può anche sospendere cautelativamente la condanna per il credito principale fino all’accertamento – id est liquidazione – del controcredito;
3) la provvisorietà dell’accertamento del controcredito in separato giudizio non può provocare l’effetto dell’estinzione del credito principale, la quale investe – elidendola irrimediabilmente – la stessa sussistenza, ontologicamente considerata, della ragione di credito e non soltanto la sua tutela esecutiva;
4) l’eseguibilità del titolo giudiziale che accerta il credito non attiene alla certezza, ma solo alla tutela anticipata del medesimo, mediante la sua immediata azionabilità (Cass. 8338 del 2011);
5) la compensazione legale si distingue da quella giudiziale perchè per la ricorrenza della prima i due crediti contrapposti devono essere certi, liquidi ed esigibili anteriormente al giudizio, mentre per la seconda il credito opposto in compensazione non è liquido, ma viene liquidato dal giudice nel processo, purchè reputato di “pronta e facile liquidazione”;
6) se l’accertamento del credito opposto in compensazione pende dinanzi ad altro giudice, è questi che deve liquidarlo (Cass. 1695 del 2015, 9608 del 19 aprile 2013);
7) in quest’ultimo caso il giudice dell’eccezione di compensazione non può sospendere il giudizio sul credito principale ai sensi dell’art. 295 c.p.c., o art. 337 c.p.c., comma 2, qualora nel giudizio avente ad oggetto il credito eccepito in compensazione sia stata emessa sentenza non passata in giudicato (Cass. n. 325 del 1992), ma, non potendo realizzarsi la condizione prevista dall’art. 1243 c.c., comma 2, – che costituisce disciplina processuale speciale ai fini della reciproca elisione dei crediti nel processo instaurato dal creditore principale – (il giudice) deve dichiarare l’insussistenza dei presupposti per elidere il credito agito e rigettare l’eccezione di compensazione;
8) se la certezza del controcredito – il cui onere della prova spetta all’eccipiente (Cass. 5444/2001) – si matura nel corso del giudizio sul credito principale, anche in appello, gli effetti estintivi della compensazione legale decorrono dalla coesistenza dei crediti;
9) l’eccezione di compensazione non configura un presupposto di natura logico-giuridica sui requisiti del credito principale il cui accertamento giustifichi il sacrificio delle ragioni di tutela di questo oltre i limiti previsti dalla stessa norma – ossia la possibilità di procrastinare, cautelativamente (Cass. 5319 del 09/08/1983), la condanna ad adempiere del debitore fino alla pronta e facile liquidazione, nel medesimo processo, del credito opposto in compensazione – consentendo di sospendere la decisione sulla causa principale fino al passaggio in giudicato del giudizio sul controcredito come se questo pregiudicasse, in tutto o in parte, l’esito della causa sul credito principale (Cass., 3 ottobre 2012, n. 16844, Cass., 4 dicembre 2010, n. 25272).
9.- La Terza Sezione civile, con sentenza n. 23573 del 2013, si è consapevolmente discostata da questi principi collegando la disciplina sostanziale dell’eccezione di compensazione con quella processuale ed in particolare:
art. 35 – “Eccezione di compensazione” -: “Quando è opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, questi, se la domanda è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, può decidere su di essa e rimettere le parti al giudice competente per la decisione relativa all’eccezione di compensazione, subordinando, quando occorre, l’esecuzione della sentenza alla prestazione di una cauzione; altrimenti provvede a norma dell’articolo precedente”;
art. 34 – Accertamenti incidentali -: “Il giudice se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o per valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa dinanzi a lui”;
art. 40 c.p.c. – Connessione -: “Se sono proposte dinanzi a giudici diversi più cause le quali, per ragioni di connessione, possono essere decise in un solo processo..; Nei casi previsti dagli artt. 34, 35 e 36, le cause cumulativamente proposte o successivamente riunite debbono essere trattate con il rito ordinario..”.
art. 295 c.p.c. – sospensione necessaria -: “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”;
art. 337 c.p.c., comma 2 – Sospensione dell’esecuzione e dei processi -: “Quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo questo può esser sospeso se tale sentenza è impugnata”.
9.1– L’applicabilità delle suddette norme processuali alle innanzi richiamate norme sostanziali non è condivisibile.
Muovendo dalla considerazione contenuta nella sentenza n. 23573 del 2013, secondo cui, se l’art. 35 c.p.c., disciplina la competenza a decidere il controcredito eccepito nel giudizio sul credito principale, la stessa norma deve applicarsi allorchè il controcredito è già sub judice poichè eccepito ai sensi dell’art. 1243 c.c., comma 2, emerge che i piani tra le norme sulla competenza, a cui appartiene il sucitato art. 35, e la disciplina sostanziale sulla compensazione – art. 1241 c.c. e segg. – non si intersecano.
Ed invero, pacifico per giurisprudenza e dottrina che i requisiti prescritti dall’art. 1243 c.c., comma 1, per la compensazione legale, e cioè l’omogeneità dei debiti, la liquidità, l’esigibilità e la certezza, devono sussistere necessariamente anche per la compensazione giudiziale, il secondo comma di detta norma si limita a consentire al giudice del credito principale di liquidare il controcredito opposto in compensazione soltanto se il suo ammontare è facilmente e prontamente liquidabile in base al titolo.
Ma per esercitare questo potere discrezionale – esclusivo e specifico (Cass., 3 ottobre 2012, n. 16844, Cass., 4 dicembre 2010, n. 25272) – al fine di dichiarare la compensazione giudiziale, il controcredito deve essere certo nella sua esistenza e cioè non controverso.
Se il controcredito è contestato, come prevede l’art. 35 c.p.c., allora non è certo, e quindi non è idoneo ad operare come compensativo sul piano sostanziale, e l’eccezione di compensazione va respinta.
L’ambito di contestazione del controcredito opposto in compensazione secondo l’art. 1243 c.c., secondo comma, è infatti limitato alla liquidità del credito, mentre la contestazione sulla sua esistenza – a meno che essa sia prima facie pretestuosa e infondata (Cass. 6237 del 1991) – lo espunge dalla compensazione giudiziale (Cass. 10352 del 1993).
Soltanto la contestazione sulla liquidità del credito opposto in compensazione consente al giudice del credito principale – con accertamento discrezionale di merito, che presuppone la sua competenza, ed incensurabile in Cassazione – di determinarne l’ammontare se è facile e pronto, sopperendo alla mancanza di questo requisito mediante un’attività ricognitiva – attuativa del titolo, funzionale all’eccezione di compensazione.
La disciplina contenuta nell’art. 1243 c.c., comma 2, consiste nell’inoperatività dell’eccezione di compensazione, sia legale che giudiziale, se è controverso l’an del controcredito, analogamente al caso in cui il credito opposto in compensazione non è di pronta e facile liquidazione (Cass. 10352/1993, cit.).
Il giudice del credito principale ha o la possibilità di dichiarare la compensazione per la parte di controcredito già liquida, o di sospendere, eccezionalmente, la condanna del credito principale fino alla liquidazione di tutto il credito opposto in compensazione, ma non di ritardare la decisione sul credito principale fino all’accertamento, da parte di egli stesso o di altro giudice, dell’esistenza certa di quello opposto in compensazione; altrimenti sarebbe pleonastico il sintagma “di pronta e facile liquidazione” richiesto dalla norma.
Nè d’ altro canto a tal fine può applicarsi analogicamente la disciplina dell’art. 35 c.p.c., non potendosi ravvisare il canone interpretativo dell’eadem ratio.
9.2– Peraltro, neanche le norme sulla modificazione della competenza per ragioni di connessione, contenute nel libro Primo, Sezione IV, del codice di rito legittimano il meccanismo processuale della condanna con riserva e della sospensione del giudizio sulla compensazione che la sentenza n. 23573/2013 ritiene applicabile onde consentire di poter sempre opporre, davanti al giudice investito del credito principale, la compensazione con un credito la cui esistenza sia in corso di accertamento in separato giudizio, in modo da garantire comunque l’operatività della compensazione pur se al momento della relativa eccezione il credito opposto non era ancora accertato con provvedimento giudiziale definitivo, e così impedire che il passaggio in cosa giudicata del titolo giudiziale definitivo sull’esistenza del credito opposto in compensazione intervenga in un momento in cui non sia più possibile farlo valere, a quel titolo e a quei fini, per essere stato definitivamente esitato il giudizio promosso dal creditore-debitore contrapposto.
9.2.1– Da un lato, è principio immanente, innucleato nell’art. 1243 c.c., comma 2, che la compensazione giudiziale è processualmente rilevante soltanto quando il giudice del credito principale sia competente anche per il credito opposto in compensazione, con conseguente esclusione dell’eccezione di compensazione fondata su un credito la cui certezza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso.
Non solo la disciplina speciale contenuta nell’art. 1243 c.c., consente la sospensione cautelativa della decisione sul credito principale soltanto se il credito opposto in compensazione è di facile e pronta liquidazione, ma sia il conferimento di questo potere al giudice del credito principale, sia la finalità con esso perseguita, postulano che il giudizio prosegua dinanzi al giudice del credito principale per consentirgli di effettuare la valutazione e la liquidazione del controcredito prevista dalla norma.
E quindi, come nel caso in cui l’accertamento del credito opposto in compensazione non sia facile e pronto il giudice del credito principale, per espressa previsione normativa, non ha il potere di sospendere la decisione su quest’ultimo, ma deve immediatamente decidere su di esso, così a maggior ragione non può sospenderne la decisione a norma dell’art. 295 c.p.c., o art. 337 c.p.c., comma 2, che certamente gli precludono qualsiasi valutazione di pronta o facile liquidazione del controcredito in quanto spettante al giudice competente.
9.2.2– Dall’altro, l’interpretazione dell’art. 1243 c.c., comma 2, non solo non collide con la disposizione contenuta nell’art. 35 c.p.c., ma ne costituisce conferma.
Detta norma processuale prevede che se il giudice non è competente sull’eccepito controcredito contestato ed il credito principale è fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile, decide prontamente su di esso – (conformemente all’esigenza desumibile anche dall’art. 1243 c.c., comma 2, di decidere il più rapidamente possibile sul credito, se del caso subordinando la condanna ad una cauzione, analogamente alla sospensione cautelativa dell’art. 1243 c.c., comma 2) – e quindi non ne sospende la decisione, nè ai sensi dell’art. 295, nè ai sensi dell’art. 337 c.p.c., comma 2, e rimette la decisione sull’eccezione al giudice competente.
Se invece il credito principale non è fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile, rimette la decisione su entrambi i crediti al giudice competente sul credito opposto in compensazione, a norma dell’art. 34 c.p.c., a cui rinvia l’art. 35 c.p.c., u.c., – che così assume la configurazione di eccezione riconvenzionale di compensazione.
Riassumendo, sia l’art. 1243 c.c., comma 2, sia l’art. 35 c.p.c., prevedono che a decidere i contrapposti crediti sia il giudice dinanzi al quale essi sono contemporaneamente dedotti, mentre il meccanismo previsto dall’art. 35 c.p.c., è attivabile nel solo caso in cui il giudice del credito principale non possa conoscere di quello opposto in compensazione.
Pertanto, alla luce dell’esaminata disciplina, cade anche l’argomento contenuto nella sentenza n. 23573 del 2013 della disparità di trattamento tra credito opposto contestato nel giudizio sul credito principale e credito opposto già contestato in giudizio pendente davanti ad altro giudice. La disparità di trattamento non attiene a fattispecie identiche sul piano processuale; sussisterebbe laddove vi fossero norme che, contraddittoriamente, prevedessero la possibilità di dedurre un credito in compensazione non contestato e altre norme che escludessero tale possibilità per un credito contestato giudizialmente davanti ad un giudice competente per vagliare entrambe le posizioni.
Nè infine alcuna norma di quelle scrutinate dalla sentenza n. 23573/2013 prevede, in via analogica, che la causa in cui sia pronunciata condanna con riserva venga rimessa sul ruolo – il che presuppone sempre la competenza del giudice che ha deciso con riserva – per verificare l’esistenza delle condizioni della compensazione e poi sospendere la decisione ai sensi dell’art. 295 c.p.c., o art. 377 c.p.c., comma 2, in attesa della decisione incontrovertibile di altro giudice sul controcredito.
Senza sottacere che, poichè anche il credito accertato definitivamente potrebbe essere contestato dal creditore principale per fatti sopravvenuti, l’attività del giudice potrebbe nuovamente paralizzarsi se non competente a verificare la fondatezza del fatto sopravvenuto ed egli dovrebbe nuovamente sospendere il processo in attesa della decisione definitiva sul controcredito.
E poichè nell’attuale regime processuale – art. 42 c.p.c. – non vi è più spazio per una discrezionale, e non sindacabile, facoltà di sospensione del processo, esercitabile dal giudice al di fuori dei casi tassativi di sospensione legale, che, ove ammessa, si porrebbe in insanabile contrasto sia con il principio di eguaglianza e della tutela giurisdizionale sia con il canone della durata ragionevole, che la legge deve assicurare nel quadro del giusto processo (S.U. 14670 del 2003, 23906/2010 22324/2014), deve ritenersi preclusa la configurazione di una nuova ipotesi di sospensione del processo non prevista espressamente da una norma del rito civile, nemmeno in via di analogia, come invece ritiene la decisione n. 23573/2013.
10.– Si deve quindi concludere che le norme di cui agli artt. 34, 35, 36, 40, 295 e 337 c.p.c., sia che la controversia sull’esistenza del controcredito sorga nel giudizio sul credito principale, sia che già penda dinanzi ad un giudice di pari grado o superiore, non rilevano sulla speciale disciplina delineata dall’art. 1243 c.c., comma 2, perchè le norme sulla competenza per accertare l’esistenza del controcredito sono estranee alla compensazione giudiziale, come da tempo risalente avvertito da questa Corte.
Con la decisione n. 4129 del 1956 si rilevò infatti che: “Se il convenuto chiede non soltanto il rigetto della domanda dell’attore per compensazione con un suo credito di ammontare superiore, ma anche la condanna dell’attore a pagargli la differenza, ricorre l’ipotesi dell’art. 36 c.p.c., di domanda riconvenzionale che dipende dal titolo che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione. In tal caso, poichè la compensazione giudiziale prevista dal secondo comma dell’art. 1243 c.c., è ammessa solo se sussiste la facile e pronta liquidazione del credito opposto, egli, coordinando gli artt. 35, 36 e 112 c.p.c., deve emettere condanna per il credito principale certo e liquido, rigettare l’eccezione di compensazione giudiziale, ed iniziare l’istruttoria per il controcredito, ove competente, ovvero rimettere la causa su di esso al giudice competente non potendo allo stato il controcredito operare come compensativo, avendo il convenuto chiesto per esso la condanna dell’attore. Quindi il giudice, operata la valutazione insindacabile e discrezionale di non liquidabilità facile e pronta del controcredito, e per tale ragione respinta l’eccezione di compensazione, deve provvedere sulla domanda riconvenzionale di condanna per il controcredito”.
11.- Queste Sezioni Unite, confermano, in conformità alle conclusioni del P.M., il consolidato orientamento di legittimità e ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, affermano i seguenti principi di diritto:
A) “Le norme del codice civile sulla compensazione stabiliscono i presupposti sostanziali, oggettivi, del credito opposto in compensazione: liquidità – che include il requisito della certezza – ed esigibilità. Verificata la ricorrenza dei predetti requisiti, il giudice dichiara l’estinzione del credito principale per compensazione – legale – a decorrere dalla coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda.
B) Se il credito opposto in compensazione è certo, ma non liquido, nel senso di non determinato, in tutto o in parte, nel suo ammontare, il giudice può provvedere alla relativa liquidazione se è facile e pronta; quindi, o può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale fino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, o può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione.
C) Se è controversa, nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale, o in altro giudizio già pendente, l’esistenza del controcredito opposto in compensazione (art. 35 c.p.c.) il giudice non può pronunciare la compensazione, nè legale nè giudiziale.
D) La compensazione giudiziale, di cui all’art. 1243 c.c., comma 2, presuppone l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la medesima compensazione è fatta valere, mentre non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo. In tale ipotesi, pertanto, resta esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale, e va parimenti esclusa l’invocabilità della sospensione contemplata in via generale dall’art. 295 c.p.c., o dall’art. 337 c.p.c., comma 2, in considerazione della prevalenza della disciplina speciale del citato art. 1243 c.c.“.
12.– Sussistono ragioni per compensare le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Le Sezioni Unite dichiarano inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, affermano i seguenti principi di diritto:
A) “Le norme del codice civile sulla compensazione stabiliscono i presupposti sostanziali, oggettivi, del credito opposto in compensazione: liquidità – che include il requisito della certezza – ed esigibilità. Verificata la ricorrenza dei predetti requisiti, il giudice dichiara l’estinzione del credito principale per compensazione – legale – a decorrere dalla coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda.
B) Se il credito opposto in compensazione è certo, ma non liquido, nel senso di non determinato, in tutto o in parte, nel suo ammontare, il giudice può provvedere alla relativa liquidazione se è facile e pronta; quindi, o può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale fino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, o può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione.
C) Se è controversa, nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale, o in altro giudizio già pendente, l’esistenza del controcredito opposto in compensazione (art. 35 cod. proc. civ.) il giudice non può pronunciare la compensazione, nè legale nè giudiziale.
D) La compensazione giudiziale, di cui all’art. 1243 c.c., comma 2, presuppone l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale la medesima compensazione è fatta valere, mentre non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo. In tale ipotesi, pertanto, resta esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale, e va parimenti esclusa l’invocabilità della sospensione contemplata in via generale dall’art. 295 c.p.c., o dall’art. 337 c.p.c., comma 2, in considerazione della prevalenza della disciplina speciale del citato art. 1243 c.c.“.
Così deciso in Roma, il 08 marzo 2016.
Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2016.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 11 settembre 2015, n. 18001, per SS.UU, 15 novembre 2016, n. 23225, in tema di eccezione di compensazione
SS.UU, 15 novembre 2016, n. 23225, in tema di eccezione di compensazione
In tema di falsus procurator – SS.UU, 03 giugno 2015, n. 11377
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –
Dott. CICALA Mario – Presidente Sezione –
Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –
Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –
Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –
Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –
Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15678/2013 proposto da:
R.J., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA VESCOVIO 21, presso lo studio dell’Avvocato MANFEROCE TOMMASO, che la rappresenta e difende unitamente agli Avvocati CLAUDIO CONSOLO e SILVIO MALOSSINI, per delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro H Y P O VORARLBERG LEASING S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo studio dell’Avvocato SASSANI BRUNO NICOLA, che l a rappresenta e difende unitamente agli Avvocati CHRISTOPH SENONER e LUCA MAZZEO, per procura speciale alle liti con autenticazione di firma del notaio Dott. Luca Barchi di Bolzano, rep. 25473 del 30/04/2015;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 12/2013 della CORTE D’APPELLO di Trento – Sezione distaccata di BOLZANO, depositata il 26/01/2013;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/05/2015 dal Consigliere Dott. ALBERTO GIUSTI;
uditi gli Avvocati CLAUDIO CONSOLO, CHRISTOPH SENONER e BRUNO NICOLA SASSANI;
udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1 . – I rappresentanti di F.A. (cioè i suoi due figli, F.C. e Ch., muniti di procura del padre) e Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a. hanno concluso, con due distinti contratti del 21 dicembre 2002, una compravendita immobiliare.
Non tutto il prezzo dovuto dall’acquirente società ad F.A. è stato versato: una quota è andata a compensare posizioni debitorie direttamente riferibili al venditore; altra parte del prezzo (Euro 1.075.019,74) è stata trattenuta da Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a., i n accordo con i rappresentanti del venditore, a compensazione di crediti che la società vantava nei confronti di società di capitali terze riferibili allo stesso F.A..
Quest’ultimo ha contestato, anche a mezzo del proprio legale, la legittimità della compensazione, ha chiesto la restituzione degli importi indebitamente trattenuti da Hypo e ha denunciato l’invalidità della intervenuta transazione, così qualificando il patto collaterale alla vendita immobiliare.
Ritenendosi tuttora creditore per quella quota parte di prezzo non versata ed impiegata per l’estinzione di debiti ad esso non riferibili, F.A. ha quindi ceduto la propria (ritenuta intatta) posizione creditoria a R.J. con contratto dell’11 maggio 2007.
2. – Con citazione in data 25 settembre 2007, R.J. – in qualità di cessionaria dei crediti di F.A., in virtù del citato contratto dell’11 maggio 2007, notificato alla debitrice contestualmente alla citazione – ha evocato in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bolzano, Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a. (d’ora in poi anche Hypo), chiedendone la condanna al pagamento del corrispettivo residuo delle compravendite immobiliari del 21 dicembre 2002, non versato in quanto indebitamente compensato per Euro 1.075.019,74 con debiti di società terze e per Euro 38.964,31 per l’IVA dovuta relativamente ad un debito dello stesso F.A..
La convenuta, costituitasi in data 12 febbraio 2008, h a dedotto l’insussistenza dei crediti azionati, allegandone l’estinzione in virtù di un patto di compensazione stipulato con Fo.Cl. e C., in qualità di rappresentanti di F.A..
3. – Con sentenza in data 20 dicembre 2010, il Tribunale di Bolzano, premessa l’inefficacia dell’accordo compensativo collaterale alla compravendita immobiliare, in quanto stipulato dai rappresentanti di F.A. eccedendo i limiti della procura, ha accolto la domanda relativamente alla somma di Euro 1.075.019,74.
Quanto al debito IVA di Euro 38.964,31, il Tribunale ha rilevato che esso era proprio di F.A. e non delle sue società: il meccanismo d i estinzione per compensazione, in tal caso, poteva, perciò, operare a prescindere dal patto collaterale alla vendita stipulato dai suoi rappresentanti.
Il debitore, inoltre, era tenuto all’adempimento in forza di una sentenza di condanna: egli, dunque, non poteva sottrarsi al pagamento in favore della parte creditrice.
In ordine all’importo principale (1.075.019,74) della domanda di condanna, la sentenza è così motivata:
– Hypo ha sempre ammesso di avere effettivamente utilizzato parte del corrispettivo d i vendita per risanare posizioni in sofferenza non solo di F.A., venditore e controparte contrattuale nel negozio di vendita immobiliare, ma anche per estinguere debiti di Forti Trans s.r.l., Alpe Spedition s.r.l. e Nord Truck s.r.l., tutte società di autotrasporti di cui F.A. era a capo;
– detta ammissione, contenuta nella comparsa di costituzione di Hypo, provenendo dal soggetto obbligato al pagamento, è sufficiente per privare di valore la quietanza di avvenuto pagamento, contenuta nei due contratti di compravendita;
– la quietanza si regge sul presupposto di una compensazione ritenuta correttamente operata tra posizioni debitorie e creditorie facenti capo alle parti dell’accordo negoziale di compravendita, ma “stanti le stesse dichiarazioni di parte Hypo detta compensazione deve ritenersi corrispondere a realtà solo in parte”, giacchè l’obbligazione estinta per compensazione deve esistere in capo al soggetto compensante”; nel caso in esame, non è contestato che il denaro dovuto ad F. A. per la vendita di suoi immobili sia stato dall’acquirente Hypo utilizzato non solo per l’estinzione di debiti del F., ma anche per estinguere debiti delle società a r.l. Forti Trans, Alpe Spedition e Nord Truck, soggetti giuridici diversi con autonomia patrimoniale propria distinta da quella del F.;
– del pari non è contestato che il F. non era obbligato in proprio, quale persona fisica, ad estinguere debiti societari, non risultando che lui avesse prestato fideiussione o garanzia alcuna in favore delle società partecipate, nè che si fosse accollato i debiti delle dette società;
– l’operazione compiuta dai procuratori speciali di F.A. può essere inquadrata non solo “nel negozio traslativo degli immobili già di proprietà di F.A. a Hypo, con incasso di una parte del prezzo a mezzo della compensazione con posizioni debitorie di F.A. nei confronti dell’acquirente”, ma anche “in un secondo accordo negoziale di rinuncia, da parte del venditore F.A., all’incasso della parte residua del prezzo, rinuncia questa attuata in favore dei terzi Forti Trans, Alpe Spedition e Nord Truck, a loro volta debitori di Hypo”;
– “sostiene la convenuta Hypo che i procuratori speciali di F. A. fossero muniti dei necessari poteri per attuare l’accordo negoziale di cui sopra e del quale vuole avvalersi. In atti, tuttavia, le procure notarili richiamate negli atti di vendita … non sono allegate, sicchè al Tribunale è preclusa la verifica dei poteri conferiti dal titolare del diritto ai procuratori speciali. Pacifico è che questi fossero muniti del potere di compiere sia l’atto traslativo che le attività di esecuzione dello stesso, incluso l’incasso del prezzo pattuito a nome del rappresentato. Che però fossero da questo autorizzati a compiere anche l’ulteriore negozio abdicativo, con rinuncia all’incasso di parte del prezzo i n favore di soggetti terzi, non risulta dai contratti di vendita, n è da altro atto scritto”;
– “il difetto di rappresentanza o anche l’eccesso di rappresentanza determinano entrambi la non operatività, nel patrimonio del rappresentato, dell’atto compiuto dal falsus procurator”;
– nel caso in esame, in cui parte attrice nega che siano mai stati conferiti ai procuratori speciali “poteri ulteriori rispetto a quelli necessari per concludere il negozio traslativo”, “la prova dell’esistenza del potere a validamente compiere l’atto abdicativo, in favore dei soggetti terzi summenzionati, spetta a chi vuole avvalersi del negozio, quindi a Hypo. Tale onere di prova non è stato ad oggi assolto dalla odierna convenuta; non risulta quindi che i poteri rappresentativi conferiti da F.A. ai propri procuratori coprissero alcun pagamento di debito altrui e quindi la possibilità, per Hypo, di procedere alla compensazione come in effetti attuata”.
4. – La sentenza di primo grado è stata impugnata in data 25 gennaio 2011 da Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a., che ha denunciato, tra l’altro, la violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo il Tribunale sollevato d’ufficio l’eccezione d’inefficacia dell’accordo compensativo in conseguenza del superamento dei limiti del potere di rappresentanza, mentre l’attrice non aveva mai dedotto che i rappresentanti d i F.A. avevano concluso questo accordo eccedendo i limiti del potere di rappresenta loro conferito dal rappresentato, ma si era limitata a sostenerne l’inefficacia sul rilievo che F.A. non doveva rispondere personalmente dei debiti delle sue società, e l’invalidità perchè il patto aveva natura transattiva e non era rivestito di forma scritta.
Nel giudizio di appello R.J., costituitasi in data 13 aprile 2011, ha contestato la fondatezza dell’impugnazione e ha proposto appello incidentale relativamente al rigetto della domanda di pagamento di Euro 38.964,31.
5. – Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 26 gennaio 2013, la Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in accoglimento dell’appello principale ed in riforma dell’impugnata pronuncia, ha rigettato la domanda, nonchè l’appello incidentale, e condannato l’attrice alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
5.1. – La Corte territoriale ha respinto innanzitutto il primo motivo di impugnazione della Hypo relativo alla legittimazione processuale della cessionaria, rilevando che, trattandosi “di far valere il diritto di credito di cui ha acquistato la titolarità”, la R. agisce “non quale sostituta processuale di F.A. al di fuori delle ipotesi normativamente previste”, ma “proprio per far valere un diritto che le appartiene in via esclusiva”.
Quanto alle altre censure dell’appellante principale, la Corte d’appello ha osservato che “la correttezza dell’osservazione circa il difetto di potere in capo ai rappresentanti di F.A. appare confermata anche alla luce della procura che Hypo ha prodotto nel presente grado d’appello”: “come si ricava dal dimesso documento del fascicolo di secondo grado dell’appellante, F.A. ha abilitato i suoi rappresentanti al compimento di atti di gestione del proprio patrimonio”, “non invece a porre in essere atti a titolo gratuito che ne provocassero il depauperamento”.
Tanto premesso, la Corte territoriale ha sottolineato che l’eccezione d’ inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator è riservata all’iniziativa di parte e non avrebbe potuto conseguentemente essere rilevata d’ufficio dal primo giudice.
Ha precisato in particolare la Sezione distaccata di Bolzano della Corte d’appello: “I rappresentanti di F.A., evidentemente previo accollo in capo al rappresentato dei debiti delle sue società, hanno accettato di portarli in detrazione al credito per il prezzo della vendita immobiliare. Poichè, dunque, l’effetto estintivo è stato ottenuto mediante un’attività negoziale posta in essere da falsi procuratores, essa è da ritenersi inefficace sino a quando il dominus decida definitivamente di ratificarla. Tale inefficacia è, tuttavia, deducibile solo con eccezione di parte. La quale, però, nel caso di specie non è stata sollevata dalla cessionaria del credito R.J.. Essa, infatti, si è limitata a dedurre che dei debiti societari F.A. non doveva rispondere personalmente. Ha poi soggiunto che l’accordo concluso dai suoi rappresentanti aveva natura transattiva ed era invalido, perchè privo di forma scritta”.
Infine, la Sezione distaccata di Bolzano ha rigettato l’appello incidentale della R. relativamente al mancato saldo del prezzo di acquisto degli immobili per l’ulteriore importo di Euro 38.964,31, pari al credito per rimborso IVA che la compratrice assumeva di vantare nei confronti del venditore in proprio e non nei confronti delle sue società.
6. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello R.J. ha proposto ricorso, con atto notificato il 13 giugno 2013, deducendo la violazione dell’art. 112 c.p.c.: in via principale per la qualifica di eccezione in senso stretto, anzichè in senso lato, e per il conseguente omesso rilievo d’ufficio dell’inefficacia del patto di compensazione, con accollo di debiti altrui, stipulato dai falsi rappresentanti; ed in via subordinata per l’omessa pronuncia, neppure i n punto di tardività, su detta eccezione, svolta dalla deducente nella comparsa di costituzione in appello.
In particolare, ad avviso della ricorrente, l’eccezione de qua, non essendo riservata dalla legge alla parte e non corrispondendo all’esercizio di un diritto potestativo, implicito solo nell’esercizio del potere di ratifica e, quindi, non nella negazione ma nell’attribuzione di efficacia al contratto, dovrebbe includersi nel novero delle eccezioni in senso lato, alla luce della giurisprudenza di legittimità più recente.
Tale conclusione – si sostiene – non contrasterebbe con il riconoscimento della legittimazione a far valere la temporanea inefficacia del contratto concluso solo in capo allo pseudo rappresentato (e non al terzo contraente), essendo detta legittimazione fondata, non già sulla natura di eccezione in senso stretto, ma sul fatto che tutte le volte che il falsamente rappresentato agisca dando vigore al contratto tale suo agire nel processo configura ratifica (pur se tacita).
La società Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a. ha resistito con controricorso, insistendo sulla configurazione dell’inefficacia del contratto per mancanza di poteri rappresentativi come eccezione in senso stretto, in considerazione del suo collegamento con il potere di ratifica attribuito al falsus procurator, di cui sarebbe precluso l’esercizio con il rilievo d’ufficio del giudice, ed in ogni caso negando, da un lato, l’asserita violazione dei limiti della procura da parte dei rappresentanti di F.A. e, dall’altro, la legittimazione della cessionaria del credito a formulare l’eccezione in esame.
Fissata l’udienza dinanzi alla Seconda Sezione civile, la ricorrente ha replicato alle deduzioni della controricorrente con la memoria ex art. 378 c.p.c., depositata il 3 giugno 2014.
7. – La Seconda Sezione civile, con ordinanza interlocutoria 27 giugno 2014, n. 14688, ha rimesso gli atti al primo presidente della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, sulla questione di massima di particolare importanza se l’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator sia rilevabile d’ufficio o solo su eccezione di parte.
L’ordinanza di rimessione ritiene il consolidato orientamento della giurisprudenza d i legittimità – secondo cui l’inefficacia (temporanea) del contratto concluso dal falsus procurator non è rilevabile d’ufficio, ma solo su eccezione del falso rappresentato, e conseguentemente non è proponibile per la prima volta in appello – non adeguatamente giustificato, alla luce dell’inesistenza del vincolo giuridico (inesistenza confermata dalla possibilità di ratifica e di actio interrogatoria), e potenzialmente confliggente con altri arresti giurisprudenziali (tra cui Sez. 2^, 23 marzo 1977, n. 1141, secondo cui il giudice del merito può rilevare d’ufficio, in base alle prove esistenti nel processo, la mancata conclusione del contratto per difetto d’incontro dei reciproci consensi, trattandosi della verifica dell’inesistenza di un elemento del diritto dedotto in giudizio e non dell’accertamento di un controdiritto, materia di eccezione in senso proprio).
8. – Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
Acquisita la relazione dell’Ufficio del massimario, e depositate da entrambe le parti memorie illustrative, il ricorso è stato discusso all’udienza pubblica del 12 maggio 2015.
Motivi della decisione
1 . – La questione di massima di particolare importanza rimessa all’esame delle Sezioni Unite è se la deduzione della inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator costituisca materia di eccezione in senso stretto, che come tale può essere sollevata solo dal falsamente rappresentato ed esclusivamente nella fase iniziale del processo di primo grado, o sia una eccezione in senso lato, dunque non solo rilevabile d’ufficio ma proponibile dalle parti per tutto il corso del giudizio di primo grado e finanche per la prima volta in appello.
2. – Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’inefficacia del contratto concluso dal rappresentante senza poteri o eccedendo i limiti dei poteri conferitigli non può rilevarsi d’ufficio ma solo su eccezione di parte, ed essendo volta a tutelare il falso rappresentato può essere fatta valere solo da quest’ultimo (o dai suoi eredi), mentre non è invocabile dal terzo contraente, il quale, ai sensi dell’art. 1398 c.c., può unicamente chiedere al falsus procurator il risarcimento dei danni sofferti per avere confidato senza propria colpa nell’operatività del contratto.
Questo principio di diritto ha dato vita ad un orientamento uniforme e consolidato nel tempo (Sez. 2^, 23 gennaio 1980, n. 570; Sez. 2^, 8 luglio 1983, n. 4601; Sez. 1^, 29 marzo 1991, n. 3435; Sez. 3^, 8 luglio 1993, n. 7501; Sez. 1^, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. 2^, 10 maggio 1999, n. 11396; Sez. 2^, 29 ottobre 1999, n. 12144; Sez. 1^, 13 dicembre 1999, n. 13954; Sez. 2^, 15 gennaio 2000, n. 410; Sez. 3^, 9 febbraio 2000, n. 1443; Sez. 3^, 26 febbraio 2004, n. 3872; Sez. 1^, 30 marzo 2005, n. 6711; Sez. 2^, 7 febbraio 2008, n. 2860; Sez. 2^, 17 giugno 2010, n. 14618; Sez. 3^, 20 giugno 2011, n. 13480; Sez. 2^, 26 luglio 2011, n. 16317; Sez. 2^, 24 ottobre 2013, n. 24133; Sez. Lav., 23 maggio 2014, n. 11582).
La conseguenza di tale indirizzo giurisprudenziale è che dell’inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator il giudice non può tenere conto se, pur emergendo dagli atti di causa il difetto del potere rappresentativo e la mancanza della intervenuta ratifica, lo pseudo rappresentato non solleva questa eccezione, o la solleva in ritardo rispetto al momento in cui avrebbe dovuto farlo.
Il fondamento dell’inquadramento dell’eccezione di inefficacia del contratto tra le eccezioni in senso stretto viene fatto risiedere:
(a) nella circostanza che, non vertendosi in ipotesi di nullità, non soccorre la regola dettata dall’art. 1421 c.c.;
(b) nel rilievo che si è di fronte ad una inefficacia asimmetrica (il terzo contraente è vincolato, mentre il falsamente rappresentato non lo è), e che l’improduttività di effetti è rivolta alla protezione della sfera giuridica della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito.
3. – La dottrina generalmente approva la soluzione della giurisprudenza.
Talora si sottolinea che l’inefficacia del contratto tutela il falso rappresentato: per questo può farsi valere solo da lui; non può rilevarsi d’ufficio; tanto meno può invocarsi dal terzo contraente, il quale è vincolato dal contratto.
Talaltra si rileva che, nella prospettiva normativa, il dominus si pone come arbitro delle sorti della fattispecie, in positivo e in negativo, potendo sia ratificare il negozio o farne al contrario dichiarare la definitiva inidoneità operativa: a differenza dell’eccezione di nullità, che si colloca in una dimensione statica, l’eccezione dello pseudo rappresentato si inserisce in una vicenda instabile e fluida, perchè l’assenza del vincolo è recuperabile ad libitum dell’interessato.
Ancora, si associa la natura in senso stretto dell’eccezione al fatto che la legittimazione ad agire per far valere l’inefficacia del contratto spetta soltanto allo pseudo rappresentato.
3.1. – Questo indirizzo interpretativo, che riconduce l’inefficacia del contratto nei confronti della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito nel novero delle eccezioni riservate alla disponibilità dell’interessato, è stato messo, di recente, in discussione da alcune voci dottrinali, che ne hanno evidenziato la non coerenza con il criterio generale in tema di distinzione fra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato nel frattempo elaborato, con riguardo alle fattispecie estintive, modificative o impeditive, dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite, a partire dalla sentenza 3 febbraio 1998, n. 1099, fino alla ordinanza 7 maggio 2013, n. 10531, passando per la sentenza 27 luglio 2005, n. 15661.
In base a tale criterio distintivo, di norma, tutti i fatti estintivi, modificativi od impeditivi, siano essi fatti semplici oppure fatti-diritti che potrebbero essere oggetto di accertamento in un autonomo giudizio, sono rilevabili d’ufficio, e dunque rappresentano eccezioni in senso lato; l’ambito della rilevabilità a istanza di parte (eccezioni in senso stretto) è confinato a i casi specificamente previsti dalla legge o a quelli in cui l’effetto estintivo, impeditivo o modificativo si ricollega all’esercizio di un diritto potestativo oppure si coordina con una fattispecie che potrebbe dar luogo all’esercizio di un’autonoma azione costitutiva.
Muovendosi in questa prospettiva – e premesso che per far valere il fatto impeditivo costituito dalla non operatività, per la sfera giuridica dello pseudo rappresentato, del contratto concluso dal rappresentante in carenza o in eccesso di potere rappresentativo, la legge non prevede espressamente l’indispensabile iniziativa della parte – una parte della dottrina ha appunto contestato che l’eccezione di inefficacia corrisponda all’esercizio di un potere costitutivo dello pseudo rappresentato.
Al riguardo si è rilevato che:
– (a) il codice civile non ha costruito la figura del contratto concluso dal rappresentante senza procura o travalicando i limiti della procura come una fattispecie temporaneamente vincolante anche per lo pseudo rappresentato, dotata quindi di un’efficacia precaria che questi possa rimuovere soltanto attraverso un recesso o un rifiuto eliminativo ovvero mediante l’esercizio, nel processo, con la proposizione dell’eccezione ad esso riservata, di un potere conformativo di scioglimento;
– (b) si è invece di fronte ad una non vincolatività che consegue automaticamente al difetto di legittimazione rappresentativa dello stipulante, secondo lo schema norma-fatto-effetto, e che non abbisogna, per dispiegarsi, dell’intermediazione necessaria dell’esercizio di un potere sostanziale rimesso al falsus dominus;
– (c) affinchè lo stato originario di inefficacia resti immutato, e sia riscontrabile dal giudice, non è richiesta allo pseudo rappresentato alcuna iniziativa: egli non deve esercitare alcun diritto potestativo per liberarsi da un contratto che è già, per lui, privo di ogni effetto;
– (d) il legislatore ha sì previsto, in capo al falsamente rappresentato, la titolarità, esclusiva e riservata, di un diritto potestativo: ma questo diritto è quello di imputarsi il contratto realizzando, attraverso la ratifica, la condizione esterna di efficacia dello stesso, non quello di sciogliersi dal vincolo.
Si è inoltre evidenziato che se l’eccezione di inefficacia del contratto è sottratta al rilievo officioso, pur quando la carenza o l’eccesso di potere di chi ha agito come rappresentante emerga ex actis, e la parte interessata, in ragione di una preclusione processuale, non possa più sollevarla in appello, il risultato che si otterrebbe è la ratifica tacita retta dal principio dell’imputet sibi, indipendentemente dall’effettiva ravvisabilità di comportamenti o atti, da parte dello pseudo rappresentato, che implichino necessariamente la volontà di ritenere per sè efficace quel contratto o che, comunque, siano incompatibili con il suo rifiuto.
Ma si tratterebbe – si è fatto notare – di un risultato contrario al diritto sostanziale.
Se si attribuisse valore di una ratifica al silenzio mantenuto, rispetto alla domanda giudiziale, dall’interessato che sia rimasto contumace o abbia adottato una strategia processuale che non necessariamente sottende la volontà di fare proprio il contratto rappresentativo, ciò significherebbe, per un verso, far discendere da un comportamento processuale un effetto diametralmente opposto a quello che si sarebbe avuto con l’interpello ai sensi dell’art. 1399 c.c., comma 4, e, per l’altro verso, ricollegare un effetto appropriativo del negozio, con la conseguente instaurazione di una situazione nuova, alla mancata risposta all’invito a difendersi, quando sul piano sostanziale il silenzio del dominus rispetto all’invito proveniente dal terzo contraente ha valore di negazione della ratifica dell’operato del falso rappresentante.
4. – La necessità di interrogarsi se, nella dinamica del processo, la inefficacia, nei confronti del dominus, del contratto concluso dal falsus procurator, costituisca una eccezione in senso lato o una eccezione in senso stretto, sorge ove si muova dalla premessa che la mancanza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui rappresenti un fatto impeditivo della pretesa azionata in giudizio dal terzo contraente.
Solo in tale prospettiva, infatti, si pone il problema se basti, al fine di far scattare la possibilità, per il giudice, di porlo a base della decisione, il presupposto minimo che detto fatto impeditivo risulti dagli atti legittimamente acquisiti in causa; o se occorra anche l’espressa e tempestiva istanza dello pseudo rappresentato affinchè gli effetti sostanziali del fatto impeditivo, ove riscontrato esistente sul piano sostanziale, possano essere utilizzati dal giudice come motivo di rigetto della domanda dell’attore.
5. – Ad avviso del Collegio, in tema di rappresentanza volontaria, la sussistenza del potere rappresentativo, con l’osservanza dei suoi limiti, costituisce una circostanza che ha la funzione specifica di rendere possibile che il contratto concluso dal rappresentante in nome del rappresentato produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato: come tale, essa è ricompresa nel nucleo della fattispecie posta a base della pretesa e integra un elemento costitutivo della domanda che il terzo contraente intenda esercitare nei confronti del rappresentato.
Quando si tratta di stabilire, non già semplicemente se il contratto s i sia perfezionato, ma se esso produca direttamente effetto nei confronti del rappresentato, la situazione fenomenica assunta nello schema astratto della disciplina legale pone la legittimazione rappresentativa, accanto allo scambio dei consensi e alla spendita del nome altrui, come elemento strutturale e come ragione dell’operatività, per la sfera giuridica del rappresentato, del vincolo e degli effetti che da esso derivano.
E‘ noto che il fatto impeditivo si identifica con la mancanza di un presupposto di efficacia, che interrompe il normale ciclo del fenomeno giuridico: collocandosi in una posizione diaframmatica tra il momento della rilevanza e quello della efficacia, il fatto impeditivo, in quanto portatore di un interesse antitetico e prevalente rispetto a quello rappresentato dal fatto inibito, neutralizza, con la propria azione, l’operatività di una fattispecie già completa, impedendole, così, di liberare gli effetti cui avrebbe dato altrimenti luogo.
Ad avviso del Collegio, il terzo contraente che deduce in giudizio un contratto stipulato con il rappresentante per ottenere il riconoscimento e la tutela, nei confronti del rappresentato, di diritti che da quel contratto derivano, pone a fondamento della propria pretesa, non solo (a) gli elementi che l’art. 1325 c.c., richiede per il perfezionamento del contratto, ma anche (b) che detto contratto è stato concluso da un soggetto, il rappresentante, autorizzato dal rappresentato a stipulare in suo nome, o (b1) che lo pseudo rappresentato, attraverso la ratifica, ha attribuito ex post al falso rappresentante quella legittimazione a contrarre per lui, che gli mancava al tempo del contratto. Dunque, la presenza di quel potere rappresentativo (o la ratifica da parte dell’interessato) si pone come fatto costitutivo rilevante, come nucleo centrale del fenomeno giuridico di investitura specificamente considerato, in quanto coelemento di struttura previsto in funzione della regola di dispiegamento degli effetti negoziali diretti nei confronti del rappresentato.
5.1. – E’ il contesto di diritto sostanziale di riferimento, per come ricostruito dalla dottrina e declinato nelle regole applicative dagli orientamenti giurisprudenziali, che induce a questa soluzione.
Ai sensi dell’art. 1388 cod. civ., infatti, il contratto concluso dal rappresentante in nome del rappresentato produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato solo se concluso nei limiti delle facoltà conferite al rappresentante.
La legge condiziona dunque la verificazione dell’effetto negoziale diretto nei confronti del rappresentato alla sussistenza della legittimazione rappresentativa in capo al rappresentante.
Il contratto, già perfezionato nei suoi elementi essenziali, è pertinente al rappresentato soltanto se questi ha autorizzato che lo si stipulasse in suo nome.
Invece il negozio concluso da chi agisce come rappresentante senza essere tale oppure da chi, pur essendo titolare del potere rappresentativo, ne abbia ecceduto i limiti, non impegna la sfera giuridica del preteso rappresentato, cioè della persona il cui nome è stato illegittimamente speso.
Il contratto stipulato in difetto o in eccesso di rappresentanza non vincola il falsamente rappresentato verso il terzo, perchè chi ha agito non aveva il potere di farlo.
Si tratta di un contratto – non nullo e neppure annullabile – ma inefficace in assenza di ratifica (Sez. 2^, 15 dicembre 1984, n. 6584; Sez. 1^, 14 maggio 1997, n. 4258; Sez. 2^, 11 ottobre 1999, n. 11396; Sez. 2^, 7 febbraio 2008, n . 2860): il negozio stipulato, in rappresentanza di altri, da chi non aveva il relativo potere, è privo di ogni efficacia come tale, potendo acquistarla soltanto in seguito all’eventuale ratifica da parte dell’interessato (Sez. 2^, 26 novembre 2001, n. 14944).
Il terzo contraente, pertanto, non ha titolo per esercitare nei confronti dello pseudo rappresentato l’azione di inadempimento (Sez. 1^, 29 agosto 1995, n . 9061) nè quella per l’esecuzione del contratto (Sez. 3^, 23 marzo 1998, n. 3076).
Talvolta si afferma anche che l’inefficacia (temporanea) discende dal fatto che il contratto concluso dal falsus procurator costituisce una fattispecie soggettivamente complessa o a formazione progressiva, un negozio in itinere o in stato di pendenza, destinato a perfezionarsi con la ratifica del dominus (Sez. 2^, 8 luglio 1983, n. 4601; Sez. 2^, 17 giugno 2010, n. 14618).
Ove la spendita del nome non trovi giustificazione nel potere di rappresentanza (si legge in Sez. 1^, 9 dicembre 1976, n. 4581) “il negozio non si può ritenere concluso nè dal sostituto nè dal sostituito ed è perciò improduttivo degli effetti suoi propri, configurando … una fattispecie negoziale in itinere, al cui perfezionamento è necessario, ai sensi dell’art. 1399 c.c., l’ulteriore elemento della ratifica, solo in conseguenza della quale il regolamento diventa retroattivamente impegnativo anche per il dominus”; “il contratto – medio tempore, cioè tra il momento della conclusione e quello della ratifica – è in stato di quiescenza” (Sez. 1^, 24 giugno 1969, n. 2267).
5.1.1. – D’altra parte, quando si pone sul terreno dell’applicazione della regola dell’onere della prova, la giurisprudenza di questa Corte non esita a collocare il potere rappresentativo tra gli elementi della fattispecie costitutiva.
Si afferma, infatti, che, poichè il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato produce, a norma dell’art. 1388 cod. civ., direttamente i suoi effetti nei confronti di quest’ultimo solo in quanto il rappresentante abbia agito nei limiti delle facoltà conferitegli, ove il rappresentato neghi di avere rilasciato l’invocata procura, spetta al terzo che ha contrattato con il rappresentante l’onere di provare l’esistenza e i limiti della procura (Sez. 3^, 10 ottobre 1963, n. 2694; Sez. 3^, 7 gennaio 1964, n. 13; Sez. 1^, 13 dicembre 1966, n. 2898; Sez. 3^, 26 ottobre 1968, n. 3598; Sez. 3^, 30 maggio 1969, n. 1935; Sez. 3^, 8 febbraio 1974, n. 372; Sez. 3^, 25 novembre 1976, n. 4460; Sez. Lav., 29 luglio 1978, n. 3788).
6. – La deduzione della inefficacia del contratto stipulato in suo nome da un rappresentante senza poteri rappresenta, pertanto, non una eccezione, ma mera difesa, con la quale il convenuto non estende l’oggetto del processo al di là del diritto fatto valere dall’attore, nè allarga l’insieme dei fatti rilevanti allegati al giudizio.
6.1. – Trattandosi di mera difesa, varranno le seguenti regole processuali:
– (a) in linea di principio, per la formulazione di tale deduzione difensiva il codice di procedura civile non prevede alcuna specifica limitazione temporale (cfr. Sez. 3^, 16 luglio 2002, n. 10280; Sez. lav., 9 ottobre 2007, n. 21073; Sez. 3^, 17 maggio 2011, n. 10811; Sez. lav., 16 novembre 2012, n. 20157; Sez. 3^, 12 novembre 2013, n. 25415);
– (b) peraltro, la circostanza che l’interessato, costituito nel processo, ometta di prendere posizione circa la sussistenza del potere rappresentativo allegato dall’avversario a sostegno della propria domanda, o comunque ometta di contestare specificamente tale fatto, costituisce un comportamento processuale significativo e rilevante sul piano della prova del fatto medesimo, determinando, in applicazione del principio di non contestazione (per cui v., ora, l’art. 115 c.p.c., comma 1), una relevatio ab onere probandi;
– (b1) poichè la non contestazione è un comportamento processualmente significativo se riferito a un fatto da accertare nel processo e non alla determinazione della sua dimensione giuridica (cfr. Sez. Un., 23 gennaio 2002, n. 761), il difetto di specifica contestazione non spiega alcuna rilevanza quando la mancanza del potere rappresentativo dipenda, ad esempio, dalla nullità della procura, per difetto di forma prescritta per la sua validità;
– (b2) il mero difetto di contestazione specifica, ove rilevante, non impone in ogni caso al giudice un vincolo assoluto (per così dire, di piena conformazione), obbligandolo a considerare definitivamente come provata (e quindi come positivamente accertata in giudizio) la legittimazione rappresentativa non contestata, in quanto il giudice può sempre rilevare l’inesistenza del fatto allegato da una parte anche se non contestato dall’altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (cfr. Sez. lav., 6 dicembre 2004, n. 22829; Sez. lav., 8 agosto 2006, n. 17947; Sez. lav., 10 luglio 2009, n. 16201; Sez. lav., 4 aprile 2012, n. 5363);
– (c) allorchè la mancanza del potere rappresentativo sia acquisita agli atti, di essa il giudice può tenere conto anche in assenza di una specifica deduzione della parte interessata, giacchè la sussistenza dei fatti costitutivi della domanda deve essere esaminata e verificata dal giudice anche d’ufficio (cfr. Sez. 1^, 5 agosto 1948, n. 1390; Sez. 2^, 15 febbraio 2002, n. 2214; Sez. 3^, 28 giugno 2010, n. 15375);
7. – Se poi sia lo pseudo rappresentato ad agire in giudizio con una domanda che presuppone l’efficacia del contratto concluso in suo nome dal rappresentante senza poteri (ad esempio, al fine di ottenere la condanna del terzo ad adempiere o la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte), certamente nè il terzo potrà difendersi opponendo la carenza del potere di rappresentanza, nè vi sarà spazio per un rilievo officioso di quella carenza di legittimazione.
Lo stesso superamento delle ragioni per una rilevabilità d a parte del giudice si avrà se lo stesso pseudo rappresentato, questa volta convenuto in giudizio, si difenda nel merito tenendo un comportamento da cui risulti in maniera chiara e univoca la volontà di fare proprio il contratto concluso in suo nome e conto dal falsus procurator (cfr. Sez. 2^, 15 novembre 1994, n. 9638; Sez. 1^, 8 aprile 2004, n. 6937).
Nell’uno e nell’altro caso, questo dipende dal fatto che il comportamento tenuto nel processo dal dominus opera anche sul terreno del diritto sostanziale, facendo venir meno, con la ratifica (pur se tacita), l’originaria carenza dei poteri di rappresentanza e, con essa, la non vincolatività, per la sfera giuridica della persona il cui nome è stato speso, del contratto stipulato dal falsus procurator.
8. – Conclusivamente, deve essere affermato il seguente principio di diritto: “Poichè la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base di detto negozio, non costituisce eccezione, e pertanto non ricade nelle preclusioni previste dagli artt. 167 e 345 c.p.c., la deduzione della inefficacia per lo pseudo rappresentato del contratto concluso dal falsus procurator; ne consegue che, ove il difetto di rappresentanza risulti dagli atti, di esso il giudice deve tener conto anche in mancanza di specifica richiesta della parte interessata, alla quale, a maggior ragione, non è preclusa la possibilità di far valere la mancanza del potere rappresentativo come mera difesa”.
9. – Sulla base dell’enunciato principio di diritto va esaminato il primo motivo del ricorso, con cui si denuncia la nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto che il difetto di potere in capo ai rappresentanti in ordine alla pattuita compensazione della posta debitoria di Euro 1.075.019,74, pari al prezzo residuo della compravendita immobiliare, non fosse rilevabile d’ufficio.
9.1. – Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha riconosciuto che l’effetto estintivo è stato ottenuto “mediante un’attività negoziale posta in essere da falsi procuratores”, giacchè dall’esame della procura emerge che i rappresentanti di F.A. non avevano il potere di accedere ad un accordo, collaterale ai contratti di vendita immobiliare, comportante la compensazione del prezzo della vendita con crediti che la società acquirente vantava nei confronti (non di F.A. ma) di società di capitali terze riferibili ad F.A.. D a ciò consegue l’inefficacia, ai sensi dell’art. 1398 c.c., del patto di compensazione collaterale ai contratti di compravendita immobiliare.
Ha tuttavia errato la Corte d’appello a ritenere che l’inefficacia del patto di compensazione fosse deducibile solo con eccezione di parte (non sollevata nella specie tempestivamente, nel rispetto delle ordinarie preclusioni processuali, dalla cessionaria R.).
Poichè la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha stipulato il contratto spendendo il nome altrui è elemento costitutivo della pretesa che il terzo contraente intenda far valere in giudizio sulla base di detto negozio, ben poteva il Tribunale, senza incorrere in extrapetizione, rilevare dalla documentazione risultante dagli atti la mancanza in capo ai procuratori speciali di poteri ulteriori rispetto a quelli necessari per concludere il negozio traslativo (“non risultando… che i poteri rappresentativi conferiti da F.A. ai propri procuratori coprissero alcun pagamento di debito altrui e quindi la possibilità, per Hypo Vorarlberg, di procedere alla compensazione come in effetti attuata”).
9.2. – La controricorrente Hypo ha dedotto ragioni di opposizione all’accoglimento del motivo di ricorso, deducendo:
(a) che la quietanza liberatoria apposta dai procuratori con la firma all’atto di compravendita era idonea a dare conferma dell’avvenuto pagamento del prezzo;
(b) che dall’esame della procura in atti si ricava “che i procuratori di F.A. erano senz’altro muniti dei necessari poteri per concludere un accordo negoziale di compensazione per una parte del prezzo di vendita”;
(c) che il Tribunale, omettendo di attivare il contraddittorio sulla eccezione sollevata d’ufficio, avrebbe “spiazzalo… la difesa della Hypo (ma forse della stessa difesa di controparte, la quale fino ad allora aveva semplicemente sostenuto che mancava la prova scritta della transazione conclusa, senza mettere mai in dubbio i poteri conferiti ai procuratori”);
(d) che “la cessionaria non è legittimata a sollevare questioni sui limiti dei poteri dei terzi, essendo estranea al rapporto che si era instaurato tra il rappresentato F.A. e i suoi procuratori generali F.C. e Cl.”.
Si tratta di profili che non possono trovare ingresso in questa sede.
Su alcuni di essi, infatti, vi sono altrettante statuizioni della Corte d’appello.
Infatti la sentenza impugnata:
ha escluso il valore confessorio delle quietanze (giacchè l’ammissione da parte di Hypo “di non aver saldato per intero il prezzo di acquisto degli immobili equivale ad aver controdichiarato che è solo apparente il relativo contenuto confessorio”);
ha convalidato, anche alla luce della procura prodotta da Hypo in sede di gravame, la conclusione circa il difetto di potere in capo ai rappresentanti di F.A.;
ha riconosciuto che la cessionaria ha “efficacemente acquistato il diritto di credito e con esso la legittimazione processuale ad agire per soddisfarlo”.
Rispetto a queste statuizioni la resistente non ha proposto alcun motivo di ricorso: non solo formalmente (l’atto notificato e depositato nel giudizio è denominato “controricorso” e conclude per il “rigetto” del ricorso proposto dalla controparte), ma nemmeno contestando la sentenza impugnata mediante l’articolazione di censure e l’individuazione delle norme che sarebbero state violate o falsamente applicate dal giudice d’appello.
Quanto, poi, al profilo della mancata sottoposizione al contraddittorio delle parti, da parte del Tribunale, della “eccezione”, rilevata d’ufficio, della carenza dei poteri dei rappresentanti, si tratta di questione ormai preclusa, ex art. 161 c.p.c., comma 1, perchè Hypo non ha svolto apposito motivo di appello per far valere la relativa violazione processuale ad opera del Tribunale; e si tratta, prima ancora, di deduzione che non ha ragion d’essere, posto che non è decisione “a sorpresa” il rilievo, da parte del giudice, della mancata prova di un elemento costitutivo del diritto azionato dalla parte.
9.2.1. – Nella memoria illustrativa, la difesa della controricorrente Hypo deduce ulteriormente che la cessionaria avrebbe “inequivocabilmente posto in essere un comportamento incompatibile con il disconoscimento della sua qualità d i destinatario degli effetti contrattuali” ed avrebbe “finito per esercitare il potere di ratificare, di esercitare cioè il proprio diritto potestativo di appropriarsi degli effetti del contratto rendendolo definitivamente efficace”.
Si tratta di rilievo non condivisibile.
Invero, di ratifica tacita può parlarsi solo ove l’atto o il comportamento, da cui risulti in maniera chiara la volontà di fare proprio il negozio concluso dal falsus procurator, provenga dall’interessato o dai suoi eredi (art. 1399 c.c., comma 1 e u.c., cod. civ.).
Nella specie, invece, il comportamento processuale a cui si vorrebbe dare rilevanza è quello del cessionario del credito derivato al cedente da un precedente contratto, quindi di un acquirente a titolo particolare dal dominus, al quale non spetta la facoltà di ratifica.
10. – Il ricorso contiene due ulteriori censure.
10.1. – Con il secondo motivo (nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c.) si censura nuovamente l’errata qualificazione della c.d. eccezione di inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator, in relazione, questa volta, all’appello incidentale svolto dalla R. con riferimento all’ulteriore importo della domanda di condanna pari a Euro 38.964,31, costituente l’IVA sull’importo di Euro 231.785,88.
10.1.1. – Il motivo è inammissibile.
Occorre rilevare che dalla sentenza impugnata si ricava che l’importo di Euro 38.964,31 corrisponde ad “un credito per rimborso IVA che la compratrice assumeva di vantare nei confronti del venditore in proprio e non nei confronti delle sue società”.
In sostanza – prosegue la sentenza – Hypo “ha pagato un corrispettivo, comprensivo di IVA, ad un terzo per una prestazione da lui resa. Ha, quindi, addebitato ad F.A. l’intero importo versato, IVA inclusa”.
Tanto premesso, la sentenza è giunta alla conclusione che, p e r questa posta, “l’effetto estintivo dell’obbligo di pagare il prezzo della vendita ha fonte in un duplice titolo”.
Per un verso, esso, secondo la Corte d’appello, rinviene il proprio fondamento “nella reciprocità di posizioni creditorie e debitorie tra F.A. e Hypo Vorarlberg Leasing s.p.a.”.
Sotto questo profilo, i giudici del gravame hanno dato continuità alla ratio decidendi che sostiene la pronuncia del Tribunale: la quale – premesso che nella vicenda in esame Hypo è intervenuta rimborsando alla società Rigotti i costi di canalette per l’importo, risultante da una sentenza del Tribunale di Trento, di Euro 231.785,88 (IVA inclusa), e che per l’importo in questione la compensazione è stata operata “effettivamente tra debiti e crediti esistenti tra le stesse parti, quindi legittimamente” – ha rilevato che, essendo l’importo nel suo complesso determinato da titolo giudiziale tra la società Rigotti e F.A., esso era dovuto per intero, sicchè spettava a Rigotti inserire, nella contabilità IVA, la ricezione dell’importo e girarla non a F., ma alla competente amministrazione finanziaria.
Per l’altro verso, il titolo è rappresentato – prosegue la Corte d’appello – dal “patto compensativo collaterale alla vendita immobiliare. Sicchè per impedirlo è imprescindibile la declaratoria d’inefficacia del patto”, patto dalla cessionaria “infondatamente impugnato solo sotto il profilo del difetto della forma scritta che deve rivestire una transazione”.
Ora, con il motivo di ricorso la R. censura questa seconda ratio decidendi, lamentando che la Corte d’appello abbia affermato che l’accoglimento della domanda di condanna presuppone l’inefficacia del patto compensativo per carenza di poteri di rappresentanza, che non sarebbe rilevabile d’ufficio. Ma la ricorrente non muove alcuna doglianza con riferimento all’altra, e concorrente, ratio decidendi, relativa alla legittimità della compensazione in ragione della reciprocità di posizioni creditorie e debitorie tra il F. e Hypo.
Trova pertanto applicazione il principio secondo cui ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte e d autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto d i interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (Sez. lav., 11 febbraio 2011, n. 3386; Sez. Un., 29 marzo 2013, n. 7931).
10.2. – L’accoglimento del primo motivo e l’inammissibilità del secondo mezzo rendono assorbito l’esame del terzo motivo, con cui, denunciandosi la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, si lamenta l’omessa pronuncia della Corte d’appello sull’eccezione sollevata dalla R. a pag. 6 della sua comparsa di risposta con appello incidentale, relativa alla carenza di potere dei rappresentanti di F.A..
11. – La sentenza impugnata è cassata in relazione alla censura accolta.
11.1. – La causa non può essere decisa nel merito, essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto. Infatti, con l’atto di appello (ne dà conto la sentenza impugnata alle pagine 16 e 17) Hypo ha censurato la sentenza di primo grado perchè sul credito riconosciuto alla cessionaria sono stati attribuiti gli interessi dalla data della vendita immobiliare anzichè dalla data della successiva cessione, come stabilito dall’art. 1263 c.c., u.c..
L’esame di questo motivo di gravame è stato evidentemente ritenuto assorbito dalla Corte territoriale, la quale, avendo escluso (a causa della ravvisata extrapetizione) il diritto di credito al pagamento della somma capitale, non aveva ragione di occuparsi della decorrenza degli interessi.
La questione della decorrenza degli interessi torna invece di attualità per effetto dell’accoglimento del primo motivo dell’odierno ricorso per cassazione. Ma si tratta di questione il cui scrutinio deve essere rimesso alla Corte territoriale, occorrendo esaminare il negozio di cessione tra F. e R. al fine di stabilire se esso contenga il patto contrario alla disciplina sui frutti scaduti recata dall’art. 1263 c.c..
11.2 – Il giudice del rinvio – che si individua nella Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in diversa composizione – provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il secondo e assorbito l’esame del terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2015.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 27 giugno 2014, n. 14688, per SS.UU, 03 giugno 2015, n. 11377, in tema di falsus procurator
SS.UU, 03 giugno 2015, n. 11377, in tema di falsus procurator
In tema di assicurazione della responsabilità civile – SS.UU, 06 maggio 2016, n. 9140
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –
Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente Sezione –
Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –
Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere –
Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –
Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –
Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 13729/2012 proposto da:
PROVINCIA RELIGIOSA DI S. PIETRO DELL’ORDINE OSPEDALIERO D I S. GIOVANNI DI DIO FATEBENEFRATELLI, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 229, presso lo studio dell’avvocato GIULIANO MARIA POMPA, che la rappresenta e difende, per delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
CATTOLICA ASSICURAZIONI COOP. A R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato PIERFILIPPO COLETTI, che la rappresenta e difende, per delega in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
REALE MUTUA ASSICURAZIONI S.P.A., ZURICH INSURANCE PLC, PRESUTTO ANDREA, DUOMO UNIONE ASSICURAZIONI S.P.A., MMI DANNI S.P.A.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 405/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 24/01/2012; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/01/16 dal Cons. Dott. ADELAIDE AMENDOLA;
uditi gli avvocati Giuliano Maria POMPA, Pierfilippo COLETTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso, assorbiti gli altri, statuendosi i principi cui dovrà attenersi il giudice di merito al fine di stabilire se la clausola claims made sia vessatoria.
Svolgimento del processo
Con sentenza del 18 dicembre 2008 il Tribunale di Roma accolse la domanda proposta da Presutto Andrea nei confronti della Provincia Religiosa di S. Pietro dell’Ordine Ospedaliero di S. Giovanni di Dio Fatebenefratelli (di seguito anche solo Provincia Religiosa), domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni da lui subiti per effetto della condotta dei medici della struttura che lo avevano curato. E nel condannare l’ente al pagamento della somma liquidata al paziente a titolo di ristoro dei pregiudizi patiti, dichiarò tutte le compagnie assicurative chiamate in causa dalla convenuta tenute a manlevare la responsabile-assicurata nei limiti previsti dalle rispettive polizze.
Propose appello la Società Cattolica di Assicurazioni s.p.a., anche quale delegataria delle coassicuratrici Zurich Insurance PLC (per la quota del 30%) e di Reale Mutua (per la quota del 20%), censurando la ritenuta inoperatività della clausola c.d. claims made – letteralmente “a richiesta fatta” – inserita nella polizza n. 11891, da essa stipulata con la Provincia Religiosa, in quanto derogativa, secondo il giudice di prime cure, del primo comma dell’art. 1917 c.c., e quindi del principio in base al quale la copertura assicurativa si estende a tutti i fatti accaduti durante la vigenza del contratto. Sostenne segnatamente l’esponente che, nell’adottare tale errata soluzione, il decidente non aveva considerato che la pattuizione intitolata “Condizione speciale – Inizio e Termine della Garanzia”, in base alla quale la manleva valeva per le istanze risarcitorie presentate per la prima volta nel periodo di efficacia dell’assicurazione, purchè il fatto che aveva originato la richiesta fosse stato commesso nello stesso periodo o nel triennio precedente alla stipula, era pienamente valida ed efficace, anche in assenza di una specifica sottoscrizione, in quanto volta a delimitare l’oggetto del contratto e non a stabilire una limitazione di responsabilità.
Con la sentenza ora impugnata, depositata il 16 dicembre 2011, la Corte d’appello di Roma ha rigettato la domanda di manleva della Provincia nei confronti della Cattolica e delle coassicuratrici.
In motivazione la Curia capitolina, affermata la piena validità della clausola, ne ha altresì escluso il carattere vessatorio rilevando che la stessa, lungi dal rappresentare una limitazione della responsabilità della società assicuratrice, estende la copertura ai fatti dannosi verificatisi prima della stipula del contratto.
Il ricorso della Provincia Religiosa avverso detta decisione è articolato su tre motivi.
Si sono difese con controricorso la Società Cattolica Assicurazioni Coop. a r.l. e Zurich Insurance PLC.
A seguito di istanza dell’impugnante, il Primo Presidente, ritenuto che la controversia presentava una questione di massima di particolare importanza, ne ha disposto l’assegnazione alle sezioni unite.
Fissata l’udienza di discussione, entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Va anzitutto sgombrato il campo dall’eccezione, sollevata in limine dalla Società Cattolica di Assicurazione Coop. a r.l. e dalla Zurich Insurance PLC, di inammissibilità del ricorso per violazione del principio di autosufficienza. Sostengono invero le resistenti che l’impugnazione violerebbe il disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, posto che non sarebbe riportato il testo del contratto nè ne sarebbe indicata l’esatta allocazione nel fascicolo processuale.
Il rilievo non ha pregio.
La preliminare verifica evocata dalle società assicuratrici è destinata ad avere esito positivo a condizione che il ricorso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, nonchè di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle argomentazioni con le quali il decidente ha giustificato la scelta decisoria adottata. Nello specifico, il nodo problematico sul quale è stato sollecitato l’intervento nomofilattico delle sezioni unite, attiene alla validità di una clausola il cui contenuto è assolutamente pacifico tra le parti ed è comunque stato trascritto in ricorso, di talchè non avrebbe senso sanzionare con l’inammissibilità l’omissione delle indicazioni necessarie alla facile reperibilità del testo dell’intero contratto, considerato che nessun ausilio esso apporterebbe alla soluzione delle questioni poste dalla proposta impugnazione. E’ sufficiente all’uopo considerare che le deduzioni hinc et inde svolte a sostegno delle rispettive tesi difensive, omettono qualsivoglia riferimento a pattuizioni diverse d a quella racchiusa nella clausola in contestazione, volta a circoscrivere, nei sensi che di qui a poco si andranno a precisare, l’obbligo della garante di manlevare la garantita.
2.1 Per le stesse ragioni, e specularmente, l’eccezione di giudicato esterno sollevata da entrambe le parti, nelle memorie ex art. 378 c.p.c., e nel corso della discussione orale, in relazione a sentenze definitive che, con riferimento alla polizza n. (OMISSIS) oggetto del presente giudizio, avrebbero pronunciato sulla validità della contestata condizione, non può sortire l’effetto di precludere la decisione di questa Corte sul merito della proposta impugnazione. Mette conto in proposito ricordare che, nel giudizio di legittimità, il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con i criteri redazionali desumibili dal disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 6. E tanto per la dirimente considerazione che l’interpretazione del giudicato esterno, pur essendo assimilabile a quella degli elementi normativi astratti, in ragione della sua natura di norma regolatrice del caso concreto, va comunque effettuata sulla base di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza e nella motivazione che la sorregge, di talchè la relativa deduzione soggiace all’onere della compiuta indicazione di tutti gli elementi necessari al compimento del sollecitato scrutinio (cfr. Cass. civ. 10 dicembre 2015, n. 24952).
2.2. Venendo al caso di specie, le contrapposte deduzioni delle parti in ordine all’esistenza di sentenze passate in giudicato che, con esiti niente affatto coincidenti, si sarebbero pronunciate sulle questioni oggetto del presente giudizio, non sono accompagnate dalla indicazione degli elementi indispensabili alla verifica della fondatezza dell’eccezione, nei sensi testè esplicitati.
Ne deriva che l’eccezione di giudicato esterno va disattesa.
3.1. Passando quindi all’esame della proposta impugnazione, con il primo motivo, la Provincia Religiosa, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1341, secondo comma, cod. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, contesta la negativa valutazione della natura vessatoria della clausola.
Rileva segnatamente l’esponente che la stessa, non integrando l’oggetto del contratto, ma piuttosto limitando la responsabilità della compagnia assicuratrice, ovvero prevedendo decadenze, limitazioni alla facoltà di proporre eccezioni e restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi, facoltà di sospendere l’esecuzione, richiedeva una specifica sottoscrizione, nella specie mancante.
Aggiunge che, mentre la previsione pattizia non infirma la tipicità dello schema negoziale, l’estensione della garanzia a sinistri occorsi in periodi precedenti alla vigenza della polizza è ben possibile anche in contratti conformati sul modello “loss occurrence”. In ogni caso – evidenzia – l’art. 1341 c.c., è norma che riguarda tutti i contratti, tipici o atipici che siano.
3.2. Con il secondo mezzo l’impugnante lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1341, 2964 e 2965 c.c., omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. Sostiene che la condizione apposta al contratto sarebbe nulla, ex art. 2965 c.c., per l’eccessiva difficoltà che ne deriverebbe all’esercizio del diritto alla manleva dell’assicurato, questione sulla quale la Corte di merito non si era affatto pronunciata, benchè la stessa fosse stata tempestivamente sollevata sin dal primo grado del giudizio.
3.3. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1337, 1358, 1366, 1374 e 1375 c.c., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. Sostiene l’esponente che la clausola in contestazione sarebbe nulla per contrarietà ai principi di correttezza e buona fede, poichè essa, intitolata inizio e termine della garanzia, non contiene alcun richiamo espresso alla circostanza che viene assicurato non già il fatto foriero di danno, ma la richiesta di danno che, insieme al fatto, deve intervenire nel corso di vigenza temporale della polizza.
4. Le critiche, che si prestano a essere esaminate congiuntamente per la loro evidente connessione, sono infondate. Va premesso, per una più agevole comprensione delle ragioni della scelta operata in dispositivo, che il contratto di assicurazione per responsabilità civile con clausola claims made (a richiesta fatta) si caratterizza per il fatto che la copertura è condizionata alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo d i vigenza della polizza (o anche in un delimitato arco temporale successivo, ove sia pattuita la c.d. sunset dose), laddove, secondo lo schema denominato “loss occurrence“, o “insorgenza del danno”, sul quale è conformato il modello delineato nell’art. 1917 c.c., la copertura opera in relazione a tutte le condotte, generatrici di domande risarcitorie, insorte nel periodo di durata del contratto. Senza addentrarsi nella “storia” della formula e del contesto giurisprudenziale ed economico in cui essa ebbe a germogliare, in quanto esorbitante rispetto ai fini della presente esposizione, mette conto nondimeno rilevare, per una migliore comprensione degli interessi in gioco, che la sua introduzione, circoscrivendo l’operatività della assicurazione a soli sinistri per i quali nella vigenza del contratto il danneggiato richieda all’assicurato il risarcimento del danno subito, e il danneggiato assicurato ne dia comunicazione alla propria compagnia perchè provveda a tenerlo indenne, consente alla società di conoscere con precisione sino a quando sarà tenuta a manlevare il garantito e ad appostare in bilancio le somme necessarie per far fronte alle relative obbligazioni, con quel che ne consegue, tra l’altro, in punto di facilitazione nel calcolo del premio da esigere.
5. Malgrado la variegata tipologia di clausole claims made offerte dalla prassi commerciale, esse, schematizzando al massimo, appaiono sussumibili in due grandi categorie:
a) clausole c.d. miste o impure, che prevedono l’operatività della copertura assicurativa solo quando tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano nel periodo di efficacia del contratto, con retrodatazione della garanzia, in taluni casi, come quello dedotto in giudizio, alle condotte poste in essere anteriormente (in genere due o tre anni dalla stipula del contratto);
b) clausole c.d. pure, destinate alla manleva di tutte le richieste risarcitorie inoltrate dal danneggiato all’assicurato e da questi all’assicurazione nel periodo di efficacia della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito.
6.1. Tanto premesso e precisato, ragioni di ordine logico consigliano di partire dall’esame delle censure con le quali l’impugnante contesta in radice la validità della clausola claims made, segnatamente esposte nel secondo e del terzo motivo di ricorso. Orbene, in relazione ai particolari profili di nullità ivi evocati, le critiche sono destituite di fondamento, ancorchè la problematica della liceità dei patti in essa racchiusi non possa esaurirsi nella loro confutazione e necessiti di alcune, significative precisazioni. Anzitutto non è condivisibile l’assunto secondo cui il decidente non avrebbe risposto alla deduzione di nullità della clausola per contrarietà al disposto dell’art. 2965 c.c.. La Corte territoriale ha invero scrutinato la validità del patto, espressamente negando, ancorchè con motivazione estremamente sintetica, che lo stesso integrasse violazione di alcuna norma imperativa.
Il che significa che la prospettazione dell’appellata non è sfuggita al vaglio critico del giudicante.
6.2. Deve in ogni caso escludersi che la limitazione della copertura assicurativa alle “richieste di risarcimento presentate all’Assicurato, per la prima volta, durante il periodo d i efficacia dell’assicurazione“, in relazione a fatti commessi nel medesimo lasso temporale o anche in epoca antecedente, ma comunque non prima di tre anni dalla data del suo perfezionamento, integri una decadenza convenzionale, soggetta ai limiti inderogabilmente fissati nella norma codicistica di cui si assume la violazione. E invero l’istituto richiamato, implicando la perdita di un diritto per mancato esercizio dello stesso entro il periodo di tempo stabilito, va inequivocabilmente riferito a già esistenti situazioni soggettive attive nonchè a condotte imposte, in vista del conseguimento di determinati risultati, a uno dei soggetti del rapporto nell’ambito del quale la decadenza è stata prevista. Invece la condizione racchiusa nella clausola in contestazione consente o preclude l’operatività della garanzia in dipendenza dell’iniziativa di un terzo estraneo al contratto, iniziativa che peraltro incide non sulla sorte di un già insorto diritto all’indennizzo, quanto piuttosto sulla nascita del diritto stesso.
Ne deriva che non v’è spazio per una verifica di compatibilità della clausola con il disposto dell’art. 2965 c.c..
7.1. Pure infondata è la deduzione di nullità per asserito contrasto della previsione pattizia con le regole di comportamento da osservarsi nel corso della formazione del contratto e nello svolgimento del rapporto obbligatorio. Non è qui in discussione che i reiterati richiami del codice alla correttezza come regola alla quale il debitore e il creditore devono improntare il proprio comportamento (art. 1175 c.c.), alla buona fede come criterio informatore della interpretazione e della esecuzione del contratto (artt. 1366 e 1375 c.c.), e all’equità, quale parametro delle soluzioni da adottare in relazione a vicende non contemplate dalle parti (art. 1374 c.c.), facciano della correttezza (o buona fede in senso oggettivo) un metro di comportamento per i soggetti del rapporto, e un binario guida per la sintesi valutativa del giudice, il cui contenuto non è a priori determinato; nè che il generale principio etico-giuridico di buona fede nell’esercizio dei propri diritti e nell’adempimento dei propri doveri, insieme alla nozione di abuso del diritto, che ne è l’interfaccia, giochino un ruolo fondamentale e in funzione integrativa dell’obbligazione assunta dal debitore, e quale limite all’esercizio delle corrispondenti pretese; nè, ancora, che, attraverso le richiamate norme, possa venire più esattamente individuato, e per così dire arricchito, il contenuto del singolo rapporto obbligatorio, con l’estrapolazione di obblighi collaterali (di protezione, di cooperazione, di informazione), che, in relazione al concreto evolversi della vicenda negoziale, vadano, in definitiva a individuare la regula iuris effettivamente applicabile e a salvaguardare la funzione obbiettiva e lo spirito del regolamento di interessi che le parti abbiano inteso raggiungere.
7.2. Ciò che tuttavia rileva, ai fini del rigetto delle proposte censure, è che, in disparte quanto appresso si dirà (al n. 17.), in ordine al giudizio di meritevolezza di regolamenti negoziali oggettivamente non equi e gravemente sbilanciati, la violazione di regole di comportamento ispirate a quel dovere di solidarietà che, sin dalla fase delle trattative, richiama “nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore“, secondo l’icastica enunciazione della Relazione ministeriale al codice civile, in nessun caso potrebbe avere forza ablativa di un vincolo convenzionalmente assunto, essendo al più destinato a trovare ristoro sul piano risarcitorio (confr. Cass. civ. 10 novembre 2010, n. 22819; Cass. civ. 22 gennaio 2009, n. 1618; Cass. civ. sez. un. 25 novembre 2008, n. 28056).
7.3. Ora, con specifico riguardo alle censure svolte nel terzo motivo, ciò di cui l’impugnante Provincia Religiosa si duole è che l’inserimento della clausola sia avvenuta i n maniera asseritamente subdola, posto che la sua denominazione “inizio e termine della garanzia” avrebbe fuorviato il consenso dell’aderente, affatto inconsapevole di un contenuto che stravolge lo schema codicistico del contratto assicurativo, ispirato alla formula loss occurence: da tanto inferendo non già l’esistenza di ipotesi di annullabilità per errore o dolo o di variamente modulati diritti risarcitori dell’assicurato nei confronti dell’assicuratore, ma la nullità radicale e assoluta della clausola sub specie di illiceità che vitiatur sed non vitiat, con conseguente attivazione del meccanismo sostitutivo d i cui all’art. 1419 c.c., comma 2, implicitamente, ma inequivocabilmente evocato. E tuttavia, si ripete, è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, al quale si intende dare continuità, che, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di precetti inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità, non già l’inosservanza di norme, quand’anche imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, inosservanza che può costituire solo fonte di responsabilità per danni (cfr. Cass. civ. 10 aprile 2014, n. 8462; Cass. civ. 19 dicembre 2007, n. 26724).
Ne deriva che le censure poste nel primo e nel secondo motivo di ricorso non colgono nel segno.
8. L’ampiezza dello scrutinio nomofilattico sollecitato e le peculiarità proprie della fattispecie dedotta in giudizio, inducono queste sezioni unite a esaminare un ulteriore, possibile profilo di invalidità della clausola in contestazione, per vero assai dibattuto, soprattutto in dottrina e nella giurisprudenza di merito.
Merita evidenziare, sul piano fattuale:
a) che il sinistro, e cioè l’omessa diagnosi dei cui effetti pregiudizievoli P.A. ha chiesto di essere ristorato, si è verificato nell’agosto 1993;
b) che l’arco temporale di vigenza della polizza dedotta in giudizio andava dal 21 febbraio 1996 al 31 dicembre 1997, con effetto retroattivo al triennio precedente;
c) che la copertura assicurativa era in ogni caso limitata alle richieste di risarcimento presentate p e r la prima volta all’assicurato durante il periodo di operatività dell’assicurazione, e quindi entro il 31 dicembre 1997;
d) che nella fattispecie la domanda del paziente venne avanzata nel giugno 2001.
E allora, considerato che il sinistro di cui la chiamante ha chiesto di essere indennizzata si è verificato in epoca antecedente alla stipula del contratto, risulta ineludibile il confronto con la vexata quaestio della validità dell’assicurazione del rischio pregresso. Si ricorda all’uopo che l’assicurabilità di fatti generatori di danno verificatisi prima della conclusione del contratto, ma ignorati dall’assicurato, è stata ed è fortemente osteggiata da coloro che ravvisano nella clausola claims made così strutturata una sostanziale mancanza dell’alea richiesta, a pena di nullità, dall’art. 1895 c.c.. E invero – si sostiene – posto che il rischio dedotto in contratto deve essere futuro e incerto, giammai il c.d. rischio putativo potrebbe trovare copertura.
9. Da tale opinione le Sezioni unite ritengono tuttavia di dovere dissentire, così confermando l’orientamento già espresso da questa Corte negli arresti n. 7273 del 22 marzo 2013, e n. 3622 del 17 febbraio 2014. Affatto convincente appare in proposito il rilievo che l’estensione della copertura alle responsabilità dell’assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto non fa venir meno l’alea e, con essa, la validità del contratto, se al momento del raggiungimento del consenso le parti (e, in specie, l’assicurato) ne ignoravano l’esistenza, potendosi, in caso contrario, opporre la responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893 c.c., per le dichiarazioni inesatte o reticenti. A ciò aggiungasi che, come innanzi evidenziato, il rischio dell’aggressione del patrimonio dell’assicurato in dipendenza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza, si concretizza progressivamente, perchè esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causalmente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento: ne deriva che la clausola claims made con garanzia pregressa è lecita perchè afferisce a un solo elemento del rischio garantito, la condotta colposa posta già in essere e peraltro ignorata, restando invece impregiudicata l’alea dell’avveramento progressivo degli altri elementi costitutivi dell’ impoverimento patrimoniale del danneggiante-assicurato.
Non a caso, del resto, il rischio putativo è espressamente riconosciuto nel nostro ordinamento dall’art. 514 c.n., con disposizione che non v’è motivo di ritenere eccezionale.
10. L’affermato carattere grandangolare del giudizio di nullità (cfr. Cass. civ. sez. un. 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243), impone a questo punto di farsi carico degli ulteriori rilievi – disseminati qua e là, nel corpo delle complesse e articolate argomentazioni formulate dalla ricorrente a illustrazione della sua linea difensiva – volti a evidenziare la consustanziale e invincibile contrarietà della clausola con la struttura propria del contratto di assicurazione, posto che essa, legando la copertura dei sinistri alla condizione che ne venga chiesto il ristoro entro un certo periodo di tempo, decorso il quale cessa ogni obbligo di manleva per la compagnia, stravolgerebbe, a danno dell’assicurato, la struttura tipica del contratto, quale delineato nell’art. 1917 c.c., che, conformata, come s i è detto, sul modello c.d. loss occurrence, assicura la copertura di tutti i sinistri occorsi nel periodo di tempo di vigenza della polizza.
Secondo tale prospettiva, che ha trovato riscontro in talune pronunce della giurisprudenza di merito e adesioni in dottrina, la clausola sarebbe nulla perchè vanificherebbe la causa del contratto di assicurazione, individuata, con specifico riferimento all’assicurazione sulla responsabilità professionale, nel trasferimento, dall’agente all’assicuratore, del rischio derivante dall’esercizio dell’attività, questa e non la richiesta risarcitoria essendo oggetto dell’obbligo di manleva.
11. Sul piano strettamente dogmatico la tesi dell’intangibilità del modello codicistico si scontra contro il chiaro dato testuale costituito dall’art. 1932 c.c., che tra le norme inderogabili non menziona l’art. 1917 c.c., comma 1. Il che, in via di principio, consente alle parti d i modulare, nella maniera ritenuta più acconcia, l’obbligo del garante di tenere indenne il garantito “di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione“, deve pagare a un terzo.
Si tratta piuttosto di stabilire fino a che punto i paciscenti possano spingersi nella riconosciuta loro facoltà di variare il contenuto del contratto e quale sia il limite oltre il quale la manipolazione dello schema tipico sia in concreto idonea a d avvelenarne la causa. Non a caso, al riguardo, la tesi della nullità viene declinata nella ben più scivolosa chiave della immeritevolezza di tutela dell’assicurazione con clausola claims made, segnatamente di quella mista, in ragione della significativa delimitazione dei rischi risarcibili, del pericolo di mancanza di copertura in caso di mutamento dell’assicuratore e delle conseguenti, possibili ripercussioni negative sulla concorrenza tra le imprese e sulla libertà contrattuale.
12. In realtà, al fondo della manifesta insofferenza per una condizione contrattuale che appare pensata a tutto vantaggio del contraente forte, c’è la percezione che essa snaturi l’essenza stessa del contratto di assicurazione per responsabilità civile, legando l’obbligo di manleva a una barriera temporale che potrebbe scattare assai prima della cessazione del rischio che ha indotto l’assicurato a stipularlo, considerato che l’eventualità di un’aggressione del suo patrimonio persiste almeno fino alla maturazione dei termini di prescrizione. Peraltro una risposta soddisfacente e conclusiva a siffatto genere di dubbi non può prescindere da una più approfondita esegesi della natura della contestata clausola, operazione che, in quanto indispensabile alla identificazione del relativo regime giuridico, deve necessariamente confrontarsi anche con le critiche svolte nel primo motivo di ricorso.
13. Si tratta invero di stabilire se essa vada qualificata come limitativa della responsabilità, per gli effetti dell’art. 1341 c.c., ovvero dell’oggetto del contratto, tenendo conto che, in linea generale, per clausole limitative della responsabilità si intendono quelle che limitano le conseguenze della colpa o dell’inadempimento o che escludono il rischio garantito, mentre attengono all’oggetto del contratto le clausole che riguardano il contenuto e i limiti della garanzia assicurativa e, pertanto, specificano il rischio garantito (Cass. civ. 7 agosto 2014, n. 17783; Cass. civ. 7 aprile 2010, n. 8235; Cass. civ. 10 novembre 2009, n. 23741). In siffatta prospettiva si predica che si ha delimitazione dell’oggetto quando la clausola negoziale ha lo scopo di stabilire gli obblighi concretamente assunti dalle parti, laddove è delimitativa della responsabilità quella che ha l’effetto di escludere una responsabilità che, rientrando, in tesi, nell’oggetto, sarebbe altrimenti insorta.
14. Orbene, funzionale al divisato obbiettivo esegetico è anzitutto la considerazione che il fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione di cui parla l’art. 1917 c.c., non può essere identificato con la richiesta di risarcimento: non par dubbio infatti che il lemma – inserito all’interno di un contesto normativo in cui sono espressamente esclusi dall’area della risarcibilità i danni derivati dai fatti dolosi (art. 1917, comma 1, ultimo periodo); in cui sono imposti all’assicurato, con decorrenza dalla data del sinistro, significativi oneri informativi (art. 1913 cod. civ.); e in cui, infine, è espressamente sancito e disciplinato l’obbligo di salvataggio (art. 1914 c.c.) – si riferisce inequivocabilmente alla vicenda storica di cui l’assicurato deve rispondere (cfr. Cass. civ. 15 marzo 2005, n. 5624). Il che, se vale a far tracimare i contratti assicurativi con clausola claims made pura fuori della fattispecie ipotetica delineata nell’art. 1917 cod. civ., non è invece sufficiente a suffragare l’assunto secondo cui anche la clausola claims made mista inciderebbe sulla tipologia stessa del rischio garantito nel senso che questo non sarebbe più la responsabilità tout court, ma la responsabilità reclamata. L’affermazione che, si ripete, è certamente sostenibile con riferimento ai contratti assicurativi con clausola claims made pura, non resiste, con riguardo alle altre, al dirimente rilievo che, nell’ambito dell’assicurazione della responsabilità civile, il sinistro delle cui conseguenze patrimoniali l’assicurato intende traslare il rischio sul garante, è collegato non solo alla condotta dell’assicurato danneggiante, ma altresì alla richiesta risarcitoria avanzata dal danneggiato, essendo fin troppo ovvio che ove al comportamento lesivo non faccia seguito alcuna domanda di ristoro, nessun diritto all’indennizzo – e specularmente nessun obbligo di manleva insorgeranno a favore e a carico dei soggetti del rapporto assicurativo.
15. Se tutto questo è vero, il discostamento dal modello codicistico introdotto dalla clausola claims made impura, che è quella che qui interessa, mirando a circoscrivere la copertura assicurativa in dipendenza di un fattore temporale aggiuntivo, rispetto al dato costituito dall’epoca in cui è stata realizzata la condotta lesiva, si inscrive a pieno titolo nei modi e nei limiti stabiliti dal contratto, entro i quali, a norma dell’art. 1905 c.c., l’assicuratore è tenuto a risarcire il danno sofferto dall’assicurato. E poichè non è seriamente predicabile che l’assicurazione della responsabilità civile sia ontologicamente incompatibile con tale disposizione, il patto claims made è volto in definitiva a stabilire quali siano, rispetto all’archetipo fissato dall’art. 1917 c.c., i sinistri indennizzabili, così venendo a delimitare l’oggetto, piuttosto che la responsabilità.
16. Infine, e conclusivamente, nessuna consistenza hanno gli altri profili di vessatorietà evocati dalla Provincia Religiosa, a sol considerare che la pretesa, pattizia imposizione di decadenze è resistita dai medesimi rilievi svolti a proposito dell’eccepita nullità della clausola per contrarietà al disposto dell’art. 2965 c.c.; che la deduzione di un’incisione della libertà contrattuale del contraente non predisponente costituisce al più un inconveniente pratico che, in quanto effetto riflesso delle condizioni della stipula, è semmai passibile di valutazione in sede di scrutinio sulla meritevolezza della tutela, di cui appresso si dirà; che inesistente, infine, è la prospettata limitazione alla facoltà dell’assicurato di opporre eccezioni.
Ne deriva che correttamente il giudice di merito ha escluso sia le ragioni di nullità fatte valere dall’esponente che il carattere vessatorio della clausola.
17. Ritenuta inoperante la tutela, del resto meramente formale, assicurata dall’art. 1341 c.c., e conseguentemente infondate le critiche svolte nel primo mezzo, si tratta ora di considerare i possibili esiti di uno scrutinio di validità condotto sotto il profilo della meritevolezza di tutela della deroga al regime legale contrattualmente stabilita, riprendendo il discorso dal punto in cui lo si è lasciato (al n. 12.). Peraltro, se è approdo pacifico della teoria generale del contratto la possibilità di estendere il sindacato al singolo patto atipico, inserito in un contratto tipico, è di intuitiva evidenza che qualsivoglia indagine sulla meritevolezza deve necessariamente essere condotta in concreto, con riferimento, cioè, alla fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell’interprete. E invero i dubbi avanzati da questa Corte allorchè, interrogandosi in un obiter dictum sulla validità dell’esclusione dalla copertura assicurativa di un sinistro realizzato nel pieno vigore del contratto, in quanto la domanda risarcitoria era stata per la prima volta proposta dopo la scadenza della polizza, ebbe a ipotizzare problemi di validità della clausola, considerato che, in casi siffatti, verrebbe a mancare, “in danno dell’assicurato, il rapporto di corrispettività fra il pagamento del premio e il diritto all’indennizzo” (cfr. Cass. civ. 17 febbraio 2014, n. 3622), non appaiono passibili di risposte univoche, i n disparte il loro indiscutibile impatto emotivo.
E’ sufficiente al riguardo considerare che la prospettazione dell’immeritevolezza è, in via di principio, infondata con riferimento alle clausole c.d. pure, che, non prevedendo limitazioni temporali alla loro retroattività, svalutano del tutto la rilevanza dell’epoca di commissione del fatto illecito, mentre l’esito dello scrutinio sembra assai più problematico con riferimento alle clausole c.d. impure, a partire da quella, particolarmente penalizzante, che limita la copertura alla sola ipotesi che, durante il tempo dell’assicurazione, intervengano sia il sinistro che la richiesta di risarcimento.
Quanto poi alle clausole che estendono la garanzia al rischio pregresso, l’apprezzamento non potrà non farsi carico del rilievo che, in casi siffatti, il sinallagma contrattuale, che nell’ultimo periodo di vita del rapporto è destinato a funzionare in maniera assai ridotta, quanto alla copertura delle condotte realizzate nel relativo arco temporale, continuerà nondimeno a operare con riferimento alle richieste risarcitorie avanzate a fronte di comportamenti dell’assicurato antecedenti alla stipula, di talchè l’eventualità, paventata nell’arresto n. 3622 del 2014, di una mancanza di corrispettività tra pagamento del premio e diritto all’indennizzo, non è poi così scontata. Peraltro è evidente che della copertura del rischio pregresso nulla potrà farsene l’esordiente, il quale non ha alcun interesse ad assicurare inesistenti sue condotte precedenti alla stipula, di talchè anche tale circostanza entrerà, se del caso, nella griglia valutativa della meritevolezza.
18. Non è poi superfluo aggiungere che, laddove risulti applicabile la disciplina di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, l’indagine dovrà necessariamente confrontarsi con la possibilità di intercettare, a carico del consumatore, quel “significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto” presidiato dalla nullità di protezione, di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 36. E ancorchè la pacifica limitazione della tutela offerta dalla menzionata fonte alle sole persone fisiche che concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata – dovendosi per contro considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell’esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso (cfr. Cass. civ. Cass. civ. 12 marzo 2014, n. 5705; Cass. civ. 23 settembre 2013, n. 21763) – escluda la possibilità che essa risulti applicabile ai contratti di assicurazione della responsabilità professionale e marchi comunque di assoluta residualità l’ipotesi di una sua rilevanza in parte qua, va nondimeno sottolineata la maggiore incisività del relativo scrutinio. Questo, in quanto volto ad assicurare protezione al contraente debole, non potrà invero che attestarsi su una soglia di incisione dell’elemento causale più bassa rispetto a quella necessaria per il positivo riscontro dell’immeritevolezza, affidato ai principi generali dell’ordinamento.
19. Va poi da sè che l’esegesi, ove non approdi a risultati appaganti sulla base di dati propri della clausola, che risultino in sè di fulminante evidenza in un senso o nell’altro, non può prescindere dalla considerazione, da un lato, dell’esistenza di un contesto caratterizzato dalla spiccata asimmetria delle parti e nel quale il contraente non predisponente, ancorchè in tesi qualificabile come “professionista”, è, in realtà, il più delle volte sguarnito di esaustive informazioni in ordine ai complessi meccanismi giuridici che governano il sistema della responsabilità civile; dall’altro, di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresi altri profili della disciplina pattizia, quali, ad esempio, l’entità del premio pagato dall’assicurato, così in definitiva risolvendosi in un giudizio di stretto merito che, se adeguatamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità.
20. Quanto poi agli effetti della valutazione di immeritevolezza, essi, in via di principio – esorbitando dall’area della mera scorrettezza comportamentale presidiata, per quanto innanzi detto (al n. 7.2), dalla sola tutela risarcitoria – non possono non avere carattere reale, con l’applicazione dello schema legale del contratto di assicurazione della responsabilità civile, e cioè della formula loss occurence. E tanto sull’abbrivio degli spunti esegetici offerti dall’art. 1419 c.c., comma 2, nonchè del principio, ormai assurto a diritto vivente, secondo cui il precetto dettato dall’art. 2 Cost., “che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa” (Corte cost. n. 77 del 2014 e n. 248 del 2013), consente al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sullo statuto negoziale, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto (cfr. Cass. civ. 18 settembre 2009, n. 20106; Cass. sez. un. 13 settembre 2005, n. 18128).
21. Prima di chiudere, verificando la ricaduta degli esposti criteri sulla fattispecie dedotta in giudizio, non possono queste sezioni unite ignorare la delicata questione della compatibilità della clausola claims made con l’introduzione, in taluni settori, dell’obbligo di assicurare la responsabilità civile connessa all’esercizio della propria attività.
Mette conto in proposito ricordare:
a) che il D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5 , convertito con legge n . 148 dello stesso anno, nell’elencare i principi ai quali devono ispirarsi le riforme degli ordinamenti professionali da approvarsi nel termine di un anno dall’entrata in vigore del decreto, ha previsto alla lett. e), l’obbligo per tutti di stipulare “idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale“, nonchè di rendere noti al cliente, al momento dell’assunzione dell’incarico, gli estremi della polizza stipulata e i l relativo massimale;
b) che il successivo D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, nel ribadire siffatto obbligo – la cui violazione costituisce peraltro illecito disciplinare – e nel precisare che la stipula dei contratti possa avvenire “anche per il tramite di convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti“, ha prorogato di un anno dall’entrata in vigore della norma, e dunque fino al 15 agosto 2013, l’obbligo di assicurazione;
c) che con specifico riferimento agli esercenti le professioni sanitarie il D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con la L. 8 novembre 2012, n. 189, ha poi demandato a un decreto del Presidente della Repubblica la disciplina delle procedure e dei requisiti minimi e uniformi per l’idoneità dei relativi contratti, mentre il D.L. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. decreto fare), convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, ha allungato al 13 agosto 2014 l’obbligo degli stessi di munirsi di assicurazione di responsabilità civile.
22. Ciò posto, e rilevato che è stata da più parti segnalata l’incongruenza della previsione di un obbligo per il professionista di assicurarsi, non accompagnata da un corrispondente obbligo a contrarre in capo alle società assicuratrici, quel che in questa sede rileva è che il giudizio di idoneità della polizza difficilmente potrà avere esito positivo in presenza di una clausola claims made, la quale, comunque articolata, espone il garantito a buchi di copertura. E’ peraltro di palmare evidenza che qui non sono più in gioco soltanto i rapporti tra società e assicurato, ma anche e soprattutto quelli tra professionista e terzo, essendo stato quel dovere previsto nel preminente interesse del danneggiato, esposto al pericolo che gli effetti della colpevole e dannosa attività della controparte restino, per incapienza del patrimonio della stessa, definitivamente a suo carico. E di tanto dovrà necessariamente tenersi conto al momento della stipula delle “convenzioni collettive negoziate d a i consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti“, nonchè i n sede di redazione del decreto presidenziale chiamato a stabilire, per gli esercenti le professioni sanitarie, le procedure e i requisiti minimi e uniformi per l’idoneità dei relativi contratti.
23. Tornando al caso dedotto in giudizio, si tratta a questo punto di verificare, alla stregua degli stimoli critici contenuti in ricorso e alla luce dei criteri innanzi esposti in ordine al controllo, immanente nella funzione giudiziaria, della compatibilità del regolamento di interessi in concreto realizzato dalle parti con i principi generali dell’ordinamento (cfr. Cass. civ. sez. un. nn. 26242 e 26243 del 2014; Cass. civ. 19 giugno 2009, n. 14343), la meritevolezza della clausola claims made inserita nella polizza n. 118921 stipulata dalla Provincia Religiosa con Cattolica Assicurazioni s.p.a.. A giudizio della Corte dirimente appare sul punto il rilievo che la Curia capitolina ha segnatamente valorizzato, ancorchè al fine di escludere la vessatorietà della clausola, la condizione di favore per l’assicurato rappresentata dall’allargamento della garanzia a i fatti dannosi verificatisi prima della conclusione del contratto. Il che dimostra, in maniera inequivocabile, che il giudice di merito ha condotto lo scrutinio anche e soprattutto in chiave di meritevolezza della disciplina pattizia che era chiamato ad applicare. Il positivo apprezzamento della sua sussistenza, nella assoluta assenza di deduzioni volte ad evidenziarne l’irragionevolezza e l’arbitrarietà, è, per quanto innanzi detto, incensurabile in sede di legittimità.
Tirando le fila del discorso vanno enunciati i seguenti principi di diritto: nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola claims made mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al decreto legislativo n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata.
Il ricorso deve in definitiva essere rigettato.
La difficoltà delle questioni consiglia di compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.
Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2016.
Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2016.
Allegati:
SS.UU, 06 maggio 2016, n. 9140, in tema di assicurazione della responsabilità civile
In tema di durata ragionevole del processo – SS.UU, 23 luglio 2019, n. 19883
Civile Sent. Sez. U Num. 19883 Anno 2019
Data pubblicazione: 23/07/2019
SENTENZA
sul ricorso 10642-2016 proposto da:
_______________, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 114/B, presso lo studio dell’avvocato ___________________, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ______________________;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;
– intimato –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di FIRENZE (r.g. n. 282/2015), depositato il 19/10/2015.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/06/2019 dal Consigliere _________________;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale _______________, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati ____________________, _________________
Fatti di causa
In data 27.2.2015 ______________ propose ricorso ex art. 3 della legge n. 89 del 2001 davanti alla Corte di appello di Firenze, premettendo che:
a) in data 29.9.2010 aveva depositato dinanzi alla Corte di appello di Perugia ricorso ai sensi dell’art. 3 della I. n. 89 del 2001, lamentando la eccessiva durata di un giudizio di equa riparazione, introdotto dinanzi alla Corte di appello di Roma nell’ottobre del 2005;
b) la Corte di appello di Perugia, con decreto depositato in data 19.12.2011, aveva dichiarato la domanda inammissibile, condannandola a rimborsare al Ministero della Giustizia le spese del procedimento;
c) avverso detto decreto la _________________ aveva proposto ricorso innanzi a questa Corte di Cassazione che, con sentenza del 19.12.2012, lo aveva accolto, condannando l’amministrazione al pagamento dell’equo indennizzo oltre interessi;
d) tale sentenza, munita di formula esecutiva, era stata notificata al Ministero della Giustizia in data 3.3.2013 e, nell’inerzia dell’obbligato, in data 11.12.2013 era stato notificato atto di precetto, cui aveva fatto seguito l’esecuzione mobiliare, iniziata presso il Tribunale di Roma e conclusasi con ordinanza di assegnazione depositata in data 27.6.2014, divenuta definitiva il 17.7.2014;
e) il suddetto procedimento si era quindi protratto dal 29.9.2010 (data del deposito del ricorso alla Corte di Appello di Perugia) al 17.7.2014 (data in cui era divenuta definitiva l’ordinanza di assegnazione) quindi per oltre tre anni.
Tanto premesso, la ricorrente chiese il riconoscimento dell’indennizzo c.d. “Pinto” per l’irragionevole durata del processo, ma il Consigliere delegato respinse il ricorso.
La Corte di appello di Firenze, decidendo l’opposizione proposta dalla ____________ avverso il decreto del Consigliere designato che aveva respinto il ricorso, la rigettò.
La Corte di appello, rigettata la censura relativa alla dedotta incompetenza territoriale del giudice adito, passando all’esame dell’eccezione di decadenza in relazione all’art.4 I. ult. cit., osservò che il termine semestrale di decadenza decorresse dalla definitività della decisione, coincidente con l’ordinanza di assegnazione del 27.6.2014, divenuta definitiva il 17.7.2014, dovendosi considerare unitariamente il procedimento e quindi tempestivo il ricorso depositato il 27.2.2015.
La Corte di merito, inoltre, nel disattendere l’eccezione formulata in base all’art.2, c.2 bis, della I.n.89/2001, non essendo stata superata né la soglia dei tre anni né quella di sei anni relativa all’intero procedimento, rilevava che “…sulla inapplicabilità del comma 2 ter dell’art.2 I. n.89/2001 sia sufficiente richiamare quanto affermato da Cass. S.U. n.6312/2014″.
Quanto alle ulteriori censure svolte dalla _____________ la Corte di appello osservò che a fronte del precetto dell’11.12.2013 vi era stata l’assegnazione delle somme in data 27.6.2014, dovendosi valutare se fosse stato superato il termine di durata ragionevole in caso di proposizione dell’esecuzione forzata pari ad anni, due) mesi sei e giorni cinque.
Soggiunse che la sommatoria delle due fasi non poteva tuttavia contenere il periodo di tempo correlato all’inerzia del vincitore del giudizio di cognizione, intercorrente fra le fine della fase di cognizione e l’inizio di quella di esecuzione.
Ritenne, ancora, che la fase di cognizione era durata dal 29.9.2010 al 19.12.2012 (data di deposito della sentenza della Cassazione che aveva riformato il decreto della Corte di appello di Perugia con accoglimento della domanda di equo indennizzo).
Accertò, quindi, che la fase di cognizione sì era protratta per anni due, mesi due e giorni 21, mentre quella esecutiva si era protratta per mesi sette e giorni 7, tenuto conto del momento in cui era stato notificato il precetto (11.12.2013) e della successiva assegnazione delle somme (17.7.2014).
In conclusione, la Corte ritenne che essendosi protratto l’intero procedimento ex I. n.89/2001 per anni due, mesi nove e giorni 28, tale lasso di tempo, decurtato quello da considerare ragionevole di due anni, mesi sei e cinque giorni, determinava un’eccedenza di mesi tre e giorni 23, inidonea a determinare alcun diritto all’indennizzo, visto che l’art.2 bis della Ln.89/2001 non consentiva l’indennizzabilità delle frazioni di anno non superiori a sei mesi.
La __________ ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, al quale non ha resistito il Ministero della Giustizia.
All’udienza del 23.3.2017 il Collegio della sottosezione seconda civile, con ordinanza n.20835/2017, rinviava la causa alla pubblica udienza.
All’esito dell’udienza pubblica del 19.4.2018 la sezione Seconda ha emesso l’ordinanza interlocutoria n.802/2019, proponendo questione di massima di particolare rilevanza e trasmettendo gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
La ricorrente ha depositato tre memorie, rispettivamente il 23.3.2017, il 6.4.2018 ed il 7 giugno 2019.
Con le prime memorie ha chiesto che venisse sollevato rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art.267 TFUE innanzi alla Corte di giustizia UE al fine di verificare se la corretta interpretazione dell’art.6 CEDU osti alla fissazione, da parte del giudice nazionale, di un termine semestrale di decadenza dal deposito del titolo stesso per l’istaurazione di un’azione esecutiva.
La ricorrente ha chiesto altresì che venga sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt.2 e 4 I. n.89/2001 nella parte in cui stabiliscono un termine di decadenza semestrale per unificare la fase di cognizione del giudizio presupposto alla successiva fase di esecuzione
Il P.G. ha concluso con requisitoria scritta per il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
1. La ricorrente lamenta con il primo motivo la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 della l. n. 89 del 2001, sostenendo che, secondo i principi espressi dalle Sez. un. nella sentenza n. 6312 del 2014, la fase di cognizione e di legittimità della procedura “Pinto” può ritenersi di durata ragionevole per non più di due anni, mentre l’Amministrazione può ancora soddisfare il proprio debito entro ulteriori sei mesi e cinque giorni. Secondo la ricorrente, ove il predetto termine non sia stato rispettato dall’Amministrazione convenuta ed il titolare abbia optato per la promozione di un procedimento di esecuzione forzata del titolo ottenuto, l’ulteriore periodo fino alla data del provvedimento conclusivo della fase della esecuzione forzata dovrebbe essere senz’altro posto a carico dell’Amministrazione stessa. Deduce, quindi che essendo divenuto definitivo il titolo nel dicembre 2012 ed essendosi conclusa la fase esecutiva nel luglio 2014 (data in cui è divenuta definitiva l’ordinanza di assegnazione) tale ulteriore periodo di un anno e sette mesi (19 mesi) andrebbe sommato alla durata della fase di cognizione, sicché il giudizio avrebbe quindi avuto la durata di tre anni e due mesi a fronte di quella ragionevole di due anni sei mesi e cinque giorni.
1.1. Secondo la ricorrente occorrerebbe considerare il termine di 120 gg. dalla notifica del titolo esecutivo di cui all’art. 14 d.l. n. 669/1996, conv. dalla l. n. 30/1997, nel corso del quale il danneggiato non poteva notificare l’atto di precetto, dalla notifica del quale doveva ritenersi iniziato il processo esecutivo. Sostiene altresì che nel computo del periodo complessivo andrebbe considerato l’arco temporale che va dall’ottenimento del titolo esecutivo alla notifica dell’atto di pignoramento.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e del d.m. n. 55 del 2014, censurando il decreto impugnato per non aver disposto la compensazione delle spese di giudizio dovendo tener conto del mutamento giurisprudenziale su questioni dirimenti.
2. L’ordinanza interlocutoria della seconda sezione civile.
2.1. Alla luce di un assai articolato ordito motivazionale che ha ripercorso l’evoluzione della giurisprudenza interna e sovranazionale relativa ad alcuni aspetti della l. n. 89/2001, prevalentemente calibrati sul tema del rapporto fra fase di cognizione e di esecuzione ai fini del riconoscimento dell’indennizzo, la seconda sezione, con l’ordinanza interlocutoria sopra ricordata, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sez. un., al fine di decidere la seguente questione:
2.2. “Dicano le S.U., alla luce da un lato della richiamata sentenza delle Sez. un. n. 27365 del 2009 e, dall’altro, della richiamata giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale, se la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell’Amministrazione nel pagamento dell’indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo, costituito dal decreto di condanna pronunziato dalla Corte di Appello ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89 del 2001 ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole del processo per equa riparazione e, più in generale, se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata ragionevole dello stesso processo presupposto“.
3. L’evoluzione della giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di Legge Pinto.
3.1. Le vicende relative all’applicazione della l. n. 89/2001 nell’ordinamento interno hanno fin dall’inizio posto la necessità di verificare la compatibilità delle previsioni interne, per come interpretate e applicate anche da questa Corte di cassazione, con il diritto alla ragionevole durata del processo di matrice convenzionale, più volte sagomato da numerose pronunzie della Corte edu prima che l’ordinamento interno ponesse un rimedio volto ad indennizzare la parte di un processo protrattosi oltre la sua ragionevole durata.
3.2. Sono seguite diverse pronunzie giurisprudenziali di questa Corte a Sezioni unite e della Corte costituzionale in ordine a singole previsioni normative introdotte anche in epoca successiva rispetto a quelle che vengono in discussione nei giudizi rinviati all’esame delle Sezioni unite, per le quali deve invece considerarsi la l. n. 89/2001 nel testo emendato dall’art. 55 d.l. n. 83 del 2012, conv. nella l. n. 134/2012, entrata in vigore, in forza del comma 2 dell’art. 1 della legge anzidetta, il 12 agosto 2012, coincidente con il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale sul supplemento ordinario n. 171 dell’11 agosto 2012, n. 187.
3.3. Non occorre qui ripercorrere ogni passaggio di questo processo di progressiva armonizzazione del sistema interno ai canoni convenzionali in tema di ragionevole durata del processo, essendo sufficiente rinviare ai principi espressi nelle sentenze delle Sezioni unite civili nn. 1338-1341/2004 e nella successiva pronuncia, sempre a Sezioni unite, n. 28507/2005.
3.4. Una valutazione diacronica di tali pronunzie – pur non incidenti sulla questione specifica qui al vaglio delle Sez. un. – consente di affermare che queste Sezioni unite abbiano fin dall’inizio avuto come obiettivo la conformazione di un sistema di protezione del diritto alla ragionevole durata del processo destinato progressivamente ad armonizzarsi con la disciplina concretamente declinata dall’art. 6 CEDU e dal diritto vivente della Corte edu, bastando a tal proposito ricordare l’affermazione ivi espressa secondo la quale «la giurisprudenza della Corte di Strasburgo s’impone ai giudici italiani per quanto riguarda l’applicazione della l. n. 89/2001». Ciò pur senza sottovalutare o considerare sempre subalterne e recessive le caratteristiche e peculiarità del rimedio interno, adottato nell’ambito del margine di apprezzamento riservato allo Stato che decida di approntare un rimedio di ordine generale volto all’eliminazione di una violazione convenzionale di natura strutturale – v., infatti, Cass., Sez. un., 9142/2016, p. VI della motivazione -. Margine di apprezzamento che, tuttavia, non può mai andare a detrimento dell’effettività del rimedio – cfr. Corte cost. n. 30/2014 p. 4.1 del cons. in diritto.
3.5. Proprio l’introduzione, all’interno della l. n. 89/2001, di un termine, previsto a pena di decadenza, di sei mesi per la proposizione dell’azione “Pinto”, decorrente – secondo quanto previsto dall’art. 4 – qui in rilievo nella formulazione modificata dall’art. 55, comma 1, lett. d), del d.l. n. 83/2012, conv. nella l. n. 134/2012 pure oggetto di una pronunzia parzialmente caducatoria resa dalla Corte costituzionale (sent. n. 88/2018) – dalla definitività della decisione che conclude il procedimento, ha imposto a questa Corte di delineare i rapporti fra fase di cognizione e fase di esecuzione ai fini della ragionevole durata del processo.
4. Le sentenze delle Sezioni unite nn. 27348 e 27365 del 24 dicembre 2009.
4.1. Il primo approdo fu quello raggiunto dalle sentenze nn. 27365 e 27348 del 2009 di queste Sezioni unite, essendosi affermato che il processo di cognizione e quello di esecuzione regolati dal codice di procedura civile nonché quello cognitivo del giudice amministrativo e il processo di ottemperanza teso a far conformare la P.A. a quanto deciso in sede cognitoria devono considerarsi, sul piano funzionale (oltre che strutturale), tra loro autonomi in relazione alle situazioni soggettive differenti azionate in ciascuno di essi.
4.2. Da ciò conseguiva che: a) in dipendenza di siffatta autonomia, le durate dei predetti giudizi non possono sommarsi fra loro per rilevarne una complessiva dei due processi (di cognizione, da un canto, e di esecuzione o di ottemperanza, dall’altro); b) dal momento delle decisioni definitive di ciascuno degli stessi era possibile, per ognuno di tali giudizi, domandare nel termine semestrale previsto dall’art. 4 della l. n. 89 del 2001 l’equa riparazione per violazione del citato art. 6 della CEDU, con conseguente inammissibilità delle relative istanze in caso di sua inosservanza.
4.3. Per giungere a tale conclusione le Sez. un.: a) affermarono che il giudice comune è tenuto a conformarsi alla giurisprudenza della Corte edu rilevante, a meno che non si consideri la norma convenzionale come interpretata dal giudice europeo contrastante con la Costituzione; b) esclusero che la giurisprudenza CEDU avesse affermato il principio che nel concetto di giusto processo ai sensi dell’art. 6, par. 1, CEDU potesse rientrare la fase cognitoria e quella di attuazione della posizione giuridica soggettiva reclamata dal titolare; c) ritennero, quindi, che la giurisprudenza di Strasburgo “[…] non esprime un principio generale per il quale debba ritenersi, sempre ed in ogni vicenda processuale, unico il tempo del processo di cognizione e di quello eventuale del giudizio di esecuzione o di ottemperanza, ad ogni fine, in rapporto all’applicazione delle dette norme“.
4.4. Da qui la conclusione che solo dal momento delle decisioni definitive di ciascuna delle due fasi era possibile, per ognuno di tali giudizi, domandare, nel termine semestrale previsto dall’art. 4 della l. n. 89 del 2001, l’equa riparazione per violazione del citato art. 6 della CEDU, con conseguente inammissibilità delle relative istanze in caso di sua inosservanza.
5. Le sette sentenze del 19 marzo 2014 (dalla n. 6312 alla 6318) delle S.U. e l’unità funzionale fra fase di cognizione e fase esecutiva.
5.1. L’occasione per rimeditare l’indirizzo appena rammentato sorse in relazione all’applicazione della l. n. 89/2001 al giudizio promosso al fine di ottenere l’indennizzo per irragionevole durata di un procedimento Pinto – c.d. giudizio “Pinto su Pinto”, o “Pinto-bis” -.
5.2. Rispetto a tale contenzioso la giurisprudenza della seconda sezione civile di questa Corte si attestò prontamente nel senso di ritenere che il giudizio volto ad ottenere l’indennizzo per la irragionevole durata del processo, ai sensi della l. 24 marzo 2001, n. 89, è un ordinario processo di cognizione che è soggetto, in quanto tale, all’esigenza di una definizione in tempi ragionevoli, la quale è tanto più pressante in quanto finalizzata all’accertamento della violazione di un diritto fondamentale nel giudizio presupposto, la cui lesione genera di per sé una condizione di sofferenza e un patema d’animo che sarebbe ingiustificato non riconoscere anche per i procedimenti di cui alla l. n. 89 del 2001 – Cass. n. 5924/2012, conf., ex plurimis, Cass. n. 8283/2012, Cass. n. da 17414 a n. 17419/2013 e, di recente, Cass. n. 9695/2019 -.
5.3. Fu dunque una rinnovata attenzione alla giurisprudenza della Corte edu a determinare il revirement di queste Sezioni unite, sollecitato dalla prima sezione civile di questa Corte ed espresso nelle sette sentenze (dalla n. 6312 alla n. 6318) del 2014.
5.4. Queste Sezioni unite, chiamate ad occuparsi della ragionevole durata di un processo Pinto attivato per ottenere l’indennizzo prodotto dalla durata irragionevole di altro procedimento promosso ai sensi dell’art. 2 l. n. 89/2001, rimeditarono dunque le conclusioni espresse nelle due sentenze del 2009.
5.5. Si affermò in quell’occasione che in un’ottica – costituzionale e convenzionale – protesa a realizzare l’interesse della parte alla concreta e piena soddisfazione del diritto riconosciuto giudizialmente, i due processi (di merito e di esecuzione) non potevano che considerarsi avvinti all’interno di un unico procedimento “[…] che, cioè, ha inizio con l’accesso al giudice e fine con l’esecuzione della decisione, definitiva ed obbligatoria, dallo stesso pronunciata in favore del soggetto riconosciuto titolare della situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio fatta valere nel processo medesimo“.
5.6. In definitiva, secondo le sette sentenze sopra ricordate “[…] allorquando, nel processo civile o amministrativo, sia stata fatta valere dinanzi al giudice una situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio e questa sia stata riconosciuta al suo titolare con decisione definitiva ed obbligatoria (“fase” processuale della cognizione) e, tuttavia, tale decisione non sia stata spontaneamente ottemperata dall’obbligato ed il titolare abbia scelto di promuovere l’esecuzione del titolo così ottenuto (“fase” processuale dell’esecuzione forzata o dell’ottemperanza) – la garanzia costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale e l’art. 6, par. 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, impongono di considerare tale articolato e complesso procedimento come un “unico processo” scandito, appunto, da “fasi consequenziali e complementari”.
5.7. Il segmento del quale le decisioni delle Sez. un. rese nell’anno 2014 si sono occupate ha dunque riguardato specificamente la durata dei procedimenti “Pinto”, peraltro ponendo una netta linea di sbarramento fra le richieste di indennizzo fondate sulla durata di tali procedimenti da quelle concernenti il ritardo nell’adempimento delle somme liquidate in esito alla definizione di procedimenti Pinto, liquidabile quale autonoma e distinta fonte di lesione dell’art. 6, par. 1, CEDU solo dalla Corte edu.
5.8. Infatti, le sentenze del 2014 hanno ritenuto che in caso di ritardo della P.A. nel pagamento delle somme riconosciute in forza di decreto di condanna “Pinto” definitivo, pronunciato ai sensi dell’art. 3 della l. 24 marzo 2001, n. 89, l’interessato, ove il versamento delle somme spettanti non sia intervenuto entro il termine dilatorio di mesi sei e giorni cinque dalla data in cui il provvedimento è divenuto esecutivo, ha diritto – sia che abbia esperito azione esecutiva per il conseguimento delle somme a lui spettanti, sia che si sia limitato ad attendere l’adempimento spontaneo della P.A. – ad un ulteriore indennizzo commisurato al ritardo nel soddisfacimento della sua pretesa eccedente al suddetto termine nonché, ove intrapresa, all’intervenuta promozione dell’azione esecutiva, che, tuttavia, può essere fatto valere esclusivamente con ricorso diretto alla CEDU (in relazione all’art. 41 della Convenzione EDU) e non con le forme e i termini dell’art. 2, comma 1, della l. n. 89 del 2001, la cui portata non si estende alla tutela del diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive.
6. Le Sez. un. del 2016 (sent. n. 9142/2016) ed il parziale revirement rispetto alle Sez. un. del 2014.
6.1. La nuova presa di posizione delle Sezioni unite sui rapporti fra le due fasi (di cognizione e di esecuzione) nel procedimento Pinto fu nuovamente sollecitata alle Sezioni unite dall’ordinanza interlocutoria n. 1382/2015 della seconda sezione civile con la quale si prospettò la necessità di un intervento che potesse:
a) coordinare il principio dell’unicità dei giudizi di cognizione ed esecuzione, al fine della individuazione del periodo da valutare per la liquidazione dell’indennizzo previsto dalla l. n. 89 del 2001 – come specificato dalle Sezioni unite con le pronunzie del 2014 e più volte ribadita con analoghe sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo armonizzandolo con la previsione del termine di decadenza, giusta quanto stabilito dall’art. 4 della legge citata (nella formulazione anteriore alla riforma introdotta con il d.l. n. 83 del 2012, convertito nella l. n. 134 del 2012);
b) identificare il concetto di “decisione definitiva” in caso di consecuzione al giudizio di cognizione, anche a distanza di notevole lasso di tempo, di una fase di esecuzione;
c) esaminare la rilevanza, in caso di ribadito computo unitario della durata delle due “fasi”, del periodo intermedio tra le stesse, successivo dunque alla conclusione del processo di cognizione ed anteriore all’instaurazione del giudizio di esecuzione.
6.2. Cass., Sez. un., n. 9142/2016 ritenne quindi di temperare il principio dell’unitarietà delle fasi (di cognizione ed esecuzione) fissato nelle due sentenze dell’anno 2009, riconoscendolo unicamente nel caso in cui la parte di un processo civile concluso con il riconoscimento di un diritto avesse iniziato entro il termine di decadenza previsto dall’art. 4 l. n. 89/2001 la fase esecutiva.
6.3. In questo modo, collegando le due fasi, il termine per promuovere il giudizio Pinto poteva farsi coincidere con la definitività della fase esecutiva, decorrendo dalla piena soddisfazione del diritto stesso, purché tale fase fosse iniziata prima della scadenza del termine semestrale per promuovere l’azione Pinto in seguito alla definitività della sentenza che accerta l’esistenza del diritto. Secondo le Sez. un. del 2016, in mancanza di attivazione della fase esecutiva nel termine di decadenza previsto dall’art. 4 non era quindi possibile sommare, ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo, il tempo occorso per la definizione della fase di cognizione, potendosi invece profilare un’irragionevole durata del processo unicamente per la durata della fase esecutiva.
6.4. Da qui l’affermazione che «ai fini dell’equa riparazione per irragionevole durata, il procedimento di cognizione e quello di esecuzione devono essere considerati unitariamente o separatamente in base alla condotta di parte, allo scopo di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitarne l’esercizio abusivo. Pertanto, ove si sia attivata per l’esecuzione nel termine di sei mesi dalla definizione del procedimento di cognizione, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 89 del 2001, la parte può esigere la valutazione unitaria dei procedimenti, finalisticamente considerati come unicum, mentre, ove abbia lasciato spirare quel termine, essa non può più far valere l’irragionevole durata del procedimento di cognizione, essendovi soluzione di continuità rispetto al successivo procedimento di esecuzione».
6.5. La base argomentativa del principio surricordato riposava dunque sulla necessità di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitare l’esercizio del credito indennitario in maniera abusiva, essendo tale contegno già stato in passato stigmatizzato dalla giurisprudenza della Corte edu.
6.6. Nell’ottica condivisa dalle Sez. un. il punto di equilibrio fra i principi espressi dalla Corte edu sull’unitarietà tout court fra le fasi (di cognizione ed esecutiva) ed il canone della certezza delle situazioni giuridiche sotteso al termine decadenziale di cui all’art. 4 cit. era in definitiva rivolto a realizzare un corretto bilanciamento fra i diversi interessi in gioco, anche in relazione al carattere potenzialmente abusivo della condotta del soggetto che, ottenuto il riconoscimento del diritto potesse poi omettere di promuovere la fase esecutiva per poi far valere, all’atto dell’inizio di tale procedimento, magari a distanza di anni, il diritto all’indennizzo per irragionevole durata del processo, in modo da locupletare un vantaggio economico approfittando della sua stessa inerzia o della lentezza dei giudizi e delle fasi amministrative correlate alla mancata esecuzione dell’obbligo giudizialmente acclarato.
7. Il rilievo della sentenza della Corte edu nel caso _____ c. Italia resa il 14 settembre 2017.
7.1. A volere cogliere il senso delle ordinanze interlocutorie della seconda sezione civile ed il fondo dei dubbi prospettati a queste Sezioni unite, essi sono stati certamente condizionati dalla recente sentenza della Corte edu _______ c. Italia, resa il 14 settembre 2017, al cui esame è necessario dedicare, sia pur sinteticamente, i successivi punti.
7.2. Nella vicenda scrutinata dal giudice convenzionale un privato aveva reclamato gli interessi e la rivalutazione sugli arretrati della sua pensione innanzi al giudice di primo grado con ricorso. Tale decisione venne confermata in appello con sentenza pubblicata il 10 dicembre 2002, divenuta definitiva per decorso del termine di impugnazione, in assenza di notifica della sentenza, il 25.1.2004.
7.3. Notificato atto di precetto il 14 giugno 2004 – non risultando dalla sentenza la data di notifica del pignoramento -, la parte vittoriosa aveva ottenuto in data 25.1.2005 dal giudice dell’esecuzione il pagamento di quanto dovuto.
7.4. La parte vittoriosa iniziò quindi un giudizio “Pinto” il 25 maggio 2005 innanzi alla Corte di appello di Roma, rilevando che doveva ritenersi come “decisione interna definitiva” ai sensi dell’art. 4 l. n. 89/2001 il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione gli aveva riconosciuto le somme allo stesso dovute, pertanto decorrendo da tale data il termine di decadenza ivi fissato.
7.5. La Corte di appello dichiarò inammissibile il ricorso rilevandone la tardività, considerando quale decisione definitiva quella resa dal giudice di merito, passata in giudicato il 25.1.2004.
7.6. Tale pronunzia venne confermata da questa Corte con ordinanza n. 24146/2008, sul presupposto che “la nozione di sentenza definitiva cui l’art. 4 l. n. 89/2001 correla il termine finale per la proposizione della domanda di equa riparazione, devesi riferire alla formazione del giudicato“, identificandosi la nozione di definitività del processo in cui si assume violato il limite di ragionevolezza “nel momento in cui il giudizio consegue il fine suo proprio, che in relazione al processo di cognizione è rappresentato dal passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce“.
7.7. Giova ricordare che nell’esaminare l’eccezione di tardività del ricorso proposta dal Governo italiano sul presupposto che la parte, promuovendo il giudizio Pinto al termine del giudizio esecutivo, avesse inteso eludere le norme relative alla decadenza della domanda di equa soddisfazione contenute nell’art. 4 l. ult. cit., la Corte edu respinse detta eccezione.
7.8. Va ancora chiarito che il Governo italiano, rispondendo alla sollecitazione espressa nel rapporto comunicatogli dalla Corte edu, sostenne che i principi espressi dalle Sezioni unite con la sentenza n. 6312/2014 a proposito dell’unicità delle fasi (di cognizione ed esecutiva) non avrebbero potuto valere in termini generali, essendo stati espressi “limitatamente al contenzioso disciplinato dalla legge Pinto, non potendo gli stessi applicarsi con riguardo ai procedimenti civili ordinari”.
7.9. Orbene, la sentenza Bozza ha ritenuto che “la presente causa riguardi essenzialmente la questione di stabilire se, nell’ambito procedurale della via di ricorso «Pinto», la decisione del giudice dell’esecuzione del 25 gennaio 2005 possa essere considerata la «decisione interna definitiva» del procedimento principale ai sensi dell’articolo 35 della Convenzione” poi precisando che, in caso affermativo, la stessa Corte sarebbe stata “chiamata a decidere se il rigetto della domanda di equa soddisfazione da parte dei giudici «Pinto» abbia costituito una violazione del diritto della ricorrente a un processo entro un termine ragionevole ai sensi dell’articolo 6, § 1, della Convenzione” – § 25 sent. _____, cit. -.
7.10. Il giudice di Strasburgo è, quindi, passato ad esaminare la violazione prospettata dal ricorrente ed ha ricordato la sua giurisprudenza in tema di rapporto fra sentenza che riconosce il diritto ed esecuzione quale parte integrante del «processo» ai sensi dell’articolo 6 CEDU affermando testualmente che “Nella sua sentenza storica _______ (§§ 40 e segg.; si vedano anche _____________ c. Portogallo, 23 marzo 1994, ___________ c. Italia, 26 settembre 1996), la Corte ha fissato il principio secondo il quale il diritto a un tribunale sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva e vincolante rimanesse inoperante a scapito di una delle parti. L’esecuzione di una sentenza, indipendentemente da quale giudice l’abbia pronunciata, deve essere dunque considerata come facente parte integrante del «processo» ai sensi dell’articolo 6 (si veda anche ________ c. Russia (n. 2), ric. n. 33509/04, § 65, CEDU 2009)” – cfr. § 42 sent. ________ -.
7.11. Pertanto, secondo la Corte edu, esiste l’obbligo per gli Stati contraenti di assicurare che ciascun diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione, pur variando la portata di tale obbligo in funzione della qualità della parte debitrice.
7.12. La Corte edu individua, infatti, una netta differenza tra debitore-privato e debitore-pubblica amministrazione.
7.13. Nel primo caso quando il privato o la persona sono inadempienti, spetta agli Stati contraenti garantire l’assistenza necessaria affinché il diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione, potendo questi essere considerati responsabili per quanto riguarda l’esecuzione di una sentenza da parte di una persona di diritto privato soltanto se le autorità pubbliche implicate nelle procedure di esecuzione non danno prova della diligenza richiesta o se impediscono l’esecuzione.
7.14. Nel secondo, quando viene pronunciata una sentenza contro lo Stato, “il privato che ha ottenuto una sentenza contro quest’ultimo non deve di norma avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata (sent. _________ c. Greece, § 19)” – v. § 45 sent. _____ -.
7.15. Anzi, prosegue la Corte edu, è sufficiente che la sentenza sia regolarmente notificata all’autorità nazionale interessata (________ c. Russia, ric. n. 30616/05, § 21, 12 giugno 2008) o che siano espletati alcuni adempimenti processuali di natura formale (Corte edu, __________ c. Russia, ric. n. 69306/01, §§ 29-37, Corte edu, 20 ottobre 2005, e Corte edu, _______ e __________ c. Grecia, ric. n. 32141/04, § 24, 8 novembre 2007).
7.16. La Corte edu è poi passata a valutare la durata del periodo di tempo intercorso durante la fase di esecuzione, ricordando di avere ammesso che un’amministrazione potesse avere bisogno di un certo lasso di tempo per procedere a un pagamento, fissandolo in sei mesi a decorrere dalla data in cui la decisione di risarcimento è divenuta esecutiva (sent. __________ c. Italia, § 89).
7.17. Calando tali principi nella vicenda concreta il giudice europeo ha ritenuto che una volta divenuta definitiva la decisione del tribunale di Napoli, in assenza di sua notifica, a partire da tale data, l’autorità convenuta sapeva o era tenuta a sapere che doveva versare alla ricorrente la somma dovuta.
7.18. Orbene, secondo la Corte edu la ricorrente non era tenuta a intentare una qualsiasi azione di esecuzione, poiché si trattava, nella fattispecie, di una sentenza ottenuta contro lo Stato. Senza dire che “l’esecuzione di tale sentenza non comportava alcuna difficoltà particolare oltre al semplice versamento di una somma di denaro” – p. 50 sent. cit.
7.19. Secondo la Corte, l’atto satisfattivo del credito, avvenuto il 25.1.2005 con il pignoramento presso terzi, “costituiva […] nella presente causa, la «decisione interna definitiva» del procedimento principale” – p. 52 sent.
7.20. La Corte edu, al fine di valutare il ricorso, ha quindi esaminato la sentenza delle Sezioni unite n. 9142 del 2016, osservando che era stato “operato […] un capovolgimento giurisprudenziale in materia […]”. E benché i fatti all’origine della sentenza n. 9142/2016 potessero ritenersi simili ai fatti esaminati dal giudice di Strasburgo, la Corte edu ha ritenuto che “pur non essendo perfettamente allineata ai principi fissati nella sua giurisprudenza (paragrafo 48 supra), questa sentenza si presta a una lettura globale secondo la quale «è possibile considerare il procedimento come un tutt’uno, ai fini del calcolo della durata (del procedimento stesso)».
7.21. Tale conclusione non ha tuttavia consentito di escludere la violazione dell’art. 6 CEDU, visto che all’epoca dei fatti controversi i tribunali nazionali avevano un’interpretazione opposta in materia, relativa alla separazione rigorosa tra il procedimento sul merito e quello di esecuzione, come risultava confermato dalle decisioni assunte nel processo Pinto intentato dalla Bozza.
7.22. La Corte ha concluso ricordando “di avere trattato più volte cause che sollevavano questioni analoghe in materia di durata del procedimento, nelle quali ha constatato l’inosservanza dell’esigenza del «termine ragionevole» alla luce dei criteri individuati dalla sua giurisprudenza consolidata in materia […] Non vedendo alcun motivo per discostarsi dalle sue precedenti conclusioni, la Corte ritiene che la durata del procedimento sia stata eccessiva e non sia conforme all’esigenza del «termine ragionevole». In conclusione, la Corte ha rigettato l’eccezione del Governo relativa alla tardività del ricorso, ritenendo che vi sia stata violazione dell’articolo 6, § 1, della Convenzione in ragione della durata eccessiva del procedimento.
7.23. Questi, dunque, i principi di valenza generale che possono trarsi dalla sentenza __________:
a) la fase processuale di cognizione e quella di esecuzione hanno natura unitaria rispetto alla parte che abbia ottenuto il riconoscimento del diritto all’indennizzo nei confronti dello Stato per l’irragionevole durata del processo;
b) il privato che abbia ottenuto il riconoscimento di un credito da una sentenza emessa contro lo Stato-debitore non ha alcun onere, di norma, di avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata;
c) la tutela accordata dall’art. 6, par. 1, CEDU alla ragionevole durata del processo va riconosciuta in modo pieno ed integrale anche se la parte abbia attivato la domanda indennitaria considerando come epoca finale quella della decisione definitiva resa in sede esecutiva.
8. La cancellazione della causa dal ruolo della Corte edu _________ e altri c. Italia (ric. n. 42256/2012, dec.) e la sua rilevanza ai fini della decisione.
8.1. Di particolare rilievo ai fini della decisione delle questioni sollevate dalla Sezione remittente è, poi, la vicenda – sulla quale si sono soffermate anche nella discussione orale le parti di alcuni dei giudizi rimessi a queste Sezioni unite – definita con la decisione di cancellazione della causa dal ruolo della Corte edu ai sensi dell’art. 37, par. 1, lett. c, CEDU, sul ricorso _________ e altri c. Italia (ric. n. 42256/2012).
8.2. La vicenda aveva riguardato alcuni privati che, dopo avere ottenuto dal Tar Lazio nei confronti del Ministero della giustizia il riconoscimento di interessi e rivalutazione monetaria per effetto dei definitivi inquadramenti nelle nuove qualifiche funzionali avevano promosso, nell’inerzia del debitore, un giudizio di ottemperanza a distanza di poco meno di tre anni dalla data della pubblicazione della decisione resa dal giudice amministrativo, quindi reclamando l’irragionevole durata del processo in considerazione del tempo intercorso da valutare unitariamente tanto con riferimento al merito che a quello successivo di esecuzione.
8.3. Tale domanda era stata disattesa dalla Corte di appello di Roma che, stante l’autonomia fra giudizio di merito e giudizio di esecuzione affermata da Cass., Sez. un., n. 27348 del 2009, ritenne abbondantemente decorso il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di merito, con conseguentemente inammissibilità delle richieste.
8.4. Nel corso del successivo giudizio promosso dalle parti private innanzi alla Corte edu, unito ad altri otto procedimenti di analogo contenuto, il Governo italiano ha presentato dichiarazione unilaterale con la quale ha riconosciuto la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU ai sensi dell’art. 62 A del Reg. della Corte – “Le Gouvernement italien reconnait que les requérants… ont subi la violation de l’article 6 § 1 della CEDU, selon les principes exprimés per la Cour EDH dans le affaires ______ c. Italie, … ___________ c. Gréce …, __________ C. Grèce … et ______ n. 2 c. Russie“, offrendo una somma ai ricorrenti per il pregiudizio subito.
8.5. In esito a tale dichiarazione la Corte edu, dopo avere valutato che il ricorso andava esaminato sotto il profilo della violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU e che la giurisprudenza in materia di durata eccessiva del processo era “claire et abondante” – tenendo in considerazione, oltre alle decisioni ____ c. Grecia e _______ c. Russia, già richiamate nelle questioni sottoposte alle parti con la comunicazione del 20 gennaio 2017 e dal Governo nella dichiarazione unilaterale, anche la sentenza ______ c. Italia, §§ 57 e 58 del 14 settembre 2017, già esaminata – con decisione pubblicata il 21 febbraio 2019 ha ritenuto che non fosse necessario l’esame nel merito della decisione, ai sensi dell’art. 37, § 1, lett. c) CEDU e nel prendere atto della dichiarazione del Governo, ha disposto la cancellazione dal ruolo della causa ai sensi del ricordato art. 37, § 1, lett. c), CEDU, ritenendo che non si giustificasse il proseguimento della procedura.
8.6. Non è, in proposito, superfluo ricordare che la medesima Corte edu ha avuto modo di chiarire i criteri per determinare le modalità, i contenuti e gli effetti della dichiarazione unilaterale sulla prosecuzione del giudizio.
8.7. In particolare, Corte edu, 23 febbraio 2017, Grande Camera, ric., n. 43395/09, ___________ c. Italia, ha rilevato che “[…] in alcune circostanze può essere opportuno cancellare un ricorso dal ruolo ai sensi dell’articolo 37, § 1, lettera c), della Convenzione sulla base di una dichiarazione unilaterale da parte del Governo convenuto anche qualora il ricorrente desideri che l’esame della causa prosegua. Ha sottolineato al riguardo che tale procedura non è di per sé finalizzata a eludere l’opposizione del ricorrente a una composizione amichevole. Deve essere accertato sulla base delle particolari circostanze della causa se la dichiarazione unilaterale offra una base sufficiente per concludere che il rispetto dei diritti umani, come definito dalla Convenzione, non richieda che la Corte continui l’esame della causa“, a tal fine rilevando la natura delle doglianze sollevate, la questione di sapere se le questioni sollevate siano simili a questioni già determinate dalla Corte in precedenti cause, la natura e la portata delle misure adottate dal Governo convenuto nell’esecuzione delle sentenze pronunciate dalla Corte in tali cause, nonché le conseguenze di queste misure sul caso in esame – cfr. § 135 sent. cit.
8.8. Assume, poi, particolare rilievo il fatto che la dichiarazione unilaterale del Governo “[…] debba, sulla base delle doglianze sollevate, contenere il riconoscimento della responsabilità in relazione alle asserite violazioni della Convenzione, o per lo meno qualche ammissione al riguardo” – cfr. § 136, sent. ult. cit.
8.9. Non può, in definitiva, porsi in dubbio la piena efficacia e vincolatività della decisione della Corte edu che abbia disposto la cancellazione della causa dal ruolo sulla base della dichiarazione di riconoscimento della violazione in relazione ad una vicenda nella quale era decorso un lasso di tempo di circa tre anni fra la definizione della fase di cognizione e l’inizio di quella esecutiva a carico dello Stato debitore; vincolatività sulla quale, del resto, non ha fin qui dubitato questa Corte – Cass. pen., n. 50919/2018, ______ – in questa direzione del resto militando anche la l. 27 dicembre 2013, n. 147 che, con l’art. 1, comma 421, ha introdotto una norma di interpretazione autentica prevedendo che ai fini del diritto di rivalsa dello Stato per gli oneri finanziari sostenuti per la definizione delle controversie dinanzi alla Corte edu sono comprese anche quelle concluse con decisione di radiazione o cancellazione della causa dal ruolo ai sensi degli articoli 37 e 39 CEDU.
9. La necessità di rivedere, in parte, l’indirizzo espresso da Cass., Sez. un., n. 9142/2016 sul tema dell’unitarietà delle fasi condizionato dal rispetto del termine decadenziale semestrale dalla definitività della decisione di merito.
9.1. Ritengono queste Sezioni unite che l’approdo al quale giunse la sentenza n. 9142/2016 debba essere in parte rivisitato proprio alla luce dei principi espressi in modo consolidato dalla giurisprudenza della Corte edu in ordine alla non necessità di promuovere la fase esecutiva nei confronti del debitore quando questi coincida con lo Stato. Principi, questi ultimi, che assumono una valenza di cosa interpretata nell’ordinamento interno, risultando dalla sentenza ______ c. Italia che assurge a vero e proprio caso paradigmatico in cui tali principi sono stati ribaditi ed autoqualificati dalla stessa Corte edu come “consolidati” – e senza che l’opinione espressa del Giudice ____________ possa inficiare tale conclusione -.
9.2. Se la funzione del giudice nazionale è, stando ai più recenti arresti di questa Corte a Sezioni unite – Cass., Sez. un., n. 33208/2018 e altri precedenti ivi richiamati – ed a quelli della Corte costituzionale – per citare solo le più recenti, sent. n. 49/2015, n. 24 e n. 25 del 2019 – quella di cooperare attivamente, anche attraverso l’interpretazione convenzionalmente orientata, alla protezione dei diritti fondamentali, dialogando con la giurisprudenza delle Corti costituzionali e sovranazionali in modo da offrire un livello elevato di protezione dei diritti fondamentali, il definitivo assestamento della giurisprudenza della Corte edu in ordine alla non necessità dell’attivazione di un procedimento esecutivo nei confronti dello Stato debitore dal quale deriva l’unitarietà piena fra fase di cognizione e fase esecutiva quando il soggetto debitore è appunto lo Stato impone una parziale revisione, sul piano interpretativo, delle conclusioni a suo tempo espresse dalla sentenza n. 9142/2016, proprio alla luce della giurisprudenza della Corte edu.
9.3. Ne consegue che la necessità del raccordo fra fase di cognizione ed esecutiva introdotta in quell’occasione attraverso il meccanismo della proposizione dell’azione esecutiva entro il termine semestrale dalla definitività del giudizio di cognizione non può trovare oggi alcuna giustificazione se il soggetto debitore è lo Stato, essendo questi tenuto ad adempiere l’obbligazione pecuniaria senza che sia possibile individuare una condotta abusiva da parte del creditore che rimanga inerte, in attesa dell’adempimento spontaneo del debitore-Stato.
9.4. Occorre quindi affermare che il concetto di “decisione definitiva” al quale si aggancia il termine di decadenza previsto dall’art. 4 l. n. 89/2001 deve essere riferito alla definitività della decisione che conclude la fase di esecuzione eventualmente azionata dal creditore, senza che l’inerzia eventualmente protrattasi fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio di quella esecutiva possa ridondare in pregiudizio del creditore, impedendogli di ottenere l’indennizzo integrale per l’irragionevole durata anche del processo di merito a suo tempo definito.
9.5. Tale conclusione risulta oggi doverosa e pienamente in linea con la giurisprudenza convenzionale che, come si è visto, è andata consolidandosi nel senso di ritenere che, nel contesto della procedura “Pinto”, non vi è alcun obbligo per il creditore di avviare un procedimento di esecuzione volto ad ottenere il pagamento dell’indennizzo concesso, non potendosi ipotizzare alcuna forma di cooperazione da parte del creditore che abbia già ottenuto il proprio credito nei confronti dello Stato al termine di un procedimento giudiziario – non venendo qui in alcuna considerazione la disciplina normativa esaminata da Corte cost. n. 135/2018 (art. 5-sexies l. n. 89/2001, introdotto dall’art. 1, comma 777, lett. l), l. n. 208/2015) -.
9.6. In questa direzione milita, del resto, proprio la ricordata sentenza ________, ancorché non relativa ad un processo “Pinto su Pinto” analogo a quelli per i quali oggi intervengono le S.U.
9.7. Infatti, nel rapporto comunicato al Governo dalla Corte edu – risultante dal sito internet della Corte edu – fu menzionata la giurisprudenza di queste Sez. un. del 2014 chiedendo alle parti se, alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il processo di cognizione ed esecuzione, introdotti dalla ricorrente possono essere considerati separatamente oppure come due fasi necessarie di un solo processo. Elemento, quest’ultimo, capace di dare la misura della piena rilevanza dei principi espressi dalla Corte edu rispetto ai casi in esame. Ed è appena il caso di rilevare che la lettura della sentenza di queste Sezioni unite n. 9142/2016 offerta dalla Corte edu nella sentenza __________ è stata appunto nel senso che “è possibile considerare il procedimento come un tutt’uno, ai fini del calcolo della durata (del procedimento stesso)” – cfr. § 55 sent. ______ -, escludendo che la stessa, rispetto alla specificità del caso esaminato e della tempistica fra le fasi, avrebbe effettivamente potuto condurre al riconoscimento dell’unitarietà delle fasi, invece disconosciuto dal giudice nazionale sulla base dell’indirizzo espresso nelle due sentenze dell’anno 2009 di queste S.U.
9.8. Né può risultare priva di significato la circostanza che tali principi si siano al punto consolidati e stabilizzati dall’avere indotto il Governo italiano alla definizione delle liti con dichiarazione unilaterale ed ammissione della violazione, per come si è visto – caso __________ e a. c. Italia, cit. – anche per quei giudizi nei quali si discuteva della durata dei processi nei confronti dello Stato protrattasi per un tempo irragionevole, considerando unitariamente le due fasi, ancorché iniziate a notevole distanza di tempo l’una dall’altra.
9.9. Ne consegue che la cancellazione della causa dal ruolo ai sensi dell’art. 37, § 1, lett. c), CEDU operata nel caso _________, cit., dalla Corte edu, all’esito di una delibazione sommaria del processo, non può rimanere priva di significato almeno al fine di ulteriormente confermare non soltanto il consolidamento dei principi giurisprudenziali anzidetti, ma la loro stessa piena ed immediata operatività per il Governo italiano proprio all’interno del contenzioso omogeneo a quello di cui qui si discute.
9.10. Tanto impone una parziale rivisitazione dei principi espressi da Cass., S.U., n. 9142/2016.
9.11. Si tratta di una conclusione che si muove nell’ambito del perimetro dei poteri riservati a queste Sezioni unite alle quali doverosamente si è rivolta la seconda sezione civile in relazione al contenuto precettivo di cui all’art. 374, comma 2, c.p.c.
9.12. A tale approdo non sembra peraltro possibile giungere ritenendo che, come prospettato dalle difese di alcuni dei ricorrenti, Cass., S.U., n. 9142/2016, nel prevedere il raccordo fra le fasi, intese riferirsi unicamente ai giudizi ordinari in cui non era parte lo Stato.
9.13. È infatti vero che Cass., S.U., n. 9142/2016, nel rivisitare l’indirizzo espresso nell’anno 2009 a favore dell’autonomia fra le fasi, non prese espressamente in considerazione la posizione del creditore nei confronti dello Stato per l’adempimento di un’obbligazione pecuniaria riconosciuta in via definitiva ma, unicamente, quella del creditore privato beneficiario di un provvedimento di merito favorevole.
9.14. Ora, benché nel caso esaminato dalle S.U. del 2016 la posizione vagliata fu quella di un privato che aveva contribuito con il suo contegno alla mancata esecuzione della sentenza di merito emessa nei confronti di altro soggetto privato, non può disconoscersi che una lettura complessiva della motivazione di Cass., S.U., n. 9142/2016 lascia intendere che le Sezioni unite intesero offrire un assetto stabile dei rapporti fra le due fasi, qualunque fosse la natura del soggetto debitore.
9.15. Questa fu, del resto, la lettura che della pronunzia espressa dalle Sezioni unite venne svolta dalla seconda sezione civile di questa Corte, tabellarmente competente per la definizione dei processi Pinto, la quale mostrò di interpretare la pronunzia delle Sezioni unite del 2016 come applicabile anche nei giudizi relativi alla ragionevole durata del processo in cui il soggetto inadempiente all’obbligo del pagamento dell’indennizzo era lo Stato – cfr., ex plurimis, Cass. n. 229/2017 -.
9.16. Tali considerazioni rendono quindi oggi necessaria una precisa presa di posizione sulle conclusioni a suo tempo espresse dalla S.U. al fine di verificare se il raccordo operato fra le fasi per il tramite della necessaria attivazione della fase esecutiva entro il termine semestrale decorrente dalla definitività della sentenza che ha riconosciuto il diritto debba o meno operare nei confronti dello Stato debitore.
9.17. La necessità di questa ulteriore rinnovata riflessione sul rapporto fra le fasi processuali rilevanti ai fini della ragionevole durata di un processo nel quale è parte lo Stato debitore si richiede, piuttosto, in considerazione della già accennata impossibilità di ipotizzare una condotta abusiva da parte del creditore in relazione all’inerzia in forza di una giurisprudenza stratificata della Corte edu.
9.18. In definitiva, due delle ragioni che avevano indotto la Corte a Sezioni unite nel senso prospettato dalla sentenza n. 6142/2016 devono essere rivisitate proprio alla luce della giurisprudenza convenzionale, la quale non ha nemmeno mancato di sottolineare, come si è già ricordato, la particolare semplicità dei giudizi Pinto quanto all’obbligo di pagamento dell’importo liquidato in favore del creditore, ancora una volta confermando l’impossibilità di profilare, almeno secondo l’id quod plerumque accidit, una possibile condotta abusiva del creditore.
9.19. Le considerazioni qui svolte consentono dunque di meglio focalizzare il campo di applicazione dei principi espressi dalle Sezioni unite dapprima nelle pronunzie del 2014 e, successivamente, nella sentenza n. 9142/2016, nel senso che l’unitarietà incondizionata fra le fasi di cognizione e di esecuzione ai fini della individuazione dell’irragionevole durata del processo affermata nel 2014 – cfr. punto 3 delle sette sentenze già ricordate – va circoscritta ai soli casi nei quali il soggetto debitore coincide con lo Stato.
9.20. Né è superfluo sottolineare e richiamare le esigenze di effettività della tutela giurisdizionale, di matrice costituzionale (Corte cost. nn. 419/1995, Corte cost. n. 312/1996, Corte cost. n. 198/2010) e convenzionale (fra le tante, Corte edu, Grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino c. Italia, § 195, Corte edu, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, ____________ c. Italia, § 40), già prese in considerazione nelle sette sentenze del 2014 – v. § 3 sent. citt. – proprio per giustificare il raccordo fra le due fasi.
9.21. Ed è proprio la circostanza che il “tempo processo” vada considerato in modo unitario, a prescindere dalle fasi, a lasciare persuasi della piena plausibilità della soluzione qui espressa.
9.22. In realtà, va detto che il plesso normativo introdotto dalla Legge Pinto ha una sua autonomia e specificità all’interno del sistema generale delle obbligazioni in cui è parte lo Stato, inserendosi in un contesto che nasce dalla necessità di rispetto dell’art. 6, par. 1, CEDU sulla base della giurisprudenza della Corte edu.
9.23. Si tratta, in definitiva, di un sistema che tende a riconoscere l’indennizzo a carico dello Stato responsabile per l’irragionevole durata del processo secondo regole che traggono linfa da piani tra loro diversi – quello convenzionale e quello normativo interno – i quali non possono divergere al punto da determinare effetti antitetici quali quelli che si verificherebbero nel mantenere fermi i principi espressi nel 2016 con riguardo alla posizione dello Stato-debitore di un indennizzo Pinto, essendo in definitiva questo l’oggetto dei quesiti posti dalla sezione seconda nelle ordinanze interlocutorie.
9.24. La soluzione qui proposta, d’altra parte, si muove nell’ottica di depotenziare il contenzioso che potrebbe continuare a prodursi presso la Corte edu, ove il giudice nazionale ritenesse invece di proseguire l’indirizzo espresso nella sentenza del 2016 quando il debitore coincide con lo Stato, elidendo la possibilità di ottenere l’integrale ristoro del pregiudizio sofferto per l’irragionevole durata del processo unitariamente considerato.
9.25. Non risultano, poi, persuasive le preoccupazioni espresse dal Ministero della giustizia circa il fatto che tale soluzione non sarebbe compatibile con l’autonomia procedurale riservata ai singoli Stati all’atto di introdurre un meccanismo di sistema volto ad eliminare gli effetti pregiudizievoli prodotti dalla non ragionevole durata del processo.
9.26. La soluzione qui espressa non è in alcun modo idonea a minare la certezza e la stabilità delle situazioni giuridiche, né tende a giustificare eventuali abusi del diritto, tanto meno realizzando una tacita abrogazione delle norme sulla decadenza nell’ipotesi in cui debitore è lo Stato, invece coniugando in maniera armonica, attraverso il canone dell’interpretazione convenzionalmente orientata, i principi espressi a livello convenzionale con quelli interni (anche di matrice costituzionale), offrendo una nozione del concetto di “definitività” della decisione espresso nell’art. 4 l. n. 89/2001 pienamente coerente con l’art. 6 CEDU, nella lettura che di esso ha offerto in modo consolidato la giurisprudenza della Corte edu ed in alcun modo contrastante con i parametri costituzionali interni.
9.27. Né, ancora, può ritenersi che la soluzione qui espressa possa provocare un allungamento surrettizio dei tempi di soddisfazione del diritto e del processo – ferme, ovviamente le regole ordinarie in tema di prescrizione – da considerare rispetto al momento in cui viene promosso il giudizio volto ad ottenere l’indennizzo ex legge Pinto, invece pur sempre collegandosi alla sola durata del processo, da intendersi unitariamente per la durata delle fasi che lo caratterizzano secondo la giurisprudenza di Strasburgo, al fine di realizzare in maniera efficace ed effettiva l’interesse del creditore.
9.28. La soluzione qui raggiunta, idonea a perseguire l’idea della piena compatibilità tra la struttura del procedimento Pinto con i principi di derivazione convenzionale in merito alla qualificazione funzionale della nozione di “decisione definitiva”, deve ritenersi preferibile a quella prospettata dal P.G. che, nel riconoscere un’estensione del termine concesso alla parte creditrice nell’iniziare il processo esecutivo, attraverso la somma al termine di sei mesi decorrente dalla definitività della decisione di merito quello di sei mesi e cinque giorni riconosciuto allo Stato quale spatium adimplendi muove dalla qui condivisa necessità di “allentare” la forza dei principi espressi dalla sentenza del 2016, introducendo tuttavia un meccanismo che non si concilia perfettamente con due elementi ritenuti decisivi dalle Sezioni unite.
9.29. Per un verso, infatti, ai fini della ragionevole durata del processo, il soggetto-creditore nei confronti dello Stato non deve ritenersi gravato dall’onere di promuovere un giudizio volto ad ottenere l’esecuzione dell’obbligo di pagamento nei confronti dello Stato, permanendo in capo allo Stato stesso, senza alcuna soluzione di continuità, l’obbligo di adempiere il pagamento dell’indennizzo Pinto anche oltre il termine che la giurisprudenza convenzionale individua come ragionevole per tale esecuzione.
9.30. La condivisione della tesi prospettata dal P.G. lascerebbe, per altro verso, prive di tutela le posizioni dei soggetti che siano rimasti inerti oltre il termine nella misura ampliata e che, per le considerazioni appena espresse, non hanno alcun obbligo di attivarsi in via esecutiva per pretendere il pagamento dell’indennizzo Pinto.
9.31. In definitiva, con specifico riferimento ai giudizi rimessi all’esame di queste Sezioni unite, il creditore dell’indennizzo Pinto che abbia promosso un’azione esecutiva nei confronti dello Stato per ottenere la soddisfazione del proprio credito potrà pretendere il riconoscimento del diritto alla ragionevole durata del processo unitariamente considerato fino a quando non sarà divenuto definitivo il provvedimento giurisdizionale che ha pienamente realizzato l’interesse del creditore.
9.32. In modo corrispondente va poi ribadito che i principi in ordine alla necessità dell’inizio della fase esecutiva entro il termine di decadenza previsto dalla definitività della fase di cognizione per consentire la valutazione unitaria del ritardo già affermati nella sentenza n. 9142/2016 continuano ad avere efficacia nei soli casi in cui il soggetto debitore di un obbligo accertato giudizialmente non coincide con lo Stato.
9.33. Tale conclusione risulta in linea con uno degli interrogativi di sostanza posti dalla sezione seconda nelle diverse ordinanze interlocutorie, nemmeno ponendo alcun problema in termini di discriminazione rispetto alla diversa posizione del soggetto privato creditore di un diritto giudizialmente riconosciuto a carico di una parte diversa dallo Stato, proprio per le ragioni esplicitate dal giudice convenzionale – e riportate in alcuni dei paragrafi della sentenza Bozza sopra ricordati – a sostegno del peculiare obbligo dello Stato-debitore di garantire la piena realizzazione di un debito al medesimo imputabile.
9.34. Si viene in tal modo a realizzare quella confluenza fra gli orientamenti delle giurisdizioni nazionali e sovranazionali che proprio la Corte costituzionale ha di recente auspicato quando vengono in gioco valori fondamentali che traggono linfa da plurime fonti normative – cfr. Corte cost. n. 25/2019, cit., p. 8 del cons. in diritto -.
9.35. Ciò in un’ottica di pieno contemperamento e bilanciamento degli interessi in gioco e degli obblighi gravanti su ciascuna delle parti, non potendosi ipotizzare alcun effetto preclusivo in danno del creditore finché non vi sia stata piena soddisfazione del diritto da parte dello Stato-debitore.
9.36. Occorre a questo punto precisare che la ricondotta unità fra le due fasi nel caso dello Stato-debitore dell’indennizzo Pinto non comprende, ai fini del riconoscimento del tempo processo, anche il tempo relativo all’inerzia che il creditore ha mantenuto fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio del procedimento esecutivo.
9.37. Si tratta, come già ampiamente chiarito dalle Sezioni unite nelle sette sentenze del 2014, di un autonomo pregiudizio che, pur risultando protetto dall’art. 6, par. 1, CEDU, riguarda il ritardo nell’esecuzione della decisione favorevole eccedente lo spatium adimplendi di mesi sei e giorni 5 e che è estraneo alla tutela approntata dal rimedio interno introdotto dalla legge c.d. Pinto, indirizzata inequivocabilmente a riconoscere un indennizzo per i tempi del processo, siano essi collegati al protrarsi irragionevole della fase di cognizione che di quella esecutiva, ma non idoneo, in assenza di un apposito rimedio interno, ad offrire tutela per il diverso ed autonomo pregiudizio sofferto con riguardo al ritardo nell’esecuzione della decisione favorevole – cfr. p. B) delle più volte ricordate sette sentenze del 2014 di queste S.U. -.
9.38. Sull’esistenza e sulla risarcibilità di tale pregiudizio si è, del resto, stratificata la giurisprudenza convenzionale, come risulta dalla sentenza ___________ e a. c. Italia – Corte dir. uomo, 21 dicembre 2010 – che ne ha riconosciuto la ricorribilità immediata innanzi alla Corte di Strasburgo, senza dovere proporre un autonomo giudizio in ambito interno (cfr. anche sent. Simaldone c. Italia, p. 44) per ottenere il relativo indennizzo, riconoscendolo peraltro in modo forfetario e predeterminato nella misura di euro 200,00, così dimostrando la diversa natura rispetto a quella relativa al pregiudizio connesso alla non ragionevole durata del processo.
9.39. Né è superfluo sottolineare che la diversa natura dei due pregiudizi viene in rilievo anche innanzi alla Corte edu che ha proceduto a liquidare entrambi i pregiudizi solo quando la parte aveva contestualmente richiesto l’indennizzo sia per la non ragionevole durata del processo che per il ritardo nell’esecuzione – cfr. Corte dir. uomo, 21 dicembre 2010, ________ c. Italia, § 41: “Il s’ensuit que, lorsqu’un requérant se plaint de la durée de la phase judiciaire d’un recours «Pinto», ainsi que d’un retard dans le paiement de l’indemnisation, le temps s’écoulant entre la date de la décision exécutoire de la cour d’appel «Pinto» et le paiement effectif de la somme accordée doit être pris en considération pour évaluer la durée de la procédure, et ce indépendamment de la mise en oeuvre d’une procédure d’exécution par le requérant” -. Con ciò ancora una volta confermando l’autonomia delle singole voci di danno.
9.40. Del resto, che tale lasso di tempo non possa risultare rilevante ai fini della ragionevole durata del processo si evince indiscutibilmente dalla circostanza che il pregiudizio correlato alla tutela apprestata dalla l. n. 89/2001 è quello relativo al processo svolto davanti ad un giudice, non quello che attiene ad un ritardo attribuibile allo Stato amministrazione, come si è detto autonomamente risarcibile.
9.41. In questa direzione queste Sezioni unite si sono già espresse – Cass., Sez. un., n. 4429/2014 pur con riferimento ad un procedimento amministrativo precedente all’instaurazione del processo, ma seguendo una ratio decidendi pienamente coerente ed in linea con quanto qui esposto.
9.42. Coerenza che, d’altra parte, viene ulteriormente confermata dalla previsione di cui all’art. 2-quater della l. n. 89/2001, che esclude dalla somma delle due fasi (come già affermato dalle sentenze delle Sez. un. del 2014) i periodi intermedi.
9.43. Va a questo punto osservato che l’assenza di un rimedio interno previsto per riconoscere al creditore di tale voce di danno, ormai stabilizzatasi nella sua quantificazione – ancorché operata a livello di Corte edu -, sul quale pure la sezione remittente ha invitato queste Sezioni unite a riflettere non giustifica, allo stato e valutato il contesto dei giudizi rimessi alle Sez. un. ove si discute unicamente dell’indennizzo relativo alla durata ragionevole del processo, l’adozione di opzioni di segno diverso da quelle espresse dalle Sezioni unite del 2014 che pure le parti ricorrenti non hanno mancato di ipotizzare, richiamando quanto espresso da Cass. n. 15658/2012 ben prima dei principi espressi in funzione nomofilattica da queste Sezioni unite con riguardo a tale voce di indennizzo.
9.44. Restano da affrontare due ulteriori questioni, ancillari rispetto a quella qui esaminata ed anch’esse prospettate dalla sezione rimettente, la prima delle quali attiene alla rilevanza del termine di 120 giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla l. n. 30 del 28 febbraio 1997, ai fini della durata ragionevole del processo.
9.45. Sul punto, in relazione alla soluzione offerta al quesito principale posto dalla sezione seconda, è sufficiente rilevare che detto termine, pur ponendosi in una prospettiva diversa rispetto alla specificità della procedura liquidatoria degli indennizzi per equa riparazione della non ragionevole durata del processo rispetto alle procedure di pagamento degli altri debiti della p.a. (Corte cost. n. 135/2018) laddove impedisce prima del suo decorso l’azione esecutiva, potrà eventualmente rilevare come ritardo nell’esecuzione, dando luogo all’indennizzo autonomamente richiedibile innanzi alla Corte edu, non potendo in alcun modo produrre un effetto incidente sul tema della ragionevole durata del processo successivamente promosso né sullo spatium adimplendi che la giurisprudenza nazionale, in modo coerente con quella della Corte edu, ha riconosciuto allo Stato per l’esecuzione del pagamento dell’indennizzo.
9.46. Quanto alla questione dell’inizio del procedimento esecutivo, è ancora una volta utile affermare che a tal fine non può che rilevare la data della notifica del pignoramento ai sensi dell’art. 491 c.p.c., come del resto già riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte – Cass. n. 12690/2017 – non potendo certo riconoscersi alcun valore alla data di notifica del titolo esecutivo e/o del precetto, proprio in relazione alla natura neutra di tali atti rispetto all’inizio della fase esecutiva che va invece collegata alla disposizione processuale presente nel codice di procedura civile appena richiamata.
9.47. Ulteriore quesito posto dalla sezione seconda civile nelle ordinanze di rimessione attiene alla piena equiparabilità del giudizio di ottemperanza al procedimento esecutivo, che assume rilievo proprio in relazione alla soluzione del quesito principale relativo all’unitarietà fra le fasi del processo volte al pieno soddisfacimento del diritto del creditore dell’indennizzo Pinto nei confronti dello Stato-debitore.
9.48. Orbene, ritengono le Sez. un. che, in sintonia con quanto puntualmente ed efficacemente espresso dal Procuratore Generale, debba darsi risposta positiva al quesito anzidetto.
9.49. In termini generali, può affermarsi che nel vigore della l. n. 89/2001 – come novellata nell’anno 2012 – la pronunzia adottata in tema di indennizzo Pinto, pur non avendo la forma di sentenza, ha pienamente e sostanzialmente il contenuto di un provvedimento decisorio in materia di diritti soggettivi, idoneo ad assumere valore ed efficacia di giudicato, ai fini della ammissibilità del ricorso per ottemperanza (v. C.d.S., sez. IV, 28 ottobre 2013, n. 5182; C.d.S., 23 agosto 2010 n. 5915; C.d.S., sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1484; C.d.S., sez. IV, 4 aprile 2012, n. 2001).
9.50. La giurisprudenza del giudice amministrativo è poi ferma nel ritenere che il giudizio di ottemperanza nella materia di cui qui si discute è esperibile per l’esecuzione di una condanna al pagamento di somme di danaro, alternativamente o congiuntamente rispetto al rimedio del processo di esecuzione dinanzi al giudice civile, con il solo limite della impossibilità di conseguire due volte la medesima somma – cfr. C.d.S., 29 dicembre 2010, 9541; C.d.S., 16 marzo 2012, n. 1484 -.
9.51. Quanto all’equiparabilità del giudizio di ottemperanza a quello esecutivo militano le affermazioni espresse già da queste Sezioni unite – cfr. Cass., Sez. un., nn. 27365 e 27364 del 2009 -.
9.52. Tali pronunzie, infatti, pur ritenendo la piena autonomia fra fase di cognizione e fase esecutiva non mancarono di considerare in modo unitario il processo di esecuzione ed il giudizio di ottemperanza, in quanto volti a dare – entrambi – attuazione alla decisione di merito, per rendere effettiva la tutela del diritto. Affermazioni di principio mai modificate dalle successive pronunzie già sopra ricordate di queste Sezioni unite, come osservato dal P.G.
9.53. Va aggiunto che non sembra utile, in questa sede, addentrarsi sulla poliedrica natura assunta dal giudizio di ottemperanza a seconda del contenuto della sentenza da ottemperare, se non per evidenziare che in caso di ottemperanza successiva al dictum contenuto nella pronunzia passata in giudicato del giudice ordinario, il giudice dell’ottemperanza svolge generalmente una mera attività esecutiva.
9.54. Ciò che vale vieppiù per i decreti emessi in materia di Legge Pinto nei quali, vertendosi pacificamente in tema di diritti soggettivi, la decisione in sede di ottemperanza è unicamente rivolta a porre in esecuzione la condanna al pagamento dell’indennizzo fissato.
9.55. Va ancora aggiunto che non incide sulla unitarietà fra fase di merito svolta innanzi alla Corte di appello e giudizio di ottemperanza la circostanza che il primo si sia svolto innanzi ad un plesso giurisdizionale diverso da quello al quale spetta funzionalmente la cognizione del giudizio di ottemperanza, rilevando soltanto il tempo processuale resosi necessario per dare soddisfazione al diritto del creditore all’indennizzo ex Legge Pinto nei confronti dello Stato-debitore.
9.56. Risulta quindi del tutto inconferente la diversità fra gli organi giurisdizionali che hanno reso possibile la piena soddisfazione della pretesa, ciò non essendo in grado di determinare una scissione fra le “fasi” processuali volte alla soddisfazione del diritto.
9.57. Sulla base delle superiori argomentazioni vanno affermati i seguenti principi di diritto:
1. Ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso ai sensi dell’art. 4 della l. n. 89/2001, nel testo modificato dall’art. 55 d.l. n. 83/2012, conv. nella l. n. 134/2012 risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 88/2018, la fase di cognizione del processo che ha accertato il diritto all’indennizzo a carico dello Stato-debitore va considerata unitariamente rispetto alla fase esecutiva eventualmente intrapresa nei confronti dello Stato, senza la necessità che essa venga iniziata nel termine di sei mesi dalla definitività del giudizio di cognizione, decorrendo detto termine dalla definitività della fase esecutiva.
2. Ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo rilevante per la quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art. 2 della l. n. 89/2001 la fase esecutiva eventualmente intrapresa dal creditore nei confronti dello Stato-debitore inizia con la notifica dell’atto di pignoramento e termina allorché diventa definitiva la soddisfazione del credito indennitario.
3. Nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, da considerare unitariamente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo ex art. 2 l. n. 89/2001, non va considerato come “tempo del processo” quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva, quest’ultimo invece potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
4. Il termine di 120 giorni di cui all’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla l. n. 30 del 28 febbraio 1997, non produce alcun effetto ai fini della ragionevole durata del processo esecutivo.
5. Il giudizio di ottemperanza promosso all’esito della decisione di condanna dello Stato al pagamento dell’indennizzo di cui alla l. n. 89/2001 deve considerarsi sul piano funzionale e strutturale pienamente equiparabile al procedimento esecutivo, dovendosi considerare unitariamente rispetto al giudizio che ha riconosciuto il diritto all’indennizzo.
10. Applicazione dei principi al caso di specie.
10.1. Alla luce dei superiori principi il primo motivo di ricorso proposto dal ricorrente è infondato.
10.2. Ed invero, il giudice di appello, nel considerare unitariamente la fase di cognizione e quella di esecuzione si pienamente uniformato ai principi espressi in punto di unitarietà delle fasi sopra fissati, escludendo che la durata del processo ulteriore a quella indicata come ragionevole (in anni due mesi sei e giorni cinque) superasse la soglia minima prevista dall’art. 2-bis della l. n. 89/2001.
10.3. Parimenti coerente con la ricostruzione qui operata a proposito dell’irrilevanza del tempo d’inerzia protrattosi fra la definitività del giudizio di cognizione e quella dell’esecuzione, avendo la Corte di appello computato il tempo delle due fasi processuali (addirittura comprendendo nella fase esecutiva il lasso di tempo intercorso dalla notifica dell’atto di precetto, sicuramente anteriore a quello della notifica dell’atto di pignoramento e la definitività dell’ordinanza di assegnazione), essendo tale conclusione ancora una volta in piena sintonia con il principio dell’irrilevanza, quale “tempo del processo”, del lasso temporale intercorso fra le due fasi, non potendo avere alcun rilievo il termine di 120 giorni di cui all’art. 14 d.l. n. 699/1996, conv. dalla l. n. 30/1997.
10.4. Resta solo da dire che la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia che la parte ricorrente ha adombrato in una delle memorie è inammissibile, non vertendosi in materia di diritto dell’Unione europea – cfr., Corte cost. n. 267/2017, Corte cost. n. 63/2016, Corte cost. n. 80/2011, Corte cost. n. 303/2011 e, nella giurisprudenza di queste Sezioni unite, Cass., Sez. un., n. 9595/2012, Cass., Sez. un., n. 10130/2012 -.
10.5. Quanto alla questione di legittimità costituzionale pure sollevata in memoria dalla ricorrente la stessa è manifestamente irrilevante, non considerando che la Corte di appello, come rilevato dal Procuratore Generale, ha considerato unitariamente le due fasi del giudizio, non dando luogo ad alcun vulnus di rilevanza costituzionale.
10.6. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
10.7. La giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione – cfr., da ultimo, Cass. n. 11329/2019 -.
10.8. Né tale statuizione può determinare un vulnus rispetto ai principi espressi dalla Corte edu che si è limitata a riconoscere il diritto della parte vittoriosa al rimborso delle Spese processuali che si affrontano quando viene presentato un ricorso se il loro ricorso è considerato fondato (cfr. Corte edu, _____________ c. Italia, cit., § 201).
10.9. A tale principio si è attenuto il giudice di appello, addossando alla parte soccombente il peso delle spese processuali.
10.10. Sulla base di tali considerazioni, il ricorso va rigettato.
10.11. Nulla sulle spese; non sussistono i presupposti di legge sul raddoppio del contributo unificato (Cass. n. 2273/2019) come si desume da art. 10 d.P.R. n. 115/2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso dalle Sezioni Unite civili in Roma il 18 giugno 2019.
Il cons.rel.
Il Presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 15 gennaio 2019, n. 802, per SS.UU, 23 luglio 2019, n. 19883, in tema di durata ragionevole del processo
SS.UU, 23 luglio 2019, n. 19883, in tema di durata ragionevole del processo
In tema di responsabilità della p.a. – SS.UU, 16 maggio 2019, n. 13246
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
FATTI DI CAUSA
1. Per l’illecita sottrazione di somme depositate presso un ufficio giudiziario ed alle quali avrebbe avuto diritto quale parte di un giudizio di divisione, ________ convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Catania, il ________ ed il Ministero della Giustizia, chiedendone la condanna al risarcimento del danno a lui derivato dal comportamento illecito dello ________, il quale si era appropriato di quelle somme, poi venendo condannato per peculato.
2. Il Ministero convenuto si costituì e chiese il rigetto della domanda; ma, rimasto contumace lo ________, per quel che qui ancora rilevaiil Tribunale – con sentenza n. 4400 del 28/12/2011 – la accolse e condannò il Ministero convenuto al pagamento, in favore del ________, della somma di Euro 46.896,32, oltre interessi e spese di giudizio, ritenuti sussistenti i presupposti dell’estensione della responsabilità all’Amministrazione, a norma dell’art. 28 Cost..
3. L’appello del Ministero, cui resistette il solo ________, fu in parte accolto dalla corte territoriale, che mandò assolto l’appellante da ogni pretesa risarcitoria per avere il suo dipendente agito per un fine strettamente personale ed egoistico, estraneo all’Amministrazione e addirittura contrario ai fini che essa perseguiva, idoneo ad escludere ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente.
4. Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Catania, pubblicata il 13/08/2015 col n. 1353, Giuseppe ________ propose ricorso basato su un unico motivo, poi illustrato da memoria già per l’adunanza in sesta sezione, cui resistette il solo Ministero, dapprima con mero atto di costituzione in giudizio e poi con memoria.
5. Fu disposta la trattazione del ricorso in pubblica udienza (con ordinanza della sesta sezione di questa Corte, 27/05/2017, n. 12861) e poi la rimessione a queste Sezioni Unite (ordinanza 05/11/2018, n. 28079) della questione, ritenuta oggetto di giurisprudenza non univoca, sulla “sussistenza o meno della responsabilità civile della pubblica amministrazione per i fatti illeciti dei propri dipendenti, qualora il dipendente, profittando delle sue precipue funzioni, commetta un illecito penale per finalità di carattere esclusivamente personale”; ed infine, per la pubblica udienza del 09/04/2019, formulate dal Pubblico Ministero anche conclusioni scritte richiamate nel corso della discussione orale, il solo Ministero ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ ..
Ragioni della decisione
A. Inquadramento della fattispecie.
1. La sentenza impugnata ha rigettato la domanda risarcitoria della vittima del peculato del cancelliere in base all’orientamento della giurisprudenza di legittimità (richiamando: Cass. 21/11/2006, n. 24744; Cass. 17/09/1997, n. 9260; Cass. 06/12/1996, n. 10896; Cass. 13/12/1995, n. 12786; Cass. 03/12/1991, n. 12960) secondo cui, affinchè ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente, poichè il fondamento di quella risiede nel rapporto di immedesimazione organica, deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità all’Amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto; tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico, che si riveli del tutto estraneo all’amministrazione o perfino contrario ai fini che essa persegue ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A. (militando nello stesso senso anche Cass. 12/04/2011, n. 8306, nonchè, in precedenza e tra le altre: Cass. 08/10/2007, n. 20986; Cass. 18/03/2003, n. 3980).
2. Il ricorrente si affida ad un unitario motivo, con cui denuncia, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 28 Cost. e dell’art. 2049 cod. civ., dolendosi dell’esclusione della responsabilità del Ministero; nega che «ai fini dell’applicazione dell’art. 28 Cost., oltre al nesso di causalità fra il comportamento del funzionario e l’evento dannoso, debba necessariamente ricorrere anche l’ulteriore, troncante presupposto della “riferibilità all’amministrazione di quel comportamento”»; contesta che debba «ricadere esclusivamente sul danneggiato la scelta dell’Amministrazione di affidare la direzione di un ufficio a soggetto rivelatosi privo dei requisiti morali»; chiede che risponda del «danno … occasionato dalla mancanza o inefficienza dei controlli».
3. Sostiene, ancora, il _______ che il principio secondo cui la responsabilità dell’Amministrazione, nelle ipotesi previste dall’art. 28 Cost., debba ritenersi esclusa ogni qual volta l’agente, profittando delle sue precipue funzioni, abbia dolosamente commesso il fatto per ritrarre egli stesso utilità, non troverebbe giustificazione nel dettato costituzionale, nè in norme di legge, integrando un “disparitario postulato assolutamente privo di sostrato logico e giuridico, che non solo svuota di ogni contenuto quella norma di garanzia (evidentemente posta a tutela dell’amministrato), ma ne sbilancia smaccatamente gli effetti a tutto favore dell’Amministrazione”; sicchè la Corte di merito avrebbe dovuto piuttosto aderire al diverso orientamento espresso con la sentenza di questa Corte, VI Sez. Pen., n. 13799 del 31 marzo 2015, secondo cui “è configurabile la responsabilità civile della P.A. anche per le condotte dei dipendenti pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali mediante la realizzazione di un reato doloso, quando le stesse sono poste in essere sfruttando, come premessa necessaria, l’occasione offerta dall’adempimento di funzioni pubbliche, e costituiscono, inoltre, non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio di tali funzioni, in applicazione di quanto previsto dall’art. 2049 c.c.” (annullato così il rigetto della domanda risarcitoria nei confronti di imputato che, quale agente di Ufficio notifiche esecuzioni e protesti, si era appropriato di titoli di credito ed effetti cambiari a lui consegnati per il protesto, commettendo i reati di peculato, falso e truffa).
4. Pertanto, per il ricorrente la responsabilità del Ministero si fonda sul fatto che, come emerso nelle fasi di merito, lo _______ aveva esplicato l’attività criminosa, non imprevedibile in assoluto, nella qualità di funzionario di cancelleria e che solo grazie a quella veste istituzionale gli era stato possibile accedere alla cassaforte ove i libretti vincolati erano custoditi, falsificare i mandati di pagamento e conseguirne di persona l’incasso.
5. Dal canto suo il Ministero, eccepita la tardività del ricorso, invoca la giurisprudenza di legittimità sulla necessità, ai fini della responsabilità diretta dell’Amministrazione, della riferibilità a questa della condotta del funzionario o del dipendente, come esplicazione dell’attività di quella in virtù del rapporto organico, ricollegabile ad attribuzioni proprie di lui: tanto da escludere ogni responsabilità nel caso, come quello in esame, di condotta sorretta da un fine strettamente personale ed egoistico del funzionario o dipendente ed anzi contrario agli scopi istituzionali perseguiti dall’Amministrazione.
6. Con la memoria depositata per l’udienza del 09/04/2019, poi, il Ministero nega la rilevanza dell’invocata giurisprudenza di legittimità penale, da un lato perchè anch’essa postula i caratteri dell’assoluta imprevedibilità ed eterogeneità della condotta dell’agente rispetto ai suoi compiti istituzionali (in modo da non consentire un collegamento con essi) e dall’altro perchè la stessa P.A. avrebbe potuto costituirsi parte civile nel procedimento penale per peculato contro il suo funzionario evidentemente infedele, attesa la natura plurioffensiva del delitto di peculato per il quale quello è stato poi condannato.
7. Il Pubblico Ministero, infine, nella requisitoria scritta con ampiezza di riferimenti ricostruisce i termini della questione, iniziando dalla disamina della natura della responsabilità di Stato ed Enti pubblici per i fatti illeciti commessi dai propri dipendenti e funzionari; illustra una prima impostazione ermeneutica, propria della prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella penalistica più risalente (ma pure di quella amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato per il fatto illecito dei propri dipendenti sussiste solo in applicazione di criteri pubblicistici e quindi esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali e, in virtù del rapporto organico, allorchè quella vada imputata direttamente all’ente (con orientamento definito consolidato da Cass. n. 15930/02, seguita poi, tra le altre, da Cass. nn. 2089 e 27246 del 2008, 8306 e 29727 del 2011, 21408/14 e 8991/15); ma ricorda pure una seconda interpretazione, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica (Cass. pen. nn. 21195/11, 40613/13, 13799 e 44760 del 2015) e di una giurisprudenza civilistica ora più remota e poi superata, ora minoritaria (Cass. nn. 20928/15 e 17836/07), ora riferita a rapporti di preposizione privatistici (Cass. nn. 2226/90, 20924/15, 22058/17, 4298/19) e quindi non assimilabili al rapporto che lega il pubblico dipendente allo Stato o all’ente pubblico, la quale riconosce la responsabilità di questi pure in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti a quelli elaborati per la responsabilità del preponente ai sensi dell’art. 2049 c.c., ammettendola così in ipotesi di nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
8. Nella stessa requisitoria scritta si dubita poi della sussistenza di un effettivo contrasto: da un lato, per la costanza nella configurazione di una responsabilità diretta e, dall’altro, per la sussistenza di questa esclusivamente in caso di condotta del dipendente strumentalmente connessa con l’attività d’ufficio, benchè non esclusa in ipotesi di condotta dolosa o con abuso di poteri o con violazione di legge o di un ordine, purchè si innesti nell’attività dell’ente e sia anche soltanto indirettamente collegabile alle sue attribuzioni e non sia connotata dal carattere dell’imprevedibilità ed eterogeneità rispetto a queste ultime, sì da escluderne ogni collegamento con le medesime, dovendo rimettersi il superamento delle discrasie all’apprezzamento di fatto delle circostanze concrete. Per l’errore di diritto consistente nella violazione di tale principio si chiede così l’accoglimento del ricorso.
B. L’ordinanza di rimessione.
9. L’ordinanza di rimessione (05/11/2018, n. 28079), esclusa la tardività del ricorso in base al testo dell’art. 327 cod. proc. civ., applicabile in ragione della data di instaurazione del giudizio in primo grado, identifica come oggetto della controversia la questione della sussistenza o meno della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per i danni cagionati dal fatto penalmente illecito del dipendente quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee all’amministrazione di appartenenza; ed individua la ragione della sua devoluzione a queste Sezioni Unite nella rilevata non univocità, sul punto, delle conclusioni della giurisprudenza di legittimità.
10. Da un lato, la prevalente giurisprudenza civile di legittimità ha ravvisato il fondamento della responsabilità di Stato ed enti pubblici nell’art. 28 Cost. – la cui ratio è quella di un più agevole od ampio conseguimento del risarcimento da parte del danneggiato e, basandosi tale norma sul rapporto di immedesimazione organica, solo in virtù del quale l’attività posta in essere dal funzionario (o dipendente) è sempre imputabile all’ente di appartenenza, ne ha desunto la configurazione di una responsabilità diretta o per fatto proprio, ma soltanto se l’attività dannosa si atteggi come esplicazione dell’attività dello Stato o dell’ente pubblico e cioè tenda, sia pur con abuso di potere, al conseguimento dei suoi fini istituzionali, nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto (richiamando: Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass. 30/01/2008, n. 2089; Cass. 17/09/1997, n. 9260). Ne conseguirebbe l’esclusione di quella responsabilità in tutti i casi in cui la condotta sia sorretta da un fine esclusivamente privato od egoistico, o a maggior ragione se contrario ai fini istituzionali dell’ente (Cass. 12/04/2011, n. 8306; Cass. 8/10/2007, n. 20986, Cass. 21/11/2006, n. 24744; Cass. 18/03/2003, n. 3980; Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass. 13/12/1995, n. 12786).
11. Dall’altro lato, però, almeno in tempi recenti la giurisprudenza penale di legittimità configura la responsabilità civile della pubblica amministrazione pure per le condotte dei pubblici dipendenti dirette a perseguire finalità esclusivamente personali e mercè la realizzazione di un reato doloso, ove poste in essere sfruttando l’occasione necessaria offerta dall’adempimento delle funzioni pubbliche cui essi sono preposti, nonchè integranti il non imprevedibile od eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni, in applicazione del criterio previsto dall’art. 2049 c.c. (Cass. pen., 20/01/2015, n. 13799 – poi richiamata da Cass. pen. 03/04/2017, n. 35588, ma preceduta da Cass. pen. 11/06/2003, n. 33562 – in consapevole contrasto con l’orientamento precedente, di cui è stata ulteriore espressione la più recente Cass. pen. 04/06/2015, n. 44760).
12. Ad analoga estensione della responsabilità civile si assiste nella giurisprudenza civile di legittimità in altri ambiti di preposizione, meramente privatistici, quali quelli propri dei funzionari di banche o dei promotori di queste o di società di intermediazione finanziaria, in ordine ai quali è stata riconosciuta la responsabilità dei preponenti anche nei casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra le incombenze attribuite al preposto e il danno arrecato a terzi: nesso che è presupposto indispensabile della responsabilità del preponente ex art. 2049 c.c., e non viene meno in caso di commissione da parte del preposto di un illecito penale per finalità di carattere esclusivamente personale (v. già Cass. 06/03/2008, n. 6033; successivamente, v.: Cass. 16/04/2009, n. 9027; Cass. 24/7/2009, n. 17393; Cass. 25/01/2011, n. 1741; Cass. 24/03/2011, n. 6829; Cass. 13/12/2013, n. 27925; Cass. 04/03/2014, n. 5020; Cass. 10/11/2015, n. 22956). Di qui il rilievo della non univocità della giurisprudenza in materia e la rimessione della relativa questione a queste Sezioni Unite.
C. La normativa applicabile.
13. Pertinenti per la risoluzione della questione sono:
– l’art. 28 Cost., per il quale, com’è noto: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici»;
– l’art. 2049 c.c., rubricato «responsabilità dei padroni e dei committenti», per il quale «i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti».
14. Sostanzialmente neutri ai fini che qui interessano, per il rinvio espresso che operano ai principi ed alle norme vigenti, si rivelano invece alcuni articoli del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), in particolare gli artt. 22 e 23, i cui rispettivi primi commi prevedono:
– «l’impiegato che, nell’esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi dell’art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo. L’azione di risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei confronti dell’Amministrazione qualora, in base alle norme ed ai principi vigenti dell’ordinamento giuridico, sussista anche la responsabilità dello Stato»;
– «è danno ingiusto, agli effetti previsti dall’art. 22, quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l’impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave; restano salve le responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti».
D. La normativa costituzionale.
15. È noto l’ampio dibattito, soprattutto in dottrina e all’indomani dell’entrata in vigore della Carta fondamentale, sulla portata dell’art. 28 Cost.: superate le prime tesi sulla natura meramente sussidiaria della responsabilità di Stato od ente pubblico rispetto a quella dell’agente, è invalso il riconoscimento della natura concorrente o solidale delle due responsabilità, ricostruita quella dello Stato od ente pubblico come diretta, in forza dei principi sull’immedesimazione organica dovendo escludersi che l’attività posta in essere al di fuori dei compiti istituzionali dal pubblico funzionario o dipendente potesse imputarsi allo Stato o ente pubblico.
16. Non ha incontrato il favore degli interpreti la ricostruzione della responsabilità della Pubblica Amministrazione per l’illecito del suo dipendente quale responsabilità indiretta (o per fatto altrui, dovendo la Pubblica Amministrazione sopportare i rischi delle conseguenze dannose degli atti posti in essere da coloro che agiscono per suo conto), nè altra tesi eclettica, che ha prospettato la natura composita di quella stessa responsabilità, dovendo l’Amministrazione rispondere in via diretta per i danni causati nello svolgimento dell’attività provvedimentale (l’unica rispetto alla quale si configurerebbe un’immedesimazione organica, in quanto esplicazione della funzione diretta al perseguimento del pubblico interesse e posta in essere da funzionari dotati del potere rappresentativo – organi in senso stretto – attraverso cui l’Ente esprime la sua volontà ed agisce nei rapporti esterni) ed in via indiretta per i danni causati nell’espletamento di ogni altra attività, tra cui quella materiale.
17. Nella prevalente dottrina pubblicistica la tesi della responsabilità diretta da rapporto organico in funzione limitativa si fonda sulla tesi del contenimento dell’innovazione portata dalla norma costituzionale: questa non starebbe nell’immutazione della natura della responsabilità dell’Ente, che andrebbe sempre qualificata, come nel sistema anteriore all’entrata in vigore della Costituzione, in termini di responsabilità diretta o per fatto proprio; essa invece starebbe nella previsione, accanto alla responsabilità diretta della pubblica amministrazione, di una concorrente responsabilità, sempre diretta, del funzionario o del dipendente, che invece, nel sistema previgente, poteva essere chiamato a rispondere, in solido con l’Ente di appartenenza, solo ove tale responsabilità solidale fosse prevista da specifiche disposizioni di legge; la norma costituzionale avrebbe cioè disegnato un sistema fondato su due responsabilità concorrenti e solidali, entrambe dirette, spettando esclusivamente al danneggiato la scelta se far valere l’una o l’altra od entrambe.
19. La giurisprudenza amministrativa è, poi, ferma nel ritenere interrotta l’imputazione giuridica dell’attività posta in essere da un organo della pubblica amministrazione nei casi in cui siano posti in essere fatti di reato (Cons. Stato, Sez. 6, 14/11/2014, n. 5600), o di atti adottati in ambienti collusivi penalmente rilevanti (Cons. Stato, Sez. 5, 04/03/2008, n. 890; TAR Reggio Calabria, Sez. 1, 11 agosto 2012, n. 536), o comunque allorchè il soggetto agente, legato alla P.A. da un rapporto di immedesimazione organica, abbia posto in essere il provvedimento amministrativo, frutto del reato contro la P.A., nell’ambito di un disegno criminoso e quindi perseguendo un interesse personale del tutto avulso dalle finalità istituzionali dell’Ente (TAR Sicilia-Catania 25/07/2013, n. 2166, per il quale il venir meno dell’imputabilità dell’atto all’Amministrazione, per interruzione del rapporto organico, determina la nullità dell’atto stesso, per mancanza di uno degli «elementi essenziali» – L. n. 241 del 1990, ex art. 21 septies, – individuabile nel soggetto o per mancanza di volontà in capo alla stessa P.A., escludendosi che l’atto de quo possa dirsi posto in essere da una P.A. nell’esplicazione di un’attività amministrativa).
20. E la stessa Corte costituzionale ha reiteratamente statuito (tra le altre: Corte Cost. n. 64 del 1992, con richiami a Corte Cost. n. 18 del 1989, n. 26 del 1987, n. 148 del 1983, n. 123 del 1972) che l’art. 28 Cost., stabilisce la responsabilità diretta per violazione di diritti tanto dei dipendenti pubblici per gli atti da essi compiuti, quanto dello Stato o degli enti pubblici, rimettendone la disciplina dei presupposti al legislatore ordinario, con la precisazione che (Corte Cost. nn. 18 del 1989 e 88 del 1963) la responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico può esser fatta valere anteriormente o contestualmente a quella dei funzionari e dei dipendenti, non avendo carattere sussidiario.
E. La normativa codicistica.
21. Il codice civile regola la responsabilità dei padroni e committenti, mutuandola pedissequamente dalla previsione del Code civil francese (ed in particolare dal suo originario art. 1384, che oggi corrisponde all’art. 1242, in forza dell’Ordonnance n. 2016-31 del 10/02/2016, in vigore dal 01/10/2016), a mente del quale «les maitres et les commettants… sont solidairement responsables du dommage causè… par leurs domestiques et prèposès dans les fonctions auxquelles ils les ont employès»; in tale fattispecie si conferma, analogamente ad altre ipotesi di responsabilità civile senza colpa, la deroga al principio ohne Schuld keine Haftung, che permea sia l’altro ordinamento cardine dei sistemi romanisti (quello tedesco in punto di Deliktsrecht, benchè in via di graduale superamento e solo in determinati settori, mediante la ricostruzione di obblighi derivanti direttamente, prima della riforma del 2002, dalla norma sulla buona fede e, poi, dalla novella del BGB sulla sussistenza di obblighi di protezione più ampi rispetto a quelli di prestazione, tali da riverberare i loro effetti anche a favore di chi non è parte del contratto), sia il sistema originario di common law (in cui la Tort Law presuppone appunto ed almeno in linea generale un difetto di due diligence).
22. Il concetto di padrone o committente, in origine riferito ad economie rudimentali e connotate da rapporti assai stretti di preposizione, è stato via via ampliato in forza di un’interpretazione evolutiva, per essere esteso a molte figure di soggetti che, per conseguire i propri fini, si avvalgono dell’opera di altri a loro legati in forza di vincoli di varia natura (e non necessariamente di dipendenza: su tale specifico punto, tra le prime, v. Cass. 16/03/2010, n. 6325).
23. Si è, al riguardo, superata l’originaria configurazione della responsabilità in esame come soggettiva o per fatto proprio, quando questo si identificava almeno in una colpa in eligendo o in vigilando: il testo normativo non concede al responsabile alcuna prova liberatoria, cosicchè il ricorso alla fictio della presunzione assoluta di colpa si risolve nell’introduzione artificiosa nella norma di un presupposto che le è irrilevante; al contrario (benchè in dottrina si parli anche di responsabilità diretta o per il fatto proprio di essere il preponente), si è dinanzi ad una responsabilità oggettiva per fatto altrui.
24. Si tratta (per tutte: Cass. 09/06/2016, n. 11816, ove ulteriori richiami giurisprudenziali; più di recente: Cass. ord. 12/10/2018, n. 25373; Cass. 14/02/2019 n. 4298; quanto al rapporto tra ente pubblico concedente e concessionario, Cass. 20/02/2018, n. 4026, espressamente fonda la responsabilità del primo sull’inserimento del secondo nell’apparato organizzativo della P.A.) di un’applicazione moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del quale l’avvalimento, da parte di un soggetto, dell’attività di un altro per il perseguimento di propri fini comporta l’attribuzione al primo di quella posta in essere dal secondo nell’ambito dei poteri conferitigli.
25. Ma una tale appropriazione di attività deve comportarne l’imputazione nel suo complesso e, così, sia degli effetti favorevoli che di quelli pregiudizievoli: un simile principio risponde ad esigenze generali dell’ordinamento di riallocazione dei costi delle condotte dannose in capo a colui cui è riconosciuto di avvalersi dell’operato di altri (poco importa se per scelta od utilità, come nel caso delle persone fisiche, o per necessità, come in ogni altro caso, in cui è indispensabile il coinvolgimento di persone fisiche ulteriori e distinte per l’imputazione di effetti giuridici ad entità sovraindividuali).
26. Dalla correlazione di tale specifica forma di responsabilità ai vantaggi che sia lecito per il preponente attendersi dall’avvalimento dell’altrui operato la giurisprudenza civile di legittimità per i rapporti privatistici di preposizione e quella più recente penale di legittimità hanno ricavato la necessità di un nesso di occasionalità necessaria tra esercizio delle incombenze e danno al terzo (quale ultimo elemento costitutivo della fattispecie, oltre al rapporto di preposizione ed all’illiceità del fatto del preposto): nesso che è stato ritenuto sussistente non solamente se il fatto dannoso derivi dall’esercizio delle incombenze, ma pure nell’ipotesi in cui tale esercizio si limiti ad esporre il terzo all’ingerenza dannosa del preposto ed anche se questi abbia abusato della sua posizione od agito per finalità diverse da quelle per le quali le incombenze gli erano state affidate.
27. Alla stregua di tale elaborazione, il nesso di occasionalità necessaria (e la responsabilità del preponente) sussiste nella misura in cui le funzioni esercitate abbiano determinato, agevolato o reso possibile la realizzazione del fatto lesivo, nel qual caso è irrilevante che il dipendente abbia superato i limiti delle mansioni affidategli, od abbia agito con dolo e per finalità strettamente personali (tra molte: Cass. 24/09/2015, n. 18860; Cass. 25/03/2013, n. 7403); alla condizione però che la condotta del preposto costituisca pur sempre il non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni, non potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un’attività del preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse all’espletamento delle sue incombenze (Cass. 11816/16, cit.).
28. Non ha infatti giuridico fondamento accollare a chicchessia le conseguenze dannose di condotte del preposto in alcun modo collegate alle ragioni, anche economiche, della preposizione, ove cioè non riconducibili al novero delle normali potenzialità di sviluppo di queste – anche sotto forma di deviazione dal fine perseguito o di contrarietà ad esso o di eccesso dall’ambito dei poteri conferiti secondo un giudizio oggettivo di probabilità di verificazione.
29. L’appropriazione dei risultati delle altrui condotte deve, in definitiva, essere correlata (e, corrispondentemente, limitata) alla normale estrinsecazione delle attività del preponente e di quelle oggetto della preposizione ad esse collegate, sia pure considerandone le violazioni o deviazioni oggettivamente probabili: sicchè chi si avvale dell’altrui operato in tanto può essere chiamato a rispondere, per di più senza eccezioni e la rilevanza del proprio elemento soggettivo, delle sue conseguenze dannose in quanto egli possa ragionevolmente raffigurarsi, per prevenirle, le violazioni o deviazioni dei poteri conferiti o almeno tenerne conto nell’organizzazione dei propri rischi; e così risponde di quelle identificate in base ad un giudizio oggettivizzato di normalità statistica, cioè riferita non alle peculiarità del caso, ma alle ipotesi in astratto definibili come di verificazione probabile o – secondo i principi di causalità adeguata elaborati da questa Corte fin da Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576 «più probabile che non», in un dato contesto storico.
F. La natura della responsabilità dello Stato e degli enti pubblici.
30. Deve allora constatarsi una non piena coerenza tra le impostazioni ermeneutiche di questa Corte di legittimità: una prima, propria della prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella preponderante penalistica più risalente (e, per la verità, anche quella amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato (o degli enti pubblici) per il fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) è diretta e sussiste, in forza di criteri pubblicistici, esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali, quando cioè, in virtù del rapporto organico, quella vada imputata direttamente all’ente; una seconda, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica più recente e di parte di quella civilistica (ora più remota e poi superata, ora minoritaria, ora riferita in prevalenza a rapporti di preposizione privatistici), in base alla quale sussiste la responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti sostanzialmente a quelli in tema di responsabilità del preponente ai sensi dell’art. 2049 c.c., sol che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
31. Ritengono queste Sezioni Unite di comporre la disomogeneità tra dette impostazioni rilevando che nessuna ragione giustifichi più, nell’odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell’attività dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall’esercizio di poteri pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante orientamento civilistico dell’esclusione della responsabilità in ipotesi di condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici.
32. In particolare, deve ammettersi la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui: entrambi sono validi, poichè il primo non esclude il secondo ed ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della P.A. di volta in volta posta in essere.
33. Infatti, il comportamento della P.A. che può dar luogo, in violazione dei criteri generali dell’art. 2043 c.c., al risarcimento del danno (secondo la compiuta definizione di Cass. Sez. U. 22/07/1999, n. 500) o si riconduce all’estrinsecazione del potere pubblicistico e cioè ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell’ambito e nell’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti, oppure si riduce ad una mera attività materiale, disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali (sulla distinzione, determinante prima di tutto in materia di giurisdizione, v. da ultimo Cass. Sez. U. ord. 13/12/2018, n. 32364; tra le altre più remote, v. Cass. Sez. U. 25/11/1982, n. 6363).
34. Orbene, nel primo caso (attività provvedimentale o, se si volesse generalizzare, istituzionale in quanto estrinsecazione di pubblicistiche ed istituzionali potestà), l’immedesimazione organica di regola – pienamente sussiste e bene è allora ammessa la sola responsabilità diretta in forza della sicura imputazione della condotta all’ente; del resto, con l’introduzione della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies, pure la carenza di un elemento essenziale – in genere esclusa se l’atto integra l’elemento oggettivo di un reato – comporta la mera nullità e non più l’inesistenza dell’atto, come invece voleva la dottrina tradizionale (col che potrebbe forse sostenersi l’attribuibilità all’ente dell’atto nullo poichè delittuoso, sia pure a certe condizioni).
35. Nel secondo caso, di attività estranea a quella istituzionale o comunque materiale, ove pure vada esclusa l’operatività del criterio di imputazione pubblicistico fondato sull’attribuzione della condotta del funzionario o dipendente all’ente (questione non immediatamente rilevante ai fini che qui interessano e che si lascia impregiudicata), non può però negarsi l’operatività di un diverso criterio: non vi è alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello Stato o dell’ente pubblico – se correttamente ricostruita, pure ad evitarne strumentali distorsioni o improprie sconsiderate dilatazioni al di fuori dell’esercizio di una pubblica potestà quando ricorrano gli altri presupposti validi in caso di avvalimento dell’operato di altri.
36. Ogni diversificazione di trattamento, per di più nel senso di evidente favore, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello Stato o dell’ente pubblico, in palese contrasto con il principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3 Cost., comma 1, e col diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost., e riconosciuto anche a livello sovranazionale dall’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (firmata a Roma il 04/11/1950, ratificata con L. 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla G.U. n. 221 del 24/09/1955 ed entrata in vigore il 10/10/1955) e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (adottata a Nizza il 07/12/2000 e confermata con adattamenti a Strasburgo il 12/12/2007; pubblicata, in versione consolidata, sulla G.U. dell’U.E. del 30/03/2010, n. C83, pagg. 389 ss.; efficace dalla data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona – ratificato in Italia con L. 2 agosto 2008, n. 130 – e cioè 01/12/2009): poichè escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria, invece perseguibile con la concorrente responsabilità del preponente.
37. Ed una tale diversificazione neppure potrebbe difendersi in base a generiche esigenze finanziarie pubbliche, poichè la tutela dei diritti non può mai a queste essere – se non altro sic et simpliciter o in linea di principio – sacrificata (come, in campo sovranazionale, riconosce da sempre, perfino in tema di esecuzione coattiva contro lo Stato, la Corte di Strasburgo: da ultimo, Corte eur. dir. Uomo 14/11/2017, IV sez., Spahic e aa. c. Bosnia-Erzegovina, in ric. n. 20514/15 e altri) e poichè in ogni caso va garantita, affinchè possa dirsi apprestato un rimedio effettivo, almeno un’adeguata tutela risarcitoria in caso di violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, incombendo il relativo onere a ciascuno Stato ed ai suoi organi, primi fra tutti quelli giurisdizionali (per tutte, sui relativi principi generali: Corte eur. dir. Uomo 11/06/2010, Grande Camera, GMgen c/ Germania, ric. 22978/05, pp. 115 a 119).
38. In definitiva, non può più accettarsi, perchè in insanabile contrasto con tali principi fondamentali e da superarsi con una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, la conclusione che, quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi dipende dallo Stato o da un ente pubblico (e cioè da chi è legittimo attendersi una particolare legalità della condotta), la tutela risarcitoria dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti.
39. Si tratta, riprendendo una tesi non ignota alla stessa dottrina pubblicistica (sopra, punto 16), della ricostruzione sistematica di un regime di responsabilità articolato, corrispondente alla composita natura delle condotte dello Stato e degli enti pubblici: a seconda che cioè esse siano poste in essere nell’esercizio, pur se eccessivo o illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, oppure che siano poste in essere da costoro quali singoli, ma approfittando della titolarità o dell’esercizio di quelle funzioni (o poteri o attribuzioni), sia pur piegandole al perseguimento di fini obiettivamente estranei o contrari a quelli pubblicistici in vista dei quali erano state conferite.
40. Nel primo caso, l’illecito è riferito direttamente all’Ente e questi ne risponderà, altrettanto direttamente, in forza del generale principio dell’art. 2043 c.c.; nel secondo caso, con le precisazioni di cui appresso, la responsabilità civile dell’Ente deve invece dirsi indiretta, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di principi corrispondenti a quelli elaborati per ogni privato preponente e desunti dall’art. 2049 c.c..
41. Tale conclusione comporta che debba prescindersi in modo rigoroso da ogni colpa del preponente anche pubblico e lascia intatta la concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente (salvo eventuali limitazioni espressamente previste indotte dalla peculiarità di determinate materie, come nel caso del personale scolastico – L. 11 luglio 1980, n. 312, ex art. 61 cpv., su cui v. Corte Cost. n. 64 del 1992 – o dei magistrati ex lege n. 113 del 1987, su cui v. tra le altre Corte Cost. n. 18 del 1989); e ad essa, beninteso, deve farsi eccezione quando vi sia un’esplicita diversa previsione normativa che, ad esempio per la peculiarità della specifica materia, mandi esente da responsabilità l’ente pubblico e mantenga esclusivamente quella dell’agente o viceversa.
42. Ritengono queste Sezioni Unite che debba allora superarsi la rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di imputazione pubblicistico o diretto e privatistico o indiretto: l’art. 28 Cost., non preclude l’applicazione della normativa del codice civile, piuttosto essendo finalizzata all’esclusione dell’immunità dei funzionari per gli atti di esercizio del potere pubblico ed alla contemporanea riaffermazione della responsabilità della P.A.; ne consegue che la concorrente responsabilità della P.A. e del suo dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest’ultimo al di fuori delle finalità istituzionali di quella deve seguire, in difetto di deroghe normative espresse, le regole del diritto comune.
43. Del resto, più non osta all’applicabilità dell’art. 2049 c.c., l’originaria sua ricostruzione come estrinsecazione di una colpa in eligendo vel in vigilando, la quale sarebbe esclusa in tesi nel rapporto organico in forza della predeterminazione normativa dei criteri di selezione e di un sistema pubblicistico di controlli, entrambi estrinsecazione di poteri discrezionali: infatti, la norma in esame prescinde, nella sua corrente ricostruzione, da ogni profilo di colpa.
44. Nemmeno l’ontologica differenza tra rapporto di preposizione institoria e rapporto organico tra Stato od ente pubblico e suo funzionario o dipendente osta alla generalizzazione del principio dell’art. 2049 c.c., poichè questo è solamente espressione di un generale criterio di imputazione di tutti gli effetti, non solo favorevoli ma anche pregiudizievoli, dell’attività non di diritto pubblico dei soggetti di cui ci si avvale; e che la P.A. possa rivestire la qualità di parte lesa nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del dipendente infedele non muta la responsabilità della prima nei confronti dei terzi, soltanto rilevando nei rapporti interni con quello.
45. Ancora, solo in caso di responsabilità indiretta è pienamente coerente col sistema generale (se non derogato da discipline speciali) di imputazione, nei rapporti interni, del carico dell’obbligazione risarcitoria l’attribuzione (talora normativamente prevista: v. ad es. l’art. 22, cpv., del richiamato D.P.R. n. 10 gennaio 1957, n. 3) di questo per intero al dipendente colpevole (in armonia con il sistema appunto di cui all’art. 2049 c.c.: da ultimo, Cass. 05/07/2017, n. 16512), salva per quest’ultimo la prova della colpa pure dell’amministrazione.
G. L’occasionalità necessaria.
46. Alla puntualizzazione dell’ambito di operatività del criterio di imputazione ricondotto ai principi dell’art. 2049 cod.civ., va premesso un richiamo ai principi in tema di causalità nel diritto civile.
47. A partire dalla fondamentale elaborazione di queste Sezioni Unite di cui alle sentenze nn. 576 ss. del di 11/01/2008 (alla cui esauriente motivazione, tuttora valida e meritevole di piena condivisione, qui basti un richiamo), ai fini della definizione della causalità materiale nell’ambito della responsabilità extracontrattuale va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., sicchè un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
48. Tuttavia, il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p. (per il quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale), trova un temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della medesima disposizione, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se quest’ultima risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle regolari linee di sviluppo della serie causale già in atto.
49. Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione per dar luogo ad una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex ante idonee a determinare l’evento secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale: quest’ultima, a sua volta, individua come conseguenza normale imputabile quella che – secondo l’id quod plerumque accidit e così in base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante – integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento originario (ivi compresa la condotta umana), che ne costituisce l’antecedente necessario e sufficiente. E, sempre secondo i citati precedenti di queste Sezioni Unite, la sequenza costante deve essere prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell’agente, ma in base alle regole statistiche o scientifiche (se non proprio, in sostanza, di empiria reiterata e verificata) e quindi per così dire oggettivizzate, da cui inferire un giudizio di probabilità di verificazione dell’evento.
50. Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione ex ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno ed evento dannoso (nesso causale), da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale va più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo dell’illecito (la colpevolezza), ove questo per l’ordinamento rilevi; ma non potendo escludersi una loro efficienza peculiare nel senso dell’elisione, a certe condizioni, del nesso causale tra l’illecito ed il danno, come precisato dalle sezioni semplici di questa Corte (su cui vedi, per tutte, Cass. ord. 01/02/2018, nn. 2478, 2480 e 2482).
51. Non è questa la sede per esaminare le differenze tra causa ed occasione o concausa, nè per sanare la contradictio in adiecto della nozione di occasionalità necessaria: infatti, basta qui rilevare che questa coinvolge una peculiare specie di relazione di causalità, visto che, nella concreta elaborazione che finora se ne è operata e con le precisazioni di cui appresso, una tale occasionalità necessaria si identifica con quella peculiare relazione tra l’uno e l’altro tale per cui la verificazione del danno-conseguenza non sarebbe stata possibile senza l’esercizio dei poteri conferiti da altri, che assurge ad antecedente necessario anche se non sufficiente; ma qui va affermata la necessità che tale valutazione di impossibilità sia operata in base ai principi della causalità adeguata appena riassunti e così ad un giudizio controfattuale, oggettivizzato ex ante, di regolarità causale atta a determinare l’evento, vale a dire di normalità – in senso non ancora giuridico, ma naturalistico-statistico – della sua conseguenza.
52. Ne consegue che il preponente pubblico, con tale espressione potendo descrittivamente identificarsi lo Stato o l’ente pubblico nella fattispecie di interesse, risponde del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l’esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici: e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell’agente (non potendo dipendere il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni dell’atteggiamento psicologico dell’autore del fatto), ma in relazione all’oggettiva destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o – a maggior ragione – contrari a quelli per i quali le funzioni o le attribuzioni o i poteri erano stati conferiti.
53. La conseguenza è l’integrale applicazione della disciplina della responsabilità extracontrattuale, che implica a sua volta un’adeguata delimitazione di tale conclusione: in primo luogo, valgono i principi e le regole in tema di accertamento del nesso causale secondo le regole sopra ricordate; in secondo luogo, vige l’elisione del nesso in ipotesi di fatto naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sè solo idoneo a determinare l’evento; in terzo luogo, si applica la regola generale dell’art. 1227 c.c., in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato (su cui v., tra le altre, le già richiamate Cass. ord. nn. 2478, 2480 e 2482 del 2018).
54. Soprattutto, però, è insito nel concetto stesso di causalità adeguata che la sequenza tra premesse e conseguenze sia rigorosa e riferita a quelle tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di oggettivizzazione ex ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo, anche se implicante violazioni o deviazioni od eccessi in quanto anch’esse oggettivamente prevenibili, di attività rese possibili solo da quelle funzioni, attribuzioni o poteri.
55. In tanto può giustificarsi, infatti, la scelta legislativa di far carico al preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell’organizzazione della propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e quindi in quanto possa da lui esigersi di prefigurarsi gli sviluppi che possono avere le regolari (in quanto non anomale od oggettivamente improbabili) sequenze causali dell’estrinsecazione dei poteri (o funzioni o attribuzioni) conferiti al suo preposto, tra i quali rientra la violazione aperta del dovere di ufficio la cui cura è stata affidata, non per nulla quello essendo circondato di garanzie o meccanismi di salvaguardia anche interni alla stessa organizzazione del preponente (come rileva Cass. pen. 13799 del 2015 cit.).
56. Ne deriva che quest’ultimo andrà esente dalle conseguenze dannose di quelle condotte, anche omissive, poste in essere dal preposto in estrinsecazione dei poteri o funzioni o attribuzioni conferiti, che fosse inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non anomalo, secondo un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante, di quell’estrinsecazione, quand’anche distorta o deviata o vietata: in tanto assorbita od a tanto ricondotta, almeno quanto alla sola qui rilevante fattispecie dei danni causati dall’illecito del pubblico funzionario, ogni altra conclusione sull’occasionalità necessaria, tra cui l’estensione alla mera agevolazione della commissione del fatto.
H. Sintesi.
57. Per sintetizzare quanto fin qui esposto, occorre dunque postulare una natura composita della responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico per il fatto illecito del dipendente o funzionario, per applicare i principi della responsabilità indiretta elaborati per l’art. 2049 c.c., all’attività non provvedimentale (o istituzionale) della pubblica amministrazione; e, in base ad essi, affermarne la concorrente e solidale responsabilità per i danni causati da condotte del preposto pubblico definibili come corrispondenti ad uno sviluppo oggettivamente non improbabile delle normali condotte di regola inerenti all’espletamento delle incombenze o funzioni conferite, anche quale violazione o come sviamento o degenerazione od eccesso, purchè anche essi prevenibili perchè oggettivamente non improbabili.
58. Sono pertanto fonte di responsabilità dello Stato o dell’ente pubblico anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur se devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del potere di agire, purchè:
– si tratti di condotte a questo legate da un nesso di occasionalità necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto dell’estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa – e quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto – non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta;
nonchè:
– si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente, sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell’esercizio del conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti.
59. Infine, adeguata protezione del preponente dal rischio di rispondere del fatto del proprio ausiliario o preposto al di là dei generali principi in tema di risarcimento del danno extracontrattuale si ravvisa nell’applicazione anche in materia di danni da attività non provvedimentale della P.A. dei principi in tema di elisione del nesso causale in ipotesi di caso fortuito o di fatto del terzo o della vittima di per sè solo idoneo a reciderlo e di quelli in tema di riduzione del risarcimento in caso di concorso del fatto almeno colposo di costoro.
60. La questione sottoposta a queste Sezioni Unite dall’ordinanza interlocutoria va così risolta alla stregua del seguente principio di diritto: “lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purchè la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo”.
I. conclusioni.
61. Nella specie, non risulta mai utilmente contestato che le funzioni attribuite allo _______, cancelliere in servizio presso un ufficio giudiziario (quale il Tribunale di Catania), comprendessero, anche in dipendenza delle sue attribuzioni all’interno di questo, pure quelle di custodia o di cooperazione nella custodia delle somme depositate presso il medesimo, ricavate nelle fasi di un giudizio civile – nella specie, di divisione – e funzionalizzate al perseguimento dello scopo istituzionale della loro consegna agli aventi diritto, a garanzia dell’imparzialità della Giustizia e del corretto andamento della pubblica amministrazione.
62. E’ altrettanto evidente che la violazione, in concreto avutasi da parte dello stesso _______, del divieto di distrarre quelle somme dal loro fine istituzionale era una conseguenza riconducibile ad una sequenza causale (purtroppo) oggettivamente non improbabile e che quindi avrebbe dovuto prevenirsi da parte di qualunque preponente:
in tanto il cancelliere infedele ha potuto appropriarsi di quelle somme proprio e soltanto perchè era titolare di quelle attribuzioni o funzioni o poteri, sia pure appunto piegandoli a fini eminentemente personali od egoistici ed oltretutto delittuosi, accedendo alla cassaforte in cui il libretto era custodito o comunque impossessandosene, falsificando la firma del responsabile del mandato di pagamento ed accedendo presso il depositario per riscuoterlo simulando l’attuazione di un atto amministrativo (nella specie, giudiziario) legittimamente emesso.
63. Del danno conseguente a tale complessiva condotta criminosa, obiettivamente prevenibile da chi conferisca ad altri il potere di custodire somme o di eseguire ordini o mandati di pagamento a valere sui relativi documenti rappresentativi e pertanto imputabile al primo, non poteva che essere responsabile in solido, pertanto, l’ente pubblico da cui il funzionario dipendeva: e la gravata sentenza va allora cassata, in accoglimento dell’unitario motivo di ricorso ed in tal senso risolta la questione devoluta a queste Sezioni Unite dall’ordinanza di rimessione.
64. Va disposto il rinvio alla stessa corte territoriale, in diversa composizione, affinchè, all’esito provvedendo pure sulle spese del giudizio di legittimità ai sensi della seconda ipotesi dell’art. 385 cod. proc. civ., comma 3, decida la controversia in applicazione del principio di diritto enunciato al precedente punto 60: il quale si declina, in relazione alla presente fattispecie, nel senso che l’Amministrazione della Giustizia risponde dei danni cagionati dal delitto di peculato del cancelliere che, in ragione dell’esercizio delle funzioni conferitegli (nella specie, di custodia o concorso nella custodia delle somme, ricavate nel corso di un giudizio civile di divisione, depositate per il perseguimento dello scopo istituzionale della consegna agli aventi diritto), abbia obiettivamente violato, per fini personali od egoistici, i propri doveri di ufficio (nella specie, appropriandosi delle somme giacenti su libretto di deposito giudiziario affidato alla sua custodia mediante falsificazione della firma del funzionario competente per il mandato di pagamento ed accesso presso il depositario per la riscossione).
65. Infine, va dato atto della non sussistenza, per essere stato accolto il ricorso, dei presupposti per l’applicazione dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. l, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa la gravata sentenza e rinvia alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 9 aprile 2019.
Il Consigliere estensore
(dott. Franco De Stefano)
Il Presidente
(dott. Giovanni Mammone)
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 05 novembre 2018, n. 28079, per SS.UU, 16 maggio 2019, n. 13246, in tema di responsabilità della p.a.
SS.UU, 16 maggio 2019, n. 13246, in tema di responsabilità della p.a.
In tema di revocazione – SS.UU, 30 agosto 2019, n. 21874
Civile Sent. Sez. U Num. 21874 Anno 2019
Data pubblicazione: 30/08/2019
SENTENZA
sul ricorso 12450-2014 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– ricorrente –
contro
—, elettivamente domiciliato in ROMA, —, presso lo studio dell’avvocato —, rappresentato e difeso dall’avvocato —;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 98/2013 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di PERUGIA, depositata il 15/07/2013.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/07/2019 dal Presidente —;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale —, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato — per l’Avvocatura Generale dello Stato.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso dell’agosto 2004 — impugnava innanzi alla Commissione Tributaria provinciale di Perugia il silenzio rifiuto dell’Agenzia delle Entrate sull’istanza di rimborso della somma di euro 308.169,09 (o in subordine di euro 197.834,83 oltre interessi) quale ritenuta operatagli dall’Enel – di cui era stato dipendente – in veste di sostituto di imposta, con aliquota del 34,24%, sull’importo erogatogli il 22 novembre 2000 in via provvisoria e il 15 gennaio 2001 in via definitiva.
2. Con sentenza n. 30/4/05, la C.T.P. accoglieva la domanda subordinata del —, ritenendo gli importi percepiti dal contribuente tassabili nella diversa misura del 12,50% ex art. 42, comma 4, TUIR e per l’effetto ordinava all’Agenzia delle Entrate di restituire al ricorrente la somma di euro 152.067,85.
3. La sentenza veniva appellata dall’Agenzia delle Entrate e con sentenza n. 23/5/07 la Commissione Tributaria Regionale dell’Umbria respingeva l’appello.
4. Avverso detta pronuncia l’Amministrazione finanziaria proponeva ricorso per cassazione e questa Corte, con sentenza n. 2466 del 2012, accoglieva il gravame, rinviando ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale umbra per la prosecuzione del giudizio.
5. Provvedendo in sede di rinvio la C.T.R., con sentenza n. 98/1/13 pubblicata il 15 luglio 2013, accoglieva la domanda del contribuente e condannava l’Amministrazione alla restituzione dell’intera somma trattenuta.
6. A seguito della notifica della sentenza da parte del —, avvenuta in data 13 settembre 2013, l’Agenzia delle Entrate, con atto notificato in data 3 ottobre 2013, proponeva ricorso per revocazione avverso la pronuncia della C.T.R. e formulava contestuale istanza di sospensione dei termini per proporre ricorso per cassazione.
6.1. Con decreto del 22 ottobre 2013, comunicato alle parti il successivo 23 ottobre, veniva accolta l’istanza di sospensione e successivamente, con sentenza n. 262/1/2014 comunicata alle parti in data 14 aprile 2014, la C.T.R. rigettava la domanda di revocazione.
7. Con successivo atto notificato dal punto di vista della ricorrente in data 8 maggio 2014, l’Amministrazione finanziaria ha, quindi, proposto, affidandolo a due motivi, ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale n. 98/1/13, già oggetto del giudizio di revocazione.
7.1. Il — ha resistito con controricorso, nel quale ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per decorrenza del termine c. d. breve di sessanta giorni di cui all’art. 325 c.p.c. e, gradatamente, per illegittimità della sospensione accordata dal giudice della revocazione ex art. 398, quarto comma, cod. proc. civ.
Secondo il controricorrente, in particolare, poiché la sentenza n. 98/1/13 della Commissione Tributaria Regionale era stata notificata in data 13 settembre 2013, il ricorso – pur tenendosi conto del periodo di sospensione feriale (che all’epoca operava dal 1° agosto al 15 settembre) e del periodo di sospensione del termine di impugnazione per l’adozione della sua sospensione da parte del giudice della revocazione – sarebbe stato comunque introdotto oltre il termine di sessanta giorni previsto dall’art. 325 c.p.c.
Tanto ha sostenuto il resistente sul presupposto che, in caso di accoglimento dell’istanza di sospensione da parte del giudice della revocazione, il termine iniziale di decorrenza del periodo di sospensione coinciderebbe con la data di comunicazione del provvedimento previsto dall’art. 398, comma 4, cod. proc. civ.
8. La Sezione Tributaria fissava la trattazione del ricorso per l’udienza del 13 novembre 2018 ed in vista di essa il resistente depositava memoria.
8.1. All’esito della camera di consiglio, con ordinanza n. 3262 del 5 febbraio 2019, il Collegio della Sezione Tributaria ha rimesso gli atti al Primo Presidente, previo rilievo che sulla questione processuale relativa al momento di decorrenza della sospensione del termine per ricorrere in cassazione per il caso di accoglimento dell’istanza ex art. 398, quarto comma, cod. proc. civ., la giurisprudenza della Corte non è univoca, giacché, ad un orientamento giurisprudenziale, storicamente prevalente, secondo cui il periodo di sospensione decorrerebbe dalla data di emanazione del relativo provvedimento da parte del giudice della revocazione, si contrappone altro orientamento secondo il quale, in ipotesi di accoglimento dell’istanza da parte del giudice a quo, il periodo di sospensione del termine decorrerebbe dal momento della presentazione dell’istanza.
8.2. Nell’ordinanza interlocutoria la Quinta Sezione ha sottolineato che la scelta dell’una o dell’altra soluzione riveste carattere decisivo ai fini della valutazione della tempestività del ricorso, giacché nel caso di specie il termine breve per proporre ricorso in cassazione avverso la sentenza n. 98/1/13 della Commissione Tributaria Regionale, il cui decorso era stato provocato dalla notifica avvenuta il 13 settembre 2013, stante l’operare della sospensione feriale sino al 15 successivo, era iniziato dal 16 settembre 2013, di modo che – essendo stato il provvedimento di sospensione comunicato alle parti il 23 ottobre 2013 ovvero, secondo il criterio di computo ex numeratione dierum di cui all’art. 155 c.p.c., quando erano già decorsi trentasette giorni dal 16 settembre 2013 e, tenuto conto che la comunicazione della sentenza conclusiva del giudizio di revocazione, dalla quale riprende a decorrere, ex art. 398 c.p.c., il termine per proporre ricorso in cassazione, era avvenuta in data 14 aprile 2014 – ne conseguirebbe che:
a) ove si ritenesse che il termine di cui all’art. 325, secondo comma, cod. proc. civ. era rimasto sospeso, a seguito dell’introduzione del giudizio per revocazione, solo a decorrere dal provvedimento di accoglimento della sospensione del suddetto termine (comunicato il 23 ottobre 2013), il ricorso dovrebbe ritenersi tardivo, poiché ai trentasette giorni già decorsi occorrerebbe aggiungere, a partire dal 14 aprile 2014, ulteriori ventitré giorni, sicché il ridetto termine risulterebbe scaduto il 7 maggio 2014, mentre il ricorso per cassazione è stato proposto il successivo 8 maggio ovvero il sessantunesimo giorno dalla notifica della sentenza impugnata;
b) qualora, viceversa, si prendesse come riferimento per il computo del periodo di sospensione la diversa data in cui è stata presentata la relativa istanza (3 ottobre 2013), collegata all’introduzione del giudizio per revocazione, il ricorso sarebbe da considerare tempestivo.
8.3. Sulla base di tali rilievi la Quinta Sezione, sottolineata anche la valenza nomofilattica della questione, in quanto di puro diritto processuale e, quindi, suscettibile di generare l’affermazione di un principio utilizzabile in tutti i casi in cui lo stesso problema abbia a riproporsi, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, ai sensi dell’art. 374, secondo comma, cod. proc. civ., per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite al fine di stabilire “se, qualora la sospensione dei termini per il ricorso in cassazione, conseguente a proposizione del giudizio di revocazione, sia concessa, tale periodo di sospensione decorra dal momento della proposizione dell’istanza (contestuale all’introduzione del procedimento per revocazione), o dal momento della decisione del giudice di concedere la sospensione suddetta“.
9. Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite ed è stata fissata la trattazione nell’odierna pubblica udienza, in vista della quale non v’è stato deposito di memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La questione che le Sezioni unite sono chiamate a risolvere concerne un problema esegetico che emerge dalla norma del quarto comma dell’art. 398 c.p.c., nel testo sostituito dall’art. 68 della legge n. 353 del 1990 con decorrenza dal 1° gennaio 1993.
Esso ha il seguente tenore: “La proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione o il procedimento relativo. Tuttavia il giudice davanti a cui è proposta la revocazione, su istanza di parte, può sospendere l’uno o l’altro fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione, qualora ritenga non manifestamente infondata la revocazione proposta”.
2. Com’è noto, il testo appena riprodotto ha rovesciato il principio, espresso dalla formulazione precedente della norma e rimasto immutato dall’entrata in vigore del Codice del 1940, il quale disponeva esattamente in senso opposto, cioè che “La proposizione della revocazione sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione o il procedimento relativo fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione”.
Il senso della norma prima dell’indicata novella era che la revocazione proposta contro una sentenza assoggettabile tanto ad essa quanto a ricorso per cassazione, una volta proposta e tanto ove fosse stata proposta prima quanto ove fosse stata proposta durante la pendenza del giudizio di cassazione doveva essere necessariamente esaminata prima del ricorso per cassazione. La ragione di questa posposizione della trattazione del rimedio di legittimità a quello revocatorio risiedeva ed era giustificabile sulla base di esigenze di ordine logico: concernendo i due rimedi la stessa sentenza e segnando l’eventuale fruttuoso esperimento del primo, quello della revocazione, il venir meno della sentenza con una decisione a sua volta impugnabile non più con la revocazione (primo comma dell’art. 403 cod civ.), ma solo con il ricorso per cassazione (secondo comma della stessa norma), e comportando pertanto l’accoglimento del rimedio revocatorio, sebbene in via non definitiva, il venir meno dell’oggetto del ricorso per cassazione ancora proponibile o proposto al momento della proposizione della revocazione, risultava ragionevole sospendere il corso del termine per il ricorso per cassazione o lo stesso giudizio di cassazione se instaurato (La sospensione automatica, peraltro, durava fino alla comunicazione della sentenza che avesse pronunciato sulla revocazione, non occorrendo attendere che la pronuncia acquistasse acquistato autorità di cosa giudicata: Cass. n. 495 del 1961; n. 3068 del 1960; n. 2483 del 1960; n. 2012 del 1960; n. 1334 del 1960, n. 405 del 1960; n. 6109 del 1987; n. 2385 del 1991; n. 7361 del 1996, secondo la quale: «Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 398 c.p.c., la proposizione della revocazione sospende il termine per proporre ricorso per cassazione (o il procedimento relativo) fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione, e non fino al passaggio in giudicato di tale sentenza. Infatti, con l’espressione “sentenza che ha pronunciato la revocazione” il legislatore non ha inteso riferirsi alla sentenza passata in giudicato, ma alla sentenza impugnabile, atteso che il riferimento legislativo a sentenza che chiude un determinato procedimento, fatto da norma imperativa, di stretta interpretazione, non può essere esteso ad un istituto diverso, caratterizzato ed autonomo, quale è quello del giudicato»).
Vigente la disciplina originaria del quarto comma dell’art. 398, allorquando, per effetto della comunicazione della sentenza sulla revocazione fosse ripreso il corso del termine per il ricorso per cassazione sospeso oppure il giudizio di cassazione già pendente, si ponevano problemi correlati agli esiti del giudizio revocatorio, secondo che la sentenza assoggetta a ricorso per cassazione fosse stata revocata in tutto oppure in parte oppure la revocazione fosse stata rigettata o dichiarata inammissibile.
Ma non è questa la sede per evocarli.
2.1. Mette conto, invece, di ricordare che le Sezioni unite (Cass., Sez. un., n. 251 del 1988) avevano sottolineato che l’effetto sospensivo si verificava in modo automatico senza che fosse rilevante la validità e l’ammissibilità della domanda di revocazione, potendo semmai la proposizione di una domanda di revocazione a scopi meramente defatigatori comportare le sanzioni di cui agli artt. 86 e 96 c.p.c.
Questa precisazione delle Sezioni unite risultava occasionata da una criticità che presentava il sistema del testo originario della norma del quarto comma dell’art. 398: essa, infatti, si prestava certamente, proprio in ragione dell’automatismo (non essendo nemmeno richiesta un’istanza di parte) dell’effetto sospensivo del corso del termine per il ricorso per cassazione o del giudizio per cassazione già introdotto, ad un possibile abuso di tutela processuale da parte del litigante che, pur consapevole della insussistenza della fondatezza del rimedio revocatorio, poteva essere indotto a sperimentarlo per procrastinare la definizione del giudizio e la consecuzione del giudicato con l’espletamento del giudizio di cassazione.
2.2. Il testo novellato dell’art. 398, quarto comma, cod. proc. civ., demandando al giudice della revocazione la decisione, su istanza di parte, di sospendere il termine per proporre il ricorso per cassazione (o il relativo procedimento, se già pendente) qualora ritenga non manifestamente infondata la revocazione proposta (e, quindi, affidando ad esso una valutazione prognostica sommaria sull’esito del giudizio di revocazione e, dunque, sulla idoneità della domanda revocatoria a far venire meno (in tutto o in parte) la sentenza revocanda assoggettata o assoggettabile a ricorso per cassazione), è stato ispirato proprio dall’esigenza di evitare i possibili abusi ricollegabili alla previsione precedente dell’automatismo sospensivo.
L’effetto della riforma del 1993 ha comportato, naturalmente, che, qualora la sospensione non venga disposta o comunque richiesta, il corso del giudizio di revocazione e quello del giudizio di cassazione può svolgersi in modo parallelo, salva la valutazione da parte del giudice del primo e della Corte di cassazione quanto al secondo degli effetti dell’eventuale sopravvenienza prima della propria decisione della decisione sull’altro giudizio. Problema su cui qui non ci si deve soffermare.
3. Venendo all’esame della questione rimessa alle Sezioni unite, va considerato che è principio conforme ad una regola generale affermata da questa Corte quello secondo cui, quando un provvedimento è in astratto assoggettabile a due distinti rimedi impugnatori aventi diverso oggetto e finalità, ove il legislatore non abbia diversamente disposto dettando una regola diversa, la proposizione di uno di essi con la notificazione, implicando conoscenza legale del provvedimento impugnato ed impugnabile con l’altro rimedio, determina comunque a carico dell’esercente l’impugnazione la soggezione del diritto di esperire quell’altro rimedio non più nel termine c.d. lungo di cui all’art. 327 cod.proc. civ., bensì nel termine breve di cui all’art. 325 cod. proc. civ (sempre che il termine lungo non si consumi nel corso dell’ipotetica durata di quest’ultimo).
Questa regola opera anche nel concorso fra la revocazione (naturalmente se trattasi di revocazione ordinaria sempre e se trattasi di revocazione straordinaria qualora la situazione legittimante sia conosciuta nei termini indicati dal primo comma dell’art. 326 cod. proc. civ.) ed il ricorso per cassazione e, pertanto, se la parte proponga la prima in una situazione nella quale, non essendo stato determinato in altro modo, come con la notificazione della sentenza, il decorso del termine breve di cui all’art. 325 cod.proc.civ., la decisione risulti fino a quel momento impugnabile nel termine lungo che ancora sia in corso, la notificazione della domanda di revocazione (se la forma di introduzione sia quella dell’atto di citazione, com’è per il rito ordinario) o il deposito del ricorso (nel caso di previsione in seno al rito processuale cui è soggetta la causa della impugnazione con la forma del deposito del ricorso), determinano a carico del proponente la domanda di revocazione l’inizio del decorso del termine breve per proporre il ricorso per cassazione: tale termine si sovrappone (purché utilmente: cioè a condizione che il suo operare sia irrilevante per il decorso nelle more della sua possibile durata del termine lungo già in corso) al termine lungo fino a quel momento regolatore del diritto di impugnazione (e ciò sia per revocazione che per il ricorso per cassazione).
Altrettale effetto, com’è noto, si verifica per la parte destinataria della revocazione, qualora a sua volta abbia interesse a ricorrere per cassazione contro la sentenza.
3.1. Atteso il concorso fra i due mezzi di impugnazione mette conto di ricordare che può anche verificarsi che, nella pendenza del termine lungo, venga proposto il ricorso per cassazione e tale situazione a sua volta dà luogo al decorso del termine breve per la proposizione della revocazione (in termini: Cass. n. 3294 del 2009; anteriormente: Cass. n. 386 del 1985; n. 6759 del 2009; n. 11176 del 1993).
3.1.1. Nel processo tributario, peraltro, prima della modifica dell’art. 64, comma 1, del D.lgs. n. 546 del 1992 operata dall’art. 9, comma 1, lett. cc), del D.Lgs. 156/2015 (applicabile ai ricorsi depositati a decorrere dal 1° gennaio 2016, ma non rilevante nel caso di specie, giacché è stata proposta prima la revocazione), viceversa, la situazione appena descritta non si poteva verificare, atteso che nella formulazione in vigore prima della riforma introdotta dal D.Lgs. 156/2015 (che così recitava: “Contro le sentenze delle commissioni tributarie che involgono accertamenti di fatto e che sul punto non sono ulteriormente impugnabili o non sono state impugnate è ammessa la revocazione ai sensi dell’articolo 395 c.p.c.“), si riteneva che “l’istanza di revocazione è ammessa solo nei confronti di sentenze che, involgendo accertamenti di fatto, non siano ulteriormente impugnabili sul punto controverso o che non siano state impugnate nei termini, con la conseguenza che la richiesta di revocazione è inammissibile allorché una sentenza, involgente accertamenti di fatto, sia impugnabile o sia stata impugnata coi mezzi ordinari di gravame” (Cass. n. 5827 del 2011).
A seguito dell’indicata modifica normativa questa particolarità di disciplina è scomparsa: si veda Cass. (ord.) n. 327 del 2018, secondo cui: «In tema di impugnazioni nel processo tributario, ai sensi dell’art. 64, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel testo modificato dall’art. 9, comma 1, lett. cc), del d.lgs. n. 156 del 2015, applicabile ai ricorsi depositati a decorrere dal 1° gennaio 2016, la revocazione c.d. ordinaria è ammissibile anche se la stessa sentenza sia stata oggetto di ricorso per cassazione, in conformità, peraltro, all’art. 398, comma 4, c.p.c. (secondo cui la proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione o il procedimento relativo), norma operante nel processo tributario, stante il generale rinvio al codice di procedura civile di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992».
3.2. Può altresì accadere – ed è quel che è accaduto nella specie – che, a seguito della pronuncia suscettibile di impugnazione con revocazione e con ricorso per cassazione, una parte notifichi la sentenza così determinando l’inizio del corso del termine breve di cui all’art. 325 cod. proc. civ. e l’irrilevanza del termine lungo di cui all’art. 327 cod. proc. civ. frattanto in corso dal momento della pubblicazione della decisione. In tal caso, la parte che intenda proporre revocazione deve tenere conto di tale termine e se la propone e lo interrompe si verifica la conseguenza che tale interruzione – giusta il disposto del quarto comma dell’art. 398 – non vale anche per il decorso del termine breve per proporre il ricorso per cassazione iniziato a decorrere a sua volta dal momento della notificazione della sentenza, atteso che quel termine non è interrotto. Il termine continua a decorrere e la sua interruzione agli effetti della proposizione del ricorso per cassazione si può avere solo a seguito di provvedimento del giudice, che, naturalmente, per essere utile al riguardo, deve intervenire prima che il termine breve per il rimedio di legittimità sia maturato o comunque in modo utile per impedirne l’eventuale maturazione.
3.3. La rilevanza della questione che le Sezioni unite sono chiamate a risolvere concerne sia l’ipotesi in cui la proposizione (mediante notificazione della citazione o deposito del ricorso, secondo il rito cui il processo è soggetto) della domanda di revocazione avvenga nella pendenza del termine lungo, sia quella in cui avvenga nella pendenza del termine breve di cui al secondo comma dell’art. 325 cod. proc. civ.
4. Diverse pronunce delle sezioni semplici affermano che il momento iniziale della sospensione dei termini per il ricorso in cassazione, concessa dal giudice della revocazione ex art. 398. comma 4, c.p.c., coincide con la data di emanazione del provvedimento e non con quella di presentazione dell’istanza.
Tale orientamento, come riconosciuto dalla stessa ordinanza interlocutoria, è quello storicamente prevalente dopo la novella del 1990.
In particolare, si rammenta Cass. n. 1196 del 2006, secondo cui: “La notificazione della citazione per la revocazione di una sentenza di appello equivale (sia per la parte notificante che per la parte destinataria) alla notificazione della sentenza stessa ai fini della decorrenza del termine breve per proporre ricorso per cassazione, onde la tempestività del successivo ricorso per cassazione va accertata non soltanto con riguardo al termine di un anno dal deposito della pronuncia impugnata, ma anche con riferimento a quello di sessanta giorni dalla notificazione della citazione per revocazione, a meno che il giudice della revocazione, a seguito di istanza di parte, abbia sospeso il termine per ricorrere per cassazione, ai sensi dell’art. 398, quarto comma, cod. proc. civ. (nel testo novellato dall’art. 68 della legge n. 353 del 1990). Tale effetto sospensivo si produce soltanto a seguito del provvedimento del giudice, e non della semplice richiesta della parte (che peraltro può essere contenuta anche in atto distinto dalla citazione per revocazione), e ciò non contrasta, manifestamente, con il diritto di difesa, la cui garanzia costituzionale si attua nelle forme e nei limiti stabiliti dall’ordinamento processuale, salva l’esigenza della effettività della tutela del medesimo diritto, che nella specie appare pienamente rispettata, atteso che la parte dispone comunque per intero del termine di sessanta giorni dalla prima notifica per ricorrere per cassazione, qualunque sia l’esito dell’istanza di sospensione, mentre gli effetti della scelta di attendere il provvedimento del giudice sull’istanza di sospensione non possono che imputarsi alla stessa parte che tale scelta processuale ha ritenuto di compiere”.
Confermativa del richiamato principio è la sentenza n. 309 del 2012, che, nel dichiarare inammissibile il ricorso per decorso del termine breve prima dell’invocato provvedimento di sospensione, afferma che “non la mera proposizione della revocazione o dell’istanza ma il provvedimento del giudice ha effetto sospensivo”.
In linea di continuità con le menzionate pronunce anche Cass. n. 7261 del 2013 (non massimata), che dopo aver richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la notificazione della citazione per revocazione di una sentenza di appello equivale alla notificazione della sentenza stessa ai fini della decorrenza del termine breve per proporre ricorso in cassazione, in parte motiva afferma che “qualora il giudice della revocazione, in accoglimento dell’istanza di parte, abbia sospeso il termine per ricorrere in cassazione, l’effetto sospensivo si produce soltanto a seguito del provvedimento, e non della semplice richiesta della parte”.
Tale principio di diritto ha trovato ulteriore conferma in Cass. n. 12701 del 2014 (che tra l’altro ha valorizzato – sulla scia di quanto precedentemente osservato da Cass. n. 22395 del 2006 e da Cass. n. 12703 del 2007 – la modifica apportata dalla legge n. 353 del 1990 all’art. 398 c.p.c., che nella previgente formulazione riconosceva alla proposizione della revocazione un automatico effetto sospensivo del termine per ricorrere per cassazione).
Si legge nella citata pronuncia, infatti, che “A seguito della modifica introdotta dall’art. 68 della legge 26 novembre 1990, n. 353, la disciplina del concorso fra l’istanza di revocazione della sentenza d’appello e il ricorso per cassazione è caratterizzata, in linea generale, dall’insussistenza di un effetto sospensivo automatico, conseguente all’istanza di revocazione, del termine per proporre il ricorso per cassazione. Ciò comporta che, in caso di accoglimento dell’istanza di sospensione da parte del giudice della revocazione, il termine iniziale di decorrenza del periodo di sospensione non coincide con la data di presentazione dell’istanza medesima, ma con quella di emanazione del provvedimento previsto dall’art. 398, quarto comma, cod. proc. civ., senza che ciò pregiudichi il diritto dell’istante di agire in giudizio…omissis“, atteso che egli dispone comunque per intero del termine di sessanta giorni dalla prima notifica per ricorrere per cassazione, qualunque sia l’esito dell’istanza di sospensione, mentre gli effetti della scelta di attendere la decisione sull’istanza di sospensione non possono che imputarsi alla stessa parte che tale scelta processuale ha ritenuto di compiere”. Nella fattispecie, l’istanza di sospensione era stata accolta dal giudice adito ma il provvedimento era intervenuto oltre sessanta giorni dalla data di notifica dell’atto di citazione per revocazione.
Più di recente, con specifico riferimento al rito del lavoro, l’opzione interpretativa dominante è stata nuovamente ribadita da Cass. n. 13189 del 2017 (non massimata), che, in motivazione ha affermato che “la disciplina del concorso fra l’istanza di revocazione della sentenza d’appello e il ricorso per cassazione è caratterizzata, in linea generale, dall’insussistenza di un effetto sospensivo automatico, conseguente all’istanza di revocazione, del termine per proporre il ricorso per cassazione, sicché il termine iniziale di decorrenza del periodo di sospensione, in caso di accoglimento della relativa istanza, coincide con quella di emanazione del provvedimento previsto dall’art. 398, quarto comma, cod.proc.civ., e riprende a decorrere dal momento in cui la sospensione cessa”.
Da ultimo, il principio secondo cui, in caso di accoglimento dell’istanza di sospensione da parte del giudice della revocazione, il termine iniziale di decorrenza del periodo di sospensione non coincide con la data di presentazione dell’istanza, ma con quella di emanazione del provvedimento previsto dall’art. 398, quarto comma, c.p.c. ha trovato ennesima conferma in Cass. n. 8759 del 2018 (non massimata).
4.1. In alcune pronunce di questa Corte si è invece – in difformità dall’orientamento dominante – sostenuto un orientamento favorevole alla decorrenza della sospensione del termine per ricorrere in cassazione dalla proposizione dell’istanza di sospensione.
Tali pronunce hanno ritenuto che il momento di decorrenza del periodo di sospensione dei termini per il ricorso in cassazione, nel caso in cui sia stata accolta la relativa richiesta dal giudice della revocazione, coincida con la data di presentazione dell’istanza.
In particolare, Cass. n. 9239 del 2013 ha affermato che: “Proposta revocazione di sentenza d’appello con contestuale istanza di sospensione e disposta dal giudice, che reputi non manifestamente infondata l’impugnazione, la sospensione del termine per esperire ricorso per cassazione, gli effetti della sospensione si producono dal momento della proposizione dell’istanza di parte, non potendo il ritardo nella deliberazione del giudice risolversi in danno dell’istante, e perdurano fino alla comunicazione della sentenza che pronunci sulla revocazione, secondo l’espressa previsione dell’ultimo comma dell’art. 398 c.p.c., con la conseguenza che dalla data dell’avvenuta comunicazione riprende a decorrere, per la parte residua, il termine per la proposizione del ricorso per cassazione”.
In senso analogo si è, altresì, recentemente espressa Cass. n. 11832 del 2017, la quale, in motivazione, si è così espressa: “deve ritenersi che la sospensione del termine per la proposizione del ricorso per cassazione produce i suoi effetti dal momento della presentazione dell’istanza di parte, contestualmente alla proposizione del ricorso per revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c., non potendo il ritardo del giudice nella deliberazione sulla istanza medesima risolversi in danno all’istante, e la sospensione dura sino alla comunicazione della sentenza che ha pronunciato sulla revocazione secondo quanto previsto dall’art. 398 c.p.c., con la conseguenza che da tale data riprende a decorrere, per la parte residua, il termine per la proposizione del ricorso per cassazione”.
Tale ultima pronuncia, peraltro, si riferisce ad un caso sovrapponibile, quanto allo svolgimento dei fatti, a quello sub iudice, in quanto la sentenza oggetto di impugnazione era stata autonomamente notificata e nelle more del termine breve per proporre ricorso in cassazione era stata proposta, contro la stessa sentenza, domanda di revocazione con contestuale istanza di sospensione.
5. Questo essendo lo stato della giurisprudenza delle Sezioni semplici, ritengono le Sezioni unite che il contrasto vada sciolto a favore dell’orientamento maggioritario.
5.1. Rilevano anzitutto le Sezioni unite che la lettera della legge siccome espressa dal quarto comma dell’art. 398 cod.proc.cvi., specie se interpretata al lume dell’intenzione del legislatore della riforma di cui al 1993 e comunque della diversa previsione normativa non lascia dubbi sul fatto che l’operare della sospensione del termine consegua soltanto in dipendenza e, dunque, per effetto dell’adozione, da parte del giudice della revocazione, del provvedimento di sospensione del corso del termine (o, nel diverso caso di pendenza del giudizio di cassazione, di tale giudizio).
Ne segue che il testo legislativo deve intendersi nel senso che se non viene adottato il provvedimento la sospensione non si può verificare. La norma quando dice che «il giudice davanti al quale è proposta la revocazione … può sospendere…» il termine per la proposizione del ricorso per cassazione (o il relativo giudizio se pendente), individuando un provvedimento del giudice ed attribuendogli l’efficacia sospensiva, secondo il senso comune delle parole, non può che implicare che tale efficacia possa estrinsecarsi ed operare solo quando il provvedimento sia pronunciato.
Il fatto che il provvedimento sia sollecitato da un’istanza di parte avrebbe potuto essere considerato rilevante dal legislatore ai fini di una diversa operatività dell’effetto sospensivo disposto dal provvedimento, cioè: aa) o nel senso di prevedere che quell’effetto operasse dal momento della proposizione dell’istanza e dunque retroattivamente con la conseguenza di incidere sul termine per la proposizione del ricorso ma a condizione che esso, in quanto prima non sospeso, non si fosse ancora consumato; bb) o nel senso di prevedere sempre quella retroattività anche se il termine si fosse consumato, con la conseguenza di un ripristino per così dire ex post del diritto di impugnare in Cassazione entro la residua parte del termine non ancora decorsa al momento della presentazione della istanza.
Tuttavia, nella norma del quarto comma dell’art. 398 cod.proc.civ. il legislatore non ha usato alcuna espressione che consenta di giustificare l’ipotesi appena individuata e ciò né secondo l’una né secondo l’altra opzione.
Il testo legislativo, dunque, non contiene certamente una previsione espressa, in uno di detti sensi e nemmeno elementi letterali che consentano di desumerne uno di essi.
5.2. Occorre domandarsi a questo punto se la norma, ricostruita sulla base di un’esegesi meramente letterale, presenti delle criticità, che possano indurre – sempre a condizione che essa, naturalmente, lo consenta al di là del suo tenore e sulla base dell’applicazione di criteri esegetici non limitati a quello letterale – ad intenderla in uno di quei modi.
Ciò, secondo un’esegesi che si ispiri all’intenzione del legislatore e, dunque, di carattere teleologico.
Nel verificare tale alternativa, ove la risposta fosse negativa, occorrerà domandarsi se a questo punto la norma non ponga problemi di legittimità costituzionale.
Il Collegio anticipa fino d’ora la conclusione negativa delle due verifiche cui ora procede.
5.3. Iniziando dalla prima verifica, si rileva che l’unico argomento che potrebbe essere addotto per giustificare un’esegesi della norma nel senso che l’efficacia del provvedimento di accoglimento dell’istanza di sospensione debba retroagire al momento della proposizione dell’istanza di sospensione (salva, poi, la scelta fra le due alternative sopra indicate) potrebbe essere – come, del resto, è sostenuto dall’orientamento minoritario – che il tempo che il giudice della revocazione impiega a provvedere sull’istanza di sospensione non deve andare a danno dell’istante, cioè non deve risolversi nel pregiudizio dell’esigenza che con l’istanza egli, sulla base della previsione di legge, intende soddisfare.
Occorre, dunque, domandarsi quale possa essere questa esigenza.
È evidente che – quando naturalmente, è questo il caso che interessa, l’istanza venga proposta con la domanda di revocazione in pendenza del termine (lungo o breve) per il ricorso per cassazione o, per la idoneità della domanda di revocazione, per quanto si è detto, a far decorrere il termine breve per esso contestualmente al suo decorso – si tratta dell’esigenza di non esercitare, fino a quando non sia decisa la revocazione e non sia stata comunicata la relativa decisione, il diritto di impugnare con il ricorso per cassazione.
È ad essa che è funzionale la sospensione del corso del relativo termine.
Detta esigenza può riguardare la stessa parte che ha impugnato con la revocazione, ma potrebbe riguardare anche la parte contro la quale è stata proposta la revocazione: ipotesi possibile, se alla sentenza di appello siano addebitabili, in ragione del suo contenuto, errori revocatori fonte di soccombenza a carico di una parte ed errori deducibili con il ricorso per cassazione a carico della controparte, come può accadere nel caso di soccombenze reciproche.
5.4. Ebbene, poiché i presupposti per impugnare con la revocazione e con il ricorso per cassazione nascono con la sentenza assoggettabile ai due rimedi, il pregiudizio che, una volta proposta la revocazione e chiesta la sospensione del termine per il ricorso per cassazione riceve la parte se frattanto questo termine decorre senza che il giudice provveda si risolve solo nel non poter beneficiare della sospensione di esso e, dunque, nell’onere, avendo corso il termine, di esercitare il diritto di impugnazione con il ricorso per cassazione prima che tale termine – non sospeso dalla proposizione dell’istanza in attesa del provvedimento del giudice – si consumi.
5.4.1. Si tratta di un pregiudizio che, però, risulta del tutto apparente, in quanto la norma del quarto comma dell’art. 398 cod.proc.civ., con la previsione del potere di rivolgere istanza al giudice della revocazione ai sensi del suo secondo inciso:
a1) non solo non contempla l’istanza di parte come avente ad oggetto esclusivamente la sospensione del termine per il ricorso per cassazione, ma la prevede anche – ed in via alternativa e, dunque, con una valutazione di indifferenza dell’oggetto della tutela riconosciuta ed un collegamento ad un mero dato temporale – sub specie di istanza proponibile quando il giudizio di cassazione sia già iniziato e dunque come diretta ad ottenere la sospensione di esso e non del termine, ed inoltre come istanza comunque utile, qualora proposta quando il termine non sia decorso, a giustificare comunque, se il giudice della revocazione l’accolga, la sospensione del giudizio di cassazione che frattanto sia stato iniziato proprio per impedire la consumazione del termine, non sospeso dalla proposizione della revocazione e dalla contestuale istanza di sospensione;
b1) ma, inoltre, colloca la relativa previsione dopo una norma, quella del primo inciso, che, ponendo sullo stesso piano la regola della non sospensione del termine per il ricorso per cassazione e quella della non sospensione del corso del relativo procedimento, chiaramente esclude che la possibilità poi riconosciuta nel secondo inciso di un’istanza di sospensione dell’uno o dell’altro, possa esprimere la tutela di un interesse della parte a beneficiare della possibilità di non proporre ricorso per cassazione fino a che il giudice della revocazione non provveda sulla sua istanza.
5.4.2. In altri termini, poiché il primo inciso del quarto comma detta una regola ponendo sullo stesso piano il decorso del termine per il ricorso per cassazione e la pendenza del giudizio di cassazione, non è possibile già sulla base di tale previsione assegnare all’istanza di sospensione del termine, cui il secondo inciso ammette la parte, il valore di esprimere una previsione di tutela per cui fino a che il giudice della revocazione non si sia pronunciato il termine non debba decorrere o continuare a decorrere.
Solo se la norma del primo inciso avesse previsto che la proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione e non avesse dettato anche la previsione di non sospensione del giudizio di cassazione, si sarebbe potuto ritenere che, una volta assicurata alla parte dal legislatore nel secondo inciso la possibilità di ottenere con un’istanza una decisione concessoria della sospensione, sarebbe stato coerente con l’intentio legis che, proposta l’istanza, fino al provvedimento del giudice, la parte potesse beneficare della sospensione del corso del termine.
5.4.3. A sua volta il secondo inciso del quarto comma, prevedendo che il provvedimento del giudice possa sospendere il termine per il ricorso per cassazione o il giudizio di cassazione, evidenzia anch’esso, in coerenza con la regola del primo inciso, che l’interesse tutelato non è quello della parte istante alla sospensione del termine ma, in realtà: 1a) questo se il provvedimento interviene quando il termine pende; 1b) e l’altro alla sospensione del giudizio di cassazione quando il giudizio è stato introdotto.
Il primo interesse risulta tutelato solo in via eventuale e, dunque, il disposto della norma, specie se si tiene conto del primo inciso di essa, in realtà tutela i due interessi con una valutazione di equivalenza: si vuoi dire, cioè, che, se l’istanza è proposta quando il termine è in corso e il giudice provvede dopo che il termine è scaduto ed il giudizio è iniziato, l’interesse tutelato, per quello che prevede la norma, è comunque soddisfatto e non può dirsi che sia sacrificato.
5.5. In definitiva, l’interesse tutelato con l’istanza di cui al secondo inciso del quarto comma dell’art. 398 cod.proc.civ. non è quello alla sospensione del termine per proporre il ricorso per cassazione, ma quello alla sospensione del giudizio di cassazione se iniziato.
E, pertanto, non è possibile ritenere che l’attesa del provvedimento del giudice della revocazione sull’istanza proposta quando il termine per il ricorso di legittimità non è decorso, se l’istanza non lo sospendesse ed il provvedimento arrivasse dopo la sua consumazione, implicherebbe la lesione di un diritto dell’istante ad ottenere un provvedimento sulla sua istanza idoneo a soddisfarla: tale diritto non c’è, perché il diritto riconosciuto è di ottenere una valutazione del giudice della revocazione sulla sospensione del termine o del giudizio di cassazione.
Sicché, secondo un’esegesi teleologica dell’art. 398, quarto comma, cod.proc.civ., il ritenere che l’istanza proposta in pendenza del termine per il ricorso per cassazione possa produrre il suo effetto, ove accolta, solo una volta intervenuto il provvedimento positivo, con la conseguenza che la sospensione del termine opera solo se esso ancora non sia decorso, operando altrimenti quella del giudizio, risulta del tutto conforme alla volontà del legislatore, poiché per l’ordinamento è indifferente che l’intervento di tale provvedimento possa spiegare effetti sospensivi sul termine o sul giudizio, essendo la regola quella per cui il giudizio di revocazione non sospende né l’uno né l’altro, salvo il provvedimento del giudice della revocazione.
5.6. Anche l’esegesi teleologica della norma – ammesso che sia necessaria di fronte al dettato normativo letterale – giustifica, dunque, la conclusione che l’istanza di sospensione a seguito della proposizione della revocazione non ha alcun effetto sospensivo del corso del termine per il ricorso per cassazione.
5.7. Si aggiunga, per completezza, che, sempre sul piano dell’esegesi teleologica, non è di poco momento che l’istanza di sospensione di cui al secondo inciso dell’art. 398, quarto comma, cod.proc.civ., non può essere presentata prima della proposizione della domanda di revocazione, ma solo – salva la possibilità di presentarla anche successivamente – con essa. Ora, è palese che anche per tale ragione la funzione dell’istanza non potrebbe essere identificata nell’esigenza di bloccare il decorso del termine per il ricorso per cassazione o di impedirne il decorso, volta che si consideri che la proposizione della revocazione comunque è idonea a far decorrere quel termine.
5.8. È da avvertire che se l’esegesi teleologica avesse giustificato una diversa conclusione ci si sarebbe dovuti interrogare sul se, supposto l’effetto della sospensione del corso del termine per il ricorso per cassazione a seguito della proposizione dell’istanza di cui al secondo inciso del quarto comma dell’art. 398, esso dovesse conservare efficacia soltanto per il caso di accoglimento del provvedimento di sospensione oppure anche per il caso di rigetto.
Detto che la seconda alternativa si sarebbe posta in manifesta contraddizione con la scelta del legislatore del 1990, in quanto avrebbe attribuito alla proposizione della revocazione, sebbene per il tramite dell’istanza, un effetto automaticamente sospensivo sebbene limitato nel tempo fino all’adozione del provvedimento sull’istanza, la prima alternativa avrebbe comportato il verificarsi, a seguito della proposizione dell’istanza sospensiva, non già di una sospensione effettiva, bensì di una sospensione risolutivamente condizionata al provvedimento positivo di sospensione, con la conseguenza che l’inerzia della parte nel proporre ricorso per cassazione sarebbe stata esiziale nel caso di rigetto del provvedimento ove dal momento dell’istanza frattanto il termine fosse decorso.
Questa seconda soluzione, l’unica praticabile, sarebbe stata palesemente pericolosa per la parte, atteso che essa avrebbe dovuto astenersi dal proporre ricorso per cassazione nelle more del provvedimento nella consapevolezza dell’alea dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza, questo secondo potenzialmente esiziale rispetto al diritto di ricorrere per cassazione frattanto non esercitato.
6. Occorre a questo punto domandarsi se l’esegesi della norma cui si è proceduto sia sotto il profilo letterale che quello teleologico, evidenzi criticità riferibili alla norma come tale e che, dunque, potrebbero indurre a ravvisare in essa la lesione di norme costituzionali e segnatamente del diritto di azione nel suo amminicolo rappresentato dal diritto di impugnazione riconosciuto dall’ordinamento con la previsione del ricorso per cassazione.
Nessuna criticità è ravvisabile.
6.1. Di fronte alla sentenza che ritenga impugnabile con il mezzo della revocazione per i profili per cui è previsto e con il mezzo del ricorso per cassazione per i profili per cui è previsto a sua volta, la parte, essendo posta nella condizione di individuare le possibili ragioni di entrambe le impugnazioni per effetto della conoscenza legale della sentenza e nel medesimo momento e ciò almeno per la revocazione ordinaria, è pienamente consapevole che la proposizione della revocazione non la esime dal rispetto del termine per il ricorso per cassazione e se si affida alla richiesta di sospensione rivolta al giudice della revocazione e in attesa dell’adozione del provvedimento su di esso fa decorrere il detto termine, così rendendo privo di oggetto l’eventuale successivo provvedimento sospensivo del giudice della revocazione, non può che imputare a se stessa di aver consumato il diritto di ricorrere per cassazione.
Diritto che, del resto, ha già configurato quanto ai suoi contenuti quando ha proceduto all’esame della sentenza per proporre la revocazione, mentre, se si tratti della parte destinataria della revocazione, a sua volta, in disparte la pregressa conoscenza della sentenza che possa avere avuto, essa è posta nella condizione di dover esercitare il diritto di ricorrere per cassazione in non diversa guisa di come sarebbe stato se avesse ricevuto la notificazione della sentenza.
6.2. Si rileva ancora che, per il caso di revocazione c.d. straordinaria in cui la conoscenza dei vizi si collochi oltre il termine per l’esercizio del diritto di impugnare con il ricorso per cassazione, il problema dell’applicazione del quarto comma dell’art. 398 cod.proc.civ. si può porre solo in termini di sospensione del giudizio di cassazione: se quella conoscenza si collochi nella pendenza di esso, alla proposizione della revocazione non potrà riconoscersi alcun effetto sospensivo di detto giudizio, occorrendo invece l’istanza.
6.3. D’altro canto, l’essere la ricostruzione qui avallata logico corollario della scelta effettuata dal legislatore nel 1990 ed espressa nel primo inciso del quarto comma dell’art. 398 cod.proc.civ., giustifica la precisazione che anche questa scelta del legislatore non appare in alcun modo confliggere con il diritto di difesa, giacché, avendo i due mezzi di impugnazione natura di c.d. impugnazioni a motivi limitati ed essendo i motivi deducibili con l’uno diversi da quelli deducibili con l’altro, il fatto che si dirigano contro la stessa sentenza e che dunque l’esercizio del diritto di impugnazione debba assumere come proprio oggetto censure distinte rende pienamente ragionevole imporre alla parte che potrebbe far valere tali censure la tendenziale contemporaneità del decorso del termine per la proposizione di entrambi e di seguito il possibile svolgimento contemporaneo dei relativi giudizi in mancanza di sospensione o del termine per il ricorso per cassazione o del giudizio di cassazione: la conoscenza della sentenza è, infatti, utile per predisporre sia l’una che l’altra impugnazione.
Da ultimo, si rileva che, giusta quanto osservato al paragrafo precedente sull’interesse tutelato dalla sospensione, nella valutazione di costituzionalità dell’esegesi qui condivisa nessuna incidenza può avere il principio per cui la durata del processo non deve andare a detrimento delle ragioni di chi esercitata la tutela giurisdizionale.
7. Raggiunta la conclusione che solo il provvedimento positivo del giudice della revocazione sull’istanza di sospensione determina l’effetto sospensivo del termine per il ricorso per cassazione e analogamente, del corso del giudizio di cassazione, se già introdotto, dovendo escludersi che la mera proposizione dell’istanza, sebbene a seguito dell’accoglimento, determini quell’effetto, le Sezioni unite ritengono opportuno sottolineare che tale effetto, essendo destinato a regolare il comportamento della parte che eventualmente abbia ancora una parte di termine per proporre il ricorso per cassazione, si verifichi solo quando essa ne è notiziata. Ne discende che, essendo la forma del provvedimento di sospensione quella dell’ordinanza, atteso che nel silenzio della legge l’applicazione del principio di cui al secondo comma dell’art. 131 cod. proc. civ. la evidenzia come forma idonea, sia in analogia con quanto prevede l’art. 367, primo comma, cod. proc. civ., sia in generale con la regola comune alle ipotesi di sospensione del processo, l’effetto può verificarsi illico et immediate se l’ordinanza è pronunciata in udienza, in quanto essa – secondo il combinato disposto degli artt. 134 e 176 cod. proc. civ. – si intende comunicata alle parti presenti o che dovevano comparirvi, mentre se è pronunciata fuori udienza, dal momento della comunicazione di cancelleria.
8. Deve, dunque, enunciarsi, a composizione del contrasto, il seguente principio di diritto: «L’art. 398, quarto comma, secondo inciso, cod. proc. civ., deve interpretarsi nel senso che l’accoglimento, da parte del giudice della revocazione, dell’istanza di sospensione del termine per proporre ricorso per cassazione determina l’effetto sospensivo (come, del resto l’eventuale sospensione del corso del giudizio di cassazione se frattanto introdotto) soltanto dal momento della comunicazione del relativo provvedimento, non avendo la proposizione dell’istanza alcun immediato effetto sospensivo sebbene condizionato al provvedimento positivo del giudice».
9. Venendo all’applicazione del principio di diritto enunciato è palese che essa comporta la constatazione della tardività del ricorso e, quindi, della sua inammissibilità: la comunicazione della sentenza decisiva della revocazione avvenne il 14 aprile 2014, sicché – giusta quanto rilevato sub a) del paragrafo 8.2 dei “fatti di causa”, il termine per la proposizione del ricorso per cassazione veniva a scadenza il 7 maggio 2014, mentre il ricorso in esame è stato notificato dal punto di vista della notificante l’8 maggio 2014, cioè il sessantunesimo giorno dalla notifica della sentenza (al netto dell’efficacia sospensiva della revocazione).
10. Il ricorso è, dunque, dichiarato inammissibile.
L’essere stata la decisione assunta a seguito di una situazione di contrasto nella giurisprudenza della Corte ed a risoluzione del contrasto, giustifica la compensazione delle spese del giudizio di cassazione, tenuto conto del regime dell’art. 92 applicabile alla lite.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili il 2 luglio 2019.
Il Cons. est.
Il Presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 05 febbraio 2019, n. 3262, per SS.UU, 30 agosto 2019, n. 21874, in tema di revocazione
SS.UU, 30 agosto 2019, n. 21874, in tema di revocazione