In tema di compenso professionale – SS.UU, 19 settembre 2005, n. 18450
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vincenzo CARBONE – Presidente aggiunto –
NICASTRO – Presidente di sezione – Dott. Gaetano
Dott. Salvatore SENESE – Presidente di sezione –
Dott. Giovanni PAOLINI – Consigliere –
Dott. Alessandro CRISCUOLO – Rel. Consigliere –
Dott. Francesco SABATINI – Consigliere –
Dott. Fabrizio MIANI CANEVARI – Consigliere –
Dott. Michele LO PIANO – Consigliere –
Dott. Mario Rosario MORELLI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CECIARINI ALESSANDRO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CHELINI 5, presso lo studio dell’avvocato FABIO VERONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO CECIARINI, giusta delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI ISOLA DEL GIGLIO, in persona del Sindaco pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. B. VICO 31, presso lo studio dell’avvocato ENRICO SCOCCINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSANDRO ANTICHI, giusta delega in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1310/00 della Corte d’Appello di FIRENZE, depositata il 17/07/00;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/05/05 dal Consigliere Dott. Alessandro CRISCUOLO;
udito 1’Avvocato Massimo CECIARINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo GAMBARDELLA che ha concluso per il rigetto del primo motivo del ricorso, accoglimento per quanto di ragione degli altri motivi.
Ceciarini
Svolgimento del processo
Con convenzione stipulata il 27 marzo 1987 tra il Comune di Isola del Giglio e l’ing. Alessandro Ceciarini l’ente territoriale affidò al professionista la redazione del progetto dei lavori per la costruzione di una rete idrica relativa ai centri abitati di Giglio Castello, Giglio Porto e Giglio Campese. Nella convenzione fu pattuito che il pagamento del compenso al professionista restasse subordinato alla condizione che il Comune ottenesse dagli enti competenti il finanziamento dell’opera.
Espletato l’incarico l’ing. Ceciarini, non avendo ottenuto il compenso, promosse il procedimento arbitrale (previsto dalla convenzione d’incarico) al fine di ottenere la condanna del Comune al pagamento di lire 100.954.726, con i relativi interessi, a titolo di onorari e rimborso spese per l’attività professionale espletata.
Il Comune contestd la domanda, in quanto il pagamento del compenso era subordinato alla condizione, non avveratasi, del finanziamento dell’opera.
La parte privata replicò che la condizione doveva ritenersi inefficace, in quanto meramente potestativa, e comunque contraria al principio d’inderogabilità della tariffa professionale.
Addusse, inoltre, che la condizione, se valida, si sarebbe dovuta ritenere avverata essendo mancata per fatto imputabile al Comune, tenuto comunque al risarcimento del danno, e che l’opera almeno in parte era stata finanziata.
Il collegio arbitrale, espletata una consulenza tecnica ed acquisita agli atti la documentazione prodotta, con lodo del 9 ottobre 1998 condanna l’ente territoriale a pagare all’ing. Ceciarini la somma di lire 65.000.000=, con i relativi interessi, nonché i 2/3 delle spese di lite. Il collegio pervenne a tale statuizione ritenendo non configurabile la fattispecie di cui all’art. 1359 c. c. (dato l’interesse di entrambe le parti all’avveramento della condizione), considerando valida la clausola che prevedeva la condizione medesima ed osservando, tuttavia, che il Comune non si era attivato con la dovuta diligenza nella richiesta di finanziamento, onde risultava inadempiente ai sensi dell’art. 1358 c. c., con conseguente obbligo risarcitorio a suo carico, liquidato in misura pari al compenso spettante al professionista e ridotto del 20%.
Con citazione notificata il 15 febbraio 1999 il Comune di Isola del Giglio impugno il lodo davanti alla Corte di appello di Firenze, adducendone la nullità per violazione degli artt. 1358 e 1359 c. c., per contraddittorieta, per violazione del principio di diritto secondo cui il giudice deve pronunciare “juxta alligata et probata”, per carente esame della documentazione prodotta e per mancata ammissione delle prove richieste in ordine all’impossibilita di ottenere un mutuo comunitario o di ricorrere a soluzioni alternative.
Il Ceciarini si costituì per resistere all’impugnazione, proponendo a sua volta impugnazione incidentale diretta a censurare il lodo nella parte in cui avrebbe illegittimamente decurtato il compenso minimo del 20% e deducendo (l’errata interpretazione ed applicazione dell’art. 1359 c. c. nonché la nullità del lodo medesimo per carenza di motivazione sulle deduzioni proposte.
La Corte di appello fiorentina, con sentenza depositata il 17 luglio 2000, dichiarò la nullità del lodo e dichiarò che nulla era dovuto dal Comune al professionista in virtù del contratto stipulato tra le parti, compensando integralmente tutte le spese del giudizio, comprese quelle del procedimento arbitrale.
La Corte territoriale richiamò il principio (già affermato da questa Corte) secondo cui, qualora le parti abbiano subordinato gli effetti di un contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario acquirente ottenga da un istituto bancario un mutuo per poter pagare in tutto o in parte il prezzo stabilito — patto valido perché i negozi ai quali non è consentito apporre condizioni sono indicati tassativamente dalla legge — la relativa condizione ¢ qualificabile come “mista”, in quanto la concessione del mutuo dipende anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la relativa pratica. La mancata concessione del mutuo, peraltro, comporta le conseguenze previste in contratto, senza che rilevi (ai sensi dell’art. 1359 c. c.), un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente, sia perché tale disposizione è inapplicabile nel caso in cui la parte, tenuta condizionatamente ad una data prestazione, abbia anch’essa interesse all’avveramento della condizione, sia perché l’omissione di un’attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, e la sussistenza di un obbligo siffatto deve essere esclusa per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista.
Nel quadro di tale principio, ritenuto applicabile alla fattispecie, la sentenza impugnata escluse l’applicabilità al caso in esame sia dell’art. 1359 c. c., attinente all’avveramento della condizione per il comportamento della parte dalla cui condotta l’avveramento stesso anche dipende, sia dell’art. 1358 c. c., relativo alla responsabilità nascente in capo a detta parte per comportamento non conforme a buona fede. In ciò ravvisò causa di nullità del lodo, in accoglimento della doglianza proposta dall’impugnante principale.
La Corte di merito, poi, rilevò che il contratto qdeu o prevedeva la concessione di un mutuo per l’esecuzione dell’opera la cui progettazione era stata affidata al Ceciarini, in assenza del quale nessun compenso era previsto per quest’ultimo, e ne dedusse che ai fini di causa il Comune era tenuto alla richiesta del detto mutuo e ciò, com’era pacifico, era stato fatto, sicché l’ente territoriale aveva adempiuto agli obblighi derivanti dal contratto, non essendo obbligato in forza del contratto stesso ad ulteriori comportamenti.
Pertanto, ad avviso della Corte fiorentina, dichiarato nullo il lodo per errore di diritto, andava altresi dichiarato che nulla era dovuto al Ceciarini dal Comune medesimo, restando assorbita ogni altra domanda proposta dalle parti.
Avverso tale sentenza l’ing. Ceciarini ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi illustrati con due memorie.
Il Comune di Isola del Giglio ha resistito con controricorso.
La prima sezione civile di questa Corte, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza depositata il 5 giugno 2004 ha rilevato che, con il primo motivo del ricorso stesso, si poneva la questione della validita della clausola — apposta alla convenzione con la quale il Comune affida ad un privato l’attività professionale di progettazione di un’opera pubblica — che subordina il diritto al compenso all’ottenimento del finanziamento dell’opera progettata.
Ha osservato, quindi, che su tale questione sussiste un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, perché in alcune sentenze si è affermato che il principio d’inderogabilita delle tariffe professionali (operante anche con riguardo alle prestazioni rese da ingegneri ed architetti allo Stato e agli altri enti pubblici, nei limiti indicati dall’art. 4, comma 12 bis, del d. 1 n. 65 del 1989, introdotto dalla legge di conversione n. 155 del 1989) attiene al momento di liquidazione del compenso, ma non esclude che il professionista possa validamente sottoporre il suo diritto a riscuotere il compenso stesso a termine o a condizione, o anche a prestare la propria opera gratuitamente per i motivi più vari, che possono essere ispirati da mera liberalità ovvero da considerazioni di ordine sociale o di convenienza o, ancora, da prospettive di opportunita in relazione a personali ed indiretti vantaggi. Mentre nella sentenza n. 7538 del 2002 si è deciso che deve essere ritenuta nulla la clausola, contenuta in un capitolato, la quale condizioni il pagamento del compenso a finanziamenti futuri e incerti, ancorché l’ente pubblico abbia ricevuto 1’intera prestazione professionale, in quanto in contrasto con la causa normalmente onerosa della prestazione.
In presenza di tale contrasto 1’ordinanza ha ravvisato l’opportunita di rimettere gli atti al Primo Presidente per eventuale assegnazione del ricorso alle sezioni unite, considerato anche che era gia all’esame di queste la questione (ritenuta connessa) concernente la validità dell’atto negoziale di conferimento dell’incarico al professionista nell’ipotesi in cui la relativa delibera dell’ente territoriale sia priva della previsione di spesa, in violazione dell’art. 284 del r. d. 3 marzo 1934, n. 383 (relativamente a fattispecie contrattuali realizzate nel vigore di detta normativa).
Il ricorso, quindi, è stato assegnato alle sezioni unite di questa Corte ed è stato chiamato all’udienza di discussione.
Motivi della decisione
1. Il resistente ha addotto l’inammissibilità del ricorso per cassazione, ritenendolo tardivo in quanto non sarebbe possibile cumulare due sospensioni dei termini per il periodo feriale.
Tale eccezione (in senso lato, in quanto attinente a profilo rilevabile anche d’ufficio) non è fondata.
La sentenza impugnata fu depositata il 17 luglio 2000. Da tale data prese a decorrere il termine annuale di decadenza ex art. 327 c. p. c. ( in quanto essa non risulta notificata, com’è incontroverso), termine da calcolare ex nominatione dierum, cioè prescindendo dal numero dei giorni da cui è composto ogni singolo mese o anno, ai sensi dell’art. 155, comma 2°, del codice di rito civile (Cass., 11 agosto 2004, n. 15530; 3 giugno 2003, n. 8850; 7 luglio 2000, n. 9068). Il detto termine, dunque, veniva a scadere il 17 luglio 2001, ma esso doveva essere prolungato di 46 giorni (calcolati ex numeratione dierum, ai sensi del combinato disposto degli artt. 155, comma 1°, c. p. c. e 1, comma 1°, L. n. 742 del 1969: v. giurisprudenza ora cit) per la sospensione durante il periodo feriale. Pertanto, dopo i primi 14 giorni (17/31 luglio 2001), i residui 32 giomi non giunsero a compimento il 1°settembre 2001 (ricadente nel c. d. periodo feriale) ma presero a decorrere dopo la detta sospensione, cioè dal 16 settembre 2001 (incluso), giungendo a compimento il 17 ottobre 2001. Poiché il ricorso per cassazione risulta notificato il 10 ottobre 2001,
L’impugnazione si rivela tempestiva.
La tesi del resistente, secondo cui non sarebbe possibile cumulare due periodi di sospensione, non può essere condivisa. Essa non trova riscontro nel dettato normativo ed anzi contrasta con la ratio della legge n. 742 del 1969, che — salve le eccezioni previste — ha comunque inteso evitare il decorso dei termini processuali nell’arco di tempo considerato da tale legge. Il punto, del resto, è stato già trattato da questa Corte, la quale ha affermato il principio secondo cui il termine annuale di decadenza dall’impugnazione che, qualora sia iniziato a decorrere prima della sospensione dei termini durante il periodo feriale, deve essere prolungato di 46 giorni ( non dovendosi tenere conto del periodo compreso tra il 1° agosto e il 15 settembre di ciascun anno) è suscettibile di ulteriore analogo prolungamento quando l’ultimo giorno di detta proroga venga a cadere dopo l’inizio del nuovo periodo feriale dell’anno successivo (Cass., 8 gennaio 2001, n. 200; 20 marzo 1998, n. 2978). Ed a tale principio il collegio intende dare continuità, essendo esso conforme alla lettera ed alla ratio della citata legge n. 742 del 1969.
2. Con il primo mezzo di cassazione il ricorrente denunzia “omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia prospettato dalla parte o rilevabile d’ufficio.
Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c. p. c. Violazione degli artt. 36 Cost., 2233, 2° comma, c. c., dell’articolo unico della legge 5. 5. 1976 n. 340, degli artt. 1418 e 1419, 2° comma, c.c”.
Con il secondo motivo dell’impugnazione incidentale avverso il lodo I’ing. Ceciarini avrebbe riproposto — sotto il profilo della nullità del lodo per violazione di norme di diritto — la questione concernente la nullita della clausola che subordina la riscossione del compenso da parte del professionista al fatto, futuro e incerto, dell’avvenuto finanziamento dell’opera progettata.
Con il primo motivo avrebbe già impugnato il lodo, sotto il medesimo profilo di parziale nullita per contrasto con le norme imperative stabilite dall’art. unico della 1. 5 maggio 1976, n. 340, concernente la riduzione del 20% sui minimi tariffari.
Tali questioni avrebbero avuto indubbio carattere preliminare perché, se la condizione fosse stata dichiarata nulla e/o inefficace (sia per contrasto con le norme relative all’inderogabilita dei minimi tariffari, sia per contrasto con gli artt. 36 Cost. e 2233, 2° comma, c. ¢.), sarebbe stato inutile porsi il problema della operativita 0 meno degli artt. 1358 e 1359 c. c. (addotti invece dalla Corte di merito a motivo unico della propria decisione).
La Corte territoriale avrebbe omesso del tutto l’esame di tali censure, inserendole frettolosamente tra quelle “assorbite”, laddove, poiché la questione circa la validita della condizione apposta avrebbe costituito un prius rispetto all’incidenza (agli effetti degli artt. 1359 e 1358 c. c.) del mancato avveramento della condizione stessa, la Corte distrettuale avrebbe avuto l’obbligo di pronunciarsi e di motivare sul punto.
Peraltro, qualora si dovesse considerare il rigetto della questione di nullità o inefficacia della clausola contenente la condizione come motivato per implicito, la sentenza impugnata si esporrebbe comunque a censura per violazione di legge.
Infatti, se l’art. unico della legge n. 340 del 1976 impone l’inderogabilità dei minimi tariffari tra privati (mentre, ai sensi dell’art. 4, comma 12 bis, del d. 1. 2 marzo 1989 n. 65, aggiunto dalla legge di conversione n. 155 del 26 aprile 1989, per le prestazioni rese dai professionisti allo Stato e agli altri enti pubblici relativamente alla realizzazione di opere pubbliche o comunque d’interesse pubblico, il cui onere è in tutto o in parte a carico dello Stato e degli altri enti pubblici, la riduzione dei minimi di tariffa non può superare il 20%), sarebbe erroneo il giudizio espresso dal collegio arbitrale, tacitamente avallato dalla Corte di appello, circa la rilevanza meramente disciplinare della deroga accettata dal professionista e la validita tra le parti della clausola condizionante la riscossione del compenso alla concessione del finanziamento dell’opera.
In presenza di una norma imperativa, la nullita della clausola di deroga sarebbe automatica in forza del combinato disposto degli artt. 1418 e 1419 c. c., senza necessita di specifica comminatoria di questa sanzione.
Tale principio sarebbe confortato non soltanto dall’art. 36 Cost. ma anche dall’art. 2233, comma 2°, c. c. che, stabilendo in modo tassativo che in ogni caso spetta al professionista un compenso in misura adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione, escluderebbe l’ammissibilità di pattuizioni dirette addirittura a mettere a rischio la possibilità di ottenere qualsiasi compenso.
Sarebbe vero che al professionista è consentito prestare gratuitamente la propria opera per vari motivi sociali o di convenienza, ma sarebbe anche vero che, come affermato da questa Corte (Cass., n. 10393 del 1994), al di fuori di questa ipotesi i patti in deroga ai minimi della tariffa professionale sono nulli.
Errato e contraddittorio, quindi, sarebbe il giudizio del collegio arbitrale, condiviso per implicito dalla Corte di appello, che — dopo avere esattamente affermato l’inderogabilità della tariffa e la insussistenza (ormai non più revocabile in dubbio, concernendo accertamenti e valutazioni sul fatto non impugnabili e non impugnate) di motivi idonei a giustificare la volonta del Ceciarini di prestare gratuitamente la propria opera, avrebbe poi escluso il diritto del professionista a conseguire il compenso, certamente non ravvisabile nella irrisoria somma per spese di lire 2.000.000, peraltro neppure pagata dal Comune contrariamente a quanto da questo dedotto, sicché la sentenza impugnata sarebbe viziata per l’omissione di pronuncia nella parte in cui avrebbe escluso totalmente il diritto al compenso anche per la somma ora citata, in ogni caso dovuta.
2.1. L’esame delle censure contenute nel primo motivo del ricorso richiede le seguenti considerazioni di carattere preliminare;
a) l’ordinanza di rimessione della causa a queste S. U. ritiene connessa alla questione di cui si tratta quella concernente la validità dell’atto negoziale di conferimento dell’incarico al professionista, nell’ipotesi in cui la relativa delibera dell’ente territoriale sia priva della previsione di spesa, in violazione dell’art. 284 del r. d. 3 marzo 1934, n. 383 (relativamente a fattispecie contrattuali sorte nel vigore di detta normativa). Ad avviso di questa Corte, però, si tratta di questioni distinte, in quanto quella concernente l’interpretazione e l’applicazione del citato art. 284 (sulla quale questa Corte a s. u. si è pronunciata con sentenza 10 giugno 2005, n. 12195) è imperniata per l’appunto sulla validità della delibera e sui riflessi della sua eventuale nullità (per mancata previsione della spesa) sul correlato rapporto di prestazione professionale, mentre nel caso in esame non è stato posto alcun problema circa la validità dell’atto amministrativo, né un problema del genere potrebbe sorgere in questa sede, in quanto esso postulerebbe sul contenuto della delibera accertamenti di fatto non compatibili con i limiti del giudizio di legittimità. In questo processo, invece, è in discussione la validità di una clausola contrattuale interna al rapporto di prestazione d’opera professionale e recante una condizione diretta a subordinare il pagamento del compenso al professionista ad un evento futuro e incerto, qual è il finanziamento dell’opera pubblica dal medesimo professionista progettata. Si tratta, dunque, di fattispecie diverse, che sono soggette a discipline giuridiche differenti;
b) la sentenza impugnata — sia pure attraverso la relatio a due sentenze di questa Corte (concernenti ipotesi non coincidenti con quella oggetto della presente causa ma ad essa ritenute “sovrapponibili”: v. pag. 5-6 della statuizione qui impugnata) — ha considerato valida la clausola contenente la condizione, “poiché i negozi ai quali non è consentito apporre condizioni sono indicati tassativamente dalla legge”, così respingendo in modo implicito le altre argomentazioni svolte dall’attuale ricorrente. Pertanto l’omissione di pronuncia addotta dall’ing. Ceciarini non è configurabile. Neppure il dedotto vizio di motivazione può essere ravvisato, perché esso in realtà si risolve nella denunzia di un errori in iudicando relativo all’interpretazione ed all’applicazione di norme giuridiche (senza necessità di ulteriori indagini di fatto, in relazione alle quali sia configurabile un difetto motivazionale) e sotto questo profilo deve essere in questa sede valutato come violazione di legge (art. 360, primo comma, n. 3, c. p. c.), nel quadro delle censure mosse dal ricorrente col primo motivo del ricorso in relazione alle quali l’ordinanza di rimessione ha ravvisato il contrasto sottoposto a queste S. U.
2.2. Tale contrasto concerne la validità o meno della clausola, inserita in un contratto d’opera professionale avente ad oggetto la progettazione di un’opera pubblica, clausola che condizioni il diritto al compenso del professionista alla concessione del finanziamento necessario per la realizzazione dell’opera.
Secondo un orientamento, che può considerarsi in larga misura prevalente, la clausola suddetta in linea di principio deve considerarsi valida (cfr., tra le più recenti, Cass., 8 ottobre 2004, n. 20039; 22 settembre 2004, n. 19000; 23 maggio 2001, n. 7003; 22 gennaio 2001, n. 897; 9 gennaio 2001, n. 247; 21 luglio 2000, n. 9587; 26 gennaio 2000, n. 863; 20 luglio 1999, n. 7741; 30 dicembre 1993, n. 13008; 28 aprile 1992, n. 5061).
Tale orientamento si affida ad una pluralita di argomentazioni: cosi si è affermato che il principio stabilito dall’art. unico della legge 5 maggio 1976, n. 340 (che introdusse 1’inderogabilita dei minimi di tariffa delle prestazioni professionali degli ingegneri e degli architetti), applicabile ai sensi dell’art. 6 (comma primo) della legge n. 404 del 1977 esclusivamente ai rapporti tra privati, non è violato dalla convenzione che preveda a favore del professionista la liquidazione dei soli compensi per lavori topografici, con esclusione dei compensi a vacazione, perché la
ratio della norma restrittiva dell’autonomia contrattuale delle parti è che il professionista, per qualsiasi sua particolare ragione, non sia indotto a prestare la sua attività a condizioni lesive della dignità della professione (Cass., n. 5061 del 1992; n. 863 del 2000); che la gratuità delle prestazioni professionali e la rinuncia al compenso non trovano ostacoli nella nullità dei patti in deroga ai minimi di tariffa, allorché siano fondate su specifici presupposti causali e non risultino quindi attuate per violare le norme sui minimi di tariffa, onde al professionista è consentita la prestazione gratuita della sua attivita professionale per considerazioni di ordine sociale e di convenienza, anche con riguardo ad un suo personale ed indiretto vantaggio (Cass., n. 13008 del 1993); che in tema di prestazione d’opera intellettuale l’onerosità del relativo contratto, che ne costituisce elemento normale come risulta dall’art. 2233 c. c., non ne integra peraltro un elemento essenziale, né pud essere considerato un limite di ordine pubblico all’autonomia contrattuale delle parti che, pertanto, ben possono prevedere la gratuita dello stesso (fattispecie in cui ¢ stata ritenuta legittima la clausola contrattuale condizionante il diritto al compenso per la prestazione di un ingegnere, al quale un Comune aveva commissionato il progetto di un’opera pubblica, al conseguimento delle approvazioni richieste e dei finanziamenti pubblici: Cass., n. 7741 del 1999); che la clausola contrattuale diretta a sottoporre il diritto al compenso, da parte del professionista incaricato del progetto di un’opera pubblica, alla condizione dell’intervenuto finanziamento dell’opera progettata non limita la responsabilità del committente del progetto, perché non influisce sulle conseguenze del suo eventuale inadempimento, ma piuttosto delimita il contenuto del mandato conferito, facendo derivare i diritti del mandatario dal progetto finanziato e non dal progetto soltanto redatto (Cass., n. 9587 del 2000; n. 19000 del 2004); che, quando un contratto d’opera professionale concluso da un ingegnere con un Comune prevede l’alternativa tra il pagamento del compenso secondo tariffa ovvero la prestazione gratuita dell’attività professionale in caso di mancato finanziamento dell’opera, si è fuori dall’ipotesi della violazione dei minimi tariffari e si versa nella fattispecie della prestazione gratuita dell’attività professionale, restando valida tra le parti la rinunzia al compenso (Cass., n. 247 del 2001; n. 897 del 2001); che l’onerosità costituisce un elemento naturale ma non essenziale dei contratti di prestazione d’opera intellettuale, essendo consentito alle parti sia di escludere il diritto del professionista al compenso sia di subordinarlo al verificarsi di una condizione (Cass., n. 7003 del 2001).
Come si vede, al di 1a dei differenti profili argomentativi, la conclusione comune cui pervengono le pronunzie sopra richiamate e nel senso di ritenere valida la clausola che sottoponga il diritto al compenso del professionista, incaricato della progettazione di un’opera pubblica, alla condizione che tale opera ottenga i finanziamenti richiesta.
All’indirizzo maggioritario si contrappone un altro orientamento, alla stregua del quale l’art. 6 della legge n. 404 del 1977 — che, interpretando autenticamente 1’art. unico della legge n. 340 del 1976, ne ha limitato 1’applicazione ai rapporti intercorrenti tra privati — deve essere inteso nel senso che, nei rapporti tra ente pubblico e professionista privato cui il primo abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica, sono validi gli accordi che prescindono dai limiti minimi stabiliti dalle tabelle salvo comunque, ove sia certa la natura onerosa del rapporto, il diritto del professionista alla percezione di una somma a titolo di compenso (che, nel contrasto tra le parti,deve essere determinato dal giudice, prescindendo dalle tabelle degli onorari), in quanto soltanto tale interpretazione consente di non snaturare la causa
della prestazione, incidendo sul sinallagma contrattuale. Ne consegue che deve ritenersi nulla la clausola contenuta in un capitolato che subordini 1’obbligo del pagamento del compenso per la prestazione resa a futuri e incerti finanziamenti (Cass., 23 maggio 2002, n. 7538).
Allo stesso orientamento, sia pur con una prospettiva in parte differente, può essere ascritto il principio secondo cui al professionista è consentita la prestazione gratuita della sua attivita professionale per i motivi più vari, che possono consistere nell’affectio, nella benevolenza ovvero in considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio. Al di fuori di questa ipotesi sono nulli i patti in deroga ai minimi della tariffa professionale (Cass., 28 giugno 2000, n. 8787; 3 dicembre 1994, n. 10393).
2. 3. 1l contrasto deve essere risolto in senso conforme all’orientamento prevalente, alla stregua delle considerazioni che seguono.
Si deve premettere che, ai fini della decisione, il richiamo all’art. 36 della Costituzione non è pertinente. Infatti, come questa Corte ha ripetutamente affermato, la disposizione ora indicata riguarda soltanto l’area del rapporto di lavoro subordinato e, dunque, non si applica al rapporto di lavoro autonomo, nel cui ambito rientrano le prestazioni dei liberi professionisti espletate a seguito di apposito incarico (Cass., 1 settembre 2004, n. 17564; 26 maggio 2004, n. 10168; 23 marzo 2004, n. 5807; 25 ottobre 2003, n. 16059; 28 gennaio 2003, n. 1223; 26 febbraio 2002, n. 2861; 21 ottobre 2000, n. 13941).
Ciò posto, si osserva che le parti di un rapporto contrattuale ben possono prevedere, nell’esercizio dell’autonomia privata, che l’efficacia di un’obbligazione nascente dal contratto resti condizionata, in senso sospensivo o risolutivo, ad un evento futuro ed incerto (artt. 1322 — 1353 c. c.). Tale principio è applicabile in via generale anche alla convenzione con la quale un ente pubblico territoriale affidi ad un professionista l’incarico di provvedere alla redazione del progetto per la realizzazione di un’opera pubblica, in quanto tale atto non rientra nel novero dei negozi (c. d. actus legitimi o negozi puri) previsti dalla legge, cui non è consentito apporre condizioni o termini. Resta da stabilire se il detto principio debba trovare applicazione anche con riguardo alla specifica clausola contrattuale volta a condizionare il diritto al compenso, spettante al professionista, alla concessione del finanziamento necessario per la realizzazione dell’opera. Ed a tale quesito, ad avviso del collegio, va dato risposta affermativa.
Invero, nella disciplina delle professioni intellettuali il contratto costituisce la fonte principale per la determinazione del compenso, mentre la relativa tariffa rappresenta una fonte sussidiaria e suppletiva, alla quale è dato ricorrere, ai sensi dell’art. 2233 c. c., soltanto in assenza di pattuizioni al riguardo.
Pertanto le limitazioni al potere di autonomia delle parti e la prevalenza della liquidazione in base a tariffa possono derivare soltanto da leggi formali o da altri atti aventi forza di legge riguardanti gli ordinamenti professionali (v. Cass., 29 gennaio 2003, n. 1317; 23 maggio 2000, n. 6732; 9 ottobre 1998, n. 10064; 11 aprile 1996, n. 3401).
Il primato della fonte contrattuale impone di ritenere che il compenso spettante al professionista, ancorché elemento naturale del contratto di prestazione d’opera intellettuale, sia liberamente determinabile dalle parti e possa anche formare oggetto di rinuncia da parte del professionista, salva l’esistenza di specifiche norme proibitive che, limitando il potere di autonomia delle parti, rendano indisponibile il diritto al compenso per la prestazione professionale e vincolante la determinazione del compenso stesso in base a tariffe.
Si tratta allora di verificare se, nell’apposita normativa concernente le professioni di ingegnere ed architetto, sussistano norme siffatte.
Orbene, la disciplina, introdotta con I’articolo unico della legge 5 maggio 1976, n. 340, stabili I’inderogabilita dei minimi della tariffa professionale per gli ingegneri e gli architetti. L’art. 6, comma primo, della legge 1 luglio 1977, n. 404, dispose che il detto articolo unico doveva “intendersi applicabile esclusivamente ai rapporti intercorrenti tra privati”, disponendo poi nei commi successivi limiti ai compensi massimi per i casi d’incarichi di progettazione conferiti dallo Stato o da un altro ente pubblici a più professionisti per una stessa opera. Con l’art. del D. L. 2 marzo 1989, n. 65, convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 1989, n. 155, fu disposto che “per le prestazioni rese dai
professionisti allo Stato e agli altri enti pubblici relativamente alla realizzazione di opere pubbliche o comunque di interesse pubblico, il cui onere è in tutto o in parte a carico dello Stato e degli altri enti pubblici, la riduzione dei minimi di tariffa non può superare il 20%”.
Nel caso di specie, come risulta incontroverso, la convenzione con la quale all’ing. Ceciarini fu affidato l’incarico professionale de quo fu sottoscritta il 27 marzo 1987 (v. ricorso per cassazione, pag. 2), sicché gia per questo dato temporale il principio d’inderogabilita delle tariffe, a prescindere dalla sua interpretazione, non sarebbe invocabile, vertendosi in tema di negozio perfezionato prima del 1989, al quale quindi non sarebbe applicabile la normativa di cui alla sopravvenuta legge n. 155 del 1989. Ma, pur volendo trascurare il dato suddetto, si deve osservare, sul piano dell’interpretazione testuale, che nella normativa sopra citata manca una disposizione espressa diretta a sanzionare con la nullita eventuali clausole in deroga alle tariffe e, sul piano logico, che le norme sull’inderogabilita dei minimi tariffari sono contemplate non a tutela di un interesse generale della collettivita ma di un interesse di categoria, onde per una clausola che si discosti da tale principio non è configurabile — in difetto di un’espressa previsione normativa in tal senso — il ricorso alla sanzione della nullitd, dettata per tutelare la violazione d’interessi generali. Quel principio d’inderogabilita, invero, è diretto ad evitare che il professionista possa essere indotto a prestare la propria opera a condizioni lesive della dignita della professione (sicché la sua violazione, in determinate circostanze, può assumere rilievo sul piano disciplinare), ma non si traduce in una norma imperativa idonea a rendere invalida qualsiasi pattuizione in deroga, allorché questa sia stata valutata dalle parti nel quadro di una libera ponderazione dei rispettivi interessi.
Queste considerazioni risultano ancor più valide in fattispecie come quella in esame, in cui il diritto al compenso vantato dal professionista non forma oggetto di una rinunzia espressa già in sede di stipula del contratto col quale l’incarico professionale è affidato, ma con apposita clausola viene condizionato al finanziamento dell’opera, inserendosi quindi nel complessivo assetto d’interessi perseguito dalle parti col negozio posto in essere. In casi del genere, in realta, non può neppure affermarsi che le parti abbiano voluto un negozio a titolo gratuito. Il contratto d’opera professionale resta (normalmente) oneroso, ma in esso e introdotto per volonta dei contraenti un elemento ulteriore, cioè un evento che condiziona il pagamento del compenso al finanziamento dell’opera, in assenza del quale guest’ultima non puo essere eseguita.
Resta da dire (anche se la questione non risulta sollevata nella controversia in esame) che la detta clausola non è neppure configurabile come condizione meramente potestativa (in quanto tale nulla ai sensi dell’art. 1355 c. c.), perché la realizzazione dell’evento dedotto in condizione non è indifferente per nessuna delle due parti (onde non può dirsi dipendente dalla mera volontà di una di esse) e certamente risponde anche ad un interesse dell’ente pubblico. Né va trascurata la considerazione che, benché ai fini del finanziamento siano indispensabili atti d’iniziativa ad opera dell’ente pubblico richiedente, la sua concessione è un fatto che prescinde dalla volontà dell’ente, dipendendo anche da una serie di elementi esterni. La condizione de qua, dunque, va qualificata come condizione potestativa mista, la cui realizzazione è rimessa in parte alla volontà di uno dei contraenti ed in parte ad un apporto causale esterno (tra le più recenti: Cass., 28 luglio 2004, n. 14198; 22 aprile 2003, n. 6423; 21 luglio 2000, n. 9587; 20 luglio 1999, n. 7741).
Nei sensi ora esposti I’orientamento seguito dalla giurisprudenza maggioritaria deve trovare conferma.
Le differenti opzioni ermeneutiche seguite (con talune diversita di motivazione) dall’orientamento di minoranza non si rivelano convincenti.
Infatti, non persuade la tesi (seguita dalla sentenza n. 7538 del 2002) secondo cui, nei rapporti tra ente pubblico e professionista privato cui il primo abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica, sono validi gli accordi che prescindono dai limiti minimi stabiliti dalle tabelle, salvo comunque, ove sia certa la natura onerosa del rapporto, il diritto del professionista al pagamento di una somma a titolo di compenso, in quanto soltanto tale interpretazione consentirebbe di non snaturare la causa della prestazione, incidendo sul sinallagma contrattuale.
Infatti questa tesi, che pur riconosce la validità di accordi in deroga ai minimi stabiliti dalle tariffe, trascura di considerare che non può ravvisarsi violazione del rapporto sinallagmatico in una clausola liberamente pattuita che non incide sulla causa del contratto e tanto meno la nega, ma subordina l’efficacia di una obbligazione nascente da quel contratto ad un evento futuro e incerto, nell’esercizio di un’autonomia negoziale che, secondo la stesse sentenza, non trova ostacolo in imperative norme di legge.
E neppure appare persuasiva la tesi secondo la quale al professionista sarebbe consentita la prestazione gratuita della sua attività professionale per i motivi più vari (affectio, benevolentia, considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio), mentre al di fuori di queste ipotesi sarebbero nulli i patti in deroga ai minimi della tariffa professionale. Infatti, nel momento in cui si ammette la prestazione gratuita dell’attività professionale “per i motivi più vari” (e, quindi, si esclude il carattere cogente delle tariffe in guisa da rendere indisponibile il diritto al compenso), non si giustifica poi la previsione di nullità per altre ipotesi (a questo punto, necessariamente di carattere residuale, attesa l’ampiezza dei motivi ipotizzati come validi), se non ricorrendo ad una alterazione del carattere sinallagmatico del rapporto contrattuale, in coerenza con la tesi propugnata dalla sentenza n. 7538 del 23 maggio 2002 ma qui non condivisa per le ragioni sopra esposte.
Conclusivamente, a composizione del contrasto segnalato con l’ordinanza di rimessione, deve essere affermato il seguente principio di diritto:
“La clausola con cui, in una convenzione tra un ente pubblico territoriale e un ingegnere al quale il primo abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica, il pagamento del compenso per la prestazione resa e condizionata alla concessione di finanziamento per la realizzazione dell’opera, e valida in quanto non si pone in contrasto col principio d’inderogabilita dei minimi tariffari, previsto dalla legge 5 maggio 1976, n. 340, come interpretata autenticamente dall’art. 6, comma 1, della legge 1° luglio 1977, n. 404, normativa cui ha fatto seguito l’art. 12 bis del d. l. 2 marzo 1989, n. 65, convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 1989, n. 155.
Né tale clausola, espressione dell’autonomia negoziale delle parti, viene a snaturare la causa della prestazione, incidendo sul sinallagma contrattuale”.
Alla stregua di tale principio il primo motivo del ricorso deve essere respinto.
3. Va poi esaminato con priorita, per ragioni di ordine logico, il terzo motivo del detto ricorso.
Con esso — denunziando motivazione insufficiente e contraddittoria su punto decisivo della controversia prospettato dalla parte, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1358, 1359, 1375, 1175, c. c., violazione e falsa applicazione degli artt. 828, 829, 830 c. p. c. — il ricorrente censura la sentenza impugnata, sostenendo che essa avrebbe posto a base della pronuncia di annullamento del lodo (in fase rescindente) e di rigetto della domanda (in fase rescissoria) unicamente l’asserita inapplicabilita dell’art. 1359 c. c. alla condizione potestativa mista (che sarebbe stata affermata in due sentenze di questa Corte) e sull’estensione, operata dalla Corte di appello, della medesima ratio per escludere anche la responsabilita prevista dall’art. 1358 c.c
Tale convincimento sarebbe erroneo e contraddittorio, in quanto — secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte — l’applicabilità dell’art. 1359 c. c. resterebbe esclusa soltanto in caso di condizione potestativa semplice, mentre la norma andrebbe applicata in ipotesi di condizione potestativa mista.
Inoltre, anche le sentenze richiamate dalla Corte territoriale non autorizzerebbero ad estendere I’applicabilita dell’art. 1359 alla condizione potestativa mista.
Non sussistendo la nullita del lodo per errore di diritto, cioè per violazione dell’art. 1359 c. c., la Corte di appello non avrebbe avuto il potere di scendere all’esame del merito e di sindacare la decisione del collegio arbitrale.
Né il Comune potrebbe addurre che l’art. 1359 c. c. non sarebbe operante perché, come accertato dal detto collegio arbitrale, non sarebbe esistito un interesse dell’ente contrario ad ottenere il finanziamento. Invero al riguardo, col terzo motivo dell’impugnazione incidentale avverso il lodo (motivo totalmente ignorato, con conseguente omessa motivazione su punto decisivo)
L’ing. Ceciarini avrebbe osservato che I’interesse contrario all’avveramento poteva rivelarsi anche per fatti concludenti e sopravvenuti, nel caso in esame costituiti dalla volontà di assumere un mutuo di 904 milioni per la costruzione di una caserma o di privilegiare altre opere o fonti di finanziamento a totale carico dello Stato.
Tale interesse sopravvenuto sarebbe idoneo ad integrare l’interesse contrario all’avveramento previsto dall’art. 1359 c. c.
Agli effetti di tale norma né gli arbitri né la Corte distrettuale avrebbero esercitato il potere-dovere di identificare la parte che in concreto, violando gli obblighi di correttezza, con il suo comportamento colposo o doloso aveva contribuito a modificare l’iter attuativo del contratto.
Ma, pur volendo considerare legittima e motivata la ritenuta inapplicabilita, nella fattispecie, dell’art. 1359 c. c., resterebbe pur sempre illegittima la mancata applicazione dell’art. 1358 c. c. (che era poi la norma sulla quale il lodo arbitrale si era basato).
La Corte di merito non avrebbe ritenuto applicabile detta norma estendendo la ratio che l’aveva portata a considerare inoperante l’art. 1359 c. c., cioè ritenendo priva di conseguenze la violazione dell’obbligo di buona fede da parte del contraente a favore del quale è stabilita una condizione potestativa mista. In altri termini, come in base all’art. 1359 c. c. non sarebbe sanzionabile con la fictio iuris dell’avveramento del fatto la parte che non si attiva per l’attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista, la stessa parte non sarebbe sanzionabile per tale mancata attuazione con la responsabilità risarcitoria prevista dall’art. 1358 c. c.
Questa tesi sarebbe errata e contraria al disposto dell’art. 1358 c. c. e della normativa di correttezza dettata, in particolare, dagli artt. 1175 e 1375 c. c.
L’art. 1358 c. c. sancirebbe una particolare e specifica applicazione del generale principio di correttezza e buona fede in materia contrattuale, senza distinzione di tipo (esclusa la condizione meramente potestativa, che non conferisce all’altra parte alcuna aspettativa tutelabile o coercibile), la cui violazione darebbe luogo ad una responsabilità di tipo contrattuale. Invece l’art. 1359 c. c. presupporrebbe, da un lato, che uno dei contraenti abbia interesse contrario all’avveramento della clausola e, dall’altro, che la conseguenza del comportamento indebito non sia una responsabilità di natura risarcitoria bensì l’attuazione stessa del contratto, come se l’evento si fosse verificato. Non sarebbe dunque corretto, sul piano giuridico, sottoporre le due ipotesi alla identica disciplina, perché quella dettata dall’art. 1359 c. c. avrebbe carattere eccezionale, non suscettibile di applicazione analogica.
Inoltre gli arbitri avrebbero ravvisato a carico del Comune un vero e proprio obbligo, legale e contrattuale, di attivarsi per ottenere un finanziamento che non necessariamente avrebbe dovuto essere contratto con la Cassa DD. e PP., individuando la fonte di tale obbligo, oltre che nella convenzione, anche nella delibera in data 2 ottobre 1987, nella quale l’ente territoriale avrebbe esplicitato il proprio impegno a contrattare un mutuo con la detta Cassa oppure a ricorrere ad altre forme di finanziamento. Gli arbitri, poi, avrebbero dato conto degli elementi alla stregua dei quali l’ente non si sarebbe attivato allo scopo di ottenere il finanziamento per eseguire I’acquedotto progettato dal Ceciarini.
Il giudizio di responsabilita per violazione dell’obbligo di correttezza, di buona fede e di diligenza, espresso dal collegio arbitrale, non sarebbe stato in contrasto con i principi stabiliti dall’art. 1358 c. c. e non avrebbe potuto dar luogo a revisione alcuna nel merito da parte della Corte d’appello (tanto meno allo scopo di valutare la condotta diligente 0 meno del Comune nel richiedere il finanziamento), non sussistendo né errore di diritto né vizio del lodo.
Le suddette censure sono parzialmente fondate, sicché vanno accolte per quanto di ragione, ai sensi delle considerazioni che seguono.
Si deve premettere che, come emerge dall’esposizione dei fatti contenuta nel ricorso per cassazione (in particolare, v. pag. 3), ed anche nel controricorso (in particolare, v. pag. 3, punto 5), il collegio arbitrale ritenne “non configurabile la fattispecie di cui all’art. 1359 c. c. (stante l’interesse di entrambe le parti all’avveramento della condizione dell’avvenuto finanziamento dell’opera)”, cioè negò “che la condizione possa dirsi avverata ai sensi dell’art. 1359 c. c.” (controricorso, loc. cit.). Il lodo, quindi, escluse I’applicabilita dell’art. 1359 c.c., attinente all’avveramento della condizione per il comportamento della parte avente interesse contrario a tale avveramento, sicché il presunto errore di diritto individuato dalla Corte di appello con riguardo a tale norma in realta non sussiste.
L’attuale ricorrente, invece, ritiene la norma medesima applicabile alla fattispecie qdeu a, lamentando che la Corte territoriale abbia del tutto ignorato il terzo motivo dell’impugnazione incidentale avverso il lodo proposta dal medesimo Ceciarini e diretta a porre in evidenza gli elementi a suo avviso idonei a configurare un interesse (sopravvenuto) del Comune contrario all’avveramento della condizione.
La sentenza impugnata però non ha esaminato questo punto, ritenendolo assorbito sull’erroneo presupposto che gli arbitri avessero applicato l’art. 1359 c. c. e che anche ciò comportasse la nullità del lodo per errore di diritto. Ne deriva che, verificata l’erroneità di tale pronuncia, le censure mosse sul punto dall’attuale ricorrente, che postulano accertamenti di fatto (sul contenuto della clausola contenente la condizione nel contesto dell’intera convenzione, nonché sul comportamento delle parti) non compatibili col giudizio di legittimità, sono inammissibili in questa sede e restano affidate — per i profili di rito e di merito — al giudice del rinvio, se ed in quanto davanti al medesimo riproposte.
Restano da esaminare le censure imperniate sul disposto dell’art. 1358 c. c., che sono fondate nei sensi in prosieguo indicati.
La sentenza impugnata, con il solo riferimento alle massime estratte da due pronunzie di questa Corte (n. 10220 del 1996 e n. 11074 [ recte: 10074] del 1996), relative peraltro al solo art. 1359 c. c., ha escluso I”applicabilita alla fattispecie anche del detto art. 1358, pervenendo su tale base a dichiarare la nullita del lodo per asserito errore di diritto. Quest’ultima norma stabilisce, nello stato di pendenza della condizione, il dovere di ciascuna parte di comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte.
Come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, in tema di esecuzione del contratto la buona fede (in senso oggettivo) si atteggia come un impegno di cooperazione o un obbligo di solidarietà che impone a ciascun contraente di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali o dal dovere extracontrattuale del neminem laedere siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte senza
rappresentare un apprezzabile sacrificio (Cass., 20 aprile 1994, n. 3775). Si tratta di un principio generale che, ad avviso del collegio, deve trovare applicazione anche nel quadro dell’art. 1358 c. c., sia pure con le precisazioni che seguono.
La clausola negoziale in esame nella presente controversia, come già sopra si è notato, integra una condizione potestativa mista, tale essendo quella il cui avveramento dipende in parte dal caso o dalla volonta di terzi, in parte dalla volonta di uno dei contraenti (v. la giurisprudenza prima citata). E non si può dubitare che, nella specie, la concessione del finanziamento dipendesse in parte dall’iniziativa del Comune (contraente della convenzione d’incarico professionale) e in parte dalla volonta del soggetto o dei soggetti che dovevano erogare il detto finanziamento.
Nella giurisprudenza piu recente si ¢ manifestato un orientamento diretto ad affermare che il contratto sottoposto a condizione mista soggiace alla disciplina dell’art. 1358 c. c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione, con il limite che I’omissione di un’attivitd in tanto pud ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico (Cass., n. 14198 del 2004; n. 6423 del 2003).
Tuttavia la seconda delle sentenze citate aggiunge che un siffatto obbligo comunque non sarebbe configurabile per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo della condizione mista (richiamandosi alla precedente sentenza di questa Corte 5 gennaio 1983, n. 9; ma v. anche Cass. n. 10074 del 1996, richiamata nella pronuncia impugnata). La prima, invece, afferma la sussistenza del detto obbligo anche per il segmento non casuale della condizione mista in quanto gli obblighi di correttezza e di buona fede, che hanno la funzione di salvaguardare l’interesse della controparte alla prestazione dovuta e all’utilitd che essa assicura, impongono una serie di comportamenti che assumono la consistenza di “standards” integrativi dei principi generali e sono individuabili mediante un giudizio applicativo di norme elastiche (giudizio soggetto al controllo di legittimita al pari di ogni altro giudizio fondato su norme di legge).
Il collegio ritiene di dover condividere quest’ultimo orientamento, alla stregua delle considerazioni che seguono.
L’art. 1358 c. c. dispone che “colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte”. La norma s’inserisce nell’ambito applicativo della clausola generale della buona fede, operante nel diritto dei contratti sia in sede di trattative e di formazione del contratto medesimo (art. 1337 c. c.), sia in sede d’interpretazione (art. 1366 c. c. ), sia in sede di esecuzione (art. 1375 c. c.).
La fonte dell’obbligo giuridico qdeu o, dunque, si trova appunto nel citato art. 1358, che lo stabilisce al fine di “conservare integre le ragioni dell’altra parte” e dunque gli attribuisce un chiaro carattere doveroso. Né convince la tesi secondo cui tale obbligo andrebbe escluso per il profilo attuativo dell’elemento potestativo della condizione mista.
Invero, il principio di buona fede (intesa, questa, nel senso sopra chiarito come requisito della condotta) costituisce ad un tempo criterio di valutazione e limite anche del comportamento discrezionale del contraente dalla cui volontà dipende (in parte) l’avveramento della condizione. Tale comportamento non può essere considerato privo di ogni carattere doveroso, sia perché — se così fosse — finirebbe per risolversi in una forma di mero arbitrio, contrario al dettato dell’art. 1355 c. c., sia perché aderendo a tale indirizzo si verrebbe ad introdurre nel precetto dell’art. 1358 una restrizione che questo non prevede e che, anzi, condurrebbe ad un sostanziale svuotamento del contenuto della
norma, limitandolo all’elemento casuale della condizione mista, cioè ad un elemento sul quale la condotta della parte (la cui obbligazione è condizionata) ha ridotte possibilità d’incidenza, mentre la posizione giuridica dell’altra parte resterebbe in concreto priva di ogni tutela.
Invece è proprio l’elemento potestativo quello in relazione al quale il dovere di comportarsi secondo buona fede ha più ragion d’essere, perché è con riguardo a quell’elemento che la discrezionalità contrattualmente attribuita alla parte deve essere esercitata nel quadro del principio cardine di correttezza.
Si deve, perciò, affermare che il contratto sottoposto a condizione mista è soggetto alla disciplina dell’art. 1358 c. c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione. E’ vero che l’omissione di un’attività in tanto può costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, ma tale obbligo, in casi come quello in esame, discende direttamente dalla legge e, segnatamente, dall’art. 1358 c. c., che lo impone come requisito della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di un obbligo siffatto va riconosciuta anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista. Pertanto il giudice del merito deve procedere ad un penetrante esame della clausola recante la condizione e del comportamento delle parti, nel contesto del negozio in cui la clausola stessa è contenuta, al fine di verificare, alla stregua degli elementi probatori acquisiti, se corrispondano ad uno standard esigibile di buona fede le iniziative poste in essere al fine di ottenere il finanziamento.
Nel caso in esame in esame la sentenza impugnata non si è conformata ai suddetti principi, escludendo in radice l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 1358 c. c., peraltro con il mero richiamo a due massime estratte da altrettante sentenze di questa Corte, relative alla (non coincidente) ipotesi di cui all’art. 1359 c. c. Pertanto essa deve essere cassata, dovendosi far luogo a nuovo giudizio rescindente, restando quindi assorbitpere ché presuppongono la caducazione del lodo, le (insufficienti ed assertive) considerazioni attinenti alla fase rescissoria, e la causa va rinviata per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Firenze, che si uniformerà ai principi sopra enunciati e provvedera anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
Il secondo mezzo di cassazione, diretto a propugnare la tesi alla stregua delle quale la condizione, in realta, si sarebbe avverata nel quadro dello stesso regolamento contrattuale, in quanto il finanziamento sarebbe intervenuto, rimane a sua volta assorbito ed affidato al giudice del rinvio, se in quella sede riproposto.
P.Q.M.
La Corte suprema di cassazione, pronunziando a sezioni unite, rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie per quanto di ragione il terzo, dichiara assorbito il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte di appello di Firenze.
Cosi deciso in Roma, il 19 maggio 2005, nella camera di consiglio delle sezioni unite civili della Corte suprema di cassazione.
Il consigliere est.
Il Presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 05 giugno 2004, n. 10739, per SS.UU, 19 settembre 2005, n. 18450, in tema di compenso professionale
SS.UU, 19 settembre 2005, n. 18450, in tema di compenso professionale
In tema di responsabilità dell’amministratore – SS.UU, 12 ottobre 2011, n. 20941
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
Giurisdizione
e società
R . G . N . 21337/2010
Cron. 20941
Rep. CI
Ud. 27/09/2011
CC
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAOLO VITTORIA – Primo Pres.te f. f. –
Dott. FERNANDO LUPI – Presidente di Sezione –
Dott. MAURIZIO MASSERA – Consigliere –
Dott. RENATO RORDORF – Rel. Consigliere –
Dott. ALDO CECCHERINI – Consigliere –
Dott. ALFONSO AMATUCCI – Consigliere –
Dott. SALVATORE DI PALMA – Consigliere –
Dott. GIOVANNI AMOROSO – Consigliere –
Dott. STEFANO PETITTI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 21337-2010 proposto da:
DE CAPITANI STEFANO, elettivamente domiciliato in ROMA, V1A PACUVIO 34, presso lo studio dell’avvocato ROMANELLI GUIDO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FUSCO RENATO, per delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE REGIONALE PRESSO LA SEZIONE GIURISDIZIONALE DELLA CORTE DEI CONTI DEL FRIULI VENEZIA GIULIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BAIAMONTI 25;
– controricorrente –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 12855/2010 della CORTE dei CONTI per il FRIULI VENEZIA GIULIA;
udito l’avvocato Renato FUSCO;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/09/2011 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott. Maurizio VELARDI, il quale chiede che la Corte, in camera di consiglio, dichiari la giurisdizione del giudice ordinario.
Premesso in fatto che:
– il Procuratore regionale presso la Sezione della Corte dei conti della Regione Friuli Venezia Giulia ha citato in giudizio dinanzi a detta sezione il sig. Stefano De Capitani, amministratore delegato della INSIEL s.p.a., società partecipata interamente dalla regione, chìedendone la condanna al pagamento di euro 232.000;
– la domanda muove dal presupposto che, senza necessità alcuna e quindi illegittimamente, il sig. De Capitani, nella suindicata veste, ha stipulato con un proprio predecessore un contratto di consulenza per effetto del quale la società partecipata dalla regione ha dovuto erogare un ingiustificato corrispettivo subendo quindi un corrispondente danno;
– il sig. De Capitani ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, illustrato poi anche con memoria, sostenendo che la vertenza esula dalla competenza giurisdizionale della Corte dei conti; nel medesimo senso ha concluso anche il Procuratore generale.
Considerato in diritto che:
– si ritiene di dover dare continuità all’orientamento da ultimo manifestato dalle sezioni unite di questa corte nelle pronunce n. 14957/ 1 1, n. 14655/11, n. 16286/10, n. 8429/ 10, n. 519/10 e n. 26806/09, pur essendosi registrate anche alcune decisioni di segno parzialmente diverso (si vedano, ad esempio, le pronunce n. 10062/ 11 e n. 10063/11), che appaiono però giustificate dalla specificità delle singole fattispecie e che, comunque, non sembrano fondate su un compiuto riesame critico delle argomentazioni poste a base dell‘orientamento sopra richiamato;
– in particolare, appare decisivo il rilievo secondo cui, quando l’amministrazione per l’espletamento di propri compiti istituzionali si avvale di società di diritto privato da essa partecipate, l’esistenza di un rapporto di servizio idoneo a fondare la giurisdizione del giudice contabile può essere configurata in capo alla società, ma non anche personalmente in capo ai soggetti (organi o dipendenti) della stessa, essendo questa dotata di autonoma personalità giuridica;
– del pari non sembra superabile il rilievo secondo cui, sempre per effetto della distinta personalità di cui la società è dotata e della sua conseguente autonomia patrimoniale rispetto ai propri soci (e, quindi, rispetto all’ente pubblico partecipante), i danni eventualmente ad essa cagionati dalla mala gestio degli organi sociali o comunque da atti illeciti imputabili a tali organi o a dipendenti non integrano gli estremi del cosiddetto danno erariale, in quanto si risolvono in un pregiudizio gravante sul patrimonio della società, che è un ente soggetto alle regole del diritto privato, e non su quello del socio pubblico;
– la circostanza che l’ente pubblico partecipante possa tuttavia risentire del danno inferto al patrimonio della società partecipata, quando esso sia tale da incidere sul valore o sulla redditività della partecipazione, può eventualmente legittimare un‘azione di responsabilità della procura contabile nei confronti di chi, essendo incaricato di gestire tale partecipazione, non abbia esercitato i poteri ed i diritti sociali spettanti al socio pubblico al fine d’indirizzare correttamente l’azione degli organi sociali o di reagire opportunamente agli illeciti da questi ultimi perpetrati, ma non consente di saltare a pie’ pari la distinzione tra patrimonio della società e patrimonio dell’ente partecipante né, quindi, di investire la Corte dei conti con un‘azione di responsabilità per danno erariale quando il danno dedotto si riferisce al patrimonio sociale e non direttamente a quello del socio pubblico;
– nel caso di specie, pertanto, non appaiono ravvisabili i presupposti per affermare la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti, trattandosi di una controversia per risarcimento del danno subito da una società per a2ioni, partecipata da un ente pubblico ma operante in regime di diritto privato, in conseguenza di atti di mala gestio imputati al suo amministratore.
P.q.m.
La corte, pronunciando sul ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice ordinario.
Cosi deciso, in Roma, il 27 settembre 2011
Il Presidente
Allegati:
SS.UU, 12 ottobre 2011, n. 20941, in tema di responsabilità dell’amministratore
In tema di responsabilità dell’amministratore – SS.UU, 12 ottobre 2011, n. 20940
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
Giurisdizione
e società
R . G . N . 1644/2011
Cron. 20340
Rep. 8564
Ud. 27/09/2011
PU
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAOLO VITTORIA – Primo Pres.te f. f. –
Dott. FERNANDO LUPI – Presidente di Sezione –
Dott. MAURIZIO MASSERA – Consigliere –
Dott. RENATO RORDORF – Rel. Consigliere –
Dott. ALDO CECCHERINI – Consigliere –
Dott. ALFONSO AMATUCCI – Consigliere –
Dott. SALVATORE DI PALMA – Consigliere –
Dott. GIOVANNI AMOROSO – Consigliere –
Dott. STEFANO PETITTI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 1644-2011 proposto da:
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE DEI CONTI, elettivamente domiciliato in ROMA, VTA BAIAMONTI 25;
– ricorrente –
contro
PULEO GIOVANNI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIA COLONEA,32, presso lo studio dell’avvocato BONACCORSI DI PATTI DOMENICO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato STAGNO D’ALCONTRES ALBERTO, per delega in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 201/2010 della CORTE CONTI – Sezione Giurisdizionale d’Appello per la regione SICILIA – PALERMO, depositata il 30/07/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/09/2011 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;
udito l’Avvocato Domenico BONACCORSI DI PATTI;
udito iI P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. RAFFAELE CENICCOLA, che ha concluso per la giurisdizione della Corte dei conti.
Svolgimento del processo
Con atto depositato il 19 gennaio 2009 il Procuratore regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana citò in giudizio dinanzi a detta sezione il sig. Giovanni Puleo riferendo che, a seguito di una convenzione stipulata dal competente assessorato regionale con il locale comitato della Croce Rossa italiana (in prosieguo indicata come CRI), quest’ultima aveva affidato il servizio di trasporto sanitario d‘urgenza ad una società interamente partecipata dalla stessa CRI, denominata Siciliana Servizi Emergenza s.p.a. (in prosieguo SISE). Il sig. Puleo, col voto espresso nell‘assemblea della SISE in veste di rappresentante della socia unica CRI, aveva determinato l’attribuzione dell‘incarico di revisore contabile di detta società ad un soggetto privo dei requisiti di eleggibilità prescritti dagli artt. 2399 e 2409-quinquies c.c. Pertanto, il Procuratore regionale chiese che il medesimo sig. Puleo fosse condannato, in faVore della Regione Sicilia o, in subordine, della SISE, al risarcimento del danno, commisurato agli emolumenti indebitamente corrisposti al revisore ineleggibile.
L’adita sezione regionale accolse la domanda proposta in Via subordinata e condannò il convenuto a risarcire il danno subito dalla SISE, liquidato in euro 22.009,43.
Chiamata a pronunciarsi sulI’impugnazione principale, proposta dal sig. Puleo, e su quella incidentale, proposta dal procuratore generale, la Sezione g iurisdizionale d’appello della Corte dei conti presso la Regione Siciliana dichiarò il proprio difetto di giurisdizione, osservando che non risultava alcun rapporto di servizio direttamente intercorso tra la Regione e la SISE, società di diritto privato danneggiata daII’operato del sig. Puleo, onde l’azione risarcitoria avrebbe dovuto essere promossa dinanzi al giudice ordinario.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il Procuratore generale presso la Corte dei conti, chiedendo che sia affermata la competenza giurisdizionale del giudice contabile.
Il sig. Puleo ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Il Procuratore geneFale presso la Corte dei conti censura l’impugnata sentenza per violazione dell‘art. 1 della legge n. 20 del 1994, in relazione all‘art. 103, secondo comma, cost.
Egli muove dal presupposto che risulti irrilevante, ai fini del riparto di giurisdizione, discutere se il soggetto danneggiato dalI’iIIegittimo comportamento del sig. Puleo sia la Regione, da cui provengono i fondi pubblici occorrenti per la copertura finanziaria del servizio di trasporto sanitario d’urgenza gestito dalla CRI attraverso la partecipata SISE, oppure se sia stata quest’ultima ad essere danneggiata dalla nomina di un revisore ineleggibile. Essendo il capitale di detta società interamente in mano al socio pubblico CRI, è infatti pur sempre denaro pubblico quello che è stato mal speso per remunerare il summenzionato revisore. Insiste poi il ricorrente nel sostenere che tra l’ente regionale e la SISE, per il tramite della CRI, intercorse un rapporto di servizio, ravvisabile in ogni ipotesi di relazione funzionale tra la pubblica amministrazione ed il soggetto privato al quale siano stati affidati compiti istituzionali facenti capo all‘amministrazione medesima, della quale la SISE costituirebbe un ente strumentale, o organo indiretto, essendo sovvenzionata e controllata dalla Regione Siciliana. Né potrebbe sostenersi che il rapporto di servizio fa capo alla società, ma non al sig. Puleo, dovendosi in contrario ritenere che I‘instaurazione di un tale rapporto si verifichi con chiunque, in seno alla società, ponga in essere i presupposti per la distrazione del denaro pubblico dal fine per cui è stato erogato. Del resto, il sig. Puleo — osserva ancora il ricorrente – era un dipendente dell’ente pubblico CRI ed in tale veste ha partecipato all‘assemblea della società partecipata, determinandone col proprio voto l’esito illegittimo, sicché la giurisdizione della Corte dei conti troverebbe qui fondamento pure nella previsione del quarto comma del citato art. 1 della Iegge n. 20/94, che tale giurisdizione estende alla responsabilità per i danni cagionati dal dipendente anche ad amministrazioni o ad enti diversi da quelli di appartenenza.
2. Le sezioni unite sono intervenute ripetutamente, negli ultimi anni, sul tema del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice contabile nelle controversie aventi ad oggetto la responsabilità di organi o dipendenti di società a partecipazione pubblica.
Il tema è stato particolarmente approfondito nella sentenza del 19 dicembre 2009, n. 26806, la quale ha affermato che spetta al giudice ordinario la giurisdizione sull‘azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amminìstratori o dei dipendenti, non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo aIl‘autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l’agente e l’ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti. La giurisdizione di quest‘ultima sussiste, invece, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti di dette società i cui comportamenti abbiano compromesso la ragione stessa della partecipazione sociale dell‘ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l’impiego di risorse pubbliche, così da arrecare pregiudizio al patrimonio del socio pubblico direttamente e non come mero riflesso del danno al patrimonio sociale; e sussiste altresì, nei confronti del Fappresentante dell‘ente partecipante (o comunque del titolare del potere dì decidere per esso) che abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione.
Tale orientamento è stato poi seguito dalla prevalente giurisprudenza (si vedano, tra le altre, le pronunce delle sezioni unite n. 14957/11, n. 14655/1 1, n. 16286/10, n. 8429/10, e n. 519/ 10), pur essendosi registrate anche alcune decisioni di segno parzialmente diverso (ad esempio, le pronunce n. 10062/11 e n. 10063/1 1), che appaiono però giustificate dalla specificità delle singole fattispecie e che, comunque, non sembrano fondate su un compiuto riesame critico delle argomentazioni poste a base dell’orientamento sopra richiamato.
A siffatto orientamento giova fare riferimento anche nel caso in esame, poiché neppure i rilievi contenuti nel ricorso valgono a porne in discussione i presupposti logici e giuridici, essenzialmente fondati sulla non superabile dìstinzione della personalità giuridica della società partecipata tanto da quella del socio partecipante, che dunque non è il diretto titolare del patrimonio sociale e non è perciò direttamente danneggiato dal pregiudizio eventualmente arrecato a detto patrimonio, quanto da quella degli organi e dei dipendenti della società medesima, ai quali quindi non si estende automaticamente il rapporto di servizio che sotto il profilo funzionale lega la società alla pubblica amministrazione.
2.1. Ciò posto, e venendo alla vicenda in esame, giova sottolineare che qui l’azione di responsabilità è stata esercitata dalla procura contabile non già nei confronti di un organo o di un dipendente della società per azioni partecipata dalla CRI, bensì nei confronti di colui il quale aveva rappresentato la medesima CRI nell‘assemblea di detta società, determinando col proprio voto la nomina illegittima di un revisore contabile, con un conseguente ingiustificato pregiudizio per il patrimonio sociale.
L’individuazione del rapporto di servizio, quale presupposto della giurisdizione del giudice contabile, si pone quindi in termini diversi da quelli che ricorrono in caso di azione esercitata nei confronti di organi sociali accusati di mala gestio. Il soggetto passivo dell’azione in esame è, infatti, pacificamente un dipendente della CRI, o comunque un incaricato da essa di svolgere una funzione inerente ai suoi compiti istituzionali. Non occorre perciò ipotizzare che il rapporto di servizio facente capo al sig. Puleo sia mediato da quello che funzionalmente lega alla pubblica amministrazione o ad altro ente pubblico la società cui è stata demandata la gestione del serViziO di trasporto sanitario d’emergenza, esponendosi così però alI‘obiezione che un siffatto rapporto, per le ragioni già sopra dette, non potrebbe trasferirsi in capo agli amministratori della società e, tanto meno, ai soci o a chi li rappresenta in assemblea. Il rapporto di servizio discende qui invece, in modo immediato e diretto, dalla circostanza che il medesimo sig. Puleo era inquadrato nel personale della CRI e che questa ha statuto di ente pubblico (non economico).
Appare perciò indiscutibile che il dipendente ben possa esser c:hiamato a rispondere dinanzi al giudice contabile del danno eventualmente cagionato nell‘esercizio delle proprie mansioni.
2.2. L‘attenzione va spostata, allora, proprio sull‘elemento del danno, per esaminare il quale si rende però necessaria una premessa.
Nell‘esercitare l’azione di responsabilità di cui si discute, il procuratore contabile ha formulato due domande: la prima, proposta in via principale, mirava al risarcimento del danno subito dalla Regione Siciliana; la seconda, subordinata, aveva invece riguardo al danno patito dalla società SISE. Essendosi concluso il giudizio di primo grado con l’accoglimento della domanda subordinata ed avendo il sig. Puleo proposto appello, il medesimo procuratore ha formulato a propria volta un gravame incidentale insistendo perché la condanna al risarcimento deì danni fosse pronunciata in favore dell’amministrazione regionale. La Sezione giurisdizionale d’appello, nella motivazione della sentenza in questa sede impugnata, ha prima ipotizzato l’inammissibilità di tale gravame incidentale, per difetto del requisito della soccombenza (sentenza cit., pag. 9), ma ha poi proceduto ugualmente ad esaminare la domanda di risarcimento per il danno subito dalla Fegione, distintamente dalla domanda di risarcimento del danno in favore della SISE, concludendo per il proprio difetto di giurisdizione al riguardo (sentenza cit., pag. 12), ed il dispositivo registra unicamente quest‘ultima statuizione. Sembra potersene desumere che l’ipotizzata inammissibilità del gravame incidentale per difetto di soccombenza abbia avuto, nell’econc›mia della decisione d’appello, il valore di un mero obiter dictum, poiché non si comprenderebbe altrimenti la ragione dell‘esame della questione di giurisdizione negli ampi termini sopra riferiti, né il fatto che solo la declinatoria della giurisdizione abbia poi trovato spazio nel dispositivo.
Il tema della giurisdizione va quindi esaminato avendo riguardo all’intera estensione delle domande originariamente proposte.
2.21. S’è detto sopra che non compete al giudice contabile di pronunciarsi su un danno inferto al patrimonio di una società per azioni, che resta un soggetto di diritto privato pur quando sia partecif›ata da un ente pubblico. Fa eccezione l’ipotesi in cui si tratti di una società di diritto speciale, soggetta ad un regime normativo che, al di là della veste esteriore di società azionaria, valga ad assimilarla ad un vero e proprio ente pubblico (come nel caso della RAI: cfr. Sez. un. n. 27092 del 2009). Ma un tale regime speciale non si ravvisa, quanto alla SISE, che è interamente regolata dalla Iegge comune; né giova richiamarsi in proposito ai finanziamenti erogati in favore di detta società dalla Regione Siciliana ed ai controlli da quest’ultima esercitati: poiché ciò si colloca su un piano meramente convenzionale, che non è idoneo ad incidere sulla natura giuridica privata dell‘ente, così come non vi incide la circostanza che il suo azionariato sia costituito da un unico socio pubblico, nulla ovviamente escludendo che possa formarsi in avvenire una compagine sociale più ampia e diversamente composta, senza che ne risultino modificate la struttura e la natura giuridica della società.
La conseguenza è che, in base ai principi già dianzi richiamati, deve essere certamente esclusa la giurisdizione contabile in ordine all’azione proposta per il ristoro del danno subito dal patrimonio della SISE, società per azioni di diritto privato, in conseguenza del voto espresso in assemblea dal rappresentante del socio pubblico CRI.
2.2.2. L‘azione, come s’è detto, è stata però proposta anche facendo riferimento al danno subito dal medesimo socio pubblico, la CRI, e da questo traslato a carico dell’amministrazione regionale. Ovviamente, lo stabilire se siffatta prospettazione sia o meno fondata attiene al merito, ed esula perciò dal presente giudizio di legittimità, circoscritto al tema della Proprio in punto di giurisdizione va allora richiamata una considerazione già espressa dalle sezioni unite nella citata sentenza n. 26806 del 2009, ove è stato posto bene in luce come sia certamente prospettabile l‘esercizio dell‘azione risarcitoria dinanzi al giudice contabile nei confronti del rappresentante dell‘ente, titolare di una partecipazione in una società di capita li, il quale abbia colpevolmente trdscurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione. In quella sentenza quest‘argomentazione – specificamente riferita all’ipotesi del mancato esercizio dei poteri del socio nel proporre egli stesso l’azione sociale di responsabilità contro gli organi sociali — aveVa essenzialmente lo scopo di rafforzare la conclusione negativa in ordine alla giurisdizione contabile riferita al ristoro del danno subito dalla società, servendo a dimostrare che detta conclusione non provoca un‘illogica lacuna nella tutela dell’interesse pubblico. Qui, invece, la medesima argomentazione assume una valenza decisiva, perché proprio di questo si tratta: del rappresentante del socio pubblico accusato di aver esercitato i diritti e le facoltà inerenti alla partecipazione sociale in modo non conforme al dovere di diligente cura del valore di tale partecipazione, che si sostiene esserne stata perciò pregiudicata. Entro questi limìti, sussiste quindi la giurisdizione contabile e l’impugnata sentenza deve essere perciò cassata, con rinvio alla Sezione giurisdizionale d’appello della Regione siciliana (in diversa composizione), che procederà ad esaminare nel merito la sola domanda di risarcimento dei danni asseritamente provocati dal sig. Puleo alla Regione Sicilia col comportamento da lui tenuto, quale rappresentante della Croce Rossa Italiana, nell’assemblea della società da quest‘ultima partecipata.
P.Q.M.
La corte, pronunciando a sezioni unite, accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, dichiara la giurisdizione della Corte dei conti limitatamente alla domanda di risarcimento dei danni asseritamente provocati dal sig. Puleo alla Regione Sicilia col comportamento da lui tenuto, quale rappresentante della Croce Rossa Italiana, nell’assemblea della società Siciliana Servizi Emergenza s.p.a., cassa l’impugnata sentenza in relazione al profilo di censura accolto e rinvia la causa alla Sezione giurisdizionale d’appello della Regione siciliana
Così deciso, in Roma, il 27 settembre 2011.
L’estensore
(Renato Rordorf)
Il presidente
(Paolo Vittoria)
Allegati:
SS.UU, 12 ottobre 2011, n. 20940, in tema di responsabilità dell’amministratore
In tema di patto commissorio – SS.UU, 03 aprile 1989, n. 1611
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
R . G . N . 944/85
Cron. 5582
Rep. 626
Ud. 17.12.88
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Antonio BRANCACCIO – Primo Presidente –
Dott. Andrea Vela – Pres. di Sez. –
Dott. Vittorio NOVELLI – Pres. di Sez. –
Dott. Vincenzo DI CIO’ – Consigliere –
Dott. Onofrio FANELLI – Consigliere –
Dott. Romano PANZARANI – Consigliere –
Dott. Nicola LIPARI – Consigliere –
Dott. Antonio SENSALE – Consigliere –
Dott. Enzo MERIGGIOLA – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 944/85, del R.G.AA.CC. proposto
da
LODIGIANI IDA, elettivamente domiciliata in Roma, presso la Cancelleria Civile della Corte Suprema di Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avv.Giovanni Bertora, giusta delega a margine del ricorso
RICORRENTE
CONTRO
BERZIGA AURELIO elattivamente domiciliato in Roma, via della Giuliana n. 73/6 presso lo studio dell’Avv. Aldo Spezzaferri, che lo rappresenta e difende unitamente all’Avv. Tito Costa, giusta delega a margine del ricorso
CONTRORICORRENTE
Avverso la sentenza della Corte d’ appello di Bologna depositata il 16.10 1984;
Udita nella pubblica udienza, tenutasi il giorno 17 dicembre 1988, la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Meriggiola;
Udito l’Avv. Bertora;
Udito il Pubblico Ministero, nella persona del Dr. Elio Amatucci, Avvocato Generale presso la Corte Suprema di Cassazione, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il 26 aprile 1980 Berziga Aurelio conveniva dinanzi al Tribunale di Parma Lodigiani Ida, deducendo che nel 1971, essendo debitore nei confronti della convenuta per L. 11.250.000, aveva stipulato con la stessa un atto di vendita simulato di un appartamento di sua proprietà, avente la funzione di garantire il pagamento del debito.
In virtù di tale accordo aveva continuato a godere del bene percependo i canoni di locazione, ma poi, pur avendo estinto il debito, la Lodigiani non aveva acconsentito a ritrasferirgli l’immobile.
Per tali ragioni chiedeva che il Tribunale, accertata la dedotta simulazione, condannasse la convenuta ad un congruo risarcimento del danno, in via subordinata alla restituzione delle somme corrisposte, per indebito arricchimento.
Il Tribunale con sentenza I° marzo 1983 respingeva la domanda; successivo 6 ottobre 1984 la Corte d’Appello di Bologna, giudicando sull’impugnazione del Berziga, dichiarava la nullità del contratto. La sentenza rilevava che l’atto notarile, dato atto della esistenza del debito contratto dal Berziga, prevedeva esplicitamente il suo progressivo scomputo con versamenti rateali, nonchè il diritto del debitore di riscattare l’appartamento e venderlo a terzi entro due anni dalla estinzione del mutuo, oltre al corrispondente diritto del creditore di conservare la proprietà in caso di inadempimento totale e parziale. in virtù di tale accordo aveva continuato a godere del bene percependo i canoni di locazione ma poi pur avendo estinto il debito la lodigiani non aveva acconsentito al dell’immobile eh appunto per tali ragioni chiedeva il tribunale accertata la dedotta simulazione condannasse la convenuta ad un congruo risarcimento del danno in via subordinata la restituzione delle somme corrisposte per indebito arricchimento punto il tribunale con sentenza 1 marzo 1983 respingeva la domanda il successivo 6 ottobre 1984 la Corte d’appello di Bologna giudicando l’impugnazione del berzin di gara dichiarava la nullità del contratto. La sentenza rilevava che l’atto notarile dato atto della esistenza del debito contratto dal borzaga prevedeva esplicitamente il suo progressivo scomputo con versamenti rateali nonché il diritto del debitore di riscattare l’appartamento e venderlo a terzi entro due anni l’estinzione del mutuo oltre al corrispondente diritto del creditore di conservare la proprietà in caso di di riempimento totale o parziale.
Tali circostanze dimostravano l’intento di vincolare il bene a garanzia del debito, sì che la volontà espressa, rispettivamente di acquistare e vendere appariva “subordinata e strumentale” rispetto alla finalità perseguita; in altri termini si era trattato di una vendita effettiva con patto di riscatto o comunque sottoposta a condizione risolutiva con funzione di garanzia reale a favore del creditore, da servire come “paravento” a un patto commissorio occulto, da realizzare attraverso un procedimento indiretto, cioè il ricorso a fattispecie negoziale tipica, quindi lecita, fine questo irraggiungibile con un negozio diretto stante il divieto del patto commissorio.
Tale figura negoziale, peraltro, in quanto dissimulava uno scopo di garanzia mediante cessione di beni; pur non integrando un procedimento simulatorio conteneva una causa illecita, in quanto diretta a frodare la legge, come tale da ritenere nulla.
Le parti, infatti, avevano disposto in essere una figura negoziale tipica; in contrasto con la loro effettiva volontà, la cui nullità discendeva dagli arti. 1344 e 1418 cod. civ., costituente il mezzo per eludere il divieto posto da una norma imperativa, rivelando tal modo l’illiceità della sua causa.
Le parti, precisava la sentenza, avevano regolato i loro rapporti anche con una scrittura la quale, pur contenendo un ridimensionamento del prezzo, regolamentava la modalità di pagamento del debito e di retrocessione del bene, da effettuarsi entro due anni dall’estinzione del mutuo, senza evidenziare una volontà contraria all’effettiva cessione del bene, confermata da un esplicito richiamo all’atto pubblico e alla ripetuta previsione di un obbligo di retrocessione, implicante logicamente una precedente effettiva volontà di cessione.
L’attore, invero, non aveva avanzato un’esplicita domanda di accertamento della nullità, essendosi limitato a dedurre la simulazione e la dichiarazione del diritto a conservare la proprietà dell’appartamento, ma la nullità poteva essere dichiarata, sia perché questa è rivelabile d’ufficio ai sensi dell’art. 1421 cod. civ., sia perché la complessiva valutazione del contenuto dell’atto introduttivo del giudizio e delle istanze successive consentiva di ritenere che il Berziga, almeno in via alternativa con l’azione di simulazione, avesse certamente inteso aspettare una richiesta di accertamento di nullità del contratto.
Contro la sentenza la Lodigiani ha proposto ricorso deducendo tre censure, il cui fondamento viene contestato dal Berziga nel controricorso.
Motivi della decisione
Va preliminarmente preso in esame il terzo motivo attinente a questione pregiudiziale, con cui viene dedotta la violazione degli artt. 99 e 345 c.p.c., 1421 cod. civ. sul rilievo che, pur essendosi limitato il Berziga a chiedere l’accertamento della simulazione, la Corte di Bologna, invece di rigettare la domanda, come avrebbe dovuto, essendo mancata la prova della simulazione, ha dichiarato la nullità dell’atto di trasferimento e della scrittura integrativa, senza considerare che la nullità può esser dichiarata quando venga chiesta l’esecuzione del contratto, non anche quando si agisca per la risoluzione, la rescissione o l’annullamento.
E nella specie la Lodigiani, ben lungi dal chiedere l’esecuzione, aveva concluso in primo e secondo grado soltanto per la pronuncia di inefficacia del negozio per simulazione. Né la domanda proposta consentiva di rilevare d’ufficio la nullità, non avendo l’attore mai dedotto tale vizio.
Sulle deduzioni così sintetizzate, va considerato che per costante indirizzo di questa Corte, ora da confermare, il giudice può dichiarare la nullità di un contratto, ai sensi dell’art. 1421 cod. civ., anche nell’ipotesi in cui non sia stata richiesta in termini espliciti, ogni volta che da una globale e illogica interpretazione della domanda emerga la volontà di vedersi riconosciuta la invalidità del rapporto contrattuale dedotto in giudizio, oppure nell’ipotesi in cui siano stati richiesti l’applicazione del contratto o il riconoscimento di diritti ad esso connessi.
Poiché in tali casi il giudice è tenuto a riscontrare gli elementi costitutivi dell’azione esperita, la nullità va necessariamente dichiarata, ponendosi essa effetto dell’accertamento negativo operato sulla pretesa fatta valere in base al contratto.
La rilevabilità d’ufficio di conseguenza, proprio perché risulta dall’esame degli elementi costitutivi, va coordinata con i principi della domanda e della disponibilità, non potendo il giudice prospettarsi questioni giuridiche e presupponente indagini per le quali le parti non abbiano fornito sufficienti elementi (cf.r anche di recente Cass. N° 5958 del 1985; N° 457 del 1986; N° 1903, 4469 e 6480 del 1987).
Nella specie, la Corte di merito ha accertato che l’attore, dopo aver compiuto nella domanda una puntuale descrizione dei fatti (compravendita con funzione di garantire il credito e patto di retrocessione non osservato dall’acquirente), nelle conclusioni, oltre alla declaratoria di simulazione, ha chiesto il riconoscimento della proprietà “piena ed esclusiva” sull’immobile, precisazione questa puntualmente ripetuta, in secondo grado.
Il convenuto per contro, resistendo alla pretesa attrice, ha sostenuto la validità del negozio, avanzando persino, in via riconvenzionale, domanda di completa attuazione degli accordi con la cessione del garage sottostante l’appartamento.
La controversia, quindi, ha essenzialmente riguardato l’esecuzione del contratto, essendosi da una parte richiesto di negare ogni suo possibile effetto, dall’altra di dare ad esso esecuzione, e la Corte, vagliata la vicenda dedotta tutti i suoi aspetti, ha correttamente ritenuto di non potersi esimere dal rispondere con una dichiarazione di nullità, come effetto dell’accertamento negativo compiuto.
Con la prima doglianza del ricorso, la Lodigiani assume che la Corte di merito ha violato gli artt. 2744 e 1500 cod. civ., per omessa e contraddittoria motivazione nel ritenere la sussistenza, ancorché dissimulata, del patto commissorio senza considerare che la l’art. 2744 cod. civ. commina la nullità, ogni volta che risulti l’intento primario delle parti di costituire una garanzia in funzione del mutuo ed in relazione alla irrevocabilità del trasferimento per l’ipotesi di inadempienza del venditore mutuatario, sì da stabilire un nesso teleologico e strumentale fra i due negozi di compravendita e mutuo.
In tali ipotesi infatti si ha una dissimulazione del patto commissorio in quanto si persegue l’intento primario di far conseguire al creditore la restituzione del danaro.
La scrittura privata invece, compilata a parte ad integrazione dell’atto, esplicitamente dichiarava che riacquisto del bene era soltanto una facoltà del venditore, il quale dopo il trasferimento dell’immobile non sarebbe più rimasto obbligato a restituire il danaro ricevuto, salvo l’importo eccedente il valore del bene, definito debito residuo.
Di conseguenza, se non sussisteva l’obbligazione di restituire, né intento primario di garantire la restituzione del danaro, non si poteva parlare di inadempimento, anche a voler aderire ai principii affermati dalla Corte di merito.
La secondo censura-violazione degli artt. 1344 e 1418 cod. civ. aggiunge che, ammessa l’esistenza di una normale vendita con patto di riscatto non integrante un patto commissorio, la tesi del contratto in frode alla legge non può trovare alcun fondamento, dato che il negozio non ha costituito il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa, bensì per perseguire un lecito regolamento di interessi.
Le argomentazioni addotte con tali motivi, da valutare nel loro insieme in considerazione della loro stretta connessione, ripropongono la controversia questione della validità della vendita fiduciaria a scopo di garanzia, accompagnata dal patto di riscatto o di retrovendita da tempo oggetto di dispute in dottrina e giurisprudenza, essendosi posto il problema della sua assimilabilità al patto commissorio, nullo ai sensi dell’art. 2744 cod. civ..
Come è noto il divieto di tale patto già comminato nel diritto romano della decadenza, venne previsto nel diritto comune degli ordinamenti giuridici del medio evo, alcuni dei quali introdussero addirittura specifiche forme di rimedio a favore della parte indotta a sottoscriverlo, una volta accertata l’esistenza di uno squilibrio patrimoniale.
Il codice civile del 1865 ne sancì la nullità nelle sole ipotesi di dazione di pegno ed anticresi, mentre l’art. 2744 del nuovo codice ha esteso la nullità al patto commissorio aggiunto alla costituzione di ipoteca, con dizione che ad avviso della dottrina e della giurisprudenza giustifica l’estensione del divieto a qualunque negozio, mediante il quale le parti intendano realizzare il fine vietato dalla legge, anche al di fuori dell’anticresi o della dazione di pegno od ipoteca (v. in particolare Cass. N° 282 del 1974 e 2544 del 1984).
Per lungo tempo, in conformità di una tradizionale tesi che traeva origine dagli ordinamenti medievali, venne costantemente ritenuta la legittimità di una vendita stipulata fiduciae causa, quando vi fosse reale trasferimento di proprietà accompagnato dal patto, funzionante da condizione risolutiva, che il bene dovesse ritornare al debitore-venditore con l’esercizio del diritto di riscatto o di retrovendita, una volta estinto il debito nel termine convento.
In altri termini si assumeva la liceità del negozio diretto a realizzare un trasferimento effettivo ed immediato, contrapponendolo all’ipotesi in cui le parti; nel concludere il negozio, fossero in realtà d’accordo nel far sorgere implicitamente o con esplicita dichiarazione una situazione corrispondente alla vendita sotto condizione sospensiva, con la conseguenza che il negozio, così veniva precisato, adempie anche alla funzione dell’ipoteca con patto commissorio ed è nullo ai sensi dell’art. 2744 cod. civ. (cfr. in particolare tra le altre Cass. N° 1004 del 1962, N° 264 e 2869 del 1968, N° 2498 del 1974, N° 5967 del 1978, N° 642 del 1980).
In epoca più recente, la terza sezione di questa Corte, nel riesaminare con sentenza N° 3800 del 1983, nel loro insieme, le ipotesi di vendita con effetti traslativi immediati, accompagnata da patto di riscatto o sottoposta a condizione risolutiva, ovvero con pactum de retrovedendo o de retroemendo, se stipulata allo scopo di costituire una garanzia reale a favore del creditore, ha rilevato che tali convenzioni sono in realtà permeate dall’intento primario delle parti di vincolare il bene a garanzia del mutuo, al pari della vendita sottoposta a condizione sospensiva.
La volontà delle parti infatti, ancorché formalmente diretta al conseguimento del bene, è subordinata alla finalità di costituire una garanzia, con la conseguenza che appare ingiustificato sottoporre le diverse fattispecie negoziali a differenti discipline, pur avendo in comune l’identica causa e siano strutturate in modo da produrre gli stessi effetti dato che in ogni caso il trasferimento della proprietà viene nella realtà condizionato all’inadempienza del debitore.
L’identità dei situazioni concrete poste in essere, puntualizzava la detta decisione, rende irrilevante l’immediato trasferimento del bene, avendo le parti il reale intento di costituire una garanzia ed attribuire irrevocabilmente il bene al creditore soltanto in caso di inadempienza del mutuatario.
Tra i negozi di mutuo e di compravendita infatti si stabilisce uno stretto vincolo di interdipendenza che realizza nella sostanza un patto commissorio nullo per legge.
Nel corso degli anni successivi, una serie di sentenze si sono adeguate a tale nuovo indirizzo con motivazioni che sostanzialmente si ispirano alle argomentazioni di iscritte (cfr. , anche per particolari aspetti del problema, Cass. N° 7271 del 1983, 5569 e 5570 del 1984, 3061 del 1985, 3815 e 7260 del 1986, 3784 del 1987, 46 e 3462 del 1988); la sentenza N° 7385 del 1986 invece ha ribadito la tesi tradizionale, principalmente sul duplice rilievo che il testo dell’art. 2744 non permette un’interpretazione tale da superare il senso letterale delle parole usate dalla norma e che il patto di riscatto, data la sua attuale struttura giuridica, non incide sull’effetto reale del contratto di vendita.
Per tale ragione il ricorso ora in esame è stato rimesso al giudizio delle sezioni unite, ad avviso delle quali occorre considerare come premessa, in conformità del costante indirizzo della dottrina e della giurisprudenza, che il divieto del patto commissorio è diretto ad impedire al creditore l’esercizio in una coazione morale sul debitore, spesso spinto alla ricerca di un mutuo da ristrettezze finanziarie, con facoltà di far proprio il bene oggetto di pegno, ipoteca o dato in anticresi, attraverso un meccanismo che gli permetta di sottrarsi alla fondamentale regola della par condicio creditorum.
La parte economicamente più debole, inoltre, può indursi ad accettare un prezzo ben inferiore al giusto, pur di ottenere la somma voluta e trovarsi poi nella impossibilità di riscattare il bene – evento questo non essenziale per realizzare la fattispecie vietata, ma possibile a verificarsi.
E nella vendita in garanzia con patto di riscatto, come tale soggetta a condizione risolutiva, non può negarsi che lo scopo perseguito non è dissimile, in quanto tende come risultato finale ad attribuire la proprietà al creditore nell’ipotesi di mancata restituzione della somma mutuata.
In tale ipotesi ben poco rileva che le parti sottopongano il trasferimento ad una condizione risolutiva, in quanto si realizza pur sempre un onere per il debitore, identico a quello che la legge vuol evitare, allorché detta il divieto del patto commissorio, con la conseguenza che le due situazioni impongono allo stesso modo l’intervento della tutela legislativa in favore del debitore privato della libertà di contrattare.
Un diverso trattamento, è stato giustamente rilevato dalla dottrina, si risolverebbe in un vantaggio non giustificato a favore dei creditori più avveduti, per la possibilità loro offerta di preferire il ricorso alla vendita con patto di riscatto o di retrovendita, esposto al più difficile limitato esperimento dell’azione di rescissione per lesione ex art. 1449, in quanto esercitabile entro il termine di un anno nelle sole ipotesi in cui sussista un danno superiore alla metà del valore del bene trasferito.
La garanzia, si è aggiunto con altrettanto rigore logico, ben lungi dall’essere un motivo della parte, assurge a causa del contratto, in quanto il trasferimento della proprietà trova obiettiva giustificazione nel fine della garanzia, causa peraltro inconciliabile con quella della vendita, posto che il versamento del danaro non costituisce pagamento del prezzo, ma l’esecuzione di un mutuo, mentre il trasferimento del bene non integra l’attribuzione al compratore, bensì l’atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente provvisoria, nonostante le apparenze, in quanto suscettibile di evolversi, a seconda che il debitore adempia o non restituisca la somma ricevuta.
Manca quindi la funzione di scambio tipica della compravendita.
In particolare, la provvisorietà costituisce un elemento rivelatore della causa di garanzia, e quindi della divergenza tra causa tipica del negozio prescelto e determinazione causale delle parti, indirizzata alla elusione di una norma imperativa, qual è l’art. 2744 cod. civ..
In altri termini, le parti, in quanto adottano uno schema negoziale astrattamente lecito per conseguire un risultato vietato dalla legge, pongono in essere una causa illecita che inevitabilmente cade sotto la sanzione dell’art. 1344 cod. civ.
La vendita, in sè lecita e non puramente formale, costituisce un negozio mezzo, perché tende ad eludere il contenuto di una norma ed assume la figura di contratto in frode alla legge, con ogni relativa conseguenza.
Sia che il bene, come esperienza insegna, rimanga a volte in mani del debitore-venditore a titolo di locazione o a titolo precario, sia che il trasferimento sia effettivo, ogni differenza di ipotesi diviene irrilevante qualora si consideri che negozia un mezzo il rapporto allo scopo perseguito.
Il negozio mezzo, pur non mancante di requisiti formali, deve essere necessariamente riguardato in funzione del negozio fine determinato da causa illecita, in quanto permette di raggiungere lo stesso risultato nel negozio vietato, anzi – è stato giustamente sottolineato – viene realizzato proprio il negozio proibito.
In situazioni del genere naturalmente la sproporzione fra il valore del bene dato in garanzia e l’importo del bene assume scarso rilievo, in quanto il divieto prescinde da tale circostanza (cfr. Cass. N° 736 del 1977).
Nè vale obiettare che l’art. 2744 è suscettibile soltanto di interpretazione letterale, qualora si consideri, in conformità di autorevoli opinioni espresse indottrina e dalla stessa giurisprudenza di questa Corte, che la norma è mirata dall’esigenza, comune a molti istituti del nostro ordinamento giuridico, di difendere il debitore da illecite coercizioni del creditore, assicurando nel contempo la garanzia della par condicio creditorum.
È il risultato perseguito che giustifica il divieto di legge, non i mezzi impiegati, con la conseguenza che la nullità non deriva dalla natura di questi, ma costituisce l’effetto imposto dalla legge, dell’impiego fattone, al fine di realizzare il risultato vietato.
Lungi quindi dal potere identificare in astratto una categoria di negozi soggetti alla nullità, perché contrastanti con il divieto del patto commissorio e limitare ad essi l’efficacia di tale divieto, occorre riconoscere che qualsiasi negozio può incorrere nella sanzione di nullità, quale che ne sia il contenuto, nell’ipotesi in cui venga impiegato per conseguire i risultati sopra detti, vietati dall’ordinamento giuridico (in tali termini Cass. N° 282 del 1974 per utili riferimenti anche Cass. N° 1848 del 1967 e N° 1019 del 1970).
Nella specie la Corte di Bologna, avvalendosi dei poteri conferiti dalla legge al giudice del merito, ha accertato con motivazione congrua che la convenzione sottoscritta dalle parti lo stesso giorno del rogito notarile, facendo esplicito riferimento al suo contenuto, ridimensiona il prezzo reale d’acquisto e dà atto della esistenza di un rapporto debitorio nei confronti della Lodigiani, cui viene conferito il diritto di riscattare il bene entro due anni dall’estinzione di debito.
In tal modo gli effetti del trasferimento, apparentemente immediato, vengono condizionati al comportamento del debitore, rivelando il comune intento di vincolare il bene a garanzia ed in funzione del rapporto di mutuo.
Accertamento questo che rende logica la successiva conclusione, con la quale dai fatti emersi si deduce la sussistenza di una reciproca interdipendenza tra mutuo e vendita, concepiti al fine specifico di assicurare al creditore, in funzione di una maggiore garanzia, il consolidamento degli effetti traslativi del bene nella scelta anticipati soltanto via provvisoria, elementi tutti tipici del procedimento indiretto sopra descritto, rientrante nello schema del negozio colpito da nullità.
Va quindi disattesa l’esistenza della pretesa mera facoltà concessa al venditore di restituire il danaro ricevuto e ritenuto corretto il richiamo al concetto di frode alla legge previsto dall’art. 1344 codice civile, per aver le parti scelto un negozio indiretto al fine di eludere l’applicazione di una norma imperativa, rivelatrice dell’illiceità della causa (sic pagg. 9 ed 11 della sentenza).
Il ricorso va pertanto rigettato.
Ricorrono valide ragioni per statuire la compensazione delle spese tra le parti.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma il 17.12.1988 nella camera di consiglio della Corte di Cassazione, a sezioni unite.
Allegati:
SS.UU, 03 aprile 1989, n. 1611, in tema di patto commissorio
In tema di responsabilità dell’amministratore – SS.UU, 19 dicembre 2009, n. 26806
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
S.P.A. e
giurisdizione
Corte de Conti
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VINCENZO CARBONE – Primo Presidente –
Dott. SALVATORE SENESE – Presidente di Sezione –
Dott. ANTONINO ELEFANTE – Presidente di Sezione –
Dott. GUIDO VIDIRI – Consigliere –
Dott. MASSIMO ODDO – Consigliere –
Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO – Consigliere –
Dott. ANTONIO SEGRETO – Rel. Consigliere –
Dott. SALVATORE SALVAGO – Consigliere –
Dott. FABRIZIO FORTE – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C. A. , elettivamente domiciliato in ROMA.
– ricorrente –
contro
A. V. , elettivamente domiciliato in ROMA
– controricorrente e ricorrente incidentale –
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE DEI
– controricorrente –
nonchè contro
PROCURATORE REGIONALE PRESSO LA CORTE DEI CONTI PER LA LOMBARDIA, C. G., G. L., S.P.A., S.P.A., S.P.A.;
– intimati –
sul ricorso proposto da:
C G, elettivamente domiciliato in ROMA
ricorrente
contro
A. V), elettivamente domiciliato in ROMA
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MIEITERO PRESSO LA CORTE DEI CONTI IN ROMA,
– controricorrente –
nonchè contro
PROCURATORE REGIONALE CORTE DEI CONTI LOMBARDIA, C.A, G.L;
– intimati –
sul ricorso proposto da:
G. l. , elettivamente domiciliato in ROMA,
– ricorrente –
contro
A. V. elettivamente domiciliato in ROMA
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE DEI CONTI IN ROMA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BAIAMONTI 25;
– controricorrente –
nonchè
, PROCURATORE REGIONALE CORTE DEI CONTI LOMBARDIA
– intimati –
avverso la sentenza della CORTE DEI CONTI di ROMA, depositata il 03/12/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dal Consigliere Dott. ANTONIO SEGRETO;
uditi gli avvocati
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. che ha concluso preliminarmente per l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale, nel merito per il rigetto.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione depositato in data 8 aprile 2005 la Procura regionale della Corte dei Conti per la Lombardia evocava in giudizio G. L., in qualità di amministratore delegato di s.p.a., C. A., in qualità di amministratore delegato di s.p.a., C. G., in qualità di vicepresidente pro tempore di s.p.a. ed A. V., dipendente di s.p.a. fino al 30.11.2000 e poi in rapporto di collaborazione coordinata con spa fino all’11.6.2003, e ne chiedeva la condanna al risarcimento per complessivi f. 62.442.681,01, in relazione a molteplici condotte illecite dai medesimi tenute, consistenti ne1l’avere concordato ed accettato indebite dazioni di denaro al fine di favorire le imprese costruttrici nell’aggiudicazione e successiva gestione di appalti in danno di società pubbliche. I fatti venivano desunti dagli atti del procedimento penale e dalle dichiarazioni confessorie rese dai convenuti.
Con sentenza del 9.11.2005, la Sezione regionale di I grado della Corte dei Conti accoglieva solo parzialmente la domanda risarcitoria, sia con riferimento al danno patrimoniale diretto che al danno all’immagine.
Proponevano appello i convenuti ed appello incidentale il Procuratore regionale.
La Sezione giurisdizionale centrale della Corte dei Conti, con sentenza depositata il 3.12.2008, rigettava gli appelli dei convenuti, accogliendo solo parzialmente l’appello dell’A., quanto al danno all’immagine, condannando lo stesso per tale titolo al pagamento di €. 100.000,00.
La Sezione centrale della Corte dei conti affermava, come già il I giudice, la sua giurisdizione, ritenendo ipotizzabile la responsabilità amministrativa degli amministratori e dipendenti di s.p.a a partecipazione azionaria pubblica ed effettivamente sussistente la stessa nella
Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione G. L., C. A., C. G., nonché ricorso incidentale A. V.
Resiste con controricorso il P.G. presso la Corte dei Conti.
Motivi della decisione.
1.1.Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.
Con il primo motivo dei rispettivi ricorsi, sostanzialmente simili, i ricorrenti C, G e C, lamentano, ai sensi dell’art. 360 n. 1, c.p.c., la violazione degli artt. n. 20/1994, 3 e 7 , 1. n. 97/2001, dell’art. 81, r.d. n. 2440/1923 e 52 r.d.1234/1214, per avere la Corte dei conti affermato la sussistenza della responsabilità amministrativa di essi amministratori di s.p.a. a partecipazione pubblica, mentre tale responsabilità non era ipotizzabile, segnatamente tenuto conto che l’E. svolgeva attività di impresa su mercati liberi e concorrenziali, esercitata con finalità di lucro e senza finalità pubbliche, con conseguente difetto di giurisdizione della Corte dei Conti.
1.2. Con il primo motivo del ricorso incidentale l’A. lamenta la violazione delle norme che disciplinano la giurisdizione della Corte dei Conti (artt. l 1. n. 20/1994, 3 e 7 , 1. n. 97/2001, dell’art. 81, r.d. n. 2440/1923 e 52 r.d.1234/1214), assumendo il difetto di giurisdizione del giudice contabile nei confronti di esso incaricato di una s.p.a., per quanto facente parte di un gruppo societario la cui capogruppo, sempre una s.p.a., sia qualificabile come impresa pubblica.
2. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi a norma dell’art. 335 c . p . c . .
Il problema che si pone è quello relativo alla questione se agli amministratori e dipendenti di una s.p.a. cosiddetta “in mano pubblica” si applichino le norme di diritto societario o se dalla presenza di capitali pubblici consegua invece l’assoggettamento di questi soggetti alle norme proprie della responsabilità amministrativa, con la conseguente giurisdizione della Corte dei Conti.
Il problema non è quello di definire se, come e quando una s.p.a. “pubblica” risponda , come persona giuridica per danno erariale ad una P.A., ma si tratta di stabilire sulla base di quale statuto gli amministratori o i dipendenti di una s,p.a. “pubblica” rispondano dei danni ad essa direttamente prodotti ed indirettamente riflessi sulla p.a., in quanto titolare della partecipazione azionaria.
La differenza è rilevante, se si considera che nel primo caso la s.p.a. “pubblica” è il soggetto responsabile del danno che deve risarcire con il proprio patrimonio sociale, nel secondo caso essa diviene il soggetto danneggiato il cui patrimonio deve essere reintegrato.
Vanno, quindi, fissati alcuni principi generali.
3.1. Com’è noto, il limite esterno della giurisdizione della Corte dei conti, sul quale le sezioni unite della Corte di cassazione sono chiamate a pronunciarsi, ha rilevanza costituzionale: discende dal disposto dell’art. 103, comma secondo, della Costituzione, a tenore del quale “la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabìlìtà pubblica e nelle altre specifìcate dalla legge“. Al di fuori delle materie di contabilità pubblica, e quindi anche in tema di responsabilità, occorre dunque che la giurisdizione della Corte dei conti abbia il suo fondamento in una specifica disposizione di legge.
In termini generali, il contenuto ed i limiti della giurisdizione della Corte dei conti in tema di responsabilità trovano la loro base normativa nella previsione dell’art. 13 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, secondo cui la corte giudica sulla responsabilità per danni arrecati all’erario da pubblici funzionari nell’esercizio delle loro funzioni. Tali limiti sono stati successivamente ampliati dall’art. l, quarto comma, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, che ha esteso il giudizio della Corte dei conti alla responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici anche per danni cagionati ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza. La giurisdizione di detta corte non è quindi circoscritta alla sola ipotesi di responsabilità contrattuale dell’agente, ma puó esplicarsi anche in caso di responsabilità aquiliana.
3.2. In passato i limiti esterni della giurisdizione della Corte dei conti, al pari di quella del giudice amministrativo, erano però (relativamente) più agevoli da tracciare: la più netta distinzione tra l’area del pubblico e quella del privato, la normale corrispondenza tra la natura pubblica dell’attività svolta dall’agente ed il suo organico inserimento nei ranghi della pubblica amministrazione, la conseguente più agevole demarcazione di confini tra l’agire dell’amministrazione in forza della potestà pubblica ad essa spettante e per le finalità tipicamente a questa connesse ed il suo agire invece iure privatorum: erano tutti elementi che facilitavano anche l’individuazione dei limiti esterni della giurisdizione in esame.
La più recente evoluzione dell’ordinamento ha reeo ora questi confini assai meno chiari, da un lato incanalando sovente le finalità della pubblica amministrazione in ambiti tipicamente privatistici, dall’altro afiidando con maggiore frequenza a soggetti privati la realizzazione di finalità una volta ritenute di pertinenza esclusiva degli organi pubblici.
In quest’ottica anche le sezioni unite della Cassazione, per evitare il rischio di un sostanziale svuotamento – o almeno di un grave indebolimento – della giurisdizione della corte contabile in punto di responsabilitá, ha teso a privilegiare un approccio piü “sostanzialistico”, sostituendo ad un criterio eminentemente soggettivo, che identificava l’elemento fondante della giurisdizione della Corte dei conti nella condizione giuridica pubblica dell’agente, un criterio oggettivo che fa leva sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie a tal fine adoperate.
Si è perciò affermato che, quando si discute del riparto della giurisdizione tra Corte dei conti e giudice ordinario, occorre aver riguardo al rapporto di servizio tra l’agente e la pubblica amministrazione, ma che per tale può intendersi anche una relazione con la pubblica amministrazione caratterizzata dal fattO di investire un soggetto, altrimenti estraneo all’amministrazione medesima, del compito di porre in essere in sua vece un’attività, senza che rilevi né la natura giuridica dell’atto di investitura – provvedimento, convenzione o contratto – né quella del soggetto che la riceve, sia essa una persona giuridica o fisica, privata o pubblica (Sez. un. 3 luglio 2009, n. 15599; 31 gennaio 2008, n. 2289; 22 febbraio 2007, n. 4112; 20 ottobre 2006, n. 22513; 5 giugno 2000, n. 400; Sez. un., 30 marzo 1990, n. 2611, ed altre conformi).
L’affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della gestione di un servizio pubblico integra quindi una relazione funzionale incentrata sull’inserimento del soggetto medesimo nell’organizzazione funzionale dell’ente pubblico e ne implica, conseguentemente, l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale, a prescindere dalla natura privatistica dello stesso soggetto e dello strumento contrattuale con il quale si sia costituito ed attuato il rapporto (Sez. un. 27 settembre 2006, n. 20886;1 aprile 2008, n. 8409; l marzo 2006, n. 4511; 19 febbraio 2004, 2004, n. 3351), anche se l’estraneo venga investito solo di fatto dello svolgimento di una data attività in favore della pubblica amministrazione (Sez. un. 9 settembre 2008, n. 22652) ed anche se difetti una gestione del danaro secondo moduli contabili di tipo pubblico o secondo procedure di rendicontazione proprie della giurisdizione contabile in aenso stretto (Sez. un. 12 ottobre 2004, n. 20132). Lo stesso dicasi per l’accertamento della responsabilità erariale conseguente a1l’illecito o indebito utilizzo, da parte di una società privata, di finanziamenti pubblici (Sez. un. 5 giugno 2008, n. 14825, e Sez. un., n. 4511/06, cit.); o per la responsabilitá in cui puó incorrere il concessionario privato di un pubblico servizio o di un’opera pubblica, quando la concessione investe il privato dell’esercizio di funzioni obiettivamente pubbliche, attribuendogli la qualifica di organo indiretto dell’amministrazione, onde egli agisce per le finalità proprie di quest’ultima (Sez. un., n. 4112/07, cit.).
Nella medesima ottica, a partire dal 2003, le sezioni unite di questa corte hanno ritenuto spettare alla Corte dei conti, dopo l’entrata in vigore dell’art. 1, ultimo comma, della legge n. 20 del 1994, la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto la responsabilità di privati funzionari di enti pubblici economici (quali, ad esempio, i consorzi per la gestione di opere) anche per i danni conseguenti allo svolgimento dell’ordinaria attività imprenditoriale e non soltanto per quelli cagionati nell’espletamento di funzioni pubbliche o comunque di poteri pubblicistici (Sez. un., 22 dicembre 2003, n. 19667). Si è sottolineato che si esercita attività amministrativa non solo quando si svolgono pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, si perseguono le finalità istituzionali proprie dell’amministrazione pubblica mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato; con la conseguenza – si è precisato – che, nell’attuale assetto normativo, il dato essenziale che radica la giurisdizione della corte contabile è rappresentato dall’evento dannoso verificatosi a carico di una pubblica amministrazione e non più dal quadro di riferimento – pubblico o privato – nel quale si colloca la condotta produttiva del danno (Sez. un., 25 maggio 2005, n. 10973; 20 giugno 2006, n. 14101; 1 marzo 2006, n. 4511; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3367).
3.3. Se quanto appena osservato vale certamente per gli enti pubblici economici, i quali restano nell’alveo della pubblica amministrazione pur quando eventualmente operino imprenditorialmente con strumenti privatistici, è da stabilire entro quali limiti alla medesima conclusione si debba pervenire anche nel diverso caso della responsabilità di amministratori di società di diritto privato partecipate da un ente pubblico. Le quali non perdono la loro natura di enti privati per il solo fatto che il loro capitale sia alimentato anche da conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico.
Il codice civile dedica alla società per azioni a partecipazione pubblica solo alcune scarne disposizioni, oggi contenute nell’art. 2449 (come modificato dall’art. 13 della legge 25 febbraio 2008, n. 34, a seguito della pronuncia della Corte giustizia delle Comunità europee, 6 dicembre 2007, n. 463/04), essendo stato il successivo art. 2450 ormai abrogato dall’art. 3, primo comma, del d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito con modificazioni dalla legge 6 aprile 2007, n. 46. Ma siffatte residue disposizioni del codice non valgono a configurare uno statuto speciale per dette società (spesso, viceversa, interessate da norme speciali, non sempre tra loro ben coordinate), salvo per i profili inerenti alla nomina e revoca degli organi sociali, specificamente ivi contemplati, né comunque investono il tema della responsabilità di detti organi, che resta quindi diBCiplinato dalle ordinarie norme previste dal codice civile a questo riguardo, com’è confermato dalla immutata indicazione del secondo comma del citato art. 2449, a tenore del quale anche i componenti degli organi amministrativi e di controllo di nomina pubblica ”hanno i diritti e gli obblighi dei membrì nominati dall’assemblea”. Né pare dubbio che quest’ultimo principio valga anche per le società a responsabilità limitata eventualmente partecipate da un ente pubblico, in difetto di qualsiasi specifica disposizione del codice che se ne occupi.
Se ne è desunto – anche alla luce di quanto espressamente indicato nella relazione (“È lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici“) – che la scelta della pubblica amministrazione di acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta. Dall’identità dei diritti e degli obblighi facenti capo ai componenti degli organi sociali di una società a partecipazione pubblica, pur quando direttamente designati dal socio pubblico, logicamente perciò discende la responsabilità di detti organi nei confronti della società, dei 6oci, dei creditori e dei terzi in genere, nei medesimi termini – contemplati dagli artt. 2392 e segg. del codice – in cui tali diverse possibili proiezioni della responsabilità sono configurabili per gli amministratori e per gli organi di controllo di qualsivoglia altra società privata.
3.4. È innegabile, nondimeno, che si possano determinare dei problemi quando il modello giuridico-formale prescelto entra in tensione con il fenomeno economico sottoatante, come non di rado accade proprio nel caso in cui lo Stato o altro ente pubblico assume una partecipazione in una società per perseguire in tal modo finalità di rilevanza pubblica.
Ne è testimone, in certa misura, la sentenza delle sezioni unite 26 febbraio 2004, n. 3899, che, dopo aver ribadito il principio per cui una società per azioni costituita con capitale maggioritario del comune in vista dello svolgimento di un servizio pubblico ha una relazione funzionale con l’ente territoriale, caratterizzata dall’inserimento della società medesima nell’iter procedimentale dell’ente locale e dal conseguente rapporto di servizio venutosi cosi a determinare, ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti nelle controversie in materia di responsabilità patrimoniale per danno erariale riguardanti gli amministratori ed i dipendenti di una siffatta società. La portata di tale affermazione non risulta però del tutto univoca: perché nella medesima sentenza si ha cura di specificare, per un verso, che l’elemento determinante della decisione era costituito, in quel caso, dal rapporto di servizio intercorrente tra la società privata ed il comune (piuttosto che dal rapporto partecipativo e dal conseguente investimento di risorse finanziarie pubbliche nel patrimonio della società privata) e, per altro verso, che la questione se il danno subito dal comune partecipante alla società fosse diretto, o meramente riflesso, rispetto a quello arrecato al patrimonio sociale, costituiva un profilo estraneo al giudizio sui limiti della giurisdizione.
Proprio quest’ultimo profilo sembra invece meritare un ulteriore approfondimento, potendo assumere carattere decisivo ai fini che qui interesano.
3.5. In primo luogo, non sembra si possa prescindere dalla distinzione tra la posizione della società partecipata, cui eventualmente fa capo il rapporto di servizio instaurato con la pubblica amministrazione, e quella personale degli amministratori (nonché dei sindaci o degli organi di controllo della stessa società): i quali, ovviamente, non s’identificano con la società, sicché nulla consente di riferire loro, sic et simpliciter, il rapporto di servizio di cui la società medesima sia parte.
Quanto appena osservato non vale peró a chiudere ogni possibile spazio alla giurisdizione della Corte dei conti in ordine ad eventuali comportamenti illegittimi imputabili agli organi delle società a partecipazione pubblica, dai quali sia scaturito un danno per il socio pubblico.
S’è già prima accennato vuoi alla possibilità che tale giurisdizione sia riferita anche ad ipotesi di responsabilità aquiliana, vuoi alla possibilità che essa si configuri pure in difetto di una formale investitura pubblico dell’agente. Entra allora in gioco un ulteriore importante elemento normativo, cui finora non si è fatto riferimento ma che occorre adesso prendere in considerazione. Si allude alla disposizione dell’art. 16 bis della legge 28 febbraio 2008, n. 31 (che ha convertito il d.1. 31 dicembre 2007, n. 248), cosí concepita: “Per le società con azioni quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici, inferiore al 50 per cento, nonchè per le loro controllate,la responabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla glurisdizìone del giudice ordinario” .
Tale norma, benché la sua applicazione ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione sia espressamente esclusa, assume un evidente significato retrospettivo, nella misura in cui lascia chiaramente intendere che, in ordine alla responsabilità di amministratori e dipendenti di società a partecipazione pubblica, vi sia una naturale area di competenza giurisdizionale diversa da quella ordinaria. Non si capirebbe, altrimenti, la ragione per la quale il legislatore ha inteso stabilire che, per l’avvenire (e limitatamente alle società quotate, o loro controllate, con partecipazione pubblica inferiore al 50%), la giurisdizione spetta invece in via esclusiva proprio al giudice ordinario.
Resta però da verificare entro guali limiti, al di fuori del ristretto campo d’applicazione della disposizione da ultimo richiamata, sia davvero configurabile la giurisdizione del giudice contabile che il legislatore ha in tal modo presupposto in rapporto ad atti di mala gestio degli organi di società a partecipazione pubblica.
In difetto di norme esplicite in tal senso (e fatta salva la specifìcità di singole società a partecipazione pubblica il cui statuto sia soggetto a regole legali sui generis, come nel caso della Rai), è ai principi generali ed alle linee portanti del sistema che occorre aver riguardo. Ed è proprio in quest’ottica che a6aume rilievo decisivo la già accennata distinzione tra la responsabilità in cui gli organi sociali possono incorrere nei confronti della società (prevista e disciplinata, per le società azionarie, dagli artt. 2393 e segg. e, per le società a responsabilità limitata, dal primo, terzo, quarto e quinto comma dell’art. 2476 c.c.) e la responsabilità che essi possono assumere direttamente nei confronti di singoli soci o terzi (prevista e disciplinata, per le società azionarie, dall’art. 2395 e, per le società a responsabilità limitata, dal aesto comma del citato art. 2476) .
3.6. In tale ultimo caso la configurabilità dell’azione del procuratore contabile, tesa a far valere la responsabilità dell’amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall’ente pubblico quando questo sia stato direttamente danneggiato dall’azione illegittima, non incontra particolari ostacoli (né si pongono difficoltà derivanti dalla possibile concorrenza di siffatta azione con quella ipotizzata in sede civile dai citati artt. 2395 e 2476, sesto comma, poiché l’una e l’altra mirerebbero in definitiva al medesimo risultato). Non importa qui indagare sulla natura dell’indicata responsabilità: se essa abbia carattere extracontrattuale (come la giurisprudenza è per lo più incline a ritenere: si vedano, tra le altre, Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 25 luglio 2007, n. 16416; e 3 aprile 2007, n.8359) o se pur sempre pre6upponga la violazione di un preesistente obbligo di corretto comportamento dell’amministratore e del componente dell’organo di controllo anche nei diretti confronti di ciascun singolo socio (onde alcune autorevoli voci di dottrina ravvi6ano anche in tal caso un’ipotesi di responsabilità almeno 2ato sensu contrattuale). Quel che appare certo è che la presenza dell’ente pubblico all’interno della compagine sociale ed il fatto che la aua partecipazione sia strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed abbia implicato l’impiego di pubbliche risorse non può sfuggire agli organi della società e non può non comportare, per loro, una peculiare cura nell’evitare comportamenti tali da compromettere la ragione stessa di detta partecipazione sociale dell’ente pubblico o che possano comunque direttamente cagionare un pregiudizio al patrimonio di quest’ultimo.
Tipico esempio di questa situazione è il danno all’immagine dell’ente pubblico (su cui si veda Sez. un. 20 giugno 2007, n. 14297) che derivi da atti illegittimi posti in essere dagli organi della società partecipata: danno che puó eventualmente prodursi immediatamente in capo a detto ente pubblico, per il fatto stesso di essere partecipe di una società in cui quei comportamenti illegittimi si siano manifestati, e che non s’identifica con il mero riflesso di un pregiudizio arrecato al patrimonio sociale (indipendentemente dall’essere o meno configurabile e risarcibile anche un autonomo e distinto danno all’immagine della medesima società).
Nessun dubbio, quindi, sulla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti in un’ipotesi siffatta; e se ne trae conferma anche dal disposto dell’art. 17, comma 30-ter, della legge 3 agosto 2009, n. 102 (quale rigulta dopo le modifiche apportate dal d.l. in pari data, n. 103, convertito con ulteriori modificazioni nella legge 3 ottobre 2009, n. 141), che disciplina e limita le modalità dell’azione della magistratura contabile appunto in caso di danno all’immagine, nelle ipotesi previste dall’art. 7 della legge 27 marzo 20o1 n. 9 ossia in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nel precedente art. 3 della stessa legge, compresi quelli “di enti a prevalente partecipazione pubblica”. Non si vede come la medesima regola stabilita per i dipendenti non debba valere anche per gli amministratori e gli orgni di controllo della società a partecipazione pubblica.
3.7. Ad opposta conclusione si deve invece pervenire nel caso in cui l’azione sia proposta per reagire ad un danno cagionato al patrimonio della società.
Non solo, come detto, non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l’ente pubblico partecipante e l’amministratore (o componente di un organo di controllo) della società partecipata, il cui patrimonio sia stato leso dall’atto di mala gestio, ma neppure sussiste in tale ipotesi un danno qualificabile come danno erariale, inteso come pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della suindicata società sia socio. La ben nota distinzione tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell’una rispetto agli altri non consentono di riferire al patrimonio del socio pubblico il danno che l’illegittimo comportamento degli organi sociali abbia eventualmente arrecato al patrimonio dell’ente: patrimonio che è e resta privato.
E’ certo vero che il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a ripercuotersi anche sui soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro quota di partecipazione; ma – fatte salve le limitate eccezioni oggi introdotte dall’art. 2497 c.c. (come modificato dal d. lgs n. 6 del 2003), in tema di responsabilità dell’ente posto a capo di un gruppo di imprese societarie, che qui non rilevano – il sistema del diritto Societario impone di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo) da quelli che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società.
Dei danni diretti, cioè di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico-patrimoniale del socio e che non consistano nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società, solo il socio stesso è legittimato a dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società compete il risarcimento, di modo che per il socio anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui ai è prodotto il suo pregiudizio (principio pacifico: si vedano, ex multis, Cass. 5 agosto 2008, n. 21130; 3 aprile 2007, n. 8359; 27 giugno 1998, n. 6364; e 28 febbraio 1998, n. 2251).
Si capisce, allora, come il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel sistema del codice civile puó dar vita all’azione sociale di responaabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, non è idoneo a configurare anche un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti: perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci – pubblici o privati – i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui originari conferimenti restano confusi ed assorbiti nell’unico patrimonio sociale.
L’esattezza di tale conclusione trova conferma anche nell’impossibilità di realizzare, altrimenti, un soddisfacente coordinamento sistematico tra l’ipotizzata azione di responsabilità dinanzi giudice contabile e l’esercizio delle surriferite azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate dal codice civile. L’azione del procuratore contabile ha presupposti e caratteristiche completamente diverse dalle azioni di responsabilità sociale e dei creditori sociali contemplate dal codice civile: basta dire che l’una è obbligatoria, le altre discrezionali; l’una ha finalità essenzialmente sanzionatoria (onde non implica necessariamente il ristoro completo del pregiudizio subito dal patrimonio danneggiato dalla mala gestio dell’amministratore o da1l’omesso controllo del vigilante), le altre hanno scopo ripristinatorio; l’una richiede ìl dolo o la colpa grave, e solo in determinati casi è esercitabile anche contro gli eredi del soggetto responsabile del danno; per le altre è sufficiente anche la colpa lieve ed il debito risarcitorio è pienamente trasmissibile agli eredi.
D’altronde, almeno in tutti i casi nei quali vi siano anche soci privati la cui partecipazione è suscettibile di subire danno per effetto del comportamento illegittimo degli organi sociali, sarebbe impossibile escludere l’esperibilità degli ordinari strumenti di tutela approntati dal codice civile a beneficio della società (e dei soci privati, nonché eventualmente dei creditori).
E peró, se si ipotizzasse il possibile concorso tra l’azione del procuratore contabile e l’azione sociale di responsabilità contemplata dal codice civile, occorrerebbe poter individuare il modo di disciplinare tale concorso, stante la descritta diversità delle rispettive caratteristiche delle differenti azioni. L’assenza del benché minimo abbozzo di coordinamento normativo in proposito suona palese conferma della non configurabilità, in simili situazioni, di un’azione diversa da quelle previste dal codice civile, che aia destinata a ricadere nella giurisdizione del giudice contabile.
3.7. Giova ancora aggiungere che l’esclusione dell’ipotizzata giurisdizione del giudice contabile per l’azione di risarcimento di danni cagionati al patrimonio della società partecipata da un ente pubblico neppure provoca, a ben vedere, il rischio di una lacuna nella tutela dell’interresse pubblico coinvolto nella descritta situazione.
Nell’attuale disciplina della società azionaria – ed in misura ancor maggiore in quella della società a responsabilità limitata – l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, in caso di ma2a gestìo imputabile agli organi della società, non è più monopolio dell’assemblea e non è più, quindi, unicamente rimessa alla discrezionalità della maggioranza dei soci. Una minoranza qualificata dei partecipanti alla società azionaria (art. 2393-bis c.c.) ed addirittura ciascun singolo socio della società a responsabilità limitata (art. 2476, terzo comma, c.c.) sono infatti legittimati ad esercitare tale azione (anche nel proprio interesse, ma a beneficio della societã) eventualmente sopperendo all’inerzia della maggioranza. Ne consegue che, trattandosi di società a partecipazione pubblica, il socio pubblico è di regola in grado di tutelare egli stesso i propri interessi sociali mediante 1’esercizio delle suindicate azioni civili. Se ciõ non faccia e se, in conseguenza di tale omissione, l’ente pubblico abbia a subire un pregiudizio derivante dalla perdita di valore della partecipazione, è sicuramente prospettabile l’azione del procuratore contabile nei confronti (non già dell’amministratore della società partecipata, per il danno arrecato al patrimonio sociale, bensi nei confronti) di chi, quale rappresentante dell’ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio ed abbia perció pregiudicato il valore della partecipazione. Ed è ovvio che, con riguardo ad un’azione siffatta, vi sia piena competenza giurisdizionale della Corte dei conti.
4.1. Sulla base dei suddetti principi la questione della giurisdizione ha semplice soluzione.
La Corte dei conti ha pronunziato sentenza nei confronti degli attuali ricorrenti C., G., e C. per danni diretti al patrimonio delle Societã, conseguenti all’aggiudicazione delle gare d’appalto, a condizioni meno vantaggiose per l’impresa appaltante ovvero al recupero da parte dell’impresa aggiudicataria della dazione illecita nel corso dell’esecuzione del contratto ovvero mediante la c.d. retrocessione dei corrispettivi contrattuali convenuti, nonché per il danno patrimoniale da disservizio costituito dalle spese sostenute dalle società (E o E) per ripristinare l’efficienza lesa.
Quanto all’A., questi egualmente è stato condannato al risarcimento di danni subiti direttamente dal patrimonio della società E in relazione a consulenze, ad aoutsorcing e ad un contratto dell’E con la società croata Cpd.
Tutti e quattro i ricorrenti sono stati poi condannati al pagamento del danno all’immagine subito E s.p.a., a. ed s.p.a..
Si tratta, all’evidenza, di tutti danni direttamente subiti dalla società.
4.2. Ne consegue che per le domande relative a tali danni va esclusa la giurisdizione della corte dei conti, dovendosi affermare la giurisdizione del giudice ordinario.
La giurisdizione della Corte dei conti era configurabile nei confronti di chi, all’interno dell’ente pubblico partecipante, avesse omesso di adottare, essendo chiamato a farlo, un comportamento volto all’esercizio da parte del socio -pubblica amministrazione- dell’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori, con conseguente danno della società partecipata e, dunque, dell’ente pubblico partecipante.
5.1. Invece va affermata la giurisdizione delle Corte dei conti solo relativamente alla condanna di risarcimento del danno all’immagine subita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Rientra nella giurisdizione della Corte dei conti l’azione di responsabilità per il danno arrecato all’immagine dell’ente da organi della società partecipata. Infatti, tale danno, anche se non comporta apparentemente una diminuzione patrimoniale alla pubblica amministrazione, è suscettibile di una valutazione economica finalizzata al ripristino del bene giuridico leso (Cass. civ., Sez. Unite, 02/04/2007, n. 8098).
5.2. Non può essere accolta la tesi sostenuta dai ricorrenti G. e C, secondo cui, in applicazione dell’art. 1 del l. n 103/2009, contenente modificazioni al d.l. n. 78/2009, va dichiarato il difetto di giurisdizione per ogni tipo di danno all’immagine, in quanto tale danno potrebbe essere liquidato solo nei casi e nei modi di cui all’art. 7 l. n. 97/2001, e cioè in presenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna per delitto contro la p.a., che nella fattispecie mancherebbe.
Infatti, a parte altri rilievi, come rilevano gli ste6si ricorrenti la norma nella sua formulazione letteraria fa salvi gli atti posti in essere dalla procura della Corte dei Conti nel caso in cui, alla data di entrata in vigore del decreto legge convertito, fosse già intervenuta una sentenza nell’ambito del giudizio sottoposto alla cognizione del giudice contabile.
6. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente C. lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., dell’art. 1 1. 20/1994, artt. 3 e 7 1. n. 97/2001, art. 81 r.d. n. 2440/1923 e dell’art. 52 r.d.n. 1234/1214.
Assume il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che egli fosse stato dipendente anche di E, avendo svolto solo funzioni per E.
7. Il motivo è inammissibile.
Anche dopo l’inserimento della garanzia del giusto processo nella formulazione dell’art. 111 Cost., il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni della Corte dei conti in sede giurisdizionale continua ad essere circoscritto al controllo dell’eventuale violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice contabile, ovvero all’esistenza dei vizi che attengono a1l’essenza della funzione giurisdizionale e non si estende al modo del suo esercizio. (Caas. Sez. Unite, 16/02/2007, n. 3615).
Nella fattispecie il ricorrente prospetta profili che attengono al merito del giudizio promosso davanti alla Corte dei Conti, negando il rapporto di servizio intrattenuto con Enelpower e la sua partecipazione agli illeciti in danno di società del gruppo Enel, nonché il nesso causale tra la sua condotta ed i plurimi eventi dannoai. I vizi lamentati attengono, quindi, a pretesi errores in iudicando della Corte dei Conti, per cui la loro prospettazione è inammissibile in questa sede.
8. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente incidentale A. lamenta la carenza di giurisdizione della Corte dei conti per violazione delle disposizioni che disciplinano l’ambito della giurisdizione contabile nei confronti di collaboratori esterni consulenti di s.p.a. aventi natura pubblicistica (art. 1 1. n. 20/1994; artt. 3 e 7 1. n. 97/2001, art. 81 r.d. n. 2440/1923; art. 52 r.d. n. 1214/1934). Assume il ricorrente che all’epoca dei fatti oggetto di causa egli non era dipendente di EPW, ma era legato ad essa solo da un contratto di collaborazione e poi di consulenza, donde il difetto di giurisdizione della Corte dei conti nei suoi confronti.
9.1. Il motivo è infondato.
In tema di responsabilità per danno erariale, l’esistenza di un rapporto di servizio, quale presupposto per un addebito di responsabilità al detto titolo, non è limitata al rapporto organico o al rapporto di impiego pubblico, ma è configurabile anche quando il soggetto, benché estraneo alla Pubblica Amministrazione, venga investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della Pubblica Amministrazione, con inserimento nell’organizzazione della medesima, e con particolari vincoli ed obblighi diretti ad assicurare la rispondenza dell’attività stessa alle esigenze generali cui è preordinata. (Cass. Sez. Unite, 12/03/2004, n. 5163; Cass. S.U. n. 19661/2003).
9.2. Nella fattispecie la sentenza impugnata ha ravvisato tale inserimento dell’A. nell’organizzazione della s.p.a. E, con l’assunzione di vincoli ed obblighi funzionali, poichè questi agiva nell’espletamento dell’attività consulenziale per conto di E , sulla base di lettera di incarico e di due disposizioni interne.
Ne consegue che le censure mosse dal ricorrente sul punto attengono a vizi in iudicando che non possono trovare ingresso in queata sede, poiché rientrano nei limiti interni della giurisdizione, estranei al sindacato di questa Corte di cassazione(Cass. civ. (Ord.), Sez. Unite, 16/12/2008, n. 29348).
10.In definitiva va accolto, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso, per cui va dichiarato il difetto di giuriBdizione della Corte dei Conti in merito alla domanda proposta dalla Procura della Corte dei Conti limitatamente ai soli danni attinenti alle società, con esclusione della domanda attinente al risarcimento del danno all’immagine subita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Vanno rigettati i restanti motivi dei ricorsi del C e dell’A. Va causata senza rinvio, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza.
Esistono giusti motivi per compensare per intero tra le parti, le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi. Accoglie, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ciascun ricorso. Dichiara il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti limitatamente ai soli danni attinenti al patrimonio delle società. Rigetta i restanti motivi dei ricorsi del C. e dell’A.. Cassa senza rinvio, in relazione al motivo accolto, l’impugnata sentenza.
Compensa per intero tra le parti, le spese del giudizio di cassazione.
Cosi deciso in Roma, 11 27 ottobre 2009.
In tema di rappresentanza – SS.UU, 21 ottobre 2009, n. 22234
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
Contemplatio
domini
R . G . N . 12051/2004
R . G . N . 14926/2004
R . G . N . 15178/2004
Cron. 22234
Rep. 7113
Ud. 06/10/2009
PU
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VINCENZO CARBONE – Primo Presidente –
Dott. ENRICO PAPA – Presidente di Sezione –
Dott. ALFREDO MENSITIERI – Consigliere –
Dott. ANTONIO SEGRETO – Rel. Consigliere –
Dott. SALVATORE SALVAGO – Consigliere –
Dott. FABRIZIO FORTE – Consigliere –
Dott. ETTORE BUCCIANTE – Consigliere –
Dott. MAURA LA TERZA – Consigliere –
Dott. ANGELO SPIRITO – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 12051-2004 proposto da:
APUZZO LUIGI (PZZLGU41S21H501L), APUZZO MARIO ORIOLO, APUZZO ANNA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALCIDE DE GASPERI 21, presso lo studio dell’avvocato INSOM ENRICO, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati IRTI NATALINO, PAMPHILI ENRICO, per delega a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
CITYBANK N.A., BASLER VERSICHERUNGS GESELLSHAFT – SOCIETA’ BASILESE DI ASSICURAZIONI, FALLIMENTO DAF INVESTIMENTI S.R.L.;
– intimati –
sul ricorso 14926-2004 proposto da:
CITIBANK N.A. (00731790150), in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, FORO TRAIANO 1/A, presso lo studio dell’avvocato COSMELLI GIORGIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GILIBERTI ENRICO, per procura a margine del controricorso e ricorso incidentale condizionato;
– controricorrente e ricorrente incidentale condizionato –
contro
APUZZO LUIGI (PZZLGU41S21H501L), APUZZO MARIO ORIOLO, APUZZO ANNA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALCIDE DE GASPERI 21, presso lo studio dell’avvocato INSOM ENRICO, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati IRTI NATALINO, PAMPHILI ENRICO, per delega a margine del ricorso principale;
– controricorrenti al ricorso incidentale condizionato –
nonchè contro
BASLER VERSICHERUNGS GESELLSHAFT, FALLIMENTO DAF INVESTIMENTI S.R.L.;
– intimati –
sul ricorso 15178-2004 proposto da:
BASLER VERSICHERUNGS-GESELLSHAFT, in persona dei legali rappresentanti pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VENTIQUATTRO MAGGIO 43, presso lo studio dell’avvocato GIARDINA ANDREA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CAVALLONE BRUNO, per procura legale del 17/06/2004, in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale condizionato –
contro
APUZZO LUIGI (PZZLGU41S21H501L), APUZZO MARIO ORIOLO, APUZZO ANNA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALCIDE DE GASPERI 21, presso lo studio dell’avvocato INSOM ENRICO, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati IRTI NATALINO, PAMPHILI ENRICO, per delega a margine del ricorso principale;
– controricorrenti al ricorso incidentale condizionato –
nonchè contro
CITIBANK N.A., FALLIMENTO DAF INVESTIMENTI S.R.L.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 605/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 05/02/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/10/2009 dal consigliere Dott. ANTONIO SEGRETO;
uditi gli avvocati Enrico INSOM, Enrico PAMPHILI, Natalino IRTI, Andrea GIARDINA, Bruno CAVALLONE, Giovanni VERUSIO per delega dell’avvocato Giorgio Cosmelli;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. DOMENICO IANNELLI che ha concluso per l’accoglimento p.q.r., dei primi tre motivi del ricorso principale; assorbiti gli altri motivi; assorbito il ricorso incidentale condizionato dalla Citybanck; inammissibile il ricorso incidentale consizionato della Basler.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con separati atti la società Citibank con sede in New York ha convenuto presso l’autorità giudiziaria elvetica e presso il tribunale di Roma, rispettivamente, la società Basler Versicherungs Gesellschaft (o Baloise S.p.A.), la societä Basilese di Assicurazioni e Frezzotti Flores, Apuzzo Luigi, Apuzzo Mario Oriolo ed Apuzzo Anna, deducendo che, al fine di consentire alla società svizzera il controllo della Tirrena Assicurazioni, di cui deteneva una partecipazione importante, si era concordato il 27 giugno 1988 tra Flores Frezzotti e gli Apuzzo e la società Basilese, interamente posseduta da Basler, la opzione per l’acquisto di una parte delle azioni dai primi possedute, da esercitarsi per il prezzo di L. 49,3 miliardi nel marzo 1991, una volta scaduto il patto di sindacato che aveva limitato la libera circolazione dei titoli, e, per le residue azioni, il diritto dei medesimi di venderle alla Basilese o ad altra società da essa indicata, ad un prezzo inferiore a quello di opzione. Si era, inoltre, stabilito che gli Apuzzo sottoscrivessero l’aumento di capitale deliberato dalla Tirrena, attraverso un finanziamento che, esercitata la opzione, sarebbe stato rimborsato dall’acquirente in conto del prezzo di acquisto, mentre i titoli sarebbero stati dati in pegno al finanziatore con un mandato irrevocabile, perché li trasferisse all’acquirente, trattenendo l’importo e le spese del finanziamento e versando la differenza ai venditori.
Per finanziare l’operazione era stata individuata la Citibank, che in data 5 novembre 1988 aveva stipulato con gli Apuzzo i contratti di mutuo garantiti dal pegno, ricevendo il mandato irrevocabile predetto; il finanziamento era stato erogato per L. 14 miliardi circa e utilizzato per la sottoscrizione dell’aumento di capitale della Tirrena.
La Basler, con lettera indirizzata a Citibank e da questa firmata per accettazione il 16 dicembre 1988, si era impegnata ad esercitare la opzione pattuita con gli Apuzzo e a versare a Citibank il prezzo.
Alla prima scadenza del giugno 1990 il finanziamento era stato rimborsato con il denaro anticipato agli Apuzzo da Basler e rinnovato alle medesime condizioni, ma non era stato rimborsato alla successiva scadenza del giugno 1991.
In Svizzera il giudizio – nel quale gli Apuzzo erano intervenuti a sostegno delle ragioni della Citibank – si era concluso con la condanna della Basler a rimborsare a Citibank l’importo e le apese del finansiamento, che Basler aveva versato.
Nel procedimento in Italia la Citibank aveva ottenuto nei confronti degli Apuzzo un sequestro di L. 20 miliardi e li aveva citati per la convalida e il merito. In tale giudizio gli Apuzzo avevano chiamato in causa la Basilese e la Basler, che – secondo gli Apuzzo – erano gli esclusivi obbligati, in quanto il contratto di opzione era atato simulato oggettivamente e soggettivamente, perché intercorso con Basler, effettiva obbligata a rilevare i pacchetti azionari formalmente opzionati da Basilese, trasformata in Daf Investimenti s.r.l. e poi fallita. Il Tribunale di Roma , con sentenza n. 18386 del 2001 accoglieva la domanda degli Apuzzo, dichiarava l’obbligazione di Basler e del fallimento ad acquisire le azioni Tirrena pagando il relativo prezzo di trasferimento alla mandataria Citibank, cosi come convenuto, revocava il sequestro e condannava Citibank e Basler al risarcimento dei danni liquidati a carico dei predetti rispettivamente in L. 2 e 4 miliardi, in favore degli Apuzzo- Frezzotti.
Tale sentenza, appellata dal fallimento e dalle due aocietà e, in via incidentale, dagli Apuzzo per conseguire un maggiore risarcimento, è stata riformata, con decisione depositata il 5 febbraio 2004, dalla Corte d’appello di Roma, la quale ha preliminarmente disatteao la questione di giurisdizione del giudice italiano, riproposta dalla società Basler, in relazione alla clausola compromissoria per arbitrato estero. La corte di merito ha quindi dichiarato competente il Tribunale fallimentare di Monza sulle domande proposte nei confronti del fallimento, cessata la materia del contendere in ordine alla domanda di Citibank nei confronti di Frezzotti Florea (deceduta nelle more del processo e di cui unici eredi sono Luigi, Mario Oriolo e Anna Apuzzo), Apuzzo Luigi, Apuzzo Mario Oriolo e Apuzzo Anna e respinto tutte le domande proposte dagli Apuzzo nei confronti di Citibank e Basler, condannandoli a rimborsare quanto ricevuto con la pronuncia di primo grado nonché alle speae del doppio grado di giudizio.
In particolare la Corte ha respinto la tesi della simulazione del contratto di finanziamento del 7 novembre 1988, al quale gli Apuzzo si erano dichiarati estranei, per essere stata reale mutuataria Basler, che si era obbligata sin dall’inizio ad acquistare il pacchetto di azioni, utili al controllo della Tirrena, e che que1l’obb1igo aveva nel novembre confermato con lettera che era stata poi per accettazione sottoscritta il 16 dicembre 1988 da Citibank.
La sentenza impugnata ha respinto altreai le teai subordinate – sostenute dagli Apuzzo – secondo cui il contratto con la Basler era stato sottoscritto da Citibank in forza di procura speciale e irrevocabile a trasferire le azioni costituite in pegno rilasciata dagli Apuzzo il 7 novembre 1988, ovvero costituiva contratto in favore di terzo. In particolare la corte di merito ha osservato, in relazione alla prima tesi, che la dichiarazione di Basler di esercitare il riscatto ed indirizzata a Citibank era anteriore al rilascio della procura dei venditori alla banca e non era stata sottoscritta da quest’ultima quale loro procuratrice, la quale peraltro non aveva assunto alcuna obbligazione a trasferire le azioni; sicché la procura risultava essere un’autorizzazione e non un incarico che avesse vincolato il mandatario a vendere.
In relazione alla seconda tesi, prospettata in riferimento alla dichiarazione sottoscritta il 16 dicembre 1988 dalla banca, la corte di appello ha affermato che la stessa mal si concilia con la sottoscrizione dei contratti di finanziamento da parte degli Apuzzo, ritenendo il comportamento di Basler e Citibank coerente con gli interessi dichiarati dell’atto, a prescindere dalla sua destinazione a costituire diritti azionabili dai venditori, in alcun modo menzionati.
La Corte di appello ha conclusivamente escluso che Basler si fosse mai obbligata verso gli Apuzzo; che il contratto di opzione fosse oggettivamente simulato o lo fossero soggettivamente i contratti di finanziamento stipulati dagli Apuzzo con la banca per provvedere alla sottoscrizione dell’aumento di capitale Tirrena, affermando che tanto risultava confermato nelle pattuizioni intercorse tra Basler e gli Apuzzo nel settembre 1990, concernenti l’acquisto da parte di questi ultimi della partecipazione originariamente controllata dalla Basler nella Tirrena, contratto con il quale i precedenti risulterebbero incompatibili sul piano della opportunità e della convenienza economica.
Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso con sette motivi Apuzzo Luigi, Mario Oriolo e Anna. Resistono con separati controricorsi Citibank e Basler, le quali hanno anche proposto ricorsi incidentali condizionati con un solo motivo.
I ricorrenti principali resistono con controricorso ai ricorsi incidentali.
Tutte le parti hanno preaentato memorie.
La prima sezione di questa corte ha rimesso gli atti al primo presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, essendo stata proposta con il ricorso incidentale della Basler una questione di giurisdizione.
Le parti hanno presentato ulteriori memorie.
Motivi della decisione
1.1 Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.
Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti principali lamentano la Violazione e falsa applicazione degli articoli 1362, 1363 e 1388 cod. civ., nonché dei principi generali in materia di rappresentanza. Omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia (articolo 360, primo comma, numeri 3 e 5, cod. proc. civ.). Assumono i ricorrenti che effettiva titolare del diritto di opzione, oggetto del contratto intercorso tra il 24 e il 27 giugno 1988, era stata Basler – circostanza pacifica e comunque accertata dalla sentenza impugnata – controllante di Basilese, che aveva sottoscritto il contratto; che il 5 novembre 1988 Basler aveva inviato a Citibank una lettera di conferma dei precedenti accordi, di cui era atato ribadito il tenore; che in tale lettera si era inoltre stabilito che la famiglia Apuzzo avrebbe autorizzato incondizionatamente e irrevocabilmente la filiale di Roma a trasferire le azioni ad essa Basler e a trattenere la somma corrispondente ai crediti della banca verso gli Apuzzo; che il 7 novembre 1988 gli Apuzzo avevano conferito a Citibank “mandati e procure “incondizionati e irrevocabili” a “trasferire” a Baloise” [id est: Blaser] o alla società da essa designata le azioni Tirrena, oggetto del diritto di opzione; che il 16 dicembre successivo, dopo cioè tali mandati, Citibank aveva sottoscritto per accettazione tale lettera.
Premesso che Basler si era impegnata verso Citibank ad esercitare la opzione sulle azioni Tirrena, i ricorrenti hanno contestato la rilevanza attribuita dalla corte di appello alla anteriorità della dichiarazione di Basler rispetto alla procura, per negare fondatezza alla loro tesi, perché proprio tale anteriorità spiegherebbe l’esigenza di subordinare la accettazione della banca al rilascio di procure incondizionate e irrevocabili al trasferimento delle azioni, prima delle quali Citibank non era legittimata ad interloquire; motivo che aveva indotto Basler ad assumere l’obbligo di esercitare la opzione, subordinatamente alla investitura procuratoria della banca da parte degli Apuzzo; tant’è che la accettazione di quest’ultima era seguita al conferimento dei poteri rappresentativi.
In relazione poi al rilievo contenuto nella sentenza impugnata, secondo cui “la dichiarazione accettata il 16 dicembre 1988 non risulta né indirizzata a Citibank né da questa sottoscritta quale procuratrice degli Apuzzo”, i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata non ha considerato che la rappresentanza può essere dedotta, oltre che da un’espressa dichiarazione del soggetto agente, anche da ogni altro elemento da cui risulti che l’attività dell’agente si svolga in attuazione di un potere rappresentativo a lui conferito e che nella fattispecie la motivazione della sentenza al riguardo è insufficiente e sostengono che, in base al concreto svolgimento dei rapporti tra Citibank e Blaser, “non può negarsi” che Blaser fosse a conoscenza della procura conferita dagli Apuzzo a Citibank”.
1.2 Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 1388 c.c. nonché dei principi generali in materia di rappresentanza. Omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, primo comma, numeri 3 e 5, cod. proc. civ.). I ricorrenti, con riferimento alle affermazioni contenute nella sentenza impugnata secondo cui Citibank non aveva assunto alcuna obbligazione di trasferire le azioni e la procura dei venditori era contemplata come autorizzazione e non come incarico che vincolava il mandatario a vendere, hanno rilevato che l’obbligo di trasferire le azioni discendeva dal contratto di opzione stipulato il 27 giugno 1988 e che, pertanto, la banca aveva agito come procuratrice degli Apuzzo, i quali si erano già obbligati a cedere le azioni a Basler, ed essa banca, quindi, aveva stipulato un contratto in cui ad obbligarsi ad esercitare il diritto di opzione era soltanto Basler.
2. I suddetti due motivi di ricorso, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.
Essi sono fondati.
Va preliminarmente rigettata l’eccezione di inammasibilità degli stessi sollevata dalle resistenti, secondo cui la tesi del negozio rappresentativo sarebbe stata introdotta per la prima volta dagli attuali ricorrenti solo nella comparsa conclusionale in appello e che tale novità era già stata in quella sede rilevata dalla resistente Citibank.
Ritengono queste S.U. che nella fattispecie non si versa in ipotesi di novità della causa petendi, introdotta solo in appello, con conseguente inammissibilità della domanda, fondata sul mandato conferito alla banca.
Infatti nella comparsa di costituzione in primo grado degli Apuzzo si legge (p. 12) che “all’esito delle trattative con Citibank vennero sottoscritti:……….:.. c)un mandato irrevocabile della famiglia Apuzzo al sig. Riccardo De Lorenzo,direttore della Ciitibank n.a. di Roma, perchè trasferisce alla Balosie tutte le azioni, quelle vecchie e quelle di nuova emissione, dietro pagamento del prezzo pattuito aumentato del valore nominale delle nuove azioni, oltre agli oneri finanziari maturati sul finanziamento erogato;tale mandato prevedeva che Citibank trattenesse il prezzo delle nuove azioni e gli oneri finanziari e trasferisse il prezzo delle azioni alla famiglia Apuzzo: tale era l’unica forma di rimborso prevista”.
Alla Citibank, quale banca mandataria degli Apuzzo per il trasferimento delle azioni si fa espresso riferimento anche nelle note in primo grado del 31.1.199 (p. 5/6), nonché nella comparsa conclusionale di primo grado.
3. La Corte di appello ha escluso la fondatezza della domanda secondo cui il contratto con la Basler (effettiva titolare del diritto di opzione) sarebbe intervenuto con la mandataria degli Apuzzo, e cioè la Citibank, in forza di procura speciale ed irrevocabile a trasferire le azioni costituite in garanzia, da essi rilasciata il 11.1988.
Il rigetto della domanda si fonda su due considerazioni.
La prima ê che la dichiarazione della Basler aha Citibank di voler acquistare le azioni fu anteriore al rilascio della procura Apuzzo – Citibank. La seconda è che la dichiarazione, accettata il 16 dicembre 1988, non risulta da Citibank sottoscritta quale procuratrice degli Apuzzo, né la Citibank si assumeva alcuna obbligazione di trasferire le azioni. Inoltre la procura dei venditori Apuzzo contemplava un’autorizzazione a vendere e non un incarico a vendere, vincolante per il mandatario.
4. Le censure a tale motivazione sono fondate.
In punto di fatto va osservato che la sentenza impugnata ha accertato, ed il punto non è più in discussione, che il diritto di opzione all’acquisto delle azioni della Compagnia Tirrena Assicurazioni, per quanto apparentemente in capo alla s.p.a. la Basilese (detta anche Baloise), in realtà, per effetto di simulazione relativa soggettiva, si apparteneva alla controllante Basler; che detto accordo prevedeva il conferimento di un mandato irrevocabile in favore di una banca, che avrebbe finanziato gli alienanti per un’operazione di aumento di capitale, per trasferire alle opzionanti le azioni da cedere in pegno, trattenendo essa banca la somma di cui sarebbe stata creditrice; che con lettera senza data (secondo gli Apuzzo del 5.11.1988) la Basler dichiari alla Citibank di voler esercitare l’opzione con gli Apuzzo, che avrebbero autorizzato la banca alla vendita; che la Citibank accettò tale richiesta con lettera del 16.12.1988.
Nel contempo la sentenza impugnata dà atto che i giudici svizzeri, nel giudizio instaurato da Citibank contro la Basler, ed in cui erano intervenuti gli Apuzzo per sostenere la posizione di Citibank, avevano statuito che la Basler nel novembre del 1988 si era impegnata nei confronti di Citibank ad esercitare l’opzione sulle azioni Tirrena degli Apuzzo e condannava la Basler al pagamento di quanto dovuta ad essa banca.
5.1 Va, anzitutto, osservato, quanto alla contemplatio domini, che l’esternazione del potere rappresentativo può avvenire anche senza l’espressa dichiarazione di spendita del nome del rappresentato, purchè vi sia un comportamento del mandatario che, per univocità e concludenza, sia idoneo a portare a conoscenza dell’altro contraente la circostanza che egli agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti dell’attività sono destinati a prodursi direttamente. L’accertamento circa la sussistenza o meno della spendita del nome del rappresentato è compito devoluto al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove corretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e da errori di diritto (Cass. 6.2005, n. 13978; Cass. 14/11/1996, n. 9980; Cass. 3.12.2001, n. 15235; Cass. 29.8.1997, n. 8249).
5.2 Ne consegue che erra in diritto la sentenza impugnata che ritiene inesistente il potere rappresentativo per il solo fatto che la Citibank non abbia sottoscritto l’accettazione della lettera del 12.1988 nella qualità di mandataria degli Apuzzo.
Il giudice di merito avrebbe dovuto valutare se effettivamente gli Apuzzo avessero conferito poteri rappresentativi per la vendita delle azioni alla Citibank; se questa avesse quanto meno implicitamente speso tale potere rappresentativo compiendo atti e tenendo un comportamento, che per univocità e concludenza, presupponeva tale potere e portava a conoscenza dell’altra parte (appunto la Balser) che tale potere rappresentativo vi fosse.
Nella fattispecie il giudice di merito ai è limitato a rilevare che nella lettera della Basler alla Citibank e da questa accettata il 16.12.1988 manca una coutemp2atio domini in favore degli Apuzzo. Sennonchè la corte di merito non ha considerato se il comportamento del mandatario e l’intero contesto in cui il tutto avveniva erano idonei a portare a conoscenza della Basler che la Citibank agiva nella qualità di mandataria degli Apuzzo.
In particolare la sentenza impugnata non ha considerato l’atto del novembre 1988, indirizzato dalla Basler a Citibank e da questa accettato il 16.12.1998, valutandolo complesaivamente ed in tutte le sue clausole (tra cui quella al punto 3 a),che prevedeva che Citibank avrebbe ottenuto dagli Apuzzo procura incondizionata ed irrevocabile a vendere a Basler le azioni); non ha valutato se dal complesso delle clausole emergeva che, in tanto la Citibank poteva accettare ed entrare nel regolamento contrattuale propostole, in quanto avease avuto poteri rappresentativi dagli Apuzzo; non ha valutato se il regolamento negoziale (con i presupposti indicati), proposto a Citibank, era così strutturato che l’accettazione dello stesso comportava necessariamente la contemplatio domini dei rappresentati Apuzzo, venditori delle loro azioni, segnatamente nei confronti del soggetto (la Basler) che tali clausole aveva predisposto e aottoposto a Citibank per l’accettazione.
5.3 Va, poi, osservato che non ha il carattere decisivo che la corte di merito le assegna il fatto che la lettera del novembre 1988 sia stata indirizzata alla Citibank, ma non quale procuratrice degli Apuzzo. CiÒ si spiega aulla base dello stesso tenore dell’atto che appunto fa presente che la procura irrevocabile a vendere non è stata ancora concessa, ma che lo sarà.
5.4 Non puó essere condivisa l’osservazione della sentenza impugnata secondo cui nella fattispecie la procura dei venditori era contemplata (nell’atto accettato da Citibank) come autorizzazione e non come incarico vincolante il mandatario a vendere .
Va, anzitutto, rilevato che nella fattispecie ciò che viene in esame non è il rapporto contrattuale che legava gli Apuzzo alla Citibank (ipotizzato dai primi come mandato), ma solo se la Citibank fosse dotata di poteri rappresentativi degli Apuzzo nei confronti della Basler, e ciò a prescindere se vi fosse poi un obbligo o meno di Citibank di esercitare tale potere rappresentativo (poiché quest’ultima queatione costituisce oggetto dei rapporti interni tra banca ed Apuzzo).
Una volta ritenuta l’esistenza della procura dei venditori Apuzzo rilasciata a Citibank, tale procura rileva nei confronti dei terzi (nella specie Basler) solo e sempre come autorizzazione e non come obbligo a contrarre (come invece all’interno del rapporto di mandato). Il conferimento del potere di rappresentanza, sia nella forma esplicita della procura (art. 1392) sia come facoltizzazione implicita in altro negozio, consiste sempre in una dichiarazione unilaterale ricettizia, o indirizzata alla controparte, o, comunque, destinata ad esserle resa nota (art. 1393), con cui si autorizza un atto altrui di disposizione, assumendo in anticipo su di sé le conseguenze che ne deriveranno. La portata giuridica di siffatta autorizzazione è che con essa l’autorizzante si appropria e si immette preventivamente nella propria sfera l’assetto, che sarà dato ai propri interessi dal rappresentante nei confronti della controparte.
6. Con il terzo motivo i ricorrenti principali lamentano la Violazione e falsa applicazione degli artt. 1321 al 1372 cod. civ., nonché dei principi generali in materia di contratti. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, primo comma, numeri 3 e 5, cod. proc. civ.).
I ricorrenti assumono l’erroneità della sentenza impugnata, laddove ha tratto conferma alle proprie conclusioni dalle pattuizioni intercorse nel settembre 1990 tra Basler e Apuzzo, per l’acquisto da parte di queati ultimi della partecipazione originariamente controllata da Basler su Tirrena, pattuizioni che, secondo la corte di merito, rendevano evidente che i contraenti ritenessero superata la validità delle intese raggiunte nel 1988. E infatti proprio la riconosciuta non corrispondenza, né oggettiva né soggettiva, tra il contratto successivo e gli accordi oggetto della presente causa escluderebbero – ad avviso dei ricorrenti – che fossero state superate le intese raggiunte in precedenza.
7.1 Il motivo è inammissibile.
Va osservato che il giudice di appello non ha statuito, contrariamente a quanto sembrano ritenere i ricorrenti, sul punto se le pattuizioni intercorse fra Basler ed Apuzzo nel settembre 1990, concernenti l’acquisto da parte degli Apuzzo della partecipazione azionaria originaria della Basler nella Tirrena, avessero giuridicamente sciolto gli accordi oggetto di questa causa, tenuto conto della non corrispondenza soggettiva ed oggettiva degli accordi, ma ne ha valutata l’incompatibilità “sul piano della opportunità e della convenienza economica”, per cui ”i contraenti ritenevano allora superata la validità delle intese raggiunte nel 1988”.
Sennonchè il giudice di appello ha cura di premettere che queste sue osservazioni (peraltro fondate su rilievi di opportunità e convenienza economica) mirano solo a confermare la giustezza della decisione già da lui presa sulle pattuizioni oggetto del giudizio presente.
Trattasi, quindi, di argomentazione ad abundantiam resa dal giudice di merito e non di autonoma ratio decidendi.
7.2 Deve, pertanto, ribadirsi il principio – assolutamente pacifico nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censuri una argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam e, pertanto, non coatituente una ratio decidendi della medesima.
Un’affermazione, infatti, contenuta nella motivazione della sentenza di appello, che non abbia spiegato alcuna influenza sul dispositivo della stessa, essendo improduttiva di effetti giuridici, non può essere oggetto di ricorso per cassazione, per difetto di interesse (Cass. 14.11.2006, n. 24209, specie in motivazione, nonchè, cfr., altresi, Cass. S.U. 20.2.2007, n. 3840; Cass. 05/06/2007, n.1306; Cass. 23/11/2005, n.24591).
8. L’accoglimento dei primi due motivi comporta l’assorbimento dei restanti motivi.
8.1 Solo a seguito de11’accoglimento dei primi due motivi del ricorso principale può passarsi ad esaminare i ricorsi incidentali condizionati di Citibank N.A. e di Basler Versicherungs Gesellshaft, e ciò nonostante che quest’ultimo censuri la sentenza impugnata ai sensi dell’art. 360 n. 1 c.p.c., per difetto di giurisdizione del giudice italiano, per effetto di clausola compromissoria per arbitrato estero, ai sensi dell’art. 2 della Convenzione di New York del 10 giugno 1958.
Infatti, come hanno definitivamente affermato queste S.U (6.3.2009, n. 5456) a compimento di un lungo percorso di rivisitazione della giurisdizione nell’attuale ordinamento, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che inventa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d’ufficio, non siano state oggetto di decisione eaplicita o implicita (ove quest’ultima sia possibile) da parte del giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte di cassazione, solo in presenza dell’attualità dell’interesse, sussistente unicamente nell’ipotesi della fondatezza del ricorso principale.
Questo principio va qui ribadito, anche se va specificato che, essendosi eccepita l’esistenza di compromesso in favore di arbitrato estero, in astratto non si pone una questione di giurisdizione ma una preliminare di merito, attinente alla proponibilità della domanda (giurisprudenza costante, pur nel dissenso della prevalente dottrina: Cass. S.U. 05/01/2007, n. 35; Cae G . S . U . rt . 4 1 2/ 07 ) .
Sennonchè nella fattispecie non può passarsi all’esame dell’unico motivo del ricorso incidentale della Basler, per inammiasibilità del ricorso stesso, per mancata esposizione dei fatti di causa, a norma del combinato disposto degli 371, c. 3, e 366, c. 1° n. 3, c.p.c..
Infatti il controricorso, avendo la sola funzione di resistere all’impugnazione altrui non richiede a pena di inammissibilità l’esposizione sommaria dei fatti di causa, ben potendo richiamarsi ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero nel ricorso principale (Case. 21.2.1996,n. 1341; Cass. 9.9.1997,n. 8746)
Ove tuttavia detto controricorso contenga anche un ricorso incidentale, per l’ammissibilità di quest’ultimo, data la sua autonomia rispetto al ricorso principale, deve sussistere l’esposizione sommaria dei fatti di causa ed è pertanto inammissibile il ricorso incidentale (e non il controricorso) tutte le volte in cui si limiti ad un mero rinvio all’esposizione del fatto contenuta nel ricorso principale, potendo il requisito di cui all’art. 366 c. 1, n. 3 c.p.c, ritenersi sussistente, solo quando dal contesto de1l’atto di impugnazione si rinvengono gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalle parti, senza neceasità di ricorso ad altre fonti (Cass. S.U. 13.2.1998,n. 1513). Ai fini de11’inammissibi1ità alla mancata eapoaizione dei fatti di causa va equiparata l’insufficienza della stessa (Cass. 20/06/2008, n.16809; Cass. 03/02/2004, n.1959; Cass. 23/05/2003, n.8154; Cass. 23.7.1994, n. 2796).
Nella fattispecie neppure dal contenuto del controricorso emergono tutti questi elementi suddetti relativi allo svolgimento dei fatti di causa.
10.Quanto al ricorso incidentale della Citibank, lo stesso va dichiarato assorbito.
Infatti tale motivo di ricorso è stato dalla ricorrente incidentale condizionato all’accoglimento del quinto motivo del ricorso principale, con cui i ricorrenti principali lamentano, in via subordinata al mancato accoglimento dei due primi motivi di ricorso, la violazione di alcune norme regolatrici del mandato. Poiché tale motivo del ricorso principale è stato dichiarato assorbito, essendo stati accolti i primi due motivi, a cui era subordinato, va dichiarato assorbito anche il ricorso incidentale della Citibank, condizionato all’accoglimento del predetto quinto motivo del ricorso principale.
11. In definitiva vanno accolti i primi due motivi del ricorso principale, va dichiarato inammissibile il terzo ed assorbiti i restanti, nonché il motivo del ricorso incidentale della Citibank. Va dichiarato inammissibile il ricorso incidentale della Basler. Va cassata, in relazione ai motivi accolti, la sentenza impugnata, con rinvio anche per le apese del giudizio di cassazione ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che si uniformerà al seguente principio di diritto: “In tema di rappresentanza, l’esternazione del potere rappresentativo può avvenire anche senza l’espressa dichiarazione di spendita del nome del rappresentato, purchè vi sia un comportamento del rappresentante ovvero un contesto in cui queati opera che, per univocità e concludenza, sia idoneo a portare a conoscenza dell’altro contraente la circostanza che egli agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti dell’attività sono destinati a prodursi direttamente. L’accertamento circa la sussistenza o meno della spendita del nome del rappresentato è compito devoluto al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e da errori di diritto”.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi . Accoglie i primi due motivi del ricorso principale, dichiara inammissibile il terzo ed assorbiti i restanti, nonché il motivo del ricorso incidentale della Citibank N.A.. Dichiara inammissibile il ricorso incidentale della Basler Versicherungs Gesellshaft. Cassa, in relazione ai motivi accolti, la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
Cosi deciso in Roma, lì 6 ottobre 2009.
Il cons. est. Il Presidente
Allegati:
SS.UU, 21 ottobre 2009, n. 22234, in tema di rappresentanza
In tema di fondo patrimoniale – SS.UU, 13 ottobre 2009, n. 21658
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
Fondo
patrimoniale,
convenzione
matrimoniale,
pubblicità
R . G . N . 965 6/200
Cron. 21658
Rep. 6873
Ud. 29/09/2009
PU
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VINCENZO CARBONE – Primo Presidente –
Dott. TORQUATO GEMELLI – Presidente Aggiunto –
Dott. PAOLO VITTORIA – Presidente di Sezione –
Dott. GUIDO VIDIRI – Consigliere –
Dott. MARIO FINOCCHIARO – Consigliere –
Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO – Rel. Consigliere –
Dott. GIUSEPPE SALME’ – Consigliere –
Dott. LUIGI MACIOCE – Consigliere –
Dott. ETTORE BUCCIANTE – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 9656-Z004 proposto da:
FERRARA GIUSEPPE (FRRGPP46A06H431I), SPERANZA ROSA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CRESCENZIO 19, presso lo studio dell’avvocato TORRE GIUSEPPE, rappresentati e difesi dall’avvocato FAUCEGLIA GIUSEPPE, per procura margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
COMUNE DI NOCERA SUPERIORE, in persona del Sindaco pro- tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SARDEGNA 38, presso lo studio dell’avvocato DI GIOVANNI FRANCESCO, rappresentato e difeso dall’avvocato SESSA VINCENZO, per procura a margine del controricorso;
INTESA GESTIONE CREDITI S.P.A. (00169760659), in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CIPRO 46, presso lo studio dell’avvocato NOSCHESE GIOVANNI, rappresentata e difesa dall’avvocato NAPOLI MAURIZIO, per procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 219/2003 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 12/03/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/09/2009 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;
udito l’Avvocato Antonio CAIAFA, per delega dell’avvocato Giuseppe rauceglia;
udito il E.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. AMTOMIO CARTONE, che ha concluso per l’accoglimento, enunciando il principio che la destinazione dei beni immobili al fondo patrimoniale può essere oppo:sta ai terzi se oggetto di trascrizione ai sensi dell’art. 2647 c.c. indipendentemente dalla annotazione a margine dell’atto di matrimonio.
Svolgimento del processo
l coniugi Ferrara Giuseppe e Speranza Rosa convenivano in giudizio la BCI (Banca Commerciale Italiana) per ottenere l’accertamento dell’inefficacia delle iscrizioni ipotecarie accese dall’istituto di credito sui beni costituiti da essi coniugi in fondo patrimoniale con atto del 20/4/1990.
La BCI, costituitasi, chiedeva il rigetto della domanda deducendo che la costituzione del fondo patrimoniale era inopponibile ad essa banca essendo stata annotata a margine dell’atto di matrimonio, ex articolo 162 c.c., in data successiva all’ iscrizione ipotecaria.
Gli attori chiedevano ed ottenevano di chiamare in causa il Comune di Nocera Superiore in quanto responsabile della mancata annotazione pur avendo il notaio rogante notificato l’atto costitutivo del fondo in data 4/5/1990.
Il Comune si costituiva chiedendo il rigetto della domanda proposta nei suoi confronti.
Con senteriza 486/00 l’adito tribunale dì Nocera Inferiore rigettava la domanda nei confronti della BCI poiché l’atto costitutivo del fondo patrimoniale non cura stato annotato a margine dell’atto di matrimonio come prescritto dall’articolo 162 c.c. ed essendo irrilevante la conoscenza dello stesso altrimenti (per effetto delle trascrizioni) conseguita dal terzo. Il tribunale dichiarava poi inammissibile la chiamata in causa del Comune in quanto non richiesta alla prima udienza.
Avverso la detta decisione i coniugi Ferrara-Speranza proponevano appello al quale resistevano la BCI ed il Comune di Nocera Superiore.
Con sentenza 12/3/2003 la corte di appello di Salerno rigettava il gravame osservando per quel che ancora rileva in questa sede: che, con atto notarile del 20/4/1990, Speranza Rosa, con l’assenso del marito, aveva costituito in fondo patrimoniale ex articolo 162 c.c., per far fronte ai bisogni della famiglia, alcuni beni immobili mantenendone la proprietà; che l’atto, trascritto presso la Conservatoria dei RR.II. di Salerno in data 26/4/1990, era stato notificato dal notaio rogante all’ufficio dello stato civile di Nocera Superiore in data 4/5/1990 ed era stato poi annotato a margine dell’atto di matrimonio in data 3/5/1996; che, emessi due decreti ingiuntivi a carico dei coniugi Ferrara-Speranza e a favore della BCI, quest’ultima aveva iscritto ipoteca giudiziale anche sui beni costituiti in fondo patrimoniale; che gli appellanti avevano reiterato la domanda di inefficacia dell’iscrizione ipotecaria sui beni della Speranza costituenti il fondo patrimoniale sostenendo la prevalenza della trascrizione dell’atto di costituzione pur se non annotato a margine dell’atto di matrimonio; che il gravame era infondato alla stregua di un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità e di merito, con il contorto anche della Corte Costituzionale; che tutti i rilievi al riguardo svolti dagli appellanti trovavano puntuale risposta nel detto orientamento giurisprudenziale; che la stipulazione del fondo patrimoniale, essendo una tipica convenzione matrimoniale, doveva essere annotata ex articolo 162 c.c., ad istanza del notaio rogante, a margine dell’atto di matrimonio dei coniugi in favore dei qu‹ili il fondo era stato costituito; che detta convenzione era soggetta al terzo comma del citato articolo che condizionava l’opponibilità ai terzi alla ann‹itazione del relativo contratto a margine dell’atto di matrimonio; che la trascrizione, pure prevista dall’articolo 2647 c.c., per effetto dell’abrogazione dell’ultimo comma di tale articolo, doveva intendersi degradata a mera pubblicità notizia del vincolo inidonea ad assicurare la detta opponibilità derivante solo dall’annotazione a margine dell’atto di matrimonio; che pertanto, avendo la BCI iscritto ipoteca sui beni immobill della Speranza quan‹lo non era stata ancora annotata a margine dell’atto di matrimonio la convinzione costitutiva del fondo patrimoniale, il vincolo di destinazione non era opponibile alla creditrice pur essendo stata trascritta la convenzione nei RR.II. di Salerno; che la domanda di risarcimento non poteva trovare accoglimento alla cuce dei principi di correttezza e buona fede in quanto, non es.sendo la costituzione del fondo patrimoniale opponibile per legge al creditore, l’iscrizione ipotecaria non poteva costituire comportamento valutabile alla stregua dei detti principi; che non potevano essere accolti i motivi ili gravame relativi alla pretesa responsabilità del Comune per la tardiva annotazione della convenzione a margine dell’atto di matrimonio agendo il Sin‹laco, nell’esercizio della funzione di tenuta dei registri dello stato civile, quale organo dello Stato con conseguente legittimazione passiva di questo nella controversia in esame.
La cassazione della sentenza della corte di appello di Salerno è stata chiesta dai coniugi Ferrara-Speranza con ricorso affidato a quattro motivi.
Con il prirrio motivo di ricorso i citati coniugi denunciano violazione degli articoli 167 e 162 c.c., nonché vizi di motivazione, deducendo che la costituzione di fondo patrimoniale in questione riguarda solo immobili di proprietà esclusi a di essa Speranza Rosa e che essi coniugi avevano già in precedenza optato per il regime patrimoniale di separazione dei beni. Pertanto — a prescindere dalle impostazioni teoriche che escludono dal novero delle convenzioni matrimoniali il negozio costitutivo del fondo patrimoniale – difetta nella specie la natura di “convenzione matrimoniale” trattandosi di atto unilaterale di urio solo dei coniugi relativo a beni di sua esclusiva proprietà.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione degli articoli 2647, 2685, 1 I ‘/5 e 1375, nonché del rapporto tra i primi due articoli con gli articoli 162 e 1ó7 c.c., sostenendo che è errata la ricostruzione operata dalla corte di appello in ordine ai rapporti intercorrenti tra la trascrizione nei registri immobiliari e l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio ai fini dell’opponibilil à ai terzi dell’atto di costituzione di beni immobili in fondo patrimoniale. Ad avviso dei coniugi Ferrara-Speranza “le due forme di pubblicità conserv.ano una natura complementare avendo un diverso campo di applicazione: l”annotazione a margine dell’atto di matrimonio ha ad oggetto il regime patrimoniale diverso da quello della comunione legale oppure la modifica del regime scelto al matrimonio ……….; la trascrizione di cui all’articolo 2647 c.c. è invece necessaria al tìne di rendere opponibile ai terzi l’atto costitutivo del fondo patrimoniale avente ad oggetto beni immobili”. L’annotazione di cui all’articolo 162 c.c. ha quindi la finalità di rendere conoscibili l’esistenza ed il contenuto del fondo patrimoniale, mentre la trascrizione di cui all’articolo 2647 c.c. assolve la funzione dichiarativa generale svolta da tìetto istituto. Inoltre, pur qualificando la pubblicità della iscrizione come mera “pubblicità notizia”, ha errato la corte di appello nel non censurare il comportamento della banca che — conoscendo la finalizzazione del patriinoni‹a alla realizzazione degli interessi della famiglia evincibile dalla trascrizi‹ine dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale – in violazione dei principi di buona fede e correttezza, oltre che di normale prudenza, ha fatto gravare sui beni immobili iscrizione ipotecaria rendendo in tal modo gli stessi inutilizzabili per i bisogni della famiglia. La banca era a conoscenza non solo del vincolo di destinazione sui beni, ma anche della origine del credito azionato non generato per gli interessi della famiglia.
Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’articolo 170 c.c. e vizi di motivazione rilevando che il credito posto a base dei decreti ingiuntivi e della iscrizione ipotecaria è successivo alla costituzione del fondo patrimoniale e riguarda rapporti tra la banca e società ( garantita da obbligazione fideiussoria assunta da essi coniugi ) instaurati per scopi estranei ai bisogni della famiglia, con conseguente impossibilità di agire su beni immobili vincolati ai detti bisogni.
Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’articolo 1 R.D. 9/7/1939 n. 1238, anche in relazione all’articolo 2043 c.c., lamentando l’errore commesso dalla corte di appello nell’aver escluso la legittimazione passiva del Sindaco. Deducono i ricorrenti che nella specie è evidente il cattivo funzionamento dell’intera struttura organizzativa del Comune di Nocera Superiore i cui uffici avevano impiegato circa sei anni ad annotare a margine dell’atto di matrimonio l’atto di costituzione del fondo patrimoniale in questione. Pertanto il Sindaco, pur agendo in veste di ufficiale di Governo quale organo dello Stato, anche nel servizio dello stato civile è titolare di una competenza funzionale propria con obbligo di organizzare i servizl nella maniera più efficiente e in modo tale da non arrecare danni a terzi.
La s.p.a. Intesa Gestione Crediti ( subentrata a seguito di fusione in tutti i rapporti giuridici della Banca Commerciale Italiana ) e il Comune di Nocera Superiore hanno resistito con separati controricorsi.
La seconda sezione civile di questa Corte, con ordinanza 27/10/2008 n. 25857, rilevato che i primi due motivi di ricorso investivano una questione di particolare importanza, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente pet l’assegnazione alle sezioni unite in base alle considerazioni svolte in detta ordinanza.
Il Primo Presidente ha quindi disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
L’ordinanza a seguito della quale la causa è stata assegnata a queste sezioni unite porre la questione se la costituzione del fondo patrimoniale sia o meno una convenzione matrimoniale. L’ordinanza, pur prendendo atto dell’assenza di un contrasto all’interno dell’orientamento giurisprudenziale di questa Corte secondo cui la costituzione del fondo patrimoniale è una convenzione matrimoniale, invita ad una rimeditazione del problema. Osserva l’ordinanza che I’atto con il quale viene costituito il patrimonio familiare non è una convenzione matrimoniale come si rileva dalla constatazione che lo stesso c disciplinato autonomamente nel capo VI Libro 1 del c.c. e menzionato nel primo comma dell’articolo 2647 e.c. Rileva inoltre l’ordinanza che la stessa natura dell’atto in questione “parrebbe escludere la riconducibilità dello stesso alle convenzioni matrimoniali”. Prosegue l’ordinanza che per aderire all’interpretazione fatta propria dalla corte di appello nella sentenza impugnata si dovrebbe accedere “ad una interpretazione estensiva dell’articolo 162 c.c. al fine di ricomprendervi qualsiasi negozio che ponga beni appartenenti a persone coniugate in una condizione giuridica diversa da quella propria del regime patrimoniale legale, con conseguente funzione di pubblicità notizia della trascrizione, in quanto il considerare convenzione m‹itrimoniale un atto unilaterale, in ipotesi posto in essere da un terzo, comporterebbe una interpretazione analogica ( vietata ) e non semplicemente estensiva dell’articolo 162, comma 4º, c.c”. Afferma invece l’ordinanza che l’opponibilità ai terzi dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale, “avente natura dichiarativa”, non può che discendere dalla trascrizione ex articolo 2647 c.c. e non dall’annotazione a margine dell’atto di matrimonio ex quano comma articolo 162 c.c. Diversamente, precisa l’ordinanza, non potrebbe non essere rilevata l’incongruità di un sistema pubblicitario nel quale al terzo acquirente, pur a conoscenza del vincolo gravante sul bene in virtù del controllo nei registri immobiliari, tale vincolo non sarebbe opponibile in quanto non annotato a margine dell’atto di matrimonio.
Devono quindi essere esaminate le seguenti questioni: l) se l’atto di costituzione del tondo patrimoniale di cui all’articolo 167 c.c. sia o meno una convenzione matrimoniale ai fini dell’applicabilità della disposizione dell’articolo 162. quarto comma, c.c.; 2) se, data risposta positiva al quesito che precede, l’opponibilità ai terzi dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale — avente ad oggetto beni immobili — Sia subordinata all’annotazione a margine dell’atto di matrimonio a prescindere dalla trascrizione del medesimo atto imposta dall’articolo 2647 c.c.
Ai detti quesiti la corte di merito ha dato risposta positiva con sentenza che queste sezioni unite devono confermare confermando in tal modo i principi recentemente affermati da questa Corte con la sentenza 25/3/2009 n. 7210 pronunciata dopo la pubblicazione della citata ordinanza delle seconda sezione civile ( richiamata ed esaminata nella detta sentenza ) e con la quale é stato dcciso un ricorso promosso dai coniugi Ferrara-Speranza sulla base degli stessi quattro motivi prospettati con il ricorso in esame relativo ad una analoga fattispecie.
Per quel che riguarda il primo motivo di ricorso va innanzitutto rilevata l’inammissibiliià — puntualmente eccepita dalla società resistente – della censura con la quale i menzionati coniugi prospettano per la prima volta in questa sede di legittimità la tesi secondo cui nella specie sarebbe da esclude- re la sussistenza di una “convenzione matrimoniale” in quanto “nell’atto costitutivo del fondo la presenza dell’altro coniuge sig. Ferarra Giuseppe è richiesta per la sola accettazione”. Deducono in proposito i ricorrenti che il fondo patrimoniale in questione è stato costituito “con atto unilaterale di uno solo dei coniugi e con beni che rientravano nella sua proprietà esclusiva sicché alla costituzione per atto unilaterale non possono applicarsi sic et simpliciter le norme speciali della pubblicità”.
Al riguardo è appena il caso di osservare che la detta censura si basa su una questione — costituzione del fondo patrimoniale in esame da parte di uno solo e di entrambi i coniugi — non prospettata nei giudizi di merito. Della detta questione non si fa infatti alcun cenno nella sentenza impugnata nella quale, anzi, nella esposizione in fatto si dà atto che i coniugi Ferrara- Speranza nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado avevano dedotto di aver costituito, con atto del 20/4/1990, un fondo patrimoniale e, nella parte motiva, si premette che con il detto atto Speranza Rosa “con l’assenso del marito” avev:i costituito il fondo patrimoniale
Sul punto va ribadito il principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità secondo cui nel giudizio di cassazione, a parte le questioni rilevabili di utficio (sulle quali non si sia formato il giudicato), non è consentita la proposizione di doglianze che, modificando la precedente impostazione difensiva, pongano a fondamento delle domande e delle eccezioni titoli diversi da quelli fatti valere nel pregresso giudizio di merito e prospettino comunque questioni fondate su elementi di fatto nuovi e difformi da quelli ivi proposti. I motivi del ricorso per cassazione devono infatti investire, a pena di inammissibilità, statuizioni e problematiche che abbiano formato oggetto del giudizio di appello per cui non possono essere prospettate questioni nuove o nuovi temi di indagine involgenti accertamenti non compiuti perché non richiesti in sede di merito.
Pertanto ove il ricorrente in sede di legittimità proponga una questione non trattata nella sentenza impugnata, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere (nella specie non rispettato non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, otide dar modo alla Corte di càssazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare il merito.
Nella specie tale onere non è stato rispettato: nel ricorso non si afferma che essi coniugi nei giudizi di merito avevano sostenuto l’impossibilità di ravvisare nella specie una “convenzione matrimoniale” per essere stato costituito il fondo patrimoniale con atto unilaterale della sola Speranza.
La riportata tesi esposta dai ricorrenti con la parte non è quindi deducibile in questa sede di legittimità perché introduce per la prima volta un autonomo e diverso sistema difensivo che postula indagini e valutazioni non compiute dal giudice di appello perché non richieste.
Va peraltro aggiunto che nessuna specifica censura risulta essere stata mossa dai ricorrenti con il motivo in esame alla parte della sentenza impugnata con la quale la corte di appello — confermando la decisione del tribunale che aveva rigettato la domanda dei coniugi Ferrara-Speranza “perché l’atto costitutivo del fondo patrimoniale non risultava annotato a margine dell’atto di matrimonio come prescritto dall’articolo 162 c.c.” ( pagina 3 sentenza impugnata ) ha espressamente affermato che “la stipulazione del fondo patrimoriiale” è ai sensi dell’art. 167 c.c. “una tipica convenzione matrimoniale” ( pagina 11 citata sentenza ). La detta parte della sentenza non ha formato oggetto di specifica critica da parte dei ricorrenti con il motivo in esame per cui deve ritenersi avente efficacia di 8’udicato la riportata affermazione della corte di merito secondo cui il negozio costitutivo del fondo patrimoniale ‹’ una convenzione matrimoniale, cosi come ripetutamente e costantemente affermato nella giurisprudenza di legittimità e — implicitamente — dalla Corte Costituzionale nella sentenza 6/4/1995 n. 111 e le cui conclusioni ( come segnalato nell’ordinanza di rimessione ) non sono state condivise “dalla stragrande maggioranza della dottrina” che ne ha evidenziato e lamenJ ato “le incogruenze”.
Non meritevole di accoglimento è anche il secondo motivo dì ricorso con il quale i coniugi Ferrara-Speranza hanno sollevato numerose ed articolate censure tutte analiticamente e dettagliatamente esaminate — e risolte in senso sfavorevole alle tesi dei ricorrenti – da questa Corte con la sopra citata sentenza 7210/2009 con motivazione che queste Sezioni Unite condividono e fanno propria per cui verrà di seguito sinteticamente riportata anche perché conforme ai principi in materia numerose volte affermati nella giurisprudenza di legittimità ( sentenze 8/10/2008 n. 24798; 30/9/1998 n. 24332; 16/11/2007 n. 23745; 5/4/2007 n. 8610; 15/3/2006 n. 5684; 19/11/1999 n. 12864; 1/10/1999 n. 10859; 27/11/1987 n. 8824 ).
La costituzione del fondo patrimoniale di cui all’art. 167 c.c. — compresa tra le convenzioni matrimoniali secondo quanto ritenuto dalla corte di merito con affermazione che non può più essere posta in discussione — è soggetta alle disposizioni dell’art. 162 c.c. circa le forme delle convenzioni medesime, ivi incluso il terzo comma “che ne condiziona l’opponibilità ai terzi all’annotazione del relativo contratto a margine dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo per gli immobili, ai sensi dell’art. 2647 c.c., resta degradata a mera pubblicità-notizia” ( inidonea ad assicurare detta opponibilità ) e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile, che non ammette deroghe o equipollenti, restando irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito altrimenti della costituzione del fondo. Ne consegue che, in mancanza di annotazione del fondo patrimoniale a margine dell’atto di matrimonio, il fondo medesimo non è opponibile ai creditori che come appunto nella specie — abbiano iscritto ipoteca sui beni del fondo essendo irrilevante la trascrizione del fondo nei registri della conservatoria dei beni immobili.
Alle dette conclusioni si perviene essenzialmente sulla base delle seguenti considerazioni.
L’abrogazione ad opera dell’articolo 206 legge 151/1975 del quarto comma del previdente quatto comma dell’articolo 2647 c.c. — che considerava la trascrizi‹ane del vincolo familiare requisito di opponibilità ai terzi – rende evidente l’intento del legislatore di degradate la trascrizione del fondo a pubblicità n‹itizia e di riservare l’opponibilità del vincolo ai terzi all’annotazione di cui all’ultimo comma dell’articolo 162 c.c. L’annotazione a margine dell’atto di matrimonio della data del contratto, del notaio rogante e delle generalità dei contraenti che hanno partecipato alla costituzione del fondo patrimoniale mira a tutelare, ancor più che per il passato, i terzi che pongono in essere rapporti giuridici con i coniugi.
La detta funzione attribuita dalla annotazione ex art. 162 c.c. — consentire al terzo di ottenere una completa conoscenza circa la condizione giuridica dei beni cui il vincolo del fondo si riferisce attraverso la lettura del relativo contratto — e l’eliminazione dell’ultimo comma dell’articolo 2647 c.c. consentono di affermare che la detta annotazione costituisce l’unica formalità pubblicitaria rilevante agli effetti della opponibilità della convenzione ai terzi e che la tras‹:rizione del vincolo ex art. 2647 c.c. è stata degradata al rango di pubblicità-notizia. Il fondo patrimoniale risulta quindi sottoposto ad una doppia forma di pubblicità: annotazione nei registri dello stato civile ( funzione dichiarativa ); trascrizione ( funzione di pubblicità notizia ). Infatti quando la legge non ricollega alla Eascrizione un particolare effetto ben determinato, si ›è• in presenza di una pubblicità notizia. Il legislatore tutte le volte in cui hii voluto attribuire alla pubblicità determinati effetti lo ha detto esplicitamente, mentre laddove non ha detto nulla deve ritenersi trattarsi di pubblicità notizia.
Sono peraltro numerose le disposizioni analoghe all’articolo 2647 c.c. nell’attuale formulazione e mai si è dubitate che esse non ricollegando all’omissione della trascrizione alcuna sanzione specifica – configurino casi di pubblicità-notizia. Vanno ricordate le norme dettate dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089, art. 2, comma 2 e art. 3, comma 2, che riguardano il vincolo di indisponibilità sui beni di interesse culturale; dalla L. 28 gennaio 1977, n. 10, art. 7, comma 5, a proposito dei vincoli sull’edilizia abitativa convenzionata; nonché dalla L. Fall., art. 88, comma 2, a proposito della presa in consegna dei beni del fallito da parte del curatore, art. 166, comma 2 e art. 191, comma 2 della stessa legge.
In definitiva, in base al descritto quadro normativo, il terzo interessato deve non solo ‹.onsultare i registri immobiliari al fine di verificare la situazione relativa a un determinato bene immobile, ma anche verificare se il titolare è coniugato e, in caso positivo, controllare se a margine dell’atto di matrimonio sia stata annotata una convenzione derogatoria.
A conferma di quanto precede va segnalata la sentenza 6 aprile 1995 n. 111 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata , in riferimento agli art. 3 e 29 cost., la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli art. 162 comma ultimo, 2647 e 2915 c.c., nella parte in cui n‹in prevedono che, per i fondi patrimoniali costituiti sui beni immobili a mezzo di convenzione matrimoniale, l’opponibilità ai terzt sia determinata unicamente dalla trascrizione dell’atto sui registri immobiliari, anziché pure dalla annotazione a margine dell’atto di matrimonio. Ha osservato il giudice delle leggi che la necessità di effettuare ricerche sia presso i registri immobiliari, sia presso i registri dello stato civile (questi ultimi meno accessibili e sia pur meno affidabili) costituisce un onere che, sebbene fastidioso, non può dirsi eccessivamente gravoso, non soltanto rispetto al principio di tutela in giudizio, ma anche rispetto all’art. 29 cost., che semmai tutela gli aspetti etico-sociali della famiglia e non è quindi, utilmente invocabile come parametro del contrasto, ed all’art. 3 cost., in quanto una duplice forma di pubblicità (cumulativa, ma a fini ed effetti diversi) per la costituzione dei fondi in parola trova giustificazione nel generale rigore necessario alle deroghe al regime legale e nell’esigenza di contemperare gli interessi contrapposti della conservazione del patrimonio pet i figli fino alla maggiore età dell’ultimo di essi e dell’impedimento di un uso distorto dell’istituto a danno delle garanzie dei creditori.
Consegue da quanto precede che — al contrario di quanto sostenuto dai ricorrenti con il secondo motivo e conformemente a quanto affermato dalla corte di appello nella sentenza impugnata — l’annotazione di cui al quano comma dell’art. 162 e.c. ( norma speciale ) è l’unica forma di pubblicità idonea ad assicurare l’opponibilità della convenzione matrimoniale ai terzi, mentre la trascrizione di cui all’articolo 2647 c.c. ( norma generale ) ha funzione di mera pubblicità-notizia. L’opponibilità ai terzi dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale ( avente ad oggetto beni immobili ) è quindi subordinata all’annotazione a margine dell’atto di matrimonio a prescindere dalla trascrizione del medesimo atto imposta dall’articolo 2647 c.c.
Va infine rilevata l’insussistenza della asserita violazione degli articoli 1175 e 1375 c.c. denunciata dai coniugi Ferrara-Speranza nell’ultima parte del motivo di ricorso in esame con riferimento al comportamento della BCI asseritamene contrario ai principi di correttezza e buona fede.
In via preliminare va segnalato che nella sentenza impugnata non si fa alcuna menzione della acquisita prova della conoscenza da parte dell’istituto bancario della costituzione del fondo patrimoniale sui beni ipotecati.
Peraltro, anche a voler dare per scontata la detta conoscenza da parte della BCI, il comportamento di quest’ultima non si porrebbe in contrasto con i menzionati principi di correttezza e buona fede rientrando nella sua libertà e discrezionalità la scelta dello strumento riconosciuto dall’ordinamento con il quale tutelare le garanzie del proprio credito.
Non va sottaciuto inoltre che alle regole di correttezza e buona fede devono ispirarsi entrambe le parti di un rapporto obbligatorio per cui se una di esse sia inadempiente e persista nel suo inadempimento, l’altra ben e legittimamente può avvalersi di tutti gli strumenti ( nella specie 1’iscrizione ipotecaria sui beni del debitore prevista dagli articoli 2808 c.c. e seguenti ) previsti dall’ordinamento per porre rimedio all’inadempimento ed al conseguente pregiudizio subito dalla parte adempiente.
Dalle considerazione che precedono deriva logicamente l’infondatezza del terzo motivo di ricorso sopra riportato – relativo al1’asserita vlo1azione dell’articolo 170 c.c. — posto che la censura ivi sviluppata presuppone l’opponibilità all’istituto bancario creditore del fondo patrimoniale costituito dai coniugi ricorrenti. Esclusa — per le ragioni sopra esposte — la detta opponibilità, è evidente che ben poteva il detto istituto aggredire i beni dei propri debitori non sottoposti ai vincoli di indisponibilità derivanti dalla disciplina dettata dall’istituto del fondo patrimoniale.
Del pari è infondato il quarto motivo di ricorso — concernente la richiesta risarcitoria nei confronti del Comune di Nocera Superiore – ed al riguardo è sufficiente il richiamo al principio pacifico nella giurispmdenza di questa Corte secondo cui nell’esercizio della funzione di tenuta dei registri dello stato civile, il sindaco assumendo la veste di ufficiale di Governo, agisce quale organo dello Stato in posizione di dipendenza gerarchica anche rispetto agli organi statali centrali (Ministero della giustizia) e locali di grado superiore (Procuratore della Repubblica). Pertanto nelle controversie relative allo svolgimento di tale funzione ( nella specie mancata annotazione nei registri dello stato civile della costituzione di un fondo patrimoniale ) la legittimazione passiva appartiene non al Comune, ma allo Stato ( in tali sensi, tra le tante, sentenze 25/3/2009 n. 7210; 14/2/2000 n. 1599 ).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Sussistono giusti motivi in considerazione, tra l’altro, della natura controversa, della peculiarità, della complessità e della rilevanza delle questioni trattate tanto che il relativo esame è stato sottoposto al vaglio a queste Sezioni Unite che inducono a compensare per intero tra tutte le parti le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e compensa per intero tra tutte le parti le spese del giudizio di cassazione..
Roma 29 settembre 2009
Il consigliere estensore Il presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 27 ottobre 2008, n. 25857, per SS.UU, 13 ottobre 2009, n. 21658, in tema di fondo patrimoniale
SS.UU, 13 ottobre 2009, n. 21658, in tema di fondo patrimoniale
In tema di danno non patrimoniale – SS.UU, 01 febbraio 2017, n. 2611
Repubblica Italiana
In nome del Popolo Italiano
La Suprema Corte di Cassazione
Sezioni Unite Civili
r.g.n. 2954/15
Cron.2611
Rep.
P.U. 27/9/2016
– Giurisdizione-
-risarcimento danni da
autorizzazione amministrativa
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Renato RORDORF – Primo Presidente f.f.
Dott. Salvatore DI PALMA – Presidente Sez.
Dott. Giovanni AMOROSO – Presidente Sez.
Dott.ssa Adelaide AIVIENDOLA – Consigliere.
Dott. Aniello NAPPI – Consigliere –
Dott.ssa Maria Cristina GIANCOLA – Consigliere
Dott. Bruno BIANCHINI – Consigliere rel
Dott. Biagio VIRGILIO – Consigliere
Dott. Domenico CHINDEMI – Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso (iscritto al n.r.g. 2954/15) proposto da:
– Comune di OLBIA ( c.f.: 91008330903)
In persona del Sindaco pro tempore Giovanni Maria Enrico Giovannelli , a ciò autorizzato da delibera di Giunta n. 392 del 28 novembre 2014; rappresentato e difeso, anche in via disgiunta tra loro, dagli avv.ti Emanuela Traina ed Andrea Manzi; con domicilio eletto presso lo studio del secondo, sito in Roma, via Federico Confalonieri n.5, giusta procura a margine del ricorso
– ricorrente —
Contro
– Raffaella CALAMUSA ( c.f.: CLM RFL 711345 G203B);
– Andrea FRESI ( c.f.: FRS NDR 63L12 L093F);
in proprio e quali genitori esercenti la potestà su Mario FRESI ( c.f. FRSMRA 98P11 L093T)
parti tutte rappresentate e difese dall’avv. Valeria Virdis giusta procura a margine del controricorso; con domicilio fissato ex lege presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione
– contro ricorrenti-
Nonché nei confronti di:
– Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo
-parte intimata —
avente ad oggetto
ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, n. 336/2014, pubblicata il 22 luglio 2014
– Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27 settembre 2016 dal Consigliere Relatore Dott. Bruno Bianchini;
– uditi l’avv Luigi Manzi — munito di delega dell’avv. Traina – per il ricorrente e l’avv. Virdis per il controricorrente;
– udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore GeneraleDott. Riccardo Fuzio , che ha chiesto rigettarsi il ricorso.
Svolgimento del processo
1 — Andrea Fresi e Raffaella Calamusa, agendo anche nella qualità di genitori esercenti la potestà sull’allora minore Mario Fresi, citarono il Comune di Olbia ed il Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti per aver consentito che, durante i festeggiamenti per il santo patrono, fosse stato permesso al Comitato di posizionare un palco a meno di un metro dalla propria abitazione, ostacolandone l’accesso e determinando immissioni sonore a turbativa della vita domestica e , finiti i festeggiamenti , per aver omesso di farlo smontare, rendendolo base per giochi e schiamazzi della gioventù locale. Il Comune contestò il fondamento della domanda, in particolare osservando di non avere alcun obbligo di vigilanza, rimanendo il proprio intervento istituzionale limitato al rilascio della concessione amministrativa per l’installazione della pedana sul suolo pubblico.
Il Tribunale di Tempio Pausania rigettò le domande; la Corte di Appello di Cagliari — Sezione distaccata di Sassari- invece le accolse, ritenendo sussistenti lesioni ai diritti fondamentali degli originari attori.
Per la cassazione di tale decisione l’ente territoriale ha proposto ricorso, sulla base di tre motivi, il secondo dei quali involgente la carenza di giurisdizione del giudice ordinario; Comune ha risposto con controricorso; il Comitato non ha svolto difese; parte ricorrente ha anche depositato memoria ex art 378 cpc.
MOTIVI DELLA DECISIONE
§1 — Per priorità logica va esaminato il secondo motivo con il quale il Comune eccepisce la carenza di giurisdizione dell’ AGO in ragione del fatto che i danni lamentati sarebbero stati in stretta correlazione con il presunto cattivo esercizio dell’attività provvedimentale.
§ 1.a — Il motivo è inammissibile perché la giurisdizione ordinaria non è mai stata contestata nei precedenti gradi di giudizio, di tal che le domande e le difese delle parti l’hanno sempre presupposta; ne deriva che il punto non è più suscettibile di ulteriore verifica; contro tale constatazione non vale richiamare — come operato dal ricorrente a fol 5 della memoria ex art 378 cpc- la specificazione interpretativa contenuta nella sentenza di queste Sezioni Unite n. 20698/2013, a mente della quale non sussisterebbe giudicato implicito sulla giurisdizione allorché l’interesse a sollevare la relativa eccezione sorga sulla base del percorso decisionale in concreto adottato dal giudice in grado di appello: va infatti messo in evidenza che nel caso di specie sin dal primo grado di giudizio la res controversa era costituita dalla lesione della sfera patrimoniale e personale delle allora parti attrici causata da un’attività del privato — il Comitato per i Festeggiamenti di San Pantaleo- assentita dal Comune e da questi non adeguatamente vigilata nel suo svolgimento: a fronte di ciò l’ente territoriale aveva impostato sin da allora la propria linea difensiva sulla non diretta incidenza dell’attività amministrativa nell’ambito del privato ( vedi quanto riportato in merito a fol 3 del ricorso) .
§ 2 — Con il primo motivo viene denunciata la violazione degli artt 1227 e 2043 cod. civ. innanzi tutto perché la tutela risarcitoria presupporrebbe un’attività illegittima della PA , in concreto non riscontrabile : all’uopo sottolinea il Comune ricorrente che le controparti non hanno mai chiesto l’accertamento della illegittimità provvedimentale di esso ricorrente , presupposto per attivare la propria responsabilità; in secondo luogo assume che non sarebbero risarcibili i danni derivanti dall’attività del Comitato in quanto evitabili “per la mancata diligente utilizzazione degli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento (è richiamata Cons. Stato Sez. IV, n. 1750/2012); sotto diversa ottica poi parte ricorrente lamenta che la Corte di Appello sia pervenuta alla identificazione di una propria responsabilità aquiliana senza un’appropriata indagine sull’effettiva presenza di tutti gli elementi contemplati nell’art 2043 cod. civ. : quanto all’ingiustizia del danno, atteso che non avrebbe valutato la mancata impugnativa del provvedimento autorizzatorio; quanto al nesso di causalità tra potere esercitato e l’evento di danno ( concretatasi nell’ostacolo all’ingresso alla propria abitazione) , dal momento che non avrebbe posto a mente che, una volta emesso il provvedimento che autorizzava il posizionamento del palco, ogni diversa conseguenza pregiudizievole per i terzi sarebbe derivata dalle modalità esecutive di esclusiva spettanza del Comitato, che dunque non potevano essere fatte risalire a propria responsabilità; quanto infine all’elemento soggettivo del dolo o della colpa ne assume l’assenza , ribadendo la legittimità del proprio operato.
§ 2.c — Il mezzo è destituito di fondamento.
§ 2.c.1- Va innanzi tutto messo in evidenza che il petitum sostanziale ( causa petendi in relazione alla concreta fattispecie) posto a base della originaria domanda conteneva non già una censura all’esercizio del potere amministrativo manifestatosi con il provvedimento di concessione di suolo pubblico, ma si concretizzava in una denuncia del mancato esercizio dei poteri di vigilanza successiva su come sarebbe stato utilizzato il palco — sia nei giorni stabiliti per il festeggiamento del Santo Patrono, sia nell’estate successiva da parte della cittadinanza-; si aggiunga che l’art 7, comma 4, del decreto legislativo n. 104/2010 non è richiamabile a disciplina della fattispecie , ratione temporis ( la domanda è stata introdotta con citazione notificata nel dicembre 2003) e comunque non sarebbe applicabile perché il comma quarto fa rientrare nella giurisdizione generale amministrativa le controversie anche risarcitorie, per lesione di interessi legittimi- posizione giuridica che non viene mai rivendicata dai ricorrenti che si sono sempre doluti della violazione di propri diritti assoluti — e il comma quinto attrae nella ridetta giurisdizione generale amministrativa
anche le controversie risarcitorie per lesione di diritti soggettivi, ma a condizione che si verta in materia di giurisdizione esclusiva — positivamente da escludersi, nella fattispecie –
§ 2.c.2 – Appare allora evidente che l’affermazione della sussistenza di un diritto soggettivo che si assume leso dalla condotta — e non dal provvedimento — del Comune, toglie di sostanza alle censure attinenti al mancato sindacato dell’atto amministrativo innanzi al giudice amministrativo, come condizione per l’azione risarcitoria nei confronti del Comune.
§ 2.c.3 – Dal momento poi che i controricorrenti avevano lamentato una lesione di propri diritti soggettivi assoluti, da far risalire — come detto – non già all’autorizzazione concessa dal Comune, quanto piuttosto all’ inerzia che l’ente locale avrebbe serbato, pur a fronte delle loro reiterate proteste, a causa del perdurare della situazione dannosa e che la Corte del merito ha poi specificato ( vedi fol sesto della decisione) che entrambe le parti convenute erano chiamate a risarcire i danni in quanto il Comitato aveva posto in essere le condizioni materiali della situazione dannosa e l’ente territoriale aveva omesso di intervenire per porvi rimedio – in tal modo localizzando (con statuizione non specificamente impugnata) l’insorgenza della condotta censurata in epoca successiva all’emissione del provvedimento-, da ciò deriva la sussistenza dell’elemento colposo che consente di addebitare al Comune le conseguenze della propria inerzia che concretizzava un agire non jure e contro jus per la situazione che si era venuta a creare — ostacolato ingresso all’abitazione dei controricorrenti per tutto il periodo estivo ( dacchè il palco non era smontato tra uno spettacolo e l’altro) ; la sussistenza poi di emissioni sonore e luminose ( per il solo periodo dei festeggiamenti) — che ben avrebbe potuto esser evitata con l’ordine di riposizionare il palco dall’altro lato della piazza (come risulta essere avvenuto due anni dopo) messa in relazione all’inerzia serbata dall’Ente territoriale nel frangente, costituiva indice certo ed ulteriore della sua colpa.
§ 3 — Con il terzo motivo — formulato in via subordinata al rigetto del precedenti – viene denunciata la violazione dell’ad 2059 cod civ. nonché la violazione degli artt 3, 32 e 41 della Costituzione, laddove la Corte distrettuale ebbe a riconoscere la sussistenza di danni non patrimoniali , pur in assenza dei loro presupposti — indicati: o nell’esistenza di una condotta astrattamente qualificabile come reato; o nella grave lesione di interessi costituzionalmente garantiti-.
§ 3.1 — Assume il ricorrente che, quanto all’ostacolo all’accesso ed al libero godimento del proprio domicilio, il rilievo costituzionale di tale attività sarebbe stato rinvenuto in un concetto lato di estrinsecazione della “dignità umana” , indicato nel secondo comma dell’art 41 Costit. che invece riguarderebbe solo una particolare estrinsecazione della libertà, quella di iniziativa economica; censura altresì il Comune ricorrente l’accertamento della lesione del “diritto alla salute” , basato su
una non provata intollerabilità delle emissioni luminose e sonore da ricondurre ad effettive e documentate lesioni fisiche o psichiche , del tutto non provate nella fattispecie.
§ 3.2 — Il mezzo è infondato in quanto, sebbene il referente normativo della lesione al godimento della propria abitazione non possa essere rinvenuto nell’art 41 della Costituzione, sibbene nell’art 42, secondo comma, che tutela la proprietà privata e detta i limiti per la compressione del relativo diritto, la base fattuale posta a fondamento della sentenza — dalla quale è emerso che sebbene l’abitazione fosse munita anche di un accesso secondario, il secondo era di dimensioni esigue e spesso neppure sufficienti al concreto uso– non è stata specificamente contestata; per quello poi che riguarda la prova del danno alla salute, premesso che non è stato richiesto il risarcimento del danno biologico determinato dalle immissioni sonore e luminose bensì si è fatto valere il pregiudizio non patrimoniale derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita , va data continuità all’indirizzo interpretativo di recente espresso in sede di legittimità, in forza del quale il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e d el diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi ( vedi Cass. Sez. 3, n. 20927/2015); ne consegue che la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza ( sul punto vedi Cass. Sez. 3 n. 26899/2014). Nella fattispecie la dimostrazione del pregiudizio è stata ricavata dall’esame della natura e dell’entità delle immissioni sonore e luminose , con ragionamento non specificamente censurato.
§ 4. Il rigetto del ricorso determina la condanna del ricorrente al pagamento delle spese, liquidate come indicato in dispositivo; dal momento che il ricorso è stato inviato per la notifica il 16 gennaio 2015 e quindi in data successiva al 30 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della parte soccombente, di un ulteriore importo pari a quanto versato a titolo di contributo unificato, a norma dell’ari 13, comma 1 quater d.P.R. 115/2002
P.Q.M
Rigetta il ricorso ; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese che liquida in euro 3.500,00 oltre ad euro 200,00 per esborsi; ai sensi dell’ari 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dello stesso ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art 13.
Così deciso in Roma il 27 settembre 2016
Il consigliere estensore
Il Presidente
Allegati:
SS.UU, 01 febbraio 2017, n. 2611, in tema di danno non patrimoniale
In tema di trust – SS.UU,12 febbraio 2019, n. 18831
Civile Ord. Sez. U Num. 18831 Anno 2019
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 12/07/2019
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al N.R.G. 4738 del 2017 proposto da:
POLI Paola, rappresentata e difesa dagli Avvocati Francesco Gianni, Alberto Nanni, Emanuele Rimini e Antonio Auricchio, con domicilio eletto presso lo studio legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners in Roma, via delle Quattro Fontane, n. 20;
– ricorrente –
contro
POLI Elena, rappresentata e difesa dall’Avvocato Cristina Rossello, con domicilio eletto nel suo studio in Roma, piazza di Spagna, n. 31;
– controricorrente –
contro
MASSIMO Claudio, rappresentato e difeso dall’Avvocato Ettore Maria Negro;
– controricorrente –
e nei confronti di
POLI GROUP HOLDING s.r.I.;
– intimata –
per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio pendente dinanzi al Tribunale ordinario di Milano, iscritto al N.R.G. 31946 del 2016.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18 giugno 2019 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Giovanni Giacalone, depositate in cancelleria il 13 maggio 2019, con cui l’Ufficio del Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
FATTI DI CAUSA
1. – Elena Poli e Paola Poli, entrambe cittadine italiane residenti in Italia, sono le uniche eredi nonché beneficiarie del 50% ciascuna del patrimonio del padre Stefano Poli, importante esponente dell’industria farmaceutica, cittadino italiano nato a Varese 1’8 luglio 1946, già residente in Svizzera e deceduto in Italia il 10 dicembre 2009.
In data 15 maggio 2007 Stefano Poli, in qualità di settlor, costituiva un trust, denominato The Pale Trust, a cui trasferiva la proprietà del Gruppo Poli; trustee di tale trust, poi sottoposto alla legge neozelandese, veniva nominata, per effetto di variazione in data 14 agosto 2007, la Intrust Trustees, una società della Nuova Zelanda, mentre beneficiari erano designati lo stesso Stefano Poli e, in caso di suo decesso, le figlie Elena e Paola Poli, in parti uguali.
Con testamento pubblico ricevuto in data 20 giugno 2007 dal notaio Fabio Bernasconi di Chiasso e integrazione olografa del 15 novembre 2009, Stefano Poli nominava eredi del suo patrimonio, sempre in parti uguali, le due figlie Elena e Paola, scegliendo che la sua successione fosse regolata (“nella misura in cui ciò sia possibile”) dal diritto svizzero e designando esecutore testamentario Claudio Massimo e, in caso di suo impedimento o di non accettazione, quale esecutore testamentario sostituto, Paolo Mondia.
Deceduto il de cuius, in data 3 giugno 2013 le beneficiarie del trust hanno sottoscritto a Lugano, insieme al trustee, il Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue (ovvero Accordo, Indennizzo, Rilascio e Impegno ad astenersi dall’iniziare azioni legali), in cui le sorelle Poli hanno, tra l’altro, riconosciuto, concordato ed accettato che la distribuzione di Paola e la distribuzione di Elena sono di pari valore e costituiscono pari beneficio per ciascuna di esse. Tale accordo è stato sottoposto, come il trust, alla legge neozelandese. In attuazione del Deed, il trustee, senza sciogliere il trust, ha disposto un’assegnazione dei beni in trust anticipata rispetto al termine di durata dello stesso, assegnando a Elena Poli 81 milioni di euro, pari alla metà del valore del Gruppo Poli, e attribuendo l’intero capitale sociale della holding lussemburghese Polilux Holding s. à r.l. (Gruppo Poli) a Paola Poli.
2. – A seguito della cessione, da parte di Paola Poli in data 30 novembre 2015, del Gruppo Poli a una società spagnola (il Gruppo Almirall) per il controvalore di 365 milioni di euro, oltre a 35 milioni di euro in forza di una clausola di earn out, Elena Poli, con atto di citazione notificato il 18 maggio 2016, ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la sorella Paola Poli, chiedendo accertarsi e dichiararsi la sussistenza del diritto di credito in capo all’attrice alla maggior somma dovuta, oltre a quella di euro 81 milioni già incamerata, impregiudicata ad ogni effetto, fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli, da ricalcolarsi per effetto dell’annullamento per dolo, ex art. 761 cod. civ., e, in subordine, della rescissione per lesione ultra quartum, ex art. 763 cod. civ., dell’atto di “apporzionamento” del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli calcolato sulla base dei multipli impliciti nelle transazioni di società similari nel periodo 2002/2012, e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli come riveniente dalla cessione al Gruppo Almirall, con l’emissione della conseguente pronuncia di condanna, in subordine anche a titolo di risarcimento del danno o di indebito arricchimento.
A sostegno delle domande, l’attrice ha dedotto, in particolare, che la quota in denaro ricevuta da Elena Poli sarebbe frutto di una “sottovalutazione ad arte del Gruppo Poli legata alla strategia di Paola Poli che … ha voluto che ci si avvalesse del criterio di stima del valore del Gruppo che il padre aveva dettato per il solo caso in cui al termine della durata del trust il Gruppo fosse ancora in attività e una sola delle figlie desiderasse proseguire nell’attività e l’altra volesse essere liquidata in denaro”. Secondo l’attrice, il principio dell’eguale beneficio doveva essere rispettato sino alla scadenza della durata del trust e se Paola Poli, senza preannunciarlo al trustee né all’altra beneficiaria, aveva deciso di vendere quanto acquisito, le posizioni delle due beneficiarie dovevano essere riportate ad equilibrio. Ad avviso di Elena Poli, la sorella Paola era legittimata passiva all’obbligo restitutorio e risarcitorio nel determinando ammontare, atteso che, indipendentemente dai passaggi societari realizzati per procedere alla vendita del Gruppo Poli, restava sottoposta al principio della equiparazione delle posizioni delle beneficiarie del trust.
2.1. – Costituendosi in giudizio, Paola Poli ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano e la sussistenza della giurisdizione esclusiva dell’arbitro unico previsto dall’art. 15 del Deed sottoscritto tra la stesse Paola Poli ed Elena Poli e dal trustee Intrust il 3 giugno 2013, arbitro da nominarsi secondo le norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera.
2.2. – E’ intervenuto in giudizio Claudio Massimo, in qualità di esecutore testamentario del de cuius Stefano Poli, sostenendo le ragioni dell’attrice.
3. – Nella pendenza del giudizio dinanzi al Tribunale ordinario di Milano, Paola Poli ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, con atto notificato il 21 febbraio 2017, chiedendo dichiararsi il difetto di giurisdizione del Tribunale di Milano e di qualsiasi altro giudice italiano, richiamando la clausola n. 15 del Deed prevedente l’arbitrato svizzero (“qualunque lite, controversia o istanza che scaturisca da o in relazione al presente Atto, comprese la validità, l’invalidità o le violazioni del presente Atto, sarà composta come tra le parti a mezzo di arbitrato ai sensi delle Norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera”: così nella traduzione giurata in atti).
4. – Ha resistito, con controricorso, Elena Poli, chiedendo il rigetto del ricorso per regolamento preventivo e la declaratoria della giurisdizione del giudice italiano.
Ad avviso della controricorrente, la materia del contendere verte – tenuto conto anche della circostanza che petitum e causa petendi sono stati emendati dall’attrice con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ., depositata il 17 febbraio 2017, quattro giorni prima della notifica del ricorso per regolamento preventivo in cassazione – non sulla caducazione del Deed, ma sull’attuazione della divisione della massa ereditaria secondo il criterio dell’eguale beneficio dettato dal de cuius Stefano Poli, cittadino italiano, deceduto a Milano il 10 dicembre 2009. Le singole attribuzioni dei cespiti ereditari non infirmerebbero la natura successoria della controversia di scioglimento della comunione tra coeredi: la clausola per arbitrato estero (con arbitro svizzero, sede a Lugano e applicazione del diritto neozelandese per successione di cittadino italiano), inerente all’attribuzione di un singolo cespite che compone l’asse ereditario, non osterebbe alla giurisdizione italiana in materia successoria, quale sancita dall’art. 50 della legge 31 maggio 1995, n. 218. Difatti il Deed avrebbe assolto la sola funzione di attribuire un cespite dell’asse da dividere, nel quadro e nel contesto del complessivo scioglimento della comunione ereditaria ancora in corso sotto le cure dell’esecutore testamentario Claudio Massimo; la lesione subita da Elena Poli attraverso il Deed ben potrebbe e dovrebbe essere conosciuta íncidenter tantum in funzione del complesso oggetto successorio e divisionale della controversia di cui il Deed costituirebbe soltanto una singola parte; e sussisterebbe controversia divisionale ereditaria anche quando, come nella specie, ferme le quote testamentarie fissate dal de cuius, si controverta sui valori dei beni rispettivamente attribuiti, qui manifestamente distanti rispetto alla volontà del testatore di ripartire il suo patrimonio tra le due figlie in eguale misura.
5. – Ha resistito, con separato controricorso, Claudio Massimo.
Preliminarmente, ha dedotto l’inammissibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione per due ordini di motivi: perché esso è stato proposto prima della scadenza del termine per il deposito della memoria ex art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., quindi antecedentemente all’accertamento istruttorio necessario ai fini della statuizione sulla giurisdizione; perché nel caso di specie tutte le parti sono italiane e quindi soggette alla giurisdizione italiana, con la conseguenza che il giudizio arbitrale, sia estero o interno, comporta necessariamente una questione di competenza, ai sensi dell’art. 819-ter cod. proc. civ.
Quanto al merito della questione di giurisdizione, il controricorrente, a sostegno delle conclusioni di sussistenza della giurisdizione italiana, rileva che la clausola compromissoria di cui all’art. 15 del Deed non sarebbe applicabile alla controversia oggetto del giudizio di merito, il quale non avrebbe ad oggetto la validità del Deed in sé considerato – unica ipotesi per la quale sarebbe stata pattuita la clausola compromissoria – bensì l’esito della divisione ereditaria operata per mezzo dello stesso e la conseguente violazione delle disposizioni testamentarie dettate dal padre defunto con la letter of wishes del 5 maggio 2007, lettera indirizzata, pochi giorni prima dell’istituzione del trust, anche al Massimo, nella duplice veste di esecutore testamentario e di protector, affinché questi vegliasse sul rispetto delle sue volontà.
6. – La società Poli Group Holding è rimasta intimata.
7. – Nelle conclusioni scritte ex art. 380-ter cod. proc. civ. depositate il 30 ottobre 2017, il pubblico ministero ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, sul rilievo che tutte le parti della causa sono residenti o hanno sede in Italia.
8. – Con ordinanza 20 novembre 2018, n. 29879, le Sezioni Unite hanno dichiarato ammissibile l’istanza di regolamento preventivo, respingendo le eccezioni preliminari sollevate dal pubblico ministero e dal controricorrente Massimo, e hanno richiesto all’Ufficio del Massimario una relazione di approfondimento sulle questioni attinenti al fondo della questione di giurisdizione.
Nel respingere le eccezioni preliminari, le Sezioni Unite hanno affermato:
– che il regolamento preventivo di giurisdizione può essere proposto per sollevare una questione concernente il difetto di giurisdizione del giudice italiano non solo allorché convenuto nella causa di merito sia un soggetto domiciliato o residente all’estero, ma anche quando il convenuto, domiciliato e residente in Italia, abbia contestato la giurisdizione italiana in forza di deroga convenzionale a favore di un arbitrato estero;
– che il controricorrente Massimo non ha indicato in che cosa avrebbe dovuto consistere l’accertamento istruttorio, utile ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione, che sarebbe
stato vanificato dalla proposizione “anticipata” del regolamento preventivo;
– che, in presenza di clausola compromissoria di arbitrato estero, l’eccezione di compromesso dà luogo ad una questione di giurisdizione e non di competenza ai sensi dell’art. 819-ter cod. proc. civ.
9. – In prossimità della camera di consiglio, fissata per il 18 giugno 2019, il pubblico ministero ha depositato nuove conclusioni scritte, concludendo per il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
L’Ufficio del Procuratore Generale ha evidenziato che il trust in questione deve essere qualificato come donazione indiretta ex art. 809 cod. civ., rientrante nell’ambito dei negozi transmorte inter vivos, sicché la comunione insorta tra i beneficiari va configurata come ordinaria e non successoria, con conseguente impossibilità d’includere l’istituto in esame nel campo di applicazione dell’art. 50 della legge n. 218 del 1995, dettato in tema di giurisdizione con esclusivo riguardo alla “materia successoria”.
Dopo avere sottolineato che le norme di applicazione necessaria operano esclusivamente come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato dalla norma di conflitto, senza incidere sul diverso problema dell’individuazione dei criteri dai quali dipende la competenza giurisdizionale, il pubblico ministero ha affermato che le esercitate azioni di cui agli artt. 761 e 763 cod. civ. non sono poste a presidio di diritti indisponibili, sottratti in quanto tali all’ambito applicativo dell’art. 4, comma 2, della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato.
10. – In prossimità della camera di consiglio tutte le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Deve essere preliminarmente disattesa l’istanza, avanzata dalla difesa di Elena Poli, di riunione del presente giudizio per regolamento preventivo a quello, pendente tra le stesse parti, iscritto al N. R.G. 11328 del 2017 e fissato per la decisione nella stessa adunanza camerale del 18 giugno 2019. I due ricorsi si riferiscono infatti a giudizi di merito diversi, non confluiti in un unico procedimento a quo.
2. – Passando al fondo della questione di giurisdizione, si tratta di stabilire, innanzitutto, se vi siano criteri di collegamento che consentano di ricondurre alla giurisdizione dello Stato italiano la controversia riguardante l’apporzionamento tra i beneficiari del bene conferito in trust e, in particolare, se la detta controversia sia suscettibile di essere ricompresa tra quelle concernenti la divisione ereditaria, per le quali la giurisdizione del giudice italiano e’ regolata dalla L. n. 218 del 1995, articolo 50.
3. – Nello svolgere tale indagine, occorre muovere dall’esame delle domande azionate nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Milano, risultanti dal petitum e dalla causa petendi dell’atto di citazione, come emendati con la prima memoria ai sensi dell’art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ.
Questo esame deve essere condotto alla luce dell’orientamento invalso nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice anche nelle questioni di diritto internazionale privato – per il quale la giurisdizione del giudice italiano e quella del giudice straniero vanno determinate non gia’ in base al criterio della prospettazione della domanda (ossia in base alla qualificazione soggettiva che l’istante dà all’interesse di cui chiede domanda la tutela), ma in base al diverso criterio secondo cui, ai fini del relativo riparto, non è sufficiente e decisivo avere riguardo alle deduzioni ed alle richieste formalmente avanzate dalle parti, ma occorre tener conto della vera natura della controversia, da stabilire con riferimento alle concrete posizioni soggettive delle parti in relazione alla disciplina legale della materia (Cass., Sez. U., 24 luglio 2007, n. 16296; Cass., Sez. U., 26 maggio 2015, n. 10800).
4. – Oggetto della controversia promossa e’ la pretesa creditoria di Elena Poli alla maggiore somma (oltre a quella di Euro 81 milioni, gia’ incamerata), fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli, da ricalcolarsi per effetto dell’annullamento per dolo o della rescissione per lesione ultra quartum dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013, ovvero, in via subordinata, per effetto della condotta dannosa e ingannevole posta in essere dalla sorella o dell’indebito arricchimento di costei.
L’attrice ha infatti domandato la condanna di Paola Poli al pagamento in proprio favore “della maggior somma dovuta, oltre a quella di Euro 81.000.000 gia’ incamerata, impregiudicata ad ogni effetto, fino a concorrenza del controvalore effettivo del 50% del Gruppo Poli… e/o fino a concorrenza del 50% del valore del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013], calcolato sulla base dei multipli impliciti nelle transazioni di societa’ similari nel periodo 2002/2012, e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli come riveniente dalla cessione al Gruppo Almirall””.
Questa domanda di condanna al pagamento della maggior somma e’ stata avanzata, in via principale, “per effetto dell’annullamento ex art. 761 cod. civ. dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013]” e, in via subordinata, “per effetto della rescissione ex art. 763 cod. civ. dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 e/o fino a concorrenza del 50% del valore di mercato del Gruppo Poli al giugno 2013 [non essendo oggetto della domanda il Deed 3 giugno 2013]”.
In ulteriore subordine, l’attrice ha chiesto la condanna della convenuta, “previo accertamento dell’elemento soggettivo incidente”, al risarcimento in proprio favore dei danni come provati in corso di giudizio o, in subordine, come ritenuti in via equitativa e, comunque, in misura mai inferiore a Euro 120.000.000″, ovvero, in via ulteriormente subordinata, “in forza dell’articolo 2043 e/o dell’articolo 1375 e/o dell’articolo 1440 c.c.”. Ha poi domandato la condanna al risarcimento del danno patrimoniale da perdita di chance e, in estremo subordine, la condanna “al pagamento a titolo di indennizzo ex art. 2041 cod. civ… della maggior somma, rispetto a quanto gia’ incamerato, che resta impregiudicato ad ogni effetto, fino a concorrenza del 50% del Gruppo Poli”.
In sostanza, l’attrice ha lamentato: (a) di avere prestato in buona fede il consenso a ricevere la somma di euro 81 milioni determinata con l’applicazione del criterio indicato dal padre per il caso in cui almeno una figlia intendesse proseguire la gestione del Gruppo Poli, atteso che tanto la sorella Paola Poli aveva dichiarato di volere fare (“celando … di avere in corso già delle trattative con diversi potenziali acquirenti”); (b) che il criterio valutativo immaginato dal de cuius, basato su un metodo patrimoniale misto che considerasse un modesto avviamento, aveva lo scopo di preservare risorse per il processo di sviluppo del Gruppo nell’ipotesi che una delle figlie mantenesse il controllo, laddove con la cessione in data 30 novembre 2015 ad Almirall – per un importo pari a 400 milioni di euro, tra cash ed earn out – Paola Poli “ha abbandonato il ruolo imprenditoriale che fu del padre e che aveva dichiarato in allora di voler conservare”; (c) che alla data del 3 giugno 2013 Elena Poli “ha manifestato un consenso all’apporzionamento de quo viziato in quanto determinato” da “artifizi” e da “raggiri”, “senza i quali non lo avrebbe mai espresso”; (d) che “l’apporzionamento del 3 giugno 2013 non corrisponde per ben più di un quarto al valore effettivo del 50% della quota” spettante ad Elena Poli, “essendo addirittura pari al solo 19%”. Ed in via subordinata l’attrice ha dedotto: (e) di avere in ogni caso “il diritto di ottenere, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1440 cod. civ., dalla sorella Paola Poli il risarcimento del danno subito, il cui ammontare dovrà … ricomprendere anche il mutamento delle condizioni contrattuali, tenuto conto del possibile contenuto dell’accordo che sarebbe stato concluso in difetto del comportamento dannoso serbato dalla convenuta”; (f) che Paola Poli ha conseguito, con l’apporzionamento del 3 giugno 2013, in difetto di una giusta causa, un vantaggio di natura patrimoniale in danno della sorella, che, a seguito del medesimo atto, ha subito un correlativo ingiustificato depauperamento.
5. – Ad avviso del Collegio, la controversia così introdotta non rientra nella materia successoria.
5.1. – Occorre premettere che anche la divisione ereditaria afferisce alla materia successoria, come è dimostrato, per un verso, dalla collocazione delle norme del codice civile rivolte a disciplinare la divisione (art. 713 e ss.) nel titolo IV del Libro II “Delle successioni”, e, per l’altro verso, dalle norme di conflitto e di giurisdizione dettate, nel sistema italiano di diritto internazionale privato, dalla legge n. 218 del 1995, la quale, all’art. 46, comma 3, inserito nel capo VII “Successioni”, detta una disposizione apposita rivolta a ricomprendervi tutte le ipotesi di divisione ereditaria, e dunque anche quella amichevole o contrattuale.
Ciò posto, deve tuttavia escludersi che il consenso espresso dalle beneficiarie all’apporzionamento tra le stesse, ad opera del trustee, dei beni conferiti in vita dal disponente Stefano Poli nel Pale Trust (il Gruppo Poli), integri un atto avente ad oggetto un bene caduto in successione ereditaria.
Invero, sotto quest’ultimo profilo, va rilevato – in conformità delle conclusioni alle quali è pervenuto il pubblico ministero con la requisitoria depositata il 13 maggio 2019 – che con il Pale Trust non si è realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente Stefano Poli.
Il Pale Trust è stato infatti costituito con atto inter vivos e, durante la vita del settlor, si è avuto il passaggio della proprietà del Gruppo Poli nella sfera giuridica del trustee, investito del compito fiduciario di gestire le partecipazioni societarie nell’interesse dei beneficiari e di devolvere ad essi detto patrimonio al termine del trust.
Tali beni non sono caduti in successione perche’ essi si trovavano, al tempo dell’apertura della stessa, già fuori del patrimonio del disponente, avendone costui trasferito la proprieta’ in via definitiva e per atto inter vivos al trustee; i beneficiari finali – le figlie Elena e Paola – hanno acquistato i beni direttamente dal trustee e non già per successione mortis causa dal de cuius.
In altri termini, nel caso di trust liberale tra vivi (qual è il Pale Trust) che produce effetti, sul piano beneficiario, dopo la morte del disponente, quel che il disponente ha pienamente trasferito in vita non concorre a formare l’asse ereditario.
Il Collegio condivide l’opinione, espressa dalla prevalente dottrina, che qualifica una vicenda attributiva come quella di specie (nella quale il settlor, istituendo con atto inter vivos il trust e conferendovi la proprietà del Gruppo Poli, ha utilizzato lo strumento per finalità che attengono alla trasmissione alle figlie, con effetti post mortem, del proprio patrimonio avente ad oggetto le partecipazioni societarie), in termini di donazione indiretta, riconducibile nell’ambito della categoria delle liberalita’ non donative, di cui all’articolo 809 cod. civ. Infatti, l’arricchimento dei beneficiari e’ stato realizzato dal disponente mediante un meccanismo indiretto, prevedente la creazione di un ufficio di diritto privato (quello del trustee), il titolare del quale – titolare, altresi’, del patrimonio separato costituente la dotazione del trust – è stato investito del compito di far pervenire ai beneficiari i vantaggi patrimoniali previsti dall’atto istitutivo.
Va quindi esclusa la natura mortis causa del trasferimento dal trustee ai beneficiari finali, che costituisce il secondo segmento dell’operazione, perchè – come e’ stato rilevato – tale atto traslativo ha investito ormai sfere giuridiche diverse da quelle dell’originario disponente: rispetto a tale trasferimento, la morte del settlor non ha alcuna rilevanza causale, potendo al piu’ individuare il momento di esecuzione dell’attribuzione finale.
5.1.2. – Questo approdo interpretativo è confermato dal regolamento UE n. 650/2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 luglio 2012 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato Europeo, non applicabile ratione temporis (il regolamento si applica, ex art. 83, alle successioni delle persone decedute alla data o dopo il 17 agosto 2015, mentre il Dott. Stefano Poli è deceduto anteriormente, il 10 dicembre 2009), e tuttavia significativo per ricostruire le linee di tendenza del quadro normativo di riferimento. Infatti, l’ambito d’applicazione del regolamento si estende a tutti gli aspetti di diritto civile della successione a causa di morte, ma ne sono esclusi non solo le questioni inerenti alla costituzione, al funzionamento e allo scioglimento di trust (e con la precisazione che in caso di costituzione di trust testamentari o legali in connessione con una successione legittima si applica la legge applicabile alla successione per quanto riguarda la devoluzione dei beni e la determinazione dei beneficiari), bensi’ anche i diritti e i beni trasferiti con strumenti diversi dalla successione, quali le donazioni, fatto salvo quanto previsto in tema di collazione e di riduzione ai fini del calcolo delle quote dei beneficiari secondo la legge applicabile alla successione (v. considerando 9, 13 e 14, nonche’ articolo 1, paragrafi 1 e 2, lettere g e j, e articolo 23, paragrafo 2, lettera i).
5.2. – La difesa della controricorrente Elena Poli, a sostegno della diversa tesi della natura ereditaria della controversia, sottolinea alcune circostanze di fatto che, a suo avviso, dimostrerebbero l’unitarietà e la continuità dell’intento del defunto nel ricondurre il tutto – testamento e trust – a una sola, perfetta e solenne unità volitiva. In particolare, viene richiamata la lettera olografa del 5 maggio 2007, scritta di pugno dal de cuius e indirizzata al suo commercialista, Dott. Claudio Massimo, fiduciario, esecutore testamentario e protector del Pale Trust. In tale documento, (Stefano Poli espresse al Massimo, “in aggiunta e complemento a quanto stabilito nel testamento”, e “in considerazione del fatto” che sarebbe stato lui il suo “esecutore testamentario”, il desiderio che il patrimonio venisse pariteticamente ripartito tra le figlie anche in relazione al costituendo trust successorio (“i beneficiari dovranno essere, dopo la mia morte, le mie figlie Elena e Paola Poli”; “il protector del Trust dovrai essere Tu”).
5.2.1. – Il Collegio ritiene che tale deduzione difensiva non sia idonea a dimostrare che con il Pale Trust si sia realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente.
Com’e’ noto, infatti, l’atto mortis causa è diretto a regolare i rapporti patrimoniali e non patrimoniali del soggetto per il tempo e in dipendenza della sua morte: nessun effetto, nemmeno prodromico o preliminare, esso è perciò destinato a produrre, e produce, prima di tale evento. L’evento della morte riveste un ruolo diverso nell’atto post mortem, perchè qui l’attribuzione è attuale nella sua consistenza patrimoniale e non è limitata ai beni rimasti nel patrimonio del disponente al momento della morte.
Seguendo tale insegnamento, va ribadito che, nella specie, con l’istituzione del Pale Trust – nel quale il settlor ha conferito le proprietà azionarie del Gruppo chimico-farmaceutico, indicando se stesso quale beneficiario in vita e, dopo la sua morte, le due figlie quali beneficiarie paritetiche – si è determinato un immediato passaggio nella sfera giuridica del trustee, realizzandosi così il dato dell’attualità dello spoglio da parte del disponente; e la di lui morte non ha costituito il punto di origine della situazione regolata né è penetrata nella giustificazione causale dell’attribuzione, ma ha rappresentato soltanto termine o condizione, e dunque modalità della stessa.
5.3. – Né la controversia può dirsi successoria in applicazione dei precedenti di questa Corte nei casi Agnelli e Corsini.
Nel primo caso (Cass., Sez. U., 27 ottobre 2008, n. 25875), infatti, si trattava di una controversia avente ad oggetto, quale domanda principale, la petizione di eredità e il conseguente scioglimento della comunione ereditaria, e proprio in ragione di tali domande svolte in via principale la giurisdizione italiana è stata riconosciuta, in applicazione dell’art. 50 della legge n. 218 del 1995, essendosi aperta in Italia la successione; e la giurisdizione italiana è stata ritenuta sussistente anche in relazione all’azione di rendiconto svolta nei confronti di più professionisti, in considerazione del carattere pregiudiziale rispetto a quella principale di petizione di eredità esercitata nei confronti del coerede, attesa la funzione unitariamente ricostruttiva di un altrettanto unitario asse ereditario cui l’azione esperita mirava in concreto.
Analogamente, nel secondo caso, questa Corte (Cass., Sez. U., 15 marzo 2012, n. 4132) ha affermato che qualora la figlia proponga un’unica azione per l’accertamento della propria qualità di erede e di divisione dell’asse ereditario contro la moglie del padre, cittadino italiano defunto nel Principato di Monaco, nonché contro i trustee dei trust di Jersey, istituiti dal de cuius, per la resa del conto e il risarcimento del danno, sussiste la giurisdizione del giudice italiano ex art. 50 della legge n. 218 del 1995, essendo il de cuius cittadino italiano al momento della morte, tanto sulla domanda principale di petitio hereditatis quanto sulla causa di rendiconto, che può essere riconosciuta incidenter tantum.
Nell’una e nell’altra vicenda, pertanto, le domande svolte in via principale miravano ad accertare e dichiarare la qualità di erede dell’attrice e a ottenere la divisione dell’asse ereditario, sicché la verifica della giurisdizione italiana è stata compiuta tenendo conto delle questioni dedotte con tali domande che vertevano in materia successoria.
Nell’odierna causa promossa dinanzi al Tribunale di Milano (R.G. n. 31946 del 2016) non è stata invece proposta nessuna domanda di petizione di eredità né di scioglimento della comunione ereditaria: l’oggetto della domanda – quale risulta in particolare dalle precisazioni e dalle modificazioni contenute nella memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ. – riguarda la pretesa creditoria nei rapporti interni tra le beneficiarie dell’apporzionamento nascente dalla dedotta sproporzione delle due attribuzioni (l’assegnazione di 81 milioni di euro a Elena Poli e l’attribuzione dell’intero capitale sociale della holding lussemburghese Polilux Holdings s.à.r.l. a Paola Poli), secondo l’attrice determinato dal dolo e comunque dal comportamento illegittimo della sorella nella stipulazione tra di esse dell’atto “divisionale”, asseritamente in contrasto con la volontà paterna, il quale, con la lettera di istruzioni al protector del 5 maggio 2007, aveva richiamato l’esigenza di un’effettiva parità tra le due figlie nella ripartizione del proprio patrimonio. La domanda – nel contestare la vincolatività dell’atto di scioglimento della comunione, evidentemente ordinaria e non ereditaria, realizzatosi attraverso il Deed tra le sorelle beneficiarie del Pale Trust, e nel tendere alla ricostruzione, determinazione e revisione del valore complessivo dell’atto di apporzionamento del 3 giugno 2013 – si riallaccia, secondo la prospettazione dell’attrice, al criterio dell’egual beneficio espressamente voluto dal padre, avendo costui previsto una deroga di favore (nella valutazione del valore del patrimonio del trust per quanto riguarda le società, con l’applicazione di un metodo patrimoniale misto che considerasse un moderato avviamento) alla continuatrice di stirpe aziendale, deroga che – si sostiene – nella specie non sarebbe applicabile, stante l’asserito comportamento doloso di Paola, che non avrebbe rilevato alla sorella le proprie reali intenzioni di non volere neanch’essa proseguire le attività paterne.
6. – Poiché, dunque, la presente controversia concerne gli esiti di una attribuzione inter vivos e non mortis causa discendente dall’apporzionamento di beni conferiti in trust e non fanno parte dell’oggetto della causa i meccanismi di riequilibrio – tipici della materia successoria – della collazione e della riduzione delle liberalità indirette, il titolo di giurisdizione, nel rapporto tra la giurisdizione italiana e quella degli altri Stati, va ricercato, non secondo i criteri speciali dettati dall’art. 50 della legge n. 218 del 1995, ma in base al criterio generale di cui all’art. 3 della stessa legge.
In applicazione di quest’ultima disposizione, la causa rientra nell’ambito della giurisdizione italiana, essendo la convenuta Paola Poli domiciliata e residente in Italia.
La causa rientra nell’ambito della giurisdizione italiana anche in applicazione della disposizione generale sulla competenza dettata dall’art. 4 del regolamento UE n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale («A norma del presente regolamento, le persone domiciliate nel territorio di un determinato Stato membro sono convenute, a prescindere dalla loro cittadinanza, davanti alle autorità giurisdizionali di tale Stato membro»).
7. – Si tratta a questo punto di stabilire se il titolo di giurisdizione italiana sia o meno neutralizzato dalla convenzione derogatoria a favore dell’arbitrato svizzero contenuta nell’art. 15 del Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue.
8. – A tale quesito deve darsi risposta positiva.
8.1. – Con la clausola compromissoria contenuta nell’art. 15 del Deed le parti hanno stabilito di risolvere “qualunque lite, controversia o istanza che scaturisca da o in relazione al presente Atto, comprese la validità, l’invalidità o la violazione delle condizioni del presente Atto” a mezzo di “arbitrato ai sensi delle Norme svizzere sull’arbitrato internazionale della Camera di commercio svizzera (le ‘Norme’) vigenti alla data in cui l’Avviso di arbitrato viene presentato ai sensi delle Norme” (prevedendosi che “Il numero di arbitri sarà uno, la sede dell’arbitrato sarà Lugano e il procedimento arbitrale sarà condotto in inglese”; con tale clausola le parti hanno anche rinunciato “a qualunque obiezione in merito alla sede di tale procedura arbitrale e a ogni contestazione in ordine alla competenza del foro adito”). (nell’originale: “The parties to this Deed: Agree that any dispute, controversy or claim arising out of or in relabon to this Deed, including the validity, invalidity or breach of the terms of this Deed, shall be resolved as between the parties by arbitration in accordance with the Swiss Rules of International Arbitration of the Swiss Chambers of Commerce (the ‘Rules’) in force on the date when the Notice of Arbitration is submitted in accordance with the Ru/es. The number of arbitrators shall be one, the seat of arbitration shall be Lugano and the arbitrai proceedings shall be concluded in English. Hereby waive any objection to the laying of venue of any such arbitration proceedings and any claim that such proceedings have been brought in an inconvenient forum“).
Con il Deed – che ha visto come parti la Intrust Trustees, da un lato, ed Elena Poli e Paola Poli, dall’altro, queste ultime in veste di promittenti – le promittenti hanno premesso di avere richiesto ad Intrust di esercitare i suoi poteri ai sensi del Pale Trust, inclusi il potere di distribuzione e il potere di anticipazione.
Le promittenti hanno inoltre riconosciuto, concordato ed accettato (secondo quanto prevede l’art. 3): di avere piena conoscenza di tutti i fatti materiali relativi alle azioni indennizzate; di stipulare l’atto senza fare affidamento su garanzie, dichiarazioni o altro, sia in relazione alla natura che al merito delle azioni indennizzate che altrimenti; che la valutazione inclusa nella relazione di valutazione del Gruppo Poli è una stima accurata del valore del Gruppo Poli alla data dell’atto, fermo restando che tale valutazione è basata su informazioni contabili del Gruppo Poli del 2011; che la distribuzione di Paola e la distribuzione di Elena sono di pari valore e costituiscono pari beneficio per ciascuna di esse, in generale e ai fini del Pale Trust; che esse sono a conoscenza del fatto che Intrust non può al momento essere certa che non ci sia alcuna probabilità che le autorità tributarie procedano ad investigazioni in relazione al Pale Trust; che Intrust ha determinato di trattenere la riserva fiscale sino alla data di cessazione della riserva fiscale; che Intrust ha determinato di esercitare i propri poteri sul Trust Margot e sul Trust Mirtilla in modo da far sì che, fino alla data specificata, il fondo di ciascun trust sia trattenuto nel trust al fine, tra gli altri, di proteggere gli interessi dei beneficiari successivi e di far sì che la responsabilità del trustee del Pale Trust siano adempiute dal fondo dei Trust Margot e Mirtilla.
8.2. – Le domande articolate dall’attrice, tanto in via principale quanto in via subordinata, investono tutte direttamente il Deed of Agreement, Indemnity, Release and Covenant not to sue del 3 giugno 2013, ossia l’accordo di attribuzione con cui, insieme al trustee, Elena e Paola Poli, quali uniche beneficiarie del Pale Trust, hanno pattuito il riparto, nella misura del 50% ciascuna, dello specifico bene rappresentato dal compendio societario costituito in trust, attraverso la liquidazione anticipata dei diritti economici ad Elena Poli, con l’assegnazione di 81 milioni di euro, e l’attribuzione della proprietà del Gruppo a Paola Poli.
Non è questa la sede per stabilire se il Deed sia un atto divisionale o un atto che abbia semplicemente permesso di definire e di perfezionare la liberalità indiretta a favore di ciascuna delle due beneficiarie, l’una e l’altra liberalità poi suscettibili di essere considerate, per effetto della collazione, nella successiva fase della divisione ereditaria.
La scelta processuale dell’attrice è stata nel primo senso: proponendo la “domanda ai sensi dell’art. 761 cod. civ.” e la “domanda ai sensi dell’art. 763 cod. civ.” (così, espressamente, a pag. 16 e a pag. 26 della memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1, cod. proc. civ.), ella ha contestato la vincolatività dell’esito dell’accordo divisorio tra le sorelle”. In tal modo Elena Poli ha configurato il Deed come un atto avente ad oggetto la divisione del patrimonio costituito nel Pale Trust e, su questa base, ha dedotto, a sostegno della richiesta di annullamento per dolo, che “non avrebbe prestato il proprio consenso all’apporzionamento de quo, qualora già allora la sorella Paola Poli avesse disvelato le sue reali intenzioni circa il futuro del Gruppo Poli” (pag. 17 della citata memoria), e, a supporto della domanda di rescissione per lesione, che “lo squilibrio della ripartizione” ha comportato “un oggettivo difetto funzionale della divisione” (pag. 27 del medesimo atto).
Quantunque la controricorrente Elena Poli abbia esplicitato di non avere inteso mettere in discussione la validità del Deed, in realtà, avuto riguardo al petitum sostanziale, l’annullamento o la rescissione dell’apporzionamento ovvero, ancora e in via subordinata, l’accertamento che senza i dedotti raggiri usati dalla sorella l’accordo sarebbe stato concluso da Elena Poli a condizioni diverse e per lei più vantaggiose o che l’apporzionamento stesso sarebbe privo di causa e avrebbe determinato un ingiustificato depauperamento per una delle stipulanti, costituiscono la fonte della pretesa creditoria avanzata in giudizio da Elena Poli.
8.3. – Non è condivisibile la tesi della controricorrente secondo cui l’invalidità e la rescindibilità del Deed potrebbero essere rilevate e conosciute incidenter tantum.
E’ sufficiente osservare che sono oggetto di cognizione incidenter tantum, ai sensi dell’art. 34 cod. proc. civ., solo le questioni pregiudiziali in senso tecnico. Queste ricorrono allorché le parti controvertano su di un antecedente giuridico non necessitato in senso logico dalla decisione e potenzialmente idoneo a riprodursi tra le stesse parti in relazione ad ulteriori e distinte controversie, di guisa che la statuizione su di esso, per la pluralità di effetti derivabili, possa lasciarne impregiudicata la riemersione in altra sede processuale (Cass., Sez. II, 26 marzo 2015, n. 6172).
Nella specie, l’invalidità per dolo e la rescindibilità per lesione del Deed, in quanto contenente una valutazione del Gruppo Poli asseritamente inadeguata e la cui applicazione sarebbe frutto del dolo o del comportamento illegittimo di Paola Poli, rientrano nell’oggetto della domanda e del processo e sono al di fuori del perimetro della pregiudizialità: esse costituiscono la fonte della pretesa creditoria vantata da Elena Poli e la causa petendi della domanda avente come petitum l’accertamento del credito e la condanna della sorella a soddisfarlo. Non esistono, in altri termini, due temi controversi, uno dei quali – l’asserito credito – possa essere oggetto di decisione, e l’altro – l’invalidità per dolo o la rescindibilità per lesione del Deed – oggetto di cognizione incidenter tantum.
8.4. – Né, d’altra parte, può dubitarsi della validità della detta clausola compromissoria, trattandosi di accordo di deroga della giurisdizione italiana che verte su diritti disponibili, ai sensi dell’art. 4, comma 2, della legge n. 218 del 1995: esso, infatti, è contenuto in un atto, il Deed, che concerne una situazione avente natura patrimoniale.
Ritiene questa Corte che la previsione del citato art. 4, comma 2, della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato debba essere ricollegata, in via sistematica: (a) all’art. 1966, secondo comma, cod. civ., con cui si sancisce esplicitamente come non possano formare oggetto di transazione i diritti che, «per loro natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti»; (b) all’art. 806 cod. proc. civ., che, salvo espresso divieto di legge, consente alle parti di «far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili»; (c) all’art. H della Convenzione per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, adottata a New York il 10 giugno 1958 (l’adesione alla quale è stata autorizzata con la legge 19 gennaio 1968, n. 62), disposizione che fa riferimento ad una questione suscettiva di essere regolata in via arbitrale («une question susceptible d’étre réglée par voie d’arbitrage») (cfr. Cass., Sez. U., 4 maggio 2006, n. 10219).
Questa Corte ha in proposito chiarito che l’area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determini una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte (Cass., Sez. I, 12 settembre 2011, n. 18600); e ha precisato che l’indisponibilità del diritto costituisce il limite al ricorso alla clausola compromissoria e non va confusa con l’inderogabilità della normativa applicabile al rapporto giuridico, la quale non impedisce la compromissione in arbitrato, con cui si potrà accertare la violazione della norma imperativa senza determinare con il lodo effetti vietati dalla legge (Cass., Sez. VI-1, 16 aprile 2018, n. 9344).
Si tratta di una conclusione conforme all’elaborazione della dottrina, la quale ha evidenziato che la disponibilità del diritto si concreta nella facoltà che una parte ha di incidere su un proprio diritto soggettivo, determinandone il destino, e che, di conseguenza, il concetto di diritti indisponibili si riferisce a situazioni accertabili, se controverse, solo da parte dell’autorità giudiziaria.
A ciò aggiungasi che l’eventuale presenza, nella fattispecie, di norme di applicazione necessaria (nell’accezione datane dall’art. 17 della legge n. 218 del 1995) – ossia di norme della lex fori operanti
come limite all’applicazione del diritto straniero eventualmente richiamato da una norma di conflitto – non incide sul diverso problema della possibilità di compromettere in arbitrato estero la controversia, non potendosi presumere che il lodo dell’arbitrato estero si porrà in concreto contrasto con la norma italiana di ordine pubblico (cfr. Cass., Sez. U., 20 febbraio 2007, n. 3841).
8.5. – Il Deed reca, oltre alla clausola arbitrale (art. 15), gli artt. 16 e 17, con la previsione della giurisdizione del giudice straniero, delle Corti d’Inghilterra e del Galles (art. 16) e di quella della Nuova Zelanda (art. 17).
Sotto la rubrica “Jurisdiction“, infatti, l’art. 16 prevede che “ai sensi della clausola 15, le parti in questo Atto scelgono irrevocabilmente quale foro competente in via non esclusiva il Tribunale d’Inghilterra e del Galles” (così nella traduzione giurata in atti; nell’originale: “Subject to clause 15, the parties to this Deed irrevocably submit to the non-exclusive jurisdiction of the Courts of England and Wales); a sua volta, l’art. 17, rubricato “No intention to oust Court’s jurísdiction“, prevede che “Nulla nelle clausole 15 o 16 del presente Atto sarà letto o interpretato come inteso a escludere la competenza dell’Alta Corte della Nuova Zelanda” (nell’originale: “Nothing in clauses 15 or 16 of this Deed shall be read or construed as intended to oust the inherent jurisdiction of the High Court of New Zealand”)..
8.5.1. – La difesa della controricorrente Elena Poli, nella memoria depositata in prossimità della camera di consiglio del 18 giugno 2019, ha prospettato che un’interpretazione cauta e non demolitoria degli artt. 15, 16 e 17 del Deed debba condurre a concludere che le parti, consapevoli che le eventuali controversie sulla successione e sulla divisione del patrimonio del de cuius avrebbero presentato un legame stretto con l’ordinamento italiano e con la restante materia successoria dell’eredità Poli, abbiano voluto non già escludere la giurisdizione italiana sul Deed, ma semmai affiancarvi altre giurisdizioni, prima tra tutte l’arbitrale svizzera, lasciate tuttavia alle scelta libera di ciascun contraente e ferma, per le controversie in materia di amministrazione del Pale Trust, la giurisdizione neozelandese. La deduzione difensiva muove dal rilievo che le clausole del Deed sulla scelta del foro competente (artt. 15, 16 e 17), dato il loro contenuto “palesemente non esclusivo”, non potrebbero avere reale portata derogatoria della giurisdizione italiana, che rimarrebbe quella con il maggior numero di connessioni con la fattispecie controversa.
8.5.2. – Il Collegio non condivide detta interpretazione.
Essa muove dall’erroneo presupposto che, poiché la scelta dell’autorità giudiziaria inglese (e del Galles) è espressamente definita “non-esclusiva”, con ciò le parti avrebbero inteso ammettere proprio “la possibilità che la jurisdiction sul Deed spettasse, oltre che all’arbitrato svizzero e al foro inglese, a ogni altra giurisdizione virtualmente competente, compresa quella del giudice italiano”.
In realtà, una lettura complessiva del tenore delle tre clausole, ancorata al loro significato letterale e rispettosa della volontà dei paciscenti, induce a scartare la tesi che l’espressa qualificazione come “non-esclusiva” della giurisdizione inglese valga a renderla concorrente con ogni altra autorità giudiziaria munita per legge di competenza giurisdizionale (compresa, quindi, quella italiana). La giurisdizione dei giudici inglesi (e del Galles) è “non-esclusiva” perché essa concorre con la giurisdizione statale dell’Alta Corte della Nuova Zelanda, la cui “inherent jurisdiction” in tema di administration del Pale Trust è ribadita e fatta salva con l’articolo immediatamente successivo.
In sostanza, la piana lettura, consecutiva ed integrata, delle tre clausole sopra citate (artt. 15, 16 e 17 del Deed) offre alle parti un ventaglio di possibilità, rimesse alla scelta di chi promuove il giudizio, ma all’interno dei tre fori alternativamente previsti: l’arbitrato svizzero (amministrato, con sede a Lugano, essendo pattuita la rinuncia a qualunque obiezione in merito alla sede di tale procedura arbitrale e a ogni contestazione in ordine alla competenza del foro adito); l’autorità giudiziaria inglese; e, venendo in considerazione un atto di amministrazione del Pale Trust, l'”inherent jurisdiction” dell’Alta Corte della Nuova Zelanda.
Questo sistema, aperto all’interno, è chiuso ed esclusivo all’esterno, e pertanto, in sé autosufficiente e completo, non ammette integrazioni “ortopediche” ab extra derivanti dall’innesto, sulle scelte operate dall’autonomia privata, di (tutte le) altre giurisdizioni statali munite, in base alla legge, di un criterio di collegamento con la fattispecie controversa.
In altri termini, la giurisdizione arbitrale svizzera, mentre è affiancata dalla (concorrente) giurisdizione inglese e da quella neozelandese e non deroga ad esse, deroga a tutti gli effetti a quella italiana sul Deed.
9. – Dovendo escludersi che l’arbitro svizzero non possa conoscere della causa (ai sensi dell’art. 4, comma 3, della legge n. 218 del 1995) o che la convenzione arbitrale sia «caduque, inopérante ou non susceptible d’étre appliquée» (agli effetti di quanto previsto dall’art. II, paragrafo 3, della Convenzione di New York del 10 giugno 1958), va dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
Tale declaratoria non è preclusa dalla pendenza in Italia, tra le stesse parti, di altri giudizi connessi: dovendosi dare continuità al principio secondo cui la clausola compromissoria per arbitrato estero, che sia stata validamente stipulata a norma dell’art. II della citata Convenzione di New York del 10 giugno 1958, comporta una deroga alla giurisdizione italiana che non viene meno per ragioni di connessione fra la controversia devoluta ad arbitri stranieri ed altra spettante alla cognizione del giudice italiano, salva restando l’eventuale sospensione di quest’ultima per ragioni di pregiudizialità (Cass., Sez. U., 12 gennaio 1982, n. 124).
10. – Sulle conformi conclusioni del pubblico ministero, è dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
11. – La complessità e la novità delle questioni trattate giustificano la compensazione tra le parti delle spese dell’intero processo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano e compensa tra le parti le spese dell’intero processo.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 3 luglio 2019.
Allegati:
SS.UU, 12 febbraio 2019, n. 18831, in tema di trust
In tema di arbitrato internazionale – SS.UU, 26 giugno 2001, n. 8744
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Oggetto
REGOLAMENTO DI
GIURISDIZIONE
R.G.N. 10180/97
Cron. 19928
Rep. 27A8
Ud. 19/01/01
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Andrea VELA – Primo Presidente –
Dott. Francesco AMIRANTE – Presidente di sezione –
Dott. Alfio FINOCCHIARO – Presidente di sezione –
Dott. Giovanni PRESTIPINO – Consigliere –
Dott. Paolo VITTORIA – Consigliere –
Dott. Giovanni PAOLINI – Consigliere –
Dott. Alessandro CRISCUOLO – Consigliere –
Dott. Roberto PREDEN – Rel. Consigliere –
Dott. Ugo VITRONE – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
AMERICAN BUREAU OF SHIPPING, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO 9, presso lo studio dell’avvocato LUIGI BIAMONTI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIO RICCOMAGNO, giusta procura speciale depositata in data 5 agosto 1997, del Notaio Dott. Norman Goodman, in atti;
– ricorrente –
contro
TENCARA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZZA MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO SPERATI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NICOLA BALESTRA, CRISTIANO ALESSANDRI, giusta procura speciale del Notaio dott. Gennaro Chianca, depositata in data 9 settembre 1997, in atti,
– controricorrente –
nonchè seguito di ordinanza dibattimentale 17/02/2000 di integrazione del contraddittorio
nei confronti di
ABS EUROPE LTD, ATELIER D’ARCHITECTURE NAVALE S.R.L, ING. DE RIVOYRE FRANK, DITTA RIVOYRE INGENIERIE,
– intimati –
per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 4891/96 del Tribunale di VENEZIA;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/01/01 dal Consigliere Dott. Roberto PREDEN;
uditi gli Avvocati Mario RICCOMAGNO, Luigi BIAMONTI, Nicola BALESTRA;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. Giovanni LO CASCIO che ha concluso per l’accoglimento del ricorso e declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice italiano.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 23.1.1997, la S.p.a Tencara, premesso che aveva costruito, nel suo cantiere navale di Porto Marghera, una imbarcazione da crociera su progetto dell’Atelier d’Architecture navale S.r.l.; che i calcoli strumentali erano stati eseguiti dall’ing. Frank De Rivoyre e dalla Ditta Rivoyre Ingenierie; che, previo controllo di conformità ai criteri di costruzione richiesti per tale tipo di imbarcazione, l’American Bureau of Shipping (ABS) di New York e la collegata ABS Europe L.t.d. di Londra, avevano emesso certificato di classificazione; che l’imbarcazione durante le prove in mare aperto aveva subito una grave avaria; che i committenti avevano avanzato nei suoi confronti pretese risarcitorie; tanto premesso, conveniva tutti i predetti davanti al Tribunale di Venezia per essere tenuta indenne, fissando l’udienza di comparizione al 3.11.1997.
Con ricorso notificato il 30.7.1997, l’ABS di New York, in persona del legale rappresentante Frank J. Iarossi, ha proposto regolamento preventivo di giurisdizione deducendo che il giudice italiano è carente di giurisdizione in virtù di clausola compromissoria che deferisce ad arbitrato internazionale le controversie relative al contratto intercorso tra la S.p.a. Tencara e l’ABS di New York avente ad oggetto la classificazione dell’imbarcazione.
La S.p.a. Tencara ha resistito con controricorso.
Con ordinanza del 17.2.2000, la Corte ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutte le parti del giudizio di merito.
A tanto si è provveduto.
ABS e S.p.a. Tencara hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La resistente ha pregiudizialmente eccepito l’inammissibilità del ricorso per difetto di rituale procura speciale.
Deduce che si tratta di procura rilasciata all’estero con atto separato, che la procura, in quanto atto del processo che si svolge in Italia, è soggetta alla legge italiana; che l’art. 83, comma 2, c.p.c. richiede almeno la scrittura privata autenticata, che l’art. 2703 c.c., per l’autentica delle firma, richiede l’attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza; che nella procura, sottoscritta da Frank J. larossi quale legale rappresentante di ABS di New York, manca l’autenticazione della firma da parte del notaio James H. Rodges, che ha sottoscritto in calce il documento; che non è sufficiente la sola legalizzazione dell’atto da parte del cancelliere della Contea di New York.
1.1. L’eccezione è infondata.
Fermo restando che la procura alla lite rilasciata all’estero in relazione a giudizio che si svolge in Italia è soggetta alla legge processuale italiana, va tuttavia rilevato che deve ritenersi sufficiente l’adozione di forme equivalenti a quelle richieste dalla legge italiana.
Nella specie, la procura risulta rilasciata da Frank J. larossi quale legale rappresentante di ABS di New York. In calce all’atto è apposta formula di legalizzazione sottoscritta dal County Clerk di New York Norman Goodman, nella quale si attesta che l’atto è stato giurato il 14.7.1997 davanti al notaio James H. Rodqes .
L’atto recante la procura risulta quindi ricevuto in New York da un pubblico notaio, a ciò abilitato dalla legislazione del luogo, che ha apposto in calce al documento la sua firma, ed è ragionevole presumere che il notaio abbia a ciò provveduto dopo aver identificato, nelle forme prescritte, il soggetto che ha sottoscritto l’atto recante la procura, e che la sottoscrizione sia avvenuta in presenza del notaio.
2. Deduce la resistente che l’eccezione di difetto di giurisdizione non sarebbe stata ritualmente proposta.
Rileva che, ai sensi dell’art. 2.3. della Convenzione di New York del 10.6.1958, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 19.1.1968 n. 62, la parte che intende far valere dinanzi all’adita autorità giudiziaria l’esistenza di una clausola compromissoria per arbitrato estero non può limitarsi ad eccepire il difetto di giurisdizione del giudice adito, ma deve altresì chiedere, formulando una specifica domanda riconvenzionale, che il giudice adito rinvii le parti all’ arbitrato internazionale.
Sostiene che nella specie tale espressa domanda non è stata proposta, né con il regolamento preventivo, notificato in data anteriore alla prima udienza di comparizione davanti al Tribunale di Venezia, nè con la comparsa di costituzione depositata in tale ultima sede.
2.1. L’eccezione è infondata.
L’eccezione di difetto di giurisdizione fondata sull’esistenza di clausola compromissoria per arbitrato internazionale, ai sensi della Convenzione di New York del 1958, non richiede 1’adozione di formule sacramentali, nè la proposizione di una espressa istanza di rinvio delle parti all’arbitrato.
L’art. 2.3. della Convenzione, nella parte in cui prevede che il giudice adito ”renverra les parties à l’arbftrage, à la demande de l’une d’elles” , va infatti inteso nel più limitato senso che il giudice non può provvedere d’ufficio, ma soltanto a seguito di eccezione di parte con la quale si invochi 1’applicazione della clausola compromissoria, nella quale deve ritenersi implicita la richiesta di rinvio all’arbitrato, che il giudice adotterà quale automatica conseguenza del1’accoglimento dell’eccezione.
3. Afferma la resistente che l’eccezione di difetto di giurisdizione sarebbe preclusa, in quanto non eccepita nel giudizio di merito nel primo atto difensivo, come prescritto dall’art. 4.1 della legge 31.5.1995 n. 218 .
Sostiene che non può valere a tal fine la proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione – avvenuta in data anteriore all’udienza di prima comparizione nel giudizio di merito – e che nella comparsa di costituzione e risposta successivamente depositata non è stata eccepita la carenza di giurisdizione, ma è stata soltanto richiesta la sospensione del giudizio in relazione al già proposto regolamento.
3.1. L’eccezione è infondata.
La proposizione del regolamento – avvenuta dopo la notifica della citazione introduttiva del giudizio di merito, ma prima dello svolgimento della prima udienza di comparizione – ancorchè non idonea a soddisfare la specifica contestazione della giurisdizione in sede di merito, è sicuramente indicativa della inequivoca volontà della parte ricorrente di invocare, nella debita sede, la clausola compromissoria per arbitrato internazionale.
E, come risulta dagli atti del giudizio a quo – che queste S.U. sono abilitate ad esaminare direttamente ai fini della pronuncia sulla giurisdizione -, l’eccezione è stata in effetti formalmente proposta con la comparsa di costituzione e risposta, nella quale risulta trascritto il testo del regolamento preventivo, nella parte concernente la deduzione del difetto di giurisdizione.
4. La ricorrente, in via gradata, ancora oppone che la menzionata trascrizione non sarebbe idonea a concretizzare una rituale eccezione, in quanto avente ad oggetto atto rivolto ad un diverso giudice.
4.1. L’eccezione è infondata.
Non considera la resistente che, nella specie, è stato trascritto il testo di un atto avente la specifica finalità di sollevare la questione di giurisdizione. Come già osservato, la volontà della parte di sollevare l’eccezione di difetto di giurisdizione era già stata manifestata con la proposizione del regolamento, ed è stata poi inequivocabilmente ribadita mediante la trascrizione delle parti del ricorso nel quale era formulata.
5. La resistente, nel controricorso, ha eccepito che la copia del documento denominato Request for classification survey and agreement consiste di copia non conforme al suo originale; ha dichiarato di disconoscere detta copia, ai sensi dell’art. 2719 c.c., ha prodotto, a tal fine, la copia genuina della scrittura originale.
5.1. L’eccezione è infondata.
La copia prodotta dalla resistente, al fine di far rilevare la asserita non conformità all’originale di quella versata in atti da controparte, è invero identica a quest’ultima: la copia deve quindi presumersi conforme all’originale.
6. La resistente, nella memoria, ha eccepito l’inefficacia della clausola, inserita nel suindicato atto di richiesta di classificazione, perchè sottoscritta soltanto dalla richiedente S.p.a. Tencara, e non anche dal legale rappresentante de1l’ABS di New York.
6.1. L’eccezione è infondata.
Alla carenza di sottoscrizione del documento nel quale è inserita la clausola compromissoria da parte del1’ABS di New York supplisce, per costante giurisprudenza, la produzione in giudizio del documento dalla predetta eseguita, al fine di invocare l’applicazione della clausola (sent. n. 4039/82, n. 1 168/ 85 ).
7. La resistente ha eccepito, nel controricorso, che la clausola compromissoria, in quanto riferita ”a tutti i contrasti e le controversie di qualsivoglia natura derivanti da questo contratto (di richiesta di classificazione)“, non sarebbe invocabile in relazione al giudizio introdotto davanti al Tribunale di Venezia, poiché in tale sede la S.p.a. Tencara ha fatto valere nei confronti di ABS di New York anche una azione di responsabilità extracontrattuale.
Sostiene che ABS, dettando criteri costruttivi rivelatisi erronei, con particolare riferimento alla resistenza alla pressione idrostatica teoricamente sopportabile dall’imbarcazione, avrebbe violato il generale principio del neminem laedere.
7.1. L’eccezione è infondata.
La S.p.a. Tencara, mediante l’atto di richiesta di classificazione dell’imbarcazione rivolto ad ABS di New York, ha instaurato con tale ente un rapporto di natura contrattuale, ed è all’inesatto adempimento dell’obbligazione assunta da ABS di controllare la conformità del progetto ai criteri dal medesimo ente determinati e di rilasciare il certificato di classificazione che si ricollega, come emerge dall’atto di citazione, la specifica pretesa di manleva azionata dalla attuale resistente.
Il fugace accenno ad una responsabilità extracontrattuale dei convenuti, svolto nella parte conclusiva della citazione, al fine del radicamento della competenza per territorio davanti al giudice italiano, “per essersi verificato in Italia l’evento dannoso, e cioè il difetto di costruzione”, non consente di ritenere cumulativamente esperita, nei confronti di ABS, azione di responsabilità contrattuale, per lesione del diritto, nascente dal contratto di classificazione, di ottenere una corretta verifica dell’idoneità dei criteri costruttivi dell’imbarcazione, ed azione di responsabilità extracontrattuale, non essendo prospettata, nell’atto introduttivo, la lesione di altro diritto della S.p.a. Tencara tutelabile indipendentemente dalla fattispecie contrattuale.
E non giova prospettare, per la prima volta in questa sede, una responsabilità extracontrattuale per il danno ingiusto conseguente alla violazione, da parte di ABS, del dovere di non porre in pericolo la sicurezza della navigazione e l’incolumità della vita umana in mare, derivante dalla formulazione di parametri costruttivi errati, sia perchè, ai fini della pronuncia sulla giurisdizione occorre aver riguardo all’atto introduttivo, sia perché non è comunque dedotta la lesione di una specifica posizione soggettiva della resistente.
8. In ultima istanza, la resistente eccepisce che la clausola compromissoria non sarebbe opponibile allaS.p.a. Tencara, poiché quest’ultima avrebbe stipulato il contratto di richiesta di classificazione in favore di un terzo, da identificare nell’armatore dell’imbarcazione.
8.1. L’eccezione è infondata.
Il terzo in favore del quale il contratto può essere stipulato, ai sensi dell’art. 1411 c.c., deve infatti essere individuato al momento della stipulazione, o, quantomeno, deve essere determinabile in base a criteri prestabiliti, e nulla di ciò emerge dalla documentazione in atti.
9. Deve quindi ritenersi:
che la ricorrente ABS di New York ha dimostrato, mediante il documento prodotto, l’esistenza, nel contratto intercorso con la S.p.a. Tencara, di una clausola compromissoria per arbitrato internazionale, dotata dei requisiti di forma (convenzione scritta, nei sensi precisati sub n. 6.1.) previsti dall’art. Il, 2 della Convenzione di New York del 10.6.1958, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 19.1.1968 n. 62, e quindi valida ed efficace, nel cui ampio oggetto (concernente “tutti i contrasti e le controversie di qualsivoglia natura derivanti da questo contratto”) rientra la controversia in esame;
che l’esistenza della clausola è stata ritualmente eccepita.
10. Va conseguentemente dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano.
11. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano nel dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara il difetto di giurisdizione del giudice italiano. Condanna la resistente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in £ 500.000, oltre £ 10.000.000 (dieci milioni) per onorari.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, il 19.1.2001.
IL CONSIGLIERE EST.
IL PRIMO PRESIDENTE
Allegati:
SS.UU, 26 giugno 2001, n. 8744, in tema di arbitrato internazionale