Civile Sent. Sez. U Num. 34419 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: FUOCHI TINARELLI GIUSEPPE
Data pubblicazione: 11/12/2023
Oggetto: Crediti d’imposta–
“crediti inesistenti” e
“crediti non spettanti” –
Distinzione – Accertamento
tributario – Termine di
decadenza
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 27702/2014 R.G. proposto da:
GRAFICHE MAZZUCCHELLI SPA, elettivamente domiciliata in Roma, via Sicilia n. 66, presso lo studio Fantozzi & Associati, rappresentata e difesa dell’avv. Lucia Montecamozzo (MNTLCU66P56F205S) e dall’avv. Luigi Taccogna (TCCLGU71S17D969K), giusta procura speciale in calce al ricorso;
-ricorrente-
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato (ADS80224030587), presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
-controricorrente-
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 1662/36/2014 depositata il 31 marzo 2014.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 12/09/2023, fissata ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis, l. n. 176 del 2020, dal Consigliere Giuseppe Fuochi Tinarelli.
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Alessandro Pepe, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito l’Avv. dello Stato Marinella Di Cave per l’Agenzia delle entrate, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. Con la sentenza n. 1662/36/14 del 31/03/2014, la Commissione tributaria regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto da Grafiche Mazzucchelli Spa (di seguito anche Mazzucchelli) avverso la sentenza n. 50/25/13 della Commissione tributaria provinciale di Milano, che aveva a sua volta respinto il ricorso proposto dalla società contribuente avverso un avviso di accertamento relativo agli anni d’imposta 2006 e 2007, concernente il recupero di un’agevolazione riconosciuta per l’acquisto di beni strumentali posta indebitamente in compensazione.
2. L’avviso di accertamento era stato emesso in quanto la società contribuente – dopo avere acquistato due macchine per la stampa in rotativa, da utilizzarsi in via esclusiva per la produzione di prodotti editoriali in lingua italiana, così beneficiando del credito d’imposta di cui all’art. 8, comma 2, lett. a), l. 7 marzo 2001, n. 62 – aveva utilizzato dette rotative anche per altri prodotti editoriali, non in lingua italiana, così perdendo il diritto all’agevolazione.
3. La CTR respingeva l’appello della Mazzucchelli evidenziando che: a) il Ministero dello sviluppo economico aveva disconosciuto l’agevolazione; b) le rotative acquistate non erano state utilizzate per intero per la produzione editoriale in lingua italiana.
4. Avverso detta decisione Grafiche Mazzucchelli Spa ha proposto ricorso per cassazione con otto motivi, riproponendo, in particolare, l’eccezione di decadenza della potestà accertativa dell’Amministrazione finanziaria con riguardo alla ripresa per il 2006; l’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
5. Con ordinanza n. 35536/2022, depositata in data 2 dicembre 2022, la Sezione Tributaria ha rimesso la causa al Primo Presidente per valutare l’opportunità dell’assegnazione della stessa alle Sezioni Unite civili, ravvisando un contrasto interpretativo interno alla Sezione Tributaria sulla distinzione tra crediti d’imposta inesistenti e crediti d’imposta non spettanti, distinzione rilevante ai fini dell’individuazione del termine per l’esercizio della potestà accertativa da parte dell’Amministrazione finanziaria.
6. Il Primo Presidente ha quindi disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
7. In prossimità dell’udienza la Procura Generale, in persona del sostituto procuratore generale Alessandro Pepe, ha depositato memoria sulla questione di rilievo nomofilattico. Pure l’Agenzia delle entrate ha depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La questione posta a queste Sezioni Unite investe la nozione di crediti d’imposta inesistenti, oggetto di considerazione dall’art. 27, commi da 16 a 20, d.l. 29 novembre 2008 n. 185, conv. con mod. dalla l. 28 gennaio 2009 n. 2, e, poi, a seguito delle modifiche operate con il d.lgs. n. 158 del 2015, dall’art. 13, comma 5, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, e se essa debba o meno essere distinta da quella di crediti d’imposta non spettanti, attualmente oggetto di considerazione dall’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471/1997, refluendo, in particolare, sulla applicabilità del termine di decadenza lungo, di otto anni, introdotto dal comma 16 dell’art. 27 d.l. 185/2008, anziché di quello ordinario, previsto dell’art. 43, terzo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per l’esercizio della potestà accertativa da parte dell’Amministrazione finanziaria in caso di indebita compensazione.
1.2. La medesima questione, inoltre, refluisce sul trattamento sanzionatorio poiché l’indebita compensazione con crediti inesistenti è soggetta alla più grave sanzione dal 100% al 200% dei crediti.
2. La contribuente ha sollevato la questione con i primi due motivi di ricorso:
– il primo, con una censura di ordine processuale, deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR omesso di pronunciare in ordine all’eccezione di decadenza dal recupero con riferimento all’anno d’imposta 2006;
– il secondo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 27, comma 16, d.l. n. 185/2008, conv. con modif. dalla l. n. 2 del 2009, 10 quater d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, 43, terzo comma, d.P.R. n. 600/1973, 1, comma 4, d.P.C.M. 6 giugno 2002, n. 143 e 25 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR erroneamente ritenuto l’Amministrazione finanziaria non decaduta dai poteri di accertamento con riferimento all’anno d’imposta 2006.
3. Va, in primo luogo, disattesa la prima censura.
Come condivisibilmente prospettato nell’ordinanza di rimessione, la sentenza impugnata, nella parte in fatto, ha espressamente fatto riferimento alla contestazione formulata dalla ricorrente e concernente l’inapplicabilità del termine lungo di decadenza per poi concludere per il rigetto “in diritto” del ricorso, sicché deve ritenersi che abbia preso in considerazione il rilievo della società contribuente, rigettandolo e decidendo la controversia nel merito.
4. Passando all’esame del secondo motivo e della questione qui in discussione, la contribuente, sull’assunto che le due categorie siano oggettivamente diverse, rileva che la contestazione della Agenzia delle entrate ha sempre riguardato solo la spettanza del credito e non la sua esistenza: l’acquisto dei macchinari che avevano dato origine al diritto e le spese sostenute non erano mai stati posti in discussione, né era dubbia la veridicità della documentazione relativa agli investimenti; l’indebita compensazione del credito per l’anno 2006 – avvenuta nel gennaio 2006 e, dunque, anteriormente all’entrata in vigore anche dell’art. 10 quater d.lgs. n. 74/2000 – avrebbe quindi dovuto essere contestata entro il 31/12/2011, mentre l’avviso di accertamento era stato notificato in data 29/02/2012.
5. L’ordinanza di rimessione, nel delineare lo specifico oggetto della questione, rileva l’esistenza di un persistente contrasto interno alla Sezione Tributaria.
5.1. In particolare, secondo un primo più risalente e maggioritario orientamento tra le nozioni di “credito inesistente” e “credito non spettante” non vi sarebbe alcuna differenza.
5.2. Si è affermato, specificamente, che «l’art. 27, comma 16, d.l. 185/2008, conv. l. 2/2009, non intende elevare l’inesistenza” del credito a categoria distinta dalla “non spettanza” (distinzione a ben vedere priva di fondamento logico giuridico), ma intende solo garantire un margine di tempo adeguato per le verifiche talora complesse riguardanti l’investimento generatore del credito d’imposta, margine di tempo perciò indistintamente fissato in otto anni, senza che possa trovare applicazione il termine più breve stabilito dall’art. 43 d.P.R. 600/1973 per il comune avviso di accertamento» «dunque, ogniqualvolta il credito derivante dall’operato investimento non sussiste, per ciò solo deve ritenersi inesistente nel senso precisato dalla norma» (Cass. n. 10112 del 21/04/2017 e Cass. n. 19237 del 02/08/2017; seguite poi da Cass. 24093 del 30/10/2020; Cass. n. 354 del 13/01/2021; Cass. n. 31859 del 05/11/2021).
5.3. In dissenso a questa interpretazione si sono poste le sentenze “gemelle” n. 34443, 34444 e 34445 del 16/11/2021.
5.4. Le sentenze n. 34444 e n. 34445 del 2021, che maggiormente si sono diffuse sulla questione, dopo aver rilevato che la nozione di credito inesistente è stata positivamente dettata con «il “nuovo” art. 13, comma 5, terzo periodo, del d.lgs. n. 471/1997, come introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015», concludono nel senso di ritenere che il precedente orientamento «vada necessariamente superat[o] anche per effetto della citata novella, non tanto e non già perché quest’ultima sia direttamente applicabile alla fattispecie, ratíone temporis, bensì perché nella stessa definizione positiva di “credito inesistente” può rinvenirsi la conferma della dignità della distinzione delle due categorie in discorso, già sulla base dell’originario impianto normativo concernente la riscossione dei crediti d’imposta indebitamente utilizzati».
5.5. In tal senso si è evidenziato che:
– l’art. 27, comma 16, d.l. n. 185/2008, concerne «la sola “riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241“;
– la «novella del 2015 si innesta nella riscrittura della norma già contenuta nel contestualmente abrogato art. 27, comma 18, d.l. cit. … e mira quindi a specificare il contenuto del precetto originario, così ancorando la nozione di “credito inesistente” ad una dimensione “non reale” o “non vera”, ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza».
5.6. Il primo orientamento è stato ripreso, successivamente ai suddetti arresti, con l’ordinanza Cass. n. 25436 del 29/08/2022, mentre va dato atto che il nuovo approccio ermeneutico è stato da ultimo condiviso da Cass. n. 5243 del 20/02/2023.
6. Ritiene questa Corte che debba darsi prevalenza all’orientamento emerso da ultimo.
7. La problematica di fondo si incentra su un duplice ordine di profili: in primo luogo, se le due nozioni (credito inesistente e credito non spettante) abbiano, effettivamente, un oggetto differente e, in tal caso, quali siano i caratteri distintivi; in secondo luogo, se, con riguardo alla condotta di indebito utilizzo in compensazione di un “credito inesistente” ovvero “non spettante”, sia ravvisabile, e da quando, un regime giuridico differente e quali siano i presupposti che ne condizionano l’applicabilità.
8. Quanto alla prima questione, va premesso che l’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dall’art. 15, d.lgs. 24/09/2015 n. 158, ha fornito, per la prima volta, una esplicita definizione positiva di credito inesistente stabilendo che «Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633».
Accanto a tale definizione, il legislatore, al comma 4 dell’art. 13 cit., parimenti modificato dalla novella del 2015, ha fornito una autonoma definizione della nozione di credito non spettante, individuato con la locuzione «utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quella spettante o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti».
8.1. Occorre osservare che tali indicazioni postulano comunque una ricognizione di quali siano i presupposti, di fatto e normativi, per ritenere esistente un credito d’imposta; esse, inoltre, sono applicabili, in sé, alle fattispecie successive al 1° gennaio 2016 (art. 32, comma 1, d.lgs. n. 158 del 2015), rilievo quest’ultimo che, se ai fini sanzionatori trova un adeguato temperamento nell’applicazione dei principi in tema di successione di norme, condiziona l’applicabilità del maggior termine per l’esercizio della potestà accertativa da parte degli Uffici finanziari ex art. 27, comma 16, d.l. n. 185/2008.
Si tratta quindi di verificare se, e in quale misura, le definizioni introdotte dal legislatore nel 2015 corrispondano a nozioni già esistenti e ricavabili da principi generali dell’ordinamento tributario e quale sia il rapporto con la disciplina introdotta nel 2008.
8.2. Appare opportuno partire dal dato, intuitivo e di comune conoscenza anche secondo il linguaggio comune, che la nozione di “inesistenza” evoca, sul piano fenomenico, la non appartenenza alla realtà: lo specifico evento o circostanza – che determina l’insorgere del credito – non esiste o non si è mai realizzato.
A tali situazioni è assimilabile l’ipotesi in cui il credito (la pretesa), pur regolarmente sorto, sia venuto meno per “consumazione” perché già utilizzato dal soggetto interessato.
Queste connotazioni, infine, possono assumere rilievo assoluto, nel senso che l’inesistenza riguarda la totalità dei consociati, oppure carattere relativo in quanto condizioni riferite a specifici soggetti; in questo caso il credito o la pretesa non “esistono” per il soggetto che li invoca, senza che interferisca con questa conclusione la circostanza che essi esistano per altri soggetti o per un diverso rapporto.
8.3. Sul piano giuridico tributario, la nozione è indubbiamente più sottile poiché postula, accanto ad una declinatoria fenomenica, anche la ricognizione positiva, con riguardo alle singole previsioni d’imposta, di quei requisiti – condizioni, termini e forme – normativamente imposti come elementi costitutivi dei singoli crediti d’imposta.
In particolare, il credito va considerato inesistente non solo quando le attività e i presupposti fondanti non sono mai venuti in essere ma anche quando siano assenti le ulteriori condizioni essenziali – formali o sostanziali – previste dal legislatore.
8.4. Se sussiste l’esigenza di identificare quali siano gli elementi la cui mancanza impedisce il perfezionarsi della fattispecie agevolativa, è tuttavia evidente che non tutti gli elementi (e gli adempimenti) che partecipano alla realizzazione della fattispecie assumono un necessario rilievo costitutivo, potendo influire su aspetti meramente formali ovvero incidere solo sull’efficacia della pretesa.
In tali ipotesi, il credito esiste ma non è utilizzabile in tutto o in parte, sicché il credito non può validamente od efficacemente esser posto in compensazione.
9. Le due categorie, dunque, appaiono strutturalmente distinte e, sul piano logico, alternative: il credito è inesistente oppure esiste ma è non spettante.
9.1. In via generale, ai fini della determinazione dell’inesistenza del credito, si possono distinguere le seguenti ipotesi:
a) la fattispecie che fonda l’agevolazione o il credito d’imposta non è mai venuta ad esistenza ma, semplicemente, è stato solo realizzato un simulacro dei presupposti su cui si fonda la pretesa;
b) la fattispecie è carente di un elemento costitutivo; in tal caso la verifica richiede l’esegesi puntuale delle norme che istituiscono l’agevolazione, tenuto conto dei principi regolatori della specifica imposta.
9.2. L’ipotesi sub a) è quella più radicale – ma anche di più semplice analisi – per la normale connotazione fraudolenta della condotta, mirata a fornire solo un’ingannevole rappresentazione dei presupposti di fatto e normativi.
In questo caso, l’attività svolta è fittizia perché le attività richieste non sono mai state effettuate: ad esempio, con riguardo al credito d’imposta per le spese sostenute per l’attività di ricerca e sviluppo di cui all’art. 1, commi 280 e ss, l. n. 296 del 2006, se gli studi non sono mai avvenuti.
Analogamente, il credito Iva posto in compensazione è inesistente quando è generato da operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti.
9.3. Assimilabili all’evenienza sub a), poi, è l’ipotesi in cui il credito d’imposta, pur regolarmente sorto, competa, in realtà, ad un soggetto diverso, nonché quella in cui il credito si sia estinto per esser già stato utilizzato, circostanza che ne preclude – definitivamente – un nuovo impiego.
In quest’ultimo caso, non è rilevante che il credito sia stato in origine utilizzato indebitamente (ad esempio, in compensazione oltre le soglie annue consentite) poiché assume rilievo il dato oggettivo della sua “consumazione” e, quindi, la fuoriuscita dalla sfera di disponibilità del contribuente.
Tuttavia, va sottolineato che l’eventuale contestazione dell’Ufficio sull’originaria indebita compensazione determina una situazione di incertezza del credito, che, oltre a condizionarne l’utilizzabilità, impone una specifica concreta valutazione sulla sua effettiva esistenza.
9.4. Con riguardo all’ipotesi sub b), appare necessario in un’ottica sistematica, per la varietà di tipologie di crediti d’imposta, procedere ad un’indagine più analitica al fine di individuare – pur a fronte delle difficoltà derivanti da una normazione di settore spesso variegata e multiforme – i parametri strutturali, di carattere generale, per ritenere esistente un credito di imposta, ossia quali siano gli elementi idonei ad assumere natura costitutiva e quali, invece, abbiano carattere accessorio o riguardino la sola efficacia della pretesa.
In particolare:
1) L’istanza del contribuente.
Il beneficio può essere riconosciuto ex lege per il solo fatto del ricorrere delle condizioni materiali; di frequente, tuttavia, è richiesta una istanza del contribuente, ossia la presentazione di un’apposita dichiarazione, autonoma o confluente nella dichiarazione annuale.
È il caso, ad esempio, del credito d’imposta per l’attività di ricerca ex art. 14 d.m. n. 593 del 2000 che va indicato, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta nel corso del quale il beneficio è concesso: v. Cass. n. 389 del 13/01/2016; analogamente per il credito d’imposta per la riqualificazione della rete distributiva ex art. 11 l. n. 449 del 1997: v. Cass. n. 610 del 12/01/2018; disposizione analoga è prevista in tema di agevolazioni per l’acquisto della prima casa ex art. 1, nota II bis, della Tariffa, Parte Prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986.
La domanda (i.e. la dichiarazione) rileva, in queste ipotesi, quale elemento costitutivo del credito d’imposta poiché le agevolazioni sono, per loro natura, generalmente condizionate ad una dichiarazione di volontà dell’avente diritto di avvalersene e, peraltro, l’Amministrazione finanziaria deve poter verificare la sussistenza dei presupposti del beneficio come evocato nella richiesta e in forza della quale esso viene provvisoriamente riconosciuto (v. Cass. n. 6501 del 16/03/2018).
Non di rado, il carattere cogente è identificabile dalla previsione, esplicita o implicita, di un termine decadenziale per la formulazione della richiesta, la cui mancata osservanza è idonea a determinare la perdita del diritto.
Non è in contrasto con tale rilievo – e, anzi, ne fornisce ulteriore riscontro – la circostanza che, in talune ipotesi (in ispecie, nel caso in cui il beneficio discenda direttamente da riconoscimento normativo), l’istanza del contribuente assuma rilievo solo quale sollecitazione all’applicabilità di un regime legale (v. Cass. n. 3412 del 21/02/2005). E, del resto, la generale importanza della richiesta del contribuente per la fruizione delle agevolazioni si ricava anche dall’art. 19, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 546 del 1992 che ha esplicitamente previsto, tra gli atti impugnabili, il “diniego di agevolazioni”, che «la quale, in ambedue le ipotesi dianzi prefigurate (elemento della fattispecie costitutiva del diritto relativo, ovvero mera sollecitazione a riconoscerlo) rappresenta la forma propria d’esercizio del diritto fatto valere» (v. Cass. n. 1004 del 24/01/2001).
2) La previsione di obblighi di facere e/o di non facere.
Accanto all’individuazione di elementi, di fatto o normativi, in atto al momento genetico della pretesa, a delineare il riconoscimento dell’agevolazione e/o del credito d’imposta è frequentemente prevista la realizzazione di un facere (e/o di un non facere) – talvolta connotato da attività formali, talvolta da adempimenti sostanziali – da parte del destinatario della posizione soggettiva.
Si tratta, invero, di una modalità operativa che riflette (e rende concreto) l’interesse che l’agevolazione mira a perseguire.
Ad esempio, in tema di benefici fiscali cd. “prima casa” l’acquirente è tenuto, ai sensi dall’art. 1, nota II bis, comma 1, lett. a), della Tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, a trasferire – al di là dell’ipotesi riconnessa all’attività lavorativa esercitata – la propria residenza (destinata ad assurgere ad abitazione della parte) entro i diciotto mesi dall’acquisto nel comune ove è ubicato l’immobile (v. Cass. n. 28860 del 01/12/2017; Cass. n. 667 del 12/01/2023).
In altre fattispecie, l’attività richiesta è più complessa: l’art. 33, comma 3, l. n. 388 del 2000 – agevolazione prevista per il trasferimento di terreni edificabili – postula un facere da parte dell’acquirente, che, in attuazione degli strumenti urbanistici, entro i cinque anni successivi deve procedere all’edificazione (v. Cass. n. 14891 del 20/07/2016).
Analoga complessa regolamentazione si rinviene nella disciplina sul credito per gli investimenti nelle aree svantaggiate ex art. 8 l. n. 388 del 2000: se, da un lato, l’art. 62, comma 1, lett. f) e g), della l. n. 289 del 2002, stabilisce che la fruizione del beneficio è consentita entro il secondo anno successivo a quello di presentazione di autonoma istanza (sicché, in parte qua, vale quanto su precisato al punto 1)), dall’altro, l’art. 8, comma 7, l. n. 388 cit. impone di «materialmente adibire il bene oggetto dell’investimento alla funzione produttiva sua propria entro due anni da quando lo stesso si è reso disponibile all’impresa», in rispondenza alla ratio legis di tutelare i nuovi investimenti in quanto portati a compimento ed effettivamente immessi nel ciclo economico e produttivo delle aree svantaggiate (Cass. n. 8086 del 29/03/2017).
In tema di benefici fiscali per gli interventi di riqualificazione ed efficientamento energetico, l’art. 1, comma 349, l. n. 296 del 2006, impone un obbligo di facere poiché assegna rilevanza costitutiva alla preventiva comunicazione all’Enea dell’elenco delle spese; si tratta di adempimento in sé formale, che, tuttavia assolve allo scopo di impedire eventuali frodi e di consentire la verifica che i lavori, in quanto diretti a salvaguardare l’ambiente risparmiando energia, siano meritevoli dei vantaggi fiscali (v. Cass. n. 34151 del 21/11/2022).
Integra un non facere, invece, l’obbligo, in tema di agevolazioni cd. prima casa di cui all’art. 1, nota II bis, comma 4, della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, di non cedere l’immobile per un quinquennio dall’acquisto, la cui violazione (salvo che il soggetto non provveda ad un nuovo acquisto di altro immobile da adibire ad abitazione entro un anno) determina la decadenza del beneficio con l’estinzione del credito d’imposta.
Pure la fattispecie oggetto del presente giudizio rientra in questo ambito: l’art. 8, comma 2, lett. a), legge 7 marzo 2001, n. 62, infatti, dispone che «Gli investimenti per i quali è previsto il credito di imposta di cui al comma 1 hanno ad oggetto: a) beni strumentali nuovi, ad esclusione degli immobili, destinati esclusivamente alla produzione dei seguenti prodotti editoriali in lingua italiana: giornali, riviste e periodici, libri e simili, nonché prodotti editoriali multimediali», sicché, in tale ipotesi, è imposto l’obbligo di non impiegare i beni acquistati per la stampa in altre lingue.
3) L’indicazione di termini finali e di condizioni risolutive.
La previsione di termini finali per la fruizione del credito d’imposta e di condizioni risolutive può assumere rilievo autonomo ovvero può integrare la presentazione dell’istanza da parte del contribuente o la realizzazione delle condotte richieste.
Come sopra evidenziato, ad esempio, la mancata edificazione nel quinquennio dall’acquisto di terreni edificabili determina – e assume rilievo giuridico come condizione risolutiva – la perdita dell’agevolazione ex art. 33, comma 3, l. n. 388 del 2000, con estinzione del credito d’imposta e obbligo di restituzione di quella anteriormente fruita.
In altre ipotesi, invece, l’indicazione del termine è oggettivamente rilevante: è il caso del credito di imposta per il trasporto merci di cui al d.l. n. 265 del 2000, che deve essere esercitato, ai sensi dell’art. 4, comma 3, d.P.R. n. 277 del 2000, entro l’anno solare in cui è sorto, attraverso la compensazione prevista dall’art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997 (salva la possibilità, in caso di eccedenza, di chiedere il rimborso entro i sei mesi successivi a tale anno) (Cass. n. 6937 del 17/03/2017; Cass. n. 29130 del 13/11/2018).
10. Non è invece idonea ad incidere, ai fini della perfezione della fattispecie costitutiva, l’inosservanza di meri adempimenti procedurali o la previsione di soglie o limiti di valore.
Sotto il primo profilo, vengono in rilievo adempimenti di carattere strumentale o accessorio, suscettibili di connotare l’utilizzo del credito ed incidenti, in ipotesi, sull’attività di controllo dell’Ufficio, ma non anche, se carenti, di inficiarne l’esistenza.
In tal senso, si è ritenuto validamente utilizzato il credito di imposta, maturato per l’anno 2007, previsto per le attività di ricerca e sviluppo dall’art. 1, commi 280-283, l. n. 296 del 2006 in forza della diretta compensazione, anche solo parziale, con gli importi dovuti a titolo di imposte dirette, quand’anche lo scomputo della somma in compensazione non fosse stato per errore indicato nel modello F24 (modello il cui uso a pena di decadenza del beneficio era previsto solo per i crediti maturati successivamente al 2008) (v. Cass. n. 11614 del 04/05/2021).
L’esistenza di limiti e soglie di valore postula, invece, l’esistenza del credito nella sua integrità: questo, semplicemente, non è utilizzabile per l’intero, restando l’operazione, per la parte eccedente, priva di efficacia nei confronti dell’erario.
L’individuazione di soglie di fruibilità del credito assolve ad una funzione esterna al credito d’imposta in vista delle esigenze di equilibrio del bilancio dello Stato, esigenze che, tuttavia, non interferiscono con i presupposti di esistenza (v. anche, con riguardo ai crediti per le spese di ricerca e di sviluppo, l’art. 29, comma 1, del d.l. n. 185 del 2008, conv., con modif., in l. n. 2 del 2009, che ha introdotto un tetto massimo anche con riguardo ai crediti maturati prima della sua entrata in vigore: v. Cass. n. 5733 del 09/03/2018).
10.1. Correlativamente, va parimenti escluso che sia suscettibile di assumere rilievo quale elemento costitutivo l’eventuale previsione, nella struttura dell’agevolazione o del credito in eccedenza, di un termine di inizio, prima del quale il credito non sia utilizzabile, ovvero di una condizione sospensiva per la fruizione del credito.
In queste ipotesi, la fattispecie integrativa del credito d’imposta è già perfezionata nei suoi elementi costitutivi, restando carente solo una condizione di efficacia per la fruizione del credito.
Per precisione, va sottolineato che esulano da questo ambito le eventuali condizioni sospensive o i termini che siano apposti nell’ambito del rapporto giuridico sottostante al rapporto tributario, la cui possibile rilevanza deve essere sempre valutata in relazione alle specificità delle fattispecie agevolative.
Non a caso, ad esempio, l’art. 27 del TU n. 131/1986 sull’imposta di registro («non sono considerati sottoposti a condizione sospensiva le vendite con riserva di proprietà e gli atti sottoposti condizione che ne fanno dipendere gli effetti dalla mera volontà dell’acquirente o del creditore») esclude l’incidenza della cessione con riserva di proprietà, mentre, in caso di agevolazione cd. prima casa, si deve escludere che possa assumere rilievo l’apposizione, nel contratto di compravendita, di una clausola sospensiva «dell’efficacia del nuovo acquisto alla rivendita entro un dato termine di quello precedente già acquistato», posto che si porrebbe in contrasto con il requisito dell’impossidenza di altri immobili (v. Cass. n. 10513 del 21/04/2021).
10.2. Infine, merita una specifica considerazione, in tale ambito, l’ipotesi in cui il credito o l’eccedenza sia relativa all’Iva, imposta armonizzata, per la quale si deve tenere conto dei principi derivanti dalla disciplina unionale e affermati dalla Corte di giustizia.
Il principio di neutralità dell’imposizione, infatti, impone che, ancorché taluni obblighi formali siano stati omessi dai soggetti passivi, non possa, per ciò solo, determinarsi la perdita del diritto di detrazione – e quindi, per quanto qui rileva, neppure la qualificazione del credito come inesistente – ove sussistano i requisiti sostanziali, che consistono nelle circostanze che gli acquisti siano stati effettuati da un soggetto passivo, che quest’ultimo sia parimenti debitore dell’Iva attinente a tali acquisti e che i beni di cui trattasi siano utilizzati ai fini di proprie operazioni imponibili (v. Corte di giustizia, sentenza 11 dicembre 2014, in C-590/13, Idexx Laboratoires Italia, sentenza 17 luglio 2014, in C-272/13, Equoland; da ultimo, sentenza 18 marzo 2021, in C-895/19, Dyrektor Krajowej Informacji Skarbowej).
È il caso, dunque, della compensazione orizzontale dei crediti Iva: l’art. 34 l. n. 388 del 2000 prevede una soglia annua limite (più volte modificata nel tempo), al di là della quale non è consentita la compensazione del credito. In tale evenienza il (maggior) credito esiste ed è effettivo ma non è utilizzabile, nell’anno, in compensazione ex art. 17 d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241 (v. Cass. n. 31706 del 07/12/2018; Cass. n. 26926 del 22/10/2019).
Analoga conclusione vale con riguardo all’istanza prevista dall’art. 8, commi 2 e 3, d.P.R. n. 542 del 1999, come modificato dall’art. 11, comma 5, d.P.R. n. 435 del 2001, per poter accedere alla compensazione di un credito Iva infrannuale, la quale dunque non può mai essere elevata a condizione costitutiva del credito.
In materia di Iva la stessa decadenza dal diritto di detrazione (v. Sez. U, n. 17757 del 08/09/2016) non determina, in sé, l’inesistenza del credito, potendo il contribuente chiederne il rimborso.
11. In conclusione, la distinzione tra credito inesistente e credito non spettante ha, innanzitutto, carattere strutturale e trae il suo fondamento logico giuridico dal complessivo sistema ordinamentale tributario: l’una (“l’inesistenza”) ha un valore obbiettivo, mentre l’altra (la “non spettanza”) ha un carattere dinamico ancorato al presupposto, antitetico, dell’esistenza del credito.
12. Tale esito consente di procedere alla disamina della seconda questione rilevante nel giudizio, ossia se sia ravvisabile – e in quali termini – un regime giuridico differente tra l’indebito utilizzo in compensazione di un credito inesistente ovvero non spettante e in quale misura incida sulla stessa nozione di crediti inesistenti.
Non va trascurato, infatti, che, accanto ad una prospettiva strutturale rispetto alla tipologia dei crediti, assume rilievo anche un profilo funzionale correlato al regime normativo cui assoggettare le diverse ipotesi e condotte.
13. È opportuno premettere che il legislatore ha progressivamente ampliato lo strumento della compensazione dei crediti tributari: inizialmente introdotta per crediti e debiti della medesima imposta (cd. compensazione “verticale” ex art. 11, comma 3, d.P.R. n. 917/1986) è stata estesa a tributi diversi (compensazione “orizzontale” ex art. 17 d.lgs. n. 241/1997), ed ha trovato anche un riconoscimento, quale modalità generale di estinzione dell’obbligazione tributaria (peraltro, nei limiti dei casi e alle condizioni espressamente previste: v. Cass. n. 17001 del 09/07/2013; Cass. n. 10207 del 18/05/2016), nell’art. 8 l. n. 212 del 2000.
13.1. Parallelamente, il sempre più ampio utilizzo dell’istituto della compensazione – valorizzato dalla dottrina anche come rilevante strumento di compliance – ha posto l’esigenza, per il legislatore, di prevedere adeguate misure per consentire all’Amministrazione finanziaria di contrastare efficacemente l’utilizzo indebito o fraudolento della compensazione.
Sul piano procedimentale, con l’art. 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge di bilancio 2005), è stata introdotta la possibilità per l’Agenzia delle entrate di operare «la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241» attraverso un «apposito atto di recupero motivato», ossia con una modalità idealmente più agile e di più lata applicazione, che si aggiungeva all’ordinario avviso di accertamento e concorreva con quelle del recupero attraverso l’accertamento automatizzato ex artt. 36 bis e 36, ter d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 bis, d.P.R. n. 633 del 1972.
La disposizione, priva in sé di natura sanzionatoria, mirava solo a rendere più agevole l’intervento degli uffici rispetto alla generalità delle condotte di indebita compensazione, a prescindere dalla qualificazione del credito come inesistente o non spettante.
13.2. La giurisprudenza, a sua volta, si era orientata per ritenere che la condotta di indebita compensazione dei crediti – senza, però, distinguere tra le diverse ipotesi – fosse soggetta alla sanzione di cui all’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 poiché l’indebita compensazione comportava un minor versamento delle imposte dovute (pari a quelle illegittimamente compensate) e, quindi, si traduceva in una ipotesi di omesso versamento d’imposta (v., tra le molte, Cass. n. 8681 del 15/04/2011; Cass. n. 8247 del 04/04/2018).
14. A fronte di tale generale contesto, è con il d.l. 4 luglio 2006, n. 223, che, per la prima volta, emerge, sul piano positivo, l’esistenza di una dicotomia tra le due categorie concettuali.
Infatti, l’art. 35 del d.l. n. 223/2006 introduce l’art. 10 quater del d.lgs. n. 74 del 2000, che prevede l’illiceità penale della condotta di colui che «non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti o inesistenti».
In realtà, anche in questo caso la distinzione, pur positivamente affermata, non comportava diversità di disciplina poiché entrambe le condotte restavano soggette al medesimo regime sanzionatorio penale (ossia, alla pena da sei mesi a due anni).
14.1. È solamente con il d.l. n. 185 del 2008 che l’attenzione del legislatore si concentra, limitatamente all’ambito tributario, su una differenziazione di regime giuridico.
L’art. 27, commi da 16 a 18, nel testo ratione temporis vigente, testualmente ha previsto:
«16. Salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per il reato previsto dall’articolo 10-quater, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, l’atto di cui all’articolo 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo.
17. La disposizione di cui al comma 16 si applica a decorrere dalla data di presentazione del modello di pagamento unificato nel quale sono indicati crediti inesistenti utilizzati in compensazione in anni con riferimento ai quali alla data di entrata in vigore della presente legge siano ancora pendenti i termini di cui al primo comma dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e dell’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.
18. L’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è punito con la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi.»
14.2. La successiva evoluzione normativa conserva e rafforza la distinzione e la diversità di regime giuridico, cui si aggiunge anche una prospettiva convergente tra disciplina penale e tributaria.
Con l’art. 15 del d.lgs. n. 158 del 2015 – immodificati i commi 16 e 17 dell’art. 27 cit. – il comma 18 viene abrogato (con decorrenza dal 1° gennaio 2016 ex art. 32, comma 2, d.lgs. n. 158 del 2015) e, contestualmente, vengono introdotti i nuovi commi 4 e 5 dell’art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997.
Le nuove disposizioni, in particolare, hanno stabilito quanto segue:
«4. Nel caso di utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quella spettante o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti si applica, salva l’applicazione di disposizioni speciali, la sanzione pari al trenta per cento del credito utilizzato.
5. Nel caso di utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è applicata la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi. Per le sanzioni previste nel presente comma, in nessun caso si applica la definizione agevolata prevista dagli articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.»
Analogamente in ambito penale: l’art. 9 d.lgs. n. 158 del 2015 novella l’art. 10 quater d.lgs. n. 74/2000, che, nel nuovo testo (in vigore dal 22 ottobre 2015), ha previsto:
«1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro.
2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro.».
15. Dal complessivo quadro normativo su evidenziato emerge che, recepita positivamente la distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti (art. 10 quater), ai fini tributari sin dall’origine (art. 27, commi 16 e ss) l’intervento del legislatore è stato mirato a fornire una disciplina specifica in caso di compensazioni con crediti inesistenti.
15.1. Ciò emerge, innanzitutto, sul piano letterale.
Già il comma 16 dell’art. 27 d.l. n. 185/2008, in sé solo considerato, è esplicito nell’individuare l’oggetto della disciplina «nella riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione».
I successivi commi 17 e 18 dell’art. 27 cit. confermano l’univocità della scelta normativa poiché si riferiscono – solo ed esclusivamente – alla compensazione di «crediti inesistenti».
15.2. L’effettiva portata dell’originaria disciplina – e la delimitazione dell’area di specifica regolamentazione – emerge, peraltro, da una pluralità di argomenti.
15.3. In primo luogo, il rinvio operato dall’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 non solo all’art. 10 quater ma alla stessa procedura di riscossione ex art. 1, comma 421, l. n. 331/2004 – in sé rilevante per la generalità delle compensazioni indebite – è espressamente circoscritto alle sole compensazioni per crediti inesistenti.
15.4. In secondo luogo, tale delimitazione non concerne qualsiasi indebita compensazione per crediti inesistenti ma solo quelle emergenti dal «controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato», come esplicitamente prevede il comma 16, con espressione poi ripresa dal successivo comma 17.
Tale locuzione, come anche specifica la relazione illustrativa al provvedimento legislativo, si riferisce alle ipotesi in cui «dai riscontri sui dati contenuti nei modelli di pagamento unificato relativi alle compensazioni esposte» risultino «crediti d’imposta non esposti, come obbligatoriamente previsto, nelle dichiarazioni presentate, nonché relativi a periodi di formazione per i quali le dichiarazioni risultano omesse, o nei quali l’attività economica esercitata dai contribuenti risulta essere cessata», ossia in esito a verifiche dalle quali emerga «l’inesistenza dei crediti stessi, non essendo, nella maggior parte dei casi, riscontrabili partendo dal controllo delle dichiarazioni fiscali».
Si tratta di ipotesi in cui il credito viene “creato” direttamente con il modello F24 pur in assenza di riscontro documentale od esposizione nella dichiarazione o, ancora, in forza di attività artificiose mediante la creazione di crediti fittizi, ancorché, in questo caso, riportati nelle dichiarazioni.
15.5. Le condotte rilevanti, dunque, sono quelle caratterizzate da profili abusivi, occulti o fraudolenti, che, in quanto tali, sono rilevabili solamente attraverso riscontri di coerenza contabile del modello di versamento e non meramente cartolari poiché non emergenti dalle dichiarazioni presentate (o da esse falsamente emergenti) o dal mero raffronto con i relativi modelli di versamento.
In altri termini, il più severo regime giuridico previsto dall’art. 27, commi 16-20, ha riguardato – contrariamente a quanto sostenuto dal Procuratore generale – solo la compensazione di crediti connotati da una condizione di inesistenza qualificata dalla non verificabilità in sede di controllo formale.
15.6. Questa conclusione è coerente con la ratio dell’intervento legislativo del 2008, volto a perseguire, a fronte di una condotta particolarmente insidiosa, riscontrabile solo in sede di verifica e non con meri riscontri formali (in ipotesi, anzi, forieri di esiti errati), il
duplice convergente scopo di fornire all’Amministrazione finanziaria un maggior tempo per gli accertamenti (perché di maggiore complessità) e, al contempo, di differenziare il trattamento sanzionatorio (tributario) rispetto a condotte di particolare offensività.
16. La novella di cui al d.lgs. n. 158 del 2015 con riguardo ai crediti inesistenti – pur in concreto volta a definire la fattispecie sanzionatoria – non ha dunque innovato ma, più congruamente, si è limitata a fornire chiarezza, anche formale, al dato normativo rispetto ai contenuti già esistenti con riguardo all’azione di accertamento dell’Ufficio, precisando i requisiti per l’applicazione del regime più rigoroso, in quanto debbono ricorrere, cumulativamente, le seguenti condizioni:
a) il credito deve essere inesistente, ossia di esso deve mancare (in tutto o in parte) il «presupposto costitutivo»;
b) tale mancanza («l’inesistenza») non è riscontrabile in sede di controllo ex artt. 36 bis e 36 ter d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 bis d.P.R. n. 633 del 1972 (come tali inclusivi anche degli elementi rilevabili in sede di anagrafe tributaria).
In altri termini, non si profila una “soluzione di continuità” tra la vecchia e la nuova disciplina, con la conseguenza che la seconda può essere utilmente impiegata come elemento di valutazione ermeneutica della prima (v. in tal senso Sez. U, n. 12476 del 24/06/2020; Sez. U, n. 8504 del 25/03/2021), sicché va affermato che anche anteriormente all’intervento operato con il d.lgs. n. 158 del 2015, solamente a fronte della ricorrenza di entrambe le suddette condizioni il credito doveva essere considerato inesistente e poteva trovare applicazione, per l’accertamento della condotta di indebita compensazione di crediti inesistenti, il più lungo termine di otto anni di cui all’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 e la sanzione prevista dal successivo comma 18.
17. La scelta operata dal legislatore – in continuità tra i due interventi normativi – si è, dunque, tradotta nella individuazione di un ulteriore elemento strutturale esterno alle singole previsioni d’imposta ai fini della definizione della nozione di credito inesistente e in funzione della determinazione del regime giuridico applicabile in caso di indebita compensazione.
Accanto alle carenze sul piano strettamente fenomenico e a quelle sui presupposti costitutivi del singolo credito d’imposta, rileva, come elemento costitutivo strutturale autonomo e di portata generale, un elemento “procedurale” o “percettivo” di carattere obbiettivo, la cui mancanza degrada la fattispecie.
Non si tratta, invero, di un elemento che si aggiunge, in funzione delimitativa, alla definizione di credito inesistente ma partecipa alla costituzione della stessa nozione di credito inesistente.
L’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 – che ha solo confermato e precisato quanto già desumibile dall’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 – è chiaro sul punto dove precisa che il credito è inesistente quando manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo «e» tale inesistenza non sia riscontrabile con controlli cd. automatizzati.
L’uso della congiunzione «e» rivela la necessaria contitolarità dei due requisiti – quello strutturale interno correlato ai singoli crediti e quello strutturale esterno di portata generale – per la costruzione della nozione e l’applicazione del regime più severo, che resta circoscritto alle fattispecie di maggiore gravità e offensività.
Il corollario è che, in assenza di uno dei due requisiti, il credito, ai fini qui in rilievo, non può qualificarsi come inesistente: non importa che il credito sia carente di elementi costitutivi o sia “non reale” se tale inesistenza è agevolmente rilevabile, restando la vicenda, in tale ipotesi, soggetta al regime giuridico ordinario e meno afflittivo.
In altri termini, il credito, pur inesistente in fatto, non è valutabile come tale e, dunque, esclusa la possibilità di un tertium genus tra esistente e inesistente, deve essere ricondotto, sul piano formale, ai crediti “esistenti”, sicché la sua indebita compensazione rileva come quella di credito “non spettante”, sempre escluso dal più lungo termine di accertamento, nonché, sul piano afflittivo, oggi sanzionato ai sensi del comma 4 del d.lgs. n. 471 del 1997 e, in precedenza, ai sensi del comma 1 del medesimo decreto legislativo.
18. Tale conclusione trova ulteriori riscontri dall’esame della disciplina sanzionatoria tributaria e penale.
18.1. In primo luogo, gli interventi operati sull’art. 13, commi 4 e 5, d.lgs. n. 471 del 1997 e sull’art. 10 quater, d.lgs. n. 74 del 2000, sopra riportati, inducono ad alcune considerazioni:
a) il legislatore ha fornito, in positivo e con specificazioni autonome, sia la definizione di crediti inesistenti sia quella di crediti non spettanti;
b) lo sforzo definitorio del legislatore si è concentrato sulla sola disciplina tributaria e non anche su quella penale, dove, pur essendo state distinte, anche in termini di gravità del trattamento sanzionatorio, le fattispecie di compensazione per crediti non spettanti e crediti inesistenti, non ne ha autonomamente definito le rispettive nozioni.
Ciò non significa che le nozioni di “credito inesistente” e di “credito non spettante” siano diversificate tra i due settori; anzi, proprio la contestualità delle modifiche operate con il d.lgs. n. 158 del 2015, conduce a ritenere, già in prima battuta, di valenza unitaria le nozioni introdotte con l’art. 13, commi 4 e 5.
18.2. In secondo luogo, un’interpretazione dei commi 4 e 5 dell’art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997 ancorata ad una prospettiva solo strutturale interna della nozione di inesistenza porterebbe all’emersione di tre distinte fattispecie.
Ed infatti, ove si ritenga – nell’ambito dell’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 – che la previsione «la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter … e 54-bis» rilevi quale condizione (necessaria ma) solo aggiuntiva, in sé estranea ed ulteriore alla definizione di credito inesistente, e, al contempo, con riguardo al comma 4, che la previsione «utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti» sia riferita ad una parallela nozione di credito esistente (ossia, disancorata dal requisito della riscontrabilità), ai fini sanzionatori-tributari risulterebbero configurabili le seguenti ipotesi:
a) la compensazione di crediti inesistenti e la cui inesistenza non è riscontrabile in sede di controllo automatizzato;
b) la compensazione di crediti inesistenti la cui inesistenza è, invece, riscontrabile in sede di controllo automatizzato;
c) la compensazione di crediti esistenti ma non spettanti per la violazione di soglie di utilizzabilità o delle procedure e/o le formalità previste per il loro utilizzo.
18.3. Solo per la prima e la terza ipotesi risulterebbe chiara la relativa collocazione – ponendosi nella successione delle norme solo un profilo, eventuale, di favor rei sulla misura della sanzione per la prima ipotesi rispetto al nuovo più favorevole regime – in quanto ricondotte, rispettivamente, alla previsione del comma 5 e del comma 4 dell’art. 13 cit.
Invece, per la seconda fattispecie mancherebbe una specifica nuova disciplina, sicché la condotta dovrebbe ritenersi ancora soggetta – come già in passato – al disposto di cui all’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997, pur con il medesimo trattamento sanzionatorio ora stabilito dall’art. 13, comma 4, cit. per la compensazione di crediti non spettanti.
Si tratta, in evidenza, di esito scarsamente razionale in quanto idoneo a determinare una inutile e ingiustificata frammentazione.
19. In terzo luogo, la prospettiva appare ancor meno giustificabile ove si consideri la parallela disciplina penale.
19.1. Va premesso che le conclusioni sopra raggiunte in ordine alla distinzione tra credito inesistente e di credito non spettante trovano sostanziale riscontro negli orientamenti della giurisprudenza penale di questa Corte sull’art. 10 quater d.lgs. n. 74/2000.
La Terza Sezione penale della Corte, infatti, in plurime occasioni ha precisato che «la nozione di credito non spettante implica un credito tributario che, pur certo nella sua esistenza e nel suo ammontare, sia, per una qualche ragione normativa, ancora non utilizzabile o non più utilizzabile in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti tra il contribuente e l’Erario» mentre è inesistente «il credito del quale non sussistono gli elementi costituitivi e giustificativi» (v. Cass., Terza Sez. Pen. n. 3367 del 26/06/2014; Cass. Terza Sez. Pen. n. 41229 del 25/09/2018).
19.2. Nell’ambito penale, peraltro, ove debbano essere ritenute autonome le nozioni in esame, la condotta di compensazione di crediti inesistenti di cui all’art. 10 quater, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000 sarebbe, apparentemente, più ampia rispetto a quella delineata dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 poiché non delimitata con riferimento alle procedure di controllo formale della dichiarazione.
In tale ottica, la fattispecie considerata sub b) (compensazione di crediti inesistenti la cui inesistenza è rilevabile in sede di controllo automatizzato) in sede sanzionatoria amministrativa sarebbe soggetta allo stesso trattamento stabilito per i crediti non spettanti (art. 13, comma 4 e/o comma 1), mentre in sede penale resterebbe sottoposta al più severo regime dei crediti inesistenti (art. 10 quater, comma 2, d.lgs. 74 del 2000), con una chiara criticità di sistema.
L’esito, tuttavia, non è meno irragionevole ove si voglia, ai fini della rilevanza penale della condotta di compensazione di crediti inesistenti, estendere la condizione delimitativa prevista dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 (non rilevabilità in sede di controllo automatizzato) posto che, in tale evenienza, parrebbe difficoltoso ricondurre la condotta sub b) sia al comma 1 (crediti non spettanti), sia al comma 2 (crediti inesistenti).
19.3. Va sottolineato, sul punto, che la diversa prospettiva unitaria e sistematica è stata recentemente fatta propria anche dalla Terza Sezioni penale di questa Corte, che, con la sentenza n. 7615 del 3 marzo 2022, ha affermato che la definizione di credito inesistente deve essere tratta, anche ai fini penali, dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997, come novellato nel 2015, sicché devono ricorrere entrambi i requisiti ivi previsti per considerare il credito inesistente ossia «a) deve mancare il presupposto costitutivo (ossia, quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili, finanziari o patrimoniali del contribuente); b) l’inesistenza non deve essere riscontrabile attraverso controlli automatizzati o formali o dai dati in anagrafe tributaria … se manca uno di tali requisiti, il credito deve ritenersi non spettante».
20. In conclusione, appare evidente che la definizione di crediti inesistenti e crediti non spettanti debba intendersi senza soluzione di continuità – rientrando nella nozione della prima quali elementi costitutivi entrambi i requisiti ora esplicitamente previsti dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 e già inclusi nell’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 ed assumendo rilevanza residuale quella di cui all’art. 13, comma 4 – e unitaria tra ambito penale e tributario.
Si tratta di esito che, oltre a discendere dal dato letterale delle norme, risponde a criteri di coerenza e di razionalità di sistema e alle finalità, obbiettive, perseguite dal legislatore.
20.1. Per completezza, va sottolineato che non sussiste alcuna distonia rispetto alla lettera dell’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997: la norma si riferisce a crediti “esistenti”, sicché è idonea ad includere anche le ipotesi di crediti che, ancorché carenti dei presupposti costitutivi, siano, tuttavia, suscettibili di riscontro in sede di controllo automatizzato, e, quindi, per definizione normativa “non inesistenti”.
Ed è parimenti indubbio che, in questa situazione, il credito sarebbe del tutto non spettante.
21. Da ultimo, la necessità che l’inesistenza del credito non sia riscontrabile mediante controlli formali impone alcune ulteriori considerazioni.
21.1. In primo luogo, è appena il caso di precisare che la condizione del mancato riscontro formale ha valore oggettivo: non assume rilievo che, materialmente, l’inesistenza del credito sia stata rilevata a seguito di accertamento sostanziale ma solo che, in sede di controllo formale, non era possibile riscontrarne la mancanza, ancorché, in concreto, tale verifica non sia stata operata.
21.2. In secondo luogo, al di là dell’ipotesi in cui la condotta sia palesemente connotata da fraudolenza, come tale mirata a fornire solo una fittizia rappresentazione dei presupposti di fatto e normativi del credito e/o dell’eccedenza, tra gli elementi strutturali idonei ad assumere natura costitutiva del credito, su esaminati al punto 9., assume una particolare rilevanza l’esistenza di un obbligo di facere o di non facere.
L’adempimento di un obbligo di tal genere, infatti, se, da un lato, condiziona l’esistenza e/o il mantenimento dell’agevolazione (e del diritto di credito), dall’altro si traduce nel compimento di una attività da parte del contribuente che, più di altre, non necessariamente è suscettibile di rilevazione in sede di controllo formale.
Ad esempio, in tema di agevolazioni per gli investimenti nelle aree svantaggiate, il mantenimento del beneficio è condizionato dalla materiale adibizione «del bene oggetto dell’investimento alla funzione produttiva sua propria entro due anni da quando lo stesso si è reso disponibile all’impresa», situazione la cui verificabilità si sottrae, di norma, ad un riscontro meramente formale.
In tale ipotesi, peraltro, la condotta rilevante potrà riguardare l’uso in compensazione del credito successivo all’inutile scadenza del biennio e non anche l’utilizzo del credito per il periodo anteriore, quando, sia pure condizionato, era esistente.
Va escluso, del resto, che l’ipotesi determini un allargamento dei presupposti di rilevanza per l’applicazione del più rigoroso regime giuridico: il credito non solo è inesistente al momento del suo utilizzo in compensazione ma tale inesistenza, quando gli adempimenti richiesti si traducano in attività non meramente formali, non è neppure rilevabile in sede di controllo automatizzato, restando la condotta del contribuente – che ha posto in compensazione il credito nonostante l’inosservanza degli obblighi, di facere o non facere, su di lui ricadenti – indubbiamente valutabile come abusiva e fraudolenta.
22. Va, pertanto, formulato il seguente principio di diritto:
«in tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, all’azione di accertamento dell’erario si applica il più lungo termine di otto anni, di cui all’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008, quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza – alla luce anche dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 – allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972; ove sussista il primo requisito ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l’attività di accertamento»
23. Alla luce dei principi esposti, dunque, il secondo motivo va rigettato.
23.1. Il credito d’imposta oggetto del presente giudizio è regolato dall’art. 8, comma 2, lett. a), legge 7 marzo 2001, n. 62, che si riporta nuovamente e che dispone «Gli investimenti per i quali è previsto il credito di imposta di cui al comma 1 hanno ad oggetto: a) beni strumentali nuovi, ad esclusione degli immobili, destinati esclusivamente alla produzione dei seguenti prodotti editoriali in lingua italiana: giornali, riviste e periodici, libri e simili, nonché prodotti editoriali multimediali».
La norma impone, quale elemento costitutivo del credito, l’obbligo (di non facere) di non impiegare i beni acquistati per la stampa (le presse) in lingue diverse dall’italiano, in vista dell’obbiettivo di incrementare l’attività editoriale nella lingua nazionale, ratio, tra l’altro, ritenuta meritevole dalla stessa Commissione Europea, ragion per cui, con decisione del 30 giugno 2004, era stata archiviata la procedura di infrazione a suo tempo avviata nei confronti dell’Italia.
La locuzione «destinati esclusivamente», pertanto, non può essere intesa nel senso di ritenere sufficiente il mero proposito soggettivo ma si riferisce all’impiego effettivo dei beni, la cui persistenza va necessariamente ancorata alla durata del periodo per cui è concesso il beneficio, ossia, come specificato dal comma 1 della norma, per il «periodo d’imposta in cui l’investimento è effettuato ed in ciascuno dei quattro periodi di imposta successivi».
23.2. Orbene, nella specie, è incontestato che l’impiego dei macchinari per la stampa di prodotti editoriali non in lingua italiana era avvenuto quantomeno nel 2004, sicché l’obbligo incombente sulla contribuente, come accertato dalla CTR, non era stato adempiuto.
Il credito d’imposta, pertanto, era estinto per la decadenza dall’agevolazione e, quindi, nel 2006 (e nel 2007) al momento del suo utilizzo in compensazione era inesistente.
La natura dell’obbligo in capo al contribuente presuppone, inoltre, il compimento di attività materiali, il cui accertamento è possibile solo in sede di verifica – nella specie effettuata nel 2007 -, sicché l’inesistenza del credito non era neppure rilevabile mediante le procedure automatizzate.
23.3. Di nessun pregio, poi, è il richiamo al disposto di cui all’art. 1, comma 4, d.P.C.M. n. 143 del 2002, che evoca la nozione di credito non spettante, sia per la natura meramente regolamentare dell’atto, sia per la formulazione del tutto generica della suddetta norma (che si limita a rinviare alle norme in materia di accertamento), sia per la diretta sottoposizione della vicenda al disposto di cui all’art. 27, comma 16, d.l. n. 185/2008 in forza del successivo comma 17, per il quale rileva la data di presentazione del modello di pagamento in cui sono indicati i crediti in compensazione in anni «con riferimento ai quali alla data di entrata in vigore della presente legge sono ancora pendenti i termini di cui al primo comma dell’articolo 43».
Resta assorbita, infine, la deduzione in ordine all’inapplicabilità del raddoppio dei termini per la successiva entrata in vigore dell’art. 10 quater d.lgs. n. 74/2000.
24. Il terzo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR omesso di pronunciare in ordine all’eccezione concernente la competenza esclusiva del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) in tema di ispezioni e controlli.
24.1. Il quarto motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 8, comma 4, della l. n. 62 del 2001, dell’art. 2, comma 3, del d.P.C.M. n. 143 del 2002 e degli artt. 14, 23 e 97 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la CTR erroneamente ritenuto legittimo un atto di recupero in relazione al quale l’attività di istruttoria non è stata effettuata dal MISE.
25. I due motivi, involgendo l’esame della medesima questione sotto due diversi punti di vista, vanno unitariamente esaminati.
25.1. Non sussiste, in primo luogo, la dedotta omessa pronuncia: la sentenza impugnata, nella parte in fatto, ha chiaramente fatto riferimento alla contestazione formulata da parte ricorrente e concernente la legittimazione del MISE, per cui deve ritenersi che abbia preso in considerazione il rilievo della società contribuente, rigettandolo implicitamente e decidendo la controversia nel merito.
25.2. La questione è infondata anche nel merito.
25.3. Ai sensi dell’art. 8, comma 4, della l. n. 62 del 2001 «Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, (…), sono determinate le modalità di attuazione del credito di imposta, e sono stabilite le procedure di monitoraggio e di controllo rivolte a verificare l’attendibilità e la trasparenza dei programmi degli investimenti di cui al comma 2, nonché specifiche cause di revoca totale o parziale dei benefici e di applicazione delle sanzioni».
L’art. 2 del d.P.C.M. n. 143 del 2002, inoltre, prevede un’attiva collaborazione tra il MISE e l’Agenzia delle entrate, con continui scambi di informazioni, essendo consentita al Ministero l’esecuzione delle verifiche relative alla spettanza del credito d’imposta, ove necessario, anche a mezzo di ispezioni e controlli, fermo restando che spetta all’Agenzia delle entrate procedere al recupero del credito.
25.4. Le disposizioni su menzionate non prevedono affatto, come sostiene la ricorrente, una competenza esclusiva del MISE nell’esecuzione delle ispezioni e dei controlli, ma, unicamente, delle verifiche in ordine alla spettanza del credito d’imposta, sicché rientra nei poteri dell’Agenzia delle entrate quello di eseguire la necessaria attività istruttoria, di sottoporre il risultato di tale attività alla valutazione del MISE e di procedere, in fine, all’emissione dell’avviso di accertamento ai fini del recupero (v. Cass. n. 5243 del 20/02/2023; v. anche, per un diverso profilo, Sez. U, n. 9841 del 05/05/2011).
Ne deriva che, come anche si evince dallo stesso ricorso, l’attività che ha condotto all’emissione dell’avviso di accertamento è pienamente legittima.
26. Il quinto motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 8, commi 1 e 2, della l. n. 62 del 2001 e degli artt. 1, comma 2, e 3, comma 1, del d.P.C.M. n. 143 del 2002, per avere la CTR erroneamente ritenuto la legittimità dell’atto di recupero del credito d’imposta sebbene non ne sussistessero i presupposti.
In sostanza, la società sostiene che: a) il credito d’imposta è concesso con riferimento al periodo d’imposta in cui l’investimento è effettuato e, in quel periodo, i macchinari acquistati sono stati destinati in conformità al finanziamento (produzione di prodotti editoriali in lingua italiana), senza che rilevino eventuali successive variazioni di utilizzo; b) i motivi di revoca sono tassativamente individuati all’art. 3 del d.P.C.M. e tra questi non rientra un uso parzialmente diverso dei beni acquistati; c) in ogni caso, la revoca è disposta in proporzione all’agevolazione concessa e non spettante, non già per intero.
26.1. Il motivo, che in parte ripercorre, sotto diverso versante, le medesime questioni poste con il secondo, è infondato.
26.2. L’art. 8, commi 1 e 2, della l. n. 62 del 2001 consente l’effettuazione di investimenti agevolati, con il riconoscimento di un credito d’imposta per il primo anno d’imposta e per i quattro anni d’imposta successivi, per l’acquisto di beni destinati alla produzione di prodotti editoriali in lingua italiana.
Come già rilevato, il credito d’imposta è riconosciuto a condizione che i beni acquistati soddisfino la condizione della integrale destinazione alla produzione di prodotti editoriali in lingua italiana.
26.3. Nel caso di specie, è pacifico che tale condizione non sia stata rispettata, sì da determinare la decadenza dal beneficio della contribuente, sicché il credito d’imposta non può essere riconosciuto ed è stato legittimamente recuperato dall’Agenzia delle entrate.
26.4. Non è poi pertinente il rilievo in ordine alle ipotesi di revoca dell’agevolazione, dettate in casi particolari e secondo criteri di proporzionalità, poiché nella vicenda in giudizio non si pone un profilo di revoca, neppure mai contestata, ma di decadenza del beneficio per la violazione dell’obbligo imposto dalla norma agevolativa.
27. Il sesto motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per motivazione apparente, con conseguente violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., per non avere la CTR chiarito le ragioni per le quali il credito d’imposta avrebbe dovuto essere revocato.
27.1. Il motivo è infondato.
27.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Sez. U, n. 22232 del 03/11/2016; Cass. n. 13977 del 23/05/2019).
27.3. Nel caso di specie, il giudice di appello, sia pure in maniera concisa, ha chiarito che il diritto al credito d’imposta è venuto meno in ragione del mancato utilizzo dei macchinari esclusivamente per la produzione editoriale in lingua italiana.
27.4. La motivazione, che si riconnette alla ragione per la quale l’agevolazione è stata concessa, non è per nulla apparente ed è pienamente idonea a giustificare la legittimità della ripresa, tanto più a fronte delle considerazioni sopra espresse.
28. Il settimo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per omessa pronuncia sull’illegittimità delle sanzioni, con conseguente violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.
28.1. L’ottavo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 23 Cost., degli artt. 3, 5 e 6 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e degli artt. 6, comma 2, e 10, comma 1, della l. 27 luglio 2000, n. 212, per avere la CTR: a) erroneamente applicato una sanzione non prevista dalla legge, con illegittima estensione in via analogica di altra disposizione; b) omesso di valutare l’assenza di colpevolezza della società contribuente, indotta a ritenere la legittimità del proprio comportamento anche in ragione delle mancate contestazioni dell’Agenzia delle entrate.
29. I motivi, che possono essere esaminati unitariamente per connessione logica, vanno disattesi.
29.1. Va escluso in primo luogo che vi sia omessa pronuncia, dovendo ritenersi che la CTR si sia implicitamente pronunciata sulle questioni poste dalla società contribuente, seguendo le sanzioni alla conferma dell’atto di recupero impugnato.
29.2. Nel merito, come prima evidenziato (v., in particolare, par. 18.3), la condotta, già sanzionata dall’art. 27, comma 18, d.l. n. 185 del 2008, è ora oggetto di esplicita disciplina ai sensi dell’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997, da cui l’insussistenza della dedotta contestata applicazione di una sanzione non prevista dalla legge.
Va dato atto, del resto, che l’Ufficio ha contestato solo la violazione di cui all’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 – sul presupposto che ogni indebita compensazione implica un omesso versamento – irrogando, dunque, una sanzione meno grave di quella consentita, da cui l’irrilevanza, in parte qua, della stessa censura.
29.3. Con riguardo agli altri profili, infine, va ricordato che seppure non sia sufficiente, ai sensi dell’art. 5 d.lgs. n. 472 del 1997, che applica alla materia fiscale il principio sancito in generale dall’art. 3 l. n. 689 del 1981, «la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, a cui deve potersi rimproverare di aver tenuto un comportamento, se non necessariamente doloso, quantomeno negligente» «è comunque sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza» (Cass. n. 2139 del 30/01/2020).
Nella specie, la violazione consegue ad una condotta attiva del contribuente, in violazione di un obbligo di facere.
Né, infine, può applicarsi l’esimente invocata mancando ogni prova che l’errore della contribuente sia conseguente ad un comportamento dell’Agenzia che avrebbe fatto presumere la legittima utilizzazione del credito d’imposta.
30. Il ricorso va pertanto rigettato.
Ricorrono giusti motivi per compensare le spese del giudizio, in relazione alle ragioni che hanno indotto la Sezione Tributaria a rimettere a queste Sezioni Unite l’esame del ricorso.
Sussistono i presupposti per l’applicazione dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/02.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 12/09/2023.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 02 dicembre 2022, n. 35536, per SS.UU, 11 dicembre 2023, n. 34419, in tema di credito di imposta
SS.UU, 11 dicembre 2023, n. 34419, in tema di credito di imposta
Nota del Dott. Vito D’Alessio
Compensazione di crediti inesistenti o non spettanti e termine dell’azione di accertamento
1. Il principio di diritto
In tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, all’azione di accertamento dell’Erario si applica il più lungo termine di otto anni, di cui all’art. 27, c. 16, del D.L. 185/2008, quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza - alla luce anche dell’art. 13, c. 5, terzo periodo, del D.lgs. 471/1997, come modificato dal D.lgs. 158/2015 - allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti:
a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo;
b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. 600/1973 e all’art. 54-bis del D.P.R. 633/1972; ove sussista il primo requisito, ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l’attività di accertamento.
2. Il contrasto risolto
L’ordinanza interlocutoria ha rilevato un contrasto interpretativo in seno alla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione in merito alla rilevanza giuridica della distinzione tra credito d’imposta inesistente e credito non spettante, anche ai fini dell’individuazione del termine di decadenza per l’esercizio della potestà accertativa da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Secondo il primo orientamento, risalente e maggioritario, non vi sarebbe alcuna differenza tra credito inesistente e credito non spettante, poiché “l’art. 27, c. 16, del D.L. 185/2008, conv. in L. 2/2009, non intende elevare l’inesistenza del credito a categoria distinta dalla non spettanza, ma intende solo garantire un margine di tempo adeguato per le verifiche talora complesse riguardanti l’investimento generatore del credito d’imposta, margine di tempo perciò indistintamente fissato in otto anni, senza che possa trovare applicazione il termine più breve stabilito dall’art. 43, del D.P.R. 600/1973 per il comune avviso di accertamento” (cfr., Cass. Civ., 21 aprile 2017, n. 10112).
La seconda linea di pensiero, riconducibile alle sentenze gemelle del 16 novembre 2021, nn. 34443, 34444 e 34445, ha invece disconosciuto la precedente ricostruzione, alla luce delle riforme succedutesi negli anni, concludendo nel senso che l’art. 13, c. 5, terzo periodo, del D.lgs. 471/1997, come introdotto dall’art. 15, del D.lgs. 158/2015, ha voluto dare dignità alla distinzione delle due categorie, riservando la fattispecie dell’inesistenza ai crediti fenomenicamente non rilevabili, in quanto fraudolenti o mancanti di elementi costitutivi.
3. Riflessioni conclusive
La Suprema Corte compie una lunga disamina sull’effettiva esistenza della distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti, sui rispettivi caratteri e tratti costitutivi, nonché sulle divergenze in punto di disciplina applicabile.
Tale dicotomia è stata adottata dal legislatore ai fini del contrasto all’utilizzo indebito o fraudolento dell’istituto della compensazione dei crediti tributari: l’art. 35, del D.L. 223/2006, introducendo l’art. 10-quater del D.lgs. 74/2000, ha previsto l’illiceità penale della condotta di colui che “non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’art. 17 del D.lgs. 241/1997, crediti non spettanti o inesistenti”.
La successiva evoluzione normativa, in particolar modo l’art. 27, commi 16-17, del D.L. 185/2008 e l’art. 13, c. 5, terzo periodo, del D.lgs. 471/1997, come modificato dal D.lgs. 158/2015, ha fornito ulteriori disposizioni di dettaglio in merito alla disciplina tributaria, precisando che il credito è inesistente quando ne difetta, totalmente o parzialmente, il presupposto costitutivo, e ciò non sia riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. 600/1973 e del D.P.R. 633/1972.
Si tratta, in sostanza, di profili abusivi, occulti o fraudolenti, rilevabili solo mediante controlli di natura contabile effettuati attraverso riscontri di coerenza del modello di versamento, e non meramente cartolari, poiché non (o falsamente) emergenti dalle dichiarazioni presentate.
Si è inteso così costruire la fattispecie dell’inesistenza su due requisiti: il primo, interno, relativo alla mancanza del presupposto costitutivo, e il secondo, esterno, connesso alla non rilevabilità dell’inesistenza con controlli c.d. automatizzati.
Per la Cassazione è coerente la previsione dell’art. 27, c. 16, del D.L. 185/2008, che applica il termine lungo di otto anni per l’esercizio dell’azione di accertamento da parte dell’Erario esclusivamente a tali fattispecie, al fine di consentire all’Amministrazione un maggior tempo per gli accertamenti, in tali casi di maggiore complessità.
Ne consegue che, in mancanza di uno dei due elementi strutturali sopra descritti, il credito è da qualificarsi come esistente e, ai nostri fini, va sussunto sotto la fattispecie del credito non spettante, per cui vanno applicati gli ordinari termini quadriennali, meno afflittivi per il contribuente.