Civile Sent. Sez. U Num. 34452 Anno 2023
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: FUOCHI TINARELLI GIUSEPPE
Data pubblicazione: 11/12/2023
Oggetto: Crediti d’imposta–
“crediti inesistenti” e
“crediti non spettanti” –
Distinzione – Accertamento
tributario – Sanzioni
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 28071/2019 R.G. proposto da:
FRAONE SRL, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa, per procura speciale in atti e giusta nomina del G.I.P. presso il Tribunale di Catanzaro del 26.10.2021 nel proc. pen. n.r.g. 7355 del 2015, dall’Avv. Alessandro Palasciano (PLSLSN61H10C352M), nonché dall’Avv. Daria Dell’Aquila (DLLDRA77L57M208P), giusta atto di nomina di nuovo difensore, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, via Tommaso Da Celano e domicilio digitale alla PEC:
_____________________________________;
e da
FRAONE DOMENICO, in proprio, rappresentato e difeso dall’avvocato Iannello Francesco (NNLFNC68L24F537K) e dall’Avv. Daria Dell’Aquila (DLLDRA77L57M208P), elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultima in Roma, via Tommaso da Celano, n. 110 Piano 5 sc. A, (DLLDRA77L57M208P);
-ricorrenti-
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato (ADS80224030587), presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
-controricorrente e ricorrente incidentale-
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Calabria n. 2562/2/2019 depositata il 10 aprile 2019.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 12/09/2023, fissata ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis, l. n. 176 del 2020, dal Consigliere Giuseppe Fuochi Tinarelli.
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Alessandro Pepe, che, nel riportarsi alle conclusioni scritte, chiede l’accoglimento del terzo e quarto motivo del ricorso principale per quanto di ragione, rigettati gli altri, e l’accoglimento del ricorso incidentale.
Udito l’Avv. Daria Dell’Aquila per la società Fraone Srl e per il contribuente Fraone Domenico, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale e il rigetto di quello incidentale.
Udito l’Avv. dello Stato Marinella Di Cave per l’Agenzia delle entrate, che ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento di quello incidentale.
FATTI DI CAUSA
1. La Fraone Srl e il suo legale rappresentante, Fraone Domenico, anche in proprio, impugnavano l’atto di recupero, con cui l’Agenzia delle entrate recuperava i crediti di imposta indebitamente compensati dalla società nelle annualità 2014, 2015, 2016 e 2017, per una somma complessiva di € 266.877,79, oltre interessi e sanzioni.
2. Tale atto traeva origine dal processo verbale con cui i verificatori, ricostruiti i crediti d’imposta spettanti in relazione agli investimenti per aree svantaggiate ai sensi della legge n. 296 del 2006, effettuati nelle annualità 2007, 2008 e 2009, e per il cui utilizzo il Centro Operativo (C.O.) di Pescara aveva concesso nulla osta dal 2014, avevano accertato che detti crediti, dopo esser stati indebitamente compensati nel 2010 (e, in parte, nel 2014), erano stati nuovamente riutilizzati, in compensazione, tra il 2014 e il 2017. Veniva accertato altresì un minor credito di imposta per € 6.395,69 per l’anno 2009, rispetto a quanto indicato nel modello FAS.
3. L’avviso, infine, contestava l’indebita compensazione di crediti, per il complessivo importo di € 18.353,17, asseritamente sorti nel 2010 e 2011, anni nei quali, tuttavia, non erano stati effettuati investimenti.
4. Il ricorso era rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Vibo Valentia con sentenza n. 1050/2/2018.
5. Sull’impugnazione dei contribuenti, la Commissione tributaria regionale di Reggio Calabria, con la sentenza in epigrafe, riformava la decisione di primo grado limitatamente al contestato minor credito d’imposta per l’anno 2009 e confermava nel resto.
6. La CTR, in particolare, riteneva provata la riutilizzazione in compensazione dei crediti, evidenziando che nella fattispecie «si versava nell’ipotesi di compensazione di crediti inesistenti previsti dal quinto comma dell’art.13 (sanzione dal 100 al 200%) e non di crediti non spettanti, previsti dal quarto comma, e che, malgrado fosse vero che originariamente sussistevano i presupposti per l’esistenza del credito per euro 235.980,31, tuttavia il contribuente aveva utilizzato totalmente il credito maturato per l’anno 2007 e per l’anno 2008 entro l’anno 2010, nonostante la fruizione fosse stata autorizzata a decorrere dal 2014. Pertanto, al momento della seconda fruizione avvenuta negli anni dal 2014 in poi, non sussisteva alcun credito d’imposta per quel periodo».
6.1. Rilevava, inoltre, che l’annullamento dell’atto di recupero dei crediti indebitamente compensati, eseguito in autotutela dall’Ufficio, «non faceva resuscitare il credito indebitamente compensato» e che il contribuente «non poteva prima compensare un credito di imposta non ancora fruibile e quando l’Ufficio gli contesta la seconda fruizione, eccepire che doveva essere contestata la prima e che, nella fattispecie, si era in presenza di crediti inesistenti, perché già utilizzati, sia pure indebitamente».
7. Avverso detta decisione Fraone Srl e Fraone Domenico hanno proposto ricorso per cassazione con sei motivi; l’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale con due motivi.
8. Il ricorso, già fissato per la trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis-1 cod. proc. civ., in prossimità della quale la società, a mezzo di nuovo procuratore, nominato dal G.I.P. del Tribunale di Catanzaro nel proc. pen. r.g.n. 7355/2015, ha depositato memoria, è stato poi rimesso per la trattazione in pubblica udienza.
9. In prossimità di quest’ultima, il Procuratore Generale ha depositato le sue conclusioni, chiedendo l’accoglimento del quarto motivo di ricorso con riguardo alla misura della sanzione, rigettati gli altri. La società e Fraone Domenico hanno depositato autonome memorie
10. Con ordinanza n. 3784/2023, depositata in data 8 febbraio 2023, la Sezione Tributaria ha rimesso la causa al Primo Presidente per valutare l’opportunità dell’assegnazione della stessa alle Sezioni Unite civili, ravvisando un contrasto interpretativo interno alla Sezione Tributaria sulla distinzione tra crediti d’imposta inesistenti e crediti d’imposta non spettanti, nella specie rilevante ai fini della misura delle sanzioni applicabili ai sensi dell’art. 13 d.lgs. 18 dicembre 1997 n. 471, come modificato dall’art. 15 d.lgs. n. 158 del 24 settembre 2015, ma evidenziando altresì – attesa la già avvenuta rimessione di altro ricorso sulla medesima questione ma con riguardo alla parallela problematica dell’individuazione del termine per l’esercizio della potestà accertativa da parte dell’Amministrazione finanziaria – l’esigenza di un più ampio intervento chiarificatore sulla nozione stessa di credito inesistente e sulla sua differenziazione rispetto al credito non spettante.
11. Il Primo Presidente ha quindi disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
12. In prossimità dell’udienza la Procura Generale, in persona del sostituto procuratore generale Alessandro Pepe, ha depositato memoria sulla questione di rilievo nomofilattico. Pure l’Agenzia delle entrate ha depositato memoria illustrativa. I contribuenti hanno depositato memoria di nomina di nuovo difensore.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Va pregiudizialmente rilevato che, come si evince dagli atti di causa, Fraone Domenico, legale rappresentante di Fraone Srl, ha impugnato in proprio l’avviso di accertamento notificato alla società dallo stesso rappresentata (e a lui inviato solo in qualità di legale rappresentante) e riguardante esclusivamente la medesima. Si pone, pertanto, un problema di legittimazione del ricorrente ad impugnare l’avviso di accertamento notificato alla Fraone Srl.
1.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, «la legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione della parte, mentre l’effettiva titolarità del rapporto controverso, attenendo al merito, rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio dei soggetti in lite. Ne consegue che il difetto di legitimatio ad causam, riguardando la regolarità del contraddittorio, costituisce un error in procedendo ed è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo» (Cass. n. 7776 del 27/03/2017; Cass. n. 4252 del 10/02/2023), ovviamente laddove risultante dagli atti di causa (Sez. U, n. 2951 del 16/02/2016).
1.2. Va pertanto rilevato, d’ufficio, il difetto di legittimazione attiva del ricorrente, non essendosi formato alcun giudicato implicito sulla questione, in alcun modo affrontata dalle corti di merito.
2. Passando all’esame del ricorso proposto dalla società Fraone Srl va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Agenzia delle entrate ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1, cod. proc. civ. la cui manifesta infondatezza è chiaramente desumibile dal contrasto qui in discussione.
2.1. Sempre in via preliminare, va dato atto che la società non ha proposto ricorso avverso il capo della decisione d’appello relativo alle compensazioni operate nel 2014 per operazioni di investimento degli anni 2010 e 2011, risultate non effettuate (pag. 18, punto 3 del ricorso) per cui, in parte qua, la sentenza è definitiva.
3. Con il primo motivo di ricorso la società denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. per aver la CTR ritenuto provate le presunte compensazioni, eseguite nel 2010, ritenendo che le risultanze dell’anagrafe tributaria fossero assimilabili al controllo automatizzato di cui all’art. 36 bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e che lo stesso contribuente avesse ammesso tale utilizzazione, senza specificare in quali atti processuali fossero contenute tali ammissioni.
3.1. Il secondo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione degli artt. 36 e 61 d.lgs. n. 546 del 1992, 132, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., 111, sesto comma, e 24 Cost. per motivazione mancante e/o apparente, non avendo il giudice di appello specificato i documenti dai quali avrebbe tratto il proprio convincimento in ordine all’utilizzazione dei crediti nell’anno 2010.
4. I motivi, suscettibili di esame unitario per ragioni di connessione logica, sono infondati e al limite dell’inammissibilità.
4.1. Non sussiste, in primo luogo, la denunciata violazione dell’art. 2697 cod. civ. posto che la «violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.» (Cass. n. 26769 del 23/10/2018; Cass. n. 17313 del 19/08/2020; Cass. n. 18092 del 31/08/2020).
Nella specie, la CTR non si è fermata alle risultanze dell’anagrafe tributaria – che già di per sé legittimano in caso di incongruità con i dati formali delle dichiarazioni l’iscrizione a ruolo della maggior imposta ex art. 36 bis d.P.R. n. 600/1973 (v. Cass. n. 24747 del 05/11/2020) – ma ha valutato le plurime e concordanti risultanze processuali affermando che «se pur l’Ufficio richiama la sua banca informatica, in realtà la situazione è rilevata dalla documentazione cartacea e, fino ad una certa data, dal PVC; comunque, lo stesso contribuente ammette, negli atti del processo, di avere utilizzato crediti d’imposta già utilizzati in precedenza e propone altre questioni».
Va escluso, dunque, che si ponga un profilo di violazione dei criteri di riparto dell’onere della prova, risolvendosi la prima censura in una mera contestazione sulla motivazione, peraltro carente per specificità, neppure avendo parte ricorrente indicato gli atti che osterebbero alla riconosciuta ammissione delle pregresse compensazioni.
4.2. Neppure sussiste la denunciata apparenza motivazionale.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Sez. U, n. 22232 del 03/11/2016; Cass. n. 13977 del 23/05/2019).
Nella specie, il giudice, sia pure in termini concisi, ha chiarito che i crediti d’imposta maturati per gli investimenti dal 2007 al 2009 erano stati tutti utilizzati nel 2010 e nel 2014 e, poi, nuovamente riutilizzati negli anni successivi, ciò risultando dai rilievi contenuti nel PVC, dalle risultanze anagrafiche, dalle stesse ammissioni della parte e si pone al di sopra del cd. minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione (per tutte v. Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014).
4.3. Entrambe le doglianze, dunque, mirano in realtà a contestare la sufficienza della motivazione, come tale non più consentita, e, anzi, la stessa valutazione delle risultanze probatorie operata dal giudice di merito, non ammissibile neppure nella vigenza dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. nel testo anteriore alla riforma operata con l’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83.
5. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 2, comma 2, lett. a), d.l. n. 97 del 2008, convertito dalla legge n. 129 del 2008, e dell’art. 13, commi 4 e 5, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dall’art. 15 del d.lgs. n. 158 del 24.09.2015, nonché dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 472 del 18.12.1997 e dell’art. 1 della legge n. 689 del 1981.
La società censura la sentenza impugnata per avere, in presenza di compensazioni, alcune eseguite nel 2010 in violazione delle modalità di utilizzo stabilite nel nulla osta, e altre eseguite, nel rispetto di tali modalità, negli anni 2014 e seguenti, ritenuto legittimo l’operato dell’Amministrazione finanziaria che aveva recuperate le seconde, ossia quelle eseguite nel pieno rispetto della norma.
Chiede, inoltre, che venga superato l’orientamento di questa Corte in ordine alla distinzione tra crediti inesistenti e non spettanti di cui alla sentenza n. 19237 del 02/08/2017.
5.1. Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ. la violazione o falsa applicazione degli artt. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997, 3, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 e 1, legge n. 689 del 1981.
La società, premesso di avere pagato degli avvisi, poi annullati in autotutela, mediante compensazioni effettuate negli anni 2015 e 2016 e che tale annullamento comportava la non debenza, fin dall’origine, delle somme pretese e pagate mediante tali compensazioni, censura la sentenza impugnata per avere ritenuto egualmente sussistente l’illecito amministrativo di cui al citato art. 13, comma 5, il quale prevede l’applicazione della sanzione qualora vi sia utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento di somme dovute e non, come nel caso in esame, di somme che la stessa CTR aveva riconosciuto non essere dovute.
6. I due motivi che precedono sollevano la questione posta a queste Sezioni Unite con l’ordinanza interlocutoria n. 3784/2023 con riguardo alla nozione di crediti d’imposta inesistenti, oggetto di considerazione dall’art. 27, commi da 16 a 20, d.l. 29 novembre 2008 n. 185, conv. con mod. dalla l. 28 gennaio 2009 n. 2, e, poi, a seguito della modifica operata con il d.lgs. n. 158 del 2015, dall’art. 13, comma 5, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, e se essa debba o meno essere distinta da quella di crediti d’imposta non spettanti, attualmente oggetto di considerazione dall’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471/1997.
La questione, in particolare, refluisce sul regime sanzionatorio applicabile posto che l’indebita compensazione di crediti non spettanti è soggetta alla sanzione del 30% dei crediti stessi a fronte della sanzione dal 100% al 200% (e del 200% per l’art. 17, comma 18, d.l. n. 185/2008) prevista in caso di crediti inesistenti.
6.1. L’ordinanza di rimessione, nel delineare lo specifico oggetto della questione, rileva l’esistenza di un persistente contrasto interno alla Sezione Tributaria.
6.2. In particolare, secondo un primo più risalente e maggioritario orientamento tra le nozioni di “credito inesistente” e “credito non spettante” non vi sarebbe alcuna differenza.
6.3. Si è affermato, specificamente, che «l’art. 27, comma 16, d.l. 185/2008, conv. l. 2/2009, non intende elevare l’inesistenza” del credito a categoria distinta dalla “non spettanza” (distinzione a ben vedere priva di fondamento logico giuridico), ma intende solo garantire un margine di tempo adeguato per le verifiche talora complesse riguardanti l’investimento generatore del credito d’imposta, margine di tempo perciò indistintamente fissato in otto anni, senza che possa trovare applicazione il termine più breve stabilito dall’art. 43 d.P.R. 600/1973 per il comune avviso di accertamento» «dunque, ogniqualvolta il credito derivante dall’operato investimento non sussiste, per ciò solo deve ritenersi inesistente nel senso precisato dalla norma» (Cass. n. 10112 del 21/04/2017 e Cass. n. 19237 del 02/08/2017; seguite poi da Cass. 24093 del 30/10/2020; Cass. n. 354 del 13/01/2021; Cass. n. 31859 del 05/11/2021).
6.4. In dissenso a questa interpretazione si sono poste le sentenze “gemelle” n. 34443, 34444 e 34445 del 16/11/2021.
6.5. Le sentenze n. 34444 e n. 34445 del 2021, che maggiormente si sono diffuse sulla questione, dopo aver rilevato che la nozione di credito inesistente è stata positivamente dettata con «il “nuovo” art. 13, comma 5, terzo periodo, del d.lgs. n. 471/1997, come introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015», concludono nel senso di ritenere che il precedente orientamento «vada necessariamente superat[o] anche per effetto della citata novella, non tanto e non già perché quest’ultima sia direttamente applicabile alla fattispecie, ratíone temporis, bensì perché nella stessa definizione positiva di “credito inesistente” può rinvenirsi la conferma della dignità della distinzione delle due categorie in discorso, già sulla base dell’originario impianto normativo concernente la riscossione dei crediti d’imposta indebitamente utilizzati».
6.6. In tal senso si è evidenziato che:
– l’art. 27, comma 16, d.l. n. 185/2008, concerne «la sola “riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241”;
– la «novella del 2015 si innesta nella riscrittura della norma già contenuta nel contestualmente abrogato art. 27, comma 18, d.l. cit. … e mira quindi a specificare il contenuto del precetto originario, così ancorando la nozione di “credito inesistente” ad una dimensione “non reale” o “non vera”, ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza».
6.7. Il primo orientamento è stato ripreso, successivamente ai suddetti arresti, con l’ordinanza Cass. n. 25436 del 29/08/2022, mentre va dato atto che il nuovo approccio ermeneutico è stato da ultimo condiviso da Cass. n. 5243 del 20/02/2023.
7. Ritiene questa Corte che debba darsi prevalenza all’orientamento emerso da ultimo.
7.1. La problematica di fondo si incentra su un duplice ordine di profili: in primo luogo, se le due nozioni (credito inesistente e credito non spettante) abbiano, effettivamente, un oggetto differente e, in tal caso, quali siano i caratteri distintivi; in secondo luogo, se, con riguardo alla condotta di indebito utilizzo in compensazione di un “credito inesistente” ovvero “non spettante”, sia ravvisabile, e da quando, un regime giuridico differente e quali siano i presupposti che ne condizionano l’applicabilità.
8. Quanto alla prima questione, va premesso che l’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dall’art. 15, d.lgs. 24/09/2015 n. 158, ha fornito, per la prima volta, una esplicita definizione positiva di credito inesistente stabilendo che «Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633».
Accanto a tale definizione, il legislatore, al comma 4 dell’art. 13 cit., parimenti modificato dalla novella del 2015, ha fornito una autonoma definizione della nozione di credito non spettante, individuato con la locuzione «utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quella spettante o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti».
8.1. Occorre osservare che tali indicazioni postulano comunque una ricognizione di quali siano i presupposti, di fatto e normativi, per ritenere esistente un credito d’imposta; esse, inoltre, sono applicabili, in sé, alle fattispecie successive al 1° gennaio 2016 (art. 32, comma 1, d.lgs. n. 158 del 2015), rilievo quest’ultimo che, se ai fini sanzionatori trova un adeguato temperamento nell’applicazione dei principi in tema di successione di norme, condiziona l’applicabilità del maggior termine per l’esercizio della potestà accertativa da parte degli Uffici finanziari ex art. 27, comma 16, d.l. n. 185/2008.
Si tratta quindi di verificare se, e in quale misura, le definizioni introdotte dal legislatore nel 2015 corrispondano a nozioni già esistenti e ricavabili da principi generali dell’ordinamento tributario e quale sia il rapporto con la disciplina introdotta nel 2008.
8.2. Appare opportuno partire dal dato, intuitivo e di comune conoscenza anche secondo il linguaggio comune, che la nozione di “inesistenza” evoca, sul piano fenomenico, la non appartenenza alla realtà: lo specifico evento o circostanza – che determina l’insorgere del credito – non esiste o non si è mai realizzato.
A tali situazioni è assimilabile l’ipotesi in cui il credito (la pretesa), pur regolarmente sorto, sia venuto meno per “consumazione” perché già utilizzato dal soggetto interessato.
Queste connotazioni, infine, possono assumere rilievo assoluto, nel senso che l’inesistenza riguarda la totalità dei consociati, oppure carattere relativo in quanto condizioni riferite a specifici soggetti; in questo caso il credito o la pretesa non “esistono” per il soggetto che li invoca, senza che interferisca con questa conclusione la circostanza che essi esistano per altri soggetti o per un diverso rapporto.
8.3. Sul piano giuridico tributario, la nozione è indubbiamente più sottile poiché postula, accanto ad una declinatoria fenomenica, anche la ricognizione positiva, con riguardo alle singole previsioni d’imposta, di quei requisiti – condizioni, termini e forme – normativamente imposti come elementi costitutivi dei singoli crediti d’imposta.
In particolare, il credito va considerato inesistente non solo quando le attività e i presupposti fondanti non sono mai venuti in essere ma anche quando siano assenti le ulteriori condizioni essenziali – formali o sostanziali – previste dal legislatore.
8.4. Se sussiste l’esigenza di identificare quali siano gli elementi la cui mancanza impedisce il perfezionarsi della fattispecie agevolativa, è tuttavia evidente che non tutti gli elementi (e gli adempimenti) che partecipano alla realizzazione della fattispecie assumono un necessario rilievo costitutivo, potendo influire su aspetti meramente formali ovvero incidere solo sull’efficacia della pretesa.
In tali ipotesi, il credito esiste ma non è utilizzabile in tutto o in parte, sicché il credito non può validamente od efficacemente esser posto in compensazione.
9. Le due categorie, dunque, appaiono strutturalmente distinte e, sul piano logico, alternative: il credito è inesistente oppure esiste ma è non spettante.
9.1. In via generale, ai fini della determinazione dell’inesistenza del credito, si possono distinguere le seguenti ipotesi:
a) la fattispecie che fonda l’agevolazione o il credito d’imposta non è mai venuta ad esistenza ma, semplicemente, è stato solo realizzato un simulacro dei presupposti su cui si fonda la pretesa;
b) la fattispecie è carente di un elemento costitutivo; in tal caso la verifica richiede l’esegesi puntuale delle norme che istituiscono l’agevolazione, tenuto conto dei principi regolatori della specifica imposta.
9.2. L’ipotesi sub a) è quella più radicale – ma anche di più semplice analisi – per la normale connotazione fraudolenta della condotta, mirata a fornire solo un’ingannevole rappresentazione dei presupposti di fatto e normativi.
In questo caso, l’attività svolta è fittizia perché le attività richieste non sono mai state effettuate: ad esempio, con riguardo al credito d’imposta per le spese sostenute per l’attività di ricerca e sviluppo di cui all’art. 1, commi 280 e ss, l. n. 296 del 2006, se gli studi non sono mai avvenuti.
Analogamente, il credito Iva posto in compensazione è inesistente quando è generato da operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti.
9.3. Assimilabili all’evenienza sub a), poi, è l’ipotesi in cui il credito d’imposta, pur regolarmente sorto, competa, in realtà, ad un soggetto diverso, nonché quella in cui il credito si sia estinto per esser già stato utilizzato, circostanza che ne preclude – definitivamente – un nuovo impiego.
In quest’ultimo caso, non è rilevante che il credito sia stato in origine utilizzato indebitamente (ad esempio, in compensazione oltre le soglie annue consentite) poiché assume rilievo il dato oggettivo della sua “consumazione” e, quindi, la fuoriuscita dalla sfera di disponibilità del contribuente.
Tuttavia, va sottolineato che l’eventuale contestazione dell’Ufficio sull’originaria indebita compensazione determina una situazione di incertezza del credito, che, oltre a condizionarne l’utilizzabilità, impone una specifica concreta valutazione sulla sua effettiva esistenza.
9.4. Con riguardo all’ipotesi sub b), appare necessario in un’ottica sistematica, per la varietà di tipologie di crediti d’imposta, procedere ad un’indagine più analitica al fine di individuare – pur a fronte delle difficoltà derivanti da una normazione di settore spesso variegata e multiforme – i parametri strutturali, di carattere generale, per ritenere esistente un credito di imposta, ossia quali siano gli elementi idonei ad assumere natura costitutiva e quali, invece, abbiano carattere accessorio o riguardino la sola efficacia della pretesa.
In particolare:
1) L’istanza del contribuente.
Il beneficio può essere riconosciuto ex lege per il solo fatto del ricorrere delle condizioni materiali; di frequente, tuttavia, è richiesta una istanza del contribuente, ossia la presentazione di un’apposita dichiarazione, autonoma o confluente nella dichiarazione annuale.
È il caso, ad esempio, del credito d’imposta per l’attività di ricerca ex art. 14 d.m. n. 593 del 2000 che va indicato, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta nel corso del quale il beneficio è concesso: v. Cass. n. 389 del 13/01/2016; analogamente per il credito d’imposta per la riqualificazione della rete distributiva ex art. 11 l. n. 449 del 1997: v. Cass. n. 610 del 12/01/2018; disposizione analoga è prevista in tema di agevolazioni per l’acquisto della prima casa ex art. 1, nota II bis, della Tariffa, Parte Prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986.
La domanda (i.e. la dichiarazione) rileva, in queste ipotesi, quale elemento costitutivo del credito d’imposta poiché le agevolazioni sono, per loro natura, generalmente condizionate ad una dichiarazione di volontà dell’avente diritto di avvalersene e, peraltro, l’Amministrazione finanziaria deve poter verificare la sussistenza dei presupposti del beneficio come evocato nella richiesta e in forza della quale esso viene provvisoriamente riconosciuto (v. Cass. n. 6501 del 16/03/2018).
Non di rado, il carattere cogente è identificabile dalla previsione, esplicita o implicita, di un termine decadenziale per la formulazione della richiesta, la cui mancata osservanza è idonea a determinare la perdita del diritto.
Non è in contrasto con tale rilievo – e, anzi, ne fornisce ulteriore riscontro – la circostanza che, in talune ipotesi (in ispecie, nel caso in cui il beneficio discenda direttamente da riconoscimento normativo), l’istanza del contribuente assuma rilievo solo quale sollecitazione all’applicabilità di un regime legale (v. Cass. n. 3412 del 21/02/2005). E, del resto, la generale importanza della richiesta del contribuente per la fruizione delle agevolazioni si ricava anche dall’art. 19, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 546 del 1992 che ha esplicitamente previsto, tra gli atti impugnabili, il “diniego di agevolazioni”, che «la quale, in ambedue le ipotesi dianzi prefigurate (elemento della fattispecie costitutiva del diritto relativo, ovvero mera sollecitazione a riconoscerlo) rappresenta la forma propria d’esercizio del diritto fatto valere» (v. Cass. n. 1004 del 24/01/2001).
2) La previsione di obblighi di facere e/o di non facere.
Accanto all’individuazione di elementi, di fatto o normativi, in atto al momento genetico della pretesa, a delineare il riconoscimento dell’agevolazione e/o del credito d’imposta è frequentemente prevista la realizzazione di un facere (e/o di un non facere) – talvolta connotato da attività formali, talvolta da adempimenti sostanziali – da parte del destinatario della posizione soggettiva.
Si tratta, invero, di una modalità operativa che riflette (e rende concreto) l’interesse che l’agevolazione mira a perseguire.
Ad esempio, in tema di benefici fiscali cd. “prima casa” l’acquirente è tenuto, ai sensi dall’art. 1, nota II bis, comma 1, lett. a), della Tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, a trasferire – al di là dell’ipotesi riconnessa all’attività lavorativa esercitata – la propria residenza (destinata ad assurgere ad abitazione della parte) entro i diciotto mesi dall’acquisto nel comune ove è ubicato l’immobile (v. Cass. n. 28860 del 01/12/2017; Cass. n. 667 del 12/01/2023).
In altre fattispecie, l’attività richiesta è più complessa: l’art. 33, comma 3, l. n. 388 del 2000 – agevolazione prevista per il trasferimento di terreni edificabili – postula un facere da parte dell’acquirente, che, in attuazione degli strumenti urbanistici, entro i cinque anni successivi deve procedere all’edificazione (v. Cass. n. 14891 del 20/07/2016).
Analoga complessa regolamentazione si rinviene nella disciplina sul credito per gli investimenti nelle aree svantaggiate ex art. 8 l. n. 388 del 2000: se, da un lato, l’art. 62, comma 1, lett. f) e g), della l. n. 289 del 2002, stabilisce che la fruizione del beneficio è consentita entro il secondo anno successivo a quello di presentazione di autonoma istanza (sicché, in parte qua, vale quanto su precisato al punto 1)), dall’altro, l’art. 8, comma 7, l. n. 388 cit. impone di «materialmente adibire il bene oggetto dell’investimento alla funzione produttiva sua propria entro due anni da quando lo stesso si è reso disponibile all’impresa», in rispondenza alla ratio legis di tutelare i nuovi investimenti in quanto portati a compimento ed effettivamente immessi nel ciclo economico e produttivo delle aree svantaggiate (Cass. n. 8086 del 29/03/2017).
In tema di benefici fiscali per gli interventi di riqualificazione ed efficientamento energetico, l’art. 1, comma 349, l. n. 296 del 2006, impone un obbligo di facere poiché assegna rilevanza costitutiva alla preventiva comunicazione all’Enea dell’elenco delle spese; si tratta di adempimento in sé formale, che, tuttavia assolve allo scopo di impedire eventuali frodi e di consentire la verifica che i lavori, in quanto diretti a salvaguardare l’ambiente risparmiando energia, siano meritevoli dei vantaggi fiscali (v. Cass. n. 34151 del 21/11/2022).
Integra un non facere, invece, l’obbligo, in tema di agevolazioni cd. prima casa di cui all’art. 1, nota II bis, comma 4, della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, di non cedere l’immobile per un quinquennio dall’acquisto, la cui violazione (salvo che il soggetto non provveda ad un nuovo acquisto di altro immobile da adibire ad abitazione entro un anno) determina la decadenza del beneficio con l’estinzione del credito d’imposta.
Considerazioni analoghe valgono per l’agevolazione di cui all’art. 8, comma 2, lett. a), legge 7 marzo 2001, n. 62, secondo il quale «Gli investimenti per i quali è previsto il credito di imposta di cui al comma 1 hanno ad oggetto: a) beni strumentali nuovi, ad esclusione degli immobili, destinati esclusivamente alla produzione dei seguenti prodotti editoriali in lingua italiana: giornali, riviste e periodici, libri e simili, nonché prodotti editoriali multimediali», sicché, in tale ipotesi, è imposto l’obbligo di non impiegare i beni acquistati per la stampa in altre lingue.
3) L’indicazione di termini finali e di condizioni risolutive.
La previsione di termini finali per la fruizione del credito d’imposta e di condizioni risolutive può assumere rilievo autonomo ovvero può integrare la presentazione dell’istanza da parte del contribuente o la realizzazione delle condotte richieste.
Come sopra evidenziato, ad esempio, la mancata edificazione nel quinquennio dall’acquisto di terreni edificabili determina – e assume rilievo giuridico come condizione risolutiva – la perdita dell’agevolazione ex art. 33, comma 3, l. n. 388 del 2000, con estinzione del credito d’imposta e obbligo di restituzione di quella anteriormente fruita.
In altre ipotesi, invece, l’indicazione del termine è oggettivamente rilevante: è il caso del credito di imposta per il trasporto merci di cui al d.l. n. 265 del 2000, che deve essere esercitato, ai sensi dell’art. 4, comma 3, d.P.R. n. 277 del 2000, entro l’anno solare in cui è sorto, attraverso la compensazione prevista dall’art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997 (salva la possibilità, in caso di eccedenza, di chiedere il rimborso entro i sei mesi successivi a tale anno) (Cass. n. 6937 del 17/03/2017; Cass. n. 29130 del 13/11/2018).
10. Non è invece idonea ad incidere, ai fini della perfezione della fattispecie costitutiva, l’inosservanza di meri adempimenti procedurali o la previsione di soglie o limiti di valore.
Sotto il primo profilo, vengono in rilievo adempimenti di carattere strumentale o accessorio, suscettibili di connotare l’utilizzo del credito ed incidenti, in ipotesi, sull’attività di controllo dell’Ufficio, ma non anche, se carenti, di inficiarne l’esistenza.
In tal senso, si è ritenuto validamente utilizzato il credito di imposta, maturato per l’anno 2007, previsto per le attività di ricerca e sviluppo dall’art. 1, commi 280-283, l. n. 296 del 2006 in forza della diretta compensazione, anche solo parziale, con gli importi dovuti a titolo di imposte dirette, quand’anche lo scomputo della somma in compensazione non fosse stato per errore indicato nel modello F24 (modello il cui uso a pena di decadenza del beneficio era previsto solo per i crediti maturati successivamente al 2008) (v. Cass. n. 11614 del 04/05/2021).
L’esistenza di limiti e soglie di valore postula, invece, l’esistenza del credito nella sua integrità: questo, semplicemente, non è utilizzabile per l’intero, restando l’operazione, per la parte eccedente, priva di efficacia nei confronti dell’erario.
L’individuazione di soglie di fruibilità del credito assolve ad una funzione esterna al credito d’imposta in vista delle esigenze di equilibrio del bilancio dello Stato, esigenze che, tuttavia, non interferiscono con i presupposti di esistenza (v. anche, con riguardo ai crediti per le spese di ricerca e di sviluppo, l’art. 29, comma 1, del d.l. n. 185 del 2008, conv., con modif., in l. n. 2 del 2009, che ha introdotto un tetto massimo anche con riguardo ai crediti maturati prima della sua entrata in vigore: v. Cass. n. 5733 del 09/03/2018).
10.1. Correlativamente, va parimenti escluso che sia suscettibile di assumere rilievo quale elemento costitutivo l’eventuale previsione, nella struttura dell’agevolazione o del credito in eccedenza, di un termine di inizio, prima del quale il credito non sia utilizzabile, ovvero di una condizione sospensiva per la fruizione del credito.
In queste ipotesi, la fattispecie integrativa del credito d’imposta è già perfezionata nei suoi elementi costitutivi, restando carente solo una condizione di efficacia per la fruizione del credito.
Per precisione, va sottolineato che esulano da questo ambito le eventuali condizioni sospensive o i termini che siano apposti nell’ambito del rapporto giuridico sottostante al rapporto tributario, la cui possibile rilevanza deve essere sempre valutata in relazione alle specificità delle fattispecie agevolative.
Non a caso, ad esempio, l’art. 27 del TU n. 131/1986 sull’imposta di registro («non sono considerati sottoposti a condizione sospensiva le vendite con riserva di proprietà e gli atti sottoposti condizione che ne fanno dipendere gli effetti dalla mera volontà dell’acquirente o del creditore») esclude l’incidenza della cessione con riserva di proprietà, mentre, in caso di agevolazione cd. prima casa, si deve escludere che possa assumere rilievo l’apposizione, nel contratto di compravendita, di una clausola sospensiva «dell’efficacia del nuovo acquisto alla rivendita entro un dato termine di quello precedente già acquistato», posto che si porrebbe in contrasto con il requisito dell’impossidenza di altri immobili (v. Cass. n. 10513 del 21/04/2021).
10.2. Infine, merita una specifica considerazione, in tale ambito, l’ipotesi in cui il credito o l’eccedenza sia relativa all’Iva, imposta armonizzata, per la quale si deve tenere conto dei principi derivanti dalla disciplina unionale e affermati dalla Corte di giustizia.
Il principio di neutralità dell’imposizione, infatti, impone che, ancorché taluni obblighi formali siano stati omessi dai soggetti passivi, non possa, per ciò solo, determinarsi la perdita del diritto di detrazione – e quindi, per quanto qui rileva, neppure la qualificazione del credito come inesistente – ove sussistano i requisiti sostanziali, che consistono nelle circostanze che gli acquisti siano stati effettuati da un soggetto passivo, che quest’ultimo sia parimenti debitore dell’Iva attinente a tali acquisti e che i beni di cui trattasi siano utilizzati ai fini di proprie operazioni imponibili (v. Corte di giustizia, sentenza 11 dicembre 2014, in C-590/13, Idexx Laboratoires Italia, sentenza 17 luglio 2014, in C-272/13, Equoland; da ultimo, sentenza 18 marzo 2021, in C-895/19, Dyrektor Krajowej Informacji Skarbowej).
È il caso, dunque, della compensazione orizzontale dei crediti Iva: l’art. 34 l. n. 388 del 2000 prevede una soglia annua limite (più volte modificata nel tempo), al di là della quale non è consentita la compensazione del credito. In tale evenienza il (maggior) credito esiste ed è effettivo ma non è utilizzabile, nell’anno, in compensazione ex art. 17 d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241 (v. Cass. n. 31706 del 07/12/2018; Cass. n. 26926 del 22/10/2019).
Analoga conclusione vale con riguardo all’istanza prevista dall’art. 8, commi 2 e 3, d.P.R. n. 542 del 1999, come modificato dall’art. 11, comma 5, d.P.R. n. 435 del 2001, per poter accedere alla compensazione di un credito Iva infrannuale, la quale dunque non può mai essere elevata a condizione costitutiva del credito.
In materia di Iva la stessa decadenza dal diritto di detrazione (v. Sez. U, n. 17757 del 08/09/2016) non determina, in sé, l’inesistenza del credito, potendo il contribuente chiederne il rimborso.
11. In conclusione, la distinzione tra credito inesistente e credito non spettante ha, innanzitutto, carattere strutturale e trae il suo fondamento logico giuridico dal complessivo sistema ordinamentale tributario: l’una (“l’inesistenza”) ha un valore obbiettivo, mentre l’altra (la “non spettanza”) ha un carattere dinamico ancorato al presupposto, antitetico, dell’esistenza del credito.
12. Tale esito consente di procedere alla disamina della seconda questione rilevante nel giudizio, ossia se sia ravvisabile – e in quali termini – un regime giuridico differente tra l’indebito utilizzo in compensazione di un credito inesistente ovvero non spettante e in quale misura incida sulla stessa nozione di crediti inesistenti.
Non va trascurato, infatti, che, accanto ad una prospettiva strutturale rispetto alla tipologia dei crediti, assume rilievo anche un profilo funzionale correlato al regime normativo cui assoggettare le diverse ipotesi e condotte.
13. È opportuno premettere che il legislatore ha progressivamente ampliato lo strumento della compensazione dei crediti tributari: inizialmente introdotta per crediti e debiti della medesima imposta (cd. compensazione “verticale” ex art. 11, comma 3, d.P.R. n. 917/1986) è stata estesa a tributi diversi (compensazione “orizzontale” ex art. 17 d.lgs. n. 241/1997), ed ha trovato anche un riconoscimento, quale modalità generale di estinzione dell’obbligazione tributaria (peraltro, nei limiti dei casi e alle condizioni espressamente previste: v. Cass. n. 17001 del 09/07/2013; Cass. n. 10207 del 18/05/2016), nell’art. 8 l. n. 212 del 2000.
13.1. Parallelamente, il sempre più ampio utilizzo dell’istituto della compensazione – valorizzato dalla dottrina anche come rilevante strumento di compliance – ha posto l’esigenza, per il legislatore, di prevedere adeguate misure per consentire all’Amministrazione finanziaria di contrastare efficacemente l’utilizzo indebito o fraudolento della compensazione.
Sul piano procedimentale, con l’art. 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge di bilancio 2005), è stata introdotta la possibilità per l’Agenzia delle entrate di operare «la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241» attraverso un «apposito atto di recupero motivato», ossia con una modalità idealmente più agile e di più lata applicazione, che si aggiungeva all’ordinario avviso di accertamento e concorreva con quelle del recupero attraverso l’accertamento automatizzato ex artt. 36 bis e 36, ter d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 bis, d.P.R. n. 633 del 1972.
La disposizione, priva in sé di natura sanzionatoria, mirava solo a rendere più agevole l’intervento degli uffici rispetto alla generalità delle condotte di indebita compensazione, a prescindere dalla qualificazione del credito come inesistente o non spettante.
13.2. La giurisprudenza, a sua volta, si era orientata per ritenere che la condotta di indebita compensazione dei crediti – senza, però, distinguere tra le diverse ipotesi – fosse soggetta alla sanzione di cui all’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 poiché l’indebita compensazione comportava un minor versamento delle imposte dovute (pari a quelle illegittimamente compensate) e, quindi, si traduceva in una ipotesi di omesso versamento d’imposta (v., tra le molte, Cass. n. 8681 del 15/04/2011; Cass. n. 8247 del 04/04/2018).
14. A fronte di tale generale contesto, è con il d.l. 4 luglio 2006, n. 223, che, per la prima volta, emerge, sul piano positivo, l’esistenza di una dicotomia tra le due categorie concettuali.
Infatti, l’art. 35 del d.l. n. 223/2006 introduce l’art. 10 quater del d.lgs. n. 74 del 2000, che prevede l’illiceità penale della condotta di colui che «non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti o inesistenti».
In realtà, anche in questo caso la distinzione, pur positivamente affermata, non comportava diversità di disciplina poiché entrambe le condotte restavano soggette al medesimo regime sanzionatorio penale (ossia, alla pena da sei mesi a due anni).
14.1. È solamente con il d.l. n. 185 del 2008 che l’attenzione del legislatore si concentra, limitatamente all’ambito tributario, su una differenziazione di regime giuridico.
L’art. 27, commi da 16 a 18, nel testo ratione temporis vigente, testualmente ha previsto:
«16. Salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per il reato previsto dall’articolo 10-quater, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, l’atto di cui all’articolo 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo.
17. La disposizione di cui al comma 16 si applica a decorrere dalla data di presentazione del modello di pagamento unificato nel quale sono indicati crediti inesistenti utilizzati in compensazione in anni con riferimento ai quali alla data di entrata in vigore della presente legge siano ancora pendenti i termini di cui al primo comma dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e dell’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.
18. L’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è punito con la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi.»
14.2. La successiva evoluzione normativa conserva e rafforza la distinzione e la diversità di regime giuridico, cui si aggiunge anche una prospettiva convergente tra disciplina penale e tributaria.
Con l’art. 15 del d.lgs. n. 158 del 2015 – immodificati i commi 16 e 17 dell’art. 27 cit. – il comma 18 viene abrogato (con decorrenza dal 1° gennaio 2016 ex art. 32, comma 2, d.lgs. n. 158 del 2015) e, contestualmente, vengono introdotti i nuovi commi 4 e 5 dell’art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997.
Le nuove disposizioni, in particolare, hanno stabilito quanto segue:
«4. Nel caso di utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quella spettante o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti si applica, salva l’applicazione di disposizioni speciali, la sanzione pari al trenta per cento del credito utilizzato.
5. Nel caso di utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è applicata la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi. Per le sanzioni previste nel presente comma, in nessun caso si applica la definizione agevolata prevista dagli articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.»
Analogamente in ambito penale: l’art. 9 d.lgs. n. 158 del 2015 novella l’art. 10 quater d.lgs. n. 74/2000, che, nel nuovo testo (in vigore dal 22 ottobre 2015), ha previsto:
«1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro.
2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro.».
15. Dal complessivo quadro normativo su evidenziato emerge che, recepita positivamente la distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti (art. 10 quater), ai fini tributari sin dall’origine (art. 27, commi 16 e ss) l’intervento del legislatore è stato mirato a fornire una disciplina specifica in caso di compensazioni con crediti inesistenti.
15.1. Ciò emerge, innanzitutto, sul piano letterale.
Già il comma 16 dell’art. 27 d.l. n. 185/2008, in sé solo considerato, è esplicito nell’individuare l’oggetto della disciplina «nella riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione».
I successivi commi 17 e 18 dell’art. 27 cit. confermano l’univocità della scelta normativa poiché si riferiscono – solo ed esclusivamente – alla compensazione di «crediti inesistenti».
15.2. L’effettiva portata dell’originaria disciplina – e la delimitazione dell’area di specifica regolamentazione – emerge, peraltro, da una pluralità di argomenti.
15.3. In primo luogo, il rinvio operato dall’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 non solo all’art. 10 quater ma alla stessa procedura di riscossione ex art. 1, comma 421, l. n. 331/2004 – in sé rilevante per la generalità delle compensazioni indebite – è espressamente circoscritto alle sole compensazioni per crediti inesistenti.
15.4. In secondo luogo, tale delimitazione non concerne qualsiasi indebita compensazione per crediti inesistenti ma solo quelle emergenti dal «controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato», come esplicitamente prevede il comma 16, con espressione poi ripresa dal successivo comma 17.
Tale locuzione, come anche specifica la relazione illustrativa al provvedimento legislativo, si riferisce alle ipotesi in cui «dai riscontri sui dati contenuti nei modelli di pagamento unificato relativi alle compensazioni esposte» risultino «crediti d’imposta non esposti, come obbligatoriamente previsto, nelle dichiarazioni presentate, nonché relativi a periodi di formazione per i quali le dichiarazioni risultano omesse, o nei quali l’attività economica esercitata dai contribuenti risulta essere cessata», ossia in esito a verifiche dalle quali emerga «l’inesistenza dei crediti stessi, non essendo, nella maggior parte dei casi, riscontrabili partendo dal controllo delle dichiarazioni fiscali».
Si tratta di ipotesi in cui il credito viene “creato” direttamente con il modello F24 pur in assenza di riscontro documentale od esposizione nella dichiarazione o, ancora, in forza di attività artificiose mediante la creazione di crediti fittizi, ancorché, in questo caso, riportati nelle dichiarazioni.
15.5. Le condotte rilevanti, dunque, sono quelle caratterizzate da profili abusivi, occulti o fraudolenti, che, in quanto tali, sono rilevabili solamente attraverso riscontri di coerenza contabile del modello di versamento e non meramente cartolari poiché non emergenti dalle dichiarazioni presentate (o da esse falsamente emergenti) o dal mero raffronto con i relativi modelli di versamento.
In altri termini, il più severo regime giuridico previsto dall’art. 27, commi 16-20, ha riguardato – contrariamente a quanto sostenuto dal Procuratore generale – solo la compensazione di crediti connotati da una condizione di inesistenza qualificata dalla non verificabilità in sede di controllo formale.
15.6. Questa conclusione è coerente con la ratio dell’intervento legislativo del 2008, volto a perseguire, a fronte di una condotta particolarmente insidiosa, riscontrabile solo in sede di verifica e non con meri riscontri formali (in ipotesi, anzi, forieri di esiti errati), il duplice convergente scopo di fornire all’Amministrazione finanziaria un maggior tempo per gli accertamenti (perché di maggiore complessità) e, al contempo, di differenziare il trattamento sanzionatorio (tributario) rispetto a condotte di particolare offensività.
16. La novella di cui al d.lgs. n. 158 del 2015 con riguardo ai crediti inesistenti – pur in concreto volta a definire la fattispecie sanzionatoria – non ha dunque innovato ma, più congruamente, si è limitata a fornire chiarezza, anche formale, al dato normativo rispetto ai contenuti già esistenti con riguardo all’azione di accertamento dell’Ufficio, precisando i requisiti per l’applicazione del regime più rigoroso, in quanto debbono ricorrere, cumulativamente, le seguenti condizioni:
a) il credito deve essere inesistente, ossia di esso deve mancare (in tutto o in parte) il «presupposto costitutivo»;
b) tale mancanza («l’inesistenza») non è riscontrabile in sede di controllo ex artt. 36 bis e 36 ter d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 bis d.P.R. n. 633 del 1972 (come tali inclusivi anche degli elementi rilevabili in sede di anagrafe tributaria).
In altri termini, non si profila una “soluzione di continuità” tra la vecchia e la nuova disciplina, con la conseguenza che la seconda può essere utilmente impiegata come elemento di valutazione ermeneutica della prima (v. in tal senso Sez. U, n. 12476 del 24/06/2020; Sez. U, n. 8504 del 25/03/2021), sicché va affermato che anche anteriormente all’intervento operato con il d.lgs. n. 158 del 2015, solamente a fronte della ricorrenza di entrambe le suddette condizioni il credito doveva essere considerato inesistente e poteva trovare applicazione, per l’accertamento della condotta di indebita compensazione di crediti inesistenti, il più lungo termine di otto anni di cui all’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 e la sanzione prevista dal successivo comma 18.
17. La scelta operata dal legislatore – in continuità tra i due interventi normativi – si è, dunque, tradotta nella individuazione di un ulteriore elemento strutturale esterno alle singole previsioni d’imposta ai fini della definizione della nozione di credito inesistente e in funzione della determinazione del regime giuridico applicabile in caso di indebita compensazione.
Accanto alle carenze sul piano strettamente fenomenico e a quelle sui presupposti costitutivi del singolo credito d’imposta, rileva, come elemento costitutivo strutturale autonomo e di portata generale, un elemento “procedurale” o “percettivo” di carattere obbiettivo, la cui mancanza degrada la fattispecie.
Non si tratta, invero, di un elemento che si aggiunge, in funzione delimitativa, alla definizione di credito inesistente ma partecipa alla costituzione della stessa nozione di credito inesistente.
L’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 – che ha solo confermato e precisato quanto già desumibile dall’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 – è chiaro sul punto dove precisa che il credito è inesistente quando manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo «e» tale inesistenza non sia riscontrabile con controlli cd. automatizzati.
L’uso della congiunzione «e» rivela la necessaria contitolarità dei due requisiti – quello strutturale interno correlato ai singoli crediti e quello strutturale esterno di portata generale – per la costruzione della nozione e l’applicazione del regime più severo, che resta circoscritto alle fattispecie di maggiore gravità e offensività.
Il corollario è che, in assenza di uno dei due requisiti, il credito, ai fini qui in rilievo, non può qualificarsi come inesistente: non importa che il credito sia carente di elementi costitutivi o sia “non reale” se tale inesistenza è agevolmente rilevabile, restando la vicenda, in tale ipotesi, soggetta al regime giuridico ordinario e meno afflittivo.
In altri termini, il credito, pur inesistente in fatto, non è valutabile come tale e, dunque, esclusa la possibilità di un tertium genus tra esistente e inesistente, deve essere ricondotto, sul piano formale, ai crediti “esistenti”, sicché la sua indebita compensazione rileva come quella di credito “non spettante”, sempre escluso dal più lungo termine di accertamento, nonché, sul piano afflittivo, oggi sanzionato ai sensi del comma 4 del d.lgs. n. 471 del 1997 e, in precedenza, ai sensi del comma 1 del medesimo decreto legislativo.
18. Tale conclusione trova ulteriori riscontri dall’esame della disciplina sanzionatoria tributaria e penale.
18.1. In primo luogo, gli interventi operati sull’art. 13, commi 4 e 5, d.lgs. n. 471 del 1997 e sull’art. 10 quater, d.lgs. n. 74 del 2000, sopra riportati, inducono ad alcune considerazioni:
a) il legislatore ha fornito, in positivo e con specificazioni autonome, sia la definizione di crediti inesistenti sia quella di crediti non spettanti;
b) lo sforzo definitorio del legislatore si è concentrato sulla sola disciplina tributaria e non anche su quella penale, dove, pur essendo state distinte, anche in termini di gravità del trattamento sanzionatorio, le fattispecie di compensazione per crediti non spettanti e crediti inesistenti, non ne ha autonomamente definito le rispettive nozioni.
Ciò non significa che le nozioni di “credito inesistente” e di “credito non spettante” siano diversificate tra i due settori; anzi, proprio la contestualità delle modifiche operate con il d.lgs. n. 158 del 2015, conduce a ritenere, già in prima battuta, di valenza unitaria le nozioni introdotte con l’art. 13, commi 4 e 5.
18.2. In secondo luogo, un’interpretazione dei commi 4 e 5 dell’art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997 ancorata ad una prospettiva solo strutturale interna della nozione di inesistenza porterebbe all’emersione di tre distinte fattispecie.
Ed infatti, ove si ritenga – nell’ambito dell’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 – che la previsione «la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter … e 54-bis») rilevi quale condizione (necessaria ma) solo aggiuntiva, in sé estranea ed ulteriore alla definizione di credito inesistente, e, al contempo, con riguardo al comma 4, che la previsione «utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti» sia riferita ad una parallela nozione di credito esistente (ossia, disancorata dal requisito della riscontrabilità), ai fini sanzionatori-tributari risulterebbero configurabili le seguenti ipotesi:
a) la compensazione di crediti inesistenti e la cui inesistenza non è riscontrabile in sede di controllo automatizzato;
b) la compensazione di crediti inesistenti la cui inesistenza è, invece, riscontrabile in sede di controllo automatizzato;
c) la compensazione di crediti esistenti ma non spettanti per la violazione di soglie di utilizzabilità o delle procedure e/o le formalità previste per il loro utilizzo.
18.3. Solo per la prima e la terza ipotesi risulterebbe chiara la relativa collocazione – ponendosi nella successione delle norme solo un profilo, eventuale, di favor rei sulla misura della sanzione per la prima ipotesi rispetto al nuovo più favorevole regime – in quanto ricondotte, rispettivamente, alla previsione del comma 5 e del comma 4 dell’art. 13 cit.
Invece, per la seconda fattispecie mancherebbe una specifica nuova disciplina, sicché la condotta dovrebbe ritenersi ancora soggetta – come già in passato – al disposto di cui all’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997, pur con il medesimo trattamento sanzionatorio ora stabilito dall’art. 13, comma 4, cit. per la compensazione di crediti non spettanti.
Si tratta, in evidenza, di esito scarsamente razionale in quanto idoneo a determinare una inutile e ingiustificata frammentazione.
19. In terzo luogo, la prospettiva appare ancor meno giustificabile ove si consideri la parallela disciplina penale.
19.1. Va premesso che le conclusioni sopra raggiunte in ordine alla distinzione tra credito inesistente e di credito non spettante trovano sostanziale riscontro negli orientamenti della giurisprudenza penale di questa Corte sull’art. 10 quater d.lgs. n. 74/2000.
La Terza Sezione penale della Corte, infatti, in plurime occasioni ha precisato che «la nozione di credito non spettante implica un credito tributario che, pur certo nella sua esistenza e nel suo ammontare, sia, per una qualche ragione normativa, ancora non utilizzabile o non più utilizzabile in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti tra il contribuente e l’Erario» mentre è inesistente «il credito del quale non sussistono gli elementi costituitivi e giustificativi» (v. Cass., Terza Sez. Pen. n. 3367 del 26/06/2014; Cass. Terza Sez. Pen. n. 41229 del 25/09/2018).
19.2. Nell’ambito penale, peraltro, ove debbano essere ritenute autonome le nozioni in esame, la condotta di compensazione di crediti inesistenti di cui all’art. 10 quater, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000 sarebbe, apparentemente, più ampia rispetto a quella delineata dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 poiché non delimitata con riferimento alle procedure di controllo formale della dichiarazione.
In tale ottica, la fattispecie considerata sub b) (compensazione di crediti inesistenti la cui inesistenza è rilevabile in sede di controllo automatizzato) in sede sanzionatoria amministrativa sarebbe soggetta allo stesso trattamento stabilito per i crediti non spettanti (art. 13, comma 4 o comma 1), mentre in sede penale resterebbe sottoposta al più severo regime dei crediti inesistenti (art. 10 quater, comma 2, d.lgs. 74 del 2000), con una chiara criticità di sistema.
L’esito, tuttavia, non è meno irragionevole ove si voglia, ai fini della rilevanza penale della condotta di compensazione di crediti inesistenti, estendere la condizione delimitativa prevista dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 (non rilevabilità in sede di controllo automatizzato) posto che, in tale evenienza, parrebbe difficoltoso ricondurre la condotta sub b) sia al comma 1 (crediti non spettanti), sia al comma 2 (crediti inesistenti).
19.3. Va sottolineato, sul punto, che la diversa prospettiva unitaria e sistematica è stata recentemente fatta propria anche dalla Terza Sezioni penale di questa Corte, che, con la sentenza n. 7615 del 3 marzo 2022, ha affermato che la definizione di credito inesistente deve essere tratta, anche ai fini penali, dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997, come novellato nel 2015, sicché devono ricorrere entrambi i requisiti ivi previsti per considerare il credito inesistente ossia «a) deve mancare il presupposto costitutivo (ossia, quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili, finanziari o patrimoniali del contribuente); b) l’inesistenza non deve essere riscontrabile attraverso controlli automatizzati o formali o dai dati in anagrafe tributaria … se manca uno di tali requisiti, il credito deve ritenersi non spettante».
20. In conclusione, appare evidente che la definizione di crediti inesistenti e crediti non spettanti debba intendersi senza soluzione di continuità – rientrando nella nozione della prima quali elementi costitutivi entrambi i requisiti ora esplicitamente previsti dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 e già inclusi nell’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 ed assumendo rilevanza residuale quella di cui all’art. 13, comma 4 – e unitaria tra ambito penale e tributario.
Si tratta di esito che, oltre a discendere dal dato letterale delle norme, risponde a criteri di coerenza e di razionalità di sistema e alle finalità, obbiettive, perseguite dal legislatore.
20.1. Per completezza, va sottolineato che non sussiste alcuna distonia rispetto alla lettera dell’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997: la norma si riferisce a crediti “esistenti”, sicché è idonea ad includere anche le ipotesi di crediti che, ancorché carenti dei presupposti costitutivi, siano, tuttavia, suscettibili di riscontro in sede di controllo automatizzato, e, quindi, per definizione normativa “non inesistenti”.
Ed è parimenti indubbio che, in questa situazione, il credito sarebbe del tutto non spettante.
21. Da ultimo, la necessità che l’inesistenza del credito non sia riscontrabile mediante controlli formali impone alcune ulteriori considerazioni.
21.1. In primo luogo, è appena il caso di precisare che la condizione del mancato riscontro formale ha valore oggettivo: non assume rilievo che, materialmente, l’inesistenza del credito sia stata rilevata a seguito di accertamento sostanziale ma solo che, in sede di controllo formale, non era possibile riscontrarne la mancanza, ancorché, in concreto, tale verifica non sia stata operata.
21.2. In secondo luogo, al di là dell’ipotesi in cui la condotta sia palesemente connotata da fraudolenza, come tale mirata a fornire solo una fittizia rappresentazione dei presupposti di fatto e normativi del credito e/o dell’eccedenza, tra gli elementi strutturali idonei ad assumere natura costitutiva del credito, su esaminati al punto 9., assume una particolare rilevanza l’esistenza di un obbligo di facere o di non facere.
L’adempimento di un obbligo di tal genere, infatti, se, da un lato, condiziona l’esistenza e/o il mantenimento dell’agevolazione (e del diritto di credito), dall’altro si traduce nel compimento di una attività da parte del contribuente che, più di altre, non necessariamente è suscettibile di rilevazione in sede di controllo formale.
Ad esempio, in tema di agevolazioni per gli investimenti nelle aree svantaggiate, il mantenimento del beneficio è condizionato dalla materiale adibizione «del bene oggetto dell’investimento alla funzione produttiva sua propria entro due anni da quando lo stesso si è reso disponibile all’impresa», situazione la cui verificabilità si sottrae, di norma, ad un riscontro meramente formale.
In tale ipotesi, peraltro, la condotta rilevante potrà riguardare l’uso in compensazione del credito successivo all’inutile scadenza del biennio e non anche l’utilizzo del credito per il periodo anteriore, quando, sia pure condizionato, era esistente.
Va escluso, del resto, che l’ipotesi determini un allargamento dei presupposti di rilevanza per l’applicazione del più rigoroso regime giuridico: il credito non solo è inesistente al momento del suo utilizzo in compensazione ma tale inesistenza, quando gli adempimenti richiesti si traducano in attività non meramente formali, non è neppure rilevabile in sede di controllo automatizzato, restando la condotta del contribuente – che ha posto in compensazione il credito nonostante l’inosservanza degli obblighi, di facere o non facere, su di lui ricadenti – indubbiamente valutabile come abusiva e fraudolenta.
22. Va, pertanto, formulato il seguente principio di diritto:
«in tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, è applicabile la sanzione di cui all’art. 27, comma 18, d.l. n. 185 del 2008, vigente ratione temporis, ovvero, se più favorevole, quella prevista dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza – alla luce anche dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 – allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972; ove sussista il primo requisito ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano le sanzioni previste dall’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 ovvero dall’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997 come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 qualora ratione temporis applicabile»
23. Alla luce dei principi esposti, dunque, il terzo e il quarto motivo sono fondati nei termini che seguono.
23.1. Come accertato dalla CTR, la società, dopo aver utilizzato i crediti d’imposta per gli anni 2007 e 2008 nel 2010, li ha nuovamente posti in compensazione negli anni 2014-2017, quando ormai erano già estinti per l’avvenuta consumazione del credito, sicché erano ormai inesistenti.
Analogamente, il credito d’imposta per l’anno 2009, utilizzato in compensazione nel 2014, è stato nuovamente impiegato nel 2016.
L’inesistenza dei crediti, tuttavia, era stata oggetto di rilevazione da parte dell’Ufficio attraverso le risultanze dell’anagrafe tributaria e, dunque, in sede di controllo meramente formale, rilevante ex art. 36 bis d.P.R. n. 600 del 1973.
Ne deriva che la compensazione indebita riguardava, alla luce dei principi sopra espressi, crediti non spettanti ed era sussumibile nell’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 fino al 2015 e, a decorrere dal 1° gennaio 2016, nell’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997 che ha introdotto la già indicata esplicita previsione sanzionatoria.
23.2. Già alla luce di questa conclusione, dunque, gli ulteriori rilievi contenuti nei motivi restano superati.
23.3. Si può ulteriormente precisare, peraltro, quanto ai crediti relativi agli anni 2007 e 2008, che, in ogni caso, la contestazione sul loro indebito utilizzo in compensazione nel 2010, non ha incidenza.
Come risulta dalla sentenza della CTR, e dalle stesse deduzioni delle parti, tale contenzioso si è risolto in termini favorevoli al contribuente per l’annullamento, nel 2013, dell’avviso stesso.
Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dalla società, tale esito ha solo consolidato (l’indebito) originario utilizzo in compensazione del credito, determinandone la sua definitiva consumazione e, dunque, la sua obbiettiva inesistenza in relazione ai successivi impieghi effettuati tra il 2014 e il 2017.
La stessa restituzione delle somme in parte qua, del resto, riguardava non il credito utilizzato in compensazione ma l’obbligazione tributaria pagata con la suddetta compensazione.
Né è condivisibile il rilievo per cui l’Agenzia avrebbe dovuto solo contestare l’indebito utilizzo del 2010 e non il secondo impiego effettuato negli anni successivi.
In realtà, la società ha realizzato una duplice condotta illecita: la prima, nel 2010, per l’indebita compensazione dei crediti fuori dalle condizioni di legge; la seconda, negli anni 2014-2017, per l’impiego del medesimo credito (estinto) per una seconda compensazione.
Entrambe le condotte, dunque, erano suscettibili di autonoma ripresa e sanzione e la circostanza che per la prima di esse l’azione dell’Ufficio sia rimasta caducata è ininfluente sulla legittimità della seconda.
23.4. Pure con riguardo alla compensazione operata nel 2014 per i crediti maturati nel 2009, poi reiterata nel 2016 con utilizzo dei medesimi crediti a pagamento della pretesa dell’Ufficio sulla ripresa per il pagamento effettuato nel 2014, l’annullamento in autotutela da parte dell’Ufficio di tale ultima pretesa (o, comunque, l’esito favorevole per la parte) ha solamente consolidato l’adempimento dell’originaria obbligazione tributaria e definitivamente estinto il credito.
Inoltre, la circostanza che la richiesta dell’erario, adempiuta nel 2016 con la reiterata compensazione del medesimo credito, fosse oggetto di contestazione non determinava che tale pretesa fosse “non dovuta” e, sicuramente, non rendeva “riutilizzabile” il credito; né il successivo venir meno della pretesa stessa poteva ritenersi idoneo, in quanto tale, a escluderne la doverosità al momento del pagamento.
È evidente che, in tale evenienza, il pagamento era dovuto, salva la possibilità – qualora l’obbligo fosse stato caducato dopo il pagamento – di chiedere il rimborso delle somme, effettive ed esistenti, versate.
24. Passando all’esame dei motivi residui, il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia, con violazione degli articoli 112, 342 e 161 cod. proc. civ., sull’eccezione relativa al ravvedimento operoso effettuato dalla società in data anteriore al pvc e all’atto di recupero per un importo di € 91.944,00.
24.1. Il motivo è inammissibile per plurime ragioni.
24.2. La doglianza, in primo luogo, è carente di specificità poiché neppure dà conto, in concreto, dell’esistenza dell’asserito versamento e degli atti che lo documenterebbero.
24.3. In secondo luogo, non evidenzia la rilevanza dell’omissione nella motivazione, la quale, in termini analitici, indica i crediti d’imposta indebitamente utilizzati per i vari anni, senza che mai sia indicato l’importo evocato nel motivo.
24.4. Infine, la questione risulta proposta nei termini dedotti per la prima volta solo in appello atteso che, dalla riproposizione dei motivi di primo grado (pagg. 6-8 del ricorso), emerge solo la generica deduzione dell’asserita compensazione della somma in oggetto con la correlata richiesta di sua imputazione ad una cartella esattoriale.
25. Il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., la nullità della sentenza per omessa pronuncia e per motivazione apparente, mancante e illogica laddove la CTR aveva escluso ogni contrasto tra pvc e atto di recupero e aveva affermato non esservi stata alcuna lesione al diritto di difesa.
25.1. Il motivo è infondato.
25.2. In primo luogo, non sussiste alcuna omessa pronuncia attesa l’esplicita e articolata motivazione resa dalla CTR.
25.2. Inoltre, la motivazione neppure può dirsi apparente o illogica avendo chiaramente precisato che «non vi è contrasto tra PVC e avviso di recupero in quanto mentre il primo accerta la sussistenza dei presupposti del credito d’imposta, l’avviso rileva e recupera il credito insussistente fruito» e che neppure vi era stata violazione del diritto di difesa e del contraddittorio endoprocedimentale poiché «il ricorrente aveva non solo la possibilità di porre note al PVC ma avrebbe potuto, entro 60 giorni dalla notifica, trasmettere osservazioni all’A.F. e … esporre le sue ragioni. Cosa che non ha fatto».
È dunque sufficiente richiamarsi ai principi già indicati al punto 4.2.
26. Passando al ricorso incidentale proposto dall’Agenzia delle entrate, il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 1, commi 271-279, della legge n. 296 del 2006 e dell’art. 2697 cod. civ. per aver la CTR ritenuto esistente il credito di imposta di € 6.936,80, per l’anno 2009, sulla base delle circostanze che il contribuente avesse dato prova dell’acquisto dei beni, oggetto di investimento ma non rivenuti in sede di verifica, e del loro ammortamento nel 2009, e che la verifica fosse avvenuta il 29 giugno 2017, ossia dopo il quinto periodo di imposta dall’investimento.
26.1. Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., omesso esame di fatto storico decisivo costituito dall’assenza di qualsiasi prova su un’eventuale dismissione dei beni sopra indicati.
27. Il primo motivo è inammissibile.
27.1. Va premesso che le norme in materia di agevolazioni fiscali hanno natura di norme speciali e sono di stretta interpretazione in quanto derogatorie, per la particolare meritevolezza delle ragioni dell’acquisto, al principio di uguaglianza e di capacità contributiva, sicché incombe sulla parte che le invoca la prova della ricorrenza di tutti i presupposti di legge (per la varietà delle fattispecie v., ex multis, Cass. n. 1691 del 29/01/2016; Cass. n. 20143 del 07/10/2016; Cass. n. 14997 del 16/06/2017; Cass. n. 23167 del 04/10/2017; Cass. n. 23228 del 04/10/2017; Cass. n. 27615 del 30/10/2018; Cass. n. 17334 del 19/08/2020; Cass. n. 11583 del 03/05/2023).
27.2. Ne deriva che, in relazione al disposto di cui all’art. 1, comma 277, l. n. 296 del 2006 (« […] Se entro il quinto periodo d’imposta successivo a quello nel quale sono entrati in funzione i beni sono dismessi, ceduti a terzi, destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ovvero destinati a strutture produttive diverse da quelle che hanno dato diritto all’agevolazione, il credito d’imposta è rideterminato escludendo dagli investimenti agevolati il costo dei beni anzidetti; […]») resta a carico del contribuente l’obbligo di conservare i beni e la loro destinazione per un intero quinquennio e, ove ne sia stata rilevata l’assenza scaduto il quinquennio, dimostrare che gli stessi sono rimasti nella sua disponibilità e nella funzionalità produttiva dell’impresa per l’intero periodo ovvero che l’evento dismissivo non si è realizzato o si è verificato in epoca successiva alla scadenza di legge.
27.3. Nella specie, la CTR ha ritenuto che la prova fosse stata fornita in giudizio sul duplice assunto che i beni, nel 2009, erano stati acquistati e iscritti tra i beni ammortizzabili e che la verifica fosse stata operata nel 2017, sicché non si pone una questione di violazione dei criteri di riparto dell’onere della prova.
27.4. Il motivo, pertanto, non coglie la ratio della decisione poiché attinge l’asserita violazione dell’art. 2697 cod. civ., mentre, in realtà, la CTR non ha violato i criteri di riparto probatorio ma ha operato una valutazione presuntiva in base agli elementi in giudizio; diversa questione è poi la corretta inferenza da parte del giudice d’appello e, dunque, l’osservanza dei principi in tema di ragionamento presuntivo; tale profilo, peraltro, non è stata oggetto di specifica censura.
28. Il secondo motivo è parimenti inammissibile.
La doglianza non concerne l’omesso esame di fatto decisivo, neppure indicato, ma si traduce in una contestazione sulla sufficienza della motivazione e sull’asserito mancato assolvimento dell’onere della prova da parte della società.
29. In conclusione, decidendo sul ricorso proposto da Fraone Domenico in proprio, la sentenza va, in parte qua, cassata senza rinvio per essere inammissibile l’originario ricorso proposto dal contribuente.
Per il resto, in accoglimento del terzo e quarto motivo del ricorso della società nei termini di cui in motivazione, infondati il primo, il secondo e il sesto, inammissibile il quinto e rigettato il ricorso incidentale, la sentenza va cassata con rinvio, anche per la liquidazione delle spese di legittimità, alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Calabria in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame, ai principi di diritto formulati.
Con riguardo alla posizione di Fraone Domenico, invece, l’avvenuto rilievo d’ufficio giustifica la compensazione integrale delle spese.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, decidendo sul ricorso proposto da Fraone Domenico in proprio, cassa senza rinvio, in parte qua, la sentenza impugnata per essere inammissibile l’originario ricorso proposto dal contribuente. Compensa integralmente, per ogni grado, le relative spese.
Accoglie, nei termini di cui in motivazione, il terzo e il quarto motivo del ricorso proposto dalla società Fraone Srl, infondati il primo, il secondo e il sesto motivo e inammissibile il quinto; rigetta il ricorso incidentale proposto dall’Agenzia delle entrate. In relazione ai motivi accolti, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese, alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Calabria in diversa composizione per l’ulteriore esame.
Così deciso in Roma, il 12/09/2023.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 08 febbraio 2023, n. 3784, per SS.UU, 11 dicembre 2023, n. 34452, in tema di credito di imposta
SS.UU, 11 dicembre 2023, n. 34452, in tema di credito di imposta
Nota del Dott. Vito D’Alessio
Compensazione di crediti inesistenti o non spettanti ai fini del trattamento sanzionatorio
1. Il principio di diritto
In tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, è applicabile la sanzione di cui all’art. 27, c. 18, del D.L. 185/2008, vigente ratione temporis, ovvero, se più favorevole, quella prevista dall’art. 13, c. 5, del D.lgs. 471/1997 quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza - alla luce anche dell’art. 13, c. 5, terzo periodo, del D.lgs. 471/1997, come modificato dal D.lgs. 158/2015 - allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti:
a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo;
b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. 600/1973 e all’art. 54-bis del D.P.R. 633/1972; ove sussista il primo requisito, ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano le sanzioni previste dall’art. 13, c. 1, del D.lgs. 471/1997 ovvero dall’art. 13, c. 4, del D.lgs. 471/1997, come modificato dal D.lgs. 158/2015 qualora ratione temporis applicabile.
2. Il contrasto risolto
L’ordinanza interlocutoria ha rilevato un contrasto interpretativo in seno alla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione in merito alla rilevanza giuridica della distinzione tra credito d’imposta inesistente e credito non spettante, con ricadute pratiche ai fini del trattamento sanzionatorio in caso di indebita compensazione.
L’art. 13 del D.lgs. 471/1997, come modificato dall’art. 15, del D.lgs. 158/2015:
- al c. 4 applica la sanzione pari al trenta per cento del credito nel caso di utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quanto spettante;
- al c. 5 applica la sanzione tra il cento e il duecento per cento della misura del credito nel caso di utilizzo di un credito inesistente.
Ebbene, secondo il primo orientamento, risalente e maggioritario, non vi sarebbe alcuna differenza tra credito inesistente e credito non spettante, poiché “l’art. 27, c. 16, del D.L. 185/2008, conv. in L. 2/2009, non intende elevare l’inesistenza del credito a categoria distinta dalla non spettanza, ma intende solo garantire un margine di tempo adeguato per le verifiche talora complesse riguardanti l’investimento generatore del credito d’imposta, margine di tempo perciò indistintamente fissato in otto anni, senza che possa trovare applicazione il termine più breve stabilito dall’art. 43, D.P.R. 600/1973 per il comune avviso di accertamento” (cfr., Cass. Civ., 21 aprile 2017, n. 10112).
La seconda linea di pensiero, riconducibile alle sentenze gemelle del 16 novembre 2021, nn. 34443, 34444 e 34445, ha disconosciuto la precedente ricostruzione alla luce delle riforme succedutesi negli anni, concludendo nel senso che l’art. 13, c. 5, terzo periodo, del D.lgs. 471/1997, come introdotto dall’art. 15 del D.lgs. 158/2015, ha voluto dare dignità alla distinzione delle due categorie, riservando la fattispecie dell’inesistenza ai crediti fenomenicamente non rilevabili, in quanto fraudolenti o mancanti di elementi costitutivi.
3. Riflessioni conclusive
La Suprema Corte compie una lunga disamina sull’effettiva esistenza della distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti, sui rispettivi caratteri e tratti costitutivi, nonché sulle divergenze in punto di disciplina applicabile.
Tale dicotomia è stata adottata dal legislatore ai fini del contrasto all’utilizzo indebito o fraudolento dell’istituto della compensazione dei crediti tributari: l’art. 35, del D.L. 223/2006, introducendo l’art. 10-quater del D.lgs. 74/2000, ha previsto l’illiceità penale della condotta di colui che “non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’art. 17 del D.lgs. 241/1997, crediti non spettanti o inesistenti”.
La successiva evoluzione normativa ha fornito ulteriori disposizioni di dettaglio in merito alla disciplina tributaria, precisando che il credito è inesistente quando ne difetta, totalmente o parzialmente, il presupposto costitutivo, e ciò non sia riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. 600/1973 e del D.P.R. 633/1972.
Si tratta, in sostanza, di profili abusivi, occulti o fraudolenti, rilevabili solo mediante controlli di natura contabile effettuati attraverso riscontri di coerenza del modello di versamento, e non meramente cartolari poiché non (o falsamente) emergenti dalle dichiarazioni presentate.
Si è inteso così costruire la fattispecie dell’inesistenza su due requisiti: il primo, interno, relativo alla mancanza del presupposto costitutivo, e il secondo, esterno, connesso alla non rilevabilità dell’inesistenza con controlli c.d. automatizzati.
Per la Cassazione, è coerente la previsione prima dell’art. 27, c. 18, del D.L. 185/2008 (laddove ratione temporis applicabile) e poi dell’art. 15 del D.lgs. 158/2015, che ha introdotto i nuovi commi 4-5 dell’art. 13 del D.lgs. 471/1997, che impone un trattamento sanzionatorio differenziato e più gravoso per i crediti inesistenti, essendo tali condotte connotate da maggiore offensività.
Ne consegue che, in mancanza di uno dei due elementi strutturali sopra descritti, il credito è da qualificarsi come esistente e, ai nostri fini, va sussunto sotto la fattispecie del credito non spettante, per cui va applicata la sanzione, meno afflittiva per il contribuente, pari al trenta per cento del credito utilizzato.