Civile Ord. Sez. U Num. 20459 Anno 2022
Presidente: MANNA FELICE
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 24/06/2022
O R D I N A N Z A
sul ricorso iscritto al NRG 8130 del 2021 promosso da:
SCHIANCHI Augusto, rappresentato e difeso dall’Avvocato Alfonso Celotto, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Emilio de’ Cavalieri, n. 11;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE DEI CONTI, con domicilio presso l’Ufficio in Roma, via Baiamonti, n. 25;
– controricorrente –
e nei confronti di
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PARMA, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio presso gli Uffici di questa in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Corte dei conti, Seconda Sezione giurisdizionale centrale d’appello, n. 305/2020, pubblicata il 18 dicembre 2020.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 giugno 2022 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Procuratore Generale Aggiunto Luigi Salvato, che ha chiesto che la Corte rigetti il ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. – La Sezione giurisdizionale per l’Emilia-Romagna della Corte dei conti, con sentenza in data 28 febbraio 2019, ha condannato il prof. Augusto Schianchi al pagamento, in favore dell’Università degli Studi di Parma, della somma di euro 1.459.263,03, oltre accessori, per avere trattenuto indebitamente i compensi percepiti per lo svolgimento di attività incompatibili con la docenza universitaria o, comunque, attività non comunicate e non autorizzate dall’Università, in violazione dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001.
La Procura territoriale aveva contestato al prof. Schianchi, nella sua qualità di ordinario di economia applicata presso l’Università di Parma dal 2004 e, in precedenza, di associato nello stesso Ateneo, lo svolgimento di diverse attività libero professionali in violazione della normativa che disciplina il regime di incompatibilità e di autorizzazione per i professori universitari a tempo pieno (art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001; art. 11 del d.P.R. n. 382 del 1980; disposizioni regolamentari in vigore ratione temporis presso l’Ateneo di Parma).
2. – La Corte dei conti, Sezione Seconda giurisdizionale centrale d’appello, con sentenza resa pubblica mediante deposito in segreteria il 18 dicembre 2020, ha respinto l’appello proposto dal prof. Schianchi.
2.1. – La Corte dei conti ha innanzitutto affermato di avere giurisdizione nella materia oggetto di controversia, escludendo che a ciò sia di ostacolo il fatto che il comma 7-bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dalla legge n. 190 del 2012, che tale giurisdizione contempla, sia sopravvenuto ai fatti di causa.
Il giudice contabile d’appello ha rilevato che l’azione promossa nei confronti di soggetto legato per rapporto di impiego con la P.A. trova giustificazione nella violazione del dovere di chiedere l’autorizzazione allo svolgimento degli incarichi extralavorativi e del conseguente obbligo di riversare all’amministrazione i compensi ricevuti.
La Corte dei conti ha poi rigettato l’eccezione di intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno.
3. – Per la cassazione della sentenza della Corte dei conti, Seconda Sezione giurisdizionale centrale d’appello, il prof. Schianchi ha proposto ricorso, con atto notificato il 25 marzo 2021, sulla base di due motivi.
Ha resistito, con controricorso, il Procuratore Generale rappresentante il Pubblico Ministero presso la Corte dei conti, concludendo per il rigetto del ricorso.
Anche l’Università degli Studi di Parma ha depositato controricorso, chiedendo che il ricorso venga respinto in quanto inammissibile e comunque infondato.
4. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
Il Pubblico Ministero presso la Corte di cassazione ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
In prossimità della camera di consiglio il ricorrente ha presentato una memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo di ricorso è rubricato “illegittimità della sentenza impugnata, in relazione all’art. 111, ottavo comma, Cost. e all’art. 360, primo comma, n. 1, cod. proc. civ., per difetto di giurisdizione della Corte dei conti in ordine alla fattispecie considerata, trattandosi di fatti anteriori all’entrata in vigore della legge n. 190 del 2012 (art. 1, comma 42) che ha introdotto il comma 7-bis all’art. 53 d.lgs. n. 165 del 2001, e in ogni caso in quanto la materia non rientra nella competenza del giudice contabile”.
Il ricorrente sottolinea la portata innovativa della legge n. 190 del 2012 nella parte in cui (art. 1, comma 42) ha inserito il comma 7-bis all’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, contenente la previsione secondo cui l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti, con la conseguente inapplicabilità della norma ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore.
Osserva il ricorrente che, poiché gli incarichi non autorizzati contestati al prof. Schianchi sono tutti ampiamente risalenti ad un periodo anteriore alla data di entrata in vigore della novella legislativa, dovrebbero valere le ordinarie regole di riparto della giurisdizione, con la sottoposizione di questa controversia legata alla ripetizione di quanto indebitamente percepito alla giurisdizione del giudice del rapporto di lavoro.
Ad avviso del ricorrente, la giurisdizione contabile potrebbe prospettarsi solo quando alla contestazione del mancato riversamento delle somme nel bilancio dell’ente di appartenenza si accompagnino profili specifici e ulteriori di danno (danno all’immagine, danno da sottrazione di energie lavorative), che però devono essere diversi dal semplice svolgimento di attività non autorizzata e dal mancato riversamento dei compensi, e devono essere puntualmente contestati al convenuto.
Secondo il ricorrente, avrebbe errato la Corte dei conti a rivendicare una competenza giurisdizionale non sussistente, in primo luogo per l’anteriorità dei fatti contestati rispetto alla novella legislativa del 2012, che non sarebbe una norma meramente confermativa di un preteso precedente indirizzo; in secondo luogo (e premessa, e incontroversa, la anteriorità dei fatti contestati rispetto al 2012) per l’assenza nel caso in esame di profili di danno all’immagine dell’Ateneo o di danno da disservizio, mai contestati al prof. Schianchi nel corso del procedimento.
Ad avviso del ricorrente, difetterebbe la giurisdizione della Corte dei conti anche per un’altra ragione, per il fatto cioè che la legittimazione del procuratore contabile sarebbe destinata a sorgere soltanto di fronte all’inerzia dell’amministrazione. Nel caso di specie, l’azione del pubblico ministero contabile dinanzi alla Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti è stata promossa dopo che l’amministrazione aveva avviato il procedimento di recupero dei compensi percepiti dal prof. Schianchi, e su tale azione pende ancora il giudizio amministrativo (attualmente dinanzi al Consiglio di Stato, per l’impugnazione della sentenza del TAR per l’Emilia-Romagna, sezione di Parma, n. 205 del 2019). L’Amministrazione – si sottolinea – ha chiesto al prof. Schianchi la restituzione dei compensi con nota del 26 settembre 2013 che è stata impugnata davanti al giudice amministrativo con ricorso depositato il 10 ottobre 2013; invece l’azione della Procura contabile è stata avviata con l’invito a dedurre e con l’atto di citazione, rispettivamente del 15 marzo 2018 e del 7 agosto 2018.
1.1. – Il motivo è infondato.
1.2. – Sotto la rubrica “Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi”, l’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, prevede, al comma 7, che «I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. … In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.»
La disposizione del comma 7 è completata dal comma 7-bis, aggiunto dalla legge n. 190 del 2012.
Secondo quest’ultima norma, «L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti.»
Questa Corte regolatrice, con orientamento consolidato, ha statuito che l’azione promossa dal Procuratore regionale della Corte dei conti nei confronti del dipendente della P.A. che abbia omesso di versare alla propria amministrazione i corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato, è devoluta alla giurisdizione della Corte dei conti. Tale regola di individuazione del giudice munito di giurisdizione vale anche se la percezione dei compensi si sia avuta in epoca precedente alla introduzione del comma 7-bis, essendo questa una norma ricognitiva del pregresso indirizzo giurisprudenziale favorevole alla giurisdizione contabile. Si verte, infatti, in ipotesi di responsabilità erariale, che il legislatore ha tipizzato non solo nella condotta, ma annettendo, altresì, valenza sanzionatoria alla predeterminazione legale del danno, attraverso la quale si è inteso tutelare la compatibilità dell’incarico extraistituzionale in termini di conflitto di interesse e il proficuo svolgimento di quello principale in termini di adeguata destinazione di energie lavorative verso il rapporto pubblico (tra le molte, Cass., Sez. Un., 26 giugno 2019, n. 17124; Cass., Sez. Un., 14 gennaio 2020, n. 415; Cass., Sez. Un., 9 marzo 2021, n. 6473; Cass., Sez. Un., 26 marzo 2021, n. 8570; Cass., Sez. Un., 5 novembre 2021, n. 32199; Cass., Sez. Un., 23 novembre 2021, n. 36205).
1.3. – L’azione del Pubblico Ministero contabile trova dunque giustificazione nella violazione del dovere di chiedere l’autorizzazione allo svolgimento degli incarichi extralavorativi e del conseguente (rafforzativo) obbligo di riversare all’amministrazione i compensi per essi ricevuti, costituendo, queste, prescrizioni chiaramente strumentali al corretto esercizio delle mansioni, in quanto preordinate a garantirne il proficuo svolgimento attraverso il previo controllo dell’amministrazione sulla possibilità, per il dipendente, di impegnarsi in un’ulteriore attività senza pregiudizio dei compiti di istituto.
E poiché la previsione della giurisdizione contabile, ai sensi del richiamato art. 53, comma 7-bis, non ha portata innovativa, ma si pone in rapporto di continuità regolativa con l’orientamento giurisprudenziale, già delineatosi, favorevole alla giurisdizione del giudice speciale (Cass., Sez. Un., 22 dicembre 2015, n. 25769, che richiama Cass., Sez. Un., 2 novembre 2011, n. 22688), correttamente la sentenza impugnata ha ritenuto la domanda del Procuratore regionale attratta alla giurisdizione della Corte dei conti anche se i compensi sono stati percepiti dal prof. Schianchi in relazione ad incarichi svolti anteriormente all’entrata in vigore della norma (art. 1, comma 42, della legge n. 190 del 2012) che detto comma 7-bis ha introdotto (Cass., Sez. Un., 22 dicembre 2021, n. 41169; Cass., Sez. Un., 30 maggio 2022, n. 17423).
Né era necessario, perché la controversia ricadesse nella giurisdizione della Corte dei conti, che alla contestazione del mancato riversamento delle somme nel bilancio dell’ente di appartenenza si accompagnasse quella di profili specifici e ulteriori di danno (danno all’immagine, danno da sottrazione di energie lavorative), diversi dal semplice svolgimento di attività non autorizzata e dal mancato riversamento dei compensi.
1.4. – In ordine, poi, al prospettato difetto di giurisdizione del giudice contabile per avere l’Amministrazione universitaria già avviato il procedimento per il recupero delle somme, è dirimente, per respingere in limine la doglianza, il rilievo che nella specie non si è affatto di fronte ad una duplicità di azioni dirette a far valere, dinanzi a giudici diversi, la responsabilità del dipendente pubblico secondo la fattispecie tipizzata.
Difatti, nessuna azione è stata proposta dall’Università per la condanna del prof. Schianchi. Nessuna domanda giudiziale per la condanna del docente all’adempimento dell’obbligo di riversamento dei compensi percepiti per effetto degli incarichi extraistituzionali non autorizzati dallo stesso espletati è stata proposta, dinanzi al TAR, dall’Università, la quale si è limitata a formulare mere richieste stragiudiziali di pagamento e a comunicare l’intendimento di dar corso al procedimento inteso al relativo recupero.
Il procedimento innanzi al TAR per l’Emilia-Romagna è stato proposto dal prof. Schianchi per impugnare il diniego dell’istanza di autorizzazione “ora per allora” nonché le note di comunicazione di avvio del procedimento di recupero.
Non è quindi prospettabile alcun ipotetico bis in idem, ossia la formazione del duplice titolo esecutivo giudiziale in favore dell’Amministrazione. Non si è di fronte ad una duplicità di azioni attivate contestualmente che, seppure con la specificità propria di ciascuna di esse, siano volte a conseguire, dinanzi al giudice munito di giurisdizione, lo stesso identico petitum in danno del medesimo soggetto obbligato in base ad un’unica fonte legale (Cass., Sez. Un., 26 giugno 2019, n. 17124, cit.; Cass., Sez. Un., 14 gennaio 2020, n. 415, cit.; Cass., Sez. Un., 8 luglio 2020, n. 14327).
2. – Il secondo motivo è rubricato “illegittimità della sentenza impugnata in relazione all’art. 111, settimo e ottavo comma, Cost. e all’art. 360, primo comma, n. 1, cod. proc. civ. – motivi di giurisdizione riferiti all’esercizio in concreto del potere giurisdizionale – violazione di legge e violazione dei principi di riferimento della giurisdizione contabile in materia di responsabilità amministrativa, nella parte in cui la sentenza impugnata di fatto altererebbe radicalmente la disciplina legislativa sulla prescrizione della responsabilità per danno erariale, pretendendo di condannare il ricorrente per fatti accaduti fino a 17 anni prima dell’atto di messa in mora invito a dedurre – violazione dei principi costituzionali, europei e convenzionale in tema di prescrizione, ragionevole durata del processo, giusto processo (artt. 11 Cost., 6 Convenzione EDU, 47 Carta dei diritti fondamentali UE)”. Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente e falsamente applicato la disciplina sulla prescrizione della responsabilità erariale (art. 1, comma 2, della legge n. 20 del 1994), con una violazione talmente radicale da stravolgere praticamente la scelta legislativa e producendo un’inaccettabile inversione del principio di soggezione del giudice alla legge, in quanto il prof. Schianchi sarebbe stato condannato anche per fatti risalenti ad un periodo tra i 12 e 17 anni prima rispetto all’atto di messa in mora. Tale violazione oltrepasserebbe la linea dell’error in iudicando e si porrebbe alla stregua di una indebita estensione dei limiti e dei presupposti per l’esercizio in concreto della giurisdizione. Il radicale stravolgimento e svuotamento delle norme di riferimento sarebbe tale da ridondare in denegata giustizia, o più precisamente nell’esercizio di un potere giurisdizionale palesemente anomalo rispetto al contesto di riferimento.
2.1. – Il motivo è inammissibile.
2.2. – Il ricorso per cassazione contro le decisioni della Corte dei conti può essere proposto soltanto per motivi inerenti alla giurisdizione (artt. 111, ottavo comma, Cost., 362 cod. proc. civ. e 207 del codice di giustizia contabile, approvato con il d.lgs. n. 174 del 2016) (Cass., Sez. Un., 19 marzo 2020, n. 7457; Cass., Sez. Un., 3 agosto 2021, n. 22140).
Come queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare (Cass., Sez. Un., 13 maggio 2020, n. 8848; Cass., Sez. Un., 19 aprile 2021, n. 10245; Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2021, n. 30112), l’eccesso di potere denunciabile con ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione (che si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale) o di difetto relativo di giurisdizione (riscontrabile quando detto giudice abbia violato i limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici) (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2021, n. 2605).
E’ naturale che qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme ovvero qualsiasi vizio di attività processuale in cui il giudice possa incorrere nell’esercizio della funzione giurisdizionale, ove incida sull’esito della decisione, può essere letta in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira, perché la tutela si realizza compiutamente se il giudice interpreta ed applica in modo corretto le norme destinate a regolare il caso sottoposto al suo esame e se esamina e valuta tutti i punti essenziali della controversia.
Non per questo, però, ogni errore di giudizio o di attività processuale imputabile al giudice è qualificabile come eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte di cassazione, quale risulta delineato dall’art. 111, ottavo comma, Cost. e dagli artt. 362 cod. proc. civ. e 207 del codice di giustizia contabile. Ne risulterebbe altrimenti del tutto obliterata la distinzione tra limiti interni ed esterni della giurisdizione e il sindacato di questa Corte sulle sentenze del giudice speciale verrebbe di fatto ad avere una latitudine non dissimile da quella che ha sui provvedimenti del giudice ordinario: ciò che la norma costituzionale e le disposizioni processuali dianzi richiamate non sembrano invece consentire (Cass., Sez. Un., 14 settembre 2020, n. 19085).
Nella misura in cui riconduce ipotesi di errores in iudicando o in procedendo ai motivi inerenti alla giurisdizione, la tesi del concetto di giurisdizione in senso dinamico – ha sottolineato la Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 – comporta una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso, ai sensi del settimo e dell’ottavo comma dell’art. 111 Cost., e si pone in contrasto con tale disposizione costituzionale e con l’assetto pluralistico delle giurisdizioni stabilito dalla Carta fondamentale che, appunto per questo, ha sottratto le sentenze (del Consiglio di Stato e) della Corte dei conti al controllo nomofilattico della Corte di cassazione, stabilendo una riserva di nomofilachia in favore dei rispettivi organi di vertice delle due giurisdizioni speciali.
2.3. – Poste tali premesse, non è sindacabile in questa sede il vizio riferito all’esercizio in concreto del potere giurisdizionale, prospettato sul rilievo che la sentenza impugnata avrebbe completamente stravolto la disciplina legislativa della prescrizione in tema di responsabilità erariale, giungendo – si sostiene – ad un esito che praticamente aggira la legge e la sottopone ad una interpretazione che sostanzialmente disattiva radicalmente la scelta del legislatore di prevedere un termine di prescrizione di cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta.
2.4. – Occorre osservare che riguardo all’eccezione di prescrizione formulata in primo grado dal convenuto, questa è stata parzialmente accolta dalla Sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna. Essa ha determinato il dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale tenendo conto che il docente ha consegnato alla Guardia di finanza la documentazione attinente agli incarichi svolti negli anni dal 2007 al 2012 in data 29 agosto 2012 e quella attinente agli anni antecedenti al 2007 in data 29 ottobre 2012 e che dunque da tali date il fatto dannoso si è manifestato all’esterno ed è iniziata la decorrenza del termine prescrizionale. Il primo giudice ha quindi evidenziato che il termine è stato interrotto per gli incarichi e gli importi specificati nell’allegato alla nota del rettore dell’Università di Parma del 26 settembre 2013, atti con cui la suddetta Università ha avviato il recupero delle somme indebitamente percepite dal convenuto. La sentenza di primo grado ha dichiarato la prescrizione con riferimento a quelle somme, richieste dalla Procura con la citazione, che non erano state oggetto della messa in mora da parte dell’Amministrazione, atteso che il primo atto interruttivo della prescrizione posto in essere autonomamente dalla Procura è l’invito a dedurre notificato il 15 marzo 2018, già decorso il termine prescrizionale quinquennale.
La Seconda Sezione giurisdizionale centrale d’appello della Corte dei conti, con la sentenza qui impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado, confermando l’applicazione della regola della decorrenza della prescrizione da quando il fatto dannoso è divenuto conoscibile secondo ordinari criteri di diligenza – la cosiddetta conoscibilità obiettiva – ritenendo non necessario nel caso indagare sull’eventuale configurabilità di un comportamento o di un atteggiamento omissivo qualificabile come occultamento doloso.
Secondo la sentenza impugnata, in base alla previsione contenuta nell’articolo 2935 cod. civ., il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno inizia a decorrere, non già dalla data del fatto inteso come fatto storico obiettivamente realizzato, bensì da quando ricorrano presupposti di sufficiente certezza in capo all’avente diritto in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del diritto azionato, sicché gli stessi possano ritenersi, dal medesimo, conosciuti o conoscibili.
Tale situazione si sarebbe realizzata nelle date in cui il prof. Schianchi ha consegnato alla Guardia di finanza la documentazione attinente agli incarichi svolti e pertanto nelle date del 29 agosto 2012 e del 29 ottobre 2012 con riferimento rispettivamente agli incarichi espletati negli anni dal 2007 al 2012 e a quelli espletati negli anni antecedenti al 2007.
Solamente tali eventi avrebbero disvelato in modo concreto e preciso l’inosservanza del divieto di svolgere attività extralavorative non autorizzate da parte del prof. Schianchi. Atteso infatti che vi era in capo al docente un obbligo specifico di informare il proprio datore di lavoro e che tale obbligo è stato palesemente violato, l’Università degli studi di Parma ha avuto contezza del fatto dannoso solamente nel momento in cui esso è stato completamente svelato con le informazioni fornite nell’ambito delle attività istruttorie svolte da parte del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza.
2.5. – La difesa del ricorrente ipotizza che, con la sentenza impugnata, la Corte dei conti abbia di fatto svuotato la norma legislativa sulla prescrizione, con il risultato di sovrapporre ad essa una norma di creazione giudiziaria che disattiva completamente l’istituto.
In realtà il ricorrente censura la presunta erroneità dell’applicazione da parte della Corte dei conti delle norme in tema di prescrizione, in particolare con riguardo all’esatta individuazione del dies a quo.
Sebbene formalmente denunci una rottura dei presupposti di esercizio della giurisdizione, rottura che si sarebbe realizzata attraverso un radicale stravolgimento delle norme che definiscono il contenuto e i limiti della tutela che si articola nella giurisdizione, il vizio ipotizzato non oltrepassa la linea, al più, dell’error in iudicando, attenendo al modo di esercizio della giurisdizione speciale.
Va ribadito che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione. L’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera legislativa è configurabile solo allorché il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete, ma è da escludere le volte in cui il giudice speciale individui una regula juris facendo uso dei suoi poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso la consueta attività di interpretazione, eventualmente analogica, del quadro delle norme, anche se tale attività ermeneutica abbia dato luogo ad un provvedimento abnorme o anomalo ovvero abbia comportato uno stravolgimento delle norme di riferimento, atteso che in questi casi può profilarsi, eventualmente, un error in iudicando, del quale – così come per l’error in procedendo – non rileva la gravità o intensità, non investendo comunque la sussistenza e i limiti esterni del potere giurisdizionale dei giudici speciali, bensì solo la legittimità dell’esercizio del potere medesimo (Cass., Sez. Un., 30 maggio 2022, n. 17467).
Nella specie, la Corte dei conti non ha affatto travalicato i limiti esterni della giurisdizione contabile, bensì ha esercitato, nell’individuare il momento di decorrenza della prescrizione per l’esercizio dell’azione di danno erariale, l’attività ermeneutica che compete al giudice, mentre le doglianze di parte ricorrente prospettano, nella sostanza, un error in iudicando, non suscettibili, quindi, di sindacato in questa sede.
La Corte dei conti, infatti, ha, in sostanza, interpretato il “fatto” causativo di danno come fattispecie a formazione progressiva, per il cui completamento non è sufficiente la condotta che ha comportato la violazione degli obblighi di servizio. Ai fini del decorso del termine di prescrizione, oltre alla verificazione del fatto dannoso, occorre, secondo la sentenza impugnata, la conoscibilità obiettiva del danno stesso da parte dell’amministrazione danneggiata, trovando applicazione la regola generale stabilita dall’art. 2935 cod. civ., secondo cui il decorso del termine di prescrizione postula la volontaria inerzia del titolare del diritto nell’esercitare il diritto stesso. Secondo la Corte dei conti, nella fattispecie la conoscibilità obiettiva non coincide con il momento in cui sono state percepite le somme per le attività extra-lavorative non autorizzate, ma con quello a partire dal quale l’amministrazione di appartenenza ha acquisito le informazioni relative allo svolgimento di incarichi non autorizzati e alla percezione dei relativi compensi.
3. – Il ricorso è rigettato.
4. – Non vi è luogo a pronuncia sulle spese nei confronti del Procuratore generale della Corte dei conti, stante la sua posizione di parte solo in senso formale. Il Procuratore generale, infatti, così come non può sostenere l’onere delle spese processuali nel caso di sua soccombenza, al pari di ogni altro ufficio del pubblico ministero, non può essere destinatario di una pronuncia attributiva della rifusione delle spese quando, come nella specie, soccombente risulti il suo contraddittore.
Applicando la regola della soccombenza, le spese vanno invece liquidate, come da dispositivo, a favore della controricorrente Università degli Studi di Parma
5. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, ricorrono i presupposti processuali per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dalla controricorrente Università degli Studi di Parma, che liquida in euro 10.000 per compensi, oltre alle spese eventualmente prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 21 giugno
Allegati:
SS.UU, 24 giugno 2022, n. 20459, in tema di danno erariale
Nota dell'Avv. Alfonso Ciambrone
Le Sezioni Unite chiariscono la differenza fra error in iudicando (e in procedendo) ed eccesso di potere giurisdizionale
1. Il principio di diritto
Non travalica i limiti esterni della giurisdizione contabile, l’individuazione (eventualmente erronea) del momento di decorrenza della prescrizione per l’esercizio dell’azione di danno erariale.
2. Il motivo di ricorso per Cassazione
Con la sentenza impugnata, la Corte dei Conti ha interpretato il “fatto” causativo del danno erariale come fattispecie a formazione progressiva, per il cui completamento non è sufficiente la condotta che ha comportato la violazione degli obblighi di servizio (nella specie, l’indebito trattenimento dei compensi percepiti per lo svolgimento di attività incompatibili con la docenza universitaria o, comunque, di attività non comunicate e non autorizzate dall’Università, in violazione dell’art. 53, c. 7, del D.lgs. 165/2001).
Secondo il giudice contabile, ai fini del decorso del termine di prescrizione, oltre alla verificazione del fatto dannoso, occorre la conoscibilità obiettiva del danno stesso da parte dell’amministrazione danneggiata, trovando applicazione la regola generale stabilita dall’art. 2935 c.c., secondo cui il decorso del termine di prescrizione postula la volontaria inerzia del titolare del diritto nel suo esercizio.
La difesa del ricorrente ha ipotizzato che, così statuendo, la Corte dei Conti abbia di fatto svuotato la norma legislativa sulla prescrizione, con il risultato di sovrapporre ad essa un precetto di creazione pretoria che disattiva completamente l’istituto.
E’ stata oggetto di censura, in particolare, la presunta erroneità dell’applicazione delle norme in tema di prescrizione con specifico riguardo all’esatta individuazione del dies a quo.
3. Riflessioni conclusive
Le Sezioni Unite precisano come il vizio ipotizzato non oltrepassi la linea, al più, dell’error in iudicando, attenendo al modo di esercizio della giurisdizione speciale, non suscettibile, quindi, di sindacato in Cassazione ex artt. 111, c. 8, Cost., 362 c.p.c. e 207 del Codice di giustizia contabile.
Viene ribadito che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione.
L’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera legislativa è configurabile solo allorché il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete, ma è da escludere allorquando individui una regula juris facendo uso dei suoi poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso la consueta attività di interpretazione, eventualmente analogica, del sistema, ed anche se tale attività ermeneutica abbia dato luogo ad un provvedimento abnorme o anomalo ovvero abbia comportato uno stravolgimento delle norme di riferimento.
In questi casi, può profilarsi, eventualmente, un error in iudicando, del quale - così come per l’error in procedendo - non rileva la gravità o intensità, non investendo comunque la sussistenza e i limiti esterni del potere giurisdizionale dei giudici speciali, bensì solo la legittimità dell’esercizio del potere stesso.
Aggiunge il Supremo Consesso che qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme, ovvero qualsiasi vizio di attività processuale in cui il giudice possa incorrere nell’esercizio della funzione giurisdizionale, ove incida sull’esito della decisione, può essere letta in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira.
Non per questo, però, ogni errore di giudizio o di attività processuale imputabile al giudice è qualificabile come eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte Suprema di Cassazione.
Diversamente opinando risulterebbe del tutto obliterata la distinzione tra limiti interni ed esterni della giurisdizione ed il sindacato sulle sentenze del giudice speciale verrebbe di fatto ad avere una latitudine non dissimile da quella che ha sui provvedimenti del giudice ordinario, il che non sembra essere consentito dalla norma costituzionale e dalle disposizioni processuali dianzi richiamate.
Sul punto, anche la Corte Costituzionale, nella nota sentenza n. 6 del 2018, ha sottolineato che la tesi del concetto di giurisdizione in senso dinamico, nella misura in cui riconduce ipotesi di errores in iudicando o in procedendo ai motivi inerenti alla giurisdizione, comporta una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso, ai sensi dei commi 7 e 8 dell’art. 111 Cost. e si pone in contrasto con tale disposizione e con l’assetto pluralistico delle giurisdizioni stabilito dalla Carta fondamentale che, appunto per questo, ha sottratto le sentenze (del Consiglio di Stato e) della Corte dei Conti al controllo nomofilattico della Corte Suprema di Cassazione, stabilendo una riserva di nomofilachia in favore dei rispettivi organi di vertice delle due giurisdizioni speciali.
Si vedano anche SS.UU, 14 gennaio 2020, n. 415 e 09 marzo 2020, n. 6473.