Civile Ord. Sez. U Num. 8676 Anno 2023
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: GIUSTI ALBERTO
Data pubblicazione: 27/03/2023
O R D I N A N Z A
sul ricorso iscritto al N.R.G. 16409 del 2022 proposto da:
—, rappresentata e difesa dall’Avvocato Alessia Fiore, con domicilio eletto presso lo studio Pini & Partners in Roma, via della Giuliana, n. 82;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio presso la sede dell’Istituto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– resistente –
per la cassazione della sentenza del Consiglio di Stato n. 3258 del 2022, depositata il 27 aprile 2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 marzo 2023 dal Consigliere Alberto Giusti;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Rita Sanlorenzo, che ha chiesto dichiararsi il ricorso inammissibile.
FATTI DI CAUSA
1. – La dottoressa — ha partecipato al concorso per il conferimento di ottanta posti di commissario della Polizia di Stato, ma è stata dalla commissione medica del Ministero dell’interno giudicata inidonea al servizio, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del decreto ministeriale n. 198 del 2003, per la carenza dei requisiti psico-fisici, in particolare per la presenza di un tatuaggio in una zona del corpo non coperta dall’uniforme.
Avverso tale giudizio di inidoneità la dottoressa — ha proposto ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sostenendo che si trattava, non di un tatuaggio in senso stretto, ma di un mero residuo cicatriziale, irrilevante anche perché coperto dalle calze dell’uniforme.
2. – Il TAR del Lazio ha accolto il ricorso con sentenza n. 1700 del 2020 e, per l’effetto, ha disposto l’annullamento del giudizio di non idoneità espresso dalla commissione medica. L’Amministrazione – ha rilevato il primo giudice – non può procedere all’automatica esclusione dal concorso per la sola presenza di un tatuaggio in una zona del corpo non coperta dall’uniforme, bensì deve specificamente motivare in che misura la visibilità è tale da determinare l’inidoneità al servizio nella Polizia, valutando la situazione nello specifico caso anche alla luce della previsione di favorevole evoluzione in relazione alla sottoposizione del tatuaggio al trattamento di completa rimozione, già in periodo anteriore alla data della visita medica concorsuale.
3. – Di diverso avviso è stato il Consiglio di Stato, il quale, con sentenza in data 8 giugno 2021, ha accolto l’appello spiegato dal Ministero dell’interno, riformando la pronuncia di primo grado.
Secondo il giudice amministrativo di ultima istanza, non ha rilievo il fatto che il tatuaggio sia stato completamente rimosso in un momento successivo all’accertamento concorsuale, perché i requisiti di idoneità devono essere posseduti entro la data di partecipazione alla selezione concorsuale e devono essere verificabili nei tempi previsti dal bando, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.
La circostanza per cui il tatuaggio fosse già allora in avanzato stato di rimozione, è smentita, secondo il Consiglio di Stato, dal verbale della seduta della commissione medica, la quale ha fatto riferimento alla documentazione fotografica, da cui è evidente la presenza del tatuaggio ancora percepibile nelle sue dimensioni complessive e nel soggetto raffigurato.
Il giudice amministrativo d’appello ha sottolineato che il tatuaggio non risulta coperto dall’uniforme e che, ai fini della corretta interpretazione dell’art. 3, comma 2, del d.m. n. 198 del 2003, non assume rilievo la circostanza che durante la visita medica non siano state fatte indossare le calze, non assimilabili ai capi di abbigliamento, quali pantaloni o giacche, ai quali la disposizione si riferisce.
In relazione alle considerazioni svolte dall’appellata sulla divisa e in particolare sulla natura delle calze in relazione all’uniforme, il Consiglio di Stato ha fatto richiamo ad un proprio precedente che, in analoga fattispecie, ha affermato che, con l’espressione “tatuaggi sulle parti del corpo non coperte dall’uniforme”, il citato decreto ministeriale ha inteso distinguere gli effetti dei tatuaggi in termini di idoneità al servizio nella Polizia di Stato: mentre i tatuaggi presenti sulle parti del corpo non coperte dalla divisa hanno valenza automaticamente escludente, di contro i tatuaggi sulle parti del corpo coperte dalla divisa determinano inidoneità solo ove, per sede e per natura, deturpanti o, per contenuto, indice di personalità “abnorme”.
4. – La dottoressa — si è rivolta nuovamente al Consiglio di Stato, chiedendo la revocazione della sentenza pronunciata in grado di appello per errore di fatto, determinato, a suo avviso, dalla mancata considerazione della non visibilità del tatuaggio e dall’aver motivato la decisione esclusivamente in astratto, sulla base di precedenti giurisprudenziali intervenuti su casi simili.
5. – Con sentenza n. 3258 del 2022, pubblicata il 27 aprile 2022, il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione, escludendo la configurabilità dell’ipotesi di errore di fatto revocatorio denunciato dall’interessata.
Il giudice amministrativo ha osservato, al riguardo, che la visibilità dei residui del tatuaggio ha costituito il punto controverso, e “centrale”, sul quale la sentenza d’appello ha avuto modo di esprimersi, e ha rilevato che anche la documentazione fotografica prodotta dalla dottoressa —, unitamente al verbale della commissione medica del Ministero dell’interno, è stata oggetto di valutazione in appello.
Secondo il Consiglio di Stato, le doglianze della ricorrente sono volte a censurare, al più, un error in iudicando, non essendo sindacabile in sede di revocazione il fatto che il giudice dell’appello non abbia ritenuto sussistenti i presupposti per accogliere la richiesta di verificazione.
6. – Per la cassazione della sentenza del Consiglio di Stato resa nel giudizio per revocazione, la dottoressa — ha proposto ricorso, con atto notificato il 24 giugno 2022, sulla base di due motivi.
Il Ministero dell’interno non ha notificato controricorso, ma ha depositato un atto di costituzione ai soli fini della partecipazione alla eventuale discussione orale.
7. – Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
8. – Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte nel senso della inammissibilità del ricorso.
In prossimità della camera di consiglio, la difesa della ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Viene impugnata con due motivi di ricorso per cassazione la sentenza del Consiglio di Stato che ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione avverso la pronuncia dello stesso Consiglio che, accogliendo l’appello dell’Amministrazione, ha respinto la domanda della dottoressa — di annullamento del giudizio di non idoneità al concorso per commissario della Polizia di Stato, espresso dalla commissione medica per la presenza di un tatuaggio in zona non coperta dall’uniforme.
2. – Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente censura il vizio di eccesso di potere giurisdizionale in cui sarebbe incorso il Consiglio di Stato in sede di revocazione, per avere operato uno sconfinamento nel potere della pubblica amministrazione là dove, entrando nel merito della controversia, ha affermato che essa aveva ad oggetto i residui di un tatuaggio, seppur in avanzata fase di rimozione, in una parte del corpo visibile con l’uniforme.
La pronuncia del Consiglio di Stato, là dove ha ritenuto che, ai fini della corretta interpretazione dell’art. 3, comma 2, del d.m. n. 198 del 2003, in tema di cause di esclusione, non rileva la circostanza che durante la visita medica non siano state fatte indossare le calze (poiché non assimilabili ai capi di abbigliamento in senso stretto), si sarebbe spinta al di là dell’esame richiesto in sede di revocazione.
La sentenza impugnata risulterebbe inficiata dal vizio di eccesso di potere sotto un duplice profilo.
In primo luogo, perché il Consiglio di Stato, nel condividere gli esiti della sentenza d’appello secondo cui la controversia aveva ad oggetto un tatuaggio posto in una parte del corpo visibile con l’uniforme (e non già i residui cicatriziali derivanti dalla precedente operazione di rimozione), avrebbe, di fatto, coniato una nuova norma sul sistema delle divise degli appartenenti alla Polizia di Stato. Ad avviso della ricorrente, il giudice della revocazione avrebbe arbitrariamente escluso le calze dai capi di abbigliamento, ignorando le regole già dettate dal Ministero dell’interno in materia ed ingerendosi nella potestà regolamentare attribuita a quest’ultimo dal legislatore.
In secondo luogo, perché il Consiglio di Stato, nel ritenere che l’omessa considerazione delle calze quale parte integrante dell’uniforme femminile non costituisce un “abbaglio dei sensi”, avrebbe finito con l’invadere la sfera della discrezionalità amministrativa, individuando quali capi di abbigliamento concorrono a formare la divisa da far indossare in sede di accertamento concorsuale, sostituendo, per l’effetto, la propria valutazione di opportunità dell’atto amministrativo al giudizio della pubblica amministrazione.
3. – Con il secondo motivo, la ricorrente si duole che il Consiglio di Stato, ribadendo, in sede di revocazione, l’irripetibilità degli accertamenti psico-fisici effettuati in sede concorsuale, abbia indebitamente rifiutato di esercitare la funzione giurisdizionale, omettendo di considerare la valenza della perizia di parte e non ammettendo la verificazione richiesta. Viene denunciata la violazione degli artt. 24, 103, 113 e 117 Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, degli artt. 1-3 e 64-67 cod. proc. amm., del codice delle pari opportunità (d.lgs. n. 198 del 2006), degli artt. 3, 15, 21, 23, 30, 31, 34 e 35 della CDFUE, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, dell’art. 267 TFUE, e degli artt. 2, 3, 4, 24, 35, 36, 37, 111 e 113 Cost. Ad avviso della ricorrente, il Consiglio di Stato avrebbe omesso di esercitare un sindacato giurisdizionale pieno, anche sotto il profilo istruttorio, sul provvedimento impugnato. L’eccesso di potere giurisdizionale per diniego o rifiuto di giurisdizione sarebbe configurabile anche per l’omessa verifica di applicazione e interpretazione del diritto dell’Unione europea in relazione a situazioni giuridiche soggettive fondamentali, quali la non discriminazione, la parità di accesso al lavoro, la tutela giurisdizionale e l’effettività del ricorso.
4. – Il ricorso è, con riferimento ad entrambi i motivi in cui si articola, inammissibile.
5. – Giova premettere che, con l’impugnata pronuncia, il Consiglio di Stato ha escluso che ricorra l’errore revocatorio.
Il rimedio – ha affermato il giudice speciale – non è stato esperito per eliminare l’ostacolo materiale frapposto tra la realtà del processo e la percezione che di questa abbia avuto il giudice amministrativo d’appello. Secondo il giudice amministrativo, le doglianze di parte ricorrente investono l’attività valutativa compiuta dal giudice in sede di appello e non la percezione – che si assume inesatta – di dati fattuali.
Affinché sia configurabile l’errore revocatorio – ha sottolineato il Consiglio di Stato – occorre che esso derivi da un “abbaglio dei sensi”, ossia da un’errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio che abbia indotto il giudice a ritenere come documentalmente provato un fatto inesistente o, viceversa, inesistente un fatto documentalmente provato.
Mentre l’errore revocatorio richiede che il fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza abbia pronunciato, nel caso di specie, ha osservato il Consiglio di Stato, la causa in sede di appello ha avuto ad oggetto proprio la visibilità in una parte del corpo, con l’uniforme, dei residui di un tatuaggio seppur in avanzata fase di rimozione. E – prosegue la sentenza – il giudice d’appello ha dato atto di aver valutato anche la documentazione fotografica del tatuaggio in questione, ritenendo decisivi non solo il verbale redatto dalla commissione medica, ma anche le risultanze fotografiche presenti agli atti.
6. – In sede di ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato pronunciate su impugnazione per revocazione, può sorgere questione di giurisdizione solo con riferimento al potere giurisdizionale in ordine alla statuizione sulla revocazione medesima, restando comunque esclusa la possibilità di rimettere in discussione detto potere con riguardo alla precedente decisione di merito (Cass., Sez. Un., 31 ottobre 2019, n. 28214; Cass., Sez. Un., 20 luglio 2021, n. 20688).
7. – Alla luce di tale principio, va rilevato che, con il proposto ricorso per cassazione, la ricorrente utilizza l’impugnazione della sentenza del Consiglio di Stato nel giudizio di revocazione per veicolare censure rivolte, in realtà, a contestare il potere giurisdizionale esercitato, dallo stesso giudice amministrativo, nella precedente decisione resa in sede di appello.
8. – Ciò è evidente là dove, con il primo motivo, la ricorrente si duole del superamento del limite esterno della giurisdizione per avere, il giudice amministrativo di ultima istanza, dettato le norme sulla costituzione dei capi di abbigliamento delle divise e, sotto altro profilo, per aver ritenuto di sostituire l’atto amministrativo con valutazioni di opportunità.
Lo sconfinamento del giudice amministrativo nel potere della pubblica amministrazione evidenzierebbe, ad avviso della ricorrente, la “abnormità della sentenza di appello anche in termini discriminatori là dove – escludendo addirittura le calze dai capi di abbigliamento dell’uniforme – ha ritenuto di adottare una nuova norma sulla costituzione dei capi delle divise” (così il ricorso, a pagina 9).
L’eccesso di potere (per essersi spinto, il giudice amministrativo, sino a “coniare una nuova norma che individua i capi di abbigliamento delle divise ed esclude le calze da questi ultimi”) riguarda, in prima battuta, secondo la stessa prospettazione della ricorrente, la sentenza di appello del Consiglio di Stato (cfr. pagina 10 del ricorso).
Soltanto formalmente la ricorrente estende il vizio alla sentenza resa in sede di revocazione. Si sostiene, infatti, nel ricorso, che “si è perpetrato anche in sede di revocazione un eccesso di potere giurisdizionale”; che “non rientra nel potere del giudice amministrativo (nella specie, il giudice della revocazione) di dettare le norme in materia di costituzione dell’uniforme”; che il giudice della revocazione “ha pianamente convalidato nel merito che l’esito cicatriziale del tatuaggio, essendo posizionato sul dorso del piede destro della dottoressa —, fosse ex se visibile e ciò a prescindere dalla divisa e dalle calze dell’uniforme”.
9. – Ritiene il Collegio delle Sezioni Unite che, nel ricorso per cassazione contro una sentenza del Consiglio di Stato emessa su impugnazione per revocazione, non vi è spazio per una questione di giurisdizione quando il vizio di eccesso di potere denunciato (nella specie, per sconfinamento nel potere della pubblica amministrazione) in realtà si annidi, secondo la deduzione della stessa parte ricorrente, nella sentenza di appello del giudice amministrativo, per poi riflettersi per ricaduta – ma soltanto in conseguenza del non superamento di quell’esito decisorio per effetto della valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione – nella sentenza che dichiara inammissibile la revocazione.
Il che è coerente con il principio, più volte ribadito da questa Corte regolatrice (Cass., Sez. Un., 9 marzo 2021, n. 6471; Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2022, n. 1603; Cass., Sez. Un., 13 febbraio 2023, n. 4335), secondo cui, qualora vi sia stata la valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato, non è consentito il ricorso per cassazione, giacché con esso non verrebbe in rilievo la sussistenza o meno del potere giurisdizionale di operare detta valutazione e, dunque, una violazione di quei limiti esterni alla giurisdizione del giudice amministrativo, rispetto alla quale soltanto è ammesso ricorrere in sede di legittimità.
10. – Sono, pertanto, condivisibili le conclusioni del Pubblico Ministero, secondo cui non è configurabile alcuno sconfinamento di potere da parte del Consiglio di Stato, essendosi limitato il giudice della revocazione a constatare l’oggetto della controversia e a rilevare come non fosse configurabile un errore di fatto revocatorio, essendosi in presenza di una valutazione del giudice di appello che ha ritenuto determinanti, ai fini della decisione, le risultanze del verbale redatto dalla commissione. L’interpretazione del Consiglio di Stato relativa alle parti del corpo che devono essere considerate coperte in senso fisico da capi di abbigliamento, in virtù della quale non è stata attribuita valenza “coprente” alle calze della divisa, costituisce, dunque, un’attività ermeneutica che rappresenta il proprium dell’attività giurisdizionale, potendosi, al più, configurare un error in iudicando, come tale non censurabile innanzi alle Sezioni Unite.
11. – Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
12. – Con tale motivo la ricorrente si duole del fatto che, evocando i principi del tempus regit actum e della par condicio fra i candidati, il Consiglio di Stato avrebbe, da un lato, omesso ogni considerazione circa la perizia di parte, stante la sua natura necessariamente postuma rispetto agli accertamenti compiuti dalla commissione medica e, dall’altro, respinto l’istanza di verificazione avanzata dalla difesa della dottoressa —, considerata la carenza di un corredo probatorio idoneo a mettere in dubbio l’attendibilità del giudizio di inidoneità. Lamenta la ricorrente che, tuttavia, così facendo, il Consiglio di Stato avrebbe posto la dottoressa — in una posizione connotata dalla sostanziale impossibilità di fornire la prova contraria, generando una impasse nella possibilità fattuale di difesa rispetto alle risultanze dell’accertamento medico: ciò in quanto il giudizio di inidoneità diverrebbe, esclusivamente in virtù del momento in cui è stato emesso dalla commissione medica, sempre e comunque insindacabile, indipendentemente dalla bontà e correttezza del suo contenuto. Conseguentemente, l’impugnazione dell’atto amministrativo in sede giudiziale si risolverebbe in una mera formalità, una facoltà che, seppur virtualmente riconosciuta dall’ordinamento, si dimostra inidonea, in virtù del principio tempus regit actum, a tramutarsi in un sindacato pieno ed effettivo. Il giudice, opponendo al proprio sindacato l’irripetibilità degli accertamenti e revocando in dubbio l’attendibilità delle prove di parte, avrebbe omesso di considerare che la possibilità di contraddire del privato si basa su prove, quali perizie mediche ed accertamenti, necessariamente postume al provvedimento di esclusione dal concorso.
Secondo l’impostazione della ricorrente, una tale censura assumerebbe rilievo anche alla luce dei principi di tutela giurisdizionale effettiva, occupazione e accesso al lavoro, pari opportunità e non discriminazione e giusto processo.
La ricorrente, infatti, lamenta non solo l’esclusione dal concorso in ragione del rifiuto giurisdizionale denunciato, ma anche l’impossibilità di ripetere la selezione a causa del limite di età vigente.
Del pari, ella si duole che la questione non si sarebbe neppure posta per un candidato di sesso maschile, stante la prescrizione per il solo personale femminile di indossare, per le occasioni di gala, l’uniforme “ordinaria”, che pone problemi di visibilità del tatuaggio, costituita da gonna con calze e décolleté.
13. – Tale essendo la censura formulata dalla ricorrente con il secondo motivo, va rilevato che essa attinge, innanzitutto, una ratio aggiuntiva nel contesto delle argomentazioni che sostengono il decisum.
14. – Invero, con il ricorso per revocazione la ricorrente ha lamentato l’errore percettivo determinato dalla mancata considerazione della asserita non visibilità del tatuaggio e dall’aver motivato la decisione esclusivamente in astratto sulla base dei precedenti giurisprudenziali espressi su casi simili. A supporto della propria tesi, il gravame ha richiamato le fotografie depositate in primo grado dalla ricorrente, l’omesso esame della perizia di parte prodotta nel giudizio di appello e il mancato esperimento della richiesta verificazione.
La qui impugnata sentenza del Consiglio di Stato ha fondato la statuizione di inammissibilità del ricorso per revocazione sulla insussistenza di un errore di fatto revocatorio. Poiché la visibilità del tatuaggio e la sua ubicazione in una parte del corpo non coperta dall’uniforme hanno costituito il punto controverso sul quale la sentenza d’appello ha avuto modo di esprimersi in maniera esplicita, si è di fronte ad una ben precisa, per quanto criticabile dalla parte, valutazione del giudice di appello, il quale ha ritenuto decisive le risultanze del verbale e le relative fotografie presenti agli atti. Non c’è errore percettivo, non si è in presenza di un abbaglio dei sensi.
Dopo avere espresso questa ratio decidendi, il Consiglio di Stato ha esposto una motivazione ad abundantiam.
Una volta ricondotta la questione della visibilità del tatuaggio al punto controverso, e “centrale”, della sentenza d’appello ed esclusa, pertanto, la configurabilità dell’errore revocatorio, il giudice amministrativo di ultima istanza ha aggiunto una ulteriore argomentazione. Ha affermato, infatti, che, contrariamente a quanto ipotizzato dalla ricorrente, la sentenza d’appello non avrebbe potuto altrimenti tener conto della perizia di parte, necessariamente postuma, a suo tempo depositata dall’appellante, attesa la sostanziale irripetibilità, salvo casi limite, degli accertamenti psico-fisici esperiti in sede concorsuale, e considerata la necessità che i requisiti di partecipazione siano imprescindibilmente posseduti dai candidati entro la data di partecipazione alla selezione, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.
15. – L’afferenza della censura formulata dalla ricorrente ad una argomentazione svolta ad abundantiam ne preclude l’esame in questa sede.
È infatti inammissibile, in sede di ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione avverso una sentenza del Consiglio di Stato, il motivo che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam, in quanto la stessa, non costituendo una ratio decidendi, non spiega alcuna influenza sul dispositivo della pronuncia e, pertanto, essendo improduttiva di effetti giuridici, la sua impugnazione è priva di interesse. In altri termini, la censura mossa contro una motivazione di una sentenza del Consiglio di Stato formulata ad abundantiam non può comportare la cassazione di tale sentenza e deve, pertanto, essere dichiarata inammissibile in quanto inoperante.
16. – Del pari inammissibile è la doglianza con cui si contesta che il giudice amministrativo abbia escluso la sindacabilità in sede di revocazione, per non essere configurabile alcun errore percettivo, del fatto che, giudicando sull’appello, il Consiglio di Stato non abbia ritenuto sussistenti i presupposti per disporre la verificazione, richiesta per dimostrare la non visibilità sul corpo della donna dei residui del tatuaggio.
Con tale motivo di ricorso per cassazione, ancorché formalmente prospettato sotto il profilo del rifiuto di giurisdizione, si censura, infatti, la valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato. Non è posta una violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo. È denunciato un cattivo esercizio, da parte del Consiglio di Stato, della propria giurisdizione: vizio che, attenendo all’esplicazione interna del potere giurisdizionale conferito dalla legge al giudice amministrativo, non è deducibile dinanzi alle Sezioni Unite.
17. – Denunciando il rifiuto di giurisdizione, la ricorrente con il secondo motivo pone anche un problema di effettività della tutela giurisdizionale e, al contempo, di ambito, e di limiti, del sindacato delle Sezioni Unite sulle sentenze del giudice amministrativo.
È consolidato nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice il principio secondo cui, in materia di ricorso per cassazione avverso le sentenze del giudice amministrativo, integra il vizio di rifiuto dell’esercizio della giurisdizione l’affermazione, contro la regula iuris che attribuisce a quel giudice il potere di dicere ius sulla domanda, che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio è, in astratto, priva di tutela, allorché essa sia corredata dal rilievo della estraneità di tale situazione non solo alla propria giurisdizione ma anche a quella di ogni altro giudice. Tale vizio risulta il solo sindacabile dalla Corte di cassazione ex art. 111, ultimo comma, Cost., e ciò diversamente dall’erronea negazione, in concreto, della tutela alla situazione sog-gettiva azionata (v., per tutte, Cass., Sez. Un., 6 giugno 2017, n. 13976).
La negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non concreta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, ottavo comma, Cost., atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione.
Nella misura in cui riconduce ipotesi di errores in iudicando o in procedendo ai motivi inerenti alla giurisdizione, la tesi del concetto di giurisdizione inteso in senso dinamico – ha sottolineato la Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 – comporta una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso, ai sensi del settimo e dell’ottavo comma dell’art. 111 Cost., e si pone in contrasto con tale disposizione costituzionale e con l’assetto pluralistico delle giurisdizioni stabilito dalla Carta fondamentale che, appunto per questo, ha sottratto le sentenze del Consiglio di Stato (e della Corte dei conti) al controllo nomofilattico della Corte di cassazione, stabilendo una riserva di nomofilachia in favore dei rispettivi organi di vertice delle due giurisdizioni speciali.
18. – La ricorrente muove dalla tesi, in passato accolta dalle Sezioni Unite, secondo cui sarebbe norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto al potere stabilendo attraverso quali forme di tutela esso si estrinseca. In particolare, la ricorrente sostiene che l’apertura a tale concezione della giurisdizione sarebbe nella specie giustificata dal coacervo e dal complesso di violazioni che sarebbero riscontrabili nella sentenza impugnata: per il duplice diniego sia alla considerazione della perizia di parte sia a dare sfogo alla richiesta di verificazione; per il sostanziale rifiuto di sindacare il giudizio di inidoneità impugnato; per la mancata adeguata considerazione dei diritti fondamentali, delle libertà e dei valori in gioco, anche di derivazione europea, dal diritto al lavoro al principio di non discriminazione.
19. – Il Collegio delle Sezioni Unite è consapevole del fatto che le disposizioni limitative in materia di tatuaggi coinvolgono il tema delle libertà costituzionali, in particolare della libertà di espressione, e che, proprio per questo, il giudice deve evitare, nel momento interpretativo, letture restrittive della normativa regolamentare che si risolvano in un esito discriminatorio per le donne che intendono accedere in Polizia di Stato, tenuto conto della diversa uniforme femminile che, in alcuni casi, non copre in modo identico ai pantaloni.
Il Collegio ritiene, tuttavia, la complessiva censura inammissibile, per una duplice ragione.
19.1. – In primo luogo, per la condivisibilità dell’indirizzo, costituente diritto vivente, sul quale si è attestata la giurisprudenza delle Sezioni Unite, in tema di limiti al sindacato delle sentenze del Consiglio di Stato, costituendo ipotesi estranea al perimetro del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione la denuncia di un diniego di giustizia da parte del giudice amministrativo di ultima istanza, derivante dallo stravolgimento delle norme di riferimento. L’insindacabilità, da parte della Corte di cassazione a Sezioni Unite, per eccesso di potere giurisdizionale, ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost., delle sentenze del Consiglio di Stato pronunciate in violazione del diritto anche dell’Unione europea, non si pone in contrasto con gli artt. 52, par. 1, e 47 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, in quanto l’ordinamento processuale italiano garantisce comunque ai singoli l’accesso a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, come quello amministrativo, non prevedendo alcuna limitazione all’esercizio, dinanzi a tale giudice, dei diritti e delle libertà fondamentali (Cass., Sez. Un., 30 agosto 2022, n. 25503).
L’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile con il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, va riferito alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione – che si verifica quando un giudice speciale affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento) – nonché di difetto relativo di giurisdizione, riscontrabile quando detto giudice abbia violato i c.d. limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici, senza che tale ambito possa estendersi, di per sé, ai casi di sentenze “abnormi”, “anomale” ovvero di uno “stravolgimento” radicale delle norme di riferimento.
Quindi, il ricorso, con il quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo, rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione soltanto se il rifiuto sia stato determinato dall’affermata estraneità alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice della domanda, che non possa essere da lui conosciuta (Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2023, n. 5862).
Al contrario, non può essere sindacato innanzi alle Sezioni Unite l’errore che non si risolva nel rifiuto di esercitare la giurisdizione, bensì nel suo cattivo esercizio. Invero, il cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che provveda perché investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione, e tuttavia nell’esercitarla applichi regole di giudizio che lo portino a negare tutela alla situazione giuridica azionata, si risolve soltanto nell’ipotetica commissione di un errore interno e, se tale errore porti a negare tutela alla situazione fatta valere, ciò costituisce mera valutazione di infondatezza della richiesta di tutela; e ciò, ancorché la statuizione, in quanto proveniente dal giudice di ultimo grado della giurisdizione adita, comporti che la situazione rimanga priva di tutela giurisdizionale.
Ciascuna giurisdizione si esercita, infatti, con l’attribuzione, all’organo di vertice interno al plesso giurisdizionale, del controllo e della statuizione finale sulla correttezza in facto ed in iure di tutte le valutazioni necessarie a decidere sulla controversia, onde non è possibile prospettare che il modo in cui tale controllo viene esercitato dall’organo di vertice della giurisdizione speciale – ove pure si sia risolto nel negare tutela alla situazione giuridica azionata – sia suscettibile del controllo da parte delle Sezioni Unite, assumendosi quindi che la negazione di tutela in concreto, con l’applicazione da parte del giudice speciale delle regole sostanziali e processuali interne alle controversie devolute alla sua giurisdizione, si sia risolta in un vizio di violazione delle regole di giurisdizione (Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2023, n. 5862, cit.).
19.2. – C’è, peraltro, una ragione concorrente che rende inammissibile la censura.
Il rifiuto di sindacare il giudizio di inidoneità e il sotteso accertamento medico – che è ciò di cui si duole la ricorrente, sotto il profilo dell’esclusione della valenza di apporti probatori (esami medici, verificazione) relativi ai requisiti fisici esaminati in sede concorsuale nonché sub specie di mancata verifica di compatibilità della disciplina regolamentare italiana con il diritto unionale e con i diritti fondamentali ivi connessi e coinvolti – risale, in realtà, secondo la prospettazione della parte, alla sentenza del Consiglio di Stato resa in sede di appello, che non è la pronuncia oggetto della presente impugnazione.
20. – Il ricorso è dichiarato inammissibile.
Non vi è luogo a statuizione sulle spese, non avendo il Ministero dell’interno, che si è limitato a depositare un atto di costituzione privo dei caratteri del controricorso, svolto attività difensiva in questa sede.
21. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, ricorrono i presupposti processuali per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 21 marzo
Allegati:
SS.UU, 27 marzo 2023, n. 8676, in tema di eccesso di potere giurisdizionale
Nota dell'Avv.ta Maria Luisa Avellis
Limiti del sindacato sulle sentenze amministrative e questioni di giurisdizione
1. I principi di diritto
Nel ricorso per cassazione avverso una sentenza del Consiglio di Stato emessa in sede di revocazione, non vi è spazio per questioni di giurisdizione quando il vizio di eccesso di potere giurisdizionale denunciato in realtà si annidi, secondo la stessa prospettazione di parte ricorrente, nella sentenza di merito resa in sede di appello, riflettendosi solo in via derivata sul contenuto della sentenza che pronuncia sulla revocazione.
In ogni caso, non costituisce vizio di difetto di giurisdizione il cattivo esercizio della giurisdizione, ancorché si risolva nella sostanziale privazione di tutela avverso la statuizione giurisdizionale, in quanto proveniente dal giudice di ultimo grado.
2. La fattispecie
La vicenda prende le mosse dall’impugnazione, dinanzi al TAR, del giudizio di inidoneità di una aspirante Commissaria della Polizia di Stato, espresso dalla Commissione medica presso il Ministero dell’Interno, per carenza dei requisiti psico-fisici ex art. 3, c. 2, del D.M. 198/2003 e, segnatamente, per la presenza di un tatuaggio sulla gamba, costituente, trattandosi di una donna, di una parte del corpo non nascosta dall’uniforme per le occasioni di gala (ove è previsto che sia indossata la gonna con le calze).
Tra le ragioni di censura prospettate in primo grado, ed accolte dal TAR, vi è stata la circostanza che si stesse discorrendo di un residuo cicatriziale, e non più di un tatuaggio vero e proprio, che sarebbe quindi risultato invisibile attraverso le calze previste dall’uniforme.
Sulla questione, a parere dei Giudici di prime cure, l’Amministrazione non avrebbe specificamente chiarito, in motivazione, in quale misura la visibilità di un tatuaggio fosse tale da determinare l’inidoneità al servizio nella polizia, né avrebbe valutato la circostanza che, alla data della visita medica concorsuale, fosse già in itinere il trattamento di rimozione del tatuaggio.
La pronuncia, impugnata dal Ministero, è stata ribaltata dal Consiglio di Stato, che, di contro, ha valorizzato l’irrilevanza della rimozione del tatuaggio in epoca successiva alla data di partecipazione alla selezione, in quanto ammettere l’acquisibilità successiva di un requisito di idoneità avrebbe inevitabilmente comportato la violazione della par condicio tra i concorrenti.
La pronuncia di appello è stata, quindi, gravata dall’aspirante commissaria con ricorso per revocazione per errore di fatto, costituito – nella prospettazione della ricorrente – dall’errore sulla visibilità del tatuaggio.
L’inconfigurabilità, in tale ipotesi, di un errore revocatorio (non trattandosi di un c.d. “abbaglio dei sensi” ed avendo, la questione, costituito proprio un punto controverso e centrale della pronuncia di appello), non ha potuto che determinare la declaratoria di inammissibilità del ricorso per revocazione.
Avverso la sentenza che ha pronunciato sulla revocazione, la ricorrente ha, infine, proposto ricorso per cassazione – possibile per le sentenze del Giudice amministrativo solo per questioni attinenti la giurisdizione – avanzando una serie di censure, tra le quali l’eccesso di potere ed il diniego di giurisdizione.
3. Riflessioni conclusive
La pronuncia si pone in assoluta continuità con i numerosi precedenti delle Sezioni Unite in tema di limiti al sindacato sulle sentenze amministrative per questioni inerenti la giurisdizione.
Si tratta di principi, peraltro, già recentemente ribaditi con le ordinanze delle SS.UU, n. 5862/2023, espressamente richiamata, e n. 4591/2023 (in GiurisprudenzaSuperiore.it, Decise, con nota a cura del Dott. Vito D’Alessio) (cfr., anche SS.UU, nn. 37404/2022, 36636/2022, 26165/2022 e 26164/2022, tutte in GiurisprudenzaSuperiore.it, Decise, con note a cura dell’Avv. Maurizio Fusco).
La Corte ha profittato dell’occasione per fornire un sintetico riepilogo delle ipotesi in cui può ritenersi configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale, nonché delle ipotesi di difetto relativo di giurisdizione, che ricorre allorquando risultino travalicati i cc.dd. limiti esterni della giurisdizione con invasione dell’ambito attribuito alla giurisdizione di altro Giudice, ordinario o speciale.
Viene escluso che possa costituire questione inerente la giurisdizione il cattivo esercizio della stessa, attraverso l’applicazione di regole di giudizio che portino il Giudicante a negare tutela alla situazione giuridica soggettiva azionata.
In tale ultimo caso, si è al cospetto di una pronuncia di infondatezza della domanda, non di un diniego di giurisdizione, anche allorché, in concreto, la situazione giuridica soggettiva rimanga sfornita di tutela in ragione di errores in iudicando o in procedendo commessi dal Giudice amministrativo di ultima istanza.
Le Sezioni Unite, in un obiter dictum, non mancano, infine, di sottolineare la delicatezza della questione della valutazione dei tatuaggi nelle procedure concorsuali, in ragione del coinvolgimento del tema delle libertà costituzionali, in particolare di espressione, e della parità di genere.