SS.UU, 22 marzo 2023, n. 8268, in tema di filiazione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
SENTENZA
sul ricorso 8291-2022 proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE;
– ricorrente –
contro
RICORSO NON NOTIFICATO AD ALCUNO;
avverso la sentenza n. 14782-2018 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 17/07/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2023 dal Consigliere GIULIA IOFRIDA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale LUISA DE RENZIS, che si riporta, come da memoria già depositata.
Svolgimento del processo
La Procura generale della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 363, comma 1, c.p.c., ha chiesto, con atto depositato il 5/4/2022, l’enunciazione, nell’interesse della legge, del seguente principio di diritto: “Il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c.”.
I fatti di causa dai quali prende le mosse la richiesta della Procura generale sono i seguenti.
A.A., B.B. e C.C., premesso di risultare figli di D.D. e E.E., entrambi deceduti, hanno adito il Tribunale di Roma, nel 2016, chiedendo l’accertamento giudiziale di paternità di F.F..
A sostegno della domanda proposta, gli attori hanno dedotto:
a) di avere appreso che la madre, D.D., aveva intrattenuto una relazione con F.F., proprietario terriero alle cui dipendenze avevano lavorato i coniugi B.B.;
b) che da questa relazione erano nati nove dei dodici figli della donna, tra i quali i tre attori;
c) che questi ultimi non erano stati cresciuti e mantenuti dal presunto padre e avevano vissuto in condizioni di grave indigenza, mentre i figli del F.F., nati nel matrimonio, avevano beneficiato delle elevate consistenze reddituali e patrimoniali del padre;
d) che, sin dal 2010, essi avevano promosso un’azione giudiziale per il disconoscimento della paternità di E.E., marito della madre e, all’esito del giudizio, recepite le conclusioni formulate nella C.T.U. avente ad oggetto indagini ematologiche ed immunogenetiche sul DNA, era stata esclusa l’esistenza del legame di filiazione tra gli attori e lo B.B., ma la sentenza era stata impugnata da parte di uno dei fratelli degli attori, in qualità di erede dello B.B.;
e) nel giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità, si erano costituiti G.G., H.H. ed I.I., eredi del F.F., eccependo, preliminarmente, l’inammissibilità dell’azione proposta, stante la pendenza, dinanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro, del giudizio avente ad oggetto il disconoscimento di paternità e risultando pertanto, allo stato, gli attori figli di E.E., marito della madre;
f) nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale di Roma, gli attori hanno chiesto la sospensione del giudizio in attesa della definizione del processo pendente dinanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro;
g) con sentenza n. 14782/2018, depositata il 17.7.2018, il Tribunale di Roma, rilevato che il procedimento di disconoscimento di paternità azionato dagli attori non era stato ancora definito, essendo pendente appello, accogliendo l’eccezione spiegata dai convenuti e rigettata l’istanza di sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c., essendosi ritenuto che l’art. 295 c.p.c. è una norma di stretta interpretazione (cfr., SS.UU, 10027/2012) e che tra i due giudizi non può dirsi sussistente un rapporto di stretta pregiudizialità, teso ad evitare che si realizzi un contrasto di giudicati, ha dichiarato inammissibile la domanda, richiamato il consolidato orientamento espresso dallo stesso Tribunale di Roma (sentenze del 24.4.2015 e del 19.1.2017), nonchè del giudice di legittimità (Cass. n. 8190/1998 e, da ultimo, Cass. n. 12167/2005 e Cass. n. 487/2014), in forza del quale non è ammesso il riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova (principio sancito dall’art. 253 c.c.), in quanto “presupposto perchè possa essere esperita l’azione di accertamento giudiziale di paternità è l’assenza di uno stato di figlio formalmente accertato”, e condannato gli attori al pagamento delle spese di lite;
h) la predetta sentenza, non impugnata, è passata in giudicato.
La Procura generale, ritenute pertanto sussistenti le condizioni di non ricorribilità per cassazione e di non impugnabilità della decisione giudiziale, previste dall’art. 363, comma 1, c.p.c. per farsi luogo alla richiesta di enunciazione di principio di diritto nell’interesse della legge, ha declinato la questione di diritto nelle seguenti correlate domande:
I) “il giudizio finalizzato ad accertare la paternità al di fuori del matrimonio può essere proposto anche se la paternità del marito non è ancora stata disconosciuta giudizialmente con pronuncia passata in giudicato?”;
II) “il processo di accertamento giudiziale di paternità biologica può essere proposto e sospeso ex art. 295 c.p.c., sulla base di un nesso di pregiudizialità tecnico-giuridica, in attesa della definizione del giudizio di disconoscimento della paternità?”.
Premesso che la questione affrontata dal Tribunale di Roma è stata oggetto di decisione di merito contrastanti che, a loro volta, riflettono l’orientamento non univoco della dottrina, la Procura generale – richiamata anche l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità – ha osservato come la Suprema Corte, nell’ordinanza n. 17392 del 2018, ha chiarito che tra l’azione di disconoscimento della paternità e quella di dichiarazione giudiziale di altra paternità sussiste un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico, con conseguente possibilità di sospensione, ex art. 295 c.p.c..
Nella richiesta ai sensi dell’art. 363 c.p.c., viene altresì evidenziato come appaia necessario che la Corte di Cassazione “affermi e consolidi un principio di diritto compatibile con la piena tutela dei diritti dei soggetti coinvolti, evitando così che una tesi troppo formalistica, e soprattutto poco adeguata al contesto normativo di riferimento, costringa le parti a dover attendere il tempo – non breve, è noto – del giudizio di disconoscimento e di incardinare ex novo un’azione già proposta (quella di accertamento giudiziale della paternità), laddove l’istituto della sospensione ex art. 295 c.p.c. possa soccorrere e conservare gli effetti dell’azione già incardinata, contestualmente o separatamente al giudizio di disconoscimento”.
Si osserva inoltre che, nell’ambito della giurisprudenza di merito, come emblematicamente emerge dalla decisione del tribunale di Roma, ancora “persiste una tendenza ad effettuare confusione nel coordinamento tra i due giudizi, dichiarando l’inammissibilità dell’azione di accertamento giudiziale della paternità nella pendenza dell’azione di disconoscimento, tralasciando di considerare che, di fronte ad un’azione ricostruttiva della filiazione, sia pure promossa prematuramente, la pronuncia di inammissibilità costringe le parti alla nuova proposizione della domanda, ad effettuare nuove spese, a dilatare i tempi del giudizio”, mentre la tesi giuridica che predilige “l’aspetto per così dire sanante o conservativo dell’azione già intrapresa (facendo leva sull’istituto della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c.) è quella che bene accorda i due istituti, meglio tutela i diritti delle parti e rispetta il principio (di valenza generale) di necessaria economia processuale quale strumento di fondamentale importanza per la deflazione dei contenziosi”.
A ciò non osta la formulazione dell’art. 253 c.c. e nemmeno il testo dell’art. 269 c.c. perchè il diverso status filiationis preclude la dichiarazione (l’accertamento) della filiazione al di fuori del matrimonio ma non “la richiesta (la domanda) di una siffatta dichiarazione”.
Si evidenzia, inoltre, nella richiesta, come si possa anche ipotizzare “una frontiera processuale” non incompatibile con il quadro normativo, che, come previsto dall’art. 276, comma 2, c.c. ammette a partecipare al giudizio “chiunque vi abbia interesse”, vale a dire la possibilità che i giudizi di cui si tratta possano essere introdotti cumulativamente, con unico atto introduttivo, dal soggetto che vanti la legittimazione per entrambi i giudizi (ad es. il figlio), anche ammettendo l’ipotesi che il presunto padre naturale possa prendere parte al giudizio di disconoscimento della paternità del marito, non trovando tale ipotesi di introduzione cumulativa ostacolo nel comma 1 dell’art. 247 c.c. poichè il fatto che il figlio, la madre ed il marito siano “parti necessarie del giudizio non comporta che queste siano le uniche parti del giudizio”.
In ordine alle vicende sopravvenute rispetto al deposito della richiesta del P.G., deve rilevarsi, anzitutto, che la Corte Costituzionale, investita, con ordinanza dell’11/3/2021 della Corte d’appello di Salerno (richiamata nella richiesta del P.G. dell’aprile 2022), con sentenza n. 177 del 14/7/2022, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 269, comma 1, c.c. sollevata – in riferimento alla Cost., artt. 2, 3, 24, 29, 30, 111 e 117, comma 1, in riferimento all’art. 8 CEDU, agli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo e dell’art. 24, par. 2, CDFUE – nella parte in cui non consente la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità alle condizioni richieste per il riconoscimento, non permettendo dunque di pronunciare una sentenza dichiarativa della genitorialità prima che sia demolito lo stato attribuito al figlio o, quantomeno, di addivenire ad una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità condizionata all’esito del giudizio demolitivo dello stato di filiazione goduto dal figlio.
Deve, inoltre, essere rilevato che uno dei due attori, C.C., ha proposto ricorso dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, ravvisando una violazione dell’art. 8 della CEDU, in ragione del fatto che l’ordinamento giuridico italiano (artt. 253 e 269 c.c.) non consente l’introduzione di una domanda di riconoscimento della paternità biologica prima della previa rimozione del diverso status (il cui procedimento, ad avviso della ricorrente, ha comunque una durata eccessiva): più precisamente, la ricorrente, dell’età di 68 anni, lamentando, da un lato, l’impossibilità di avviare un’azione per il riconoscimento della paternità nei confronti del padre biologico (in ragione della previsione che subordina l’accertamento di altra paternità al passaggio in giudicato della sentenza relativa al disconoscimento di altra paternità) e, dall’altro, l’eccessiva lunghezza del procedimento di paternità protrattosi, nel caso di specie, per oltre dodici anni.
I giudici di Strasburgo, con sentenza del 6/12/2022, all’esito della camera di consiglio del 15/11/2022, ritenuto il ricorso ricevibile e respinte le eccezioni formulate dal Governo italiano, hanno affermato che:
a) i fatti relativi al procedimento di paternità rientrano incontestabilmente nell’ambito di applicazione dell’art. 8 della Convenzione, che riconosce il diritto di ogni individuo a conoscere le proprie origini e a farle stabilire legalmente, che la “vita privata” può includere aspetti dell’identità non solo fisica, ma anche sociale dell’individuo e che il diritto a conoscere le proprie origini ed a vederle accertate non può essere pregiudicato per il raggiungimento della maggiore età già al momento della proposizione del procedimento interno;
b) trovandosi la ricorrente da dodici anni “nell’incertezza della sua identità personale”, in quanto le è impossibile proporre un’azione per l’accertamento della paternità, poichè la sentenza di disconoscimento di paternità non è ancora definitiva (pendendo ancora, “secondo le ultime informazioni ricevute” dalla Corte, il giudizio di disconoscimento in cassazione), cosicchè lo svolgimento del procedimento deve ritenersi interferire in modo sproporzionato con il diritto al rispetto della propria vita privata, la suddetta violazione dell’art. 8 della Cedu sussiste, atteso che le autorità italiane sono venute meno al loro obbligo positivo di garantire alla ricorrente il diritto al rispetto della sua vita privata, con conseguente, in applicazione dell’art. 41 della Convenzione, condanna dello Stato italiano al risarcimento, a titolo di danno morale, della somma di Euro 10.000,00 ed al pagamento delle spese.
In merito alla compatibilità del sistema italiano – che prevede che il disconoscimento di paternità sia pregiudiziale rispetto all’accertamento di altra paternità – con l’art. 8 della Cedu, tenuto conto del margine di discrezionalità dello Stato, la Corte Edu ha affermato, in motivazione, che, nell’ambito di un siffatto sistema, devono essere difesi gli interessi della persona che intende determinare la propria filiazione e che tale obiettivo non si realizza quando il procedimento dura diversi anni, peraltro senza possibilità di misure volte ad accelerare il procedimento, e impedisce la proposizione di un’azione di accertamento di paternità; si è richiamata nella sentenza, in un’ottica di dialogo tra le Corti, la decisione della Corte Costituzionale n. 177 del 2022, nella parte in cui è stato sottolineato come il sistema vigente, che richiede la previa demolizione in via giudiziale dello status, costituisce, in effetti, un onere gravoso a carico del figlio che intenda far accertare la propria identità biologica, e rischia di risolversi, oltre che in una violazione del principio di ragionevole durata del processo (Cost., art. 111, comma 2), in un ostacolo “all’esercizio del diritto di azione garantito dalla Cost., art. 24, e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica” (sentenza n. 50 del 2006) (par. 7).
La Corte Edu ha, altresì, ricordato come la Corte Costituzionale avesse ammonito il legislatore ad intervenire per disciplinare le questioni relative all’accertamento della verità biologica, senza limitare in modo sproporzionato altri diritti costituzionali, e ha espressamente affermato di condividere la seconda criticità ravvisata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 177 del 2022, relativa al rischio per il figlio di rimanere privo di status: quello oramai demolito e quello che potrebbe non palesarsi all’esito del successivo giudizio.
Deve ancora aggiungersi, in relazione all’esito del giudizio di disconoscimento della paternità, che la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro n. 1649/2019, pubblicata il 23/8/2019 – con la quale era stato respinto il gravame proposto da L.L. (uno dei fratelli degli attori) avverso decisione del Tribunale di Catanzaro del 2015, che, dichiarato inammissibile l’intervento in giudizio dei figli dell’asserito padre biologico, F.F., nelle more del giudizio deceduto, aveva accertato che C.C., A.A. e B.B. non erano figli di E.E., – è stata confermata da questa Corte di Cassazione, con ordinanza n. 32628/2022, pubblicata il 4/11/22 (dopo che il giudizio era stato, con ordinanza interlocutoria del 15/9/21, rinviato a Nuovo Ruolo in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite sul contrasto insorto, all’interno della Corte, in merito al carattere della nullità della consulenza tecnica d’ufficio, oggetto di doglianza in un motivo del ricorso, in caso di allargamento dell’indagine oltre i limiti stabiliti dal giudice, contrasto definito con la sentenza delle Sezioni unite n. 3086/2022), essendosi respinto il ricorso per cassazione proposto.
E’ stata formulata istanza di discussione orale. In prossimità dell’udienza pubblica del 7 febbraio 2023, il pubblico ministero ha depositato note illustrative, chiedendo l’accoglimento del principio di diritto sopra trascritto e che la Corte valuti l’opportunità di definire la questione giuridica con una pronuncia ancora più ampia al fine di ipotizzare, in alcuni casi, la possibilità che i giudizi siano introdotti in via cumulativa.
Motivi della decisione
1. La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite attiene all’accertamento dei rapporti tra l’azione di disconoscimento della paternità (azione con cui si contesta lo status di figlio) e quella di dichiarazione giudiziale di genitorialità (azione che tende a conseguire lo status di figlio), con specifico riferimento ai profili processuali, in relazione a decisione resa dal Tribunale di Roma nel 2018, passata in giudicato, di inammissibilità della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, non essendo stata ancora definita la causa, pendente, di demolizione del pregresso status.
1.1. La richiesta è ammissibile, ai sensi dell’art. 363 c.p.c..
Questa Corte, con riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 363, comma 3, c.p.c. – come novellato dal D.Lgs. n. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 4 – ha affermato (Cass. 27187/2007) che “se le parti non possono, nel loro interesse e sulla base della normativa vigente, investire la Corte di cassazione di questioni di particolare importanza in rapporto a provvedimenti giurisdizionali non impugnabili, e il P.G. presso la stessa Corte non chieda l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge, le Sezioni Unite della Corte – chiamate comunque a pronunciarsi su tali questioni su disposizione del Primo Presidente – dichiarata l’inammissibilità del ricorso, possono esercitare d’ufficio il potere discrezionale di formulare il principio di diritto concretamente applicabile. Tale potere, espressione della funzione di nomofilachia, comporta che – in relazione a questioni la cui particolare importanza sia desumibile non solo dal punto di vista normativo, ma anche da elementi di fatto – la Corte di cassazione possa eccezionalmente pronunciare una regola di giudizio che, sebbene non influente nella concreta vicenda processuale, serva tuttavia come criterio di decisione di casi analoghi o simili”.
La richiesta del P.G. di enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge si configura non come mezzo di impugnazione, ma “come procedimento autonomo, originato da un’iniziativa diretta a consentire il controllo sulla corretta osservanza ed uniforme applicazione della legge, con riferimento non solo all’ipotesi di mancata proposizione del ricorso per cassazione, ma anche a quelle di provvedimenti non impugnabili o non ricorribili per cassazione, in quanto privi di natura decisoria, con la conseguenza che l’iniziativa del P.G., che si concreta in una mera richiesta e non già in un ricorso, non dev’essere notificata alle parti, prive di legittimazione a partecipare al procedimento” (cfr., SS.UU, 13332/2010; conf.., SS.UU, 23469/2016 e SS.UU, 19427/2021).
Si tratta di un procedimento del tutto peculiare, in cui non è prevista la instaurazione di un vero e proprio contraddittorio, con la notifica della richiesta del Procuratore generale alle parti o ad eventuali controinteressati, i quali sono privi di legittimazione a partecipare al procedimento, non essendo configurabile in capo agli stessi un interesse giuridicamente rilevante ad intervenire in un processo destinato a concludersi con una pronuncia che, per espresso dettato legislativo, non spiega efficacia nei loro confronti (art. 363, ult. comma, c.p.c..: “La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”; cfr. SS.UU, 13332/2010).
Nella sentenza n. 404/2011, si è poi ritenuta inammissibile la richiesta ex art. 363 c.p.c. del P.G., sul rilievo della sua astrattezza nello specifico, rilevandosi che il principio di diritto richiesto “anche se non è in grado di incidere sulla fattispecie concreta, non può tuttavia prescinderne; tale ricorso, pertanto, pur non avendo natura impugnatoria, non può assumere carattere preventivo o esplorativo, dovendo il P.G. attivarsi soltanto in caso di pronuncia contraria alla legge, per denunciarne l’errore e chiedere alla Corte di ristabilire l’ordine del sistema, chiarendo l’esatta portata e il reale significato della normativa di riferimento”.
Il procedimento, promosso in seguito alla richiesta del Procuratore generale e disciplinato dal comma 10 dell’art. 363 c.p.c., richiede la ricorrenza dei seguenti presupposti processuali (v. SS.UU, 18 novembre 2016, n. 23469; SS.UU, 1946/2017):
a) l’avvenuta pronuncia di uno specifico provvedimento giurisdizionale non impugnato o non impugnabile nè ricorribile per cassazione;
b) l’illegittimità del provvedimento stesso (o, in caso di pluralità di provvedimenti divergenti, di almeno uno di essi), quale indefettibile momento di collegamento ad una controversia concreta;
c) un interesse della legge, quale interesse generale o trascendente quello delle parti, all’affermazione di un principio di diritto per l’importanza di una sua formulazione espressa.
La Riforma di cui al D.Lgs. n. 10 ottobre 2022, n. 149 non ha inciso sulla disposizione in esame. Orbene, i requisiti sopra indicati ricorrono tutti nel caso in esame.
Invero, il Procuratore generale specifica di avere formulato la richiesta, non in via astratta o esplorativa, ma con riferimento ad un ben preciso e pertinente caso della vita venuto all’esame del Tribunale di Roma e risolo con declaratoria di inammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità dei sigg.ri A.A., passata in giudicato, e nella richiesta della Procura, con denuncia dell’errore e istanza a questa Corte di ristabilire l’ordine del sistema, si è evidenziata l’esistenza, non solo presso tale ufficio giudiziario ma anche presso altri tribunali d’Italia, di un orientamento opposto a quello seguito da questa Corte nella sentenza n. 17392/2018, il che rende apprezzabile la sussistenza di un interesse ad una pronuncia che, “prescindendo completamente dalla tutela dello ius litigatoris, si sostanzia nella stessa enunciazione del principio di diritto richiesta alla Corte, finalizzata alla stabilizzazione della giurisprudenza” (SS.UU,13332/2010).
Il tutto anche tenuto conto delle implicazioni Eurounitarie nella materia conseguenti alla violazione dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, CEDU.
2. La richiesta del Procuratore Generale è fondata, per le ragioni che seguono.
2.1. In generale, sui diversi modi di accertamento della filiazione.
Nonostante la riforma della filiazione, attuata con L. 10.12.2012 n. 219 e con il D.lgs. 28.12.2013 n. 154, abbia riconosciuto la parità giuridica di tutti i figli (art. 315 c.c.), ispirandosi all’obiettivo di “eliminare ogni discriminazione tra i figli (…) nel rispetto della Costituzione , art. 30“ (della L. 10 dicembre 2012, n. 219, art. 2, comma 1) – così tutelando la condizione giuridica del figlio indipendentemente dal vincolo esistente tra i genitori, in linea con le indicazioni della Costituzione e dei principi affermati dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo – è stata mantenuta, per quanto riguarda l’attribuzione dello stato di figlio, la distinzione tra filiazione all’interno e al di fuori del matrimonio.
Nel primo caso – situazione disciplinata dagli artt. 231, 232 e 234 c.c. – il matrimonio determina l’attribuzione automatica dello stato dei figli dei coniugi, in forza di una presunzione di paternità, secondo la quale “il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio” o del possesso di stato (art. 237 c.c.).
L’art. 231 c.c., che rimane norma cardine del sistema, continua ad essere rubricato come “paternità del marito” e stabilisce che “il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”.
I presupposti per l’applicazione di tale norma sono il matrimonio dei genitori, la maternità della moglie, la nascita o il concepimento in costanza di matrimonio e la paternità del marito.
Tali risultanze possono essere contestate solo con azioni di stato tipiche: l’azione di disconoscimento della paternità, l’azione di contestazione e l’azione di reclamo dello stato di figlio (quest’ultima, ove sia presente un titolo che attesti uno status difforme può essere fatta valere solo dopo aver rimosso quel titolo con la relativa azione, come previsto dall’art. 239, c. 4, c.c.).
In caso di filiazione fuori dal matrimonio, in assenza di meccanismi presuntivi, il figlio acquista il corrispondente titolo allo stato attraverso il riconoscimento da parte dei genitori (artt. 250 e ss. c.c.) o la dichiarazione giudiziale (art. 269 c.c.).
Le azioni di stato esperibili in questo caso sono la dichiarazione giudiziale di genitorialità e l’impugnativa del riconoscimento.
2.2. Riguardo all’azione di disconoscimento della paternità, deve osservarsi che tale azione, diretta a superare lo stato di figlio “legittimo” (dizione questa ormai superata alla luce della Riforma della filiazione del 2013) allo stesso attribuito per effetto delle presunzioni di legge, negando specificamente la paternità di colui che dal titolo risulta padre, presuppone la nascita del figlio e l’attribuzione in capo a quest’ultimo dello stato di figlio legittimo.
Lo stato di figlio legittimo era, nel sistema originario, dotato invero di elevate garanzie di certezza e stabilità, atteso che poteva essere disconosciuto solo in casi limitati (previsti dall’art. 235 c.c.), ad iniziativa di soggetti tassativamente indicati (il marito, la madre ed il figlio e, in seguito alle modifiche di cui alla l. n. 184 del 1983, art. 81, anche un curatore speciale su istanza del figlio minore che abbia compiuto 16 anni o dal pubblico ministero per i minori infrasedicenni) ed entro i termini di cui all’art. 244 c.c.
Prima della riforma, la Corte Costituzionale aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 244 c.c., nella parte in cui, regolando il termine di decadenza annuale per l’esercizio dell’azione, non aveva previsto che esso potesse decorrere anche dalla scoperta dell’adulterio (sentenza n. 134 del 1985) nonchè dalla conoscenza dell’impotenza (sentenza n. 170 del 1999). La giurisprudenza costituzionale aveva rilevato, in proposito: “l’irragionevole esclusione del diritto del padre di agire per il disconoscimento, nel caso di scoperta dell’adulterio oltre un anno dopo la nascita del figlio, poichè l’azione sarebbe inutiliter data” (sentenza n. 134 del 1985), così come aveva contestato la ragionevolezza di una previsione che negava l’azione a chi “non (era) stato a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima” (sentenza n. 170 del 1999).
Ancora la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 50 del 2006, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 274 c.c., osservando come il giudizio di ammissibilità previsto dalla citata norma – non più giustificato alla luce degli sviluppi normativi del diritto di famiglia e del progresso della scienza nei mezzi di ricerca della verifica della paternità – si risolva in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dalla Cost., art. 24, e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica.
Con la sentenza n. 266 del 2006, il giudice delle leggi aveva, poi, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 235 c.c., nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento, condizionava l’esame delle prove tecniche sulla non paternità alla previa dimostrazione di fatti ulteriori: nello specifico, alla prova dell’adulterio.
La sentenza n. 266 del 2006 rilevava, infatti, che “(i)l subordinare (…) l’accesso alle prove tecniche, che, da sole, consentono di affermare se il figlio è nato o meno da colui che è considerato il padre legittimo, alla previa prova dell’adulterio è, da una parte, irragionevole, attesa l’irrilevanza di quest’ultima prova al fine dell’accoglimento, nel merito, della domanda proposta; e, dall’altra, si risolve in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dalla v, art. 24”.
Con la novella introdotta dal D.Lgs. n. 154 del 2013, abrogato l’art. 235 c.c., la disciplina dell’azione di disconoscimento è ora contenuta negli artt. 243 bis c.c. e ss.: all’eliminazione del filtro di previa ammissibilità, si affiancano l’ampliamento dei soggetti legittimati attivi, la previsione dell’imprescrittibilità dell’azione rispetto al figlio, la decadenza quinquennale prevista a carico della madre e del padre che si trovava, al tempo della nascita nel luogo in cui la stessa è avvenuta e la generale previsione in forza della quale “chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre” (con l’eliminazione dell’originario impianto casistico contenuto nell’art. 235 c.c.).
Questa Corte ha quindi precisato che il quadro normativo (Cost., artt. 30, 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali della UE, e 244 c.c.) e giurisprudenziale attuale non comporta la prevalenza del “favor veritatis” sul “favor minoris”, ma impone un bilanciamento fra il diritto all’identità personale legato all’affermazione della verità biologica – anche in considerazione delle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dell’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini – e l’interesse alla certezza degli “status” ed alla stabilità dei rapporti familiari, nell’ambito di una sempre maggiore considerazione del diritto all’identità personale, non necessariamente correlato alla verità biologica ma ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno di una famiglia, specie quando trattasi di un minore infraquattordicenne (Cass. n. 27140/2021; cfr. anche, in tema di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, Cass. n. 4791/2020).
2.3. L’azione di dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità è volta all’accertamento della genitorialità biologica, anche in contrasto con quella legittima, in presenza di figli nati al di fuori del matrimonio.
La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito le caratteristiche dell’azione in esame sottolineando come “il favor veritatis, nell’azione giudiziale di paternità e maternità, sorregge un nucleo di diritti inviolabili della persona umana, quali quello alla genitorialità e ad uno dei profili costitutivi della propria identità personale del quale il richiedente è stato privato per effetto del mancato riconoscimento” (Cass. n. 17773 del 2013).
Nell’originaria disciplina della famiglia e della filiazione, in ossequio al favor legitimitatis, erano previsti limiti molto rigorosi all’accertamento di quella che veniva definita la paternità naturale: l’art. 269 c.c. indicava le ipotesi in cui l’azione era esperibile, l’art. 273 c.c. fissava un termine biennale di decadenza, l’art. 274 c.c. prevedeva un filtro di ammissibilità dell’azione, mentre l’art. 278 c.c. vietava le indagini sulla paternità e maternità, nei casi in cui il riconoscimento era vietato, anche oltre i limiti degli allora vigenti artt. 251-253 c.c..
Malgrado l’eliminazione della tassatività delle ipotesi in cui l’azione era esperibile, la previsione della possibilità di fornire la prova della genitorialità con ogni mezzo, l’indicazione dell’imprescrittibilità dell’azione del figlio e l’abrogazione dell’art. 275 c.c., introdotte dalla riforma del 1975, permanevano delle criticità che, prima della riforma degli anni 2012 e 2013, sono state rimosse solo grazie agli interventi della Corte Costituzionale.
Vanno qui richiamate, in particolare, le sentenze n. 341 del 1990 (che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 274 c.c., nella parte in cui, nell’ipotesi di minore infrasedicenne, non prevedeva che l’azione promossa dal genitore esercente la potestà fosse ammessa solo quando ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del figlio), n. 494 del 2002 (che, incidendo sull’art. 278 c.c., ha consentito l’accertamento per via giudiziaria dello status filiationis dei figli incestuosi), n. 50 del 2006 (che ha dichiarato illegittimo il filtro di ammissibilità dell’art. 274 c.c.), n. 266 del 2006, la quale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con la Cost., art. 24, l’art. 235, comma 1, n. 3, c.c., nella parte in cui ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità subordina l’esame delle prove tecniche, da cui risulta “che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre”, alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.
Si è così sancito il definitivo abbandono della presunzione (assoluta) per cui l’interesse del minore coincide e si soddisfa di per sè con l’acquisizione dello status corrispondente a verità, richiedendosi una valutazione in concreto del predetto interesse, con particolare riferimento “ai benefici dell’ampliamento della sfera affettiva, sociale ed economica del minore” (aspetto, quello relativo all’interesse del minore nell’attribuzione dello status, sul quale, in ragione dei fatti oggetto della richiesta della Procura generale, non ci si soffermerà in questa sede).
Con specifico riferimento all’azione in esame, la riforma della filiazione del 2012-2013 non ha dunque introdotto particolari novità, ad eccezione della previsione della legittimazione passiva in caso di azione proposta dopo la morte del genitore (art. 276 c.c.). Tuttavia, il sistema binario di necessaria preventiva demolizione dello stato di filiazione ai fini dell’esperimento dell’azione di accertamento giudiziale di genitorialità, confermato nella Riforma, risulta mitigato, come osservato in dottrina, dalle modifiche apportate alla disciplina dell’azione di disconoscimento della paternità, le quali hanno fortemente inciso – rendendola più immediata – sulla conseguibilità dello status filiationis veridico da parte di chi goda dello stato di figlio nato nel matrimonio: si pensi all’abrogazione dei presupposti tassativi di cui all’art. 235 c.c., abrogato, e all’attuale formulazione dell’art. 243, comma 2, c.c., secondo cui, sul piano probatorio, il marito è ammesso a provare che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, o ogni altro fatto tendente ad escludere la paternità.
La riforma si è poi mossa, per quanto attiene all’azione in esame, nell’ottica di un rafforzamento dei poteri del figlio (attraverso la previsione dell’imprescrittibilità dell’azione di disconoscimento prevista dall’art. 270 c.c., anche nell’esigenza di assimilazione di tale azione a quella di impugnazione del riconoscimento) e della limitazione del ruolo degli altri soggetti interessati alla vicenda della filiazione (art. 273 c.c.).
Il processo di omogenizzazione della disciplina delle due azioni, di impugnazione del riconoscimento e di disconoscimento, ha condotto all’introduzione di termini prescrizionali, salva l’imprescrittibilità riguardo al figlio, per l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità (art. 263, comma 3, c.c.), in particolare prevedendosi che l’azione non possa essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento (ma la Corte Costituzionale, con sentenza del 12 maggio – 25 giugno 2021, n. 133, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della richiamata disposizione nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità), e di un analogo termine decadenziale per l’azione di disconoscimento di cinque anni dalla nascita (art. 244, ultimo comma, c.c.) per l’esperimento dell’azione di stato per i legittimati diversi dal figlio. Il tutto, in una funzione di contenimento della accresciuta potenziale precarietà del rapporto genitoriale, dovuta anche alle sempre più evolute tecniche di accertamento dei legami biologici, anche a distanza di anni, ed allo scopo di proteggere il minore dai pregiudizi derivanti dalla recisione di legami affettivi e relazionali nel frattempo consolidatisi.
2.4. E’ impossibile, nel nostro ordinamento, far valere lo stato di figlio prima di aver rimosso il titolo cui risulta uno status contrastante.
L’art. 269, comma 1, c.c. pone la regola (comune al riconoscimento, ex art. 253 c.c. e all’azione di reclamo dello stato di figlio legittimo, ex art. 239, comma 4, c.c.) in forza della quale la paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate soltanto “nei casi i cui il riconoscimento è ammesso” e l’art. 253 c.c. prescrive che tale atto non è ammesso quando si ponga “in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova”.
Ne deriva che sia l’accertamento giudiziale positivo della filiazione fuori dal matrimonio sia l’atto di riconoscimento negoziale non possono intervenire quando si pongano “in contrasto” con lo stato di figlio preesistente (art. 253 c.c.), allo scopo di impedire una sovrapposizione di stati di filiazione tra loro in contrasto, stante il carattere unico ed indivisibile dello status.
Questa Corte ha più volte precisato che “la condizione di “figlio legittimo” è ostativa all’accoglimento della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità da parte di colui che assume di essere il padre biologico, atteso che deve, prima, essere rimosso lo stato di “figlio legittimo”, con accertamento efficace erga omnes (Cass. n. 27560/2021) e che la rimozione dell’impedimento, costituito ad un diverso stato di figlio, decorre solo dal passaggio in giudicato dell’azione di disconoscimento (Cass. n. 15990/2013).
Nel nostro ordinamento non è infatti ammesso il c.d. “riconoscimento di rottura” che, in certi sistemi giuridici, estingue autonomamente, senza l’intervento del giudice, il titolo di figlio legittimo o figlio naturale riconosciuto.
Presupposto dell’accertamento giudiziale della filiazione fuori dal matrimonio (così come per il riconoscimento) è, dunque, la demolizione dello stato di figlio preesistente.
Atteso che tale stato è provato da un titolo, nell’attuale sistema, è richiesto il passaggio in giudicato della sentenza che conclude il giudizio demolitivo dello stato preesistente: giudicato sul disconoscimento della paternità (art. 243 bis c.c. e ss., per quel che rileva in questa sede), sulla contestazione dello stato di figlio (art. 240 c.c.) o sull’impugnazione del riconoscimento (art. 263 c.c.).
Come precisato anche da parte della dottrina, il riconoscimento inammissibile ex art. 253 c.c., non è da ritenersi nullo, ma inefficace (atteso che il titolo vigente gli si oppone ab externo), con la conseguenza che, come affermato da tempo da questa Corte (Cass. n. 10838/1997; Cass. n. 2782/1978), il riconoscimento, originariamente inefficace per contrasto con lo stato di figlio nato nel matrimonio, diviene efficace ex tunc, ove sia accolta l’azione di disconoscimento della paternità.
2.5. E’ utile fare richiamo ai recentissimi interventi del 2022 della Corte Costituzionale e della Corte EDU, nonchè ad alcuni cenni di diritto comparato.
Sulla scelta di garantire il carattere unico e indivisibile dello status, si è recentemente pronunciata la Corte Costituzionale (sentenza n. 177 del luglio 2022), chiamata ad intervenire su questione di legittimità costituzionale dell’art. 269 c.c., in rapporto all’art. 253 c.c., sollevata dalla Corte di appello di Salerno, affermando che la scelta di richiedere la previa demolizione in via giudiziale dello status, anzichè una sua rimozione automatica per effetto del successivo accertamento di un’identità contrastante, ha una duplice spiegazione:
a) anzitutto, l’esigenza di “evitare un’instabilità e un’incertezza dello status” dal quale si diramano plurimi effetti, in campo pubblicistico e privatistico, atteso che “lo status è comprovato da un titolo, dotato di funzione certativa erga omnes, in quanto fondato su presunzioni legali o sull’atto di riconoscimento”, precisandosi che “quando non erano ancora disponibili le cosiddette prove scientifiche (in specie, i test genetici), non si sarebbe giustificata una sua caducazione solo in quanto contraddetto dall’accertamento di un diverso e confliggente status, all’esito di un giudizio che si avvaleva di mezzi di prova connotati da un tasso di affidabilità limitato (di regola, presunzioni e testimonianze)”, ragione questa, prosegue il Giudice delle leggi, oggi “fortemente incrinata dall’evoluzione della scienza, che ha reso disponibili prove capaci di offrire un grado elevatissimo di affidabilità nel dimostrare la sussistenza o insussistenza di un vincolo biologico (in proposito, Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 6 ottobre 2021, n. 27140)”, con la conseguenza che, rispetto al passato, in cui lo status, comprovato dal titolo, si caratterizzava per una notevole resistenza, “attualmente i nuovi accertamenti disponibili potrebbero suggerire soluzioni differenti, come, per l’appunto, la caducazione dello status antecedente, con il relativo titolo, quale effetto di un nuovo accertamento con esso incompatibile”;
b) l’esigenza della previa azione demolitiva risiede, ad avviso della Corte Costituzionale, anche nel fine di dovere “assicurare a chi è già titolare dello status di genitore di essere parte, e dunque di avere una congrua tutela sostanziale e processuale, nel giudizio che può incidere sul suo legame familiare”, rilevandosi come un intervento sull’art. 269 c.c. che escludesse la necessità dell’azione demolitiva dovrebbe garantire, in altro modo, un’adeguata protezione a chi è titolare del precedente status, il quale è propriamente parte solo nel giudizio in cui è contestato lo status preesistente.
Alla luce delle predette considerazioni, la Corte costituzionale ha concluso che, nonostante si tratti di una disposizione “non priva di criticità sotto il profilo costituzionale”, “per rimuovere il vulnus lamentato dal giudice a quo, eliminando la condizione del giudizio demolitivo del precedente status, sarebbe necessaria – alla luce dell’evoluzione delle tecniche di accertamento della filiazione – una riforma di sistema idonea a farsi carico di molteplici profili” e della complessità degli interessi, di rango costituzionale, coinvolti, ad esempio dovendosi disporre, nel giudizio intrapreso per l’accertamento della nuova identità, l’intervento necessario del genitore che vanta, sulla base del preesistente titolo, un legame familiare, e conseguentemente, rientrando nei compiti del legislatore procedere ad una “revisione organica della materia in esame” (revisione già da tempo auspicata da Corte Cost. n. 100 del 2022, ma cfr. anche sentenze n. 143, n. 100 e n. 22 del 2022, n. 151, n. 32 e n. 33 del 2021; n. 80 e n. 47 del 2020, n. 23 del 2013) e stante il carattere generico del petitum, ha dichiarato inammissibile la questione prospettata in via principale.
E’ stata poi dichiarata inammissibile anche la questione di illegittimità costituzionale sollevata dai giudici remittenti in via subordinata, in ordine alla possibilità di addivenire d una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità condizionata sospensivamente all’esito del giudizio demolitivo, la cui necessità non veniva, in questo caso, messa in discussione, in quanto l’intervento additivo richiesto avrebbe condotto ad una eccessiva manipolazione del sistema, invertendo radicalmente l’ordine di proposizione delle due azioni fissato dal codice, peraltro in una materia, quella processuale, riservata al legislatore.
La Corte, nel dichiararne l’inammissibilità, evidenzia come la introduzione nel sistema di una “sentenza condizionata” si ponga in contrasto con il “principio di discrezionalità del legislatore nella disciplina della materia processuale, salvo che la stessa palesi una “manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute”.
Riguardo alle implicazioni processuali che derivano dal collegamento dell’art. 269 e dell’art. 253 c.c., si è dato conto che vi è stata un’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, che appare avviata verso una configurazione della necessaria rimozione del pregresso status non più come presupposto processuale dell’azione di dichiarazione giudiziale della paternità (o maternità) che rende inammissibili o improponibile la domanda (Cass. n. 8190/1998), ma come questione pregiudiziale in senso tecnico-giuridico, non ostativa alla proposizione della domanda ma solo al suo accoglimento, il che renderebbe necessaria una sospensione del giudizio pregiudicato in attesa della definizione del giudizio pregiudiziale (Cass. n. 17392/2018), rilevandosi che tale soluzione ermeneutica della sospensione ex art. 295 c.p.c. del giudizio e art. 269 c.p.c. non sarebbe applicabile nel giudizio a quo, nel quale non era stato neppure ancora avviato il processo relativo al disconoscimento di paternità, e comunque essa è idonea solo a “temperare” non anche a sanare l’asserito vulnus ai principi costituzionali. In particolare, si è evidenziato che “se è vero che l’esistenza di un nesso di pregiudizialità tecnica tra i due giudizi consente la loro proposizione cumulativa (art. 103 c.p.c.) o la loro riunione per connessione (art. 274 c.p.c.), si tratta di facoltà non sempre esperibili: nello specifico, la riunione dipende dallo stadio di avanzamento dei due giudizi”.
La declaratoria di inammissibilità non ha comunque impedito alla Corte di precisare le criticità del sistema vigente, che richiede la previa demolizione in via giudiziale dello status. In particolare, la Corte ha sottolineato come “la necessità di un giudizio articolato in più gradi, che si concluda con una sentenza passata in giudicato demolitiva del precedente status, costituisce, in effetti, un onere gravoso a carico del figlio che intenda far accertare la propria identità biologica, e rischia di risolversi, oltre che in una violazione del principio di ragionevole durata del processo (Cost., art. 111, comma 2), in un ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dalla Cost., art. 24, e ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica” (par. 7).
Una seconda criticità risiede, ad avviso della Corte, nel rischio per il figlio “di rimanere privo di status: quello oramai demolito e quello che potrebbe non palesarsi all’esito del successivo giudizio; rischio particolarmente grave quando riguardasse un minore, il cui interesse ai legami familiari merita – com’è noto – particolare tutela (si vedano le sentenze di questa Corte n. 127 del 2020 e n. 272 del 2017 e, in una prospettiva analoga, le pronunce della Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza n. 27140 del 2021 e sentenza 22 dicembre 2016, n. 26767)” (par. 7).
Si è dunque evidenziato come sia tempo di rivedere in termini semplificanti il rapporto tra demolizione e accertamento dello stato, in quanto il sistema duale, se prima dell’avvento delle prove genetiche era funzionale al raggiungimento della certezza in ordine alla non veridicità dello stato di filiazione in essere, ora è divenuto inattuale stante il carattere di preminenza del risultato dell’esame genetico, idoneo a provare o negare la genitorialità con un grado di sostanziale certezza. La Corte EDU, nella sentenza del 6/12/2022 sopra citata, ha fatto, come già rilevato, ampio richiamo alla pronuncia della Consulta n. 177/2022.
L’Ufficio del Massimario e del Ruolo di questa Corte ha evidenziato, nella Relazione redatta ai fini del presente procedimento, che la regola in forza della quale il riconoscimento non è efficace sino a quando sussiste la paternità di un altro uomo è comune a molti ordinamenti Europei (Francia, Germania, Spagna).
In Austria, invece, è stata adottata una soluzione diversa, consentendosi l’accertamento dello stato di filiazione anche in contrasto con uno stato preesistente, con previsione di un meccanismo di caducazione dello status precedente.
La paternità del marito della madre può essere annullata da un riconoscimento “di rottura” da parte di un altro uomo, con una procedura di c.d. “scambio di paternità” (p. 150 ABGB: il figlio può agire per la dichiarazione di paternità anche in presenza di uno stato preesistente incompatibile e, in caso di successo, essa è di per sè in grado di provocare la caducazione dello stato incompatibile e dunque di fatto una scambio di paternità) e attraverso l’accertamento del “difetto di paternità del marito della madre”. In particolare, per il riconoscimento della paternità “di rottura”, il p. 147 ABGB dispone che la paternità di un uomo già stabilita (in forza di un matrimonio o di un provvedimento del tribunale) può essere rimossa e tale riconoscimento diventa efficace solo a seguito del consenso del figlio (che, se minorenne, deve essere accompagnata dall’indicazione da parte della madre del nome dell’uomo che ha effettuato il riconoscimento quale padre del nato) prestato in forma pubblica. In Austria, Germania, Olanda, Spagna e in Portogallo, inoltre, le due azioni possono essere promosse nello stesso processo.
2.6. In ordine ai profili processuali relativi al rapporto tra azione di disconoscimento di una e di accertamento di altra paternità, occorre, anzitutto, chiarire se la rimozione dello status di figlio costituisca un presupposto processuale della domanda o una questione pregiudiziale in senso tecnico-giuridico.
All’esito della pronuncia di incostituzionalità della preventiva delibazione che connotava il giudizio avente ad oggetto la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità, ai sensi dell’art. 274 c.c. (sentenza della Corte Cost. n. 50 del 2006), non appare più predicabile l’assunto secondo cui la rimozione del preesistente status di figlio costituirebbe un “presupposto processuale della domanda”.
Questo giudice di legittimità, prima della suddetta declaratoria di incostituzionalità di tale disposizione, aveva ritenuto che tra i motivi di improponibilità della domanda (che potevano, da soli, risolvere la lite, portando ad una declaratoria di inammissibilità) fosse ricompresa la richiesta di riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio “legittimo” (Cass. n. 7447/1993; Cass. n. 7644/1995; Cass. n. 8190/1998) o legittimato, proprio ragionando sulla previgente formulazione dell’art. 274 c.c. (ormai abrogata).
Nel precedente del 1998 (richiamato dal Tribunale di Roma nella sentenza del 2018 attinente alla vicenda che ha dato luogo alla richiesta della P.G. in esame) si affermava che “il giudizio instaurato per la dichiarazione della paternità o maternità naturale ha inizio con l’accertamento della previa ammissibilità della relativa domanda (art. 274 c.c.), e prevede una prima fase procedimentale (collegata, senza soluzione di continuità sul piano processuale, a quella, eventuale e successiva, che conduce alla pronuncia sullo stato della persona) in cui il giudice adito è tenuto ad esaminare, con pienezza di cognizione, le questioni preliminari non soltanto di rito, ma anche di merito, e, tra esse, la esistenza di motivi di improponibilità della domanda che possano già, “ex se”, risolvere immediatamente la controversia, con la conseguenza che l’azione predetta va dichiarata inammissibile se proposta in presenza della situazione prevista dal precedente art. 253 c.c. (richiesta di riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo o legittimato)”.
Con riferimento alla seconda questione, si possono ripercorrere le risposte della giurisprudenza di legittimità e di merito alla qualificazione del rapporto tra le due azioni in esame.
Un primo orientamento, più risalente nel tempo e più volte invocato a sostegno della tesi ermeneutica sostenuta nella sentenza del Tribunale di Roma (che, si rammenta, ha dichiarato inammissibile la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità), si è formato con riferimento a fattispecie diverse rispetto a quella in esame.
Deve anzitutto rammentarsi che, già nella sentenza n. 14315 del 2001, questa Corte aveva affermato che il padre naturale non è legittimato neppure ad intervenire in appello in un giudizio di disconoscimento della paternità, essendo tale legittimazione riconosciuta a chi potrebbe proporre opposizione ai sensi dell’art. 404 c.p.c., rimedio esperibile solo da chi faccia valere un diritto autonomo e incompatibile col rapporto giuridico accertato o costituito dalla sentenza opposta, e quindi solo a favore di chi sia pregiudicato in un suo diritto.
Il principio è stato ribadito in Cass. n. 1784/2012 (“nel giudizio per il disconoscimento della paternità, non è ammissibile l’intervento di colui che è indicato come padre naturale, non potendo la controversia sul relativo riconoscimento avere ingresso sino a quando la presunzione legale di legittimità della filiazione non sia venuta meno con il vittorioso esperimento dell’azione di disconoscimento”).
Orbene, con sentenza del 9 giugno 2005 n. 12167, questa Corte ha affermato che colui verso cui sia stata proposta l’azione di accertamento della paternità non è titolato a contrastare, con l’opposizione di terzo semplice, la pronuncia con cui è stata accolta l’azione di disconoscimento della paternità legittima proposta, verso altro soggetto, da colui che si affermi suo figlio (nella specie, (Omissis) aveva appreso dalla madre di essere figlio di (Omissis) e non del marito della stessa, (Omissis), aveva proposto ricorso, il Giudice aveva dichiarato ammissibile l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti di (Omissis) ed il Tribunale aveva dichiarato che egli non era figlio di (Omissis); tanto premesso, l’attore aveva poi chiesto che venisse dichiarata ammissibile l’azione per la dichiarazione della paternità nei confronti di P.G., il quale costituendosi, aveva contestato la fondatezza della domanda e chiesto la sospensione del giudizio, ex art. 295 c.p.c., fino alla definizione di quello di opposizione di terzo, da lui introdotto ai sensi dell’art. 404 c.p.c. avverso la sentenza con cui il Tribunale aveva disconosciuto la paternità di (Omissis); nel caso esaminato, pertanto, l’esclusione del nesso di pregiudizialità è stata argomentata da questa Corte, in forza del rilievo per cui la paternità legittima non può essere nè messa in discussione nè difesa da colui che è indicato come padre naturale, atteso che, quando si deduce che l’esito positivo dell’azione di disconoscimento di paternità si riverbera sull’azione di riconoscimento della paternità promossa nei suoi confronti, egli in realtà si limita a far valere un “pregiudizio di mero fatto”, laddove il rimedio contemplato dall’art. 404 c.p.c. presuppone, in capo all’opponente, un diritto autonomo la cui tutela sia incompatibile con la situazione giuridica risultante dalla sentenza impugnata).
Il predetto principio è stato ribadito anche nella sentenza n. 430 del 16 gennaio 2012, per affermare che nè colui che sia indicato come padre naturale, nè i suoi eredi, sono legittimati passivi nel giudizio di disconoscimento della paternità e che la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento è opponibile nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio ed anche in Cass. n. 12211/2012; ad analoghe conclusioni, giunge anche la successiva sentenza n. 487 del 13 gennaio 2014 (relativa, ancora, ad un’opposizione di terzo proposta dall’asserito padre naturale avverso una sentenza che aveva accolto la domanda di disconoscimento della paternità), nella quale si è dichiarata manifestamente infondata, in relazione alla Cost., artt. 24, 29 e 30, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 244 c.c., 395, n. 1, e 404 c.p.c., nella parte in cui limitano la proponibilità dell’opposizione di terzo o l’intervento del soggetto indicato come padre naturale, o dei suoi eredi, nel giudizio di disconoscimento di paternità, promosso da colui che solo all’esito del positivo esperimento di tale azione potrà chiedere il riconoscimento di paternità, precisandosi come l’insussistenza del nesso di pregiudizialità tra i due giudizi discenda anche dal fatto che “nè colui che sia indicato come padre naturale, nè i suoi eredi, sono legittimati passivi nel giudizio di disconoscimento della paternità e la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento è opponibile nei confronti di tali soggetti, anche se non hanno partecipato al relativo giudizio”.
La posizione del padre naturale rispetto al giudizio demolitorio dello status si trova riaffermata in Cass. n. 20953/2018 (relativamente a giudizio di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 c.c.), Cass. n. 18601/2021, Cass. n. 27560/2021 (ove si chiarisce che il padre biologico, non legittimato a promuovere il giudizio di disconoscimento della paternità, nè potendo intervenire in tale giudizio o promuovere l’opposizione di terzo contro la decisione ivi assunta – in qualità di “altro genitore”, può comunque chiedere, ai sensi dell’art. 244, comma 6, c.c., la nomina di un curatore speciale, che eserciti la relativa azione, nell’interesse del presunto figlio infraquattordicenne).
Il secondo orientamento, fatto proprio da questa Corte nella richiamata (in sede di richiesta ex art. 363 c.p.c.) ordinanza n. 17392 del 3 luglio 2018, si pronuncia sulla specifica questione (diversa da quella esaminata dalle pronunce appena richiamate) dell’influenza che l’accoglimento della domanda di disconoscimento è idonea a spiegare sul giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità, avendo proprio riguardo alla condizione posta dall’art. 269, comma 1, c.c., adottando una soluzione interpretativa già affermata, come sopra rammentato, dalla Corte con riferimento al riconoscimento (invero, già con sentenza n. 10838 del 5.11.1997, si era, infatti, affermato che un riconoscimento originariamente improduttivo di effetti giuridici, in quanto in contrasto con lo stato di figlio legittimo del riconosciuto, diventa efficace ex tunc a seguito del vittorioso esperimento dell’azione di disconoscimento della paternità), nel senso di uno stemperamento della rigidità del sistema binario demolitivo-accertativo.
Nel caso portato all’attenzione della Corte, l’attrice aveva convenuto in giudizio gli eredi di (Omissis), defunto, chiedendo di accertare che costui era suo padre. Con successivo atto, la stessa aveva poi evocato in giudizio la propria madre e le altre figlie di (Omissis) affinchè venisse disconosciuta la paternità di quest’ultimo. Il Tribunale di Torino, ex art. 295 c.p.c., aveva disposto la sospensione del giudizio. Contro tale provvedimento alcuni eredi di (Omissis) avevano proposto regolamento di competenza, evidenziando come il disconoscimento della paternità non avrebbe potuto costituire l’antecedente logico-giuridico dell’accertamento della paternità, che doveva essere dichiarato inammissibile.
Questa Corte, dopo aver precisato che i principi affermati dalle richiamate sentenze n. 12167 del 2005 e n. 487 del 2014 avevano scrutinato il nesso tra i due giudizi da angolazioni diverse rispetto a quella rilevante nel caso di specie, ha richiamato il disposto dell’art. 253 c.c. (“in nessun caso è ammesso un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova”), per sottolineare come l’accertamento contenuto in una sentenza che accoglie l’azione di disconoscimento di paternità ha efficacia ultra partes e retroattiva travolgendo, con effetti ex tunc, lo stato fino a quel momento goduto dal figlio (come già più volte affermato da Cass. n. 2782 del 1978; Cass. n. 10838 del 1997; Cass., n. 430 del 2012) e, dunque, “non può non riverberarsi sul giudizio di accertamento pendente determinando, nel caso di vittorioso esperimento dell’azione di disconoscimento, il definitivo venir meno di quella condizione (di figlio legittimo) che era originariamente ostativa all’accoglimento della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità”. Tanto premesso, prosegue la Corte, non sembra contestabile che l’accertamento con cui viene rimosso (o mantenuto) lo stato di figlio legittimo sia “pregiudiziale rispetto a quello con cui è rivendicata altra paternità”.
Viene ravvisato, pertanto, un nesso di pregiudizialità in senso tecnico-giuridico che giustifica la sospensione, così da evitare pronunce contrastanti (ove, in particolare, la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità venisse, in ipotesi, accolta, laddove, per effetto del rigetto dell’azione di disconoscimento, non potrebbe esserlo).
In termini più ampi, questa Corte osserva altresì che la tesi della inammissibilità del giudizio ex art. 269 c.c., pendente quello demolitivo, porterebbe all’irragionevole risultato di condurre ad una pronuncia di inammissibilità anche nell’ipotesi in cui “successivamente all’introduzione di quel giudizio, ma prima della pronuncia che lo definisca, la res iudicata in questione si sia formata”. Ancora con riferimento al rapporto di pregiudizialità, questa Corte sottolinea come non costituisca ostacolo alla pronuncia ex art. 295 c.p.c. il fatto che il giudizio pregiudicante intercorra tra soggetti diversi. In particolare si sottolinea come il rapporto di pregiudizialità viene escluso tra causa pendenti tra soggetti diversi allo scopo di evitare che la parte rimasta estranea ad uno di essi possa eccepire l’inopponibilità, nei propri confronti, della relativa decisione, ma tale eventualità è da escludere nel rapporto tra disconoscimento della paternità ed accertamento di altra paternità atteso che la sentenza resa in esito al giudizio di disconoscimento ha efficacia erga omnes.
Il principio affermato nella sentenza del 2018 è stato poi ribadito nella successiva ordinanza n. 19956 del 13 luglio 2021 (nella quale la Corte ha altresì precisato come, nel giudizio di accertamento della paternità di un minore nato in costanza di matrimonio, promosso a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che ha accolto la domanda di disconoscimento della paternità del marito della madre, l’eccezione di tardività di quest’ultima azione, formulata dal presunto padre, debba ritenersi inammissibile perchè la sentenza che accoglie la domanda di disconoscimento della paternità assume autorità di cosa giudicata erga omnes, opponibile anche al presunto padre, anche se non ha partecipato al relativo giudizio).
Secondo una dottrina, che ha condiviso l’indirizzo espresso dal giudice di legittimità, proprio i termini utilizzati nell’art. 269 c.c. orientano nel senso fatto proprio dalla Cassazione: la norma, infatti, afferma come il diverso status filiationis preclude la dichiarazione (vale a dire la sentenza che accerta) della filiazione al di fuori del matrimonio e non la richiesta (cioè la domanda) di tale dichiarazione.
Lo stesso autore ha evidenziato, altresì, come la soluzione suggerita dalla Corte presenti vantaggi anche in termini di economia processuale (atteso che, di fronte ad un’azione ricostruttiva della filiazione proposta prima della demolizione dello status preesistente, non costringe le parti ed il giudice ad un’immediata pronuncia di inammissibilità) e di ragionevole durata del processo.
Ad avviso di questa parte della dottrina, inoltre, la tesi in esame presenterebbe una valenza rivoluzionaria, consentendo al padre naturale di prendere parte al giudizio di disconoscimento.
2.7. La giurisprudenza di merito registra, parimenti, due orientamenti contrastanti:
a) in forza del primo orientamento, parte della giurisprudenza ha dichiarato inammissibili le domande volte ad ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità, ove proposte nel medesimo giudizio avente ad oggetto il disconoscimento della paternità (Trib. Roma 19.1.2017 n. 914, chiamata a pronunciarsi sulla domanda di disconoscimento proposta dall’uomo che aveva effettuato al momento della nascita il riconoscimento – e che, solo molti anni dopo, aveva scoperto non essere il padre – nei confronti di colei che risultava sua figlia, ha dichiarato improcedibile la domanda riconvenzionale spiegata da quest’ultima, avente ad oggetto la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti del padre biologico, evocato in giudizio dall’attore; le medesime argomentazioni sono contenute nella successiva sentenza del Tribunale di Roma n. 14782 del 17.7.2018 – dalla quale ha preso le mosse la presente richiesta della Procura generale – che, chiamata a pronunciarsi rispetto ad una domanda di disconoscimento pendente in grado di appello, ha escluso la possibilità di disporre la sospensione ex art. 295 c.p.c., in forza dei principi affermati dalla Suprema Corte in merito alla diversa fattispecie relativa all’opposizione di terzo proposta dall’asserito padre naturale avverso una sentenza che aveva accolto la domanda di disconoscimento della paternità, nelle pronunce sopra esaminate; in conformità, Tribunale di Bari, nella sentenza n. 1038 del 25.2.2016, relativa ad un giudizio nel quale erano state contestualmente proposte la domanda di disconoscimento di paternità, in via principale, e quella di dichiarazione giudiziale di altra paternità, in via riconvenzionale, ed il Tribunale di Nola, nella sentenza n. 1971 del 26.9.2019, nella quale, pur condivisi i principi affermati dalla Suprema Corte nell’ordinanza n. 17392 del 2018, con riferimento alla sospensione ex art. 295 c.p.c., il Tribunale si limita ad osservare come, in assenza di contestualità processuale delle due azioni, non possa farsi applicazione di detta norma);
b) un secondo orientamento si è espresso, al contrario, in modo favorevole alla contestuale proposizione della domanda di disconoscimento della paternità e di dichiarazione giudiziale di altra paternità, ritenendo ammissibile un provvedimento di separazione delle cause e conseguente sospensione ex art. 295 c.p.c., (Tribunale di Crotone, sentenza n. 633 del 18.5.2019, chiamato a decidere sulla domanda formulata dal curatore speciale nell’interesse di un minore avente ad oggetto entrambe le domande, disconoscimento e dichiarazione giudiziale di altra paternità, ha ritenuto sussistente un rapporto di pregiudizialità di una controversia rispetto all’altra e, previa separazione delle domande, ha disposto la sospensione del giudizio relativo alla domanda ex art. 269 c.p.c.; anche il Tribunale di Modena, nella sentenza n. 282 del 1.3.2019, ha richiamato i principi affermati dalla Corte nell’ordinanza n. 17392/2018, espressamente condividendoli, salvo poi concludere per una declaratoria di inammissibilità della domanda di accertamento giudiziale di paternità atteso che, nel caso di specie, la parte non aveva proposto alcuna domanda, nè nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Modena, nè in altro giudizio, volta ad accertare il difetto di veridicità del riconoscimento di paternità effettuato da altri).
2.8. Venendo quindi alla questione centrale relativa al nesso di pregiudizialità tecnico giuridica tra i due procedimenti e alla possibilità di sospensione ex art. 295 c.p.c., la richiesta della Procura Generale prospetta i seguenti aspetti problematici: se il giudizio di disconoscimento possa ritenersi pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità e se, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applichi l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c..
In ordine al concetto di pregiudizialità (in ambito civilistico), cui fa riferimento quello di dipendenza enunciato dall’art. 295 c.p.c. e che presuppone l’analisi del rapporto di possibile interferenza fra decisioni, la pregiudizialità si risolve, pertanto, in una relazione che lega due questioni e si qualifica come rapporto di antecedenza logica.
Il nesso sostanziale di pregiudizialità si manifesta, in primo luogo, nella dipendenza logica di una controversia rispetto all’altra, all’interno di uno stesso rapporto giuridico (a titolo di esempio, la giurisprudenza della Suprema Corte ha qualificato in termini di pregiudizialità logica il rapporto tra eccezione di inadempimento e volontà della parte di avvalersi della clausola risolutiva espressa, Cass. n. 21115 del 16/09/2013 e più di recente, negli stessi termini, Cass. n. 27692 del 12/10/2021) e, in secondo luogo, nella dipendenza tecnica, che intercorre tra rapporti giuridici diversi ed è tale per cui l’esistenza di uno dipende dall’esistenza o inesistenza dell’altro (questa Corte, nell’ordinanza n. 3936 del 18/02/2008, ha ravvisato un rapporto di pregiudizialità tecnica tra una domanda di restituzione di somme, proposta dalla parte nell’asserita veste di erede testamentario universale, e quella spiegata dal terzo al quale le somme erano state versate, volta ad ottenere la nullità o l’annullamento del testamento; cfr. anche Cass. 15353/2010, ove, chiarendosi che “la sospensione ex art. 295 c.p.c. presuppone l’esistenza di un nesso di pregiudizialità sostanziale, ossia una relazione tra rapporti giuridici sostanziali distinti ed autonomi (dedotti in via autonoma in due diversi giudizi), uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell’altro (dipendente), in modo tale che la decisione sul primo rapporto si riflette necessariamente, condizionandola, sulla decisione del secondo”, si è escluso che un giudizio di appello dovesse essere sospeso, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., per effetto della proposizione di un’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c.).
In sostanza, quando si verta in ipotesi di rapporti giuridici distinti ed autonomi, la pregiudizialità tecnico-giuridica consiste in una relazione tra rapporti giuridici sostanziali, uno dei quali (pregiudiziale) integra la fattispecie dell’altro (dipendente) in modo tale che la decisione sul primo rapporto si riflette necessariamente, condizionandola, sulla decisione del secondo.
Queste Sezioni Unite hanno ribadito di recente (Cass. n. 21763/2021) che “il concetto di dipendenza fra decisioni può presupporre a sua volta l’esistenza di un rapporto di dipendenza fra le cause e, in tale accezione, il nesso di pregiudizialità è posto in collegamento con la disposizione generale contenuta nell’art. 34 c.p.c., che regola, tra le norme dedicate alle modificazioni della competenza per ragioni di connessione, l’istituto degli accertamenti incidentali, generalmente considerato come espressione di una ratio omologa a quella dell’art. 295 c.p.c.”.
Pertanto, al termine pregiudizialità, attesa l’identità delle situazioni disciplinate dagli artt. 34 e 295 c.p.c. (diverse, quanto agli effetti, ma analoghe quanto ai presupposti), può attribuirsi il comune scopo di eliminare il rischio di giudicati contrastanti.
In merito al fatto che, nel caso in esame, il giudizio pregiudicante intercorre tra soggetti diversi, si può rilevare che, come già sottolineato nell’ordinanza n. 17392 del 2018, avendo la sentenza resa in esito al giudizio di disconoscimento efficacia erga omnes, non può ravvisarsi la possibilità che la parta rimasta estranea ad uno dei due giudizi possa eccepire l’inopponibilità nei propri confronti. Inoltre, non essendo consentito un accertamento in via incidentale su una questione di stato della persona, per evitare il conflitto di giudicati, non può neanche invocarsi la possibilità del giudice di evitare la sospensione ex art. 295 c.p.c. facendo ricorso al potere di conoscere incidenter tantum delle questioni pregiudiziali, allo stesso riconosciuto dall’art. 34 c.p.c.. In effetti, la sospensione necessaria prevista dall’art. 295 c.p.c. stabilisce che “il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.
La novella del 1990 ha portato dottrina e giurisprudenza ad un’interpretazione fortemente restrittiva delle ipotesi di sospensione necessaria, anche in ossequio al principio di economia processuale declinato nella prospettiva della ragionevole durata del processo (artt. 6 CEDU e Cost., 111, comma 2) e di effettività della tutela giurisdizionale (Cost., art. 24).
Tale interpretazione è stata fatta propria da queste Sezioni Unite che, nella pronuncia n. 10027 del 2012, hanno affermato che l’istituto processuale della sospensione necessaria è costruito sui seguenti tre presupposti:
1) “la rilevazione del rapporto di dipendenza che si effettua ponendo a raffronto gli elementi fondanti delle due cause, quella pregiudicante e quella in tesi pregiudicata”;
2) “la conseguente necessità che i fatti siano conosciuti e giudicati, secondo diritto, nello stesso modo”;
3) “lo stato di incertezza in cui il giudizio su quei fatti versa, perchè controversi tra le parti”.
La sospensione prevista dall’art. 295 c.p.c. presuppone, quindi, ad avviso della Corte, le seguenti condizioni: che sussista un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra due situazioni sostanziali; che queste ultime siano entrambe dedotte in giudizio; che non si realizzi o in virtù dell’art. 34 c.p.c. o per effetto degli artt. 40 e 274 c.p.c. la simultaneità del processo.
Più di recente, queste Sezioni Unite (Cass. n. 21763/2021), investite in merito alla questione di massima di particolare importanza relativa al rapporto tra la sospensione necessaria e facoltativa, ha condiviso l’orientamento espresso nel 2012 (sebbene con alcuni distinguo ritenuti necessari allo scopo di raggiungere l’obiettivo di “un’equilibrata efficienza dell’amministrazione della giustizia nel suo complesso”), ulteriormente precisando che “in tema di sospensione del giudizio per pregiudizialità necessaria, salvi i casi in cui essa sia imposta da una disposizione normativa specifica che richieda di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità tecnica e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non può ritenersi obbligatoria ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (e, se disposta, può essere proposta subito istanza di prosecuzione ex art. 297 c.p.c.), ma può essere adottata, in via facoltativa, ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c., applicandosi, nel caso del sopravvenuto verificarsi di un conflitto tra giudicati, il disposto dell’art. 336, comma 2, c.p.c.”.
Ora, nel caso in esame, trattandosi di accertamenti relativi allo stato delle persone, non è possibile una pronuncia incidentale (ex art. 34 c.p.c.) ed è la legge a richiedere espressamente di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante (come risulta dal combinato disposto degli artt. 253 e 269 c.c., così come interpretati dalla costante giurisprudenza di legittimità sopra richiamata).
Risulta, pertanto, che – a fronte della contemporanea pendenza di un procedimento di disconoscimento di paternità e di un altro procedimento volto alla dichiarazione giudiziale di altra paternità – stando all’interpretazione fornita da queste Sezioni Unite, non può escludersi la necessità di una sospensione obbligatoria ex art. 295 c.p.c..
Ovviamente, come anche rilevato dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n. 177/2022, l’affermazione, nell’interesse della legge ai sensi dell’art. 363 c.p.c., del principio di diritto proposto non risolve tutte le criticità ma opera solo un temperamento.
Infatti, il principio, laddove ricorre all’istituto della sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., a fronte di una pregiudizialità tecnico-giuridica, non stravolge l’attuale assetto normativo “duale” sopra descritto, ribadendo anzi la necessità di far risolvere, con efficacia di giudicato, la questione sullo status pregresso, sollevata con specifica domanda, prima di decidere l’altra, di carattere dipendente, inerente alla domanda di accertamento della filiazione fuori dal matrimonio.
La richiesta non risulta meramente astratta, in quanto nel giudizio definito dal Tribunale di Roma nel 2018, si era proprio negata la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. del giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità in attesa della definizione del pendente giudizio di disconoscimento.
Potrebbe, peraltro, verificarsi l’ipotesi (come nella controversia pendente dinanzi alla Corte d’appello di Salerno che ha ritenuto di investire la Corte Costituzionale, nel 2021) in cui il previo giudizio di disconoscimento non sia stato neppure avviato al momento della proposizione dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità. E pertanto la Consulta, nella sentenza n. 177/2022, ha ritenuto necessario un intervento organico e di sistema del legislatore.
2.9. I limiti posti dall’art. 363 c.p.c. nell’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge (cfr., SS.UU, 404/2011), in rapporto alla necessità che esso non trascenda la valutazione delle violazioni di legge contenute nel provvedimento concretamente assunto, non più ricorribile in cassazione nè altrimenti impugnabile, e abbia stretta attinenza con le questioni oggetto di tale provvedimento, avendo la funzione di evitare, in proiezione futura, il consolidamento di una enunciazione di diritto errata e di fornire la regola preferibile, per l’eventualità in cui si ripresenti un caso in cui quella enunciazione del principio di dirotto sia conferente, inducono queste Sezioni Unite a non estendere la portata del principio di diritto che si va ad affermare, nel senso prospettato dalla stessa Procura Generale in sede di memoria e di discussione orale, in relazione anche alla possibilità di instaurazione in via cumulativa dell’azione volta alla rimozione dello status di figlio e di quella volta all’accertamento di altra paternità: invero, la fattispecie concreta che ha dato origine alla richiesta ai sensi dell’art. 363 c.p.c. ha riguardato due giudizi promossi non contestualmente ma separatamente e pendenti anche in grado diverso.
Va, tuttavia, evidenziato che, proprio in ragione dell’affermato nesso di pregiudizialità tra le due azioni, ostativo, finchè il disconoscimento della paternità non sia accertato con sentenza passata in giudicato, non alla proposizione dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità ma solo al suo accoglimento, la possibilità che i due procedimenti, quello demolitorio dello status e quello ricostruttivo, possano svolgersi contestualmente non può essere esclusa, in linea di principio, ed anzi consentirebbe di superare le criticità messe in luce da ultimo dalla Corte costituzionale nella richiamata pronuncia n. 177 del 2022.
Invero, per prevenire il conflitto di giudicati, derivante da decisioni tra loro incompatibili, le cause connesse per pregiudizialità dovrebbero essere, di regola, trattate e decise congiuntamente, attraverso il cumulo in un unico processo (c.d. simultaneus processus).
E il legislatore della recente Riforma di cui al D.Lgs. n. 149/2022 ha colto l’occasione, nel ridefinire il procedimento “in materia di persone, minorenni e famiglie”, per affermare una regola che risponde a tale esigenza di celerità e concentrazione delle tutele in ambito di liti nell’ambito della famiglia, nell’attuale art. 479 bis.49 c.p.c.: “(Cumulo di domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio). Negli atti introduttivi del procedimento di separazione personale le parti possono proporre anche domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e le domande a questa connesse. Le domande così proposte sono procedibili decorso il termine a tal fine previsto dalla legge, e previo passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la separazione personale. Se il giudizio di separazione e quello di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio sono proposti tra le stesse parti davanti a giudici diversi, si applica l’art. 40.
In presenza di figli minori, la rimessione avviene in favore del giudice individuato ai sensi dell’art. 473-bis.11, comma 1. Se i procedimenti di cui al comma 2 pendono davanti allo stesso giudice, si applica l’art. 274. La sentenza emessa all’esito dei procedimenti di cui al presente articolo contiene autonomi capi per le diverse domande e determina la decorrenza dei diversi contributi economici eventualmente previsti”.
Orbene, la proposizione della domanda di disconoscimento e di quella di dichiarazione giudiziale mediante un unico atto introduttivo, già riconosciuta da parte della giurisprudenza di merito, è stata commentata con favore da parte della dottrina che ha evidenziato come l’evidente connessione per pregiudizialità-dipendenza possa portare alla riunione (rispettivamente ai sensi dell’art. 40 c.p.c. o dell’art. 274 c.p.c., a seconda che pendano davanti a giudici diversi o davanti al medesimo giudice) o alla sospensione ex art. 295 c.p.c., nel caso in cui i due procedimenti non possano venire riuniti (quando, come nel caso di specie, uno dei due procedimenti penda in un grado diverso dall’altro).
Vi sono indubbiamente riflessi, in caso di contestuale svolgimento delle due azioni, in merito, soprattutto, alla possibilità del padre biologico di partecipare anche all’azione di disconoscimento. Vero che non è consentito al padre biologico di un minore generato nel matrimonio contestare la paternità attribuita al marito della madre, ai sensi dell’art. 231 c.c., nè autonomamente promuovere l’azione di disconoscimento, ex art. 243 c.p.c. consentita solo al marito, alla madre ed al figlio, mentre è consentito a “chiunque vi abbia interesse” (compreso, quindi, il padre naturale) di contestare lo stato di figlio nato fuori dal matrimonio, impugnando il riconoscimento per difetto di veridicità.
Trattasi di una scelta legislativa (e la questione di legittimità costituzionale di tale esclusione della legittimazione attiva è stata dichiarata inammissibile, in quanto coinvolgente la discrezionalità del legislatore, da Corte Cost. n. 429/1991), ancora dettata a tutela della famiglia che ha base nel matrimonio, che è stata ritenuta “discutibile” dalla dottrina, in rapporto all’unità dello status filiationis come disegnata dal D.Lgs. n. 154 del 2013.
Questa Corte ha da tempo affermato che il padre biologico, interessato a contestare la paternità legittima, non è legittimato al promovimento dell’azione di disconoscimento della paternità (riservato dall’art. 244 c.c. esclusivamente alla madre, al marito, al figlio o, in caso di minore età, al curatore speciale su istanza del figlio che abbia compiuto 14 anni o su istanza del pubblico ministero, se di età inferiore), nè ad intervenire nel relativo procedimento nè a proporre opposizione di terzo avverso la sentenza che ha deciso sul disconoscimento (Cass. n. 4035/1995; Cass. n. 487/2014 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 244 c.c., 395, n. 1, e 404 c.p.c., nella parte in cui limitano la proponibilità dell’opposizione di terzo o l’intervento del soggetto indicato come padre naturale, o dei suoi eredi, nel giudizio di disconoscimento di paternità, promosso da colui che solo all’esito del positivo esperimento di tale azione potrà chiedere il riconoscimento di paternità, ritenendo che il pregiudizio fatto valere sia di mero fatto; nello stesso senso anche Cass. n. 13638 del 2013; Cass. n. 18601/2021).
Con riferimento al minore infraquattordicenne, tuttavia, questa Corte, come già rilevato sopra, ha interpretato la norma richiamata riconoscendo comunque al padre biologico il diritto di chiedere al giudice la nomina di un curatore speciale per promuovere l’azione di disconoscimento (Cass. n. 4020/2017; Cass. n. 27560/2017).
In dottrina, si è poi osservato che la partecipazione del presunto padre naturale al giudizio di disconoscimento, oltre che semplificare il quadro probatorio dal quale ricavare la verità, non sarebbe neppure idonea a creare “qualche imbarazzo nella compagine familiare fondata sul matrimonio”, in quanto il quieto vivere familiare già sarebbe stato scardinato per effetto della stessa proposizione della domanda di disconoscimento, che il presunto padre naturale non può autonomamente promuovere.
In ordine alla compatibilità con l’art. 8 della CEDU, i giudici di Strasburgo hanno affermato che l’impossibilità “assoluta” per un uomo che afferma di essere il padre biologico di cercare di stabilire la propria paternità, per il solo motivo che un altro uomo ha già riconosciuto il bambino, integra una violazione dell’art. 8.
Nella sentenza Rózanski v. Poland, app.55339/00, la Corte ha dichiarato che il fatto che le autorità disponessero di un potere discrezionale nel decidere se avviare o meno un procedimento di contestazione di un riconoscimento di paternità non era di per sè criticabile. Tuttavia, la mancanza di accesso diretto a una procedura attraverso la quale il richiedente potesse cercare di stabilire la paternità, l’assenza nel diritto interno di orientamenti su come dovrebbe essere esercitato il potere discrezionale delle autorità di contestare un riconoscimento di paternità e il modo superficiale in cui sono state esaminate le domande del richiedente di contestare il riconoscimento da parte di un altro uomo, ha portato la Corte a constatare una violazione dell’art. 8.
Con sentenza del 13.10.2020, la Corte Edu, nel caso Koychev c. Bulgaria, app.32495/15, si è pronunciata sulla violazione dell’art. 8 CEDU, da parte della legge bulgara, nella parte in cui la medesima non consente a colui che affermi di essere il padre biologico del minore, di contestare il riconoscimento della paternità effettuato da un altro uomo (nella specie, il marito della madre in virtù di un matrimonio contratto alcuni anni dopo la nascita del minore).
La vicenda sulla quale la Corte si è pronunciata riguarda il ricorso del sig. Koychev, il quale, tra il 2003 e il 2005 ha avuto una relazione dalla quale è nato un bambino nel 2006 (riconosciuto solo nel 2013). La madre si è opposta al riconoscimento e solo in seguito il ricorrente è stato informato che il minore era stato riconosciuto dal nuovo compagno della madre. Nel 2014 l’azione di riconoscimento promossa dal ricorrente è stata dichiarata inammissibile dal Tribunale. Il sig. Koychev, ha, dunque agito contro il riconoscimento del nuovo compagno della madre, allegando che non era il padre biologico del bambino. Sia in primo grado che in appello è stata pronunciata l’inammissibilità della domanda, poichè, secondo la legge bulgara, solo la madre e il figlio possono ricorrere contro la dichiarazione di riconoscimento di paternità. Nel 2015, la Corte di Cassazione ha confermato l’inammissibilità rilevando che il ricorrente avrebbe dovuto rivolgersi al pubblico ministero o alla direzione territoriale dei servizi sociali, i quali avrebbero potuto promuovere azione di annullamento del riconoscimento di paternità.
A differenza della legge bulgara, nel nostro ordinamento, è, peraltro, consentito a “chiunque vi abbia interesse”, compreso, quindi, il padre naturale, di contestare lo stato di figlio nato fuori dal matrimonio.
E’ stato osservato che, ove si trattasse di contestare la paternità di un figlio nato nel matrimonio, atteso che il padre biologico non può contestare la paternità attribuita al marito della madre ai sensi dell’art. 231 c.c. nè con l’azione di disconoscimento della paternità nè con quella di contestazione dello stato di figlio, si giungerebbe al punto di negare al padre naturale il diritto di ottenere l’accertamento della sua paternità, con possibile violazione dell’art. 8 CEDU.
Tale conclusione, come visto, può essere temperata, nel caso di minori infraquattordicenni, attraverso il riconoscimento al padre naturale della possibilità di sollecitare la nomina di un curatore speciale per promuovere l’azione di disconoscimento (Cass. 27560/2021).
In ordine alla posizione del presunto padre naturale nel giudizio, cumulato o riunito, di disconoscimento, va, inoltre, richiamato il principio secondo cui la riunione di cause connesse lascia inalterata l’autonomia dei giudizi per tutto quanto concerne la posizione assunta dalle parti in ciascuno di essi, con la conseguenza che gli atti e le statuizioni riferiti ad un processo non si ripercuotono sull’altro processo sol perchè questo è stato riunito al primo (Cass. 15383/2011; Cass. 5434/2021) ed il principio di autonomia dei giudizi è suscettibile di temperamento solo al fine di evitare un inutile aggravio degli oneri processuali e purchè non ne risulti vulnerato il diritto di difesa. Si può poi aggiungere, sulla possibile contestualità delle due azioni, che questa Corte ha già ritenuto ammissibile una domanda di regresso e di rimborso delle somme anticipate da un genitore per il mantenimento del figlio nato fuori dal matrimonio, nell’ambito del giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale.
Nella sentenza n. 17914 del 2010 si è affermato che “in materia di mantenimento del figlio naturale, la domanda di rimborso delle somme anticipate da un genitore può essere proposta nel giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale, mentre l’esecuzione del titolo e la conseguente decorrenza della prescrizione del diritto a contenuto patrimoniale richiedono la preventiva definitività della sentenza di accertamento dello “status“” (conf. Cass. 21364/2018).
Quindi, con riguardo alla proponibilità dell’azione di regresso, da parte del genitore che aveva provveduto in via esclusiva al mantenimento del figlio, unitamente alla domanda di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, questa Corte ha già ammesso l’esercizio della prima azione, prima del passaggio in giudicato della sentenza di dichiarazione giudiziale della paternità (che produce gli stessi effetti, del riconoscimento, con decorrenza dalla nascita del figlio), anche se l’esecuzione del titolo e la conseguente decorrenza della prescrizione del diritto a contenuto patrimoniale richiedono la preventiva definitività della sentenza di accertamento dello status.
In conclusione, proprio in ragione del nesso di pregiudizialità affermato, non si può escludere la possibilità, in alcuni casi, del simultaneus processus (che rappresenta in genere la soluzione da privilegiare rispetto a quella della sospensione ex art. 295 c.p.c. che rappresenta sempre un’extrema ratio) tra azione di disconoscimento (o di impugnazione del riconoscimento o di contestazione dello status di figlio) ed azione di dichiarazione giudiziale di paternità, che potrebbero nascere separatamente e venire riunite (ex art. 40 c.p.c., se pendano davanti a giudici diversi, o ex art. 274 c.p.c., se pendano dinanzi allo steso ufficio giudiziario) ovvero essere cumulativamente promosse in unico atto introduttivo da parte del soggetto legittimato ad entrambe le azioni (ad es. il figlio e la madre), salva ovviamente la possibilità ex art. 103 c.p.c., comma 2, per il giudice del merito di disporre la separazione dei giudizi, nei casi di difficile gestione del processo cumulativo (laddove ad es. i soggetti direttamente coinvolti dal lato genitoriale siano ancora in vita). Il tutto, nel rispetto della cronologia e della pregiudizialità degli accertamenti riguardanti il disconoscimento della paternità ed attraverso una necessaria e rigorosa scansione (utilizzando il vigente meccanismo della “calendarizzazione”) dei tempi procedurali e dell’attività istruttoria relativa all’azione pregiudicante, da esperire necessariamente in via prioritaria.
Il raccordo tra i due istituti e la possibilità di introduzione cumulativa delle due azioni, salva sempre la discrezionalità del giudice di merito nel governo della trattazione del processo, in ragione di variabili organizzative oltre che processuali, potrebbe rispondere all’esigenza, valorizzata dalla Corte EDU nella decisione citata del 2022, di assicurare la più sollecita definizione dello status e di concretizzare nella sua effettività il diritto del figlio all’acquisizione del nuovo status.
Rimane comunque ferma la necessità, in difetto di un intervento del legislatore e tenuto conto di quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 177/22 (rammentandosi che, sul punto dell’ammissibilità di una sentenza dichiarativa della paternità o della maternità condizionata sospensivamente all’esito del giudizio demolitivo, la Consulta ha rilevato che essa attiene alla materia processuale, la cui disciplina è riservata in primis al legislatore), di attendere il passaggio in giudicato della sentenza, parziale, di disconoscimento, prima di potere esaminare la domanda, dipendente, di dichiarazione giudiziale di paternità.
3. Si può quindi concludere che l’analisi, attuale, degli artt. 253 e 269 c.c. deve essere condotta alla luce dei principi costituzionali, artt. 2, Cost., 29 e 30, in particolare) e sovranazionali (in particolare, l’art. 8 della CEDU, implicante, oltre ad obblighi negativi delle autorità pubbliche, anche obblighi positivi inerenti all’effettivo rispetto della vita privata).
L’onere particolarmente gravoso a carico del figlio (come qualificato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 177 del 2022) – che richiede la necessità di un giudizio articolato in più gradi che si concluda con una sentenza passata in giudicato demolitiva del precedente stato – ed il rischio che lo stesso rimanga “privo di status”, in assenza di un intervento del legislatore (cui spetta, come affermato dalla Corte costituzionale, il compito di realizzare un “intervento di sistema” che “possa tenere conto di tutti gli interessi coinvolti, senza comprimere in maniera sproporzionata diritti di rango costituzionale”), possono essere comunque, in parte, temperati attraverso il riconoscimento della possibilità di sospendere il giudizio relativo all’attribuzione del nuovo status, non essendo ancora definito con sentenza passata in giudicato quello sulla rimozione dello status preesistente.
Ove, infatti, non si consentisse tale sospensione e si propendesse per una declaratoria di inammissibilità – come ha fatto il Tribunale di Roma nel caso concreto richiamato dalla Procura Generale -, si correrebbe il rischio di violare il principio della ragionevole durata del processo nonchè di realizzare un ostacolo all’esercizio del diritto – garantito dalla Cost., artt. 6 Cedu e 24 – di agire a tutela del diritto fondamentale allo status e all’identità biologica, protetto anche ai sensi dell’art. 8 Cedu.
Conclusivamente, deve essere affermato, nell’interesse della legge, affinchè possa orientare la giurisprudenza, il seguente principio di diritto: “Il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c.”.
P.Q.M.
La Corte enuncia nell’interesse della legge, a norma dell’art. 363 c.p.c., comma 1, il seguente principio di diritto: “Il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c.”.
Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 7 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2023
Allegati:
SS.UU, 22 marzo 2023, n. 8268, in tema di filiazione
Nota del Dott. Andrea Castaldo
Le Sezioni Unite chiariscono il rapporto di pregiudizialità alla base dell’azione di disconoscimento di paternità
1. Il principio di diritto
Il giudizio di disconoscimento di paternità è pregiudiziale rispetto a quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità così che, nel caso della loro contemporanea pendenza, si applica l’istituto della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.c..
2. La questione di massima di particolare importanza
La questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite attiene all’accertamento dei rapporti tra l’azione di disconoscimento della paternità (azione con cui si contesta lo status di figlio) e quella di dichiarazione giudiziale di genitorialità (azione che tende a conseguire lo status di figlio), con specifico riferimento ai profili processuali.
Nonostante l’equiparazione e la parità giuridica tra i figli, vige ancora una diversa disciplina inerente al riconoscimento di figli nati in costanza di matrimonio e figli nati al di fuori di esso.
Il matrimonio determina l’attribuzione automatica dello stato di figli dei coniugi, in forza di una presunzione di paternità, così come previsto dall’art. 231 c.c., e tali risultanze possono essere contestate solo con azioni di stato tipiche, quali l’azione di disconoscimento della paternità, l’azione di contestazione e l’azione di reclamo dello stato di figli.
In assenza di matrimonio non sussistono meccanismi presuntivi ed il figlio acquista il corrispondente status attraverso il riconoscimento da parte dei genitori (artt. 250 e ss. c.c.) o la dichiarazione giudiziale; in tal caso, le azioni di stato esperibili sono la dichiarazione giudiziale di genitorialità e l’impugnativa del riconoscimento.
L’art. 269, c. 1, c.c., inoltre, pone la regola per cui la paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate solo quando il riconoscimento è ancora ammesso e l’art. 253 c.c. prescrive che ciò sia impossibile quando si pone in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova.
Ciò significa che non è possibile far valere lo stato di figlio prima della rimozione del titolo da cui risulta uno status contrastante, così da evitare una sovrapposizione di stati di filiazione e assicurare il carattere unico ed indivisibile dello status di figlio.
In altre parole, è necessario attendere il passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento, prima di potere esaminare la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità.
3. Riflessioni conclusive
Alla luce di quanto sopra, la Corte analizza dal punto di vista processuale il concetto di pregiudizialità, evidenziando come esso consti in una dipendenza logica e tecnica, di una controversia rispetto all’altra all’interno di uno stesso rapporto giuridico o intercorrente tra rapporti giuridici diversi, ed è tale per cui l’esistenza di uno dipende dall’esistenza o inesistenza dell’altro.
Si richiama in pronuncia anche la recente “Riforma Cartabia” (D.lgs. 149/22), che ha previsto, nell’attuale art. 473 bis.49 c.p.c., la possibilità di cumulo delle domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, sollecitando il legislatore ad intervenire in egual maniera anche in materia di stato di filiazione, al fine di addivenire con un unico atto introduttivo alla proposizione delle domande di disconoscimento e di dichiarazione giudiziale (come già riconosciuto da parte della giurisprudenza di merito, data l’evidente connessione per pregiudizialità-dipendenza).