Civile Sent. Sez. U Num. 11168 Anno 2022
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: FALABELLA MASSIMO
Data pubblicazione: 06/04/2022
SENTENZA
sul ricorso 24225-2021 proposto da:
CORNELIO ENRICO, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato EDOARDO ANDREOTTI LORIA;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI VENEZIA, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati GAETANO GUZZARDI, FABIANA DANESIN, FEDERICA SANTINON e MARCO RIGO;
– controricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimato –
avverso la sentenza n. 160/2021 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 17/07/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/02/2022 dal Consigliere MASSIMO FALABELLA;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Enrico Cornelio e Gaetano Guzzardi.
FATTI DI CAUSA
1. — Il 3 agosto 2010 i signori Anna Ferino e Giovanni Fara hanno presentato un esposto in cui era rappresentato al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Venezia che essi avevano conferito un incarico professionale all’avvocato Enrico Cornelio, al fine di ottenere il risarcimento dei danni da loro sofferti a seguito delle lesioni riportate dal figlio in occasione del parto: danni per i quali si configurava una responsabilità del personale medico; hanno precisato che il giudizio promosso dal professionista innanzi al Tribunale di Cagliari si era concluso con la condanna della parte convenuta a risarcire agli attori un danno liquidato nella complessiva somma di euro 2.130.681,00, oltre interessi; i predetti Ferino e Fara hanno riferito che l’avvocato Cornelio, senza alcuna autorizzazione, aveva incassato la somma complessiva di euro 2.220.895,20, accreditata sul conto corrente del medesimo professionista, e che solo a seguito di loro rimostranze gli era stata bonificata la minor somma di euro 1.753.168,67: il restante importo di euro 467.726,53, fatturato quale compenso per la difesa e giustificato sulla base di un accordo che sarebbe precedentemente intercorso, era stato trattenuto dall’avvocato senza il loro consenso.
Il professionista si è difeso assumendo: che i clienti avevano sottoscritto una convenzione relativa all’onorario; che i nominati Fara e Ferino erano ben consapevoli del contenuto dell’accordo sul compenso e che i medesimi lo avevano delegato a ricevere il versamento direttamente sul proprio conto corrente, corrispondendogli, in occasione dell’accredito dell’importo di euro 516.045,00, una somma corrispondente alla percentuale pattuita; che egli aveva immediatamente riepilogato ai clienti quanto ricevuto dalla parte convenuta in giudizio, trasmettendo le fatture correttamente imputate alle prestazioni svolte, corrispondenti all’importo di propria spettanza, che era stato trattenuto.
Il locale Consiglio distrettuale di disciplina ha applicato all’avvocato Cornelio la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per anni uno.
2. — In sede di impugnazione il Consiglio nazionale forense ha modificato, nella misura, la sanzione adottata riducendola a mesi due di sospensione. Per quanto qui rileva, il CNF ha: escluso, ai fini della prescrizione, che l’illecito disciplinare avesse natura istantanea e che, quindi, si fosse consumato all’atto dell’avvenuta compensazione dei reciproci crediti (quello dei clienti quanto alla ricezione delle somme riscosse in loro nome e per loro conto dall’avvocato; quello vantato da quest’ultimo per il corrispettivo delle proprie prestazioni professionali); ritenuto, sul punto, che la condotta posta in essere dall’avvocato Cornelio avesse «i connotati tipici della continuità della violazione deontologica per tale sua natura destinata a protrarsi fino alla restituzione delle somme che l’avvocato avrebbe dovuto mettere immediatamente a disposizione del cliente», o fino a quando quest’ultimo avesse riconosciuto le ragioni della ritenzione (ciò che era avvenuto con la dichiarazione, a firma dei signori Ferino e Fara del 25 novembre 2013); osservato che ai fini della responsabilità disciplinare risultava dirimente la circostanza per cui i clienti avevano immediatamente contestato all’avvocato Cornelio il trattenimento degli importi: trattenimento nemmeno autorizzato da un accordo sul compenso; evidenziato che, infatti, l’illiceità disciplinare del comportamento posto in essere dal professionista doveva essere valutata solo in relazione alla sua idoneità a ledere la dignità e il decoro professionale, a nulla rilevando l’eventualità che tali comportamenti integrassero, o meno, anche illeciti civili e penali; affermato che, pertanto, l’invocata applicazione, da parte dell’avvocato, delle norme civilistiche sulla compensazione non escludeva la violazione del precetto deontologico; rilevato che l’art. 65, comma 5, I. n. 247/2012 imponeva di individuare, nella diversità delle discipline sanzionatorie succedutesi nel tempo, quella nel complesso più favorevole all’incolpato; concluso nel senso che doveva quindi trovare applicazione l’art. 40 r.d.l. n. 1578/1933, vigente al tempo della commissione dei fatti: norma che, prevedeva la sanzione della sospensione dell’esercizio della professione per un periodo non inferiore a due mesi e non superiore all’anno.
3. — La sentenza del Consiglio nazionale forense, depositata il 17 luglio 2021, è stata impugnata per cassazione dell’avvocato Cornelio con un ricorso articolato in tre motivi che sono illustrati da memoria. Ha depositato controricorso il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Venezia. Il pubblico ministero ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. — Il primo motivo oppone la violazione di legge con riferimento agli artt. 1241, 1243, 1721 e 2233 c.c., «per erroneo coordinamento tra le norme di relazione del codice civile e le norme di azione dell’ordinamento disciplinare». Si assume doversi escludere la responsabilità del ricorrente, giacché la sua obbligazione verso i clienti si sarebbe estinta per volontà di legge a seguito della compensazione legale. Viene dedotto che la norma del codice deontologico andrebbe coordinata con l’art. 2233 c.c., che accorda prevalenza alla pattuizione sul compenso rispetto a qualsiasi altra fonte; sostiene l’istante che l’avvocato possa trattenere direttamente le somme dovutegli sia quando sia stato a ciò autorizzato specificamente dal cliente, sia quando costui abbia riconosciuto il debito, sia quando il credito per il compenso sia certo, liquido ed esigibile.
Il motivo è infondato.
Come accennato, il Consiglio Nazionale Forense ha ritenuto decisiva l’opposizione, manifestata dai clienti del professionista, al trattenimento degli importi da quest’ultimo percepiti: trattenimento che non era stato, quindi, previamente autorizzato. Nella sentenza impugnata viene rimarcato come in base all’art. 31 del codice deontologico forense l’avvocato è tenuto a mettere immediatamente a disposizione della parte assistita le somme, riscosse per conto di questa, che possono essere oggetto di lecita compensazione solo in presenza di preventivo ed inequivoco consenso prestato dal cliente.
Con riguardo all’invocata applicazione, da parte dell’avvocato, delle norme civilistiche sulla compensazione il CNF ha quindi osservato, richiamandosi alla propria giurisprudenza, che l’illiceità disciplinare del comportamento posto in essere dal professionista debba essere valutata solo in relazione alla sua idoneità a ledere la dignità e il decoro professionale, indipendentemente dal rilievo che tali comportamenti assumano sul piano civile o penale.
Deve premettersi che, in materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative del precetto legislativo che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato, e come tali sono interpretabili direttamente dalla Corte di legittimità (Cass. Sez. U. 20 dicembre 2007, n. 26810; sulla natura normativa, ancorché integrativa, delle richiamate disposizioni, cfr. pure: Cass. Sez. U. 25 marzo 2019, n. 8313; Cass. Sez. U. 7 luglio 2009, n. 15852).
L’art. 44 del non più vigente codice deontologico (applicabile ratione temporis e riprodotto, nella parte che interessa, dall’art. 31 del codice approvato il 31 gennaio 2014) prevede che l’avvocato abbia diritto di trattenere le somme ricevute a titolo di onorario, imputandole a compenso, in tre ipotesi soltanto: quando vi sia il consenso del cliente e della parte assistita; quando si tratti di somme liquidate giudizialmente a titolo di compenso a carico della controparte e l’avvocato non le abbia già ricevute dal cliente o dalla parte assistita; quando il professionista abbia già formulato una richiesta di pagamento del proprio compenso espressamente accettata dal cliente.
Tale disposizione non si presta a estensioni analogiche. Essa propone, difatti, specifiche eccezioni alla regola del divieto, fatto al professionista, di ritenere le somme da lui ricevute: e del resto, coerentemente a tale opzione prescrittiva, il capoverso dell’articolo dispone che in presenza di situazioni diverse da quelle indicate l’avvocato è tenuto a mettere immediatamente a disposizione della parte le somme riscosse per conto di questa.
Non può credersi che l’operatività della norma disciplinare venga meno in presenza dei presupposti per la compensazione legale. La previsione della condotta dell’avvocato consistente nella mancata messa a disposizione del cliente delle somme riscosse per conto dello stesso (in base al vigente art. 31 del codice deontologico) è considerata, da una parte della dottrina, come ipotesi rientrante nella previsione dell’art. 1246, n. 5, c.c., secondo cui la compensazione non opera in presenza di un divieto stabilito dalla legge. Ma anche a prescindere dalla individuazione di un preciso punto di intersezione tra la disciplina codicistica e quella deontologica, è da osservare che l’istituto della compensazione non potrebbe mai escludere l’illecito di cui qui si dibatte. La deontologia forense è retta da precetti speciali suoi propri, che definiscono la correttezza e la lealtà dell’operato dell’avvocato: precetti consistenti nell’imposizione di condotte, positive o astensive, che le norme dell’ordinamento giuridico generale possono in concreto non richiedere, siccome non preordinate all’obiettivo di assicurare l’etica dei comportamenti del professionista; ciò vale, in particolare, per le norme civili sulla compensazione: istituto, questo, che assolve a funzioni sue proprie, tra cui, primariamente, quella di assecondare una elementare esigenza di economicità del sistema. In tal senso, la disciplina deontologica e quella codicistica sulla compensazione riflettono una diversa vocazione: sicché, pure astraendo dalla precisa estensione applicativa delle regole sulla compensazione, deve negarsi che queste possano far venir meno l’illecito disciplinare di cui all’art. 44 cit..
2. — Col secondo motivo è denunciata la violazione di legge per erronea individuazione dell’exordium praescriptionis. Si deduce che la prescrizione non sia regolata dai criteri enunciati nella sentenza impugnata con riferimento alla pretesa lesività permanente del comportamento contestato, ma miri a sanzionare l’inerzia dell’organo disciplinare: onde ai fini della decorrenza del termine prescrizionale rileverebbe il momento in cui il predetto organo avrebbe potuto dar corso all’azione stessa. Si contesta, pertanto, la decisione impugnata, secondo cui invece, «nel campo deontologico si verificherebbe un fenomeno abnorme e cioè che la prescrizione dell’azione disciplinare non decorrerebbe mai, nonostante che l’organo disciplinare avesse fin dall’origine il potere di promuoverla fin dalla data di commissione del fatto».
Il motivo va disatteso.
L’illecito contestato consiste nel trattenimento della somma che l’avvocato ha ricevuto in nome e per conto del cliente. Ben si intende, quindi, che la condotta sanzionata non si esaurisca nella semplice percezione della somma, ma ricomprenda il comportamento, protrattosi nel tempo, consistente nell’avere l’avvocato mantenuto nella propria disponibilità un importo che, invece, avrebbe dovuto essere immediatamente consegnato al cliente.
Le Sezioni Unite si sono espresse sul punto in altre occasioni.
Così, secondo Cass. Sez. U. 21 febbraio 2019, n. 5200, l’avvocato che si appropri dell’importo dell’assegno emesso a favore del proprio assistito dalla controparte soccombente in un giudizio civile, omettendo di informare il cliente dell’esito del processo che lo aveva visto vittorioso e di restituirgli le somme di sua pertinenza, pone in essere una condotta connotata dalla continuità della violazione deontologica, destinata a protrarsi fino alla messa a disposizione del cliente delle somme di sua spettanza; similmente, in base a un diverso arresto — quello di Cass. Sez. U. 30 giugno 2016, n. 13379 —, l’avvocato che prometta al proprio assistito la consegna delle somme riscosse per suo conto senza provvedervi immediatamente contravviene all’art. 44, ultimo comma, del codice deontologico forense vigente ratione temporis, ponendo in essere una condotta connotata dalla ridetta continuità della violazione deontologica.
3. — Il terzo mezzo contiene una censura dì violazione di legge «con riferimento all’art. 155 c.p.c. per arbitrario aumento di un giorno della sanzione disciplinare e richiesta di danni ex art. 96 c.p.c.». Viene osservato che con la comunicazione del 6 agosto 2021 l’Ordine deglI avvocati di Venezia aveva applicato la sospensione disciplinare per due mesi e un giorno e che con lettera del 27 agosto 2021 aveva specificato che i termini a mese o ad anno si computano ex nominatione dierum, senza tener conto del dies a quo.
Il motivo è inammissibile.
Esso si riferisce, in modo confuso, a questione estranea alla sentenza impugnata ed è difatti ricondotto dal ricorrente a quanto il Consiglio dell’ordine avrebbe comunicato all’istante ai fini dell’esecuzione del provvedimento sospensivo.
Come è noto, però, i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa. (Cass. 25 settembre 2009, n. 20652; Cass. 6 giugno 2006, n. 13259; cfr. pure: Cass. 7 aprile 2015, n. 6902; Cass. 2 marzo 2012, n. 3248). Quanto denunciato, come detto, non è pertinente al provvedimento in esame, onde non può integrare un ammissibile mezzo di censura.
4. — Le spese di giudizio devono porsi a carico del ricorrente, siccome soccombente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore della parte controricorrente, liquidandole in euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, in data 22 febbraio 2022.
Allegati:
SS.UU, 06 aprile 2022, n. 11168, in tema di illecito disciplinare
Nota dell'Avv. Alfonso Ciambrone
Le sanzioni disciplinari fra vecchio e nuovo codice deontologico forense
1. Il principio di diritto
In tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, le norme del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014, si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, avendo l’articolo 65, c. 5, della L. 247/2012, recepito il criterio del “favor rei” in luogo di quello del “tempus regit actum”.
Nel caso di successione di leggi, non si può procedere ad una combinazione delle disposizioni più favorevoli della nuova legge con quelle più favorevoli della vecchia, in quanto ciò comporterebbe la creazione di una terza legge, diversa sia da quella abrogata, sia da quella in vigore, ma occorre applicare integralmente quella delle due che, nel suo complesso, risulti, in relazione alla vicenda concreta oggetto di giudizio, più vantaggiosa.
2. La fattispecie
Nella sentenza impugnata, il CNF, dopo aver rilevato che nel nuovo Codice deontologico sono contenute norme che presentano elementi di conformità con norme del precedente codice:
1) ha ritenuto che, sulla base del raffronto tra i due codici, la fattispecie oggetto della contestazione disciplinare fosse riconducibile, nel precedente codice deontologico, all’art. 51 (assunzione di incarichi contro ex clienti), e nel nuovo codice, all’art. 68 (assunzioni di incarichi contro una parte già assistita);
2) ha precisato che l’art. 68 del nuovo codice prevede una articolata tipizzazione delle violazioni e delle sanzioni, che si concretizzano nei casi più lievi (commi 1 e 4) nella sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi e, nei casi più gravi (commi 2, 3 e 5), nella analoga sospensione da uno a tre anni.
3. Conseguenze operative
Nel caso in cui sia stata inflitta la sanzione della cancellazione dall’albo, non più prevista, deve essere comminata, in luogo di essa, la sospensione dall’albo nella durata prevista dal nuovo codice deontologico, anche ove in concreto superiore rispetto a quella dettata dal precedente.