Civile Sent. Sez. U Num. 19200 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: DI PAOLANTONIO ANNALISA
Data pubblicazione: 06/07/2023
SENTENZA
sul ricorso 3295-2023 proposto da:
Meloni Rodolfo, rappresentato e difeso da sé medesimo;
– ricorrente –
contro
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione;
– intimati –
avverso la sentenza n. 250/2022 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 15/12/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/06/2023 dal Consigliere ANNALISA DI PAOLANTONIO;
lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO, il quale chiede che le Sezioni Unite della Corte di cassazione vogliano accogliere il quarto motivo di ricorso, assorbiti gli altri e cassare senza rinvio la sentenza impugnata per intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare.
FATTI DI CAUSA
1. Il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso proposto dall’avvocato Rodolfo Meloni avverso la decisione del 5 maggio/4 luglio 2017 del Consiglio Distrettuale di Disciplina di Cagliari che, ritenuta la responsabilità del ricorrente per i fatti contestati, aveva irrogato la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per la durata di mesi due.
2. Il Consiglio ha richiamato in premessa il contenuto del capo di incolpazione, con il quale era stata contestata la violazione del dovere di verità, imposto dall’art. 50 del Codice Disciplinare, per avere formato o fatto formare una scrittura falsa, recante la firma apocrifa di Pierluigi Dessalvi, della quale si era poi avvalso, producendola, in un processo civile pendente dinanzi al Tribunale di Cagliari.
Ha precisato che il procedimento era stato avviato, con delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari (COA) del 27 marzo 2007, a seguito della notizia, appresa dalla stampa, inerente alla pendenza di un procedimento penale a carico dello stesso Meloni, il quale, invitato dal Consiglio a fornire chiarimenti, con memoria del 27 aprile 2007 aveva negato ogni addebito e sollecitato la sospensione del procedimento disciplinare sino alla definizione di quello penale.
Il procedimento era stato, quindi, sospeso e, successivamente, a seguito dell’entrata in funzione dei Consigli Distrettuali di Disciplina (CDD), gli atti erano stati trasmessi al nuovo organo disciplinare, che, avuta conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per il delitto di falso in scrittura privata, aveva disposto la riapertura del procedimento, accertato la condotta ascritta all’incolpato e inflitto la sanzione sopra indicata.
3. Il Consiglio ha riassunto i plurimi motivi di ricorso proposti dal Meloni in relazione ad entrambe le fasi del procedimento e li ha ritenuti tutti infondati, evidenziando che:
a) non era spirato il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 51 del R.d.l. n. 1578/1939, applicabile alla fattispecie ratione temporis, perché il dies a quo deve essere individuato nella data del passaggio in giudicato della sentenza penale (18 dicembre 2013) e ciò anche nell’ipotesi in cui il procedimento sia stato avviato in epoca antecedente e sospeso;
b) occorreva, inoltre, tener conto della natura permanente dell’illecito, che era cessata solo con la decisione di primo grado risalente al luglio 2017;
c) la sospensione, sollecitata dallo stesso Meloni, era obbligatoria in presenza di un fatto contestato in sede penale sovrapponibile a quello ritenuto di rilievo disciplinare, e nessun rilievo poteva avere la circostanza che al momento dell’adozione dell’atto non fosse stato ancora disposto il rinvio a giudizio;
d) legittimamente il COA aveva esercitato il potere di promuovere d’ufficio l’azione disciplinare e non aveva leso il diritto di difesa, sebbene la prima contestazione non fosse del tutto specifica, perché: l’incolpato era stato sentito; su sollecitazione dello stesso il procedimento era stato sospeso; al momento della riattivazione era stato pienamente assolto l’onere di specificità della contestazione;
e) non era stato violato l’art. 17, comma 2, del Regolamento di disciplina, in quanto la richiesta di audizione era stata formulata quando già era spirato il termine previsto dalla norma regolamentare;
f) il procedimento era stato riavviato tempestivamente, poiché solo il 14 ottobre 2015 era stata acquisita la sentenza penale passata in giudicato;
g) i plurimi profili di illegittimità prospettati dal ricorrente andavano tutti disattesi o perché insussistenti, o perché si era a fronte di irregolarità, sprovviste di sanzione, che non avevano leso il diritto di difesa dell’incolpato;
h) il giudicato penale aveva accertato il fatto e la responsabilità del Meloni non poteva essere esclusa solo perché il difensore aveva successivamente rinunciato ad avvalersi della prova falsificata;
i) la sentenza penale non era stata travolta, pienamente e con efficacia retroattiva, dall’ordinanza del 20 aprile 2016 con la quale il Tribunale di Cagliari aveva revocato la condanna ex art. 673 cod. proc. pen., perché l’intervenuta depenalizzazione non poteva essere equiparata all’assoluzione dell’imputato con formula piena e lasciava impregiudicato l’accertamento sul fatto e sulla commissione dello stesso da parte dell’incolpato;
l) la sanzione inflitta era adeguata alla gravità ed alla natura della condotta illecita, da valutare anche alla luce della disciplina dettata dall’art. 50 CDF, che può integrare utile parametro di raffronto.
4. Per la cassazione della sentenza l’avvocato Rodolfo Meloni ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi, articolati in più punti, ai quali non ha opposto difese l’Ordine degli Avvocati di Cagliari, rimasto intimato.
5. L’Ufficio della Procura Generale ha depositato requisitoria scritta ed ha concluso per l’accoglimento del quarto motivo di ricorso, con assorbimento delle ulteriori censure.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., il ricorrente denuncia «violazione e falsa applicazione degli artt. 47 1° comma RD 37/1934 e 38 1° comma RDL 1578/33 anche in relazione agli artt. 24, 111 3°c., 97 Cost. e/o eccesso di potere» nonché nullità della sentenza per violazione degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., 111 Cost. anche in relazione all’art. 64 1° comma R.d. n. 37/1934.
Il ricorrente deduce che la deliberazione di avvio del procedimento del 27 marzo 2007 e la nota del 12 aprile 2007, comunicata dal COA, non contenevano alcuna specificazione della condotta di rilievo disciplinare, perché si limitavano ad un generico richiamo dei « fatti per i quali è stato recentemente rinviato a giudizio», rinvio a giudizio che, tra l’altro, all’epoca non era stato ancora disposto.
Addebita alla decisione impugnata di non avere colto il significato ed il contenuto del motivo di impugnazione e deduce che doveva essere accertata l’illegittimità dell’atto perché abnorme, viziato da eccesso di potere e, comunque, privo dei requisiti richiesti dalle norme indicate in rubrica.
Eccepisce la nullità della sentenza gravata sotto il profilo della mancanza della motivazione, nella specie inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione.
Evidenzia, infine, che l’accoglimento del motivo determina «come precipitato giuridico l’inesistenza di atti interruttivi della prescrizione e l’illegittimità della sospensione del procedimento».
2. La seconda critica, ricondotta al vizio di cui al n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ., eccepisce la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 295, 296, 305 cod. proc. civ., in relazione all’art. 44, comma 1, del R.d. n. 1578/1933, degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., in relazione all’art. 65 del R.d. n. 37/1934.
Il ricorrente, ribadito che la sospensione non poteva essere disposta rispetto ad un illecito disciplinare non identificato, addebita al C.N.F. di avere affermato la sovrapponibilità dei fatti a quelli oggetto di accertamento in sede penale, senza indagare il contenuto della notizia appresa dalla stampa locale, che si riferiva unicamente all’ipotizzato delitto di estorsione, dal quale poi l’imputato era stato assolto.
Sostiene che la sospensione, illegittima per le ragioni già dette, poteva al più operare con riferimento al delitto in parola e non a quello di falso, al quale, evidentemente, non poteva all’epoca essere riferita l’iniziativa disciplinare.
Deduce, in sintesi, che la sospensione, seppure sollecitata dallo stesso Meloni, in assenza delle condizioni richieste dall’art. 295 cod. proc. civ., doveva essere qualificata volontaria ex art. 296 cod. proc. civ., con la conseguenza che, decorsi quattro mesi, il procedimento doveva essere riattivato.
3. La terza critica, articolata in più punti e formulata ai sensi dei nn. 3, 4 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., denuncia «violazione degli artt. 295, 297, 305 c.p.c. in relazione agli artt. 65 1° comma L. 247/2012 e 1; nullità della sentenza dell’intero giudizio per violazione degli artt. 15 lett. c) e 17 lett. c) Reg. 2/14 in relazione all’art. 152 2 comma Cc e 10 co 4 Reg. 2/14 con riferimento all’art. 415 bis cpp e 111 3° comma Cost.; nullità della sentenza per violazione degli artt. 132 2° e 4° comma c.p.c. – 118 disp. att. c.p.c. in relazione all’art. 111 Cost.; violazione e falsa applicazione dell’art. 192 2°c c.p.p. e/o 2727-2729 c.c.; violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 48 1° comma RDL 1978/33 – 49 RD 27/1934 e 22 2° comma lett. c reg. 2/14 o in via alternativa omessa motivazione sulle deduzioni di prova e istruttorie; nullità della sentenza per violazione art. 112 cp.c. omessa pronuncia».
Deduce, in sintesi, il ricorrente che il procedimento disciplinare, sulla base della normativa applicabile ratione temporis, non poteva essere riattivato in assenza di una delibera del COA, non adottata nella fattispecie.
Aggiunge che dalla documentazione acquisita emergeva che il Consiglio dell’ordine aveva avuto notizia del passaggio in giudicato della sentenza penale ben prima della data indicata nella sentenza impugnata, perché era stato dato incarico all’avvocato Perra di seguire gli sviluppi del processo penale, processo al quale, tra l’altro, la stampa aveva dato ampio risalto. Rileva che assolutamente indispensabile era l’audizione del menzionato avvocato Perra ed aggiunge che, comunque, gli elementi già acquisiti avrebbero dovuto indurre il CNF a ritenere spirato il termine per la riassunzione, con conseguente estinzione del procedimento disciplinare. Sostiene che la prova dell’avvenuta conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza penale poteva essere desunta, in via presuntiva, da plurimi indizi, convergenti nel far ritenere che il COA fosse stato posto in condizione di riattivare il procedimento ben prima della produzione da parte dello stesso incolpato della sentenza definitiva.
Quanto, poi, agli atti compiuti successivamente alla trasmissione al CDD, ribadisce il ricorrente che la mancata audizione, richiesta con la memoria del 21 aprile 2016, comporta, al pari dell’omesso espletamento nel processo penale dell’interrogatorio richiesto ex art. 415 bis cod. proc. pen., la nullità dell’intero procedimento. Aggiunge che il termine previsto dall’art. 17 Reg. è ordinatorio, non perentorio, e, pertanto, l’attività sollecitata andava disposta anche se la memoria era stata tardivamente depositata, non assumendo alcun rilievo la circostanza che nel procedimento l’incolpato fosse stato posto in condizione di difendersi.
Rileva, poi, che l’atto di citazione richiamava unicamente l’incolpazione e non la richiesta del Consigliere istruttore e la delibera di rinvio a giudizio e, pertanto, poiché detti atti non erano mai stati prodotti, nonostante l’espressa richiesta, il CNF avrebbe dovuto ritenere che gli stessi non fossero stati adottati.
4. Il quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., addebita alla decisione impugnata la violazione e falsa applicazione dell’art. 51 del R.d.l. n. 1578/1933 in relazione agli artt. 295, 296, 297 cod. proc. civ., agli artt. 2935 e 2943 cod. civ., all’art. 111 Cost. e denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., dell’art. 111 Cost. sotto il profilo della «motivazione apparente e/o intrinsecamente e irrimediabilmente illogica e contraddittoria».
Il ricorrente censura il capo della sentenza che ha escluso la prescrizione dell’illecito disciplinare e rileva che ha errato il CNF nel valorizzare la natura permanente dello stesso, senza considerare che dagli atti emergeva l’avvenuta rinuncia ad avvalersi della produzione, rinuncia contenuta nella memoria ex art. 184 cod. proc. civ..
Assume, poi, che il principio secondo cui la prescrizione decorre, per i fatti oggetto di processo penale, dal passaggio in giudicato della sentenza non può operare qualora l’illecito risulti prescritto prima della formulazione dell’incolpazione.
Torna ad evidenziare, riprendendo argomenti già sviluppati nei primi due motivi di ricorso, che nella fattispecie, poiché la sospensione obbligatoria non poteva essere riferita al delitto di falso, il primo atto interruttivo riguardante detto illecito andava individuato nell’atto di incolpazione del 21 marzo 2016, intervenuto quando era maturata la prescrizione quinquennale, in ragione della cessazione della permanenza risalente al 29 gennaio 2007.
5. Con la quinta critica, ricondotta al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 653 e 673 cod. proc. pen., in relazione all’art. 2 cod. pen. ed all’art. 54 del Regolamento n. 2/2014. Rileva il ricorrente che ha errato il CNF nel ritenere applicabile l’art. 653 cod. proc. pen. anche alla sentenza di condanna, revocata a seguito della sopravvenuta depenalizzazione del reato.
Deduce che la revoca disposta ex art. 673 cod. proc. pen. fa venir meno ogni conseguenza negativa e pregiudizievole derivante dalla sentenza che, di conseguenza, non può più fare stato nei procedimenti disciplinari quanto all’accertamento dei fatti ed alla responsabilità dell’imputato.
6. Infine con la sesta censura è eccepita la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ravvisata nell’omessa pronuncia sul motivo di impugnazione con il quale era stato dedotto che, una volta esclusa l’efficacia vincolante del giudicato penale, in sede disciplinare andavano accertate la condotta e la responsabilità dell’incolpato.
Ribadisce che l’atto falso non era stato formato dal difensore, che aveva prontamente rinunciato ad avvalersi della produzione, sebbene nel processo civile non ne fosse stata contestata l’autenticità.
7. Nel rispetto dell’ordine logico e giuridico delle questioni deve essere esaminato con priorità il quarto motivo di ricorso, che censura entrambe le rationes decidendi sulla base delle quali il CNF ha escluso che fosse maturata l’eccepita prescrizione dell’illecito disciplinare.
Il motivo è infondato.
Occorre richiamare in premessa l’orientamento, ormai consolidato, di queste Sezioni Unite secondo cui con riferimento alla disciplina della prescrizione lo jus superveniens dettato dalla legge n. 247 del 2012 non trova applicazione, seppure più favorevole all’incolpato, e l’operatività del principio di retroattività della lex mitior resta limitato alla fattispecie incriminatrice e alla pena, sicché il momento di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione applicabile rimane quello della commissione del fatto e non quello della incolpazione ( cfr. fra le tante Cass. S.U. 14 settembre 2022 n. 26990; Cass. S.U. 30 novembre 2021 n. 37550; Cass. S.U. 16 luglio 2021 n. 20383; Cass. S.U. 28 febbraio 2020 n. 5596).
E’, quindi, applicabile alla fattispecie, nella quale viene in rilievo una condotta risalente all’anno 2004, l’art. 51 del R.d.l. n. 1578 del 1933, che fissa per la prescrizione dell’azione disciplinare il termine quinquennale. Queste Sezioni Unite, con orientamento anch’esso consolidato, hanno affermato che, ai fini della individuazione del dies a quo, rileva il combinato disposto con gli artt. 38 e 44 dello stesso R.d.l. ed occorre distinguere il caso, previsto dall’art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, da quello, disciplinato dall’art. 44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti reato, per i quali sia stata iniziata l’azione penale.
Nel primo caso, poiché l’azione disciplinare è collegata a ipotesi generiche e a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto. Nel secondo, invece, l’azione disciplinare: è collegata alla pronuncia penale, che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso; ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata una imputazione; ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto.
Se ne è tratta la conseguenza che la prescrizione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta (Cass. S.U. 13 maggio 2021 n. 12902; Cass. S.U. 4 gennaio 2020 n. 1609; Cass. S.U. 3 novembre 2017 n. 26148 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione), salva l’ipotesi in cui il termine quinquennale sia già interamente decorso al momento dell’esercizio dell’azione penale (Cass. S.U. 14 dicembre 2020 n. 28386; Cass. S.U. 7 novembre 2016 n. 22516).
Correttamente, pertanto, il CNF ha escluso che la prescrizione fosse maturata nella fattispecie, a prescindere dalla validità degli atti compiuti in epoca antecedente al passaggio in giudicato della sentenza penale, atteso che, pacificamente, l’evento esterno che segna il dies a quo della prescrizione, ossia la definitività dell’accertamento in ordine alla responsabilità penale, si era verificato nel dicembre del 2013 e, pertanto, il termine quinquennale non era decorso alla data della notifica dell’incolpazione, risalente al marzo 2016, né quel termine era spirato nelle more fra la commissione del fatto e l’esercizio dell’azione penale, giacché la condotta era stata realizzata nell’anno 2004 ed il rinvio a giudizio era stato disposto, come afferma lo stesso ricorrente, il 18 dicembre 2007.
Al riguardo va precisato che, una volta ancorato il dies a quo alla data del passaggio in giudicato della sentenza penale, non vale discorrere della validità di atti interruttivi o sospensivi posti in essere in epoca antecedente alla verificazione del fattore esterno, che rende doverosa l’azione disciplinare, giacché una questione di sospensione o di interruzione si può porre solo con riferimento ad un termine il cui decorso sia iniziato, evenienza, questa, che non ricorre, per quanto sopra detto, nella fattispecie ( cfr. Cass. S.U. 31 maggio 2016 n. 11367; Cass. S.U. 3 novembre 2017 n. 26148; Cass. S.U. 14 settembre 2022 n. 26990).
7.1. Il quarto motivo è, in conclusione, infondato nella parte in cui sostiene che l’orientamento richiamato dal CNF non sarebbe applicabile nei casi in cui l’illecito risulti prescritto prima della formulazione dell’incolpazione, sicché, una volta consolidata una delle due rationes decidendi della decisione impugnata, la formazione del giudicato interno rende inammissibile la questione, pure posta dal motivo, dell’idoneità a determinare la cessazione della permanenza del comportamento processuale tenuto dall’avvocato Meloni nel giudizio civile.
Costituisce, infatti, ius receptum il principio secondo cui, qualora la sentenza impugnata risulti sorretta da diverse rationes decidendi, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’inammissibilità o l’infondatezza del motivo di ricorso attinente ad una di esse rende irrilevante l’esame dei motivi riferiti alle altre, i quali non risulterebbero in nessun caso idonei a determinare la cassazione della sentenza impugnata, una volta consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura rigettata o dichiarata inammissibile ( cfr. fra le tante Cass. n. 13880/2020; Cass. n. 15399/2018; Cass. n. 11403/2018; Cass. n. 9752/2017).
8. Esclusa in radice, sulla base dell’orientamento richiamato nel punto che precede, la possibilità che la prescrizione potesse decorrere e maturare in epoca antecedente al dicembre 2013, anno di formazione del giudicato penale, vanno dichiarati inammissibili, per difetto di interesse all’impugnazione, il primo, il secondo e, parzialmente, il terzo motivo (con la sola eccezione della censura inerente alle violazioni che si sarebbero verificate dopo la ripresa del procedimento), perché, come riconosce lo stesso ricorrente, tutte le questioni poste in relazione alla legittimità dell’originaria contestazione e della sospensione del procedimento disciplinare nonché alla tempestività della riattivazione sono finalizzate a far escludere che fossero stati compiuti validi atti interruttivi o sospensivi.
Nel giudizio di cassazione opera il principio secondo cui l’interesse all’impugnazione, che deve essere valutato in relazione ad ogni singolo motivo, va apprezzato con riferimento all’utilità concreta che la parte può ricavare dall’eventuale accoglimento del gravame, ed inoltre non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica (che può venire in rilievo solo nei casi previsti dall’art 363 cod. proc. civ.), con la conseguenza che va escluso ogniqualvolta la dedotta violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, sia diretta all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico.
Il richiamato principio opera nella fattispecie, giacché in nessun caso eventuali vizi del procedimento verificatisi in epoca antecedente alla formazione del giudicato penale potrebbero indurre, quale conseguenza, l’invocato annullamento della sanzione disciplinare in ragione della maturazione della prescrizione, prescrizione che, lo si ripete, non poteva iniziare a decorrere prima del dicembre 2013.
9. E’ infondata la censura prospettata al punto 3 del terzo motivo.
Anche a voler prescindere dall’omesso rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ. ( il ricorrente non fornisce alcuna indicazione in merito alla localizzazione nel fascicolo degli atti sui quali la censura si fonda), va detto che la censura, nella parte in cui denuncia la nullità dell’atto di citazione, non considera la diversità fra la delibera di approvazione del capo di incolpazione di cui all’art. 16 del regolamento e la successiva deliberazione di rinvio a giudizio, disciplinata dall’art. 18 dello stesso regolamento, della quale non occorre fare menzione nella citazione, perché sia l’art. 59 della legge professionale, sia gli artt. 17 e 21 del regolamento prescrivono che all’incolpato sia data comunicazione, al momento dell’avvio dell’istruttoria ( e quindi non con la citazione) che segue alla fase preliminare, della deliberazione di approvazione del capo di incolpazione, non di quella di rinvio a giudizio né, tanto meno, della richiesta formulata dal consigliere istruttore.
9.1. Parimenti infondato è il motivo nella parte in cui pretende di far discendere la nullità dell’intero procedimento dall’omessa audizione dell’incolpato, non disposta sebbene sollecitata prima del rinvio a giudizio.
L’art. 59, lett. b) n. 2, della legge n. 247 del 2012 prevede che nella comunicazione diretta all’incolpato debba essere inserito « l’avviso che l’incolpato, nel termine di venti giorni dal ricevimento della stessa, ha diritto di accedere ai documenti contenuti nel fascicolo, prendendone visione ed estraendone copia integrale; ha facoltà di depositare memorie, documenti e di comparire avanti al consigliere istruttore, con l’assistenza del difensore eventualmente nominato, per essere sentito ed esporre le proprie difese. La data per l’interrogatorio è fissata subito dopo la scadenza del termine concesso per il compimento degli atti difensivi ed è indicata nella comunicazione». La successiva lettera c) stabilisce che «decorso il termine concesso per il compimento degli atti difensivi, il consigliere istruttore, qualora, per il contenuto delle difese, non ritenga di proporre l’archiviazione, chiede al consiglio distrettuale di disciplina di disporre la citazione a giudizio dell’incolpato» ed analoga disposizione è contenuta nell’art. 18 del regolamento.
Il legislatore, quindi, ha previsto una specifica scansione temporale del procedimento, sicché correttamente il CNF ha rilevato che, a prescindere da ogni altra considerazione, nessuna irregolarità poteva essere ravvisata nella fattispecie, perché la memoria contenente la richiesta di audizione era stata presentata quando già il termine concesso all’incolpato era scaduto.
Infondatamente il ricorrente richiama l’art. 415 bis cod. proc. pen., atteso che nel procedimento penale affinché l’omesso interrogatorio possa determinare nullità degli atti successivamente compiuti è necessario che la richiesta venga formulata dall’indagato nel termine concesso, il cui spirare determina l’irrimediabile consumazione della facoltà (Cass. 9 settembre 2015 n. 36430; Cass. 22 marzo 2016 n. 35342).
10. E’, invece, fondato, nei limiti di seguito precisati, il quinto motivo.
Il delitto di falsità in scrittura privata, nelle more fra la formazione del giudicato penale e la definizione del giudizio disciplinare, è stato depenalizzato dall’art. 4 del d.lgs. n. 7 del 2016 che, all’art. 12, ha previsto che «Se i procedimenti penali per i reati abrogati dal presente decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.».
Non è in discussione, e ne dà atto la decisione qui impugnata, che, in ragione dell’intervenuta abolitio criminis, la sentenza definitiva di condanna è stata revocata in sede esecutiva dal Tribunale di Cagliari.
E’ indubbio che la depenalizzazione, e la successiva revoca della sentenza di condanna, non abbiano fatto venir meno il carattere illecito della condotta né abbiano inciso retroattivamente sul regime della prescrizione dell’illecito disciplinare, che resta quello, di cui si è detto, applicabile ratione temporis.
Non è, invece, condivisibile la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che, in ragione dell’applicabilità dell’art. 653 cod. proc. pen., non era tenuto il giudice disciplinare a procedere ad un nuovo accertamento del fatto e della responsabilità dell’incolpato, già definitivamente acclarati in sede penale.
La disposizione citata, infatti, limita l’efficacia di giudicato alla sola sentenza penale di condanna, sicché, a seguito della revoca, che comporta l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, nel giudizio disciplinare non ancora definito non può più operare la regola di giudizio fissata dal secondo comma del richiamato art. 653 e torna ad espandersi il principio generale secondo cui il giudice disciplinare può e deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti (cfr. Cass. S.U. 13 maggio 2021 n. 12902), in relazione al quale la sentenza penale ed il materiale probatorio acquisito in quella sede possono essere utilizzati ai fini del giudizio.
La fondatezza del quinto motivo comporta l’assorbimento della sesta censura.
11. In via conclusiva merita accoglimento il solo quinto motivo, con conseguente assorbimento della sesta censura, e la pronuncia impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio al Consiglio Nazionale Forense che procederà ad un nuovo esame, attenendosi al principio di diritto enunciato nel punto che precede.
12. Le spese del giudizio di cassazione devono essere interamente compensate, in ragione della fondatezza solo parziale del ricorso.
13. Non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, con assorbimento della sesta censura. Rigetta il quarto motivo e dichiara inammissibili gli ulteriori motivi. Cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia al C.N.F. per un nuovo esame. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 6 giugno 2023
Allegati:
SS.UU, 06 luglio 2023, n. 19200, in tema di illecito disciplinare
Nota dell'Avv. Maria Luisa Avellis
La depenalizzazione di una fattispecie rende inapplicabile l’art. 653 c.p.p. al procedimento disciplinare
1. Il principio di diritto
L’art. 653 c.p.p. limita l’efficacia di giudicato alla sola sentenza penale di condanna, sicché, a seguito della revoca della sentenza penale con conseguente assoluzione dell’imputato perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, nel giudizio disciplinare non ancora definito non può più operare la regola di giudizio fissata dal comma 2 del richiamato art. 653.
Ne consegue che torna ad espandersi il principio generale secondo cui il Giudice disciplinare può e deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti in relazione al quale la sentenza penale ed il materiale probatorio acquisito in quella sede possono essere utilizzati ai fini del giudizio.
2. La motivazione
Le Sezioni Unite, pur ricordando che la depenalizzazione non comporti il venir meno del carattere illecito della condotta, hanno ritenuto che impedisca l’operatività del meccanismo di cui all’art. 653 c.p.p..
Nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dal Consiglio Nazionale Forense, il Giudice disciplinare non avrebbe potuto limitarsi a far propri gli accertamenti di fatto operati dal Giudice penale con la sentenza poi revocata.
In sede disciplinare, si sarebbe dovuto, invece, procedere ad un autonomo accertamento del fatto e della responsabilità dell’incolpato, nell’ambito del quale avrebbe potuto essere acquisito il materiale probatorio formatosi nell’ambito del giudizio penale.
Per tale ragione, la decisione è stata cassata con rinvio, con obbligo per il Consiglio Nazionale Forense di un nuovo esame della fattispecie disciplinare.
3. Riflessioni conclusive
La pronuncia conferma la assoluta autonomia del procedimento disciplinare nei confronti dell’avvocato rispetto a quello penale avente ad oggetto gli stessi fatti, delineata dall’art. 54 della L. 247/2012.
In deroga alla generale previsione dell’art. 653 c.p.p., soltanto l’accertamento con sentenza penale irrevocabile che “il fatto non sussiste” o che “l’imputato non lo ha commesso” ha efficacia di giudicato, preclusivo di un’autonoma valutazione dei fatti ascritti all’incolpato da parte del Consiglio Nazionale Forense.
Detto effetto, invece, non è determinato dalle diverse formule assolutorie “il fatto non costituisce reato o illecito penale” o il fatto “non è previsto dalla legge come reato”, alle quali può essere assimilata la pronuncia di revoca della sentenza penale per intervenuta depenalizzazione.
Il principio di diritto è già stato espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 12902 del 13 maggio 2021, in GiurisprudenzaSuperiore.it, Decise, con nota dell’Avv. Alfonso Ciambrone.