Civile Sent. Sez. U Num. 21069 Anno 2023
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: SESTINI DANILO
Data pubblicazione: 18/07/2023
SENTENZA
sul ricorso 1614-2023 proposto da:
—, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE PINTURICCHIO 89, presso lo studio dell’avvocato —, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE AVVOCATI DI —;
– intimato –
avverso la sentenza n. —/2022 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il —/—/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del —/—/2023 dal Consigliere DANILO SESTINI.
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale RENATO FINOCCHI GHERSI, che ha concluso per il rigetto del ricorso dichiarandolo
inammissibile o infondato;
udito l’Avvocato —.
FATTI DI CAUSA
Con decisione n. —/2018, il Consiglio Distrettuale di Disciplina di — comminò all’avv. — la sanzione disciplinare della censura in relazione alla violazione dell’art. 36, comma 1 del nuovo Codice Deontologico Forense, per avere svolto attività defensionale avanti al Consiglio di Stato pur essendo sprovvisto di abilitazione al patrocinio avanti alle giurisdizioni superiori; e ciò – secondo l’incolpazione- accentando il mandato, seppure unitamente ad avvocati abilitati, certificando l’autenticità delle sottoscrizioni dei clienti e sottoscrivendo i ricorsi e le memorie nei giudizi nn. ———- del 2011 e n. — del 2012.
Il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato l’impugnazione dell’avv. —, il quale ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di — non ha svolto attività difensiva.
Fissata l’odierna udienza pubblica, il ricorrente ha formulato tempestiva istanza di discussione orale e ha depositato memoria.
Il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o infondato.
All’odierna pubblica udienza, il P.G. e il difensore hanno insistito nelle precedenti richieste.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo, il ricorrente denuncia «violazione, erronea interpretazione ed eccesso di potere in relazione all’art. 29, n. 1, lett. f) della l. 247/2012 e del previgente art. 42, u.c., RDL n. 1578/1933».
Premette che sia avanti al CDD di — che avanti al CNF aveva eccepito la non corretta incardinazione del procedimento, e ciò per il fatto che la prima contestazione disciplinare (risalente al — 2013) gli era stata mossa dal Presidente del COA sulla base di una conoscenza personale dei fatti contestati, ma in difetto di materiale cognizione degli stessi da parte del COA che, pertanto, non aveva adottato alcuna delibera in proposito; ribadisce che il Presidente del COA aveva gestito “personalmente” il procedimento (in una situazione di potenziale conflitto di interessi, in quanto precedente difensore dei clienti poi assistiti dall’incolpato), senza trasmetterlo al Consiglio, sia nella fase di audizione dell’avv. — (avvenuta nella vigenza del previgente ordinamento forense) che in quella di trasmissione degli atti al CDD (nella vigenza del nuovo ordinamento); evidenzia che la violazione procedimentale aveva sottratto al Consiglio le sue prerogative e aveva violato il diritto di difesa del ricorrente; contesta la decisione impugnata per avere ritenuto irrilevante quanto denunciato e conclude per l’«accertamento della nullità del provvedimento di trasmissione degli atti da parte del Presidente del COA di — al CDD e di ogni altra attività successiva».
1.1. Sul punto, il CNF ha escluso che le attività iniziali compiute dal COA di — siano censurabili in relazione al contenuto del regolamento n. 2/2014 del CNF (entrato in vigore il 1° gennaio 2015) e ha ritenuto che il Presidente del COA non poteva che avere agito in rappresentanza dell’ente, tanto più che l’audizione dello — era avvenuta alla presenza del segretario del COA e una successiva richiesta di documentazione all’incolpato era stata avanzata tramite un altro componente del medesimo Consiglio; ha affermato che, «in ogni caso», eventuali violazioni procedimentali avrebbero potuto comportare l’annullamento della decisione disciplinare soltanto ove avessero comportato una lesione del diritto di difesa, che non si era verificata in concreto; ha aggiunto che sarebbe del tutto irrilevante la circostanza che la notizia dell’illecito fosse pervenuta al presidente nella sua veste di iscritto all’Ordine, in quanto l’azione disciplinare può essere avviata dal COA anche sulla base di semplici informazioni.
1.2. Il motivo è infondato in quanto, a prescindere dalle modalità con cui venne appresa la notizia dell’illecito, non risulta configurabile alcuna concreta lesione del diritto di difesa dell’incolpato, che fin dall’inizio ha avuto modo di contestare gli addebiti e di giustificare la propria condotta; per di più, e in via dirimente, va escluso che eventuali vizi procedurali della fase che precedette la trasmissione degli atti al CDD di — (a seguito dell’entrata in vigore del nuovo sistema disciplinare) possano refluire sul procedimento istruito ex novo in tale sede e sulle successive sentenze emesse dall’anzidetto CDD e dal CNF, essendo incontestato (come rilevato anche dal P.G.) che, dopo la trasmissione al Consiglio Distrettuale, il procedimento si è svolto con tutti gli adempimenti di rito.
2. Col secondo motivo, il ricorrente denuncia «violazione, errata interpretazione ed eccesso di potere in relazione all’art. 36, n. 1, del Codice Deontologico forense (già art. 21 del VCDF)».
Lo — deduce di avere assistito le società facenti capo all’ATI — fin dall’anno — e di averle informate della mancanza di abilitazione per il patrocinio avanti alle giurisdizioni superiori; aggiunge che le stesse gli avevano chiesto di indicare loro un avvocato abilitato e, in forza del rapporto di fiducia e della complessità delle vicende sottese alle controversie, di affiancare i difensori abilitati per il compimento di attività di raccordo e di supporto; precisa che tale affiancamento si era sviluppato mediante incontri personali o telefonici con gli avvocati abilitati, ma non aveva mai riguardato attività difensive o la partecipazione alle udienze (alle quali egli aveva assistito nel settore dedicato al pubblico); sostiene che la sottoscrizione degli atti difensivi da parte sua non aveva «causato conseguenza alcuna sugli atti stessi (vitiatur sed non vitiat)»; tanto premesso, censura la sentenza impugnata per aver affermato che tali circostanze non erano idonee a determinare l’insussistenza dell’elemento oggettivo dell’illecito disciplinare, potendo al più costituire motivo di valutazione in ordine alla sanzione da irrogare; evidenzia, al riguardo, che il principio di proporzionalità costituisce un canone di valenza costituzionale (oltreché conforme alla giurisprudenza della CEDU) che vale anche in ambito di responsabilità disciplinare e che l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito «non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità», atteso che «la violazione della regola della proporzionalità da parte dell’organo sanzionatore comporta l’illegittimità della sanzione irrogata»; rileva che lo stesso CNF aveva riconosciuto che le particolari circostanze risultanti dagli atti avevano evidenziato come la condotta del ricorrente non avesse in concreto recato offesa ad alcuno ed era anche mancato completamente lo “strepitum fori”, cosicché difettava «totalmente il requisito dell’offensività, che è uno dei presupposti su cui parametrare la misura della sanzione sulla base del principio della proporzionalità»; conclude, quindi, che «la decisione impugnata, che ha ritenuto valida una sanzione irrogata in difetto di alcuna offensività in concreto della condotta, ma solo sulla base della astratta previsione normativa, [è] illegittima, e la sentenza emessa viziata per violazione della norma incriminatrice -interpretata secondo il principio della proporzionalità-, ed emessa in eccesso di potere»;
2.1. Il motivo è inammissibile, in quanto volto ad una rivisitazione del merito della controversia che -nelle intenzioni del ricorrente- dovrebbe ruotare intorno al principio di proporzionalità e dovrebbe pervenire alla conclusione l’inoffensività della condotta tenuta dal professionista non abilitato nell’espletamento dell’attività di “affiancamento” all’avvocato abilitato.
Va considerato, peraltro, che:
– il criterio della proporzionalità non risulta di per sé idoneo ad escludere la rilevanza del dato oggettivo dell’espletamento dell’attività, apparendo piuttosto funzionale ad una censura sull’adeguatezza della sanzione applicata che, tuttavia, non è stata specificamente svolta in questa sede; invero, il ricorrente ha inteso contestare la stessa configurabilità dell’illecito disciplinare, com’è reso manifesto dalla circostanza che abbia denunciato la violazione dell’art. 36 del Codice Deontologico Forense e dal fatto che abbia dichiarato (pag. 14) di censurare la parte della decisione che concerneva la sussistenza dell’elemento oggettivo dell’illecito disciplinare;
– neppure risulta postulabile il difetto di offensività di una condotta che, essendo espressamente vietata, risulta per ciò stesso valutata -a priori e in termini generali- come lesiva dei valori e degli interessi sottesi alla normativa deontologica.
3. Il ricorso va pertanto, nel complesso, rigettato:
4. Poiché l’intimato non ha svolto attività difensiva, non deve provvedersi sulle spese di lite.
5. Sussistono le condizioni per l’applicazione dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Roma, —.—.2023
Allegati:
SS.UU, 18 luglio 2023, n. 21069, in tema di illecito disciplinare
Nota del Dott. Riccardo Maria Tombolesi
Proporzionalità della sanzione deontologica e svolgimento dell’attività professionale in mancanza di titolo
1. Il principio di diritto
Il criterio della proporzionalità della sanzione non è idoneo ad escludere la rilevanza del dato oggettivo dell’espletamento dell’attività in contrasto con i principi deontologici, apparendo piuttosto funzionale ad una censura sull’adeguatezza della sanzione applicata.
Non è postulabile il difetto di offensività di una condotta che, essendo espressamente vietata, risulta per ciò stesso valutata - a priori e in termini generali - come lesiva dei valori e degli interessi sottesi alla normativa deontologica.
2. I motivi di ricorso
Con il motivo principale del ricorso è stata denunciata la “violazione, errata interpretazione ed eccesso di potere in relazione all’art. 36, n. 1, del Codice Deontologico forense (già art. 21del VCDF)”.
Merita precisare che ai sensi dell’art. 36, c. 1, del Codice Deontologico Forense: “Costituisce illecito disciplinare l’uso di un titolo professionale non conseguito ovvero lo svolgimento di attività in mancanza di titolo o in periodo di sospensione”.
Il ricorrente ha dedotto di avere assistito le società facenti capo ad una ATI fin dall’anno 2006 e di averle informate della mancanza di abilitazione per il patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori; ha poi aggiunto che le clienti stesse gli avevano chiesto di indicare loro un avvocato abilitato e, in forza del rapporto di fiducia e della complessità delle vicende sottese alle controversie, di affiancare i difensori abilitati per il compimento di attività di raccordo e di supporto.
Tale affiancamento si era sviluppato mediante incontri personali o telefonici con gli avvocati abilitati, ma non aveva mai riguardato attività difensive o la partecipazione alle udienze.
Da qui la censura della sentenza impugnata per aver affermato che tali circostanze non erano idonee a determinare l’insussistenza dell’elemento oggettivo dell’illecito disciplinare, potendo al più costituire motivo di valutazione in ordine alla sanzione da irrogare.
Il professionista ha, altresì, sostenuto che il principio di proporzionalità costituisce un canone di valenza costituzionale (oltreché conforme alla giurisprudenza della CEDU), che vale anche in ambito di responsabilità disciplinare, e che l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito “non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità”, atteso che “la violazione della regola della proporzionalità da parte dell’organo sanzionatore comporta l’illegittimità della sanzione irrogata”.
Per la Cassazione, il motivo di ricorso è inammissibile, in quanto volto ad una rivisitazione del merito della controversia, che, nelle intenzioni del ricorrente, dovrebbe ruotare intorno al principio di proporzionalità e dovrebbe pervenire alla conclusione dell’inoffensività della condotta tenuta dal professionista non abilitato nell’espletamento dell’attività di “affiancamento” all’avvocato abilitato.