REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –
Dott. ADAMO Mario – Presidente Sezione –
Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –
Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –
Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –
Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –
Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 17902/2012 proposto da:
CAVE PONTE DELLA REGINA S.R.L., in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GUIDO D’AREZZO 32, presso lo studio dell’avvocato MUNGARI MATTEO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati SARTORI ANTONIO, VERINO MARIO ETTORE, per procura speciale del notaio Dott. Benvenuto Pier Luigi di San Vito al Tagliamento, rep. 134.737 dell2/06/12, in atti;
– ricorrente –
contro
BETON CANDEO S.P.A., in persona del Presidente del consiglio di amministrazione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASSIODORO 9, presso lo studio dell’avvocato NUZZO MARIO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati GABRIELLI GIOVANNI, D’AMICO ANTONIA, per delega in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 59/2012 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 24/01/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/03/2014 dal Consigliere Dott. ALBERTO GIUSTI;
uditi gli avvocati Matteo MUNGARI, Mario Ettore VERINO, Mario NUZZO;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del secondo motivo del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Il 2 gennaio 1992 veniva stipulato, tra la s.r.l. Cave Ponte della Regina (d’ora in poi Cave Ponte) e C.P., un contratto denominato “Promessa di appalto di escavazione”, in forza del quale la prima, titolare di un’autorizzazione alla coltivazione di cava di inerti rilasciata nel 1983 e rinnovata nel 1986, si impegnava – sul presupposto dell’adozione, in data 8 aprile 1991, di un nuovo piano regolatore generale del Comune di San Vito al Tagliamento, che prevedeva l’attuazione di attività estrattiva di materiali di cava di inerti interessante un’area nel cui ambito erano ricompresi alcuni terreni già di proprietà di Cave Ponte – ad acquistare i restanti terreni rientranti nell’area anzidetta, con conseguente cessione dei diritti di escavazione al C.. Costui, a propria volta, accettava – per sé o per persona da nominare (identificata successivamente nella s.r.l. Calcestruzzi e Conglomerati Bituminosi Padova, di seguito CGB, successivamente trasformatasi nella s.p.a. Beton Candeo) – la cessione del diritto di escavazione su tutti i terreni, nonché il trasferimento della proprietà dell’intera cubatura dell’inerte da estrarre, dietro pagamento del prezzo della cessione, determinato – ai sensi degli artt. 3 e 5 dell’accordo contrattuale – sulla base dell’intero quantitativo da estrarre dalla cava.
La società CGB, assumendo di aver acquisito la proprietà dell’intero giacimento di cava di inerti, con atto di citazione notificato il 26 febbraio 2000 convenne in giudizio Cave Ponte, chiedendone la condanna al rilascio di tutti i terreni (anche di quelli trasferiti ex art. 1478 c.c.), come individuati nel contratto. Per contro, la convenuta, nel costituirsi in giudizio, contestò la domanda di parte avversa, rilevando che il contratto suddetto – da intendersi come preliminare di vendita mobiliare e di appalto – aveva avuto concreta attuazione, a causa della mancata approvazione del piano regolatore generale, solo nei limiti di quanto già assentito in favore di essa Cave Ponte, in forza dell’autorizzazione del 1986. Propose, inoltre, domanda riconvenzionale volta a conseguire la dichiarazione di cessazione del rapporto contrattuale di appalto, per effetto del compimento dell’opera di escavazione, nonché l’accertamento della responsabilità di CGB per vizi e difformità dell’esecuzione dello scavo rispetto a quanto autorizzato (responsabilità dalla quale chiese di essere tenuta indenne), instando, altresì, per la riduzione del compenso dovuto all’appaltatore e la condanna dello stesso al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio, oltre alla risoluzione del contratto per inadempimento, in relazione ai predetti vizi e difformità e al mancato rispetto del quantitativo minimo pattuito di materiale inerte da scavare, pari a 100.000 metri cubi; in ogni caso, domandò di essere immessa nel possesso e nella libera disponibilità dell’area di cantiere e la condanna della controparte al risarcimento dei danni da ritardata riconsegna della stessa. A fronte di tale linea difensiva della convenuta, parte attrice, all’udienza di trattazione della causa, formulò, ai sensi dell’art. 183 c.p.c., una reconventio reconventionis, avente ad oggetto l’accertamento della permanente efficacia e validità del contratto, nonché la condanna di Cave Ponte al suo adempimento.
Con sentenza n. 4 del 26 febbraio 2004, passata in giudicato (stante l’estinzione del relativo giudizio di appello per rinuncia al gravame), il Tribunale di Pordenone, sezione distaccata di San Vito al Tagliamento, rigettò la domanda principale, dichiarò inammissibili le altre domande proposte dall’attrice, dichiarò cessato il rapporto contrattuale in relazione alla aree detenute da CGB, delle quali ordinò il rilascio in favore di Cave Ponte, la cui domanda risarcitoria venne respinta.
2. Con successivo atto di citazione notificato il 23 novembre 2005, la s.p.a. Beton Candeo (già s.r.l. CGB) conveniva Cave Ponte innanzi al medesimo Tribunale, chiedendone la condanna all’esecuzione del contratto del 2 gennaio 1992, come integrato dalle pattuizioni del 9 settembre 1993 (in forza delle quali era stata stabilita una modificazione del prezzo del materiale inerte estratto dall’appaltatrice) e del 17 novembre 1994 (con cui le parti, invece, si erano date atto dell’intervenuta emanazione del provvedimento amministrativo regionale che impediva la realizzazione degli specchi d’acqua mediante l’attività di scavo oggetto dell’appalto, nonché dell’impugnativa dello stesso, confermando – per l’ipotesi dell’accoglimento dell’impugnativa – le condizioni contrattuali così come originariamente stabilite il 2 gennaio 1992 e successivamente modificate il 9 settembre 1993). La convenuta Cave Ponte, nel contestare il fondamento delle domande attoree, chiedeva il rigetto delle stesse.
3. Con sentenza n. 15 del 30 marzo 2010, l’adito Tribunale, nel rilevare che Beton Candeo – in sede di precisazione delle conclusioni – aveva chiesto, a modifica dell’originaria domanda di adempimento, la declaratoria di risoluzione del contratto per inadempimento della convenuta e la condanna della stessa al risarcimento dei danni per equivalente, rigettava la domanda, accogliendo l’eccezione di giudicato esterno sollevata dalla convenuta. Non vi può essere – rilevava il Tribunale – “alcuno spazio giurisdizionale ulteriore”, giacché “con la sentenza n. 4 del 2004 di questo Tribunale è stato sancito che il contratto de quo è cessato”.
4. In accoglimento del gravame proposto da Beton Candeo, questa decisione è stata riformata, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 24 gennaio 2012, dalla Corte d’appello di Trieste, la quale ha dichiarato la risoluzione del contratto, condannando Cave Ponte al risarcimento del danno, quantificato in Euro 16.577.120, oltre interessi e rivalutazione dalla domanda al saldo.
4.1. La Corte d’appello ha in primo luogo escluso che tra le parti si sia formato un giudicato preclusivo per effetto della sentenza del Tribunale di Pordenone, sezione distaccata di San Vito al Tagliamento, n. 4 del 2004. Il giudicato – si osserva – inerisce alle sole aree detenute da Cave Ponte e la cessazione del rapporto di appalto tra le parti è limitata a tali aree sulle quali l’attività estrattiva era esaurita, non toccando le altre aree facenti parte di un comprensorio più ampio che avrebbe dovuto formare oggetto dell’estrazione di inerti da parte di Beton Candeo. Non essendo intervenuta alcuna decisione di merito con riferimento alle altre aree del comprensorio suddetto, ma una mera dichiarazione di inammissibilità della domanda per genericità della stessa e quindi per vizio della sua introduzione, la Corte territoriale ha giudicato ammissibile, con riferimento a queste, l’esame nel merito della pretesa dedotta in giudizio relativa all’accertamento della perdurante efficacia dell’appalto. La Corte di Trieste ha quindi rilevato, alla luce dell’istruttoria espletata in primo grado e in particolare della consulenza tecnica d’ufficio, che l’escavazione sulle altre aree era ancora eseguibile sulla base del nuovo piano regolatore comunale di San Vito al Tagliamento approvato il 3 dicembre 2001 ed entrato in vigore il 3 novembre 2002 (in quanto l’impugnazione proposta avverso il provvedimento amministrativo che aveva determinato la temporanea impossibilità di esecuzione dell’appalto fu accolta dal TAR e il Comune deliberò di adottare un nuovo PRGC, approvato dalla Regione nel 2002, in sostituzione di quello del 1991, in attuazione del quale era stato concluso l’appalto del 1992), e che l’estrazione di inerti restava sostanzialmente conforme a quella contrattualmente prevista. Disattendendo il contrario assunto della parte appellata, il giudice d’appello ha ritenuto ammissibile anche la domanda risarcitoria introdotta unitamente a quella di risoluzione, sebbene quest’ultima fosse stata proposta in corso di causa (avendo Beton Candeo agito, ab origine, per l’adempimento), interpretando, così, in modo “coordinato” l’art. 1453 c.c., commi 1 e 2, nel senso, cioè, che se l’una disposizione rimette al contraente non inadempiente la scelta tra l’adempimento e la risoluzione, facendo però salvo “in ogni caso” il risarcimento del danno, l’altra, nel consentire il mutamento in corso di causa della domanda di adempimento in domanda di risoluzione, permette di affiancare quest’ultima anche con la domanda risarcitoria. La Corte territoriale ha quindi ritenuto che costituisce grave inadempimento, tale da giustificate la risoluzione del contratto de quo, la circostanza che Cave Ponti non abbia consentito, appena divenuta nuovamente eseguibile sulla base del nuovo PRGC, la prosecuzione del contratto stipulato nel 1992.
5. Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello Cave Ponti ha proposto ricorso, con atto notificato il 18 luglio 2012, articolato in cinque motivi e illustrato con successiva memoria, cui Beton Candeo ha resistito con controricorso. All’esito dell’udienza pubblica svoltasi il 4 luglio 2013, la Seconda Sezione civile, con ordinanza interlocutoria 9 agosto 2013, n. 19148, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite ai fini della risoluzione del contrasto sulla questione, veicolata dal secondo motivo di ricorso, se, convertita in corso di causa la domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto per inadempimento ai sensi dell’art. 1453 c.c., comma 2, sia consentita anche la proposizione, contestuale, della domanda di risarcimento dei danni. Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite. Acquisita la relazione dell’Ufficio del massimario, e depositata, da parte della ricorrente, una nuova memoria illustrativa, il ricorso è stato discusso all’udienza pubblica del 25 marzo 2015.
Motivi della decisione
1. Il ricorso viene all’esame delle Sezione Unite per comporre il contrasto sulla questione se, convertita in corso di causa la domanda di adempimento del contratto in quella di risoluzione del contratto inadempiuto ai sensi dell’art. 1453 c.c., comma 2, sia consentita, contestualmente alla variatio, la proposizione della domanda di risarcimento dei danni. La questione è posta con il secondo motivo di ricorso.
2. In ordine logico è tuttavia preliminare l’esame: – (a) del primo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché vizio di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5), con cui la ricorrente Cave Ponte denuncia che la sentenza impugnata avrebbe disatteso il giudicato esterno rappresentato dalla sentenza, intervenuta tra le stesse parti, n. 4 del 2004 del Tribunale di Pordenone, sezione distaccata di San Vito al Tagliamento, la quale, avendo dichiarato la cessazione del contratto di appalto di escavazione, precluderebbe la possibilità di discutere nel merito la stessa controversia; – e (b) del terzo motivo, con cui la ricorrente censura violazione e falsa applicazione degli artt. 1343, 1418 e 1421 c.c., con riferimento in particolare al principio di rilevabilità d’ufficio della nullità dei contratti inter partes in data 2 gennaio 1992 (promessa di appalto di escavazione), 9 settembre 1993 (convenzione) e 17 novembre 1994 (integrazione della promessa di appalto di escavazione del 2 gennaio 1992), in relazione alla Legge Urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, artt. 7 e ss., 13 e ss. e 28, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché violazione degli artt. 1218 e 1453 c.c., osservando che la Corte d’appello di Trieste avrebbe dovuto rilevare che nel caso di specie mancava il titolo giuridico per poter legittimamente eseguire il contratto poi erroneamente dichiarato risolto.
3. La censura articolata con il primo motivo è infondata.
3.1. Dal diretto riesame degli atti del processo emerge che – di fronte al giudice della prima causa, iniziata con atto di citazione del 26 febbraio 2000, svoltasi tra le stesse parti e definita con la sentenza, passata in giudicato, del Tribunale di Pordenone, sezione distaccata di San Vito al Tagliamento, 26 febbraio 2004, n. 4 – erano state proposte, per quanto qui ancora rileva, le seguenti domande: – da parte dell’attrice CGB s.r.l. (poi Beton Candeo s.p.a.), in via principale, la domanda di accertamento – per effetto del contratto in data 2 gennaio 1992 – di essere divenuta proprietaria “dei terreni meglio individuati nell’atto di citazione”, con condanna di Cave Ponte al rilascio dei terreni “nella libera disponibilità di CGB”; – da parte della convenuta Cave Ponte (la quale, contestando l’assunto di controparte, affermava che il contratto del 2 gennaio 1992 si configurava come preliminare di vendita mobiliare/contratto di appalto, che, “a causa di tormentata ed annosa vicenda connessa alla mancata approvazione del PRG comunale del 1991, aveva potuto avere concreta attuazione – come si evinceva dalla convenzione del 9 settembre 1993 – solo nei limiti di quanto già assentito – in favore di Cave Ponte – dalla rediviva autorizzazione alla escavazione del 1986”), la domanda riconvenzionale, in via principale, “che fosse dichiarato che il rapporto contrattuale di appalto era cessato con il compimento dell’opera di escavazione” (si legge nelle conclusioni: “dichiararsi cessato il rapporto contrattuale di appalto inter partes con il compimento dell’opera di escavazione e il conseguente contratto di vendita del materiale asportato”); – da parte, ancora, dell’attrice CGB, la domanda, in via di reconventio reconventionis: “accertato che il contratto 2 gennaio 1992 è tuttora valido e produttivo di effetti, accertato altresì che il PRG adottato dal Comune di San Vito al Tagliamento in data 28 novembre 2002 non comporta nessun mutamento al progetto di scavo di cui al PRG del 1991, ed accertato quindi che la condizione sospensiva del perfezionarsi positivamente dell’iter amministrativo di autorizzazione del progetto di cui al PRG comunale del 1991, come successivamente modificato nel rispetto del nuovo PRG approvato il 28 novembre 2000, si è avverata, voglia condannare Cave Ponte… all’adempimento del contratto ovvero, in via di ulteriore subordine, e qualora la condizione di cui sopra non si sia ancora avverata, voglia dichiarare che il contratto 2 gennaio 1992 è tuttora valido ed efficace, sospensivamente condizionato al positivo concludersi dell’iter autorizzativo del progetto di riqualificazione ambientale di cui al PRG comunale del 1991, come modificato nel rispetto del nuovo PRG adottato in data 28 novembre 2000, e dichiarare pertanto Cave Ponte… tenuta all’adempimento del contratto detto al verificarsi della condizione medesima”. Tal essendo la materia del contendere, il Tribunale: – ha rigettato la domanda principale proposta dall’attrice (sul rilievo che “il programma che emerge dalla Promessa di appalto di escavazione del 2 gennaio 1992 non presenta alcun elemento di sostegno all’ambizioso assunto che CGB ha formulato con la sua domanda principale, deducendo l’esistenza di un effetto traslativo di proprietà immobiliare, sia immediato – per le aree, già all’epoca, di proprietà di Cave Ponte – sia differito – per le aree che Cave Ponte si impegnava ad acquisire, alcune delle quali nel corso del tempo furono, poi, per l’appunto, effettivamente acquisite”); – ha dichiarato “fondate le domande riconvenzionali della convenuta Cave Ponte (ad esclusione però della domanda di condanna generica al risarcimento dei danni, asseritamente subiti, per il ritardo nella riconsegna dell’area di cantiere)”, così statuendo in dispositivo (al punto 3): “dichiara cessato il rapporto d’appalto fra l’attrice Calcestruzzi… (ora Beton Candeo s.p.a.) e la convenuta Cave Ponte della Regina s.r.l., in rapporto alle aree detenute dall’attrice, e ne ordina a quest’ultima il rilascio in favore di Cave Ponte”; – ha dichiarato inammissibili le altre domande proposte dall’attrice (punto 2 del dispositivo): una inammissibilità – è spiegato in motivazione – da genericità della “domanda svolta da CGB in via subordinata”, perché “CGB si è palesemente sottratta all’onere di affermare quali precise conseguenze debbano – secondo lei – trarsi dalla fonte Promessa di appalto di escavazione del 2 gennaio 1992; invero, CGB ha chiesto (sul riflesso che l’elemento condizionante – iter amministrativo di autorizzazione del progetto di cui al PRG comunale del 1991…” – possa ancora avverarsi o si sia sostanzialmente avverato), la condanna di Cave Ponte all’adempimento del contratto 2 gennaio 1992, o l’accertamento che Cave Ponte è tenuta all’adempimento del contratto detto al verificarsi della condizione medesima. Quali siano, secondo CGB, i diritti derivanti dal contratto in questione, CGB non ha dedotto, e il Tribunale non può certo, su questo aspetto fondamentale, surrogarsi ad essa CGB”. Ora, sia dal dispositivo (punto n. 3) sia dalla motivazione della sentenza (pag. n. 15) emerge per tabulas che la pronuncia di merito di cessazione del rapporto di appalto non è generale, ma oggettivamente limitata all’area di cantiere detenuta da CGB. Si legge nella pronuncia del Tribunale: “… risulta essere stato posto in essere da CGB ogni ragionevole e possibile intervento di scavo e di apprensione di materiale inerte, talché deve dichiararsi cessato (estinto, esaurito) il rapporto contrattuale di appalto inter partes – rispetto all’area detenuta da CGB – ordinando nel contempo a CGB di rilasciare a Cave Ponte la libera disponibilità dell’area di cantiere medesima”. E che la dichiarazione di cessazione del rapporto sia limitata, ed in rapporto esclusivo alle aree detenute a quella data dall’attrice CGB, è confermato dalla sottolineatura che è “si badi, con riguardo specifico all’area detenuta da CGB” che la stessa sentenza ha ritenuto superflua “un’indagine intesa ad evidenziare se (…) esista davvero una maggiore possibilità di sfruttamento (rispetto a quanto assentito dalla vecchia autorizzazione di cava) in relazione alle previsioni del PRG comunale del 1991”.
3.2. Correttamente la sentenza d’appello qui impugnata ha perciò rilevato che il giudicato di cui alla citata sentenza n. 4 del 2004 inerisce alle sole aree detenute da Cave Ponte e che la cessazione del rapporto di appalto tra le parti è limitata a tali aree, sulle quali l’attività estrattiva era esaurita, non toccando le altre aree facenti parte di un comprensorio più ampio che avrebbe dovuto formare oggetto dell’estrazione di inerti da parte di Beton Candeo, comprensorio di cui alle premesse del contratto di appalto, destinato alla realizzazione di uno specchio acqueo in conformità del piano regolatore generale comunale del 1991 costituito da 7 ettari già nella disponibilità di Cave Ponte e ulteriori aree limitrofe che quest’ultima si era impegnata ad acquisire. Invero, non essendo intervenuta alcuna decisione di merito con riguardo alle obbligazioni nascenti dal contratto di appalto avente ad oggetto altre aree del comprensorio, ma una mera dichiarazione di inammissibilità della domanda per genericità e quindi per un vizio della sua introduzione, la sentenza del Tribunale n. 4 del 2004 non può considerarsi come giudicato preclusivo della cognizione sulle domande articolate da Beton Candeo con l’atto di citazione notificato il 23 novembre 2005, e poi modificate in corso di causa a seguito dell’esercizio dello ius variandi di cui all’art. 1453 c.c., comma 2, con l’affiancamento alla domanda di risoluzione della domanda risarcitoria, avendo queste ad oggetto, appunto, aree ulteriori rispetto a quelle, considerate nella sentenza n. 4 del 2004, “detenute dall’attrice”, e sulle quali, in forza del contratto del 2 gennaio 1992, avrebbero dovuto estendersi gli specchi d’acqua previsti. Per un verso, infatti, la pronuncia di inammissibilità della domanda per vizio della sua introduzione (per la mancata identificazione, nella citazione introduttiva, del bene della vita richiesto), senza alcun esame della pretesa dedotta in giudizio, non equivale ad una sentenza di rigetto nel merito, e pertanto non impedisce la riproposizione della stessa domanda con un successivo, rituale atto introduttivo di un nuovo giudizio (Sez. 2^ 22 luglio 2004, n. 13785). D’altra parte – premesso che il giudicato, formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre il dedotto ed il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioè non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio, ma anche tutte le possibili questioni, proponibili sia in via di azione, sia in via di eccezione, le quali, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici necessari della pronuncia (Sez. 1^ 28 ottobre 2011, n. 22520; Sez. Lav. 16 agosto 2012, n. 14535) – rispetto alla statuizione sul modo di (dover) essere della situazione sostanziale nascente dal provvedimento che ha concluso, oramai irretrattabilmente, quella vicenda giurisdizionale, nel senso della cessazione soltanto parziale del rapporto contrattuale, limitatamente cioè all’attività estrattiva eseguita ed esaurita nell’area interessata dall’autorizzazione di cava, l’accertamento della insussistenza di altre obbligazioni nascenti dal medesimo contratto, ma diverse da quelle aventi ad oggetto le aree detenute da CGB, non si pone neppure come necessaria premessa ovvero come presupposto logico indefettibile. Anzi, la dichiarazione di cessazione soltanto parziale dell’efficacia del contratto è indice inequivocabile della permanenza in vita del vincolo negoziale con riferimento all’altra parte non toccata dalla pronuncia giurisdizionale passata in cosa giudicata. Di qui l’esclusione dell’ostacolo alla proponibilità, da parte di CGB, delle domande azionate in questo secondo giudizio (e già oggetto di una reconventio reconventionis dichiarata inammissibile per genericità con sentenza divenuta definitiva): ben potendo aversi risoluzione giudiziale per inadempimento del contratto di appalto, e complementare tutela risarcitoria da inattuazione dello scambio contrattuale, rispetto ad aree oggetto del negozio, destinate alla realizzazione di uno specchio acqueo in conformità della disciplina di piano regolatore, diverse ed ulteriori rispetto a quelle per le quali il precedente giudicato di merito tra le stesse parti abbia ritenuto cessato, ma appunto soltanto parzialmente, il rapporto derivante da quella stessa fonte negoziale per il compimento del pattuito intervento escavativo.
4. Passando allo scrutinio del terzo motivo, con esso Cave Ponte si duole che la Corte d’appello di Trieste non abbia rilevato che nel caso di specie mancava il titolo giuridico per poter legittimamente eseguire il contratto poi (erroneamente) dichiarato risolto. Confondendo tra titoli autorizzatori e strumenti urbanistici, la sentenza impugnata – sostiene la ricorrente – non avrebbe considerato che gli strumenti urbanistici non costituiscono, di per sé, titoli autorizzatori di alcuna attività, essendo per loro natura atti programmatori, avendo effetti conformativi della proprietà o impositivi di vincoli espropriativi. E nel caso di specie entrambi gli strumenti urbanistici comunali, sia quello del 1991 che quello del 2000, subordinerebbero ogni intervento pubblico e privato alla predisposizione di uno strumento di pianificazione attuativo, denominato piano di recupero ambientale, ed alla sottoscrizione di una convenzione tra il Comune e Cave Ponte, avente ad oggetto gli obblighi gravanti su quest’ultima per la realizzazione del recupero. Senza detti strumenti attuativi nessuno dei due piani regolatori era idoneo – si osserva – a produrre effetti concreti, e quindi i contratti stipulati tra le parti erano nulli. La ricorrente – dopo avere rilevato che la rilevabilità d’ufficio anche in sede di legittimità della causa di nullità del contratto è condizionata al solo fatto che siano acquisiti al processo tutti gli elementi che la evidenziano – sottolinea conclusivamente che la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento, con conseguente condanna al risarcimento del danno, “presuppone la validità dello stesso ed il giudice, cui spetta di verificare le condizioni dell’azione, deve rilevare d’ufficio la nullità del negozio, ove essa risulti dagli atti processuali, anche indipendentemente dal fatto che la convenuta s.r.l. Cave Ponte della Regina abbia sollevato la relativa eccezione di invalidità”.
4.1. Il motivo è inammissibile.
4.2. Occorre premettere che – come queste Sezioni Unite hanno statuito (sentenza 4 settembre 2012, n. 14828) – alla luce del ruolo che l’ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell’assetto negoziale e atteso che la risoluzione contrattuale è coerente solo con l’esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purché non soggetta a regime speciale. Nella specie nessuna nullità è stata rilevata dal giudice del merito; e la ricorrente innesta la propria censura proprio su questo mancato rilievo, chiedendo, per la prima volta nel giudizio di cassazione, che venga dichiarata la nullità del contratto di appalto inter partes, e ciò per la mancanza del piano di recupero o della stipula della convenzione tra il Comune e la stessa committente. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Sez. 2^ 5 agosto 1977, n. 3544; Sez. 3^ 8 settembre 1977, n. 3925; Sez. 1^ 30 gennaio 1979, n. 651; Sez. 1^ 17 giugno 1985, n. 3633; Sez. 2^ 22 giugno 2000, n. 8478; Sez. 1^ 15 luglio 2009, n. 16541; Sez. lav. 22 dicembre 2009, n. 26987), il principio della deducibilità e rilevabilità, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, della nullità del negozio giuridico opera, in sede di legittimità, solo quando la nullità medesima derivi da elementi già acquisiti in causa e risultanti dalla sentenza impugnata, mentre resta preclusa la possibilità di dedurre per la prima volta con il ricorso per cassazione una ragione di nullità che implichi nuove indagini di fatto, non consentite in detta sede. Di qui l’impossibilità di dare ingresso alla censura veicolata con il motivo: posto che la mancanza del piano di recupero ambientale o della convenzione, addotta a ragione della nullità della promessa di appalto, non risulta accertata dal testo della sentenza impugnata, ma presuppone nuove indagini di fatto non compiute nei precedenti gradi di merito.
5. A questo punto può passarsi all’esame del secondo motivo, che concerne la questione oggetto del contrasto. Con la proposta censura Cave Ponte lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1453 c.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, sul presupposto che erroneamente il giudice d’appello avrebbe rigettato l’eccezione da essa formulata, volta a far dichiarare l’inammissibilità del mutamento della domanda, da condanna all’esecuzione del contratto a risoluzione per inadempimento e risarcimento del danno: e ciò in quanto la domanda di condanna al risarcimento del danno costituisce domanda eventuale e distinta rispetto a quella di risoluzione, avendo per oggetto un bene diverso da quello che, nell’ipotesi di inadempimento dell’altro contraente, può essere alternativamente richiesto, in base alla richiamata disposizione codicistica, sub specie di domanda di adempimento e di risoluzione.
5.1. Il motivo interroga queste Sezioni Unite sul se il contraente fedele possa introdurre nel corso del giudizio la domanda di risarcimento del danno, ex novo e contestualmente al mutamento, consentito dall’art. 1453 c.c., comma 2, della originaria domanda di adempimento del contratto in quella di risoluzione del contratto inadempiuto.
5.2. Come ricordato dalla Seconda Sezione nell’ordinanza interlocutoria, sul punto si confrontano due orientamenti, uno che nega, l’altro che ammette la possibilità di affiancare la domanda di risarcimento del danno a quella, nascente dalla conversione della originaria domanda di adempimento, di risoluzione del contratto per inadempimento.
5.2.1. Il primo, restrittivo, è scolpito nel principio di diritto enunciato da Sez. 2^ 23 gennaio 2012, n. 870, in base al quale l’art. 1453 c.c., comma 2, deroga alle norme processuali che vietano la mutatio libelli nel corso del processo, nel senso di permettere la sostituzione della domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione per inadempimento, ma tale deroga non si estende alla domanda ulteriore di risarcimento del danno consequenziale a quella di risoluzione, trattandosi di domanda del tutto diversa per petitum e causa petendi rispetto a quella originaria. Il principio è stato enunciato in un caso nel quale l’attore – un promissario acquirente di un appartamento in condominio, detentore del bene oggetto di causa per averne ricevuto la consegna anticipata – aveva agito per ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto definitivo ex art. 2932 c.c., per poi proporre, nel corso del giudizio, la domanda di risoluzione del contratto preliminare per inadempimento, in luogo di quella originaria di adempimento, e, contestualmente, quella di risarcimento del danno, pari agli oneri straordinari corrisposti al condominio nel periodo in cui aveva abitato l’appartamento. La Corte ha cassato senza rinvio il capo della sentenza con cui il giudice del merito aveva accordato anche la chiesta tutela risarcitoria, trattandosi di “causa” che non poteva essere proposta in quel giudizio. Alla base di questo indirizzo vi è la presa d’atto che la facoltà concessa dall’art. 1453 c.c., comma 2, al contraente non inadempiente di mutare l’originaria domanda di adempimento in quella di risoluzione, apporta una vistosa eccezione – come tale di stretta applicazione – alla regola del divieto assoluto di modifica della domanda, che cala all’esito dell’udienza di trattazione della causa o della sua propaggine rappresentata dalla memoria ex art. 183 c.p.c.. E poiché l’introduzione, nel corso del giudizio, ancorché contemporaneamente all’esercizio dello ius variandi di cui all’art. 1453 c.c., comma 2, della domanda risarcitoria affiancata alla (consentita) domanda di risoluzione, comporta l’introduzione di un ulteriore tema d’indagine e di un nuovo petitum, sono destinate a trovare applicazione le preclusioni di cui agli artt. 183 e 345 c.p.c.. La deroga al divieto di mutatio libelli non opera, quindi, per la domanda di risarcimento dei danni, fatta salva in ogni caso dal primo comma dell’art. 1453 cod. civ., integrando questa un’azione del tutto diversa, per causa petendi e per petitum, dalle altre due, sia da quella con cui è stato attivato il rimedio manutentivo, sia da quella con cui è stato chiesto lo scioglimento del contratto per inadempimento. Espressione del medesimo orientamento che vede nello ius variandi di cui all’art. 1453 c.c., comma 2, una previsione eccezionale, è la regola che ammette la proponibilità della domanda di risoluzione solo se anteriormente è stato chiesto l’adempimento: il mutamento, invece, non può avvenire quando in un primo tempo l’attore si è limitato a chiedere il risarcimento del danno (Sez. 3^ 30 marzo 1984, n. 2119, seguita da Sez. 3^ 9 aprile 1998, n. 3680, da Sez. 3^ 26 aprile 1999, n. 4164, e da Sez. 3^ 27 luglio 2006, n. 17144). Simmetricamente, se in un primo tempo è stato domandato l’adempimento, non è possibile chiedere in corso di causa il risarcimento: tornano ad applicarsi le norme processuali che precludono la proposizione di domande nuove (Sez. lav. 27 marzo 2004, n. 6161, e Sez. lav. 16 giugno 2009, n. 13953). In questo stesso “ambiente” si colloca Sez. 3^ 14 marzo 2013, n. 6545: la quale, richiamandosi alla citata sentenza n. 870 del 2012, ha negato l’ingresso, durante il corso del giudizio, ad una domanda di condanna generica al risarcimento dei danni per l’accertato inadempimento definitivo dell’obbligo di trasferire un immobile, quando, originariamente, la tutela risarcitoria era stata avanzata per il ritardo nell’adempimento (in misura corrispondente al valore locativo dell’immobile).
5.2.2. Al secondo indirizzo, che invece ammette la possibilità di affiancare la domanda risarcitoria contestualmente al passaggio al rimedio ablativo, è riconducibile Sez. 2^ 31 maggio 2008, n. 26325. Vi si afferma che “la facoltà prevista dall’art. 1453 c.c., comma 2, di mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione contrattuale in deroga al divieto di mutatio libelli si estende anche alla conseguente domanda di risarcimento danni (nonché per le stesse ragioni a quella di restituzione del prezzo (…)), essendo quest’ultima domanda sempre proponibile quale domanda accessoria sia di quella di adempimento sia di quella di risoluzione, come espressamente previsto dall’art. 1453 c.c., comma 1”. Sulla stessa linea estensiva si muove, in fattispecie particolare, Sez. 3^ 19 novembre 1963, n. 2995, la quale, in un caso nel quale il contraente deluso aveva già esplicitamente introdotto la pretesa risarcitoria accanto a quella di manutenzione del contratto, ha riconosciuto la possibilità di domandare, in occasione della mutatio libelli ex art. 1453 c.c., comma 2, i danni da risoluzione in luogo di quelli da ritardo nell’adempimento o da inesatto adempimento: ciò sul rilievo che “quando la legge ammette, in deroga alle generali norme processuali, la sostituzione della domanda di risoluzione a quella di adempimento, non può, correlativamente, non ammettere l’introduzione della richiesta dei danni da risoluzione, anche se effettivamente diversi, per essenza e quantità, da quelli che siano stati richiesti insieme con l’originaria domanda di adempimento (arg. ex art. 1453 c.c., commi 1 e 2)”. Il principio è stato incidentalmente richiamato e confermato da queste Sezioni Unite con la sentenza 18 febbraio 1989, n. 962, precisandosi che esso è destinato a valere “nel caso… in cui la domanda di risoluzione sia, come deve essere, fondata sullo stesso fatto costitutivo della domanda d’adempimento (ovvero, senza che ad esso siano sostituiti altri elementi materiali, tali da integrare una nuova causa petendi) e la connessa domanda di risarcimento dei danni, malgrado ciò, sia diretta a conseguire un ristoro patrimoniale essenzialmente diverso, per qualità e quantità, da quello perseguito con la prima domanda di danni, restando peraltro inalterata la causa petendi della domanda principale”. La giurisprudenza ammette altresì che, in occasione della mutatio, possa essere avanzata ex novo, accanto alla domanda di risoluzione, quella di restituzione del praestatum Sez. 2^ 27 novembre 1996, n. 10506, e Sez. 2^ 27 maggio 2010, n. 13003, declamano che la facoltà di poter mutare nel corso del giudizio di primo grado, nonché in appello e persino in sede di rinvio la domanda di adempimento in quella di risoluzione in deroga al divieto di mutatio libelli sancito dagli artt. 183, 184 e 345 c.p.c., sempreché si resti nell’ambito dei fatti posti a base della inadempienza originariamente dedotta, senza introdurre un nuovo tema d’indagine, comporta che, in tema di contratto preliminare di compravendita, qualora sia sostituita la domanda di adempimento con quella di risoluzione, il contraente deluso possa chiedere la restituzione della somma versata a tiolo di prezzo, quale domanda consequenziale a quella di risoluzione, implicando l’accoglimento di questa, per l’effetto retroattivo espressamente previsto dall’art. 1458 cod. civ., l’obbligo di restituzione della prestazione ricevuta, onde di tale domanda – si afferma – il giudice può decidere anche se su di essa non vi sia stata accettazione del contraddittorio.
6. Il contrasto va composto aderendo all’indirizzo espresso dall’orientamento estensivo, dovendo riconoscersi che lo ius variandi possa esercitarsi in modo completo affiancando alla domanda di risoluzione, non solo quella di restituzione, ma anche quella di risarcimento dei danni.
7. L’art. 1453 c.c., nell’attribuire al contraente deluso la facoltà di chiedere “a sua scelta” l’adempimento o la risoluzione del contratto, offre alla parte che, con la domanda di adempimento, abbia inizialmente puntato all’attuazione del contratto sul presupposto del suo mantenimento, anche la possibilità – a fronte di un inadempimento che, nel prolungarsi del giudizio, perdura o si aggrava – di rivedere la propria scelta, e, perduti la speranza o l’interesse rispetto alla prestazione, di reagire all’inattuazione dello scambio contrattuale passando alla domanda di risoluzione per inadempimento, onde veder cancellato e rimosso l’assetto di interessi disposto con il negozio. Il codice civile, nell’accordare la facoltà di scegliere tra la condanna del debitore all’adempimento e la risoluzione del contratto, in considerazione dell’interesse al conseguimento tardivo della prestazione, se ed in quanto ancora realizzabile, al contempo non vincola il contraente non inadempiente ad una scelta irrevocabile, quale risulterebbe dall’avere “optato per l’adempimento senza la possibilità di chiedere successivamente la risoluzione all’esito infruttuoso della domanda di adempimento” (Sez. Un. 18 febbraio 1989, n. 962, cit.). Lo ius variandi si giustifica con il fatto che le due azioni, quella di adempimento e quella di risoluzione, pur avendo un diverso oggetto, mirano a risultati coordinati e convergenti dal punto di vista dello scopo. Nei contratti a prestazioni corrispettive, l’azione di adempimento e quella di risoluzione costituiscono due diversi rimedi giuridici a tutela del diritto che dal rapporto sostanziale deriva al contraente in regola: pur presentando diversità di petitum, entrambe mirano a soddisfare lo stesso interesse del creditore insoddisfatto, consistente nell’evitare il pregiudizio derivante dall’inadempimento della controparte (Sez. 2^ 29 novembre 2011, n. 15171). E lo testimonia il fatto che la proposizione della domanda di adempimento ha effetto interruttivo della prescrizione anche con riferimento al diritto di chiedere la risoluzione del contratto, il quale potrà essere esercitato fino a quando il termine prescrizionale non sarà nuovamente decorso per intero (Sez. Un. 10 aprile 1995, n. 4126). Lo ius variandi della vittima dell’inadempimento non può cogliere di sorpresa il debitore. Questi, infatti, è rimasto inadempiente nonostante sia stato sollecitato ad eseguire (o ad eseguire esattamente) la prestazione richiesta, laddove la sua esecuzione successiva alla domanda di adempimento avrebbe rimosso il presupposto della risoluzione. D’altra parte, la domanda di adempimento non può significare rinuncia all’efficacia risolutiva dell’inadempimento nel perdurare dello stato di violazione del contratto. Come è stato efficacemente osservato in dottrina, l’inerzia del debitore, per ogni momento che passa, viene ad aggravare lo iato tra il momento della scadenza ed il momento dell’esecuzione, sicché la scelta iniziale per il rimedio manutentivo in presenza di un inadempimento precorso non distrugge la facoltà di ricorrere alla tutela ablativa per un inadempimento che si rinnova, che cresce o che si aggrava nella pendenza del processo. Prevedendo la reversibilità della scelta inizialmente espressa per la manutenzione del contratto ed offrendo al creditore che ha chiesto l’adempimento la possibilità di cambiare idea e di chiedere la risoluzione, il codice detta, anzitutto, una norma di diritto sostanziale che disciplina l’esercizio di un’opzione tra i diversi mezzi di reazione all’altrui inadempimento: un diritto che non può essere ostacolato dall’anteriore scelta per il rimedio manutentivo. Lo dimostra il fatto che la giurisprudenza ammette che il contraente deluso, anche se si sia formato un giudicato di condanna all’esecuzione in forma specifica, conserva pur sempre la possibilità di domandare la risoluzione del contratto dopo il processo, qualora l’adempimento non si verifichi (Sez. 2^ 18 maggio 1994, n. 4830; Sez. 2^ 4 ottobre 2004, n. 19826; Sez. 2^ 12 luglio 2011, n. 15290). Lo ius variandi, pur non dovendo necessariamente esercitarsi nel processo rivolto ad ottenere l’adempimento, ha tuttavia una valenza sicuramente processuale, come dimostra la stessa formulazione letterale dell’art. 1453 c.c., comma 2, che, guardando alla dimensione giudiziale dell’istituto, discorre di risoluzione che “può essere domandata” e di “giudizio… promosso per ottenere l’adempimento”. L’esercizio del potere del contraente non inadempiente di provocare lo scioglimento del contratto non può essere pregiudicato dalla pendenza del giudizio promosso per ottenere l’adempimento. Quando in luogo dell’adempimento chiede la risoluzione, l’attore non si limita a precisare o a modificare la domanda già proposta. Egli ne muta l’oggetto. L’azione di risoluzione è nuova rispetto a quella di adempimento: la trasformazione della domanda di adempimento a quella di risoluzione rappresenta un’autentica mutatio libelli. Sotto questo profilo, il passaggio, consentito dall’art. 1453 c.c., comma 2, dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione costituisce una deroga alle norme processuali che precludono il mutamento della domanda nel corso del giudizio e la proposizione di domande nuove in appello. La disposizione dell’art. 1453 c.c., comma 2, infatti, abilita la parte che ha invocato la condanna dell’altra ad adempiere, a sostituire a tale pretesa quella di risoluzione, in deroga agli artt. 183 e 345 c.p.c., nelle fasi più avanzate dell’iter processuale, oltre l’udienza di trattazione: non solo per tutto il giudizio di primo grado, ma anche nel giudizio di appello (Sez. 2^ 5 maggio 1998, n. 4521; e questo indirizzo è stato ribadito – da Sez. 2^ 6 aprile 2009, n. 8234, e da Sez. 2^ 12 febbraio 2014, n. 3207, entrambe riferite a vicende processuali iniziate dopo il 30 aprile 1995 – in seguito alle riforma del regime delle preclusioni processuali realizzata dalla L. 26 novembre 1990, n. 353). Tutto ciò – come queste Sezioni Unite hanno già precisato (con la citata sentenza 18 febbraio 1989, n. 962) – vale a condizione che i fatti dedotti a fondamento della domanda di risoluzione coincidano con quelli posti a base della domanda di adempimento originariamente proposta. Se l’attore allega alla domanda di risoluzione un inadempimento diverso, ossia una nuova causa petendi, con l’introduzione di un nuovo tema d’indagine, tornano ad applicarsi le preclusioni di cui agli artt. 183 e 345 c.p.c., giacché la deroga alle disposizioni del codice di rito è limitata all’introduzione di un nuovo e sostitutivo petitum immediato. L’immutazione dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, introducendo nel processo un nuovo tema d’indagine e di decisione, altererebbe “l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia”, e si risolverebbe, in definitiva, nel far valere in giudizio “una pretesa… diversa, per la sua intrinseca natura, da quella fatta valere in precedenza”. “Inderogabili esigenze del contraddittorio e della difesa – hanno precisato le Sezioni Unite – sono d’ostacolo a che possa porsi a base della nuova domanda di risoluzione un fatto costitutivo, materialmente diverso da quello su cui sia stata fondata la domanda originaria d’adempimento, non essendo, cioè, permesso di dedurre, quale causa petendi della domanda di risoluzione, inadempimenti nuovi e diversi da quelli in base ai quali sia stata prima richiesta la prestazione pattuita”.
8. Ritengono le Sezioni Unite che l’interpretazione estensiva, oltre a non essere incompatibile con il dato letterale dell’art. 1453 c.c., comma 2, ne coglie le ragioni e l’intima ratio e al tempo stesso assicura la finalità di concentrazione e pienezza della tutela che la disposizione del codice ha inteso perseguire: tale lettura, infatti, offrendo al contraente non inadempiente la possibilità di spingere la pretesa alle naturali conseguenze sul piano restitutorio e risarcitorio, consente di realizzare, nell’ambito dello stesso processo, il completamento sul piano giuridico ed economico degli effetti che si ricollegano allo scioglimento del contratto.
8.1. Dal punto di vista letterale, l’art. 1453 c.c., comma 2, disciplina l’ipotesi tipica, del passaggio dall’azione di esecuzione del contratto a quella di risoluzione dello stesso per il persistere dell’inadempimento della controparte. Si tratta di una disciplina dettata senza pretesa di completezza, la quale, lasciando all’interprete il compito di completare il dettaglio della trama normativa per le fattispecie non espressamente regolate, non esclude che, in occasione dell’esercizio dello ius variandi, vi si affianchino quelle pretese che hanno una funzione complementare rispetto al rimedio base. Del resto, il primo comma dello stesso articolo, nel fare “salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno”, configura come possibile il cumulo tra la domanda rivolta ad ottenere lo scioglimento del contratto e l’azione risarcitoria per la riparazione del pregiudizio economico del creditore insoddisfatto, delineando un modello di tutela unitario risultante dall’operare combinato dei due rimedi, con l’azione di danno che può accompagnarsi tanto all’azione di adempimento quanto alla domanda di risoluzione. Mentre l’azione di adempimento e quella di risoluzione danno luogo ad un concorso alternativo di rimedi, in parte tra loro surrogabili, con il solo limite della seconda parte del secondo comma (posto che “non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione”), la domanda di risarcimento può, a scelta dell’interessato, essere proposta insieme con quella di adempimento o di risoluzione. La lettera della norma del codice non impedisce, pertanto, di considerare che l’accoppiamento dei due rimedi (risoluzione del contratto e risarcimento del danno) possa aversi, non solo quando il contraente in regola abbia puntato, sin dall’inizio, alla cancellazione degli effetti del contratto, ma anche quando questi, dopo una citazione con domanda di condanna ad adempiere, abbia abbandonato il rimedio attuativo del contratto e sia passato ad una domanda rivolta ad eliminarne gli effetti.
8.2. A questa soluzione conduce un’interpretazione sistematica, orientata dalla ratio dello ius variandi. L’interesse del contraente deluso che domanda la risoluzione non è soltanto quello di ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale per un difetto funzionale sopravvenuto, di eliminare cioè il regolamento contrattuale in quanto fonte di prestazioni corrispettive e di essere in tal guisa liberato dalla prestazione su di lui gravante. Di fronte alla violazione dell’obbligazione contrattuale, pattuita in corrispettivo di una prestazione ancora da eseguire, al contraente non inadempiente basta opporre l’eccezione al fine di non dovere prestare a chi si sia reso inadempiente, secondo quanto disposto dall’art. 1460 c.c., (inadimplenti non est adimplendum). All’iniziativa risolutoria il contraente in regola è stimolato a rivolgersi anche per un interesse che va al di là della mera cancellazione del sinallagma: per conseguire la restituzione della propria prestazione, ove già eseguita, e per ottenere la riparazione del pregiudizio che abbia eventualmente sofferto a causa dello scioglimento del rapporto. Precludere a chi in prima battuta abbia chiesto in giudizio la condanna della controparte all’adempimento e si sia poi rivolto alla tutela risolutoria, di azionare, nell’ambito dello stesso giudizio in cui ha esercitato la facoltà di mutamento, la tutela complementare restitutoria e risarcitoria, vanificherebbe la finalità di concentrazione che il codice civile ha inteso perseguire accordando al contraente in regola lo ius variandi nel corso di uno stesso ed unico giudizio. La vittima dell’inadempimento, infatti, per procurarsi il risultato ripristinato rio della risoluzione, con la restituzione della prestazione eseguita e dei suoi accessori, e per rimuovere le differenze tra la situazione in cui si sarebbe trovato in caso di integrale attuazione del contratto e la situazione conseguente allo scioglimento del vincolo, sarebbe costretta ad intraprendere un nuovo e separato processo, con la frammentazione delle istanze giurisdizionali e l’allungamento dei tempi complessivi necessari ad ottenere l’integrale soddisfazione delle proprie ragioni. E ciò nonostante, da un lato, le restituzioni rappresentino il logico corollario dello scioglimento ex tunc del contratto (la risoluzione provocando il venir meno della giustificazione causale delle prestazioni eseguite), e dall’altra il risarcimento del danno scaturente dalla rimozione del contratto rinvenga la propria origine proprio nell’inadempimento della controparte agli obblighi contrattuali assunti e miri a far ottenere al risolvente un assetto economico equivalente a quello che gli avrebbe assicurato lo scambio fallito. La ratio dello ius variandi – offrire giusta protezione all’interesse dell’attore vittima dell’inadempimento, specie di fronte al comportamento del debitore convenuto in giudizio, che permane inattivo nonostante sia stato sollecitato a eseguire la prestazione – richiede che, in occasione del (e contestualmente al) mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto, sia ammessa l’introduzione della domanda restitutoria e della richiesta di danni da risoluzione, data la funzione complementare che l’una e l’altra svolgono rispetto al rimedio diretto ad ottenere la rimozione degli effetti del sinallagma.
9. A questa soluzione non sono di ostacolo né la circostanza che la norma dell’art. 1453, secondo comma, cod. civ., in quanto recante una disciplina di deroga rispetto a quella sancita dal codice di rito in tema di preclusioni processuali, dovrebbe formare oggetto di stretta interpretazione, stante il principio generale di divieto di nova, che non consente l’ampliamento successivo del thema decidendi; né il rilievo che la pretesa risarcitoria è non solo nuova per petitum e causa petendi rispetto alla domanda iniziale di adempimento o a quella, risultante dalla mutatio, di risoluzione, ma anche – a differenza della domanda restitutoria – non consequenziale a quella di risoluzione del contratto.
9.1. Innanzitutto occorre rilevare che già nel passaggio, espressamente regolato dal codice civile, dall’adempimento alla risoluzione, l’indagine si allarga, dovendo questa essere diretta all’acquisizione di dati ulteriori che potrebbero mancare in quel processo, non essendo di per sé necessari ai fini nel giudizio promosso per ottenere l’adempimento. Per chiedere la condanna all’esecuzione, è sufficiente che il contratto risulti inadempiuto, senza bisogno di una particolare qualificazione dell’inadempimento. Invece, la risoluzione del contratto ha presupposti più rigidi, occorrendo un certo livello di gravità: presupposto basilare per conseguire la risoluzione giudiziale del contratto è che “l’inadempimento di una delle parti sia di non scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra” (art. 1455 c.c.). D’altra parte, se l’attore non può allegare a fondamento della successiva domanda di risoluzione un distinto fatto costitutivo, cioè un inadempimento diverso da quello posto a base della pretesa originaria e già verificatosi. all’atto della introduzione di quest’ultima (Sez. Un. 18 febbraio 1989, n. 962, cit.), è ben possibile la deduzione, da parte sua, dei fatti sopravvenuti che, rendendo irreversibile l’inattuazione del sinallagma negoziale, orientano e inducono la parte, di fronte agli sviluppi successivi alla proposizione della domanda iniziale, ad avvalersi dello ius variandi.
9.2. E’ poi senz’altro esatto che soltanto la domanda di restituzione, e non anche la domanda di risarcimento del danno, è propriamente accessoria alla domanda di risoluzione. Soltanto la prima, infatti, pur essendo autonoma nell’oggetto (petitum), costituisce un effetto legale dello scioglimento del sinallagma contrattuale, avendo il proprio titolo immediato nell’effetto giuridico (recuperatorio ex tunc delle prestazioni eseguite) che forma oggetto della domanda principale di risoluzione. Questo rapporto di consequenzialità logico-giuridica manca con riguardo all’azione risarcitoria, la quale non solo non presuppone il necessario esperimento dell’azione di risoluzione del contratto, ma neppure, a maggior ragione, il suo accoglimento (Sez. 3^ 10 giugno 1998, n. 5774; Sez. 3^ 23 luglio 2002, n. 10741; Sez. 1^ 27 ottobre 2006, n. 23273). E tuttavia, la qualificazione concettuale non è dirimente nel caso in esame. In primo luogo perché anche la tutela restitutoria (per la quale occorre una autonoma domanda, nonostante l’obbligo di restituzione della prestazione ricevuta costituisca un effetto naturale della risoluzione del contratto: Sez. 2^ 2 febbraio 2009, n. 2562; Sez. 3^ 29 gennaio 2013, n. 2075) può, talvolta, esigere l’acquisizione di dati che non sono disponibili nel giudizio che sia stato promosso per ottenere la condanna all’esecuzione: basti pensare alla eventualità della conversione della restituzione in natura in restituzione (in tutto o in parte) per equivalente, che si ha quando il venir meno della causa solvendi riguardi una cosa perita o deteriorata, giacché in tal caso occorrerà accertarne il valore o la diminuzione di valore (cfr. art. 2037 c.c.). In secondo luogo perché la tutela risarcitoria, quantunque non legata da un rapporto di consequenzialità logico-giuridica alla domanda di risoluzione, concorre nondimeno ad integrare e a completare le difese del contraente in regola, costituendo un co-elemento, un tassello di un sistema complessivo di tutela, affidato – proprio nell’impianto della stessa disposizione che contempla lo ius variandi – all’azione combinata di più domande: sistema nel quale, con l’affiancamento alla risoluzione della pretesa risarcitoria, si offre alla parte non inadempiente la soddisfazione del suo interesse a guardare al negozio, i cui effetti vengono eliminati grazie alla risoluzione, come fonte anche di un determinato assetto quantitativo del suo patrimonio. L’art. 1453 c.c., comma 2, infatti, proprio nel suo carattere processuale, ha la funzione di recare non solo la disciplina generale dell’azione di risoluzione, ma anche dei suoi rapporti con le altre azioni poste comunque a tutela del contraente non inadempiente, mirando ad attuare, nello specifico contesto del rapporto contrattuale con prestazioni corrispettive litigioso, il principio di economia del e nel processo, consentendo alla vittima dell’inadempimento di evitare il promovimento di un’ulteriore controversia attraverso lo sfruttamento più razionale ed intensivo delle risorse del giudizio già promosso, che è e diventa la sede idonea anche per dispiegarvi la richiesta di tutela complementare.
9.3. In questa prospettiva, neppure appare logico circoscrivere la possibilità per il contraente fedele di introdurre la pretesa risarcitoria in occasione della mutatio libelli al solo caso in cui questi avesse già proposto sin dall’origine la domanda di danni, affiancandola a quella di adempimento. Una tale soluzione non tiene conto del fatto che anche in tale evenienza, pur essendo la domanda risarcitoria presente sin dall’inizio nel processo, il tema d’indagine è destinato comunque a variare con il passaggio al rimedio ablativo: posto che quando la richiesta di risarcimento si accoppia alla domanda di adempimento, il danno da risarcire è equivalente alla differenza tra un’esatta o tempestiva esecuzione del contratto e un’esecuzione inesatta o tardiva ma fermo restando il contratto, mentre il danno scaturente dalla rimozione degli effetti del contratto è pari alla differenza tra la situazione scaturita dal fallimento della vicenda contrattuale ed il vantaggio che il contratto autorizzava a ritrarre (cfr. Sez. 2^ 24 maggio 1978, n. 2599; Sez. 3^ 7 maggio 1982, n. 2850; Sez. Un. 25 luglio 1994, n. 6938; Sez. 2^ 7 febbraio 1998, n. 1298; Sez. 2^ 30 agosto 2012, n. 14714).
10. La proposizione nel corso del giudizio di merito, anche quando siano calate le ordinarie preclusioni di cui all’art. 183 c.p.c., della domanda risarcitoria affiancata al rimedio risolutorio, comporta certamente un ampliamento dell’oggetto del giudizio (che dall’inadempimento grave si allarga al pregiudizio sofferto e all’entità dei danni) e, conseguentemente, del thema probandum: di qui la necessità che al contraente in regola sia accordata la possibilità dimostrare i fatti costitutivi della pretesa risarcitoria, e, parimenti e corrispondentemente, che all’altra parte sìa consentito di difendersi, replicando alla domanda nuova, proponendo le eccezioni che sono conseguenza della stessa e provando eventuali fatti impeditivi, estintivi o modificativi del diritto al risarcimento fatto valere. Si è tuttavia al di fuori dell’operatività del regime delle preclusioni. Queste tendono ad impedire il comportamento dilatorio delle parti, imponendo loro di allegare all’inizio del processo tutto ciò di cui sono già in possesso per far valere le loro ragioni. Ma poiché qui è il codice civile che consente, per ragioni di effettività e concentrazione della tutela, di far valere, contestualmente al mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto inadempiuto, la pretesa risarcitoria, il regime di preclusioni non è di ostacolo né alla possibilità dell’introduzione del nuovo tema di indagine, né al pieno dispiegarsi, su di esso, del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio in condizioni di parità. Non si pone neppure un problema di rimessione in termini, venendo piuttosto in gioco il doveroso esercizio dei poteri di direzione del processo da parte del giudice per rendere possibile l’esercizio del diritto in sede giurisdizionale nel rispetto dei principi del giusto processo. E’ la domanda nuova che pone l’esigenza di allegazioni, controallegazioni, eccezioni, deduzioni e controdeduzioni istruttorie: sicchè queste attività processuali debbono essere consentite, non già per provvedimento discrezionale del giudice, ma per garanzia del diritto di azione e di difesa e del giusto processo.
11. L’ordinamento, del resto, conosce altre ipotesi nelle quali il divieto di nova è derogato al fine di evitare la moltiplicazione dei giudizi in relazione alla medesima fattispecie.
11.1. Nel settore tradizionale delle azioni a difesa della proprietà, la rivendicazione può essere proseguita anche contro chi, dopo la domanda, dolo desiit possidere, e, in caso di impossibilità di attuare la tutela restitutoria in natura, è possibile “trasformare” la domanda in una “diversa” causa, eventualmente mirante anche al risarcimento del danno, su specifica richiesta del proprietario (art. 948, primo comma, cod. civ.).
11.2. Nel campo del diritto delle società per azioni, l’art. 2378 c.c., comma 2, nel testo conseguente alla riforma operata dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, preclude l’annullamento della delibera societaria impugnata se nel corso del processo venga meno nel socio o nei soci opponenti la quota azionaria minima per potere essere legittimati all’impugnazione, ma fa espressamente salvo in tal caso il diritto a pretendere il risarcimento del danno, per ciò stesso evidentemente consentendo che siffatta domanda possa essere introdotta durante il giudizio.
11.3. Sebbene nel giudizio d’appello non possano proporsi domande nuove, l’art. 345 c.p.c., non si limita a porre tale divieto, ma accorda la possibilità di domandare, tra l’altro, il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza impugnata. Possono così trovare ingresso nuovi temi d’indagine: dandosi alla vittima di lesioni personali la possibilità di domandare nel giudizio di appello, senza violare il divieto di ius novorum, sia il risarcimento dei danni derivanti dalle lesioni, ma manifestatisi dopo la sentenza di primo grado, sia il risarcimento dei danni la cui esistenza, pur precedente alla sentenza impugnata, non poteva essere rilevata con l’uso dell’ordinaria diligenza (Sez. 3^ 31 marzo 2008, n. 8292); consentendosi – “atteso che la ratio della norma è quella di evitare il frazionamento dei giudizi” – di chiedere “nel corso del giudizio di appello, e sino alla precisazione delle conclusioni” “i danni riconducibili alla causa già dedotta in primo grado”, ma “manifestatisi successivamente all’inizio della controversia” (Sez. 3^ 15 marzo 2006, n. 5678); affermandosi in generale che “nel giudizio di risarcimento del danno è consentito all’attore chiedere per la prima volta in appello il risarcimento degli ulteriori danni, provocati dal medesimo illecito, manifestatisi solo in corso di causa” (Sez. 3^ 18 aprile 2013, n. 9453). Al fondo di questo orientamento vi è, ancora una volta, la consapevolezza che “sarebbe irrazionale costringere l’attore a promuove successivi giudizi per far valere il progressivo ampliarsi del danno, in presenza di un comportamento dannoso in atto al momento della domanda o di un evento dannoso che non ha ancora esaurito i suoi effetti” (Sez. 3^ 10 novembre 2003, n. 16819).
12. A composizione del contrasto di giurisprudenza, va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “La parte che, ai sensi dell’art. 1453 c.c., comma 2, chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento, può domandare, contestualmente all’esercizio dello ius variandi, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale”.
13. Il ricorso contiene altri due motivi. Con il quarto mezzo, infatti, la ricorrente censura violazione e falsa applicazione degli artt. 2935 e 2946 c.c., sul rilievo che la sentenza impugnata avrebbe dovuto accogliere l’eccezione di prescrizione, giacché il diritto al risarcimento del danno poteva essere esercitato sin dal 1994. Il quinto motivo, a sua volta, denuncia contraddittorietà delle diverse statuizioni dell’impugnata sentenza, illogicità della motivazione relativa all’ammontare del danno e violazione degli artt. 1218 e 1223 c.c.. Sarebbe in primo luogo contraddittoria la statuizione di risolvere i contratti di cui è causa, risalenti agli anni 1992, 1993 e 1995, e poi fare riferimento ai valori dell’anno 2008 per determinare il quantum del risarcimento. Avrebbe poi errato la sentenza impugnata a ritenere l’ammontare del danno equivalente ai valori di mercato del materiale scavato, dovendosi calcolare anche i costi effettivi che Beton Candeo o la sua dante causa avrebbero sopportato nel 1994 con riferimento sia agli oneri per l’escavazione che a quelli relativi alle spese generali. Il profitto, infine, non poteva essere tout court pari ai prezzi di mercato, giacché Beton Candeo avrebbe dovuto dimostrare il prezzo di vendita a quella data praticato nei confronti degli altri clienti. Ai sensi dell’art. 142 disp. att. c.p.c., la causa va rimessa alla Seconda Sezione per la decisione, con separata sentenza, di questi ulteriori motivi.
P.Q.M.
La Corte così provvede:
– rigetta il primo motivo di ricorso;
– dichiara inammissibile il terzo motivo di ricorso;
– rigetta il secondo motivo di ricorso ed enuncia il seguente principio di diritto: “La parte che, ai sensi dell’art. 1453 c.c., comma 2, chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento, può domandare, contestualmente all’esercizio dello ius variandi, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale”;
– rimette la causa alla Seconda Sezione civile per la decisione, con separata sentenza, degli ulteriori motivi.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 25 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 11 aprile 2014.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 09 agosto 2013, n. 19148, per SS.UU, 11 aprile 2014, n. 8510, in tema di ius variandi
SS.UU, 11 aprile 2014, n. 8510, in tema di ius variandi
Nota dell'Avv. Maurizio Fusco
Alla domanda di risoluzione del contratto può essere affiancata non solo quella di restituzione, ma anche quella di risarcimento dei danni
1. Il principio di diritto
La parte, che, ai sensi dell’art. 1453, c. 2, c.c, chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento, può domandare, contestualmente all’esercizio dello jus variandi, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale.
2. Il contrasto risolto
Un primo orientamento, restrittivo, è scolpito nel principio di diritto enunciato da Cass., 23 febbraio 2012, n. 870, in base al quale l’art. 1453, c. 2, c.c. deroga alle norme processuali che vietano la mutatio libelli nel corso del processo, nel senso di permettere la sostituzione della domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione per inadempimento; tale deroga non si estende alla ulteriore domanda di risarcimento del danno, consequenziale a quella di risoluzione, in quanto del tutto diversa per petitum e causa petendi rispetto a quella originaria (di adempimento).
Al secondo indirizzo, che invece ha ammesso la possibilità di proporre la domanda risarcitoria, contestualmente al passaggio al rimedio ablativo, è riconducibile Cass., 31 maggio 2008, n. 26324, ove è affermato che la facoltà prevista dall’art. 1453, c. 2, c.c. - di mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione contrattuale, in deroga al divieto di mutatio libelli - si estende anche alla conseguente domanda di risarcimento danni, essendo quest’ultima domanda sempre proponibile quale domanda accessoria sia a quella di adempimento sia a quella di risoluzione, come espressamente previsto dall’art. 1453, c. 1, c.c..
3. Conseguenze operative
Le Sezioni Unite, nell’aderire all’interpretazione estensiva, evidenziano come l’art. 1453, c. 1, c.c., nel far salvo “in ogni caso” il risarcimento del danno, configuri come possibile il cumulo tra la domanda rivolta ad ottenere lo scioglimento del contratto e l’azione risarcitoria per la riparazione del pregiudizio economico del creditore insoddisfatto, delineando un modello di tutela unitario risultante dall’operare combinato dei due rimedi, con l‘azione di danno che può accompagnarsi tanto all’azione d’inadempimento quanto alla domanda di risoluzione.
Mentre l’azione di adempimento e quella di risoluzione danno luogo ad un concorso alternativo di rimedi, in parte tra loro surrogabili, con il solo limite della seconda parte del secondo comma (“… ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione”), la domanda di risarcimento può, a scelta dell’interessato, essere proposta insieme con quella di adempimento o di risoluzione.