Civile Sent. Sez. U Num. 22404 Anno 2018
Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: SCRIMA ANTONIETTA
Data pubblicazione: 13/08/2018
SENTENZA
sul ricorso 27702-2012 proposto da:
FAVINI ADELINA, BRESSAN DARIO, nella qualità di eredi di Bressan Renato, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA EMILIA 88, presso lo studio dell’avvocato STEFANO VINTI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARLO ANGELETTI;
– ricorrenti –
contro
COMUNE DI CHIVASSO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POMPEO MAGNO 2-B, presso lo studio dell’avvocato MARCO SQUICQUERO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO PAPA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 713/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 27/04/2012.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 7/11/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDERICO SORRENTINO, che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo del ricorso;
uditi gli avvocati Chiara Geremia per delega dell’avvocato Stefano Vinti, Stefano Papa e Marco Squicquero.
FATTI DI CAUSA
1. L’ingegnere Renato Bressan, con atto di citazione notificato in data 14 giugno 2006, convenne il Comune di Chivasso innanzi al Tribunale di Torino, chiedendone la condanna al pagamento dell’importo di € 115.814,11, oltre interessi / a titolo di corrispettivo per l’incarico di progettazione della Circonvallazione Sud di Chivasso, come da convenzione del 20 aprile 1988.
Il Comune si costituì ed eccepì, in via principale, il mancato avveramento della condizione prevista dall’art. 7 della convenzione; in subordine, la nullità delle deliberazioni di affidamento dell’incarico, in quanto prive sia della quantificazione dell’ammontare complessivo dovuto per il progetto, sia dei mezzi per farvi fronte, in violazione degli artt. 284 e 288 r.d. n. 383 del 1934; in ulteriore subordine, la non debenza al creditore degli interessi legali fino all’avveramento della condizione e, comunque, la prescrizione del relativo credito per tutto il periodo anteriore al quinquennio precedente la domanda.
Con memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ. l’attore propose, in via subordinata, domanda di indennizzo per arricchimento senza causa.
2. Il Tribunale dichiarò l’inadempimento del Comune convenuto nei confronti dell’attore e condannò il predetto ente al pagamento, in favore del Bressan, dell’importo di euro 115.814,11, comprensivo degli interessi legali per il periodo dal 18 gennaio 1989 al 31 dicembre 2005, oltre agli oneri fiscali e previdenziali, nonché alle spese di lite e a quelle di c.t.u..
3. Avverso la sentenza di primo grado il Comune di Chivasso propose gravame cui resistette l’appellato che, tra l’altro, ribadì, in via subordinata, la richiesta di pagamento ex art. 2041 cod. civ..
4. La Corte d’Appello di Torino, con sentenza del 27 aprile 2012, riformò la decisione, dichiarando la nullità delle delibere di conferimento dell’incarico per contrasto con gli artt. 284 e 288 r.d. n. 382 del 1934 (applicabili ratione temporis) e, pertanto, del contratto di prestazione d’opera professionale in via derivata.
La Corte ritenne, inoltre, inammissibile la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa, trattandosi di domanda nuova e perciò non proponibile per la prima volta con la memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ., come tempestivamente eccepito dal Comune; accolse, quindi, l’appello e rigettò le domande proposte dal Bressan; confermò la sentenza impugnata in punto di spese e compensò tra le parti le spese di quel grado di giudizio.
5. Avverso la sentenza della Corte territoriale hanno proposto ricorso per cassazione Adelina Favini e Dario Bressan, eredi di Renato Bressan, sulla base di due motivi.
Ha resistito con controricorso il Comune di Chivasso.
Sia i ricorrenti che il controricorrente hanno depositato memorie integrative.
6. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 284, 285 e 288 r.d. n. 383 del 1934 e si contesta la ritenuta insussistenza dei requisiti di validità dell’obbligazione assunta dal Comune di Chivasso nei confronti dell’ing. Renato Bressan.
7. Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 cod. civ. e 183 cod. proc. civ. e dei principi che regolano l’azione di ingiustificato arricchimento, contestando la ritenuta inammissibilità della domanda di indennizzo per arricchimento senza causa perché non proposta in citazione ma con la memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ..
8. All’esito dell’udienza pubblica del 14 dicembre 2016, la Seconda Sezione civile di questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 7079/17 del 20 marzo 2017, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ponendo una questione di massima di particolare importanza che può riassumersi nei termini che seguono:
«Se nel giudizio promosso nei confronti di una Pubblica Amministrazione per l’adempimento di un’obbligazione contrattuale la parte possa modificare la propria domanda in una richiesta di indennizzo per arricchimento senza causa con la memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1, cod. proc. civ.».
8.1. In particolare la Seconda Sezione ha ritenuto l’infondatezza del primo motivo di ricorso, osservando che la Corte territoriale aveva correttamente dichiarato la nullità delle delibere di conferimento dell’incarico per contrasto con l’art. 284 r.d. n. 383 del 1934, dopo aver accertato che le stesse – anche per effetto della condizione prevista dalla clausola che subordinava il saldo al finanziamento dell’opera – non contenevano l’indicazione dell’ammontare del compenso dovuto al Bressan né dei mezzi per farvi fronte, limitandosi a prevedere i pagamenti a titolo di rimborso spese ed acconto.
Con riferimento al secondo motivo, la Seconda Sezione ha richiamato il principio affermato da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 26128 del 27 dicembre 2010, secondo cui le domande di adempimento contrattuale ed arricchimento senza causa riguardano entrambe diritti etero-determinati e si differenziano, strutturalmente e tipologicamente, sia quanto al petitum sia quanto alla causa petendi; di conseguenza, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo – al quale devono applicarsi le norme del rito ordinario, ai sensi dell’art. 645, secondo comma, cod. proc. civ. e, quindi, anche l’art. 183, quinto comma, cod. proc. civ. -, è ammissibile la domanda di arricchimento senza causa avanzata con la comparsa di costituzione e risposta dall’opposto (che riveste la posizione sostanziale di attore) soltanto qualora l’opponente abbia introdotto nel giudizio, con l’atto di citazione, un ulteriore tema di indagine, tale che possa giustificare l’esame di una situazione di arricchimento senza causa; in ogni altro caso, all’opposto non è consentito di proporre, neppure in via subordinata, nella comparsa di risposta o successivamente, un’autonoma domanda di arricchimento senza causa, la cui inammissibilità è rilevabile d’ufficio dal giudice.
Come evidenziato dalla Seconda Sezione, tale principio di diritto – che trascende il contesto di riferimento costituito dal giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo -, nel giudizio introdotto con domanda di adempimento contrattuale, limita la possibilità di proporre la domanda di arricchimento senza causa “alla prima difesa” successiva al solo caso in cui la relativa esigenza sia sorta dal tenore delle avversarie deduzioni, che abbiano introdotto nel giudizio un ulteriore tema di indagine tale da giustificare l’esame di una possibile fattispecie di arricchimento senza causa, e ciò sul presupposto che il passaggio dalla domanda di adempimento contrattuale a quella di arricchimento senza causa configuri mutatio libelli, che l’art. 183 cod, proc. civ. non tollera al di fuori dello schema della consequenzialità, a presidio del regolare svolgimento del processo.
Pur ritenendo la pertinenza e la rilevanza di tale precedente nel presente giudizio – poiché, in applicazione del ricordato principio, a fronte dell’avversa eccezione di nullità, l’originario attore avrebbe dovuto proporre la domanda di indennizzo in udienza, secondo quanto disposto dal quinto comma dell’art. 183 cod. proc. civ., e non con la successiva memoria autorizzata ex art. 183, sesto comma, n. 1, cod. proc. civ., e ciò a prescindere dalla questione se l’eccezione di nullità del contratto introduca o non un nuovo tema di indagine, si imporrebbe il rigetto del secondo motivo e, quindi, la conferma della sentenza impugnata, – la Seconda Sezione ha, tuttavia, ravvisato la sussistenza di argomenti che potrebbero condurre ad una decisione di segno opposto nella successiva pronunzia di queste Sezioni Unite n. 12310 del 15 giugno 2015, che – operando un’ampia rivisitazione del tema della modifica della domanda – ha enunciato il principio in base al quale tale modifica è consentita anche ove riguardi il petitum o la causa petendi, sempreché la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, per ciò solo, si determinino la compromissione delle potenzialità difensive della controparte o l’allungamento dei tempi processuali.
Sostenendo che la domanda di arricchimento senza causa, come proposta nel giudizio in esame, sia riconducibile alla nozione di “domanda modificata” ritenuta ammissibile dalla più recente pronuncia delle Sezioni Unite già richiamata (n. 12310 del 2015), anche tenuto conto del fatto che, per giurisprudenza ormai consolidata, il riconoscimento dell’utilitas non costituisce un requisito dell’azione generale di arricchimento nei confronti della P.A., alla luce del principio pure affermato da queste Sezioni Unite con la sentenza del 26 maggio 1015, n. 10798, la Seconda Sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, evidenziando la possibile differente soluzione che discende, nel caso concreto, a seconda che si faccia applicazione di uno o dell’altro dei due principi affermati.
9. Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
10. In prossimità dell’udienza pubblica sia i ricorrenti che il controricorrente hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 284, 285 e 288 r.d. n. 383 del 1934 e si contesta la ritenuta insussistenza dei requisiti di validità dell’obbligazione assunta dal Comune di Chivasso nei confronti dell’ing. Renato Bressan.
In particolare, i ricorrenti sostengono che – contrariamente a quanto ritenuto dai giudici d’appello – il mezzo per far fronte all’impegno delle spese di progettazione era stato individuato nel futuro finanziamento dell’opera, evento cui la stessa fattibilità dell’opera era condizionata, e che l’obbligazione di pagamento del corrispettivo era sorta nel 2003, quando il finanziamento era stato ottenuto. Inoltre, i ricorrenti evidenziano che la convenzione richiamava le tariffe professionali in vigore, così indicando i criteri per la determinazione dell’onorario a percentuale, mentre al momento del conferimento dell’incarico era ancora ignoto il costo complessivo dell’opera oggetto di progettazione.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. La Corte di appello – e in tal senso si è espressa pure la Seconda Sezione di questa Corte nell’ordinanza interlocutoria con cui la causa è stata rimessa al Primo Presidente – ha accertato che le delibere n. 4 del 9 febbraio 1988 e n. 5 del 10 febbraio 1988 e l’allegata “convenzione per la progettazione della circonvallazione sud, tra il Comune di Chivasso ed i professionisti incaricati” non contenevano l’indicazione del compenso dovuto al professionista incaricato della progettazione – unitamente ad altro tecnico – né dei mezzi per farvi fronte, limitandosi a prevedere pagamenti a titolo di rimborso spese, in anticipo sulle prestazioni professionali, per un totale di £ 60.000.000, regolarmente corrisposti, e che nella convenzione del 20 aprile 1988 era stato ribadito che il saldo delle competenze sarebbe stato corrisposto nel momento in cui il committente avesse avuto a disposizione i finanziamenti per realizzare la predetta opera. In difetto, quindi, della previsione dell’ammontare del compenso dovuto al professionista e dei relativi mezzi per farvi fronte, la Corte di appello ha ritenuto sussistente la nullità delle delibere di conferimento dell’incarico per contrasto con l’art. 284 r.d. n. 383 del 1934, con conseguente nullità della convenzione stipulata tra le parti e, quindi, insussistenza del diritto al compenso da parte dell’ing. Renato Bressan.
1.3. La decisione della Corte territoriale è conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di contratto d’opera professionale stipulato da un ente locale.
Come pure posto in rilievo dalla medesima Corte territoriale, il contrasto insorto sulla questione «se la nullità dell’atto deliberativo di un ente pubblico locale, col quale viene conferito un incarico professionale di redazione di un progetto per un’opera pubblica, per difetto dei requisiti (previsione dell’ammontare del compenso dovuto al professionista e dei mezzi per farvi fronte) stabiliti dall’art. 284 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383, determini la nullità anche del contratto tra l’ente e il professionista …», è stato composto con la sentenza di queste Sezioni Unite n. 12195 del 10 giugno 2005, con la quale è stato affermato che, nel vigore del combinato disposto degli artt. 284 e 288 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico della legge comunale e provinciale), la delibera con la quale i competenti organi comunali o provinciali affidano ad un professionista privato l’incarico per la progettazione di un’opera pubblica, è valida e vincolante nei confronti dell’ente locale soltanto se contenga la previsione dell’ammontare del compenso dovuto al professionista e dei mezzi per farvi fronte; l’inosservanza di tali prescrizioni determina la nullità della delibera, nullità che si estende al contratto di prestazione d’opera professionale poi stipulato con il professionista, escludendone l’idoneità a costituire titolo per il compenso (v. anche Cass., 29/10/2009, n. 22922; Cass. 17/07/2013, n. 17469).
1.4. Va pure osservato che, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, la Corte territoriale ha chiaramente tenuto conto di quanto previsto dalla clausola convenzionale (art. 7), secondo cui il saldo delle competenze sarebbe stato corrisposto nel momento in cui il committente avesse ottenuto il finanziamento dell’opera. Tuttavia, la medesima Corte, alla luce del tenore degli atti prodotti dalle parti e da essa esaminati (tra cui la convenzione in parola, e quindi, anche gli artt. 5 e 7 della stessa), ha ritenuto che non era stato previsto l’ammontare del compenso dovuto al professionista e dei relativi mezzi per farvi fronte (v. sentenza impugnata p. 10); si evidenzia peraltro che il richiamo, per la determinazione del compenso al professionista, alle tariffe professionali contenuto nell’art. 5 della convenzione tra le parti risulta del tutto generico, stante le variabili previste e consentite dalle stesse, come pure evidenziato dal controricorrente
1.5. La ricordata valutazione della Corte di merito risulta perfettamente in linea con la ratio del principio espresso da queste Sezioni Unite con riferimento alle norme di cui agli artt. 284 e sgg. d r.d. n. 383 del 1934.
1.6. Per mera completezza, va anche posto in rilievo che, in relazione all’art. 23 del d.l. 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 1989, n. 144 – che commina non più la nullità del contratto concluso dall’ente locale senza la previsione di spesa e l’indicazione dei mezzi per farvi fronte bensì la non riferibilità del rapporto obbligatorio, ai fini della controprestazione, all’ente, con l’imputazione alla sfera giuridica diretta e personale dell’amministratore o del funzionario degli effetti, ai predetti fini, dell’attività contrattuale dagli stessi posta in essere in contrasto con i dettami contabili inerenti alla gestione degli enti locali – queste Sezioni Unite hanno ribadito la necessità che la registrazione dell’impegno contabile è ineludibile, con conseguente irrilevanza della previsione di copertura con finanziamento pubblico (Cass., sez. un., 18/12/2014, n. 26657).
1.7. Con riferimento, infine, alla doglianza con cui i ricorrenti lamentano che la Corte di merito non abbia tenuto conto della previsione contenuta nell’art. 285 r.d. n. 383 del 1934 – secondo cui «Quando si tratti di opera di notevole importanza il progetto esecutivo deve essere preceduto da un progetto di massima che consenta la valutazione della entità della spesa in relazione alla possibilità di farvi fronte» – ritengono queste Sezioni Unite che, come già rilevato dalla Seconda Sezione di questa Corte, la censura proposta non risulta sussumibile nel prospettato vizio di violazione di legge, riferendosi la stessa ad una erronea ricognizione della fattispecie concreta da parte della Corte di appello senza tener conto delle successive delibere approvate dal Comune (v. Cass. 16/07/2010, n. 16698; Cass., ord., 12/10/2017, n. 24054).
2. Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 cod. civ. e 183 cod. proc. civ. e dei principi che regolano l’azione di ingiustificato arricchimento, contestando la ritenuta inammissibilità della domanda subordinata di indennizzo per arricchimento senza causa perché non proposta in citazione ma con la memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1), cod. proc. civ..
Al riguardo i ricorrenti rappresentano di aver formulato tale domanda con la predetta memoria, a seguito dell’eccezione di nullità della delibera di incarico e del contratto relativo sollevata dal Comune dì Chivasso nella comparsa di risposta, e, comunque, sulla base di circostanze di fatto già allegate nell’atto introduttivo con riferimento alla domanda di adempimento contrattuale; deducono, altresì, di aver riproposto la domanda in parola nella comparsa di costituzione in appello.
3. La questione rimessa all’esame di queste Sezioni Unite che, come già sopra evidenziato, consiste nello stabilire “se nel giudizio promosso nei confronti di una Pubblica Amministrazione per l’adempimento di un’obbligazione contrattuale la parte possa modificare la propria domanda in una richiesta di indennizzo per arricchimento senza causa con la memoria ex art. 183, sesto comma, n. 1, cod. proc. civ.”, rileva proprio per l’esame del secondo motivo.
4. Questa Corte si è più volte pronunciata sulla questione se la proposizione della domanda di azione di arricchimento costituisca, ove formulata dopo che sia stata proposta azione di adempimento contrattuale, emendatio o mutatio libelli e se e in che termini la proposizione di una tale domanda incorra nelle preclusioni previste dal codice di rito.
4.1. Le Sezioni Unite di questa Corte, nel comporre il contrasto di giurisprudenza relativamente alla novità della domanda di indennizzo per arricchimento senza causa rispetto a quella originariamente proposta di adempimento contrattuale, con la sentenza 22 maggio 1996 n. 4712, pronunciata in un giudizio iniziato in primo grado nel 1986 e, quindi, disciplinato dalle norme processuali di cd. vecchio rito, anteriori cioè alle modifiche di cui alla legge 26 novembre 1990 n. 353, hanno affermato che la domanda di indennizzo per arricchimento senza causa integra, rispetto a quella di adempimento contrattuale originariamente formulata, una domanda nuova – come tale inammissibile a norma dell’art. 184 cod. proc. civ. in difetto di accettazione del contraddittorio -, in quanto dette domande non sono intercambiabili e non costituiscono articolazioni di un’unica matrice, riguardando entrambe diritti cosiddetti “eterodeterminati” (per l’individuazione dei quali è indispensabile il riferimento ai relativi fatti costitutivi, che divergono sensibilmente tra loro ed identificano due distinte entità), e l’attore, sostituendo la prima alla seconda, non solo chiede un bene giuridico diverso (indennizzo, anziché il corrispettivo pattuito), così mutando l’originario petitum, ma, soprattutto, introduce nel processo gli elementi costitutivi della nuova situazione giuridica (proprio impoverimento ed altrui locupletazione e, in caso di domanda di arricchimento proposta contro la P.A., anche il riconoscimento della utilitas della prestazione), che erano privi di rilievo, invece, nel rapporto contrattuale (in senso v. pure Cass. 29/09/1997, n. 9507; Cass. 29/01/1998, n. 915; Cass. 6/10/1999, n. 11123; Cass. 12/06/2000, n. 7979; Cass. 20/12/2001, n. 16063; Cess. 27/11/2001, n. 15028; Cass. 29/03/2001, n. 4612; Cass. 24/10/2003, n. 16005; Cass. 11/05/2003, n. 7378; Cass. 2/12/2004, n. 22667; Cass. 26/05/2004, n. 10168; Cass. 2/08/2007 n. 17007).
4.2. Anche successivamente a tale arresto delle Sezioni Unite, si rinviene un orientamento minoritario – soprattutto, ma non solo, in tema di domanda ex art. 2041 cod. civ. proposta dall’opposto nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo -, che si polarizza su due essenziali varianti argomentative: 1) l’una, che valorizza la natura del procedimento in cui la domanda è inserita, ovvero quello di opposizione a decreto ingiuntivo, ai sensi dell’art. 645 cod. proc. civ., il quale sarebbe proprio finalizzato ad esaminare la fondatezza della domanda del creditore; in base, quindi, a tutti gli elementi offerti dallo stesso, e contrastati dall’ingiunto (Cass. 23.6.2009 n. 14646); l’altra – maggiormente seguita – che sottolinea, non tanto il tipo di procedimento adottato, quanto il fatto che nel giudizio siano già presenti tutti gli elementi costitutivi dell’azione di indebito arricchimento, considerata, quindi, come una diversa qualificazione dei fatti già introdotti (Cass. 15/04/2010, n. 9042; Cass. 18/11/2008, n. 27406; Cass. 14/06/2000, n. 8110; Cass. 28/11/1997, n. 12009).
Con sentenza 27/12/2010, n. 26128, queste Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi in tema della proponibilità, da parte dell’opposto, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, della domanda di ingiustificato arricchimento, ai sensi dell’art. 2041 c.c., quale domanda riconvenzionale, in considerazione della sua posizione sostanziale di attore, e non di convenuto, nel giudizio conseguente all’opposizione, hanno affermato il principio così massimato: «Le domande di adempimento contrattuale e di arricchimento senza causa, quali azioni che riguardano entrambe diritti eterodeterminati, si differenziano, strutturalmente e tipologicamente, sia quanto alla causa petendi (esclusivamente nella seconda rilevando come fatti costitutivi la presenza e l’entità del proprio impoverimento e dell’altrui locupletazione, nonché, ove l’arricchito sia una P.A., il riconoscimento dell’utilitas da parte dell’ente), sia quanto al petitum (pagamento del corrispettivo pattuito o indennizzo). Ne consegue che, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo – al quale si devono applicare le norme del rito ordinario, ai sensi dell’art. 645, secondo comma, e, dunque, anche l’art. 183, quinto comma, cod. proc. civ. – è ammissibile la domanda di arricchimento senza causa avanzata con la comparsa di costituzione e risposta dall’opposto (che riveste la posizione sostanziale di attore) soltanto qualora l’opponente abbia introdotto nel giudizio, con l’atto di citazione, un ulteriore tema di indagine, tale che possa giustificare l’esame di una situazione di arricchimento senza causa. In ogni altro caso, all’opposto non è consentito di proporre, neppure in via subordinata, nella comparsa di risposta o successivamente, un’autonoma domanda di arricchimento senza causa, la cui inammissibilità è rilevabile d’ufficio dal giudice».
Il percorso argomentativo seguito da queste Sezioni Unite nella sentenza in parola, richiamata pure nell’ordinanza interlocutoria n. 7079 del 2017 della Seconda Sezione, può così sinteticamente schematizzarsi: a) le domande di adempimento contrattuale e di arricchimento senza causa sono strutturalmente e tipologicamente diverse, integrando, quest’ultima, rispetto a quella originariamente formulata, una domanda nuova; b) tali domande differiscono quanto al petitum, costituito nella prima dal pagamento del corrispettivo pattuito e nella seconda dall’indennizzo, e quanto alla causa petendi, essendo estranei all’azione contrattuale gli elementi dell’impoverimento e dell’altrui locupletazione, che costituiscono i presupposti dell’azione generale di arricchimento (si evidenzia che la pronunzia in parola richiama anche l’ulteriore presupposto dell’utilitas da parte dell’ente, la cui natura di elemento integrativo dell’azione di arricchimento è stata successivamente esclusa dalla sentenza delle Sezioni Unite del 26 maggio 2015, n. 10798); c) si tratta, quindi, di domande non intercambiabili e che non «costituiscono articolazioni di un’unica matrice», poiché i fatti costitutivi che rispettivamente le individuano «identificano due distinte entità, nessuna delle quali può dirsi potenzialmente contenente l’altra e potenzialmente in essa contenuta», d) nel passaggio dall’una all’altra azione in parola non può parlarsi di semplice emendatio libelli, ma di vera e propria mutatio, consentita all’attore nei limiti fissati dal quinto comma dell’art. 183 cod. proc. civ.; e) tali limiti ineriscono anzitutto alla fase della formazione del thema decidendum, consentendo la modifica della domanda originaria soltanto come conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto, il quale abbia così introdotto nel giudizio un nuovo tema di indagine; f) vi sono altresì limiti temporali per l’esercizio di tale facoltà, che deve ritenersi consentito nell’udienza fissata per la comparizione delle parti e la trattazione, perché questa rappresenta il primo atto difensivo utile, in quanto temporalmente successivo a quello che ne determina la proponibilità; nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il limite temporale preclusivo alla proponibilità della domanda di arricchimento senza causa deve farsi risalire alla comparsa di costituzione e risposta dell’opposto, che è il primo atto difensivo di quest’ultimo, a seguito delle difese contenute nell’atto di opposizione a di. dell’opponente; g) al di fuori di tali ristretti termini, la domanda di ingiustificato arricchimento non può essere proposta nel giudizio originato da un’azione contrattuale e la sua tardiva proposizione è soggetta al rilievo officioso, indipendentemente dall’atteggiamento processuale della controparte, in quanto il regime di preclusioni introdotto nel rito civile ordinario riformato – applicabile anche nel giudizio di opposizione a d.i. – è finalizzato a tutelare non solo l’interesse di parte ma anche l’interesse pubblico al corretto e celere andamento del processo.
5. Con la sentenza n. 12310 del 15 giugno 2015, queste Sezioni Unite, chiamate a risolvere il contrasto sulla questione relativa alla modificabilità, con la memoria prevista dal quinto comma dell’art. 183 cod. proc. civ. (nella formulazione ratione temporis applicabile), della domanda costitutiva ex art. 2932 c.c. in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo), hanno affrontato in termini più generali il tema dello ius variandi, operando un’ampia rivisitazione dello stesso alla luce dei mutamenti del quadro normativo di riferimento ad opera del legislatore – anche costituzionale – e dei corrispondenti mutamenti nella giurisprudenza di legittimità, soprattutto a Sezioni Unite (pure se non specificamente riferibili alla problematica da esaminare in quella sede) riguardanti, in una prospettiva più generale, non solo la disciplina dei nova nel processo ma anche le problematiche ad essa collegate, «nella consapevolezza che l’esegesi della normativa processuale deve sempre salvaguardare la coerenza circolare del sistema e che l’intervento nomofilattico compositivo è necessario quante volte occorra riportare a sintesi univoca e manifesta il tormentato processo di adeguamento della ermeneutica giuridica al contesto legislativo e culturale in trasformazione».
La sentenza muove da una ricognizione della struttura dell’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ. evidenziando che, in relazione all’esercizio dello ius variandi, la giurisprudenza afferma il tradizionale principio secondo il quale sono ammissibili solo le modificazioni della domanda introduttiva che costituiscono semplice emendatio libelli, ravvisabile quando non si incide né sulla causa petendi né sul petitum, mentre sono assolutamente inammissibili quelle modificazioni della domanda che costituiscono mutatio libelli, ravvisabile quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, ed in particolare su di un fatto costitutivo differente, così ponendo al giudice un nuovo tema d’indagine e spostando i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo.
Si sottolinea nella sentenza in parola che tale principio è però solo in apparenza uniformemente applicato, in quanto sottende una realtà più frastagliata in relazione a diverse fattispecie, in base ad “una logica del caso per caso”.
Nella medesima sentenza si evidenzia poi che non è dato rinvenire un esplicito divieto di domande nuove nell’ambito dell’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ. paragonabile a quello espresso nell’art. 345 cod. proc. civ., per il giudizio di appello, e che l’art.189 cod. proc. civ., in tema di rimessione della causa al collegio, prevede che il giudice istruttore invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio «nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell’art. 183», in tal modo ribadendo, ove vi fossero dubbi, che a norma dell’art. 183 cod. proc. civ. le parti possono cambiare le domande e conclusioni avanzate nell’atto introduttivo in maniera sensibilmente apprezzabile (quindi non limitata a mere qualificazioni giuridiche o precisazioni di dettaglio).
Al fine di una maggiore comprensione della effettiva portata del cambiamento ammissibile ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ., nella sentenza de qua si osserva che, in rapporto alla domanda originaria, nell’economia della suddetta norma risultano previsti altri tre tipi di domande: le domande “nuove”, le domande “precisate” e le domande “modificate”. Si evidenzia, con riguardo alle domande “nuove”, che, pur non riscontrandosi un espresso divieto come quello di cui all’art. 345 cod. proc. civ., questo può essere implicitamente desunto dal fatto che risultano specificamente ammesse per l’attore le domande e le eccezioni «che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto», ben potendo l’affermazione suddetta leggersi nel senso che sono (implicitamente) vietate tutte le domande nuove ad eccezione di quelle che per l’attore rappresentano una reazione alle opzioni difensive del convenuto. Si afferma che domande “precisate” sono le stesse domande introduttive che non hanno subito modificazioni nei loro elementi identificativi, ma semplici precisazioni, per tali intendendosi tutti quegli interventi che non incidono sulla sostanza della domanda iniziale ma servono a meglio definirla, puntualizzarla, circostanziarla, chiarirla. Si specifica che «la vera differenza tra le domande “nuove” implicitamente vietate e le domande “modificate” espressamente ammesse non sta … nel fatto che in queste ultime le “modifiche” non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive”, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali-, o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività». Si rimarca che, «con la modificazione della domanda iniziale l’attore, implicitamente rinunciando alla precedente domanda (o, se si vuole, alla domanda siccome formulata nei termini precedenti alla modificazione), mostra chiaramente di ritenere la domanda come modificata più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio».
La sentenza n. 12310 del 2015 perviene quindi, alle seguenti conclusioni:
a) la modifica della domanda iniziale può riguardare anche gli elementi identificativi oggettivi della stessa, a condizione che essa riguardi la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o comunque sia a questa collegata, regola, questa, ricavabile da tutte le indicazioni contenute nel codice di rito in relazione alle ipotesi di connessione a vario titolo e in particolare al rapporto di connessione per “alternatività” o “per incompatibilità”;
b) una siffatta interpretazione risulta maggiormente rispettosa dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, posto che, non solo non incide negativamente sulla durata del processo nel quale la modificazione interviene, ma determina, anzi, una indubbia incidenza positiva più in generale sui tempi della giustizia, in quanto è idonea a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata dinanzi al giudice in un unico contesto, invece di determinare la potenziale proliferazione dei processi,
c) la concentrazione favorita da tale interpretazione risulta inoltre maggiormente rispettosa della stabilità delle decisioni giudiziarie, anche in relazione alla limitazione del rischio di giudicati contrastanti, nonché della effettività della tutela assicurata, sempre messa in pericolo da pronunce meramente formalistiche;
d) una simile interpretazione non determina alcuna “sorpresa” per la controparte né ne mortifica le potenzialità difensive, in quanto l’eventuale modifica avviene sempre in riferimento e in connessione alla medesima vicenda sostanziale in relazione alla quale la parte è stata chiamata in giudizio e a tale parte è, in ogni caso, assegnato un congruo termine per potersi difendere e controdedurre anche sul piano probatorio.
Conclusivamente, con la sentenza in parola, è stato espressamente affermato il seguente principio di diritto: «La modificazione della domanda ammessa a norma dell’art. 183 cod. proc. civ. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che per ciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l’allungamento dei tempi processuali. Ne consegue che deve ritenersi ammissibile la modifica, nella memoria
all’uopo prevista dall’art. 183 cod. proc. civ., della iniziale domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo».
6. Il principio appena riportato risulta essere stato ribadito da successive decisioni di legittimità, con riferimento ad un variegato ambito oggettivo, non circoscritto al solo diritto contrattuale, pur se talvolta esso è stato richiamato a conforto di una decisione la cui ratio non collima del tutto con le indicazioni interpretative offerte dalla richiamata pronuncia del 2015 e si conforma, in realtà, a convincimenti già acquisiti da tempo.
Al riguardo si fa riferimento, a mero titolo esemplificativo, in tema di modificazione della domanda da parte dell’attore nel giudizio regolato dal cd. rito societario, alla decisione di questa Corte del 3 gennaio 2017, n. 29, in cui si afferma che, nel rito societario già disciplinato dal d.lgs. n. 5 del 2003, le domande nuove che l’attore può proporre ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. b), devono essere conseguenza “delle difese proposte dal convenuto”, in tale ampia espressione dovendosi ricomprendere ogni possibile deduzione difensiva di quest’ultimo, e í quindi, non solo le eccezioni, in senso stretto o lato, ma anche le mere difese. In senso sostanzialmente conforme si è espressa la sentenza di questa S.C. del 19 gennaio 2016, n. 816, secondo cui nel rito societario già disciplinato dal d.lgs. n. 5 del 2003, la modificazione della domanda, ivi consentita tramite la memoria ex art. 6, può riguardare anche uno o entrambi i suoi elementi oggettivi (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata riguardi la medesima vicenda sostanziale dedotta in lite o sia ad essa collegata, sicché, qualora la parte abbia chiesto, con l’atto di citazione, l’accertamento della nullità di un contratto di intermediazione finanziaria, è ammissibile la proposizione, con la suddetta memoria, della domanda di risarcimento del danno, ove, in particolare, non siano mutati gli elementi di fatto introdotti in giudizio.
In tema di mutamento quantitativo della domanda originaria, si richiama pure la sentenza di questa Corte. n. 26782 del 22 dicembre 2016, con la quale è stato affermato che la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 cod. proc. civ. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, per ciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato inammissibile il mutamento quantitativo della domanda riconvenzionale proposta dall’opponente a decreto ingiuntivo e riconnessa all’intervenuta rescissione del contratto rispetto alla precedente domanda di risoluzione, trovando la richiesta del riconoscimento di un maggiore importo fondamento nella medesima situazione sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo).
In punto di ammissibilità della domanda di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2050 cod. civ., formulata dopo un’iniziale domanda risarcitoria fondata sulla violazione del generale dovere del neminem laedere di cui all’art. 2043 cod. civ., si è altresì espressa questa Corte con la sentenza n. 10513 del 17 marzo 2017, applicando argomentatamente il principio espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 12310 del 2015.
7. Osserva il Collegio che, pur se l’applicazione dell’uno o dell’altro dei principi affermati con le decisioni di queste Sezioni Unite n. 26128/10 e n. 26168/2015 sopra ricordate è, in tesi, foriera di soluzioni contrastanti con riferimento al caso concreto all’esame, come prospettato nell’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione, va, tuttavia, evidenziato che non sussiste un reale contrasto tra dette due sentenze. Ed invero, la decisione più recente, prendendo le mosse dalle questioni sottoposte al suo esame, persegue l’obiettivo di adeguare alla mutata realtà normativa l’intera disciplina processuale in tema di nova e di ridefinire la fase della trattazione a tale riguardo; ha, quindi, una portata ben più ampia della prima delle ricordate decisioni, la quale, oltre a riferirsi ad un ambito ben specifico e, per così dire, settoriale, si fonda sul criterio della diversità di petitum e causa petendi fra le due domande in quel giudizio proposte, criterio che, invece, la più recente delle sentenze in parola dichiara espressamente di voler superare e disattendere.
8. Ritiene il Collegio che va data continuità all’indirizzo indicato con la sentenza di queste Sezioni Unite n. 12310 del 2015, proprio per la valenza sistematica, in tema di esercizio dello ius variandi nel corso del processo, della decisione da ultimo richiamata, che, superando in senso evolutivo il precedente criterio della differenziazione di petitum e causa petendi su cui si basava il precedente orientamento cui pure si è fatto riferimento, sposta l’attenzione dell’interprete dall’ambito circoscritto di una valutazione relativa alla invarianza degli elementi oggettivi (petitum e causa petendi) della domanda modificata rispetto a quella iniziale, in una prospettiva di più ampio respiro, volta alla verifica che entrambe tali domande ineriscano alla medesima vicenda sostanziale sottoposta all’esame del giudice e rispetto alla quale la domanda modificata sia più confacente all’interesse della parte.
Milita in tal senso, altresì, la considerazione che l’interpretazione adottata in questa sede risulta maggiormente rispettosa dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, in quanto non solo incide sulla durata del processo in cui la modificazione interviene ma influisce positivamente anche sui tempi della giustizia in generale, in quanto favorisce la soluzione della complessiva vicenda sostanziale sottoposta all’esame del giudice in un unico contesto, evitando la proliferazione dei processi.
8.1. Occorre, pertanto, verificare se, come pure evidenziato dal Collegio rimettente, la domanda di arricchimento senza causa, come proposta nel giudizio all’esame con la memoria ex art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., sia riconducibile alla nozione di “domanda modificata” ritenuta ammissibile con la sentenza n. 12310 del 2015.
Al riguardo si osserva che va accertato se, tra la domanda inizialmente proposta e quella poi successivamente formulata con la memoria ex art. 183, comma sesto, cod. proc. civ., sussista quel rapporto di connessione per “alternatività” od “incompatibilità” cui si fa riferimento in quella decisione.
Nella specie, entrambe le domande proposte (di adempimento contrattuale e di indebito arricchimento) si riferiscono indubbiamente alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, intesa come unica vicenda in fatto che delinea un interesse sostanziale; sono attinenti al medesimo bene della vita, tendenzialmente inquadrabile in una pretesa di contenuto patrimoniale (pur se, nell’una, come corrispettivo di una prestazione svolta e, nell’altra, come indennizzo volto alla reintegrazione dell’equilibrio preesistente tra i patrimoni dei soggetti coinvolti); sono legate da un rapporto di connessione “di incompatibilità”, non solo logica ma addirittura normativamente prevista, stante il carattere sussidiario dell’azione di arricchimento, ai sensi dell’art. 2042 cod. civ., e tale nesso giustifica ancor di più il ricorso al simultaneus processus.
9. Il secondo motivo di ricorso risulta, pertanto, fondato in base al seguente principio di diritto: «È ammissibile la domanda di arricchimento senza causa ex art. 2041 cod. civ. proposta, in via subordinata, con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., nel corso del processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale, qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa (per incompatibilità) a quella inizialmente formulata».
10. In conclusione, va rigettato il primo motivo e accolto il secondo; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Torino, in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo e accoglie in secondo, cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Torino, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 7 novembre 2017.
Il Consigliere estensore
Il Presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 20 marzo 2017, n. 7079, per SS.UU, 13 settembre 2018, n. 22404, in tema di ius variandi
SS.UU, 13 settembre 2018, n. 22404, in tema di ius variandi
Nota della Avv. Valentina Petruzziello
Adempimento contrattuale e arricchimento senza causa: emendatio o mutatio libelli?
1. Il principio di diritto
È ammissibile la domanda di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. proposta, in via subordinata, con la prima memoria ai sensi dell'art. 183, c. 6, c.p.c., nel corso del processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale, qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa (per incompatibilità) a quella inizialmente formulata.
2. Il contrasto risolto
Precedenti arresti hanno affermato che la domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento integri, rispetto a quella di adempimento contrattuale originariamente formulata, una domanda nuova, come tale inammissibile, in quanto, riguardando entrambe diritti c.d. “etero-determinati”, si differenzierebbero, strutturalmente e tipologicamente, sia per petitum (indennizzo, anziché il corrispettivo pattuito), sia per causa petendi (rilevando esclusivamente ex art. 2041 c.c., come fatti costitutivi, la presenza e l'entità del proprio impoverimento e dell'altrui locupletazione) (cfr., Cass., 02 agosto 2007, n. 17007).
Secondo altra pronuncia (cfr., SS.UU, 12 dicembre 2010, n. 26128), nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo è da considerarsi ammissibile la domanda di arricchimento senza causa avanzata con la comparsa di costituzione e risposta dall'opposto-attore, soltanto qualora l'opponente abbia introdotto nel giudizio, con l'atto di citazione, un ulteriore tema di indagine, tale da giustificare l'esame di una situazione di arricchimento senza causa.
Al di fuori di tale ipotesi, all'opposto non sarebbe consentito proporre, neppure in via subordinata, nella comparsa di risposta o successivamente, un’autonoma domanda di arricchimento senza causa, la cui inammissibilità sarebbe rilevabile d'ufficio.
3. Riflessioni conclusive
La soluzione offerta dalle Sezioni Unite, pur inserendosi nel solco tracciato dalla sentenza n. 12310 del 2015, se ne distingue per le valide ragioni giustificative.
Riprendendo la nozione di domanda modificata, già ritenuta ammissibile, la Suprema Corte ritiene che le domande (di adempimento e di arricchimento senza causa) ineriscano alla medesima vicenda sostanziale, intesa come unica vicenda in fatto che delinea l’interesse ad agire; attengano al medesimo bene della vita, tendenzialmente inquadrabile in una pretesa di contenuto patrimoniale; siano legate da un rapporto di connessione per “incompatibilità”, non solo logica, ma addirittura normativamente prevista, stante il carattere sussidiario dell'azione di arricchimento, ai sensi dell'art. 2042 c.c..
E così, superando, forse definitivamente, il problema della invarianza degli elementi oggettivi della domanda modificata rispetto a quella iniziale, le Sezioni Unite forniscono una interpretazione maggiormente rispettosa dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo.