Civile Sent. Sez. U Num. 16296 Anno 2021
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: GRECO ANTONIO
Data pubblicazione: 10/06/2021
SENTENZA
sul ricorso 5536-2019 proposto da:
FATONE SAVERIO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI 11, presso lo studio dell’avvocato RENATO TOBIA, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LIA CORTE DI CASSAZIONE, CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI ROMA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 176/2018 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 13/12/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/06/2019 dal Consigliere ANTONIO GRECO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale LUCIO CAPASSO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato Renato Tobia.
CENNI DEL FATTO
L’avvocato Saverio Fatone impugna, sulla base di tre motivi illustrati con successiva memoria, la sentenza del Consiglio Nazionale Forense che, in sede di rinvio disposto dalla sentenza di queste Sezioni unite 16 febbraio 2015, n. 3023, ha rideterminato la sanzione inflittagli nella sospensione dall’esercizio dall’attività professionale per due anni, in sostituzione della cancellazione originariamente applicatagli, per essersi abusivamente introdotto, munito di appunti e trasmettitori, esibendo un tesserino simile a quello in dotazione ai commissari di esame e qualificandosi delegato del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma, nelle aule dove si svolgeva la sessione di esami di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato per l’anno 2010, ed aver tentato di favorire partecipanti all’esame.
Nella decisione ora impugnata il CNF premetteva che secondo le Sezioni unite, alla luce dell’art. 65, comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, il quale detta la disciplina transitoria delle norme deontologiche forensi, “la successione nel tempo delle norme dell’allora vigente e di quelle dell'(allora) emanando nuovo codice deontologico (e delle ipotesi di illecito e delle sanzioni da essi rispettivamente contemplati) doveva essere improntata al criterio del favor rei“; e premetteva ancora che, nel quadro di una “tendenziale tipizzazione degli illeciti disciplinari e delle relative sanzioni, venivano richiamati dalla Cassazione, in relazione al caso di specie, “i principi generali rilevanti del nuovo codice deontologico forense (l’art. 9, comma 2, in tema di doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza, e l’art. 20 sulla responsabilità disciplinare), nonché l’art. 72 (esame di abilitazione), che sembrerebbe aver tipizzato l’illecito contestato” all’avvocato ricorrente.
E rilevava quindi che, una volta scomparsa dal catalogo delle sanzioni la cancellazione dall’albo per effetto della lex mitior, non restava che applicare al caso di specie integralmente lo ius superveniens, il quale in luogo della cancellazione prevede la sanzione meno afflittiva della sospensione, attualmente consistente nell’esclusione temporanea, aumentata sino a cinque anni, dall’esercizio della professione, sanzione che si applica per infrazioni consistenti in comportamenti e in responsabilità gravi quando non sussistono le condizioni per irrogare la sola sanzione della censura.
Il Consiglio nazionale forense osservava che in presenza di una fattispecie illecita complessa come quella in esame, costituente il risultato di una pluralità di comportamenti, uno tipizzato (l’art. 72 menzionato) e gli altri non tipizzati, ancorché alcuni riconducibili alle fattispecie dell’interruzione di pubblico servizio e sostituzione di persona, “la sanzione non poteva che essere grave e dunque ablativa”, essendo del resto prevista la sospensione fino a tre anni nella più lieve ipotesi di colui che si limiti “senza artifizi e raggiri” a far pervenire testi agli esaminandi.
E benché sussistessero in linea teorica i presupposti per una sanzione più grave, il CNF riteneva congruo infliggere, in sostituzione della cancellazione, la diversa pena della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per il periodo di due anni.
Dalla valutazione – tra l’altro – della situazione di carattere personale e familiare invocata come esimente derivava poi un siffatto contenimento della sanzione, che potrebbe assurgere ai massimi previsti dal richiamato art. 72, vale a dire tre anni, se solo si valutassero gli ulteriori comportamenti, supra evidenziati, costituenti illeciti autonomi suscettibili di concorrere a determinare la sanzione incrementandola.
Il ricorrente ha depositato memoria ed il Procuratore generale conclusioni scritte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Col primo motivo il ricorrente denuncia “errata individuazione ed applicazione della “disciplina più favorevole” e conseguente errata applicazione del principio di diritto fissato dalla Corte di cassazione e violazione del principio di reformatio in peius e dei principi fissati dall’art. 394 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c.”.
Il giudice del rinvio avrebbe disatteso non solo quanto espressamente richiesto dalla stessa Cass. n. 3023 del 2015, ma al contempo il principio di reformatio in pejus e quanto disposto dall’art. 65, comma 5, della legge n. 247 del 2012, secondo la quale le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, ma solo se più favorevoli all’incolpato; la decisione sarebbe inoltre contraddittoria, perché è lo stesso CNF a dare atto di dover scegliere la disciplina più favorevole all’incolpato, il quale però poi finirebbe per subire una condanna più grave di quella ricevuta in forza della disciplina pregressa.
Con il secondo motivo, denunciando “errata considerazione di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ.”, “contesta la sentenza impugnata per aver considerato diversi fatti ritenuti decisivi per il giudizio per i quali non vi è prova in atti della loro sussistenza, ed anzi ne è esclusa la veridicità”.
Col terzo motivo, intestato “errata applicazione della sanzione nella misura massima, prevista per una fattispecie tipizzata, ad un comportamento non tipizzato; violazione di legge – applicazione della sanzione massima ex art. 72, comma 2, del codice deontologico forense (approvato dal CNF il 31 gennaio 2014 e pubblicato nella G.U. n. 241 del 16 ottobre 2014) per un comportamento non attribuibile all’incolpato e non provato, in violazione dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.”, il ricorrente si duole che il CNF abbia ritenuto di poter sanzionare l’incolpato sia per comportamenti tipizzati, che per comportamenti non tipizzati , in applicazione dell’art. 72 del codice deontologico, in violazione della sentenza di questa Corte che ha chiaramente definito l’ambito della responsabilità rinviando all’applicazione degli art. 9 e 72 e non altri, e si duole per avere il CNF omesso di considerare diversi fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, ed adeguatamente evidenziati negli atti difensivi e nelle decisioni di merito, applicando la sanzione di tre anni prevista però per chi riveste la qualità di commissario d’esame e non per il singolo avvocato.
Il secondo ed il terzo motivo, dal cui esame conviene muovere per segnare i confini del presente contenzioso, si rivelano inammissibili, perché il CNF è il giudice del rinvio, cui queste Sezioni unite (Cass. 16 febbraio 2015, n. 3023), – disattesi gli altri motivi – , hanno rimesso gli atti: “il quarto motivo di ricorso, incidente sulla misura della sanzione, induce, viceversa, a cassare, sul punto, la sentenza impugnata ed a rinviare corrispondentemente gli atti al Consiglio nazionale forense per un nuovo esame”.
Il primo motivo è fondato, per non avere il Consiglio nazionale forense, giudice del rinvio, applicato al giudizio in corso il principio fissato da questa Corte, avendo condotto un esame difettoso o incompleto ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile alla luce del principio del favor rei introdotto nella materia.
Questa Corte ha infatti affermato, in tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, che le norme del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014 si applicano anche ai procedimenti in corso – come nella specie – al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato, avendo l’art. 65, comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, recepito il criterio del favor rei, in luogo del criterio del tempus regit actum (Cass. n. 3023 del 2015, cit.).
Si è inoltre precisato che, ai sensi dell’art.65, comma 5, della l. n. 247 del 2012, che ha recepito il criterio del “favor rei” in luogo di quello del “tempus regit actum”, le norme contenute nel nuovo codice deontologico forense, approvato il 31 gennaio 2014, si applicano ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato; ne consegue che l’individuazione del regime giuridico più favorevole deve essere effettuata non in astratto, ma con riguardo alla concreta vicenda disciplinare, tenendo conto di tutte le conseguenze che potrebbero derivare dall’integrale applicazione di ciascuna delle due normative nella specifica fattispecie; tuttavia, all’esito dell’individuazione, quella ritenuta più favorevole deve essere applicata per intero, dovendo escludersi la possibilità di operare una combinazione tra la vecchia e la nuova normativa ricavandone arbitrariamente una terza attraverso l’utilizzo e l’applicazione di parti dell’una e parti dell’altra ( Cass. sez. un. 12 aprile 2021, n. 9546; vedi inoltre (Cass., sez. un., 27 dicembre 2017, n. 30993).
E’ quindi corretto l’assunto del ricorrente, secondo il quale per stabilire se la sanzione della sospensione inflitta in concreto risulti più o meno afflittiva di quella della cancellazione originariamente inflitta dal COA, il Consiglio nazionale forense avrebbe dovuto procedere a comparare i trattamenti sanzionatori in concreto, tenendo conto del fatto che “la cancellazione” dall’albo, tacitamente abrogata con la vecchia disciplina, consentiva comunque all’avvocato, nell’ambito del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma (COA Roma, adunanza del 18 febbraio 1993, Reiscrizione di professionista forense negli albi da cui sia stato cancellato per misura disciplinare) di chiedere la reiscrizione dopo un periodo minimo di due anni, termine “suscettibile di aumento per quel che in appresso verrà chiarito”.
Una siffatta clausola (termine “suscettibile di aumento…”) non potrebbe venire in gioco nel caso di specie, come sembra osservare il Procuratore generale nelle conclusioni rassegnate, in base ai “criteri” fissati nella disciplina della reiscrizione, che per lo specifico illecito in esame non avrebbe richiesto “l’allegazione di alcuna avvenuta restituzione o risarcimento, non essendovi stato maneggio di danaro”,
né alcuna certificazione di riabilitazione, i non essendo intervenuta condanna penale, e senza dover dimostrare di aver riarcito danni a terzi, non sussistendo, nel caso in esame, alcun pregiudizio per i terzi.
Nella comparazione fra previgente e nuova disciplina il CNF avrebbe dovuto valutare le possibilità del sanzionato di chiedere la reiscrizione e chiarire il periodo occorrente per la presentazione dell’istanza, per “poter stabilire – osserva il Procuratore generale – che un periodo di sospensione triennale, ancorché ridotto ad anni due per la concessione di attenuanti, doveva considerarsi, nel caso concreto, trattamento sanzionatorio più mite rispetto alla disposta cancellazione, al fine della corretta applicazione del principio del favor rei.
Ai fini dell’osservanza della previsione di cui all’art. 65, comma 5, legge n. 247 del 2012, gli atti vanno rimessi al giudice della deontologia, affinché proceda, oltre che alla definitiva qualificazione della condotta ascritta, alla determinazione della sanzione anche alla luce della disciplina sopravvenuta.
Vanno pertanto disattesi il secondo ed il terzo motivo del ricorso, mentre, decidendo sul primo motivo, la sentenza impugnata va cassata, con corrispondente rinvio della causa, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità, al Consiglio nazionale forense in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite, accoglie il primo motivo e dichiara l’inammissibilità del secondo e terzo motivo, cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, al Consiglio nazionale forense.
Così deciso in Roma il 4 giugno 2019
Allegati:
SS.UU, 10 giugno 2021, n. 16296, in tema di jus superveniens
Nota dell'Avv. Alfonso Ciambrone
Ai fini dell’applicabilità dello jus superveniens più favorevole all’incolpato contenuto nella nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense occorre l’individuazione in concreto del regime giuridico più favorevole
1. Il principio di diritto
In tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, le norme del codice deontologico forense approvato il 31 gennaio 2014 si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l'incolpato, avendo l'art. 65, c. 5, della L. 247/2012, recepito il criterio del favor rei, in luogo del criterio del tempus regit actum (cfr., SS.UU, 16 febbraio 2015, n. 3023).
2. Conseguenze operative
Ne consegue che l'individuazione del regime giuridico più favorevole deve essere effettuata non in astratto, ma con riguardo alla concreta vicenda disciplinare, tenendo conto di tutte le conseguenze che potrebbero derivare dall'integrale applicazione di ciascuna delle due normative nella specifica fattispecie, dovendo escludersi la possibilità di operare una combinazione tra la vecchia e la nuova normativa ricavandone arbitrariamente una terza attraverso l'utilizzo e l'applicazione di parti dell'una e parti dell'altra.