Civile Sent. Sez. U Num. 1482 Anno 2022
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: MERCOLINO GUIDO
Data pubblicazione: 18/01/2022
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta da Oggetto:
Pietro CURZIO – Primo Presidente –
Giacomo TRAVAGLINO – Presidente di Sezione –
Maria ACIERNO – Presidente di Sezione – R.G.N. 12130/2020
Alberto GIUSTI – Consigliere – Cron.
Chiara GRAZIOSI – Consigliere – UP – 28/09/2021
Guido MERCOLINO – Consigliere Rel. –
Caterina MAROTTA – Consigliere –
Milena FALASCHI – Consigliere –
Enzo VINCENTI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 12130/2021 R.G. proposto da
C.D.P. INVESTIMENTI S.G.R. S.P.A. (già C.D.P. Investimenti S.G.R. S.p.a.), in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dai Prof. Avv. Pietro Rescigno, Luisa Torchia e Antonio Catricalà e dagli Avv. Francesca Sbrana e Fabio Baglivo, con domicilio eletto in Roma, via V. Colonna, n. 40, presso lo Studio Lipani Catricalà & Partners;
– ricorrente e controricorrente –
contro
PESSINA COSTRUZIONI S.P.A., in persona del presidente del consiglio di amministrazione p.t. Massimo Pessina, rappresentata e difesa dagli Avv. Avilio Presutti e Antonia Giovanna Negri, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, piazza San Salvatore in Lauro, n. 10;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
e
C.M.B. – SOCIETA’ COOPERATIVA MURATORI E BRACCIANTI DI CARPI;
– intimata –
avverso la sentenza del Consiglio di Stato n. 965/20, depositata 7 febbraio 2020.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 28 settembre 2021 dal Consigliere Guido Mercolino;
uditi gli Avv. Luisa Torchia, Fabio Baglivo, Damiano Lipani per delega dello Avv. Francesca Sbrana, e Avilio Presutti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Stanislao DE MATTEIS, che ha concluso chiedendo l’accoglimento dei primi due motivi del ricorso principale, con assorbimento del terzo motivo, ed il rigetto del ricorso incidentale proposto dalla Pessina Costruzioni.
FATTI DI CAUSA
1. La Pessina Costruzioni S.p.a. propose ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, per sentir pronunciare l’annullamento a) della nota emessa il 12 luglio 2018, con cui la C.D.P. Investimenti S.G.R. S.p.a., società di gestione del risparmio costituita dalla Cassa Depositi e Prestiti S.p.a. per l’istituzione e la gestione di fondi immobiliari di tipo chiuso riservati ad investitori qualificati, l’aveva esclusa dalla gara indetta per l’affidamento del secondo lotto dei lavori di ristrutturazione di un immobile sito in Bergamo, largo Barozzi, b) della nota emessa il 26 luglio 2018, con cui era stato precisato che l’esclusione era stata determinata da gravi carenze nell’esecuzione dell’appalto avente ad oggetto il primo lotto dei lavori, e c) della nota emessa il 12 luglio 2018, con cui l’appalto era stato aggiudicato alla C.M.B. – Società Cooperativa Muratori e Braccianti di Carpi.
Si costituirono la CDPI e la CMB, e resistettero alla domanda, chiedendone il rigetto.
2. Nel corso del giudizio, essendo emersa la necessità di prendere visione ed estrarre copia della documentazione relativa alla gara, la ricorrente propose istanza di accesso agli atti della stazione appaltante, la quale, con nota dell’8 ottobre 2018, la rigettò, sostenendo che nei suoi confronti non era applicabile la legge 7 agosto 1990, n. 241, non essendo essa qualificabile né come pubblica amministrazione né come soggetto privato esercente funzioni amministrative o un’attività di pubblico interesse.
2.1. La predetta nota fu anch’essa impugnata dalla Pessina Costruzioni dinanzi al Tar Lombardia, il quale, con sentenza del 1° aprile 2019, il Tar dichiarò il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo, ritenendo che la CDPI non fosse qualificabile come organismo di diritto pubblico, ed escludendo pertanto l’applicabilità degli artt. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990.
3. L’appello proposto dalla Pessina Costruzioni è stato accolto dal Consiglio di Stato, che con sentenza del 7 febbraio 2020 ha rinviato la causa al Tar.
Premesso che nella specie era in discussione la sussistenza di uno solo dei requisiti cumulativamente prescritti dall’art. 3, comma primo, lett. d), del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 ai fini della qualificazione dell’ente come organismo di diritto pubblico, e segnatamente l’istituzione dello stesso per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale, il Giudice amministrativo ha richiamato l’orientamento della giurisprudenza comunitaria, secondo cui l’attività dell’ente deve rispondere a un interesse primario della collettività, come la salute, l’ambiente, la sicurezza, etc., non risultando decisiva in contrario la circostanza che l’ente offra servizi o prestazioni in regime di concorrenza con soggetti privati, la quale può tuttavia costituire un indizio del perseguimento di un fine di lucro, unitamente all’assunzione del rischio imprenditoriale, derivante dalla sopportazione delle perdite connesse all’esercizio dell’attività.
Precisato che, ai fini della predetta qualificazione, la giurisprudenza interna richiede che il soggetto non fondi la sua attività principale solo su criteri di rendimento, efficacia e redditività, che non assuma su di sé i rischi collegati allo svolgimento della sua attività e che il servizio d’interesse generale che ne costituisce oggetto non possa essere rifiutato per mere ragioni di convenienza economica, il Consiglio di Stato ha evidenziato come il ricorso a tali indici presuntivi comporti il rischio della creazione giurisprudenziale di una figura diversa da quella emergente dall’art. 3, comma primo, lett. d), del d.lgs. n. 50 del 2016: rilevato infatti che tale disposizione pone l’accento sulle ragioni istitutive del soggetto, ha affermato che il requisito teleologico ricorre quando l’organismo sia stato istituito da un soggetto pubblico appartenente al perimetro allargato della Pubblica Amministrazione, al fine di dare esecuzione ad un servizio necessario, in quanto strettamente connesso alla finalità pubblica di quest’ultimo. Ha ritenuto quindi che debba attribuirsi un valore preminente ai compiti assegnati all’organismo, osservando che gli stessi costituiscono un particolare modo di organizzarsi della Pubblica Amministrazione per il perseguimento di finalità che le appartengono, destinato a prevalere sulle modalità con cui l’attività viene svolta, riflettenti invece il modo di porsi dell’organismo in rapporto al mercato, in quanto tali modalità non sono espressamente menzionate dalla legge, risultano inidonee a differenziare con chiarezza l’azione pubblica da quella di un operatore economico privato e sono potenzialmente mutevoli nel tempo.
Ciò posto, il Giudice amministrativo ha rilevato che la CDPI è stata costituita dalla Cassa Depositi e Prestiti, la quale ne detiene il capitale nella misura del 70% ed è a sua volta configurabile come organismo di diritto pubblico, con il compito d’investire il risparmio collettivo, ovverosia di dare attuazione alla funzione pubblica assegnata alla Cassa: premesso che la tutela del risparmio costituisce una funzione pubblica di rilevanza costituzionale, perseguibile anche attraverso l’istituzione di fondi comuni d’investimento gestiti da società facenti capo all’apparato pubblico, ha ritenuto ininfluenti, ai fini della assimilazione della società ai soggetti privati operanti nel medesimo settore, la provenienza pubblica o privata degl’immobili che ne costituiscono il patrimonio, i risvolti pubblicistici dell’attività svolta dal singolo fondo, l’apertura dello stesso anche ad investitori privati, l’orientamento dell’attività verso asset patrimoniali reputati maggiormente appetibili, l’eventuale non remuneratività dell’investimento e la concorrenza con altri soggetti che svolgono la medesima attività. Ha concluso pertanto che, in qualità di strumento attraverso il quale la Cassa Depositi e Prestiti gestisce direttamente risparmio del pubblico mediante fondi comuni d’investimento immobiliare, la CDPI costituisce un organismo di diritto pubblico, tenuto, sottoposto alla disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi dettata dagli artt. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990.
4. Avverso la predetta sentenza la CDPI ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. La Pessina Costruzioni ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale, per un solo motivo, anch’esso illustrato con memoria, al quale la CDPI ha resistito a sua volta con controricorso. La CMB non ha invece svolto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione della direttiva 2014/24/UE, dell’art. 3, comma primo, lett. d), del d.lgs. n. 50 del 2016, dell’art. 133, comma primo, lett. a), n. 6, del d.lgs. n. 104 del 2010 e degli artt. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990, osservando che, nell’attribuire un rilievo preminente alle finalità istitutive della CDPI, ai fini della qualificazione della stessa come organismo di diritto pubblico, la sentenza impugnata si è discostata dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che individua nelle concrete modalità di svolgimento dell’attività un indicatore fondamentale per stabilire se, pur operando nell’ambito di un mercato concorrenziale, il soggetto risulti teleologicamente orientato al soddisfacimento di esigenze di natura non industriale o commerciale. Premesso che, in tema di affidamento dei contratti pubblici, l’obbligo di applicare le regole di evidenza pubblica trova giustificazione soltanto a fronte di un effettivo rischio di alterazione delle ordinarie logiche competitive, configurabile soltanto ove il soggetto possa influenzare le dinamiche concorrenziali, beneficiando di condizioni particolari che gli consentono di non perseguire in via diretta l’obiettivo della remuneratività, sostiene che ciò che viene in considerazione, ai fini della sussistenza del requisito teleologico, sono l’esclusione del perseguimento di uno scopo di lucro e la sopportazione delle perdite collegate all’esercizio dell’attività; afferma pertanto che la figura dello organismo di diritto pubblico non ricorre allorquando il soggetto eserciti la sua attività in regime di concorrenza con i privati e non usufruisca di misure pubbliche che lo preservino dal rischio di impresa, non assumendo alcun rilievo, in tal caso, la mera circostanza che esso sia stato costituito per soddisfare un interesse di carattere generale. Rilevato che tale principio trova conferma nella lettera dell’art. 3, comma primo, lett. d), cit., nell’ambito della quale la nozione di «esigenze d’interesse generale» trova ulteriore specificazione nel riferimento alla natura non commerciale o industriale delle stesse, precisa che, ai fini della qualificazione del soggetto come organismo di diritto pubblico, la finalità istitutiva e le modalità di svolgimento dell’attività devono essere considerate nel loro insieme, senza possibilità d’introdurre giudizi di prevalenza della prima rispetto alla seconda.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente insiste sulla violazione della direttiva 2014/24/UE, dell’art. 3, comma primo, lett. d), del d.lgs. n. 50 del 2016, dell’art. 133, comma primo, lett. a), n. 6, del d.lgs. n. 104 del 2010 e degli artt. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990, sostenendo che, nell’attribuire alla CDPI una vocazione istitutiva di tipo pubblicistico, desunta dalla partecipazione maggioritaria spettante alla Cassa Depositi e Prestiti, la sentenza impugnata non ha considerato che il requisito teleologico necessario ai fini della qualificazione come organismo di diritto pubblico deve essere posseduto dal soggetto al quale la stessa viene attribuita, indipendentemente dalla circostanza che quest’ultimo sia stato istituito o che le sue attività siano finanziate con mezzi provenienti da un’amministrazione aggiudicatrice, a meno che il controllo da quest’ultima esercitato consenta al soggetto controllato di prescindere, nello svolgimento della sua attività, da criteri di remuneratività, concorrenza ed assunzione diretta del rischio di perdite. Premesso che ciò conferma, anche in caso di sottoposizione al controllo di un ente pubblico, la necessità di verificare le concrete modalità di svolgimento dell’attività, rileva da un lato che l’attività svolta dalla CDPI non risulta affatto indispensabile per il conseguimento delle finalità proprie della Cassa Depositi e Prestiti, dall’altro che la CDPI opera attraverso ordinarie dinamiche di mercato, potendo assumere decisioni di carattere imprenditoriale sulla base di valutazioni non diverse da quelle delle altre società di gestione del risparmio. Precisa infatti che, in base alla disciplina dettata dal d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 ed ai provvedimenti adottati dalla Banca d’Italia e dalla Consob, tali società hanno come unica missione quella di gestire gli investimenti del fondo secondo criteri di efficienza ed imprenditorialità e nell’esclusivo interesse dei sottoscrittori, il cui perseguimento risulterebbe incompatibile con l’assenza di autonomia della società nei confronti dell’ente controllante e con l’imposizione di scopi diversi da quello di lucro, anche nel caso in cui la partecipazione è riservata ad investitori qualificati o professionali, trattandosi di soggetti che perseguono unicamente finalità di lucro. Aggiunge che la ritenuta sufficienza della sottoposizione al controllo di un soggetto pubblico, ai fini della qualificazione della società come organismo di diritto pubblico, oltre ad escludere qualsiasi differenza tra i requisiti prescritti dai nn. 1 e 3 dell’art. 3, comma primo, lett. d), cit., impedirebbe di distinguere la fattispecie in esame da quella dell’impresa pubblica e dalla società in house providing, la quale presuppone l’esercizio di poteri di controllo superiori a quelli previsti dalla disciplina civilistica e lo svolgimento di gran parte dell’attività della controllata in favore della controllante.
3. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione del d.lgs. n. 58 del 1998, della direttiva 2014/24/UE, dell’art. 3, comma primo, lett. d), del d.lgs. n. 50 del 2016, dell’art. 133, comma primo, lett. a), n. 6, del d.lgs. n. 104 del 2010 e degli artt. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990, sostenendo che nel desumere la sussistenza del requisito teleologico dalla clausola statutaria che affida alla CDPI del compito di prestare il servizio di gestione collettiva del risparmio, ritenuto corrispondente alla funzione pubblica assegnata alla Cassa Depositi e Prestiti, la sentenza impugnata non ha considerato che la predetta disposizione riproduce una definizione contenuta nel d.lgs. n. 58 del 1998, riportata negli statuti di tutte le società di gestione del risparmio, e dalla quale non può quindi evincersi una vocazione istitutiva di carattere pubblicistico.
4. Con l’unico motivo del ricorso incidentale, avente carattere condizionato, la Pessina Costruzioni denuncia, per l’ipotesi dell’accoglimento del ricorso principale, la violazione della direttiva 2014/24/UE e dell’art. 3, comma primo, lett. d), del d.lgs. n. 50 del 2016, sostenendo che, nell’escludere la natura non commerciale e non industriale dell’attività svolta dalla CDPI, la sentenza impugnata non ha considerato che la stessa opera in un mercato non concorrenziale ed è gestita secondo logiche e valutazioni non meramente economiche. Afferma infatti che dalla normativa in tema di valorizzazione dei beni immobili mediante la costituzione di fondi d’investimento emerge che la scelta dei fondi da parte degli enti pubblici non è regolata da logiche imprenditoriali o concorrenziali, dal momento che la costituzione delle società di gestione del risparmio e dei fondi d’investimento spetta al Ministero dell’economia e delle finanze ed all’Agenzia del demanio. Precisato inoltre che nella specie la CDPI era stata inclusa nel processo di valorizzazione fin dal momento dell’individuazione del bene e della deliberazione dell’intervento di riqualificazione, osserva che la partecipazione maggioritaria spettante alla Cassa Depositi e Prestiti, la coincidenza degli organi di amministrazione della società con quelli dei fondi gestiti e l’individuazione dei relativi sottoscrittori nei soli enti pubblici o organismi di diritto pubblico confermano la qualificazione della società come organismo di diritto pubblico, restando ininfluente l’esposizione della stessa al rischio di perdite.
4.1. In via ancor più gradata, la controricorrente chiede il rinvio pregiudiziale della causa alla Corte di Giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 TFUE, ai fini dell’accertamento della natura della CDPI, in relazione all’inesistenza di un mercato aperto, al divieto di acquisto di partecipazioni da parte di privati ed alla previsione di una remunerazione dell’attività in favore dei soli investitori pubblici.
5. I due ricorsi vanno esaminati congiuntamente, indipendentemente dal carattere condizionato di quello incidentale, avendo ad oggetto la medesima questione, costituita dalla qualificazione della CDPI come organismo di diritto pubblico e dalla conseguente individuazione del giudice cui spetta la giurisdizione in ordine alla domanda di accertamento dell’illegittimità dell’esclusione della Pessina Costruzioni dalla gara e dell’aggiudicazione dell’appalto alla CMB.
In proposito, va innanzitutto richiamata la nozione di organismo di diritto pubblico emergente dall’art. 3, comma primo, del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale definisce tale soggetto come «qualsiasi organismo, anche in forma societaria, […] 1) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale, 2) dotato di personalità giuridica, e 3) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico» (lett. d), rinviando, ai fini della sua individuazione, all’elenco contenuto nell’allegato IV, avente carattere dichiaratamente non tassativo, ed includendolo tra le amministrazioni aggiudicatrici (lett. a) e tra gli enti aggiudicatori (lett. e), cui si applica la disciplina degli appalti e delle concessioni di lavori, servizi e forniture dettata dal medesimo decreto, con il conseguente assoggettamento ex lege delle procedure di scelta del contraente alla normativa comunitaria ed alle regole di evidenza pubblica, e la devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma primo, lett. e), n. 1 del d.lgs. n. 104 del 2010. La predetta definizione, corrispondente a quella contenuta nell’art. 6, par. 4, della direttiva 2014/23/CE e nell’art. 2, par. 1, n. 4 della direttiva 2014/24/CE, di cui il d.lgs. n. 50 cit. costituisce attuazione, riprende quella già riportata nell’abrogato art. 3, comma ventiseiesimo, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, a sua volta corrispondente a quella dettata dallo art. 2, par. 1, della direttiva 2004/17/CE e dall’art. 1, par. 9 della direttiva 2014/18/CE, di cui il d.lgs. n. 163 cit. costituiva attuazione, ed ancor prima dall’art. 1, lett. b), della direttiva 1992/50/CEE, relativa agli appalti pubblici di servizi, dall’art. 1, lett. b), della direttiva 1993/37/CEE, relativa agli appalti di lavori, e dall’art. 1, n. 1, della direttiva 1993/38/CEE, relativa agli appalti in materia di acqua, energia, servizi di trasporto e telecomunicazioni.
5.1. Com’è noto, la figura in questione ha formato oggetto di approfondita riflessione da parte della giurisprudenza eurounitaria, la quale ne ha puntualmente individuato le caratteristiche in riferimento ai vari settori nell’ambito dei quali la predetta nozione viene in rilievo, elaborando un’articolata casistica, i cui risultati fanno apparire superfluo il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, invocato dalla Pessina Costruzioni ai fini della risoluzione della questione d’interpretazione dell’art. 2, par. 1, n. 4 della direttiva 2014/24/CE, che rappresenta la norma di riferimento nella fattispecie in esame.
Premesso che, ai fini della qualificazione di un soggetto come organismo di diritto pubblico, è necessario che ricorrano cumulativamente tutte le condizioni prescritte dalla direttiva, sicché non risulta sufficiente che un’impresa sia stata istituita da un’amministrazione aggiudicatrice o che le sue attività siano finanziate con mezzi finanziari derivanti dalle attività dalla stessa esercitate, occorrendo invece che l’organismo sia stato istituito per soddisfare bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 15/01/1998, in causa C-44/96, Mannesmann Anlagenbau Austria AG; sent. 22/05/2003, in causa C-18/01, Korhonen e altri), la Corte di giustizia ha affermato, con riguardo a quest’ultimo requisito, che il carattere non industriale o commerciale del bisogno non coincide con quello generale dell’interesse che è volto a soddisfare, ma ne costituisce una ulteriore specificazione, concludendo pertanto che, nell’ambito della categoria dei bisogni d’interesse generale, va enucleata una sottocategoria contrassegnata dal carattere non industriale o commerciale dell’interesse, la cui presenza risulta parimenti indispensabile ai fini dell’attribuzione della qualifica in esame (cfr. sent. 10/11/1998, in causa C-360/96, BFI Holding BV). E’ stato precisato che, in linea di principio, costituiscono bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale quei bisogni che, da un lato, sono soddisfatti in modo diverso dall’offerta di beni o servizi sul mercato e al cui soddisfacimento, d’altro lato, per motivi connessi all’interesse generale, lo Stato preferisce provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere un’influenza determinante (cfr. sent. 10/11/1998, in causa C-360/ 96, BFI Holding BV; sent. 10/05/2001, in cause C-223/99 e C-260/99, Agorà e Excelsior; sent. 27/02/2003, in causa C-373/00, Adolf Truley; sent. 22/05/ 2003, in causa C-18/01, Korhonen e altri). La relativa valutazione deve essere operata tenendo conto di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali le circostanze che hanno presieduto alla creazione dell’organismo considerato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita le attività volte a soddisfare esigenze di interesse generale, ivi compresa, in particolare, la mancanza di concorrenza sul mercato, la mancanza del perseguimento di uno scopo di lucro, la mancanza di assunzione dei rischi collegati a tale attività nonché il finanziamento pubblico eventuale delle attività di cui trattasi (cfr. sent. 5/10/2017, in causa C-567/15, LitSpecMet UAB). L’esistenza di una concorrenza articolata è stata infatti considerata di per sé insufficiente ad escludere la configurabilità di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale, essendo stata affermata la necessità di prendere in considerazione, a tal fine, anche altri fattori, ed in particolare le condizioni in cui l’organismo in questione esercita la sua attività (cfr. sent. 27/02/2003, in causa C-373/00, Adolf Truley): si è osservato al riguardo che, se l’organismo opera in normali condizioni di mercato, persegue lo scopo di lucro e subisce le perdite connesse all’esercizio della sua attività, è poco probabile che i bisogni che esso mira a soddisfare abbiano carattere non industriale o commerciale (cfr. sent. 22/05/2003, in causa C-18/01, Korhonen e altri). Lo scopo delle direttive in materia di pubblici appalti consiste infatti nell’escludere non solo il rischio che gli offerenti o candidati nazionali siano preferiti nell’attribuzione di appalti da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, ma anche la possibilità che un ente finanziato o controllato dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico si lasci guidare da considerazioni diverse da quelle economiche (cfr. sent. 3/10/2000, in causa C-380/98, University of Cambridge; sent. 12/12/2002, in causa C-470/99, Universale-Bau e altri). E’ stato inoltre chiarito che la necessità del requisito in questione non esclude la possibilità che il medesimo bisogno sia soddisfatto anche da imprese private, aggiungendosi che, ai fini della sua sussistenza, non occorre che l’attività d’interesse generale sia esercitata in modo esclusivo, potendo il medesimo soggetto svolgere altre attività, anche con carattere prevalente (cfr. sent. 15/01/1998, in causa C-44/96, Mannesmann Anlagenbau Austria AG; sent. 22/05/2003, in causa C-18/01, Korhonen e altri), ivi comprese attività a scopo di lucro sul mercato concorrenziale, purché le attività dell’organismo siano necessarie affinché l’amministrazione che lo ha istituito possa esercitare la sua attività e, al fine di soddisfare esigenze di interesse generale, tale soggetto si lasci guidare da considerazioni diverse da quelle economiche (cfr. sent. 10/04/2008, in causa C-393/06, Ing. Aigner GmbH; sent. 5/10/2017, in causa C-567/15, LitSpecMet UAB).
5.2. I risultati della predetta elaborazione sono stati ampiamente recepiti dalla giurisprudenza interna, la quale, nel delineare la categoria dell’organismo di diritto pubblico, alla stregua tanto del previgente art. 3, comma ventiseiesimo, del d.lgs. n. 163 del 2006 quanto del vigente art. 3, lett. d), del d.lgs. n. 50 del 2016, ha confermato per un verso la necessità del concorso cumulativo dei tre requisiti prescritti dalle predette disposizioni, ribadendo per altro verso che l’interpretazione di queste ultime dev’essere condotta privilegiando un approccio non formalistico ma funzionale, che tenga conto delle concrete modalità di svolgimento dell’attività del soggetto (cfr. Cass., Sez. Un., 28/06/2019, n. 17567; 28/03/2019, n. 8673). Premesso, in linea generale, che il requisito c.d. teleologico non sussiste quando l’attività sia svolta nel mercato concorrenziale e sia ispirata a criteri di economicità, essendo i relativi rischi economici direttamente a carico dell’ente (cfr. Cass., Sez. Un., 7/04/2010, n. 8225), è stato affermato che ai fini del suo accertamento occorre avere riguardo in primo luogo alla circostanza che l’attività sia rivolta, anche non esclusivamente o prevalentemente, alla realizzazione di un interesse generale, ovvero che sia necessaria al soddisfacimento di tale interesse, e che il soggetto, pur eventualmente operando in un mercato concorrenziale, non fondi la propria attività principale esclusivamente su criteri di rendimento, efficacia e redditività e non assuma su di sé i rischi collegati allo svolgimento di tale attività, i quali devono ricadere sull’Amministrazione controllante, ed in secondo luogo alla circostanza che il servizio d’interesse generale, oggetto di detta attività, non possa essere rifiutato per ragioni di convenienza economica (cfr. Cass., Sez. Un., 28/03/2019, n. 8673). Ai fini dell’esclusione della qualifica di organismo di diritto pubblico, è stata inoltre considerata irrilevante la mera circostanza che il soggetto non sia interamente partecipato da un ente qualificabile come amministrazione aggiudicatrice, trattandosi di un fenomeno destinato ad assumere rilevanza per le sue caratteristiche sostanziali più che per gli aspetti formali, così come la circostanza che, oltre all’attività volta a soddisfare esigenze d’interesse generale, esso svolga ulteriori attività a scopo di lucro sul mercato concorrenziale, essendosi ritenuta applicabile la c.d. teoria del contagio, anch’essa di derivazione eurounitaria, secondo cui la disciplina dei contratti pubblici opera anche per gli appalti posti in essere dallo organismo nell’ambito di attività che non rispondano ad esigenze di carattere generale (cfr. sent. 15/01/1998, in causa C-44/96, Mannesmann Anlagenbau Austria AG; sent. 10/04/2008, in causa C-393/06, Ing. Aigner; sent. 5/10/ 2017, in causa C-567/15, LitSpecMet UAB).
5.3. La sentenza impugnata, pur richiamando in gran parte i predetti principi, se ne è dichiaratamente discostata sotto un profilo essenziale, avendo ritenuto che, ai fini dell’accertamento del requisito teleologico, il ricorso ad elementi sintomatici desunti dalle modalità di svolgimento dell’attività dell’ente, pur semplificando l’attività interpretativa, comporti il rischio della progressiva creazione giurisprudenziale di una figura diversa da quella che emerge direttamente dall’art. 3, comma primo, lett. d), del d.lgs. n. 50 del 2016: rilevato che quest’ultimo, prendendo in considerazione il dato dell’istituzione unitamente alle finalità, pone in risalto le ragioni istitutive del soggetto, ha affermato che il requisito in esame ricorre allorché l’organismo è stato costituito da un soggetto pubblico appartenente al perimetro allargato della Pubblica Amministrazione per dare esecuzione ad un servizio che è necessario perché è strettamente connesso alla finalità pubblica di quest’ultimo. Ha ritenuto infatti che, in quanto espressione di un particolare modo di autorganizzarsi della Pubblica Amministrazione rispetto al perseguimento di finalità che comunque le appartengono, i compiti assegnati all’organismo, che sono alla base della sua istituzione, debbano considerarsi prevalenti sulle modalità con cui l’attività viene svolta, le quali, oltre a non essere espressamente menzionate dalle norme in esame, risultano inidonee a differenziare con chiarezza l’azione pubblica da quella di un operatore economico privato e sono comunque potenzialmente mutevoli nel tempo.
In tal modo, tuttavia, il Giudice amministrativo si è posto in contrasto con l’interpretazione della normativa eurounitaria fornita dalla Corte di Giustizia, avente portata vincolante per il giudice nazionale, la quale, oltre ad individuare nel soddisfacimento di un interesse generale avente carattere non industriale o commerciale un requisito distinto da quello dell’istituzione ad opera di un’amministrazione aggiudicatrice, ancorché cumulativamente concorrente con lo stesso, ha espressamente precisato che il relativo accertamento deve aver luogo tenendo conto di tutti gli elementi non solo di diritto, ma anche di fatto che contribuiscono all’identificazione del predetto interesse ed alla differenziazione dello stesso da quelli aventi carattere industriale o commerciale, ivi comprese le condizioni in cui l’organismo esercita la propria attività, che restano concettualmente distinte dalle circostanze che hanno condotto alla sua istituzione, anch’esse peraltro considerate rilevanti ai fini della valutazione richiesta. Illuminante, in proposito, appare il riferimento del Giudice eurounitario allo svolgimento dell’attività nell’ambito di un mercato concorrenziale, configurabile anch’esso come un dato di natura fattuale che, pur essendo stato ritenuto da solo insufficiente a giustificare il riconoscimento del carattere industriale o commerciale del bisogno, è stato considerato pur sempre rilevante ai fini del relativo accertamento, se posto in relazione con altri fattori idonei ad evidenziare l’assimilabilità del modo di operare dell’ente a quello di altri soggetti che offrono beni o servizi sul mercato. Tali fattori, contrariamente a quanto sostenuto dalla sentenza impugnata, non risultano affatto estranei alla lettera delle direttive e della norma interna, il cui riferimento ai bisogni di carattere non industriale o commerciale, quale sottocategoria di quelli d’interesse generale, è volto ad evidenziare proprio la necessità di un’autonoma considerazione del modo di porsi dell’organismo in rapporto al mercato, che ne giustifica la sottoposizione alla disciplina degli appalti pubblici. Il rilievo esclusivo conferito alla stretta connessione tra i compiti assegnati all’organismo e le finalità d’interesse pubblico perseguite attraverso la sua istituzione appare d’altronde foriero d’incertezze non inferiori a quelle determinate dal richiamo alle modalità di svolgimento della sua attività, in quanto, avuto riguardo alla molteplicità dei bisogni della cui soddisfazione la Pubblica Amministrazione si fa carico nella realtà attuale, alla sempre più frequente estraneità delle prestazioni rese all’ambito dei compiti tradizionalmente assegnati agli enti pubblici ed alla possibile fungibilità dei beni e dei servizi dagli stessi forniti rispetto a quelli offerti da operatori privati, il mero riferimento all’oggetto statutario potrebbe indurre ad includere nella categoria in esame soggetti che, pur assolvendo compiti ritenuti di propria pertinenza da parte dell’Amministrazione, agiscono di fatto come comuni operatori economici, o, per converso, ad escludere dalla stessa categoria soggetti che, pur fornendo risposta a bisogni che potrebbero astrattamente essere soddisfatti anche mediante il ricorso al mercato, operano in condizioni o secondo logiche estranee a quella concorrenziale. Tali conclusioni, comportando a seconda dei casi l’assoggettamento o la sottrazione dell’ente all’osservanza della disciplina in materia di appalti pubblici, ed in particolare al rispetto delle regole di evidenza pubblica nella scelta del contraente, si porrebbero in contrasto con le finalità perseguite dalle direttive citate e dalla normativa interna, le quali, come più volte precisato dalla giurisprudenza eurounitaria e da quella di legittimità, consistono, tra l’altro, nello scongiurare il rischio che la presenza sul mercato di soggetti la cui attività s’ispira a considerazioni diverse da quelle puramente economiche si traduca nell’alterazione del gioco della concorrenza tra gli operatori del settore. Quanto poi alla mutevolezza nel tempo delle modalità di svolgimento dell’attività dell’ente, se è vero che le condizioni oggettive in cui quest’ultimo è chiamato ad operare possono ben modificarsi, in conseguenza dell’ingresso di nuovi soggetti o dell’uscita di altri dal mercato, delle dimensioni di ciascuno di essi e del numero dei potenziali fruitori dei beni o degli utenti dei servizi offerti, nonché della stessa natura e disponibilità di tali beni e servizi, è anche vero, però, che non possono mutare le direttive di fondo cui deve ispirarsi la predetta attività, le quali non possono certo essere desunte da scelte occasionali degli organi dell’ente o da comportamenti dettati da necessità contingenti, ma vanno individuate attraverso l’esame delle sue caratteristiche strutturali e funzionali, nonché del rapporto con l’Amministrazione che lo ha istituito: non può dunque ritenersi pertinente il riferimento della sentenza impugnata alla remuneratività dell’attività svolta, le cui possibili variazioni, in dipendenza di occasionali modificazioni delle condizioni di mercato, non consentirebbero di escludere, in linea di principio, la configurabilità di uno scopo di lucro o quanto meno l’osservanza di criteri di economicità, al pari di quanto accade per gli operatori privati.
5.4. Alla stregua delle predette considerazioni, non può condividersi la qualificazione della CDPI come organismo di diritto pubblico, operata dal Giudice amministrativo sulla base della mera costituzione della società ad opera della Cassa Depositi e Prestiti, che ne detiene la partecipazione di maggioranza, e dell’assegnazione alla stessa del compito di gestire fondi d’investimento immobiliare, ritenuto riconducibile all’espletamento delle finalità istituzionali della Cassa, in quanto compreso tra le modalità previste per l’investimento del risparmio collettivo da parte dell’apparato pubblico.
Come risulta dalla stessa sentenza impugnata, l’art. 2 dello statuto della CDPI prevede che «la società, ai sensi del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 59 e successive modificazioni ed integrazioni e in conformità della regolamentazione di attuazione vigente, ha per oggetto: a) la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio, realizzata attraverso la gestione del patrimonio e dei relativi rischi, anche in regime di delega, di fondi comuni d’investimento di propria o altrui istituzione, e di altri organismi di investimento collettivo, italiani ed esteri, ivi comprese le funzioni di natura amministrativa e le attività di commercializzazione degli Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio (OICR) gestiti […]». La costituzione della società, avvenuta il 24 febbraio 2009 con la partecipazione dell’ABI e dell’ACRI, ha avuto luogo in attuazione della disciplina introdotta dall’art. 5, comma settimo, lett. a), del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, dall’art. 3, comma 4-bis, del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito con modificazioni dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, e dall’art. 33-bis del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che ha permesso di finanziare operazioni d’interesse pubblico previste dallo statuto della Cassa Depositi e Prestiti nei confronti dello Stato, delle regioni, degli enti locali, degli enti pubblici e degli organismi di diritto pubblico anche attraverso la sottoscrizione di fondi comuni di investimento gestiti da una società di gestione collettiva del risparmio di cui all’art. 33 del d.lgs. n. 58 del 1998, stabilendo che l’oggetto di tale società «realizza uno o più fini istituzionali della Cassa Depositi e Prestiti Spa», e consentendo all’Agenzia del demanio di promuovere «iniziative idonee per la costituzione, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di società, consorzi o fondi immobiliari» per la «valorizzazione, trasformazione, gestione e alienazione del patrimonio immobiliare pubblico di proprietà dei Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni, Stato e degli Enti vigilati dagli stessi, nonché dei diritti reali relativi ai beni immobili, anche demaniali», con la precisazione che lo svolgimento delle predette attività deve avvenire «nel limite delle risorse finanziarie disponibili». Per il perseguimento del suo oggetto sociale, CDPI ha costituito quattro fondi d’investimento immobiliare operanti in settori diversi (Fondo Investimenti per l’Abitare, Fondo Investimenti per la Valorizzazione, Fondo Investimenti per l’Abitare 2 e Fondo Investimenti per il Turismo), aventi obiettivi predeterminati di rendimento correlati alla rispettiva attività, ed aperti ad investitori istituzionali ed a clienti professionali pubblici e privati, conformemente alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 58 del 1998 ed ai regolamenti della Banca d’Italia.
Nonostante la dichiarata connessione dell’oggetto sociale con le finalità istituzionali della Cassa Depositi e Prestiti, la società in esame è riconducibile, a tutti gli effetti, al modello di cui all’art. 33 del d.lgs. n. 58 del 1998, ovverosia alla società di gestione del risparmio (S.G.R.), e come tale inserita a pieno titolo nell’ordinamento previsto dal predetto decreto, alle cui disposizioni è tenuta a prestare osservanza, al pari delle altre società del medesimo tipo autorizzate ad operare sul mercato dei servizi d’investimento, ed in particolare a prestare i servizi indicati dall’art. 33 cit. Essa opera pertanto in un settore contraddistinto dall’esistenza di una pluralità di soggetti in competizione tra loro, offrendo al pubblico degli investitori qualificati servizi d’investimento non diversi da quelli prestati dagli altri operatori, sulla base delle medesime regole cui sono assoggettati questi ultimi, e perseguendo obiettivi di rendimento la cui preventiva fissazione esclude, in linea di massima, la possibilità di lasciarsi guidare, nell’esercizio della propria attività, da considerazioni diverse da quelle economiche. La finalità ultima dell’intervento risponde indubbiamente ad un interesse generale, costituito dalla valorizzazione, gestione ed alienazione del patrimonio immobiliare pubblico, ma tale obiettivo viene realizzato ricorrendo ad uno strumento giuridico, quale il fondo d’investimento immobiliare, che prevede l’acquisizione d’immobili individuati dagli stessi gestori con l’utilizzazione di risorse economiche reperite sul mercato attraverso l’offerta di quote agl’investitori, cui dev’essere assicurata un’adeguata remunerazione, non diversamente da quanto accadrebbe in un’operazione d’investimento immobiliare posta in essere dal gestore di un fondo privato.
Correttamente, in questa prospettiva, la sentenza impugnata afferma l’irrilevanza della provenienza pubblica o privata degl’immobili che costituiscono il patrimonio dei fondi d’investimento gestiti dalla CDPI, così come dei risvolti pubblicistici dell’attività svolta da tali fondi. Non può invece condividersi l’analogia che essa ravvisa con gli enti previdenziali, la cui attività, consistente nell’investimento in immobili dei contributi versati dagli iscritti, a garanzia della futura erogazione delle pensioni, non consente di assimilare la CDPI a tali enti, avuto riguardo al carattere pubblico delle funzioni esercitate da questi ultimi in favore degli iscritti, all’obbligatorietà della contribuzione ed all’inderogabilità delle prestazioni erogate, indipendenti dalla fruttuosità degl’investimenti compiuti. Il Giudice amministrativo, pur riconoscendo che l’attività d’investimento della CDPI è necessariamente orientata all’acquisizione di assets patrimoniali reputati maggiormente appetibili, ammette d’altronde la possibilità che l’investimento non dia i frutti sperati o comporti addirittura una perdita, ma ritiene tali caratteristiche insufficienti ad escludere la connotazione pubblicistica dell’attività, affermando che tale evenienza è connaturata alla stessa attività di gestione dei fondi e connessa alle scelte strategiche operate dai gestori, senza considerare che la stessa espone la società ai medesimi rischi cui vanno incontro gli altri operatori presenti sul mercato, dal momento che né le norme citate né lo statuto prevedono alcuna forma di ripianamento delle perdite o comunque di finanziamento da parte della Cassa Depositi e Prestiti. Parimenti inappropriato risulta l’accostamento alle società in house, se non altro perché, indipendentemente dalla rilevata connessione dell’oggetto sociale con le finalità istituzionali della Cassa Depositi e Prestiti e dalla mancata dimostrazione della configurabilità di un controllo analogo da parte della stessa, la cui partecipazione maggioritaria le consente comunque d’influire sulla composizione degli organi amministrativi della CDPI e di condizionarne le scelte strategiche, la società non svolge la sua attività esclusivamente o prevalentemente in favore della controllante, prestando liberamente i propri servizi in favore degli investitori qualificati che ne facciano richiesta (cfr. Cass., Sez. Un., 13/09/2018, n. 22409; 10/03/2014, n. 5491).
Frutto di un equivoco appaiono invece la riconduzione dei compiti della società alla salvaguardia del risparmio, quale funzione pubblica di rilevanza costituzionale, e l’affermata coincidenza degli stessi con quelli assegnati alla Cassa Depositi e Prestiti: la «gestione collettiva del risparmio», affidata dallo statuto alla CDPI, oltre a realizzare soltanto una delle finalità istituzionali della Cassa Depositi e Prestiti, si distingue infatti da quella di raccolta del risparmio postale da quest’ultima svolta attraverso l’emissione di buoni fruttiferi e libretti di deposito garantiti dallo Stato e distribuiti da Poste Italiane; essa va intesa, conformemente a quanto previsto dal d.lgs. n. 58 del 1998, come gestione in monte delle risorse conferite dagl’investitori, esercitata dalle società di gestione del risparmio, e consistente nella formazione del patrimonio con il denaro raccolto tra una pluralità d’investitori mediante l’emissione e l’offerta di quote o azioni, e nella gestione dello stesso nel loro interesse ed in piena autonomia, in base ad una politica d’investimento predeterminata. La rilevanza costituzionale della tutela del risparmio, pur giustificando l’assoggettamento di tali società alla disciplina speciale dettata dal d.lgs. n. 58 del 1998, non comporta la trasformazione della loro attività in una pubblica funzione, trattandosi pur sempre di un’attività imprenditoriale, sia pure contrassegnata da uno statuto particolare, contraddistinto dalla previsione di particolari requisiti di professionalità, dall’imposizione di specifici obblighi d’informazione e di diligenza e dalla sottoposizione ad un articolato sistema di controlli.
In conclusione, deve ritenersi che, nonostante la costituzione ad opera della Cassa Depositi e Prestiti, la partecipazione maggioritaria spettante alla stessa, la personalità giuridica di cui è dotata e le esigenze d’interesse generale per la cui soddisfazione è stata costituita, la CDPI non sia qualificabile come organismo di diritto pubblico, ai sensi dell’art. 3, comma primo, lett. d), del d.lgs. n. 50 del 2016, in tal senso deponendo la natura delle predette esigenze, non annoverabili tra quelle non aventi carattere industriale o commerciale, avuto riguardo allo svolgimento dell’attività in regime di concorrenza con gli altri soggetti operanti nel medesimo settore, al perseguimento di obiettivi di rendimento prefissati ed alla mancata previsione di forme di ripianamento delle perdite o comunque di finanziamento da parte di enti pubblici: ai fini dell’affidamento di lavori, servizi o forniture, essa non può pertanto considerarsi tenuta, nella scelta del contraente, al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica, con la conseguenza che le relative controversie restano sottratte alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, prevista dall’art. 133, comma primo, lett. e), n. 1 del d.lgs. n. 104 del 2010.
6. Il ricorso principale va dunque accolto, mentre quello incidentale condizionato va rigettato, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata e l’affermazione della spettanza della giurisdizione al Giudice ordinario, dinanzi al quale le parti vanno rimesse, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale condizionato, cassa la sentenza impugnata e dichiara la giurisdizione del Giudice ordinario.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della Pessina Costruzioni S.p.a., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso incidentale dal comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 28/09/2021
Il Consigliere estensore
Il Presidente
Allegati:
SS.UU, 18 gennaio 2022, n. 1482, in tema di organismo di diritto pubblico
Nota dell'Avv. Maurizio Fusco
La categoria dell’organismo di diritto pubblico: il caso CDPI
1. Il principio di diritto
Ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’organismo di diritto pubblico, occorre avere riguardo, in primo luogo, alla circostanza che l'attività sia rivolta, anche non esclusivamente o prevalentemente, alla realizzazione di un interesse generale, ovvero che sia necessaria al soddisfacimento di tale interesse, e che il soggetto, pur eventualmente operando in un mercato concorrenziale, non fondi la propria attività principale esclusivamente su criteri di rendimento, efficacia e redditività e non assuma su di sé i rischi collegati allo svolgimento di tale attività (detti rischi devono ricadere sull'Amministrazione controllante); in secondo luogo, alla circostanza che il servizio d'interesse generale, oggetto di detta attività, non possa essere rifiutato per ragioni di convenienza economica.
2. Le motivazioni
Le Sezioni Unite richiamano la nozione di organismo di diritto pubblico emergente dall'art. 3, c. 1, del D.lgs. 50/2016, rinviando, ai fini della sua individuazione, all'elenco contenuto nell'allegato IV, avente carattere dichiaratamente non tassativo, ed includendolo tra le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori cui si applica la disciplina degli appalti e delle concessioni di lavori, servizi e forniture dettata dal decreto stesso, con il conseguente assoggettamento ex lege delle procedure di scelta del contraente alla normativa comunitaria ed alle regole di evidenza pubblica, e la devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 133, c. 1, lett. e), n. 1, c.p.a..
La giurisprudenza, nel delineare la categoria dell'organismo di diritto pubblico, ha confermato, per un verso, la necessità del concorso cumulativo dei tre requisiti prescritti, ribadendo, per altro verso, che l'interpretazione delle disposizioni di legge dev'essere condotta privilegiando un approccio non formalistico, ma funzionale, che tenga conto delle concrete modalità di svolgimento dell'attività del soggetto.
3. Riflessioni conclusive
Nel caso de quo, nonostante la costituzione di CDPI ad opera di Cassa Depositi e Prestiti, la sua partecipazione maggioritaria, la personalità giuridica dell’ente e le esigenze d'interesse generale per la cui soddisfazione è stato costituito, le Sezioni Unite ritengono che la società di cui si discute non sia qualificabile come organismo di diritto pubblico, ai sensi di legge.
Depone, in tal senso, la natura delle predette esigenze, non annoverabili tra quelle non aventi carattere industriale o commerciale, tenuto conto dello svolgimento dell'attività in regime di concorrenza con gli altri soggetti operanti nel medesimo settore, del perseguimento di obiettivi di rendimento prefissati e della mancata previsione di forme di ripianamento delle perdite o comunque di finanziamento da parte di enti pubblici.
Ne consegue che, ai fini dell'affidamento di lavori, servizi o forniture, CDPI non possa considerarsi tenuta, nella scelta del contraente, al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica e le relative controversie restino sottratte alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo.
Si veda anche SS.UU, 18 gennaio 2022, n. 1494.