REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
R . G . N . 944/85
Cron. 5582
Rep. 626
Ud. 17.12.88
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Antonio BRANCACCIO – Primo Presidente –
Dott. Andrea Vela – Pres. di Sez. –
Dott. Vittorio NOVELLI – Pres. di Sez. –
Dott. Vincenzo DI CIO’ – Consigliere –
Dott. Onofrio FANELLI – Consigliere –
Dott. Romano PANZARANI – Consigliere –
Dott. Nicola LIPARI – Consigliere –
Dott. Antonio SENSALE – Consigliere –
Dott. Enzo MERIGGIOLA – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 944/85, del R.G.AA.CC. proposto
da
LODIGIANI IDA, elettivamente domiciliata in Roma, presso la Cancelleria Civile della Corte Suprema di Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avv.Giovanni Bertora, giusta delega a margine del ricorso
RICORRENTE
CONTRO
BERZIGA AURELIO elattivamente domiciliato in Roma, via della Giuliana n. 73/6 presso lo studio dell’Avv. Aldo Spezzaferri, che lo rappresenta e difende unitamente all’Avv. Tito Costa, giusta delega a margine del ricorso
CONTRORICORRENTE
Avverso la sentenza della Corte d’ appello di Bologna depositata il 16.10 1984;
Udita nella pubblica udienza, tenutasi il giorno 17 dicembre 1988, la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Meriggiola;
Udito l’Avv. Bertora;
Udito il Pubblico Ministero, nella persona del Dr. Elio Amatucci, Avvocato Generale presso la Corte Suprema di Cassazione, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il 26 aprile 1980 Berziga Aurelio conveniva dinanzi al Tribunale di Parma Lodigiani Ida, deducendo che nel 1971, essendo debitore nei confronti della convenuta per L. 11.250.000, aveva stipulato con la stessa un atto di vendita simulato di un appartamento di sua proprietà, avente la funzione di garantire il pagamento del debito.
In virtù di tale accordo aveva continuato a godere del bene percependo i canoni di locazione, ma poi, pur avendo estinto il debito, la Lodigiani non aveva acconsentito a ritrasferirgli l’immobile.
Per tali ragioni chiedeva che il Tribunale, accertata la dedotta simulazione, condannasse la convenuta ad un congruo risarcimento del danno, in via subordinata alla restituzione delle somme corrisposte, per indebito arricchimento.
Il Tribunale con sentenza I° marzo 1983 respingeva la domanda; successivo 6 ottobre 1984 la Corte d’Appello di Bologna, giudicando sull’impugnazione del Berziga, dichiarava la nullità del contratto. La sentenza rilevava che l’atto notarile, dato atto della esistenza del debito contratto dal Berziga, prevedeva esplicitamente il suo progressivo scomputo con versamenti rateali, nonchè il diritto del debitore di riscattare l’appartamento e venderlo a terzi entro due anni dalla estinzione del mutuo, oltre al corrispondente diritto del creditore di conservare la proprietà in caso di inadempimento totale e parziale. in virtù di tale accordo aveva continuato a godere del bene percependo i canoni di locazione ma poi pur avendo estinto il debito la lodigiani non aveva acconsentito al dell’immobile eh appunto per tali ragioni chiedeva il tribunale accertata la dedotta simulazione condannasse la convenuta ad un congruo risarcimento del danno in via subordinata la restituzione delle somme corrisposte per indebito arricchimento punto il tribunale con sentenza 1 marzo 1983 respingeva la domanda il successivo 6 ottobre 1984 la Corte d’appello di Bologna giudicando l’impugnazione del berzin di gara dichiarava la nullità del contratto. La sentenza rilevava che l’atto notarile dato atto della esistenza del debito contratto dal borzaga prevedeva esplicitamente il suo progressivo scomputo con versamenti rateali nonché il diritto del debitore di riscattare l’appartamento e venderlo a terzi entro due anni l’estinzione del mutuo oltre al corrispondente diritto del creditore di conservare la proprietà in caso di di riempimento totale o parziale.
Tali circostanze dimostravano l’intento di vincolare il bene a garanzia del debito, sì che la volontà espressa, rispettivamente di acquistare e vendere appariva “subordinata e strumentale” rispetto alla finalità perseguita; in altri termini si era trattato di una vendita effettiva con patto di riscatto o comunque sottoposta a condizione risolutiva con funzione di garanzia reale a favore del creditore, da servire come “paravento” a un patto commissorio occulto, da realizzare attraverso un procedimento indiretto, cioè il ricorso a fattispecie negoziale tipica, quindi lecita, fine questo irraggiungibile con un negozio diretto stante il divieto del patto commissorio.
Tale figura negoziale, peraltro, in quanto dissimulava uno scopo di garanzia mediante cessione di beni; pur non integrando un procedimento simulatorio conteneva una causa illecita, in quanto diretta a frodare la legge, come tale da ritenere nulla.
Le parti, infatti, avevano disposto in essere una figura negoziale tipica; in contrasto con la loro effettiva volontà, la cui nullità discendeva dagli arti. 1344 e 1418 cod. civ., costituente il mezzo per eludere il divieto posto da una norma imperativa, rivelando tal modo l’illiceità della sua causa.
Le parti, precisava la sentenza, avevano regolato i loro rapporti anche con una scrittura la quale, pur contenendo un ridimensionamento del prezzo, regolamentava la modalità di pagamento del debito e di retrocessione del bene, da effettuarsi entro due anni dall’estinzione del mutuo, senza evidenziare una volontà contraria all’effettiva cessione del bene, confermata da un esplicito richiamo all’atto pubblico e alla ripetuta previsione di un obbligo di retrocessione, implicante logicamente una precedente effettiva volontà di cessione.
L’attore, invero, non aveva avanzato un’esplicita domanda di accertamento della nullità, essendosi limitato a dedurre la simulazione e la dichiarazione del diritto a conservare la proprietà dell’appartamento, ma la nullità poteva essere dichiarata, sia perché questa è rivelabile d’ufficio ai sensi dell’art. 1421 cod. civ., sia perché la complessiva valutazione del contenuto dell’atto introduttivo del giudizio e delle istanze successive consentiva di ritenere che il Berziga, almeno in via alternativa con l’azione di simulazione, avesse certamente inteso aspettare una richiesta di accertamento di nullità del contratto.
Contro la sentenza la Lodigiani ha proposto ricorso deducendo tre censure, il cui fondamento viene contestato dal Berziga nel controricorso.
Motivi della decisione
Va preliminarmente preso in esame il terzo motivo attinente a questione pregiudiziale, con cui viene dedotta la violazione degli artt. 99 e 345 c.p.c., 1421 cod. civ. sul rilievo che, pur essendosi limitato il Berziga a chiedere l’accertamento della simulazione, la Corte di Bologna, invece di rigettare la domanda, come avrebbe dovuto, essendo mancata la prova della simulazione, ha dichiarato la nullità dell’atto di trasferimento e della scrittura integrativa, senza considerare che la nullità può esser dichiarata quando venga chiesta l’esecuzione del contratto, non anche quando si agisca per la risoluzione, la rescissione o l’annullamento.
E nella specie la Lodigiani, ben lungi dal chiedere l’esecuzione, aveva concluso in primo e secondo grado soltanto per la pronuncia di inefficacia del negozio per simulazione. Né la domanda proposta consentiva di rilevare d’ufficio la nullità, non avendo l’attore mai dedotto tale vizio.
Sulle deduzioni così sintetizzate, va considerato che per costante indirizzo di questa Corte, ora da confermare, il giudice può dichiarare la nullità di un contratto, ai sensi dell’art. 1421 cod. civ., anche nell’ipotesi in cui non sia stata richiesta in termini espliciti, ogni volta che da una globale e illogica interpretazione della domanda emerga la volontà di vedersi riconosciuta la invalidità del rapporto contrattuale dedotto in giudizio, oppure nell’ipotesi in cui siano stati richiesti l’applicazione del contratto o il riconoscimento di diritti ad esso connessi.
Poiché in tali casi il giudice è tenuto a riscontrare gli elementi costitutivi dell’azione esperita, la nullità va necessariamente dichiarata, ponendosi essa effetto dell’accertamento negativo operato sulla pretesa fatta valere in base al contratto.
La rilevabilità d’ufficio di conseguenza, proprio perché risulta dall’esame degli elementi costitutivi, va coordinata con i principi della domanda e della disponibilità, non potendo il giudice prospettarsi questioni giuridiche e presupponente indagini per le quali le parti non abbiano fornito sufficienti elementi (cf.r anche di recente Cass. N° 5958 del 1985; N° 457 del 1986; N° 1903, 4469 e 6480 del 1987).
Nella specie, la Corte di merito ha accertato che l’attore, dopo aver compiuto nella domanda una puntuale descrizione dei fatti (compravendita con funzione di garantire il credito e patto di retrocessione non osservato dall’acquirente), nelle conclusioni, oltre alla declaratoria di simulazione, ha chiesto il riconoscimento della proprietà “piena ed esclusiva” sull’immobile, precisazione questa puntualmente ripetuta, in secondo grado.
Il convenuto per contro, resistendo alla pretesa attrice, ha sostenuto la validità del negozio, avanzando persino, in via riconvenzionale, domanda di completa attuazione degli accordi con la cessione del garage sottostante l’appartamento.
La controversia, quindi, ha essenzialmente riguardato l’esecuzione del contratto, essendosi da una parte richiesto di negare ogni suo possibile effetto, dall’altra di dare ad esso esecuzione, e la Corte, vagliata la vicenda dedotta tutti i suoi aspetti, ha correttamente ritenuto di non potersi esimere dal rispondere con una dichiarazione di nullità, come effetto dell’accertamento negativo compiuto.
Con la prima doglianza del ricorso, la Lodigiani assume che la Corte di merito ha violato gli artt. 2744 e 1500 cod. civ., per omessa e contraddittoria motivazione nel ritenere la sussistenza, ancorché dissimulata, del patto commissorio senza considerare che la l’art. 2744 cod. civ. commina la nullità, ogni volta che risulti l’intento primario delle parti di costituire una garanzia in funzione del mutuo ed in relazione alla irrevocabilità del trasferimento per l’ipotesi di inadempienza del venditore mutuatario, sì da stabilire un nesso teleologico e strumentale fra i due negozi di compravendita e mutuo.
In tali ipotesi infatti si ha una dissimulazione del patto commissorio in quanto si persegue l’intento primario di far conseguire al creditore la restituzione del danaro.
La scrittura privata invece, compilata a parte ad integrazione dell’atto, esplicitamente dichiarava che riacquisto del bene era soltanto una facoltà del venditore, il quale dopo il trasferimento dell’immobile non sarebbe più rimasto obbligato a restituire il danaro ricevuto, salvo l’importo eccedente il valore del bene, definito debito residuo.
Di conseguenza, se non sussisteva l’obbligazione di restituire, né intento primario di garantire la restituzione del danaro, non si poteva parlare di inadempimento, anche a voler aderire ai principii affermati dalla Corte di merito.
La secondo censura-violazione degli artt. 1344 e 1418 cod. civ. aggiunge che, ammessa l’esistenza di una normale vendita con patto di riscatto non integrante un patto commissorio, la tesi del contratto in frode alla legge non può trovare alcun fondamento, dato che il negozio non ha costituito il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa, bensì per perseguire un lecito regolamento di interessi.
Le argomentazioni addotte con tali motivi, da valutare nel loro insieme in considerazione della loro stretta connessione, ripropongono la controversia questione della validità della vendita fiduciaria a scopo di garanzia, accompagnata dal patto di riscatto o di retrovendita da tempo oggetto di dispute in dottrina e giurisprudenza, essendosi posto il problema della sua assimilabilità al patto commissorio, nullo ai sensi dell’art. 2744 cod. civ..
Come è noto il divieto di tale patto già comminato nel diritto romano della decadenza, venne previsto nel diritto comune degli ordinamenti giuridici del medio evo, alcuni dei quali introdussero addirittura specifiche forme di rimedio a favore della parte indotta a sottoscriverlo, una volta accertata l’esistenza di uno squilibrio patrimoniale.
Il codice civile del 1865 ne sancì la nullità nelle sole ipotesi di dazione di pegno ed anticresi, mentre l’art. 2744 del nuovo codice ha esteso la nullità al patto commissorio aggiunto alla costituzione di ipoteca, con dizione che ad avviso della dottrina e della giurisprudenza giustifica l’estensione del divieto a qualunque negozio, mediante il quale le parti intendano realizzare il fine vietato dalla legge, anche al di fuori dell’anticresi o della dazione di pegno od ipoteca (v. in particolare Cass. N° 282 del 1974 e 2544 del 1984).
Per lungo tempo, in conformità di una tradizionale tesi che traeva origine dagli ordinamenti medievali, venne costantemente ritenuta la legittimità di una vendita stipulata fiduciae causa, quando vi fosse reale trasferimento di proprietà accompagnato dal patto, funzionante da condizione risolutiva, che il bene dovesse ritornare al debitore-venditore con l’esercizio del diritto di riscatto o di retrovendita, una volta estinto il debito nel termine convento.
In altri termini si assumeva la liceità del negozio diretto a realizzare un trasferimento effettivo ed immediato, contrapponendolo all’ipotesi in cui le parti; nel concludere il negozio, fossero in realtà d’accordo nel far sorgere implicitamente o con esplicita dichiarazione una situazione corrispondente alla vendita sotto condizione sospensiva, con la conseguenza che il negozio, così veniva precisato, adempie anche alla funzione dell’ipoteca con patto commissorio ed è nullo ai sensi dell’art. 2744 cod. civ. (cfr. in particolare tra le altre Cass. N° 1004 del 1962, N° 264 e 2869 del 1968, N° 2498 del 1974, N° 5967 del 1978, N° 642 del 1980).
In epoca più recente, la terza sezione di questa Corte, nel riesaminare con sentenza N° 3800 del 1983, nel loro insieme, le ipotesi di vendita con effetti traslativi immediati, accompagnata da patto di riscatto o sottoposta a condizione risolutiva, ovvero con pactum de retrovedendo o de retroemendo, se stipulata allo scopo di costituire una garanzia reale a favore del creditore, ha rilevato che tali convenzioni sono in realtà permeate dall’intento primario delle parti di vincolare il bene a garanzia del mutuo, al pari della vendita sottoposta a condizione sospensiva.
La volontà delle parti infatti, ancorché formalmente diretta al conseguimento del bene, è subordinata alla finalità di costituire una garanzia, con la conseguenza che appare ingiustificato sottoporre le diverse fattispecie negoziali a differenti discipline, pur avendo in comune l’identica causa e siano strutturate in modo da produrre gli stessi effetti dato che in ogni caso il trasferimento della proprietà viene nella realtà condizionato all’inadempienza del debitore.
L’identità dei situazioni concrete poste in essere, puntualizzava la detta decisione, rende irrilevante l’immediato trasferimento del bene, avendo le parti il reale intento di costituire una garanzia ed attribuire irrevocabilmente il bene al creditore soltanto in caso di inadempienza del mutuatario.
Tra i negozi di mutuo e di compravendita infatti si stabilisce uno stretto vincolo di interdipendenza che realizza nella sostanza un patto commissorio nullo per legge.
Nel corso degli anni successivi, una serie di sentenze si sono adeguate a tale nuovo indirizzo con motivazioni che sostanzialmente si ispirano alle argomentazioni di iscritte (cfr. , anche per particolari aspetti del problema, Cass. N° 7271 del 1983, 5569 e 5570 del 1984, 3061 del 1985, 3815 e 7260 del 1986, 3784 del 1987, 46 e 3462 del 1988); la sentenza N° 7385 del 1986 invece ha ribadito la tesi tradizionale, principalmente sul duplice rilievo che il testo dell’art. 2744 non permette un’interpretazione tale da superare il senso letterale delle parole usate dalla norma e che il patto di riscatto, data la sua attuale struttura giuridica, non incide sull’effetto reale del contratto di vendita.
Per tale ragione il ricorso ora in esame è stato rimesso al giudizio delle sezioni unite, ad avviso delle quali occorre considerare come premessa, in conformità del costante indirizzo della dottrina e della giurisprudenza, che il divieto del patto commissorio è diretto ad impedire al creditore l’esercizio in una coazione morale sul debitore, spesso spinto alla ricerca di un mutuo da ristrettezze finanziarie, con facoltà di far proprio il bene oggetto di pegno, ipoteca o dato in anticresi, attraverso un meccanismo che gli permetta di sottrarsi alla fondamentale regola della par condicio creditorum.
La parte economicamente più debole, inoltre, può indursi ad accettare un prezzo ben inferiore al giusto, pur di ottenere la somma voluta e trovarsi poi nella impossibilità di riscattare il bene – evento questo non essenziale per realizzare la fattispecie vietata, ma possibile a verificarsi.
E nella vendita in garanzia con patto di riscatto, come tale soggetta a condizione risolutiva, non può negarsi che lo scopo perseguito non è dissimile, in quanto tende come risultato finale ad attribuire la proprietà al creditore nell’ipotesi di mancata restituzione della somma mutuata.
In tale ipotesi ben poco rileva che le parti sottopongano il trasferimento ad una condizione risolutiva, in quanto si realizza pur sempre un onere per il debitore, identico a quello che la legge vuol evitare, allorché detta il divieto del patto commissorio, con la conseguenza che le due situazioni impongono allo stesso modo l’intervento della tutela legislativa in favore del debitore privato della libertà di contrattare.
Un diverso trattamento, è stato giustamente rilevato dalla dottrina, si risolverebbe in un vantaggio non giustificato a favore dei creditori più avveduti, per la possibilità loro offerta di preferire il ricorso alla vendita con patto di riscatto o di retrovendita, esposto al più difficile limitato esperimento dell’azione di rescissione per lesione ex art. 1449, in quanto esercitabile entro il termine di un anno nelle sole ipotesi in cui sussista un danno superiore alla metà del valore del bene trasferito.
La garanzia, si è aggiunto con altrettanto rigore logico, ben lungi dall’essere un motivo della parte, assurge a causa del contratto, in quanto il trasferimento della proprietà trova obiettiva giustificazione nel fine della garanzia, causa peraltro inconciliabile con quella della vendita, posto che il versamento del danaro non costituisce pagamento del prezzo, ma l’esecuzione di un mutuo, mentre il trasferimento del bene non integra l’attribuzione al compratore, bensì l’atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente provvisoria, nonostante le apparenze, in quanto suscettibile di evolversi, a seconda che il debitore adempia o non restituisca la somma ricevuta.
Manca quindi la funzione di scambio tipica della compravendita.
In particolare, la provvisorietà costituisce un elemento rivelatore della causa di garanzia, e quindi della divergenza tra causa tipica del negozio prescelto e determinazione causale delle parti, indirizzata alla elusione di una norma imperativa, qual è l’art. 2744 cod. civ..
In altri termini, le parti, in quanto adottano uno schema negoziale astrattamente lecito per conseguire un risultato vietato dalla legge, pongono in essere una causa illecita che inevitabilmente cade sotto la sanzione dell’art. 1344 cod. civ.
La vendita, in sè lecita e non puramente formale, costituisce un negozio mezzo, perché tende ad eludere il contenuto di una norma ed assume la figura di contratto in frode alla legge, con ogni relativa conseguenza.
Sia che il bene, come esperienza insegna, rimanga a volte in mani del debitore-venditore a titolo di locazione o a titolo precario, sia che il trasferimento sia effettivo, ogni differenza di ipotesi diviene irrilevante qualora si consideri che negozia un mezzo il rapporto allo scopo perseguito.
Il negozio mezzo, pur non mancante di requisiti formali, deve essere necessariamente riguardato in funzione del negozio fine determinato da causa illecita, in quanto permette di raggiungere lo stesso risultato nel negozio vietato, anzi – è stato giustamente sottolineato – viene realizzato proprio il negozio proibito.
In situazioni del genere naturalmente la sproporzione fra il valore del bene dato in garanzia e l’importo del bene assume scarso rilievo, in quanto il divieto prescinde da tale circostanza (cfr. Cass. N° 736 del 1977).
Nè vale obiettare che l’art. 2744 è suscettibile soltanto di interpretazione letterale, qualora si consideri, in conformità di autorevoli opinioni espresse indottrina e dalla stessa giurisprudenza di questa Corte, che la norma è mirata dall’esigenza, comune a molti istituti del nostro ordinamento giuridico, di difendere il debitore da illecite coercizioni del creditore, assicurando nel contempo la garanzia della par condicio creditorum.
È il risultato perseguito che giustifica il divieto di legge, non i mezzi impiegati, con la conseguenza che la nullità non deriva dalla natura di questi, ma costituisce l’effetto imposto dalla legge, dell’impiego fattone, al fine di realizzare il risultato vietato.
Lungi quindi dal potere identificare in astratto una categoria di negozi soggetti alla nullità, perché contrastanti con il divieto del patto commissorio e limitare ad essi l’efficacia di tale divieto, occorre riconoscere che qualsiasi negozio può incorrere nella sanzione di nullità, quale che ne sia il contenuto, nell’ipotesi in cui venga impiegato per conseguire i risultati sopra detti, vietati dall’ordinamento giuridico (in tali termini Cass. N° 282 del 1974 per utili riferimenti anche Cass. N° 1848 del 1967 e N° 1019 del 1970).
Nella specie la Corte di Bologna, avvalendosi dei poteri conferiti dalla legge al giudice del merito, ha accertato con motivazione congrua che la convenzione sottoscritta dalle parti lo stesso giorno del rogito notarile, facendo esplicito riferimento al suo contenuto, ridimensiona il prezzo reale d’acquisto e dà atto della esistenza di un rapporto debitorio nei confronti della Lodigiani, cui viene conferito il diritto di riscattare il bene entro due anni dall’estinzione di debito.
In tal modo gli effetti del trasferimento, apparentemente immediato, vengono condizionati al comportamento del debitore, rivelando il comune intento di vincolare il bene a garanzia ed in funzione del rapporto di mutuo.
Accertamento questo che rende logica la successiva conclusione, con la quale dai fatti emersi si deduce la sussistenza di una reciproca interdipendenza tra mutuo e vendita, concepiti al fine specifico di assicurare al creditore, in funzione di una maggiore garanzia, il consolidamento degli effetti traslativi del bene nella scelta anticipati soltanto via provvisoria, elementi tutti tipici del procedimento indiretto sopra descritto, rientrante nello schema del negozio colpito da nullità.
Va quindi disattesa l’esistenza della pretesa mera facoltà concessa al venditore di restituire il danaro ricevuto e ritenuto corretto il richiamo al concetto di frode alla legge previsto dall’art. 1344 codice civile, per aver le parti scelto un negozio indiretto al fine di eludere l’applicazione di una norma imperativa, rivelatrice dell’illiceità della causa (sic pagg. 9 ed 11 della sentenza).
Il ricorso va pertanto rigettato.
Ricorrono valide ragioni per statuire la compensazione delle spese tra le parti.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma il 17.12.1988 nella camera di consiglio della Corte di Cassazione, a sezioni unite.
Allegati:
SS.UU, 03 aprile 1989, n. 1611, in tema di patto commissorio
Nota dell'Avv.ta Valentina Siciliano
Patto commissorio e vendita con patto di riscatto
1. Il principio di diritto
La vendita con patto di riscatto o di retrovendita, stipulata fra il debitore ed il creditore, la quale risponda all’intento delle parti di costituire una garanzia, con l’attribuzione irrevocabile del bene al creditore solo in caso di inadempienza del debitore, è nulla anche quando implichi un trasferimento effettivo della proprietà (con condizione risolutiva), atteso che, pur non integrando direttamente il patto commissorio, previsto e vietato dall’art. 2744 c.c., configura un mezzo per eludere tale norma imperativa, e, quindi, esprime una causa illecita, che rende applicabile la sanzione dell’art. 1344 c.c..
2. La questione di massima di particolare importanza
La questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite investe il controverso tema della validità della vendita fiduciaria a scopo di garanzia, accompagnata dal patto di riscatto o di retrovendita, oggetto di dispute dottrinali sotto il profilo della assimilabilità al patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c..
Le Sezioni Unite osservano che, a differenza del codice civile del 1865, l’art. 2744 c.c. estende il divieto del patto commissorio a qualunque negozio con il quale le parti intendano realizzare il fine vietato dalla legge, anche al di fuori dell’anticresi o della dazione di pegno o di ipoteca.
Posta tale premessa di carattere generale, il Supremo Collegio richiama l’orientamento giurisprudenziale formatosi a partire dalla sentenza di Cassazione n. 3800/1983, secondo cui la vendita con effetti traslativi immediati, accompagnata da patto di riscatto ovvero sottoposta a condizione risolutiva, stipulata allo scopo di costituire una garanzia reale a favore del creditore, è finalizzata a vincolare il bene a garanzia del mutuo, al pari della vendita sottoposta a condizione sospensiva, poiché la reale volontà delle parti (ancorché formalmente diretta al conseguimento del bene) è volta a costituire una garanzia, tanto che il trasferimento della proprietà viene condizionato all’inadempienza del debitore.
L’identità delle situazioni concrete poste in essere, quindi, rende irrilevante l’immediato trasferimento del bene, avendo le parti il reale intento di costituire una garanzia e di attribuire irrevocabilmente il bene al creditore soltanto in caso di inadempienza del mutuatario.
Tra i negozi di mutuo e di compravendita, infatti, si stabilisce uno stretto vincolo di interdipendenza che realizza, nella sostanza, un patto commissorio nullo per legge.
Ciò posto, le Sezioni Unite chiariscono che il divieto del patto commissorio è diretto ad impedire al creditore l’esercizio di una coazione morale sul debitore, che si risolve nella facoltà di far proprio il bene oggetto di pegno, ipoteca o dato in anticresi attraverso un meccanismo che gli permette di sottrarsi alla regola della par condicio creditorum.
Ora, osserva il Supremo Collegio, “nella vendita in garanzia con patto di riscatto, come tale soggetta a condizione risolutiva, non può negarsi che lo scopo perseguito non è dissimile, in quanto tende come risultato finale ad attribuire la proprietà al creditore nell’ipotesi di mancata restituzione della somma mutuata (…) ben poco rileva che le parti sottopongono il trasferimento ad una condizione risolutiva, in quanto si realizza pur sempre un onore per il debitore, identico a quello che la legge vuol evitare, allorché detta il divieto del patto commissorio, con la conseguenza che le due situazioni impongono allo stesso modo l’intervento della tutela legislativa in favore del debitore privato della libertà di contrattare”.
Un diverso trattamento, precisa la Cassazione, si risolverebbe in un vantaggio ingiustificato a favore dei creditori più avveduti, per la possibilità loro offerta di preferire il ricorso alla vendita con patto di riscatto o di retrovendita (esposto al più difficile e limitato esperimento dell’azione di rescissione per lesione ex art. 1449 c.c.), in quanto il trasferimento della proprietà trova obiettiva giustificazione nel fine della garanzia, “causa peraltro inconciliabile con quella della vendita, posto che il versamento del danaro non costituisce pagamento del prezzo, ma l’esecuzione di un mutuo, mentre il trasferimento del bene non integra l’attribuzione al compratore, bensì l’atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente provvisoria, nonostante le apparenze, in quanto suscettibile di evolversi, a seconda che il debitore adempia o non restituisca la somma ricevuta”.
3. Riflessioni conclusive
Le Sezioni Unite chiariscono che quando le parti adottano uno schema negoziale astrattamente lecito, per conseguire un risultato vietato dalla legge, si realizza una causa illecita, che cade sotto la sanzione dell’art. 1344 c.c..
La vendita, in sé lecita, costituisce un negozio mezzo, perché tende ad eludere il contenuto di una norma ed assume quindi la figura di contratto in frode alla legge.
Il negozio mezzo, pur non mancante di requisiti formali, deve esser necessariamente connotato da causa illecita, in quanto permette di raggiungere lo stesso risultato del negozio vietato.
Neppure vale obiettare, osserva il Supremo Collegio, che l’art. 2744 c.c. è suscettibile soltanto di interpretazione letterale, qualora si consideri che la norma è ispirata dall’esigenza di difendere il debitore da illecite coercizioni del creditore, assicurando nel contempo la garanzia della par condicio creditorum.
Ne consegue che è il risultato perseguito a giustificare il divieto di legge, non i mezzi impiegati, sicché la nullità non deriva dalla natura di questi ultimi, ma costituisce l’effetto dell’impiego che ne viene fatto al fine di realizzare il risultato vietato.
In conclusione, “lungi quindi dal poter identificare in astratto una categoria di negozi soggetti alla nullità, perché contrastanti con il divieto del patto commissorio e limitare ad essi l’efficacia di tale divieto, occorre riconoscere che qualsiasi negozio può incorrere nella sanzione di nullità, quale che ne sia il contenuto, nell’ipotesi in cui venga impiegato per conseguire i risultati sopra detti, vietati dall’ordinamento giuridico”.