Civile Sent. Sez. U Num. 9909 Anno 2018
Presidente: AMOROSO GIOVANNI
Relatore: D’ASCOLA PASQUALE
Data pubblicazione: 20/04/2018
SENTENZA
sul ricorso 428-2015 proposto da:
COMUNE DI FRASSINORO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI 39, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA GIUFFRE’, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati FAUSTA BRIGHENTI e CONCETTA DONATACCI CIRELLI;
– ricorrente –
contro
ACQUEDOTTO DRAGONE IMPIANTI S.R.L. (già ACQUEDOTTO DRAGONE IMPIANTI S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE PARIOLI 180, presso lo studio dell’avvocato MARIO SANINO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NICOLA AICARDI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 185/2013 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE PUBBLICHE, depositata il 19/11/2013.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
23/05/2017 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. TOMMASO BASILE, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli Avvocati Fausta Brighenti, Concetta Donatacci Cirelli e Nicola Aicardi.
Fatti di causa
Si apprende dagli atti di causa che nel 1959 il comune di Frassinoro aveva pattuito con il Consorzio Intercomunale dell’ Acquedotto Dragone che non si sarebbe opposto alla captazione e utilizzo delle acque dalle fonti site nel Comune, in cambio dell’erogazione di sei litri di acqua al secondo, di cui 4 a pagamento e due gratuitamente.
L’accordo era stato attuato pacificamente fino al 30 giugno 2000.
Dal 1 luglio 2000 il Comune aveva affidato l’acquedotto alla Meta spa e la società Acquedotto Dragone Impianti srl (in cui il Consorzio si era trasformato) aveva sospeso l’erogazione gratuita dei due litri d’acqua al secondo e preteso il pagamento di tutta la fornitura, per impossibilità sopravvenuta della prestazione, causata dalla circostanza che il comune non gestiva più direttamente il servizio di acquedotto.
Nel 2009 il Comune ha agito contro la società davanti al TRAP Toscana chiedendo la risoluzione del contratto e la condanna alla restituzione della somma equivalente alla mancata erogazione gratuita dell’acqua (232mila euro circa).
Il Tribunale Regionale ha accolto la domanda con sentenza del 30 settembre 2011.
Il Tribunale Superiore ha capovolto la decisione e con sentenza 19 novembre 2013 ha rigettato tutte le domande proposte dal Comune.
Il comune di Frassinoro ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, resistiti da controricorso di Acquedotto Dragone Impianti srl.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Ragioni della decisione
2) Nella memoria depositata in vista dell’udienza, parte ricorrente ha eccepito l’inammissibilità del controricorso “per vizio riguardante la procura ad litem”. Ha osservato che nel mandato rilasciato da parte ricorrente era stata menzionata una delibera – datata 14 giugno 2012 – con cui era stato conferito “all’organo della società controricorrente lo specifico potere di rappresentarla nel presente giudizio”, procura che avrebbe dovuto essere “prodotta da controparte al momento di costituirsi”.
Il rilievo è infondato, perché si basa su un’errata lettura del mandato rilasciato a margine del ricorso.
La delibera assembleare del giugno 2012 non poteva riferirsi infatti alla impugnazione della sentenza del TSAP, che è stata resa nel 2013, oltre un anno dopo. La lettura più piana del testo fa comprendere che il mandato si riferiva alla delibera con cui l’amministratore Unico e legale rappresentante pro tempore era stato investito della suddetta funzione, subito prima menzionata per indicare la qualità in forza della quale veniva rilasciato il mandato. Detta qualità abilitava a tale atto, in mancanza di specifica contestazione di essa (SU 20596/07).
3) Sempre in via preliminare va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività. Secondo la resistente, il termine lungo per proporre il ricorso per cassazione sarebbe stato di sei mesi – e non di un anno – perché la causa sarebbe iniziata dopo l’entrata in vigore della legge 69/2009 (4 luglio 2009), che ha novellato in tal senso l’art. 327 c.p.c..
Il rilievo è infondato perché, come controdedotto da parte ricorrente, la data di inizio della causa davanti al Tribunale Regionale di Firenze non è quella di deposito del ricorso in cancelleria (14 ottobre 2009), ma quella di notifica del ricorso stesso alla controparte, che è l’8 giugno 2009, come si legge in esordio della sentenza di primo grado.
4) La sentenza qui impugnata ha premesso che l’accordo tra il Comune e la resistente era nato dalla non opposizione del Comune nel procedimento di concessione delle acque pubbliche, concessione che doveva essere rilasciata da altro soggetto, e dall’interesse dell’ente ad assicurarsi la fornitura di acqua per la somministrazione del servizio. Ha affermato (pag. 16) che presupposto dell’obbligazione di fornitura di acqua da parte della società convenuta fosse l’utilizzo dell’acqua da parte del Comune per erogare il servizio di acquedotto alla propria collettività.
Ha ritenuto che, come dedotto dalla società, l’intervenuta riorganizzazione del servizio con affidamento della gestione dell’acquedotto alla società pluricomunale META spa di Modena, implicando la perdita del ruolo di gestore, aveva determinato l’esaurimento dell’impegno e un’oggettiva impossibilità di effettuare la prestazione gratuita.
Il comune avrebbe perso sia il ruolo di gestore sia la disponibilità degli impianti funzionali; inoltre esso non avrebbe neppure spiegato dove e come l’acqua avrebbe potuto essere consegnata.
Il TSAP ha affermato che l’esecuzione dell’obbligazione assunta con l’accordo sarebbe possibile solo in favore di un “soggetto che sia gestore di un acquedotto”; che negli accordi con Meta non v’è traccia delle pattuizioni del 1959 e neppure la si ritrova, tra il 2000 e il 2007, nelle pattuizioni tra Consorzio e Meta.
Ha aggiunto che il Comune non avrebbe subìto perdita economica perché, non essendo più gestore, non avrebbe potuto più vendere ai cittadini l’acqua fornitagli gratuitamente dalla società.
Né rileverebbe l’originaria pattuizione, in forza della quale il Comune aveva dato il proprio assenso alla captazione, in quanto all’epoca il Comune si sarebbe soltanto non opposto alla captazione senza assumere la veste di concedente, cosicchè non vi sarebbe violazione del sinallagma su cui si basava la obbligazione della spa Dragone, in quanto non sarebbe il “consenso” del Comune la fonte del diritto della società di “prelevare le acque”.
5) Il primo motivo di ricorso del comune di Frassinoro lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c.. Espone che, in contrasto con criterio ermeneutico dell’interpretazione letterale del
contratto, la sentenza impugnata ha ritenuto che «presupposto indefettibile per il prodursi e il permanere degli effetti» della convenzione del 1959 fosse la «gestione diretta da parte del comune di Frassinoro del proprio servizio di acquedotto». Ha rilevato come tale previsione contrattuale non era in alcun modo contemplata nel testo della delibera 5/1959 di Acquedotto Dragone, riportata in ricorso, con la quale era stato stabilito di stipulare con l’ente locale un accordo “inteso a consentire l’utilizzazione delle acque sorgive»; né, aggiunge il ricorso, se ne trova traccia nella delibera del Comune n.68/1959, pure riportata, delibera che aveva riscontrato quella (n.5/1959) dell’Assemblea del Consorzio.
La censura è fondata.
La sentenza impugnata (pag. 15) e ancor più chiaramente lo stesso controricorso (pag. 11) danno atto della circostanza che finalità alla base dell’accordo era che il Comune si assicurasse una fornitura d’acqua sufficiente a soddisfare i bisogni di acqua potabile della “collettività comunale”.
Sviluppo imprevisto di questa considerazione è stato, in sentenza, l’affermazione che il servizio di acquedotto per acqua potabile ai cittadini debba essere gestito direttamente dal Comune. In tal modo è stata introdotta interpretativamente nel contratto, contro il canone letterale, la presupposizione che il Comune dovesse assumere e mantenere indispensabilmente in modo diretto il «ruolo di gestore del servizio» (sentenza pag. 17 e 18) ed che fosse illegittimo il conferimento in uso alla società Meta spa (adesso Hera), mediante concessione degli impianti utilizzati, della gestione del servizio acquedottistico.
Una siffatta costrittiva condizione non risulta però contrattualmente pattuita, cosicchè introdurla sotto le spoglie della presupposizione contrasta con i canoni ermeneutici e anche, ineludibilmente, con le premesse che la sentenza stessa aveva posto.
E’ noto che si rinviene la presupposizione allorquando (cfr la sintesi che svolge in motivazione Cass.12235/07) «una determinata situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso – pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali – come presupposto condizionante il negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), richiedendosi pertanto a tal fine: 1) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti; 2) che l’evento supposto sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti (e in ciò la presupposizione differisce dalla condizione); 3) che si tratti di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione (Cass. 31.10.1989, n. 4554; tra le più recenti, Cass. 21.11.2001 n. 14629).
Sicché la “presupposizione è … configurabile quando dal contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo soltanto subordinatamente all’esistenza di una data situazione di fatto che assurga a presupposto comune e determinante della volontà negoziale, la mancanza del quale comporta la caducazione del contratto stesso, ancorché a tale situazione, comune ad entrambi i contraenti, non si sia fatto espresso riferimento” (Cass. 9.11.1994, n. 9304)».
Si ha insomma presupposizione , per tornare a una lontana massima (Cass n. 1064 del 1985), quando una determinata situazione di fatto comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere obiettivo, essendo il suo verificarsi indipendente dalla loro volontà e attività, sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto comune in modo da assurgere a fondamento – pur in mancanza di un espresso riferimento – dell’esistenza ed efficacia del contratto.
Se tale è la nozione, alla luce delle pattuizioni cui le parti hanno dato vita sembra chiaro che non la gestione diretta del servizio acquedottistico da parte del Comune fosse il presupposto indefettibile dell’intesa, ma, per quanto si legge in sentenza e nelle deduzioni delle parti, la destinazione dell’acqua fornita dal Consorzio (ora spa resistente) ai bisogni della collettività residente nel Comune.
E’ dunque fondata la doglianza dell’ente locale.
6) La fondatezza del primo motivo comporta l’accoglimento anche degli altri motivi del ricorso.
Il secondo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1256 e 1463.
Il terzo denuncia violazione di questi articoli del codice civile e degli articoli 1218 e 2697 c.c.
Le censure hanno di mira la conseguenza che la sentenza impugnata ha tratto dall’aver considerato la gestione diretta degli impianti alla stregua di fondamento contrattuale: l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore.
Ora, tralasciando, poiché non è richiesto dal ricorso in esame, l’approfondimento giurisprudenziale circa il rimedio al venir meno del presupposto, rimedio talora individuato nel recesso, altre volte nella risoluzione generica o per impossibilità della prestazione (come ritenuto dal TSAP) o per fatto non imputabile alle parti, etc, va detto che il ricorso è fondato laddove evidenzia che in, mancanza della presupposizione censurata, non v’è luogo per dichiarare la risoluzione del contratto. La sentenza impugnata ha infatti tratto partito per l’applicazione dell’art. 1256 da un presupposto non contemplato in contratto e non desumibile secondo i canoni ermeneutici ordinari.
Ne consegue che la norma è stata applicata senza specifico fondamento.
Ed errato è, per conseguenza, il rimprovero all’ente locale di non aver provato in che modo l’Acquedotto Dragone avrebbe potuto continuare ad adempiere l’obbligazione di consegnare l’acqua. Questo onere probatorio sarebbe stato addebitabile al convenuto in presenza di un’omessa richiesta fornitura da parte del concessionario del Comune o di un rifiuto del concessionario Meta di ricevere l’acqua, o di una comprovata omessa destinazione della fornitura ai bisogni della collettività comunale (indiscussa finalità dell’intesa), ma non ha immancabile nesso con l’esercizio diretto degli impianti acquedottistici da parte del Comune.
Non a caso il motivo si conclude invocando il principio di buona fede quale presidio dell’esecuzione del contratto e lamenta in proposito che parte resistente abbia nelle more continuato a captare l’acqua e ad addurla; trattasi di rilievo che permea inevitabilmente tutta la controversia, in quanto la stessa nozione di presupposizione è innervata da esso, ditalchè la fallacia della sua applicazione, da riconsiderare anche in vista di questo principio, provoca la caducazione della costruzione giuridica che ne è scaturita in sentenza.
Il giudice di rinvio in sede di riesame dovrà quindi verificare quale sia la sorte del rapporto, in relazione alle domande delle parti, alla luce di una corretta interpretazione dell’intesa e di quanto eventualmente in essa presupposto e del configurarsi del rapporto in seguito alla concessione alla Nera della gestione degli impianti.
Discende da quanto esposto l’accoglimento del ricorso.
La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa al Tribunale Superiore delle Acque, in diversa composizione, per il riesame dell’impugnazione alla luce dei principi affermati in ordine all’interpretazione del l’accordo negoziale, nonché per la liquidazione delle spese di questo giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale Superiore delle Acque, in diversa composizione, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite civili tenuta il 23 maggio 2017
Allegati:
SS.UU, 20 aprile 2018, n. 9909, in tema di presupposizione
Nota della Dott.ssa Beatrice Amodeo
La presupposizione come condizione di efficacia ed esistenza del contratto
1. Il principio di diritto
La presupposizione si ha allorquando una determinata situazione di fatto o di diritto, comune ad entrambi i contraenti, certa nella rappresentazione delle parti ed avente carattere obiettivo, sia un presupposto condizionante il negozio assunto dalle parti, pur anche in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali.
Il venir meno della situazione di fatto comune e determinante la volontà negoziale comporta la caducazione del contratto stesso.
2. La questione di massima di particolare importanza
L’Ente Comunale ricorrente ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., per aver, in tesi, il giudice di merito introdotto nel contratto di concessione del servizio di acquedotto una situazione di fatto, quale presupposto condizionante il negozio, e ciò contro il canone ermeneutico di interpretazione letterale.
La Suprema Corte ricorda che, come noto (cfr., Cass., 12235/07), una situazione di fatto o di diritto assurge a presupposto condizionante la formazione della volontà negoziale delle parti qualora:
1) sia comune a tutti i contraenti;
2) sia assunta come certa nella rappresentazione delle parti;
3) il suo verificarsi sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti.
Secondo le parole di una lontana massima (cfr., Cass. n. 1064 del 1985), si ha insomma presupposizione quando una determinata situazione di fatto comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere obiettivo, essendo il suo verificarsi indipendente dalla loro volontà e attività, sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto comune in modo da assurgere a fondamento – pur in mancanza di un espresso riferimento – dell’esistenza ed efficacia del contratto.
3. Conseguenze operative
La fallace applicazione di una presupposizione comporta la caducazione della ricostruzione giuridica del contratto, dal che occorre verificare quale sia la configurazione e la sorte del rapporto, in relazione alle domande delle parti, alla luce di una corretta interpretazione dell'intesa e di quanto eventualmente in essa presupposto.