Civile Sent. Sez. U Num. 19030 Anno 2021
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: CRISCUOLO MAURO
Data pubblicazione: 06/07/2021
SENTENZA
sul ricorso 3555-2021 proposto da:
SQUICCIARINI VITO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MUZIO CLEMENTI,9, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE RAGUSO, rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO DI CIAULA giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO ORDINE AVVOCATI TRANI, PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimati –
avverso la sentenza n. 12/2021 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE di ROMA, depositata il 25/01/2021;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/06/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, nella persona dell’Avvocato Generale Dott. FRANCESCO SALZANO, il quale chiede il rigetto del ricorso;
Lette le memorie del ricorrente;
FATTI DI CAUSA
1. Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza n. 12 del 2021, confermò il provvedimento del Consiglio Distrettuale di Disciplina di Bari che aveva irrogato all’avv. Vito Squicciarini la sanzione disciplinare della radiazione, ritenendolo responsabile dei capi di incolpazione riportati da pag. 2 a pag. 10 per la commissione di numerosi reati (associazione a delinquere, corruzione in atti giudiziari, abuso d’ufficio e falsità ideologica) posti in essere dal ricorrente nella qualità di coordinatore dell’ufficio del Giudice di Pace di Modugno, in concorso con altri soggetti a vario titolo collusi e/o favoriti, con il coinvolgimento altresì di numerosi altri magistrati onorari del Distretto di Bari, in tal modo asservendo la funzione giudiziaria ad interessi privati, gestendo in tal modo le procedure giudiziarie di loro interesse in maniera interessata ed in violazione dei principi di imparzialità ed indipendenza.
Il CNF disattendeva prioritariamente la richiesta di sospensione del procedimento disciplinare avanzata dal ricorrente, il quale al contempo eccepiva anche l’estinzione del giudizio per tardiva riassunzione, a seguito dell’iniziale delibera di sospensione del procedimento disciplinare adottata dal COA di Trani.
Infatti, l’art. 54 della legge n. 247/2012, innovando rispetto alla disciplina previgente, ha previsto che la sospensione per pregiudizialità penale abbia carattere meramente facoltativo, e solo se risulti necessario acquisire atti e notizia del processo penale.
Nella vicenda, il CDD aveva escluso la necessità di ulteriori acquisizioni, posto che agli atti vi era la sentenza del Tribunale di Lecce n. 2121/2018, che aveva deciso in primo grado il processo penale cui era sottoposto per gli stessi fatto lo Squicciarini, sentenza che riportava tutte le intercettazioni telefoniche intercorse tra l’incolpato ed i suoi vari concorrenti nei reati ascritti.
Correttamente, secondo la sentenza impugnata, era stata disattesa l’eccezione di pregiudizialità penale e quindi andava respinta anche la richiesta del ricorrente di sospendere il giudizio dinanzi al CNF.
Nell’esaminare l’eccezione di prescrizione, la sentenza osservava che andava applicato il principio per cui il termine di prescrizione era quello dettato dalla normativa vigente all’epoca dei fatti, non potendo operare retroattivamente la novella del 2012.
La disciplina previgente dispone altresì che il dies a quo della prescrizione dell’illecito disciplinare decorra solo dal momento del passaggio in giudicato della sentenza penale, attesa la sospensione necessaria del procedimento disciplinare per effetto della contestuale pendenza del processo penale.
Tale assunto evidenziava quindi che non era maturata la prescrizione, posto che i fatti contestati risalivano al 2007- 2008, che il procedimento disciplinare era stato aperto il 25 ottobre 2012, con contestuale adozione del provvedimento di sospensione, e che quindi a tale data non poteva essere maturata alcuna prescrizione, in quanto la stessa necessitava per decorrere della definizione del processo penale.
Né poteva ritenersi maturata allorquando era entrato in vigore il regolamento del CNF che ha dato attuazione ai Consigli Distrettuali di Disciplina (reg. n. 2/2014).
Il CDD di Bari non era però più vincolato dalle regole della pregiudizialità penale ed aveva riattivato il procedimento disciplinare, senza che fosse quindi maturata alcuna prescrizione.
Né poteva avere seguito l’eccezione di tardività della riassunzione del procedimento, in quanto ove quest’ultimo sia stato sospeso, il termine di cui all’art. 297 c.p.c. per la riassunzione decorre in ogni caso solo dall’avvenuta conoscenza da parte dell’organo disciplinare della definitiva conclusione del processo penale.
Poiché la riassunzione era intervenuta allorché il processo penale era ancora in corso, nessuna decadenza poteva essere sancita.
Passando al merito dell’impugnazione, la sentenza gravata riteneva che avessero valenza probatoria privilegiata le intercettazioni telefoniche di cui si dava atto nella sentenza penale di primo grado, sebbene non avente ancora efficacia vincolante di giudicato.
Sussistevano plurimi elementi di prova che confortavano il grave quadro indiziario che aveva attinto lo Squicciarini e che ne avevano determinato, sempre in primo grado, una condanna a sei anni di reclusione.
Doveva condividersi il giudizio del CDD che ha evidenziato il contesto poco edificante nel quale si muoveva l’incolpato che consentiva di ritenere provata la sua responsabilità anche in sede disciplinare.
Ricorrevano quindi le violazioni deontologiche di cui agli artt. 4 co. 2, 9 co. 2 e 63 co. 1 del Codice deontologico, ritenendosi congrua e commisurata alla gravità dei fatti la sanzione della radiazione.
Si trattava di episodi di assoluta gravità e la complessiva valutazione dei fatti rendeva evidente la congruità della sanzione detta, posto che gli elementi a favore del ricorrente non potevano incidere su tale giudizio, atteso che la collaborazione era emersa in epoca successiva ai fatti in contestazione e non poteva avere rilievo l’assenza di un utile economico, stante l’enorme discredito gettato dai fatti sulla classe forense, con grave pregiudizio alla funzione giurisdizionale, che prescinde dalla concorrente esistenza di uno strepitus fori.
2. Avverso la sentenza veniva proposto ricorso per cassazione dall’avvocato sulla base di sette motivi, illustrati con memorie.
3. Il ricorrente formulava istanza di sospensione dell’esecutività della decisione del Consiglio Nazionale Forense ai sensi dell’art. 36 comma VII. 247/2012.
4. L’intimato Consiglio dell’ordine territoriale non ha compiuto attività difensiva in questa sede.
5. Il ricorso è stato quindi esaminato in camera di consiglio senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, secondo la disciplina dettata dall’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 51 del R.D.L n. 1578/1933, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione riguardo ad un punto decisivo della controversia.
Si deduce che la sentenza impugnata ha respinto l’eccezione di prescrizione sollevata dal ricorrente senza considerare che gli effetti della pregiudizialità penale sono venuti a cessare con l’entrata in vigore della legge n. 247/2012, e cioè a far data dal 2 febbraio 2013, non potendosi invece invocare la diversa data di operatività del regolamento di attuazione del CNF n. 2/2014. Ne deriva che essendo la legge citata entrata in vigore il 2/2/2013, alla data della decisione del CDD (11/12/2018) era abbondantemente maturato il termine quinquennale di prescrizione che non può reputarsi interrotto con l’atto di incolpazione del 30 gennaio 2017 (che peraltro ha ad oggetto violazioni di articoli del codice deontologico vigente diverse da quelle originariamente addebitate).
Il motivo è inammissibile, quanto alla denuncia del vizio di motivazione, ancora formulata sulla base della lettera non applicabile ratione temporis dell’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., mentre è infondato, quanto alla denuncia di violazione di legge. La giurisprudenza di questa Corte ha affermato che (Cass. S.U. n. 23746/2020) le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicché, con riferimento al regime giuridico della prescrizione, non è applicabile lo “jus superveniens”, ove più favorevole all’incolpato. Ne consegue che il punto di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione dell’azione disciplinare è e resta la commissione del fatto o la cessazione della sua permanenza ed è a quel momento, quindi, che si deve avere riguardo per stabilire la legge applicabile (Cass. S.U. n. 1609/2020; Cass. S.U. n. 9558/2018).
Nella fattispecie i fatti addebitati al ricorrente risultano pacificamente commessi in epoca anteriore alla data di entrata in vigore della legge n. 247 del 2012, e sono sottoposti quindi al previgente regime normativo secondo cui (cfr. Cass. S.U. n. 28386/2020), nel caso di procedimento disciplinare per fatti costituenti anche reato, il principio secondo il quale la prescrizione dell’azione disciplinare di cui all’art. 51 del r.d.l. n. 1578 del 1933 decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale può trovare applicazione nel solo caso in cui il termine di prescrizione non sia già maturato al momento dell’esercizio dell’azione penale o in quello, anteriore, della formulazione di una imputazione per il medesimo fatto, non potendo invece trovare applicazione ove il termine prescrizionale dell’illecito disciplinare sia interamente decorso al momento dell’esercizio dell’azione penale (Cass. S.U. n. 22516/2016).
Nel caso in esame, come si ricava dalla stessa narrazione dei fatti contenuta in ricorso, il COA di Trani con delibera n. 1566 del 21/2/2008 decise di aprire il procedimento disciplinare per i fatti emersi in sede penale, ed in data 25/10/2012 lo stesso COA dispose, in pendenza del procedimento penale, la sospensione del procedimento disciplinare, salvo poi procedere alla sua riassunzione il 3 gennaio 2017.
Emerge che alla data dell’apertura del procedimento (che peraltro funge da atto interruttivo della prescrizione con effetti istantanei, così ex multis Cass. S.U. n. 21591/2013) la prescrizione quinquennale non era maturata, e che l’applicazione della regola previgente della decorrenza del termine solo a far data dal passaggio in giudicato della sentenza penale comporta che, in mancanza della stessa allegazione della definizione di tale processo, il termine non sia ancora iniziato a decorrere (conf. Cass. S.U. n. 1609/2020), manifestandosi quindi l’infondatezza della censura.
Peraltro, ove anche volesse accedersi alla tesi sostenuta nel motivo, secondo cui, e ciò in contrasto con quanto invece sostenuto nel secondo motivo, una volta entrata in vigore la legge n. 247/2012, sarebbe venuta meno la necessaria pregiudizialità tra procedimento disciplinare e procedimento penale aventi ad oggetto i medesimi fatti, correttamente la decisione di primo grado ha fatto riferimento alla previsione di cui all’art. 65 della legge del 2012, che espressamente dispone che fino alla data di entrata in vigore dei regolamenti previsti nella stessa legge, si applicano, se necessario e in quanto compatibili, le disposizioni vigenti non abrogate, anche se non richiamate.
Ne deriva che occorrerebbe, anche nella prospettiva interpretativa suggerita dal ricorrente, avere riguardo non già alla data di entrata in vigore della legge, ma alla diversa data di entrata in vigore del regolamento che ha dato attuazione al novellato procedimento disciplinare, e cioè al regolamento n. 2/2014, potendo solo da tale data, in ipotesi, riprendere a decorrere il termine di prescrizione.
Ciò implica evidentemente che la prescrizione non risultava maturata nemmeno alla data della decisione del CDD impugnata dinanzi al CNF.
2. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 54 della legge n. 247/2012 in relazione all’art. 65 della stessa legge, nonché all’art. 653 c.p.p. e 295 c.p.c., con omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.
Si sottopone a critica la motivazione del CNF nella parte in cui ha ritenuto che, una volta divenuta efficace la normativa di cui alla legge n. 247/2012, con l’entrata in vigore del regolamento del CNF n. 2/2014, non sarebbe stata più operativa la necessaria sospensione del procedimento disciplinare sino alla definizione di quello penale, essendo quindi legittima la riattivazione del primo, anche prima del passaggio in giudicato della pronuncia del giudice penale.
Il ricorrente ricorda che il procedimento disciplinare era stato sospeso dal COA con delibera del 25/10/2012, e pertanto la stessa poteva venire meno solo con il passaggio in giudicato della sentenza penale.
Poiché alla vicenda, ex art. 65 della legge n. 247/2012, debbono trovare applicazione le norme previgenti, il CNF avrebbe dovuto, in caso di identità dei fatti contestati in sede penale e disciplinare, confermare la già disposta sospensione del giudizio disciplinare.
Va anche per tale motivo rilevata l’inammissibilità della denuncia del vizio di motivazione sulla base della vecchia formulazione dell’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.
Quanto alla denuncia di violazione di legge, effettivamente a seguito della novella della legge n. 247/2012 è stato sancito all’art. 54 il principio della tendenziale autonomia tra i due procedimenti, facendo salva solo una limitata facoltà di sospensione, e peraltro a tempo determinato, ma ben diversa era la soluzione accolta in precedenza.
Infatti, un primo orientamento (cfr. ex multis Cass. S.U. n. 14629/2003) aveva affermato che, in materia di sospensione del procedimento amministrativo disciplinare degli avvocati e di prescrizione dell’azione disciplinare, non fosse prevista la sospensione necessaria del procedimento, in attesa della definizione del processo penale promosso per gli stessi fatti nei confronti del professionista, atteso che, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, la sospensione è necessaria soltanto quando la previa definizione dell’altra controversia (quella penale) sia imposta da un’espressa previsione di legge ovvero quando la sua decisione, per il carattere pregiudiziale, costituisca l’indispensabile presupposto logico – giuridico dal quale dipende la decisione della causa pregiudicata ed il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato: ipotesi entrambe escluse nel caso di specie. Successivamente questa Corte ha però mutato opinione a partire da Cass. S.U. n. 4893/2006, che ha ritenuto che per effetto della modifica dell’art. 653 cod. proc.pen. operata dall’art.1 della legge n.97 del 2001 (norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), applicabile in virtù della norma transitoria di cui all’art. 10 ai procedimenti in corso all’entrata in vigore della citata legge, l’efficacia di giudicato – nel giudizio disciplinare – della sentenza penale di assoluzione non è più limitata a quella dibattimentale ed è stata estesa, oltre alle ipotesi di assoluzione perché “il fatto non sussiste” e “l’imputato non l’ha commesso”, a quella del “fatto non costituisce reato”. Ne consegue che, qualora l’addebito disciplinare abbia ad oggetto i medesimi fatti contestati in sede penale, si impone, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza di quello penale, atteso che dalla definizione di quest’ultimo può dipendere la decisione del procedimento disciplinare (conf. ex multis Cass. S.U. n. 2223/2010; Cass. S.U. n. 17441/2008).
Ritiene però la Corte che, ferma restando, per quanto detto in occasione della disamina del primo motivo, l’applicazione della disciplina sostanziale della prescrizione avuto riguardo a quella vigente alla data di commissione dei fatti contestati, trovi invece immediata applicazione l’art. 54 della legge n. 247/2012, che non impone quindi più la sospensione necessaria del procedimento disciplinare in attesa della definizione del processo penale concernente i medesimi fatti (in tal senso si veda Cass. S.U. n. 7336/2021, secondo cui, in tema di procedimento disciplinare nei confronti di avvocati, l’art. 54 I. n. 247 del 2012, applicabile dal 10 gennaio 2015, disciplina in termini di reciproca autonomia i rapporti tra tale procedimento e quello penale avente ad oggetto gli stessi fatti, dovendo pertanto escludersi la sospensione necessaria del primo giudizio in attesa della definizione del secondo, anche se, in via di eccezione, può essere disposta una sospensione facoltativa, limitata nel tempo, qualora il giudice disciplinare ritenga indispensabile acquisire elementi di prova apprendibili esclusivamente dal processo penale).
L’immediata applicazione della norma de qua anche al procedimento disciplinare oggetto di causa implica quindi la correttezza della scelta di riattivare il procedimento stesso, ancor prima del passaggio in giudicato della sentenza penale, senza che tale immediata riattivazione determini alcuna conseguenza sulla validità della decisione adottata.
3. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 297 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.
Si deduce che la sentenza impugnata ha nella sostanza riconosciuto la tardività della riassunzione ex art. 297 c.p.c., una volta venuta meno la necessaria pregiudizialità con l’entrata in vigore della legge n. 247/2012, ma ha negato le conseguenze della stessa, assumendo che la sospensione comunque permarrebbe sino alla definizione del processo penale, con una manifesta illogicità nell’applicazione della norma.
La conclusione raggiunta in occasione della disamina del secondo motivo di ricorso, per cui, per effetto della novella del 2012, non è più necessario, anche per i procedimenti disciplinari concernenti fatti commessi in data anteriore, attendere l’irrevocabilità della sentenza penale relativa ai medesimi fatti, implica poi che il motivo in esame si palesi infondato, in quanto per la decorrenza del termine perentorio di cui all’art. 297 c.p.c., una volta che sia stata inizialmente disposta la sospensione, si presuppone che la causa pregiudiziale sia stata definita con sentenza passata in cosa giudicata, sicché gli effetti del mancato rispetto di tale termine non possono essere invocati nel diverso caso in cui, come nella specie, il procedimento sia stato riattivato ancor prima della definizione del processo in sede penale, come appunto consentito dalla normativa sopravvenuta.
Va peraltro ricordato che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 16169/2011), ancorché la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza del procedimento penale, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., si esaurisca con il passaggio in giudicato della sentenza che definisce detto procedimento penale, tuttavia la ripresa del procedimento disciplinare innanzi al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati non è soggetto a termine di decadenza (conf. Cass. S.U. n. 11309/2014; Cass. S.U. n. 21826/2015; Cass. S.U. n. 15206/2016)
4. Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 11, 178, 268, 270 c.p.p. e 6 CEDU nonché omessa, insufficiente e contradditoria motivazione riguardo un punto decisivo della controversia.
La sentenza gravata ha ravvisato la responsabilità del ricorrente, avvalendosi per la formazione del proprio convincimento delle intercettazioni telefoniche acquisite al processo penale, sul presupposto che fossero state implicitamente riconosciute quanto alla veridicità del loro contenuto.
Trattasi di affermazioni erronee, in quanto non si comprende a quali conversazioni si sia fatto riferimento e non tengono conto del fatto che in sede penale ne è stata contestata l’utilizzabilità, attesa l’assenza di connessione fra il procedimento in cui furono autorizzate e quello nel quale sono state utilizzate.
Il motivo è inammissibile quanto alla denuncia del vizio di motivazione secondo la formulazione della norma non più applicabile, nonché nella parte in cui tende genericamente a contestare l’apprezzamento delle risultanze probatorie come operato dal giudice di merito, senza avvedersi che il riferimento al carattere goliardico o canzonatorio delle conversazioni, come sostenuto dal ricorrente, è stato valorizzato dal giudice di merito per trarre il convincimento che non si contestasse che tali dichiarazioni fossero state rese, ma che se ne volesse solo sminuire la portata incriminatrice.
Quanto, invece alla violazione delle norme del processo penale, in disparte l’evidente difetto di specificità del motivo, nella parte in cui apoditticamente si assume che le intercettazioni sarebbero state disposte in un procedimento diverso da quello che invece è stato definito in primo grado dal Tribunale di Lecce (senza però in alcun modo dettagliare tale affermazione), occorre ricordare che secondo questa Corte (Cass. S.U. n. 741/2020) le intercettazioni effettuate in un procedimento penale sono pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati, purché, come nella specie, siano state legittimamente disposte ed acquisite, e ciò in quanto l’utilizzazione delle intercettazioni in sede disciplinare non soffre i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p. che disciplina l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altri procedimenti penali, norma riferibile solo al procedimento deputato all’accertamento delle responsabilità penali dell’imputato o dell’indagato, nel quale si giustificano limitazioni più stringenti in ordine all’acquisizione della prova, in deroga al principio fondamentale della ricerca della verità materia! (conf. Cass. S.U. n. 14552/2017).
Tali principi, che nella loro portata appaiono sicuramente estensibili anche al procedimento disciplinare degli avvocati, sono stati ribaditi da ultimo da Cass. S.U. n. 9390/2021, che ha confermato l’inapplicabilità, nel procedimento disciplinare, dell’art. 270 c.p.p., riguardante i limiti di utilizzazione, nell’ambito del processo penale, dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali queste ultime sono state disposte, posto che il divieto sussiste solo per i risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni non legalmente disposte, per mancanza o illegalità dell’autorizzazione, o non legalmente effettuate nel procedimento penale “a quo”.
5. Il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 65 della legge n. 247/2012, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione riguardo ad un punto decisivo della controversia.
Si denuncia che la radiazione è stata disposta per la violazione degli artt. 4 co. 2, 9 e 63 del codice deontologico vigente, mentre l’originario atto di incolpazione faceva richiamo agli artt. 5, 6 e 53 del codice previgente.
La pena andava quindi correlata alle originarie contestazioni, e ciò alla luce della regola del favor rei posta dall’art. 65 della legge n. 247/2012.
Si imponeva quindi un raffronto tra le norme attuali e quelle precedenti al fine di verificare quali fossero quelle più favorevoli.
Il motivo è infondato.
Infatti, ribadita l’inammissibilità della denuncia del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 co. 1 c.p.c., si rileva che nella fattispecie non si è proceduto alla contestazione di fatti diversi da quelli per i quali inizialmente era stato aperto il procedimento disciplinare, avendo la sentenza semplicemente ricondotto i fatti alle norme deontologiche vigenti, non senza rilevare una sostanziale continuità con quanto previsto anche nel precedente codice.
Il previgente codice deontologico, nel testo approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 17 aprile 1997 aggiornato con le modifiche introdotte il 16/10/1999, il 26/10/2002, il 27/01/2006, il 18/01/2007 ed il 12/06/2008, all’art. 5 così recitava:
Doveri di probità, dignità e decoro. L’avvocato deve ispirare la propria condotta all’osservanza dei doveri di probità, dignità e decoro.
I – Deve essere sottoposto a procedimento disciplinare l’avvocato cui sia imputabile un comportamento non colposo che abbia violato la legge penale, salva ogni autonoma valutazione sul fatto commesso.
Il – L’avvocato è soggetto a procedimento disciplinare per fatti anche non riguardanti l’attività forense quando si riflettano sulla sua reputazione professionale o compromettano l’immagine della classe forense.
III – L’avvocato che sia indagato o imputato in un procedimento penale non può assumere o mantenere la difesa di altra parte nello stesso procedimento.
Il successivo articolo 6 poi prevedeva che:
Doveri di lealtà e correttezza. L’avvocato deve svolgere la propria attività professionale con lealtà e correttezza. I –
L’avvocato non deve proporre azioni o assumere iniziative in giudizio con mala fede o colpa grave.
Infine, l’art. 53 statuiva che:
Rapporti con i magistrati.
I rapporti con i magistrati devono essere improntati alla dignità e al rispetto quali si convengono alle reciproche funzioni.
I – Salvo casi particolari, l’avvocato non può discutere del giudizio civile in corso con il giudice incaricato del processo senza la presenza del legale avversario.
Il – L’avvocato chiamato a svolgere funzioni di magistrato onorario deve rispettare tutti gli obblighi inerenti a tali funzioni e le norme sulla incompatibilità.
III – L’avvocato non deve approfittare di eventuali rapporti di amicizia, di familiarità o di confidenza con i magistrati per ottenere favori e preferenze. In ogni caso deve evitare di sottolineare la natura di tali rapporti nell’esercizio del suo ministero, nei confronti o alla presenza di terze persone.
Il codice deontologico forense approvato dal Consiglio nazionale forense nella seduta del 31 gennaio 2014 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 241 del 16 ottobre 2014, sulle base delle cui previsioni è stata applicata poi la sanzione disciplinare, all’art. 4 dispone che:
Volontarietà dell’azione
1. La responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e delle regole di condotta dettati dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle azioni od omissioni.
2. L’avvocato, cui sia imputabile un comportamento non colposo che abbia violato la legge penale, è sottoposto a procedimento disciplinare, salva in questa sede ogni autonoma valutazione sul fatto commesso.
Il successivo articolo 9 prevede:
Doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza
1. L’avvocato deve esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza.
2. L’avvocato, anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, pagina 5 di 34 dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense.
Ed, infine, l’art. 63 recita che:
Rapporti con i terzi
1. L’avvocato, anche al di fuori dell’esercizio del suo ministero, deve comportarsi, nei rapporti interpersonali, in modo tale da non compromettere la dignità della professione e l’affidamento dei terzi.
2. L’avvocato deve tenere un comportamento corretto e rispettoso nei confronti dei propri dipendenti, del personale giudiziario e di tutte le persone con le quali venga in contatto nell’esercizio della professione.
3. La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento.
Il raffronto tra le richiamate previsioni permette di riscontrare una evidente e sostanziale continuità tra le stesse, sicché i fatti storici, così come accertati in sede disciplinare (sebbene alla luce degli accertamenti anche operati in sede penale) ed oggetto di contestazione appaiono agevolmente sussumibili nelle nome di entrambi i codici, senza che possa ravvisarsi alcuna sostanziale immutazione dei fatti oggetto della contestazione disciplinare.
Né risulta configurata la violazione del principio del favor rei, quale dettato dal richiamato art. 65 della legge n. 247/2012, posto che, una volta ritenuto che le condotte poste in essere dal ricorrente concretano delle violazioni molto gravi, tali cioè da rendere incompatibile la permanenza dell’iscrizione all’albo, vi è sostanziale corrispondenza tra i criteri dettati dall’art. 53 della legge n. 247/2012 (che prevedono, al comma 4, secondo capoverso che la radiazione debba essere inflitta per violazioni molto gravi che rendono incompatibile la permanenza dell’incolpato nell’albo) con quelli dettati dall’art. 41 del R.D. n. 1578/1933, secondo cui, alla lett. a), la radiazione è pronunciata contro l’avvocato o il procuratore che abbia comunque, con la sua condotta, compromesso la propria reputazione e la dignità della classe forense.
6. Il sesto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 21 del codice deontologico, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in quanto, in disparte il riferimento all’assenza di pregiudizio per il cliente (frutto evidentemente di un refuso nella decisione gravata), non si è tenuto conto dell’assenza di precedenti disciplinari del ricorrente, nonché dell’assenza di vantaggi economici quali conseguenza dei fatti contestati, sicché non è dato comprendere come sia stata determinata la sanzione.
Il motivo è inammissibile sia per l’irrituale denuncia del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 co. 1 c.p.c., sia perché, avendo il giudice disciplinare sottolineato come la determinazione della sanzione era frutto di una complessiva valutazione dei fatti rilevanti in sede disciplinare, della loro obiettiva gravità ed idoneità a ledere il prestigio della categoria, ha specificato anche le ragioni per cui non potevano avere rilievo le circostanze attenuanti invocate dal ricorrente.
L’art. 21 del codice deontologico vigente attribuisce agli Organi disciplinari la potestà di applicare, nel rispetto delle procedure previste dalle norme, anche regolamentari, le sanzioni adeguate e proporzionate alla violazione deontologica commessa, essendo oggetto di valutazione il comportamento complessivo dell’incolpato, ribadendo poi che la sanzione deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, all’eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell’incolpato, precedente e successivo al fatto, avuto riguardo alle circostanze, soggettive e oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione. Infine, si prevede che nella determinazione della sanzione si deve altresì tenere conto del pregiudizio eventualmente subito dalla parte assistita e dal cliente, della compromissione dell’immagine della professione forense, della vita professionale, dei precedenti disciplinari.
Alla luce di tale previsione va ribadito il principio per cui (Cass. S.U. n. 1609/2020), in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, la determinazione della sanzione adeguata costituisce tipico apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità (conf. Cass. S.U. n. 1229/2004, per la quale è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che tenda ad ottenere un sindacato sulle scelte discrezionali del Consiglio in ordine al tipo e all’entità della sanzione applicata; Cass. S.U. n. 11564/2011).
In continuità con tali principi di diritto, risulta quindi evidente l’inammissibilità del motivo in quanto mira a contestare un apprezzamento discrezionale riservato esclusivamente al giudice disciplinare.
7. Il settimo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del Regolamento Disciplinare, dell’art. 51 c.p.c. e 34 c.p.p., nonché dell’art. 111 Cost. in quanto l’avv. Antonio Labattaglia ha presieduto nel 2018 il CDD che ha applicato la sanzione al ricorrente, avendo però fatto parte del COA di Bari che nel 2012 aveva sospeso in via cautelare lo stesso ricorrente dall’albo.
Il motivo è da disattendere.
La censura appare, in primo luogo, inammissibile per difetto di specificità e per la novità della questione sollevata.
Ancora la stessa non si confronta con la tradizionale affermazione secondo cui ha natura amministrativa il procedimento disciplinare svoltosi innanzi ai C.O.A. con conseguente inapplicabilità degli artt. 111 e 112 Cost., già consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (seguito da Cass. S.U. n. 31227/2017) e che è stato ribadito anche con riguardo agli attuali C.D.D. Queste Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 34476/2019, e in motivazione, Cass. S.U. n. 16993/2017) hanno, infatti, già statuito che il Consiglio distrettuale di disciplina è soggetto che svolge una funzione amministrativa di natura giustiziale, non giurisdizionale, caratterizzata da elementi di terzietà, il che porta ad escludere la possibilità di invocare le norme in tema di astensione).
Va altresì ricordato che (cfr. Cass. n. 2270/2019) l’inosservanza dell’obbligo di astensione di cui all’art. 51, n. 1, c.p.c. determina la nullità del provvedimento emesso solo ove il componente dell’organo decidente abbia un interesse proprio e diretto nella causa che lo ponga nella qualità di parte del procedimento; in ogni altra ipotesi, invece, la violazione di tale obbligo assume rilievo come mero motivo di ricusazione, rimanendo esclusa, in difetto della relativa istanza, qualsiasi incidenza sulla regolare costituzione dell’organo decidente e sulla validità della decisione, con la conseguenza che la mancata proposizione di detta istanza nei termini e con le modalità di legge preclude la possibilità di fare valere il vizio in sede di impugnazione, quale motivo di nullità del provvedimento (conf. Cass. n. 7545/2011).
Il ricorrente non deduce di avere a suo tempo proposto istanza di ricusazione, il che denota l’evidente infondatezza della censura.
Inoltre, ed in relazione alla partecipazione dell’avv. La Battaglia anche all’organo che aveva applicato la misura cautelare della sospensione, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. S.U. n. 1783/2011), l’incompatibilità che, ai sensi dell’art. 51 n. 4 e 52 cod. proc. civ., giustifica l’accoglimento dell’istanza di ricusazione per avere il giudice conosciuto del merito della causa in un altro grado dello stesso processo non è ravvisabile nell’ipotesi in cui gli stessi componenti del Collegio delle Sezioni Unite investito della decisione sul ricorso avverso un provvedimento disciplinare posto a carico di un magistrato abbiano già deciso sull’impugnazione del provvedimento di sospensione cautelare emesso nei confronti del medesimo incolpato, atteso che la decisione sul provvedimento cautelare appartiene ad una serie processuale autonoma sia per presupposti, sia per ambito di cognizione sia per effetti impugnatori e che essa, di conseguenza, non è in alcun modo riferibile “ad un altro grado dello stesso processo”.
Trattasi di principio che è espressivo della generale assenza, nella materia civile, di una incompatibilità tra la funzione di giudice della cautela e giudice del merito e che appare quindi estensibile anche al procedimento disciplinare degli avvocati (cfr. Corte Cost. n. 220/2000; Corte Cost. n. 193/1998; Corte Cost. n. 326/1997).
8. Il ricorso è pertanto rigettato.
9. La decisione del ricorso determina poi l’assorbimento della richiesta del ricorrente di disporre la sospensione dell’esecutività della decisione gravata.
10. Nulla a disporre quanto alle spese atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato.
11. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio dell’8 giugno 2021.
Il Consigliere Estensore
Allegati:
SS.UU, 06 luglio 2021, n. 19030, in tema di procedimento disciplinare
Nota della Dott.ssa Valentina Petruzziello
Sulla individuazione del termine di prescrizione dell'illecito deontologico e sul rapporto tra giudizio disciplinare e processo penale
1. Il principio di diritto
In tema di responsabilità disciplinare dell'avvocato, il procedimento davanti al Consiglio distrettuale di disciplina conserva il carattere amministrativo del precedente procedimento di competenza dei locali Consigli dell'ordine, svolgendo tale organo una funzione amministrativa di natura giustiziale.
Ne consegue che non trovano applicazione le norme in tema di astensione del giudice contenute nei codici di procedura civile e penale.
2. La questione di massima di particolare importanza
Nel caso di specie, un avvocato è stato radiato per aver commesso, tra il 2007 ed il 2008, fatti di rilievo deontologico; in particolare, numerosi reati (associazione a delinquere, corruzione in atti giudiziari, abuso d'ufficio e falsità ideologica) posti in essere nella qualità di coordinatore dell'Ufficio del Giudice di Pace.
Le Sezioni Unite, nell’affermare che le sanzioni disciplinari forensi hanno natura amministrativa, evidenziano come, con riferimento alla prescrizione, non sia applicabile lo jus superveniens, ove più favorevole all'incolpato.
Ne consegue che per l'individuazione del regime di prescrizione dell'azione disciplinare occorra avere riguardo alla commissione del fatto o la cessazione della sua permanenza.
Nella fattispecie, i fatti addebitati al ricorrente sono stati commessi in epoca anteriore alla data di entrata in vigore della L. 247/2012, con conseguente sottoposizione al previgente regime normativo.
Quanto, invece, alla normativa processuale applicabile al procedimento disciplinare, la Suprema Corte ritiene immediatamente applicabile l'art. 54 della L. 247/2012, che, nel regolare il rapporto tra processo penale e procedimento disciplinare, ne stabilisce l’autonomia.
Il c. 1 della disposizione de qua stabilisce, del resto, che “il procedimento disciplinare si svolge ed è definito con procedura e con valutazioni autonome rispetto al processo penale avente per oggetto i medesimi fatti”.
Le Sezioni Unite ricordano, poi, che non vi è alcun termine di decadenza, né per il caso di riassunzione dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale, né per il caso in cui la riassunzione avvenga prima del passaggio in giudicato della sentenza penale.