Civile Sent. Sez. U Num. 12902 Anno 2021
Presidente: RAIMONDI GUIDO
Relatore: VALITUTTI ANTONIO
Data pubblicazione: 13/05/2021
SENTENZA
sul ricorso 5504-2020 proposto da:
LITRICO PAOLO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BALDASSARRE CASTIGLIONE 55, presso lo studio dell’avvocato MONICA PERONACE, rappresentato e difeso da sé medesimo;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI VENEZIA, CONSIGLIO DISTRETTUALE DI DISCIPLINA DEL VENETO, CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimati –
avverso la sentenza n. 171/2019 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 16/12/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/02/2021 dal Consigliere ANTONIO VALITUTTI;
lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale FRANCESCO SALZANO, il quale chiede che le Sezioni Unite della Corte di cassazione vogliano rigettare il ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. L’avvocato Paolo Litrico, assistito dall’avvocata Laura Voltolina, collaboratrice esterna del suo studio, conveniva in giudizio, dinanzi al Giudice di pace di Chioggia, la Uniqa Assicurazioni e Davide Chiereghin, al fine di ottenere il risarcimento del residuo 50% del danno – detratta la quota già risarcita dall’Assicurazione – subito a seguito di un sinistro stradale verificatosi il 15 marzo 2009. Il convenuto Chiereghin si costituiva, rappresentato e difeso dall’avvocata Cristina Torin, anch’essa collaboratrice dell’avvocato Litrico, presso il cui studio, secondo quanto affermato dallo stesso ricorrente, aveva “in corso diverse domiciliazioni”. Con la costituzione in giudizio, l’avvocato Torin riconosceva la piena responsabilità del proprio assistito per l’incidente occorso, chiedendo accertarsi la fondatezza della domanda proposta da parte attrice.
1.1. In data 4 luglio 2011, la compagnia di assicurazioni inviava un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Padova, nei confronti dell’avvocato Torin, al fine di accertare eventuali condotte deontologicamente scorrette della professionista, per essersi la stessa costituita per il convenuto Chiereghin, eleggendo domicilio presso lo studio dell’attore ed ammettendo, per di più, la responsabilità del proprio assistito. L’avvocato Torin- a seguito di tale fatto – sporgeva denuncia nei confronti dell’avvocato Litrico, per i reati di cui agli artt. 481 e 485 c.p., negando di essere l’autrice della comparsa di risposta e disconoscendo le firme apposte in calce al mandato. Il Consiglio dell’Ordine archiviava, intanto, l’esposto, considerando i fatti privi di rilievo disciplinare, mentre il Giudice di pace di Chioggia, con sentenza n. 76/2011, accertava la responsabilità esclusiva del Chiereghin nella causazione del sinistro del 15 marzo 2009.
1.2. A seguito della denuncia veniva instaurato processo penale nei confronti dell’avvocato Litrico sulla base di tre capi di imputazione: 1) formazione di un mandato falso in favore dell’avvocato Torin, con firma falsificata; 2) falsificazione della firma dell’avvocato Torin nella comparsa di risposta; 3) falsificazione della delega a sostituto processuale in favore di altro legale, per un’udienza istruttoria del processo civile. L’imputato veniva assolto con sentenza n. 885/2016 emessa dal Tribunale di Venezia – dal capo 1) perché il fatto non sussiste, essendo emerso – a seguito di perizia grafica – che le sottoscrizioni apposte in calce al mandato fossero attribuibili al Litrico, e dai capi 2) e 3) perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
1.3. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia – avuto notizia del procedimento penale – sospendeva in via cautelare l’avvocato Litrico dall’esercizio della professione, con provvedimento dell’1 luglio 2013, poi annullato dal Consiglio Nazionale Forense, con decisione n. 1/2014, confermata da questa Corte con sentenza n. 3184/2015. In data 27 maggio 2014, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia comunicava, quindi, all’incolpato, l’apertura del procedimento disciplinare nei suoi confronti.
Con deliberazione del 22 luglio 2016, emessa dal Consiglio Distrettuale di Disciplina del Veneto, veniva disposta la citazione a giudizio dell’avvocato Litrico, per i seguenti capi di incolpazione: a) violazione dell’art. 88 c.p.c. e dei doveri di lealtà, correttezza, dignità e decoro di cui agli artt. 9 e 24 del Codice deontologico forense, “per avere provveduto a gestire tramite l’attività del proprio studio professionale sia la propria posizione personale di attore, sia quella del sig. Chiereghin, pur essendo parti contrapposte dello stesso sinistro (…) avendo assunto così – di fatto – la difesa anche della controparte, solo formalmente assistita dall’avvocato Torin”; b) violazione degli artt. 7 e 19 del Codice deontologico forense, per avere utilizzato solo formalmente il nome dell’avvocato Torin, mentre i relativi atti erano stati predisposti dalla sua collaboratrice, avvocata Voltolina; c) violazione dell’art. 63 del Codice deontologico forense, per avere sollecitato la costituzione in giudizio del Chiereghin, al fine di aggravare gli oneri processuali a carico dell’assicurazione convenuta.
1.4. Con decisione nn. 14/2017, notificata il 10 maggio 2017, il Consiglio Distrettuale di Disciplina – nonostante l’acquisizione della sentenza penale di assoluzione – accertava che le firme disconosciute non appartenevano comunque all’avvocato Torin, ed accertava la sussistenza di un conflitto di interessi, anche se apparente, in quanto l’avvocato Litrico aveva – di fatto – gestito, mediante il proprio studio, sia la propria posizione di attore che quella di convenuto. Il Consiglio assolveva, pertanto, l’incolpato dall’imputazione di cui al capo c), per difetto di prova, mentre lo riteneva responsabile delle violazioni di cui ai capi a) e b), irrogandogli la sanzione della sospensione dell’esercizio della professione per la durata di anni uno.
2. Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza n. 171/2019, depositata il 16 dicembre 2019 e notificata il 10 gennaio 2020, respinta l’eccezione preliminare di prescrizione, in parziale accoglimento del ricorso riduceva la sanzione della sospensione dell’attività per anni uno alla sanzione della censura.
3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’avvocato Paolo Litrico affidato a tre motivi. Gli intimati, Consiglio Nazionale Forense, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia, Consiglio Distrettuale di Disciplina del Veneto e Procura Generale presso la Corte di Cassazione, non hanno svolto attività difensiva. Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. In via pregiudiziale va dichiarato inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Consiglio nazionale forense e del Consiglio distrettuale di disciplina, che, in quanto soggetti terzi rispetto alla controversia e autori della impugnata decisione, sono privi di legittimazione nel presente giudizio, le parti del quale vanno individuate nel soggetto destinatario del provvedimento impugnato, cioè nel Consiglio dell’Ordine locale che, in sede amministrativa, ha deciso in primo grado e nel pubblico ministero presso la Corte di Cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., sez. un., 6 giugno 2003, n. 9075; Cass. Sez. U., 7 dicembre 2006, n. 26182; Cass. Sez. U., 13 giugno 2008, n. 19513; Cass. Sez. U., 24 gennaio 2013, n. 1716; Cass. Sez. U., 24 febbraio 2015, n. 3670; Cass. Sez. U., 27 dicembre 2016, n. 26996). Il ricorso è stato notificato il 5 febbraio 2020 anche al Consiglio distrettuale di disciplina.
2. Con il primo e secondo motivo di ricorso – che, per la loro evidente connessione, vanno esaminati congiuntamente – l’avvocato Paolo Litrico denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 129, 530 e 653 c.p.p., della L. n. 247 del 2012, art. 55 e art. 37 del Codice deontologico forense, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
2.1. Si duole il ricorrente del fatto che il Consiglio Nazionale Forense abbia escluso che la sentenza di assoluzione dell’avvocato Litrico con formula piena avesse efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, ai sensi dell’art. 653 c.p.p., essendo stato il ricorrente assolto – da due delle tre imputazioni – “sulla base di una depenalizzazione del comportamento contestatogli, per cui il fatto non costituiva (più) reato” (p. 10). Per il che, in siffatta evenienza, la decisione penale – a parere dell’istante- riconoscerebbe “l’ontologia del fatto e l’affermazione che l’imputato lo ha commesso”, ma ne escluderebbe “l’illiceità penale” (p. 9).
L’organo decidente avrebbe, pertanto, in tal modo confuso la formula assolutoria “il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato”, con quella “il fatto non costituisce reato”, formule, per contro, ben distinte nella formulazione degli artt. 128 e 530 c.p.p..
La formula assolutoria adoperata nel caso di specie dal Tribunale di Venezia, nella sentenza n. 885/2016, rientrerebbe, pertanto, tra quelle cui si riferisce l’art. 653 c.p.p. – ed in particolare in quella secondo cui il fatto “non costituisce illecito penale”, per sancirne l’efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, ai fini dell’esclusione di ogni addebito anche in detto giudizio. In tal senso deporrebbe, peraltro, anche l’art. 55 del Codice deontologico, laddove prevede la riapertura del procedimento disciplinare concluso, in caso di assoluzione dell’incolpato con formula piena, al fine di consentirne il proscioglimento anche in sede disciplinare
2.2. In ogni caso, quand’anche la sentenza penale non rivestisse efficacia alcuna nel giudizio disciplinare, andrebbe pur sempre considerato – ad avviso dell’esponente – che i fatti oggetto dei due giudizi non avrebbero nessun rilievo sul piano disciplinare. Il “conflitto di interessi” disciplinato dall’art. 24 dell’attuale Codice deontologico forense – in precedenza dall’art. 37 – sarebbe stato, invero, considerato meramente “potenziale” dal Consiglio Distrettuale di Disciplina ed addirittura soltanto “apparente” dal Consiglio Nazionale Forense. Per converso, ad avviso del ricorrente, anche a prescindere dal rilievo che “nessun rapporto fiduciario professionale esisteva tra l’avv. Litrico ed il sig. Chiereghin”, nessun conflitto di interessi sarebbe stato configurabile – neppure potenziale – atteso che le domande proposte nel giudizio relativo al sinistro del 15 marzo 2009 “non erano incompatibili, ma adesive”, avendo il Chiereghin ammesso, già nella constatazione amichevole di incidente, la sua piena responsabilità per il sinistro occorso.
Avrebbe, quindi, errato, il Consiglio Nazionale Forense a ritenere che nel caso di specie sussista una rilevanza deontologica del comportamento dell’avvocato Litrico, anche in ipotesi di conflitto di interessi “apparente”.
2.3. I motivi sono infondati.
2.3.1. L’impugnata sentenza ha, invero, correttamente evidenziato che la nuova disciplina, contenuta nella L. 31 dicembre 2012, n. 247, “amplia l’autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, prevedendo una sospensione di carattere facoltativo, mantenendo comunque fermo il disposto di cui all’art. 653 c.p.p.”. Ed invero, a norma della L. n. 247 del 2012, art. 54, comma 1 “1. Il procedimento disciplinare si svolge ed è definito con procedura e con valutazioni autonome rispetto al processo penale avente per oggetto i medesimi fatti”, mentre il comma 2 cit, disposizione prevede – in deroga all’art. 295 c.p.c. – una sospensione facoltativa “se, agli effetti della decisione, è indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penale (…)”.
In tal senso si sono, peraltro, espresse queste Sezioni Unite in una recente pronuncia, nella quale si è affermato che, in tema di procedimento disciplinare nei confronti di avvocati, la L. n. 247 del 2012, art. 54 (applicabile dal 1 gennaio 2015) disciplina in termini di reciproca autonomia i rapporti tra tale procedimento e quello penale avente ad oggetto gli stessi fatti, dovendo pertanto escludersi la sospensione necessaria del primo giudizio in attesa della definizione del secondo, anche se, in via di eccezione, può essere disposta una sospensione facoltativa, limitata nel tempo, qualora il giudice disciplinare ritenga indispensabile acquisire elementi di prova apprendibili esclusivamente dal processo penale (Cass. Sez. U., 16/03/2021, n. 7336).
2.3.2. Rispetto alla precedente novella, introdotta con la L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 1 – volta a restringere la discrezionalità del giudice disciplinare, eliminando la limitazione dell’effetto vincolante nel giudizio disciplinare della sola sentenza di assoluzione emessa nel dibattimento, ed introducendo la previsione dell’effetto vincolante in quella sede anche per la sentenza che accerti che il fatto “non costituisce illecito penale” – la riforma del 2012, con riferimento al processo disciplinare degli avvocati ha inteso, ben al contrario, ampliare siffatta discrezionalità. In quest’ottica la L. n. 247 del 2012 ha, per vero, introdotto la “valutazione autonoma dei fatti” da parte del giudice disciplinare, rispetto a quella operata dal giudice penale, con il solo – evidente limite dell’esclusione definitiva, conseguente alla sentenza irrevocabile di assoluzione, della sussistenza degli stessi fatti da parte del giudice penale, o della loro commissione da parte dell’imputato.
2.3.1.1. Se ne deve inferire che, laddove non si sia in presenza dalle formule assolutorie “il fatto non sussiste” e “l’imputato non lo ha commesso”, che vincolano – nel processo a carico di avvocati – il giudice disciplinare all’accertamento operato dal giudice penale che ha escluso l’ontologia del fatto o la sua commissione da parte dell’imputato, le altre formule assolutorie non sono vincolanti nel giudizio disciplinare, quanto all’accertamento dei fatti costituenti illeciti sul piano deontologico, e tra queste anche la formula “non costituisce illecito penale” seppure inserita nell’art. 653 c.p.c., comma 1. Ciò in quanto anche tale formula sostanzialmente equivalente a quella “il fatto non costituisce reato”, contenuta nell’art. 530 c.p.c., comma 1, – non esclude la materialità del fatto né la sua riferibilità al dipendente pubblico, ma solo la sua rilevanza penale (ad esempio, per la mancanza dell’elemento soggettivo doloso o per il ricorrere di una causa di giustificazione).
In altri termini, l’assoluzione perché “il fatto non costituisce reato” o “illecito penale” consente la autonoma “valutazione dei fatti” da parte del giudice disciplinare – in forza della disciplina derogatoria introdotta dalla L. n. 247 del 2012 – proprio perché i fatti stessi non sono stati esclusi dal giudicato penale. Ma è evidente che anche la formula perché “il fatto non è previsto dalla legge come reato” non esclude, al pari di quella succitata, la materialità del fatto, o la sua commissione da parte dell’imputato, e quindi non preclude la autonoma valutazione di esso in sede disciplinare.
2.3.1.2. In tal senso si è, del resto, espressa da tempo la giurisprudenza penale di questa Corte, secondo la quale, in tema di formule assolutorie, nel caso in cui il fatto non corrisponda ad una fattispecie incriminatrice in ragione di un’assenza di previsione normativa, o di una successiva abrogazione o depenalizzazione della norma, o di un’intervenuta dichiarazione integrale di incostituzionalità, l’imputato va assolto perché “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, permanendo in tutti tali casi la possibile rilevanza del fatto in sede civile, o disciplinare. Per converso, la formula “il fatto non sussiste”, che esclude ogni possibile rilevanza anche in sede diversa da quella penale, va adottata quando difetti un elemento costitutivo del reato di natura oggettiva, sicché esso è ontologicamente inesistente (Cass. Sez. U., 25/05/2011, n. 37954; Cass., 26/06/2014, n. 36859).
Formula assolutoria ancora diversa da quelle perché “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, o perché “il fatto non sussiste”, è infine la formula “perché il fatto non costituisce reato” o “non costituisce illecito penale”, a cagione della mancanza dell’elemento psicologico del reato o della presenza di una causa di giustificazione (Cass. Sez. U., 29/05/2008, n. 40049).
2.3.1.3. Tanto premesso in via di principio, va rilevato che, nel caso di specie, essendo stato l’avvocato Litrico, assolto dalle imputazioni concernenti la falsificazione della firma nella comparsa di risposta e la falsificazione della delega al sostituto processuale, per essere i fatti ascritti “non più previsti dalla legge come reato”, in quanto depenalizzati – formula assolutoria, come detto, ancora diversa, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., da quella, anch’essa da considerarsi, per i motivi suesposti, non vincolante in sede disciplinare, “il fatto non costituisce reato” – correttamente il Consiglio Nazionale Forense ha ritenuto di poter valutare autonomamente in sede disciplinare gli addebiti ascritti all’incolpato anche in sede penale.
2.3.1.4. Deve, pertanto, trovare applicazione, nella specie, il seguente principio di diritto: “Nel processo disciplinare degli avvocati, novellato dalla L. 31 dicembre 2012, n. 247, che ha introdotto una autonoma valutazione da parte del Consiglio Nazionale Forense dei fatti ascritti all’incolpato, in via derogatoria rispetto alla generale previsione di cui all’art. 653 c.p.p., solo l’accertamento, operato con sentenza penale irrevocabile, che “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso” riveste l’efficacia di giudicato, preclusiva di un’autonoma valutazione degli stessi fatti da parte del giudice disciplinare, non anche le diverse formule assolutorie perché “il fatto non costituisce reato o illecito penale”, o perché il fatto “non è previsto dalla legge come reato”.
2.3.2. Per quanto concerne, poi, la dedotta assenza di rilievo disciplinare dei fatti addebitati all’avvocato Litrico, in quanto integranti un conflitto di interessi meramente potenziale, va rilevato che il ricorrente ha anzitutto dedotto che, nel caso concreto, non potrebbe trovare applicazione l’art. 24 Codice Deontologico Forense, entrato in vigore il 15 dicembre 2014, ossia nelle more del procedimento disciplinare per cui è causa, dovendo trovare applicazione il previgente art. 37 Codice Deontologico del 17 aprile 1997. Afferma, inoltre, l’istante che, “a prescindere dall’esatta individuazione della norma incriminata”, la ritenuta sussistenza di un “conflitto potenziale” di interessi, nel giudizio disciplinare di primo grado, e addirittura di un “conflitto apparente”, in sede di gravame, evidenzierebbe la mancata violazione del canone deontologico in parola, essendo necessario – ai fini dell’affermazione della responsabilità disciplinare del professionista – il riscontro della sussistenza di un conflitto di interessi effettivo e concreto.
2.3.2.1. Il primo assunto del ricorrente è destituito di fondamento, avendo il Consiglio Nazionale Forense accertato – in conformità alla giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. U., 16/02/2015, n. 3023; Cass. Sez. U., 27/12/2017, n. 30993) – che la nuova disciplina di cui al nuovo Codice Deontologico Forense era applicabile al caso di specie, in quanto norma più favorevole all’incolpato, contenente previsioni tendenzialmente tipizzate, laddove “nel vecchio sistema deontologico non vigeva alcun principio di tipicità dell’illecito disciplinare, spettando agli organi disciplinari individuare i comportamenti deontologicamente rilevanti”.
2.3.2.2. Ma anche il secondo assunto dell’esponente – secondo il quale, a prescindere dalla norma applicabile – i fatti addebitatigli non avrebbero rilievo disciplinare, poiché concretatisi in un conflitto di interessi solo “potenziale” o “apparente” – è infondato e non può essere condiviso. Deve, invero, osservarsi che il Consiglio Nazionale Forense ha accertato che l’avvocato Litrico “aveva – di fatto assunto la difesa di due soggetti portatori di interessi confliggenti” (p. 14), e cioè sé medesimo, quale danneggiato, ed il Chiereghin, quale preteso danneggiante. Il che derivava – come accertato in sede penale e nel giudizio disciplinare di primo grado – dal fatto che la sottoscrizione dell’avvocato Torin, in calce alla comparsa di risposta ed alla delega a sostituto in udienza, era falsa, e che lo stesso avvocato Litrico aveva ammesso di avere predisposto una bozza della comparsa di risposta (p. 12).
Il Consiglio ne ha tratto, pertanto, la conclusione che l’addebito mosso al Litrico di avere di fatto gestito – tramite l’attività del proprio studio professionale – sia la propria posizione personale di attore, sia quella del sig. Chiereghin, pur essendo parti contrapposte dello stesso sinistro, fosse da reputarsi fondato, mirando la previsione di cui all’art. 24 Codice Deontologico Forense ad evitare il verificarsi di situazioni di conflitto di interessi – reali o potenziali – che possano anche solo far dubitare della correttezza e dell’indipendenza dell’avvocato. Mutuando in sede disciplinare le categorie del diritto penale, l’illecito in parola costituirebbe, in altri termini, un “illecito di pericolo”, per la cui sussistenza non è necessario il verificarsi di un concreto pregiudizio per gli interessi della parte assistita.
2.3.2.3. Siffatte conclusioni, cui è pervenuto il Consiglio Nazionale Forense, sono da reputarsi fondate. La norma dell’art. 24 Codice Deontologico Forense prevede, invero, che “1. L’avvocato deve astenersi dal prestare attività professionale quando questa possa determinare un conflitto con gli interessi della parte assistita e del cliente o interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale. (…). 5. Il dovere di astensione sussiste anche se le parti aventi interessi confliggenti si rivolgano ad avvocati che siano partecipi di una stessa società di avvocati o associazione professionale o che esercitino negli stessi locali e collaborino professionalmente in maniera non occasionale”.
Ebbene, è evidente che – come ha correttamente ritenuto l’impugnata sentenza – nelle ipotesi in cui il Codice Deontologico Forense prevede un obbligo assoluto di astensione, che trova fondamento nell’esigenza di garantire la massima tutela possibile agli interessi in gioco, deve reputarsi che la valutazione sia stata fatta una volta per tutte dalla norma, onde l’interprete è tenuto soltanto ad accertare il fatto che costituisce il presupposto di quell’effetto, senza indagare se il conflitto abbia carattere reale o meramente potenziale (Cass. Sez. U., 10/01/2006, n. 134). Ed in tale prospettiva, questa Corte ha più volte affermato che, qualora la difesa di due parti, tra loro in conflitto anche solo potenziale di interessi, sia stata affidata allo stesso avvocato, la parte che abbia conferito per seconda la procura a quest’ultimo deve ritenersi non costituita in giudizio, perché un difensore non può assumere il patrocinio di due parti che si trovino, o possono trovarsi, in posizione di contrasto (Cass., 19/03/1984, n. 1860; Cass., 14/07/2015, n. 14634; Cass., 08/09/2017, n. 20950).
2.3.2.4. Nel caso concreto, lo stesso ricorrente ha affermato che all’epoca dei fatti l’avvocato Torin, che avrebbe formalmente assistito il convenuto Chiereghin, era “ancora una sua collaboratrice, avendo in corso diverse domiciliazioni presso lo studio dell’odierno ricorrente per alcuni procedimenti civili”, e che l’avvocato Voltolina, che avrebbe assistito lo stesso avvocato Litrico come attore, era una sua collaboratrice esterna. Per il che, considerato anche che lo stesso avvocato Litrico aveva ammesso in sede disciplinare “di avere predisposto una bozza della comparsa di risposta”, l’impugnata sentenza, nella parte in cui ha ritenuto ravvisabile, nella specie, un conflitto potenziale di interessi, per avere l’incolpato gestito tramite il proprio studio – sia la propria posizione personale di attore che quella del convenuto, deve ritenersi del tutto corretta.
2.4. Pe le ragioni esposte, pertanto, le censure in esame devono essere disattese.
3. Con il terzo motivo di ricorso, l’avvocato Paolo Litrico denuncia la violazione o falsa applicazione del R.D. n. 1578 del 1933, art. 51 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
3.1. Si duole il ricorrente del fatto che l’impugnata sentenza non abbia ritenuto prescritta l’azione disciplinare, dovendo il termine di prescrizione quinquennale R.D. n. 1578 del 1933, ex art. 51 decorrere dall’11 novembre 2010, data di deposito della comparsa di costituzione del convenuto nel giudizio civile, che integrerebbe l’illecito, e non dalla data del passaggio in giudicato della sentenza penale, conseguente alla sentenza n. 885/2016. Per cui, dovendo ritenersi che il primo atto interruttivo della prescrizione sia l’apertura del procedimento disciplinare, notificata all’esponente in data 15 aprile 2016, dovrebbe ritenersi che a quella data il suindicato termine quinquennale fosse spirato.
3.2. Il motivo è infondato.
3.2.1. Va, per vero, osservato che al caso di specie non si applica il più favorevole regime della prescrizione previsto dalla L. n. 247 del 2012, art. 56, comma 3. Tale norma – a differenza della formulazione del previgente R.D. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51 a tenore del quale “Lazione disciplinare si prescrive in cinque anni”, senza che sia prevista limitazione alcuna al prolungamento di detto termine per effetto degli atti interruttivi dopo avere stabilito, al comma 1, che “l’azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto”, ha previsto, al comma 3, che “se gli atti interruttivi sono più di uno, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi, ma in nessun caso il termine stabilito nel comma 1 può essere prolungato di oltre un quarto”, ossia per un termine superiore a sette anni e sei mesi.
Orbene, queste Sezioni unite hanno più volte affermato che la L. n. 247 del 2012, art. 56, comma 3, non si applica agli illeciti commessi – come nel caso di specie – anteriormente alla sua entrata in vigore, e ciò in quanto il potere disciplinare sanzionatorio in esame, per la sua natura amministrativa, resta insensibile al diritto sopravvenuto più favorevole (Cass. Sez. U., 18/04/2018, n. 9558; Cass. Sez. U., 25/03/2019, n. 8313; Cass. Sez. U., 24/01/2020, n. 1609).
3.2.2. Tanto premesso, deve ritenersi che il termine di prescrizione di cinque anni, previsto dalla disciplina previgente (applicabile ratione temporis alla fattispecie concreta) non fosse decorso alla data di inizio del procedimento disciplinare. Ed invero, in tema di responsabilità disciplinare degli avvocati per un fatto costituente – come nel caso concreto – anche reato e per il quale sia stata intrapresa l’azione penale, il termine prescrizionale dell’iniziativa disciplinare, previsto dal R.D. n. 1578 del 1933, art. 51 comincia a decorrere dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso (Cass. Sez. U., 07/11/2016, n. 22516; Cass. Sez. U., 20/11/2018, n. 29878).
Se ne deve inferire che, essendo il giudicato penale formatosi, nella specie, in epoca successiva all’inizio del procedimento disciplinare, ed essendosi il giudizio penale concluso con l’assoluzione perché il fatto non è più previsto come reato, il Consiglio Nazionale Forense ha correttamente ritenuto non prescritta l’azione disciplinare.
3.2.3. Ad ogni buon conto, anche a voler seguire la prospettazione dell’avvocato Litrico, ed a voler assumere come momento di decorrenza della prescrizione la data del deposito della comparsa (11 novembre 2010), va rilevato che è lo stesso ricorrente ad affermare (p. 9 del ricorso) che l’avvio del procedimenti disciplinare – costituente un atto idoneo ad interrompere la prescrizione con effetti istantanei, ai sensi del R.D. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51 (Cass. Sez. U., 20/09/2013, n. 21591; Cass. Sez. U., 12/08/2002, n. 12176) – gli era stato comunicato il 27 maggio 2014. Di più, in data 9 ottobre 2015 (ancora, dunque, nel termine quinquennale di prescrizione) il Consiglio Distrettuale di Disciplina, al quale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati aveva trasmesso il relativo fascicolo, gli aveva altresì comunicato – come ammesso dallo stesso ricorrente – l’avvio della fase istruttoria preliminare. Ne discende che il termine quinquennale di prescrizione è stato certamente interrotto dagli atti suindicati.
4. Per tutte le ragioni esposte, Il ricorso va, di conseguenza, rigettato, senza alcuna statuizione sulle spese, attesa la mancata costituzione degli intimati.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Consiglio Nazionale Forense e del Consiglio Distrettuale di disciplina e lo rigetta nei confronti degli altri intimati. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2021.
Il Presidente
Allegati:
SS.UU, 13 maggio 2021, n. 12902, in tema di procedimento disciplinare
Nota dell'Avv. Alfonso Ciambrone
Le Sezioni Unite chiariscono i rapporti fra procedimento disciplinare e processo penale
1. Il principio di diritto
Nel processo disciplinare degli avvocati, novellato dalla L. 247/2012, che ha introdotto una autonoma valutazione da parte del Consiglio Nazionale Forense dei fatti ascritti all'incolpato, in via derogatoria rispetto alla generale previsione di cui all'art. 653 c.p.p., solo l'accertamento, operato con sentenza penale irrevocabile, che “il fatto non sussiste” o “l'imputato non lo ha commesso” riveste l'efficacia di giudicato, preclusiva di un'autonoma valutazione degli stessi fatti da parte del giudice disciplinare, non anche le diverse formule assolutorie perché “il fatto non costituisce reato o illecito penale”, o perché “il fatto non è previsto dalla legge come reato”.
2. Le motivazioni
La nuova disciplina del procedimento disciplinare forense, contenuta nell’art. 54 della L. 247/2012 (applicabile dal 1° gennaio 2015):
- amplia l'autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale avente ad oggetto gli stessi fatti (“il procedimento disciplinare si svolge ed è definito con procedura e con valutazioni autonome rispetto al processo penale”);
- prevede una sospensione di carattere facoltativo, e non necessario (“se, agli effetti della decisione, è indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penale”);
- mantiene comunque fermo il disposto di cui all'art. 653 c.p.p. e, con esso, il solo - evidente – limite per il giudice disciplinare dell'esclusione definitiva, conseguente alla sentenza irrevocabile di assoluzione, della sussistenza degli stessi fatti da parte del giudice penale, o della loro commissione da parte dell'imputato.
3. Conseguenze operative
Laddove non si sia in presenza dalle formule assolutorie “il fatto non sussiste” e ”l'imputato non lo ha commesso”, le altre formule assolutorie non sono vincolanti nel giudizio disciplinare, quanto all'accertamento dei fatti costituenti illeciti sul piano deontologico.
Tra queste formule rientrano sia “il fatto non costituisce illecito penale” (pur presente nell'art. 653, c. 1, c.p.p. e sostanzialmente equivalente a “il fatto non costituisce reato” ex art. 530, c. 1, c.p.p.), sia “il fatto non è previsto dalla legge come reato”; entrambe non escludono la materialità del fatto né la sua commissione da parte dell’imputato, ma solo la sua rilevanza penale (ad esempio, per la mancanza dell'elemento soggettivo doloso o per il ricorrere di una causa di giustificazione), e quindi non precludono la autonoma valutazione di esso in sede disciplinare.