Civile Sent. Sez. U Num. 23593 Anno 2020
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: CARRATO ALDO
Data pubblicazione: 27/10/2020
SENTENZA
sul ricorso 38067-2019 proposto da:
LONGARINI MASSIMO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA APPIANO 8, presso lo studio dell’avvocato ORAZIO CASTELLANA, rappresentato e difeso dall’avvocato STEFANO COLALELLI;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI TERNI, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimati –
avverso la sentenza n. 148/2019 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 6/12/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/9/2020 dal Consigliere ALDO CARRATO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale ALBERTO CARDINO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
A seguito di esposto presentato al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Terni nei confronti dell’avv. Massimo Longarini da una sua assistita, il Consiglio distrettuale disciplinare dell’Umbria instaurava un procedimento disciplinare a carico del suddetto professionista legale in relazione ai seguenti capi di incolpazione:
a) aver indotto la cliente che aveva inoltrato l’esposto a conferirgli l’incarico di procedure in giudizio contro una parte con la promessa che i suoi onorari sarebbero stati pagati solo a causa vinta e che le sarebbero stati richiesti solo gli oneri per le spese processuali, così rimanendo integrata la violazione degli artt. 5, 6 e 19 del Codice deontologico forense, la cui condotta si era protratta fino al gennaio 2013;
b) aver, successivamente, chiesto ed ottenuto dalla sua cliente compensi professionali che in precedenza aveva promesso dovergli essere pagati solo a causa vinta, giustificandoli, contrariamente al vero, come mere spese proporzionali al valore della causa, con conseguente ulteriore violazione degli artt. 5, 6 e 19 dello stesso Codice deontologico;
c) aver indotto la sua cliente, in occasione di un incontro tenutosi per la prosecuzione del giudizio dopo la sua sospensione dalla professione, a non revocargli il mandato, affermando, contrariamente al vero, che la causa era la sua e la doveva condurre lui;
d) aver offerto alla stessa cliente, dopo che il giudizio di primo grado aveva dato esito negativo, di procedere a ricorso in appello ed eventualmente in cassazione, gratuitamente, illecito consumato in data 5 marzo 2014.
All’esito della compiuta istruttoria, il citato Consiglio distrettuale di disciplina, con decisione del 21 novembre 2016, irrogava, a carico dell’avv. Longarini, la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per mesi tre.
Il suddetto professionista proponeva ricorso avverso tale decisione sulla base di diversi motivi, ovvero: 1) per intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare; 2) per violazione di legge ed eccesso di potere con riferimento all’art. 10, comma 3, del Regolamento del CNF sul procedimento disciplinare e agli artt. 97 e 24 Cost.; 3) per travisamento del fatto e delle prove da parte del Consiglio distrettuale di disciplina procedente; 4) per difetto di motivazione del provvedimento disciplinare adottato; 5) per insussistenza dell’illecito disciplinare di accaparramento di clientela; 6) per eccessività della sanzione inflittagli.
L’adìto Consiglio nazionale Forense, con sentenza n. 148/2019 (depositata il 6 dicembre 2019), ha dichiarato l’intervenuta prescrizione delle condotte limitatamente a quelle di cui al riportato capo a) dell’incolpazione (ossia di quelle relative alla contestazione di aver indotto la cliente – che aveva inoltrato l’esposto – a conferirgli l’incarico di procedure in giudizio contro una parte con la promessa che i suoi onorari sarebbero stati pagati solo a causa vinta e che le sarebbero stati richiesti solo gli oneri per le spese processuali, così rimanendo integrata la violazione degli artt. 5, 6 e 19 del Codice deontologico forense, la cui condotta si era protratta fino al gennaio 2013) e, in riforma parziale dell’impugnata decisione, confermata nel resto, ha ridotto la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione a mesi due.
Con l’adottata pronuncia il CNF ha, in primo luogo, esaminato la doglianza attinente alle prospettata prescrizione degli illeciti e, dopo aver esposto la disciplina normativa in materia, ha ritenuto applicabile il termine prescrizionale quinquennale di cui all’art. 51 del R.D.L. n. 1578/1933 solo con riguardo alla condotta di cui al citato capo a) esauritasi nella primavera del 2009, nel mentre ha rilevato che detto termine non era trascorso con riferimento agli altri due illeciti (risalenti al 2012 e al 2013), siccome esso era stato idoneamente interrotto mediante la delibera di apertura del procedimento, comunicata il 9 settembre e il 7 ottobre 2014, a seguito del provvedimento di riunione dei procedimenti.
Ha osservato, poi, il CNF che per il procedimento disciplinare, siccome di natura amministrativa, non sono previsti termini perentori di definizione né che, ai fini della tutela dell’interesse perseguito con tale procedimento, avrebbe potuto avere rilevanza la sopravvenuta transazione tra il professionista e la sua cliente che aveva presentato l’esposto nei suoi riguardi.
Ha rilevato, altresì, il CNF che l’organo disciplinare non era incorso nel travisamento delle prove né la motivazione della decisione dallo stesso adottata poteva ritenersi omessa od incompleta (fermo restando, peraltro, in quest’ultima eventualità, il potere dello stesso CNF di integrazione della motivazione medesima).
Infine, il CNF confermava la sussistenza degli estremi della violazione ricondotta all’accaparramento di clientela e, sulla scorta della dichiarazione di estinzione per prescrizione dell’addebito di cui al capo a), riduceva la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione a mesi due, ravvisandola come adeguata in relazione agli ulteriori due addebiti ritenuti sussistenti, in tal senso, quindi, riformando solo parzialmente l’impugnata deliberazione.
Avverso la citata sentenza del CNF ha proposto ricorso per cassazione dinanzi a queste Sezioni unite l’avv. Massimo Longarini, articolandolo in quattro motivi, con richiesta di sospensione degli effetti dell’impugnata sentenza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente ha denunciato – ponendo riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la nullità della sentenza e del procedimento per asserita violazione o falsa applicazione dell’art. 61, comma 1, della legge n. 247 del 2012, nella parte in cui prevede che l’impugnazione del provvedimenti del Consiglio distrettuale di disciplina si propone con ricorso avanti ad apposita sezione disciplinare del CNF, nel mentre quest’ultimo aveva deciso nella sua integrale composizione, esercitando, contemporaneamente, funzioni amministrative e giurisdizionali.
2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione dell’art. 97 Cost. e degli artt. 10, commi 3) e 4), 21, 22 e 24 del regolamento 21 febbraio 2014, n. 2 (in materia di procedimento disciplinare emanato in virtù dell’art. 59, comma 5, della legge n. 247/2012). In sostanza, con tale censura il ricorrente ha inteso contestare che, nel caso di specie, non sarebbero stati garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’esercizio dell’azione disciplinare, pur dovendosi a quest’ultima riconoscere natura amministrativa, poiché il CDD aveva scelto immotivatamente di non istruire il fascicolo disciplinare nelle prime due udienze (alla presenza dello stesso professionista) salvo, poi, ascoltare i testi e decidere in assenza di esso ricorrente quale incolpato, così esercitando illegittimamente il potere discrezionale istruttorio a tale organo conferito.
3. Con la terza doglianza il ricorrente ha denunciato – con riguardo all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. – la nullità della sentenza e del procedimento con riferimento all’asserito vizio della mancata motivazione dell’impugnata sentenza con violazione degli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., 116 e 246 c.p.c., nonché – con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. – la falsa applicazione dell’art. 111 Cost.
In particolare, il ricorrente ha inteso confutare la decisione del CNF nella parte in cui – a suo avviso – tale organo non aveva adottato un’effettiva motivazione circa la censura mossa avverso la pronuncia del CDD con cui era stata dedotta l’assenza di una idonea motivazione a della responsabilità disciplinare di esso tutte le acquisizioni istruttorie.
4. Con la quarta ed ultima censura il dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. suo fondamento, con l’affermazione incolpato omettendo di dar conto di ricorrente ha denunciato – ai sensi – la nullità della sentenza e del procedimento per contraddittoria e carente motivazione della sentenza, sempre in relazione all’art. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., oltre che la violazione dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. .
5. Rileva il collegio che il primo motivo è infondato.
Va osservato, infatti, che, pur se la lettera dell’art. 61, comma 1, della legge n. 247/2012 discorre di “apposita sezione disciplinare” del CNF, la mancata istituzione di tale organo e la decisione da parte del CNF nella sua integrale composizione non fa venir meno il carattere di terzietà ed indipendenza di detto Consiglio Nazionale (essendo, anzi, esse maggiormente garantite per il ricorrente) né la natura “giustiziale” della sua attività e delle sue decisioni.
Su tale questione sono intervenute recentemente queste Sezioni unite (v. sentenza n. 2084/2019), chiarendo che in tema di giudizi disciplinari innanzi al Consiglio nazionale forense, i quali hanno natura giurisdizionale, in quanto si svolgono dinanzi ad un giudice speciale istituito dall’art. 21 del d.lgs. It. n. 382 del 1944 (tuttora operante, giusta la previsione della VI disposizione transitoria della Costituzione), la spettanza al Consiglio – in attesa della costituzione, al suo interno, di un’apposita sezione disciplinare ex art. 61, comma 1, della I. n. 247 del 2012 – di funzioni amministrative accanto a quelle propriamente giurisdizionali, non ne menoma l’indipendenza quale organo giudicante, atteso che non è la mera coesistenza delle due funzioni ad incidere sull’autonomia ed imparzialità di quest’ultimo né, tantomeno, sulla natura giurisdizionale dei suoi poteri, quanto, piuttosto, il fatto che quelle amministrative siano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente subordinata, essendo in tale ipotesi (non riscontrabile nella specie) immanente il rischio che il potere dell’organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali.
Pertanto, la mancata costituzione di un’apposita sezione disciplinare all’interno del CNF non incide sulla natura giurisdizionale dei suoi poteri, né sull’imparzialità e sull’autonomia dell’organo giudicante, le quali sono comunque assicurate dalla sua composizione collegiale e dalla natura elettiva dei suoi componenti (negli stessi sostanziali termini v. SU n. 17064/2011 e n. 11833/2013).
Da qui l’infondatezza della prima censura dedotta dal ricorrente.
6. Anche la seconda doglianza è priva di fondamento.
Infatti non può ritenersi affatto che si sia venuta a configurare nella fattispecie una violazione del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. essendo stata garantita la partecipazione dell’incolpato al procedimento disciplinare dinanzi alla CDD, che ha compiuto legittimamente l’attività istruttoria in funzione dell’accertamento o meno della sussistenza degli illeciti disciplinari contestati a suo carico, dando seguito, in proposito, allo svolgimento delle udienze necessarie per l’espletamento della stessa (e la circostanza che l’incolpato non abbia partecipato a quelle in cui erano state assunte alcune testimonianze non è stata ritenuta riconducibile ad un legittimo impedimento dello stesso, né quest’ultimo, nell’esposizione del motivo, chiarisce – in osservanza del principio di specificità della censura – in che cosa potesse essere consistito e come lo avesse fatto valere, senza che, in ogni caso, il suo diritto alla “controprova” sia risultato in concreto leso).
Né, diversamente da quanto assume lo stesso ricorrente, dal combinato disposto dei richiamati articoli 20-24 del regolamento (n. 2 del 21 febbraio 2014) che disciplina il procedimento disciplinare si evince la previsione della necessaria osservanza di termini perentori per la definizione del procedimento stesso né che l’istruttoria non possa svolgersi, ove la stessa lo imponga, in più udienze, ferma rimanendo l’imprescindibilità del rispetto del diritto dell’incolpato alla sua partecipazione, che, nel caso di specie, è stato garantito.
Pertanto, l’eventuale rinvio della fase dibattimentale funzionale all’assunzione di prove non assurge a motivo di nullità del procedimento disciplinare e ciò anche in conformità a quanto ritenuto sia per il procedimento civile che per quello penale, nemmeno quando siano violati i termini, pacificamente ordinatori, previsti dall’art. 81, comma 2, disp. att. c.p.c. (per il giudizio civile) e dall’art. 477 c.p.p. (per il giudizio penale), quest’ultimo evocato dal ricorrente.
In via generale va, quindi, affermato che il procedimento disciplinare di primo grado ha sì natura amministrativa, ma speciale, in quanto disciplinato specificamente dalle norme dell’Ordinamento forense, che non contengono termini perentori per l’inizio, lo svolgimento e la definizione del procedimento stesso davanti al Consiglio territoriale all’infuori di quelli posti a tutela del diritto di difesa, nonché di quello di prescrizione dell’azione disciplinare. In tale procedimento, pertanto, non trovano applicazione gli artt. 24 Cost. e 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di ragionevole durata del processo, né l’art. 2 della legge n. 241/1990 sulla durata del procedimento amministrativo, giacché la mancata previsione di un termine finale del procedimento disciplinare è coessenziale al fatto che esso debba avere una durata sufficiente per consentire all’incolpato di sviluppare compiutamente la propria difesa.
Il CNF, nell’impugnata decisione, ha, poi, adeguatamente motivato sulla irrilevanza – ai fini della definizione del procedimento disciplinare – dell’intervenuta transazione tra l’incolpato e la sua cliente che aveva presentato l’esposto nei suoi confronti. Infatti, è indiscutibile che un eventuale accordo tra l’avvocato e il suo assistito nel corso del procedimento disciplinare non può influire sul corso dello stesso (comportandone la possibile interruzione od estinzione), poiché l’esercizio del potere disciplinare è previsto a tutela di un interesse pubblicistico (come tale non rientrante nella disponibilità delle parti), rimanendo perciò intatto, per l’organo disciplinare, il potere di accertamento della responsabilità del professionista per gli illeciti a lui legittimamente contestati.
7. Anche il terzo motivo non è fondato e va, perciò, respinto.
Infatti, diversamente da quanto dedotto dal ricorrente, il CNF ha sufficientemente motivato (e, quindi, non in modo apparente) sulla valutazione delle emergenze probatorie e sul loro grado di attendibilità, ponendo decisivo riferimento – nell’esplicazione del suo legittimo potere selettivo delle prove ritenute maggiormente conferenti nell’esercizio del correlato prudente apprezzamento) – alla deposizione dettagliata e credibile della cliente che aveva presentato l’esposto che a quella di un teste imparziale (in relazione alla quale non sussiste certamente la violazione dell’art. 246 c.p.c.), che aveva confermato il comportamento scorretto dell’avv. Longarini nel promettere, contrariamente al vero, di non chiedere onorari per l’eventuale difesa della sua assistita nei gradi successivi. E, del resto, già la CDD aveva riscontrato compiutamente l’avvenuta consumazione delle condotte che avevano determinato l’instaurazione del procedimento disciplinare a carico dell’avv. Longarini e la stessa esposizione circostanziata dei capi di incolpazione rende evidente l’avvenuto accertamento effettivo e completo dei fatti contestati a suo carico.
8. L’ultimo motivo è propriamente inammissibile sia perché non sussiste alcuna violazione degli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. (essendo la motivazione adottata dal CNF adeguata e logica, per quanto già in precedenza chiarito), sia perché implica – inammissibilmente in questa sede – la sollecitazione a rivalutare le risultanze di merito sia perché con esso si denuncia un vizio di carente (perciò insufficiente) e contraddittoria motivazione, non più deducibile in cassazione ai sensi del novellato disposto del n. 5) dell’art. 360 c.p.c. (applicabile “ratione temporis” nel caso in questione), secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte (cfr. SU n. 8053 e 8054/2014).
Infatti, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Si precisa al riguardo che tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (v., più recentemente, anche Cass. n. 23940/2017 e n. 22598/2018).
9. In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, il proposto ricorso deve essere integralmente respinto, con conseguente assorbimento della formulata istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva dell’impugnata decisione.
In difetto della costituzione delle parti intimate non v’è luogo a provvedere sulle spese.
Infine, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio delle Sezioni unite in data 15 settembre 2020.
Il Consigliere estensore Il Primo Presidente
dr. Aldo Carrato dr. Pietro Curzio
Allegati:
SS.UU, 27 ottobre 2020, n. 23593, in tema di procedimento disciplinare
Nota della Dott.ssa Valentina Petruzziello
La natura giuridica del procedimento disciplinare a carico degli avvocati
1. Il principio di diritto
Il procedimento disciplinare di primo grado, dinanzi i COA (ora CDD) ha sì natura amministrativa (e non giurisdizionale), ma speciale, in quanto è normato specificamente dalle disposizioni sull'ordinamento forense, che non contengono termini perentori per l'inizio, lo svolgimento e la definizione del procedimento stesso, all'infuori di quelli posti a tutela del diritto di difesa, nonché di quelli di prescrizione dell'azione disciplinare.
Ne consegue che in tale procedimento non trovino applicazione gli artt. 24 Cost. e 6 CEDU in tema di ragionevole durata del processo, né l'art. 2 della L. 241/1990 sulla durata del procedimento amministrativo, giacché la mancata previsione di un termine finale è coessenziale al fatto che esso debba avere una durata sufficiente per consentire all'incolpato di sviluppare compiutamente la propria difesa.
2. La questione di massima di particolare importanza
La Suprema Corte affronta la questione della rilevanza dei termini nei giudizi disciplinari anche dinanzi al CNF.
Riprendendo un recente arresto (cfr., SS.UU, 24 gennaio 2019, n. 2084), le Sezioni Unite chiariscono la natura giurisdizionale del procedimento de quo, che si svolge dinanzi ad un giudice speciale istituito ai sensi dell’art. 21 del D.lgs. 382/1944; l’attribuzione al Consiglio Nazionale Forense di funzioni amministrative, accanto a quelle propriamente giurisdizionali, non ne altera l'indipendenza quale organo giudicante.
3. Conseguenze operative
Viene definitivamente chiarito che i giudizi disciplinari hanno natura amministrativa dinanzi i COA (ora CDD), e natura giurisdizionale dinanzi il CNF, con tutto quel che ne deriva.