Civile Sent. Sez. U Num. 16723 Anno 2020
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: SCARPA ANTONIO
Data pubblicazione: 05/08/2020
SENTENZA
sul ricorso 4195-2015 proposto da:
FRESH & FRUIT S.R.L., elettivamente domiciliata in Roma, via Cicerone 49 presso lo studio dell’Avvocato GIUSEPPA DE BELLO, rappresentata e difesa dall’Avvocato GIOVANNI QUERO;
– ricorrente –
contro
TERRUSI VITO, elettivamente domiciliato in Roma, via Tuscolana n. 1120, presso lo studio dell’Avvocato ALESSIA IOSSA, rappresentato e difeso dall’Avvocato ROSARIO ORLANDO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 39/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE, SEZIONE DISTACCATA di TARANTO, depositata il 19/01/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/07/2020 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO, il quale ha concluso chiedendo l’accoglimento del primo motivo di ricorso e l’assorbimento dei restanti motivi;
uditi gli Avvocati Quero ed Orlando.
FATTI DI CAUSA
La s.r.l. Fresh & Fruit ha proposto ricorso articolato in quattro motivi avverso la sentenza n. 39/2015 della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, pubblicata il 19 gennaio 2015.
Resiste con controricorso Vito Terrusi.
Vito Terrusi, con ricorso monitorio del 13 luglio 2007, domandò al Tribunale di Taranto di ingiungere alla s.r.l. Fresh & Fruit il pagamento della somma di C 46.912,23, a titolo di corrispettivo della vendita di uva, documentata da fattura commerciale n. 07 dell’8 ottobre 2007. L’opponente s.r.l. Fresh & Fruit dedusse però che il contratto di vendita dell’uva dell’agosto 2006, per il quale era stato versato un acconto di C 20.000,00, era poi stato risolto consensualmente, riducendosi il prezzo ad C 29,00 per quintale, per un complessivo prezzo di C 80.000,00 (come da fattura n. 02 del 29 agosto 2006), a causa della cattiva qualità della merce e per evitare un contenzioso. Avendo l’acquirente corrisposto la residua somma di C 60.000,00, la stessa assumeva che il credito intimato col decreto ingiuntivo non avesse alcuna fondatezza. L’opposto Vito Terrusi replicò che si trattava di distinte forniture, una “a quintale”, di cui alla fattura n. 07, ed una “in blocco”, di cui alla fattura n. 02. Espletata prova testimoniale, il Tribunale di Taranto ritenne mancante la prova del credito azionato ed accolse l’opposizione a decreto ingiuntivo.
Proposto appello da Vito Terrusi, la Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con sentenza del 19 gennaio 2015, accolse il gravame, così respingendo l’opposizione a decreto ingiuntivo formulata dalla s.r.l. Fresh & Fruit. Ad avviso dei giudici di secondo grado, l’allegata risoluzione del primo contratto di vendita intercorso fra le parti, dovuta alla cattiva qualità del prodotto, con rideterminazione del prezzo in complessivi C 80.000.00 (previa riduzione del prezzo a quintale in C 29,00), integrando una transazione, avrebbe dovuto essere provata per iscritto, ai sensi dell’art. 1967 c.c. La Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha reputato a tal fine irrilevante la deposizione del teste Donno, ed ha evidenziato come la società acquirente non avesse specificamente controdedotto circa l’avvenuta conclusione, allegata da Vito Terrusi, di due distinte vendite, una “in blocco”, di cui alla fattura n. 2/2006 per C 80.000,00, ed altra “a peso”, di cui alla fattura n. 7/2006 per C 46.000,00, posta quest’ultima a fondamento della domanda monitoria.
L’esistenza di un secondo contratto di vendita d’uva “a peso”, secondo la sentenza impugnata, sarebbe dimostrata dalla documentazione inerente ai prelievi di prodotto tra il 13 ed il 21 agosto 2006 al prezzo di C 0,38 per Kg, nonché dalla stessa testimonianza di Nicola Donno.
La trattazione del ricorso veniva dapprima fissata per il 31 gennaio 2019 in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, comma 2, e 380 bis.1, c.p.c., quindi nell’udienza pubblica del 6 maggio 2019, all’esito della quale la Seconda Sezione civile, con ordinanza interlocutoria n. 30244/2019 del 20 dicembre 2019, ha disposto la trasmissione al Primo Presidente per la rimessione delle decisione alle Sezioni Unite, ravvisando difformità delle pronunce nelle sezioni semplici sulla questione di diritto da esaminare, e comunque la particolare importanza della stessa questione di massima.
Il Primo Presidente ha così disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite. E’ stata altresì acquisita la relazione predisposta dell’Ufficio del massimario.
Venne rinviata l’udienza pubblica inizialmente fissata per il giorno 24 marzo 2020.
Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
In via pregiudiziale, la procura speciale conferita dalla s.r.l. Fresh & Fruit all’avvocato Giovanni Quero per atto Notaio Balestra del 10 marzo 2020 supera l’eccezione di irritualità della nomina del nuovo difensore della ricorrente sollevata dal controricorrente, in rapporto all’art. 83, comma 3, c.p.c., nella formulazione applicabile per i giudizi instaurati prima della novella di cui alla legge 18 giugno 2009, n. 69.
I. Il primo motivo del ricorso della s.r.l. Fresh & Fruit denuncia la violazione dell’art. 111 Cost., dell’art. 1967 c.c. e degli artt. 157 e 345 c.p.c., quanto alla validità ed alla utilizzabilità delle prove. Si assume che la Corte d’appello abbia arbitrariamente dichiarato la nullità o la inutilizzabilità della prova testimoniale ammessa ed espletata in primo grado per la pretesa inosservanza dell’art. 1967 c.c., reputando che fosse intervenuta tra le parti una transazione da provarsi per iscritto e non mediante testimoni. Trattandosi di scrittura richiesta dalla legge ad probationem e non ad substantiam, la relativa carenza, secondo la ricorrente, non poteva essere rilevata d’ufficio dal giudice, senza che le parti avessero eccepito alcunché al riguardo né al momento dell’ammissione, né al momento dell’espletamento, né dopo l’assunzione della prova per testi, né con l’atto di appello. Essendo avvenuto verbalmente il contratto di compravendita, avrebbe potuto svolgersi in tale forma anche la risoluzione consensuale dello stesso (qualificazione più corretta, secondo la ricorrente, che non ravvisa proprio l’esistenza di una transazione).
Il secondo motivo del ricorso della s.r.l. Fresh & Fruit deduce in rubrica l’omesso esame circa un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ma il contenuto della censura allega, in realtà, la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, la quale avrebbe dapprima definito irrilevante la deposizione testimoniale del mediatore Nicola Donno, giacché non ammessa in forza dell’art. 1967 c.c., e poi avrebbe invece tratto dalla medesima deposizione la prova di due distinti contratti di vendita e dei rispettivi elementi costitutivi.
Anche il terzo motivo del ricorso della s.r.l. Fresh & Fruit denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non avendo la Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, tenuto in nessun conto le dichiarazioni rese dai testimoni Giangrazio De Filippis e Michele Lorusso, che vengono per intero trascritte nel motivo. Di seguito, la ricorrente critica il punto della sentenza impugnata che ha attribuito al teste Donno l’affermazione di “valutazioni giuridiche”, sicché viene per intero trascritta in ricorso anche la relativa deposizione del teste.
Il quarto motivo di ricorso allega la violazione dell’art. 2697 c.c. sull’onere della prova, sull’oggetto e sulla rispettiva ripartizione, avendo la Corte d’appello gravato l’opponente compratrice di dare dimostrazione della quantità d’uva prelevata all’epoca della transazione, nonché della unicità del contratto, ovvero del prezzo dei due diversi accordi. Per convalidare l’assunto della carenza probatoria che affliggerebbe, piuttosto, la pretesa di Vito Terrusi, vengono trascritte in questo motivo di ricorso le risposte date dai testimoni Giovanni Bongermino, Francesco Gigante e Domenico Terrusi.
II. Occorre iniziare dall’esame separato del primo motivo di ricorso.
II.1. Va dunque considerato come la s.r.l. Fresh & Fruit, opponente a decreto ingiuntivo, abbia dedotto che, a fronte di un originario contratto di vendita di massa, avente ad oggetto l’uva prodotta da un fondo di Vito Terrusi, con determinazione di un prezzo correlato al peso della merce prelevata, essendo tra le parti insorte contestazioni sulla qualità della frutta, in data 29 agosto 2006 si risolse il primo accordo e si determinò un prezzo globale di C 80.000,00 per tutta la merce prelevata.
La sentenza impugnata ha apprezzato in fatto che detta seconda convenzione allegata dalla s.r.l. Fresh & Fruit dovesse qualificarsi come transazione, avendo essa preso atto dei vizi della merce venduta ed operato una riduzione del corrispettivo per dirimere il contrasto fra le parti, così modificando la fonte del rapporto giuridico preesistente con effetto novativo, in maniera da determinare l’estinzione del primo accordo e la costituzione di un nuovo programma obbligatorio, diretto a generare autonome situazioni giuridiche, in sostituzione di quelle precedenti.
Non vi è, dunque, alcuna assoluta incompatibilità logica tra la transazione, ravvisata dalla Corte d’appello, e la mera risoluzione consensuale, che prospetta la ricorrente, senza peraltro censurare specificamente la qualificazione negoziale delineata nella sentenza impugnata, fermo restando che la risoluzione per mutuo consenso si esaurisce in un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio preesistente, mentre qui la stessa allegazione difensiva della s.r.l. Fresh & Fruit postulava che l’accordo del 29 agosto 2006, raggiunto con l’intervento del mediatore Nicola Donno, avesse altresì dato luogo ad un nuovo assetto sostanziale dei diritti e degli obblighi spettanti ai contraenti.
E poi indubbio che l’onere di provare la transazione incombe sulla parte che ne invoca gli effetti estintivi sul debito oggetto del giudizio.
La Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha tuttavia affermato che la transazione, dedotta dalla società opponente a decreto ingiuntivo, non poteva ritenersi provata sulla base della testimonianza resa al riguardo da Nicola Donno, necessitando di prova per iscritto in forza dell’art. 1967 c.c.
II.2. Ora, una diffusa interpretazione premette che la prescrizione dell’art. 1967 c.c., secondo cui la transazione deve essere provata per iscritto, postula che tutti gli elementi costitutivi del negozio transattivo (quali, in particolare, le reciproche concessioni) debbano risultare dal documento, non essendo possibile ricorrere, neppure a fini integrativi, alla prova per testimoni o per presunzioni (Cass. Sez. 2, 28 aprile 2005, n. 8875; Cass. Sez. 3, 3 marzo 1999, n. 1787; Cass. Sez. 3, 6 gennaio 1983, n. 75; Cass. Sez. 1, 19 luglio 1979, n. 4298). Altre volte si è, peraltro, affermato che, proprio perché nel contratto di transazione la prova scritta è richiesta dalla legge soltanto ad probationem (quando non ricorrano gli estremi della forma a pena di nullità, ai sensi dell’art. 1350 n. 12 c.c.), non osterebbe alla qualificabilità di un contratto come transazione il fatto che le reciproche concessioni tra le parti, intese a far cessare la situazione di dubbio in atto, non siano specificamente indicate nel documento, ma emergano dal complesso dell’atto, nonché da elementi eventualmente esterni ad esso (Cass. Sez. 3, 8 giugno 2007, n. 13389). E’ stato pure ritenuto che la prova della transazione possa ritrarsi da un documento sottoscritto da una sola parte, ove risulti il consenso solo tacito, purché univoco, dall’altra parte (Cass. Sez. 1, 13 luglio 1978, n. 6825; Cass. Sez. L, 16 maggio 1996, n. 4542).
II.3. Ciò premesso sotto il profilo dell’atto soggetto a forma ad probationem, sotto, invece, il profilo dei correlati limiti della prova per testimoni, come evidenzia l’ordinanza interlocutoria n. 30244/2019 resa dalla Seconda Sezione civile, si registra un cospicuo orientamento giurisprudenziale secondo il quale, mentre in materia di atti e contratti per i quali la forma scritta è richiesta ad substantiam, la prova testimoniale dell’esistenza del negozio è del tutto inammissibile, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento, e tale inammissibilità può essere dedotta in ogni stato e grado del giudizio ed essere rilevata anche d’ufficio, per quanto riguarda, invece, gli atti e i contratti per i quali la forma scritta è richiesta soltanto ad probationem, l’inammissibilità della prova testimoniale, non attenendo all’ordine pubblico, ma alla tutela di interessi privati, non può essere rilevata d’ufficio e la correlata nullità deve essere tempestivamente eccepita dalla parte interessata, entro il termine dell’art. 157, comma 2, c.p.c., nella prima istanza o difesa successiva al suo configurarsi, con la conseguenza che la prova ammessa oltre i limiti predetti deve ritenersi altrimenti ritualmente acquisita, in conformità alle regole generali in tema di nullità di carattere relativo riguardanti l’ammissione e l’espletamento della prova in violazione degli artt. 2721 e ss. c.c. (Cass. Sez. L, 3 giugno 2015, n. 11479; Cass. Sez. 1, 25 giugno 2014, n. 14470; Cass. Sez. 3, 30 marzo 2010, n. 7765; Cass. Sez. 2, 30 maggio 2005, n. 11389; Cass. Sez. 1, 20 febbraio 2004, n. 3392; Cass. Sez. 2, 8 gennaio 2002, n. 144; Cass. Sez. 3, 12 maggio 1999, n. 4690; Cass. Sez. 1, 16 marzo 1996, n. 2213; Cass. Sez. L, 1 ottobre 1991, n. 10206; Cass. Sez. 2, 10 aprile 1990, n. 2988; Cass. Sez. 3, 12 luglio 1979, n. 4047; Cass. Sez. 3, 25 maggio 1979, n. 3053; Cass. Sez. 3, 24 novembre 1969, n. 3814; Cass. Sez. 3, 22 giugno 1968, n. 2095; Cass. Sez. 3, 29 aprile 1965, n. 772). Ove, pertanto, la parte interessata non si sia opposta alla richiesta di ammissione della prova testimoniale relativa ad un contratto da provare per iscritto, sollevando tempestivamente l’eccezione all’atto dell’assunzione secondo le modalità di cui all’art. 157, comma 2, c.p.c., nonché riproponendo la questione in sede di precisazione delle conclusioni ed in appello, la relativa nullità dovrebbe intendersi sanata, ed al giudice dell’impugnazione, cui sia sottoposta una doglianza che investa la valutazione dei risultati di tale mezzo di prova, resterebbe preclusa ogni indagine ex officio in punto di ammissibilità della prova per testimoni.
II.4. L’ordinanza interlocutoria n. 30244/2019 segnala, tuttavia, l’esistenza nella giurisprudenza di questa Corte di una contrapposta interpretazione, evincibile nella motivazione di Cass. Sez. 3, 14 agosto 2014, n. 17986, in base alla quale, quando, per legge o per volontà delle parti, sia prevista per un certo contratto la forma scritta ad probationem, la prova testimoniale che abbia ad oggetto, implicitamente o esplicitamente, l’esistenza del medesimo è inammissibile, salvo che non sia volta a dimostrare la perdita incolpevole del documento, così come è inammissibile la connessa prova per presunzioni; né siffatta inammissibilità della prova testimoniale, derivante dal conflitto con le norme che la vietano, potrebbe dirsi sanata dalla mancata tempestiva opposizione della parte interessata, visto che la sanatoria per acquiescenza riguarda soltanto le decadenze e le nullità previste per la prova testimoniale dall’art. 244 c.p.c. (in tema di modo di deduzione), non anche la prova testimoniale illegittimamente ammessa, di talché la relativa eccezione potrebbe essere utilmente formulata anche dopo l’espletamento della prova vietata. Questa interpretazione osserva come la tesi che ravvisa un diverso regime processuale in ordine al rilievo dell’inammissibilità della prova testimoniale con riferimento ai contratti per i quali la forma scritta sia richiesta ad probationem ovvero ad substantiam, facendo leva su considerazioni metagiuridiche in ordine alla natura degli interessi coinvolti, non terrebbe conto della unitaria disciplina della prova testimoniale (e di quella connessa per presunzioni) relativa ai contratti per i quali la forma scritta è richiesta ad probationem ovvero ad substantiam, siccome dettata, rispettivamente, nei commi 1 e 2 dell’art. 2725 c.c. (e nel comma 2 dell’art. 2729 c.c.), per entrambi derogandosi al divieto di ammissione nella sola ipotesi di perdita incolpevole del documento.
Va peraltro considerato come Cass. Sez. 3, 14 agosto 2014, n. 17986, decidesse, in realtà, con riguardo ad un caso di mancata ammissione, da parte dei giudici del merito, della prova testimoniale di una transazione (e così anche la richiamata Cass. Sez. L, 9 gennaio 1996, n. 8838).
Viceversa, in Cass. Sez. 2, 8 marzo 1997, n. 2101, si affermò proprio che la mancata opposizione della parte interessata all’espletamento di una prova testimoniale erroneamente ammessa, giacché volta a dimostrare un contenuto difforme da quello risultante in forma documentale, occorrente ad probationem, non vale a sanare l’inammissibilità, operando una tale sanatoria unicamente per le nullità previste dall’art. 244 c.p.c. in tema di modalità di deduzione della prova ed indicazione delle persone da interrogare (così già Cass. Sez. 2, 23 agosto 1986, n. 5143).
II.5. E’ comunque evidente come l’art. 2725 c.c. parifichi, ai fini del divieto di ricorso alla prova per testimoni e della rispettiva eccezione costituita dallo smarrimento incolpevole del documento, i contratti per i quali la forma scritta sia richiesta ad probationem ed i contratti per i quali, invece, essa sia richiesta sotto pena di nullità.
Non è, dunque, sotto il profilo della inammissibilità della prova testimoniale, vedente sull’esistenza e sul contenuto di un contratto da provare per iscritto, che può ravvisarsi un contrasto interpretativo in giurisprudenza, quanto sotto il diverso profilo del regime di rilevabilità dell’eventuale violazione di tale divieto.
II.6. Queste Sezioni Unite ritengono che il ravvisato contrasto debba essere risolto prescegliendo la soluzione indicata nel primo e più diffuso dei richiamati orientamenti giurisprudenziali.
E’ uniforme nelle pronunce di questa Corte l’affermazione secondo cui, giacché i limiti di ammissione della prova testimoniale sull’esistenza di un contratto soggetto a forma scritta “ad substantiam” sono dettati da ragioni di ordine pubblico, l’inammissibilità della prova assunta oltre quei limiti può essere dedotta in qualsiasi stato e grado del giudizio, va rilevata anche d’ufficio e non è sanata dalla mancata tempestiva opposizione della parte interessata, la quale può eccepire il vizio discendente anche per la prima volta con motivo di appello (Cass. Sez. 2, 24 novembre 2015, n. 23934; Cass. Sez. 3, 12 maggio 1999, n. 4690; Cass. Sez. 2, 25/03/1987, n. 2902; Cass. Sez. 3, 25 gennaio 1974, n. 196; Cass. Sez. 1, 26 aprile 1969, n. 1352).
Quando, invero, la forma scritta è richiesta per la validità di un atto, in forza degli artt. 1350, 1351 e 1352 c.c., come ben si avverte pure in dottrina, la dichiarazione formalizzata, avendo funzione costitutiva, è inevitabilmente necessaria “anche” per la prova del negozio, restando di regola il difetto dello scritto, giacché causa di nullità, rilevabile altresì d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio secondo i principi enunciati da Cass. Sez. Unite, 12 dicembre 2014, n. 26242 e n. 26243, e da Cass. Sez. Unite, 4 settembre 2012, n. 14828.
Quando, invece, la forma scritta è imposta, secondo la legge o la volontà delle parti, per la prova di un contratto, la questione non è di “forma dell’atto”, ma di “forma della prova”, essendo la forma requisito non sostanziale, e cioè indispensabile per la validità del negozio, quanto processuale: la mancanza della scrittura comporta, allora, solo una limitazione sul terreno della prova, rendendo non ammissibile la testimonianza, qualunque sia il valore del contratto, e può però essere supplita con altri mezzi di particolare efficacia, quali la confessione od il giuramento, né impedisce l’esecuzione volontaria, la conferma o la ricognizione volontaria del negozio.
Si è detto, altrimenti, che, a differenza della forma ad substantiam, la forma prescritta in funzione soltanto della prova è estranea alla disciplina della fattispecie contrattuale e fa riferimento esclusivamente al giudizio in cui le parti vogliano far valere il negozio.
In tal senso, il limite che l’art. 2725 c.c. pone alla prova per testimoni di un contratto che debba essere provato per iscritto non attiene agli effetti sostanziali dell’atto, ma, al pari degli altri limiti legali di ammissibilità della prova testimoniale dei contratti (quali quelli fissati dagli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c.), è dettato nell’esclusivo interesse delle parti litiganti, le quali hanno perciò piena facoltà di rinunciare, anche tacitamente, e cioè con il loro comportamento processuale, alla sua applicazione.
L’argomento della congiunta collocazione, nei due commi nel medesimo articolo 2725 c.c., delle regole sulla testimonianza inerenti, rispettivamente, ai contratti da provare per iscritto ed ai contratti scritti ad substantiam, non si rivela così forte da indurre ad obliterare, sia pure ai limitati fini dell’ammissibilità della prova, le differenze che negli uni e negli altri riveste l’elemento formale, essendo la forma scritta solo nei secondi, come ricorda la stessa norma, “richiesta sotto pena di nullità”. Né depone per la forzata soggezione ad un identico regime applicativo di inammissibilità la comunanza, in entrambi i commi dell’art. 2725 c.c., della deroga rappresentata dallo smarrimento senza colpa del documento, essendo a sua volta tale ipotesi ripresa dalle eccezioni che l’art. 2724 c.c. riconosce per tutti i limiti di ammissione della prova per testimoni dei contratti.
II.7. E’, invero, pressoché unanime, in giurisprudenza come in dottrina, l’interpretazione secondo cui i limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale, di cui agli artt. 2721 e ss. c.c., sono dettati da norme di carattere dispositivo e, proprio perché posti nell’interesse delle parti, sono altresì da queste derogabili, anche alla stregua di un accordo implicito desumibile dalla mancata opposizione: si tratta, cioè, di limiti alla prova per testimoni che, salvo i casi di forma scritta ad substantiam, il giudice deve far valere sol quando uno dei contraenti (o dei loro eredi o aventi causa) contesti l’esistenza del contratto.
Mentre, dunque, le norme che prevedono preclusioni assertive ed istruttorie nel giudizio di cognizione, giacché ispirate all’esigenza di garantire la celerità e la concentrazione del processo civile, si intendono non dettate nell’esclusivo interesse delle parti (le quali possano perciò derogarvi esplicitamente o anche solo implicitamente), quanto dirette a garantire l’interesse pubblico a scongiurare l’allungamento dei tempi processuali (Cass. Sez. U, 11/05/2006, n. 10831), ovvero l’ordine pubblico processuale, riferibile ai principi inviolabili posti a garanzia del diritto di agire e di resistere in giudizio, con conseguente rilevabilità anche d’ufficio della loro inosservanza, la violazione delle formalità stabilite per l’ammissione della prova testimoniale, giacché ritenuta lesiva soltanto di interessi individuali delle parti, rimane affidata al meccanismo dell’art. 157, comma 2, c.p.c. (si veda già Cass. Sez. U, 13/01/1997, n. 264; poi, indicativamente, Cass. Sez. 3, 18/07/2008, n. 19942; Cass. Sez. 3, 17/10/2003, n. 15554; Cass. Sez. 3, 09/01/2002, n. 194).
Più in particolare, si afferma in giurisprudenza che le norme poste dal codice civile in materia di onere della prova e di ammissibilità ed efficacia dei vari mezzi probatori (a differenza delle norme attinenti alle modalità ed ai tempi delle deduzioni istruttorie) attengono al diritto sostanziale, tant’è che la loro violazione integra nel giudizio di cassazione errores in indicando e non in procedendo (Cass. Sez. L, 19/03/2014, n. 6332; Cass. Sez. 2, 04/02/2000, n. 1247). Non di meno, come visto, l’eccezione di irritualità della prova in rapporto a tali criteri sostanziali di ammissibilità ed efficacia, in assenza di un suo particolare regime, non viene assoggettata alle barriere preclusive di deducibilità che regolamentano l’introduzione nel processo dell’allegazione di un fatto impeditivo, ma, appunto, disciplinata secondo i principi che riguardano l’inosservanza delle norme sulla forma degli atti procedimentali.
L’invocazione del presidio allestito dall’art. 157, comma 2, c.p.c. sottende inevitabilmente, del resto, che si supponga mancante un requisito stabilito nell’interesse di una parte, salvo a voler immaginare una iniziale inammissibilità assoluta, perciò rilevabile anche d’ufficio, che si trasformi, secundum eventum litis, in una nullità relativa derivata.
II.8. Gli artt. 2721 e ss. c.c. danno luogo a regole epistemiche di esclusione della prova, volte ad evitare essenzialmente che di un contratto siano offerte contemporaneamente al giudice prove documentali e prove testimoniali, reputandosi queste ultime meno affidabili delle prime. La Relazione al Codice Civile, § 1114, illustrando la scelta di superare, con un regime di carattere generale, la diversità di disciplina in tema di limiti di ammissibilità della prova testimoniale che connotava il codice civile del 1865 e il codice di commercio del 1882, evidenziò come le disposizioni degli articoli 2721 e seguenti avessero attuato un «delicato contemperamento» di quelle «legittime diffidenze che ha sempre suscitate e suscita in materia contrattuale questo mezzo di prova con la necessità di non offendere d’altro canto le esigenze della buona fede, in quei casi in cui, anche fuori delle ipotesi dell’art. 2724, usi, necessità tecniche, condizioni di ambiente, relazioni personali tra contraenti od altre circostanze anche meramente contingenti possano spiegare o giustificare perché le parti non abbiano provveduto a procurarsi un documento scritto».
La costante applicazione giurisprudenziale di tali regole di esclusione della prova testimoniale dei contratti (come rileva, talvolta criticamente, pure la dottrina) ha poi subordinato l’operatività delle stesse, sotto un profilo processuale, al potere di eccezione spettante alla parte interessata. Questa diffusa interpretazione, non contenendo il codice di procedura civile, come pure già accennato, una distinta regolamentazione della inutilizzabilità processuale dei mezzi di prova, riconduce, infatti, al regime della nullità ex art. 156 c.p.c., ed in particolare a quello della nullità relativa, la violazione delle norme procedurali in materia di prove, ovvero, nella specie, la violazione dei limiti di ammissibilità della prova per testimoni, quando non siano in gioco contratti con forma scritta ad substantiam.
Analogamente si ragiona nelle sentenze con riguardo alla inammissibilità della prova per testimoni della simulazione, ai sensi dell’art. 1417 c.c., negandosene il rilievo giudiziale in assenza di un’espressa eccezione di parte (Cass. Sez. 3, 08/06/2017, n. 14274; Cass. Sez. 6 – 2, 17/07/2014, n. 16377; Cass. Sez. 2, 21/05/2007, n. 11771; Cass. Sez. 1, 19/01/2000, n. 551).
In alcune pronunce si è inteso precisare, peraltro, come sul piano delle definizioni occorrerebbe distinguere l’eccezione di inammissibilità delle prova testimoniale dedotta senza osservare le limitazioni di cui agli artt. 2721 e ss. c.c. dalla eccezione di nullità della prova assunta, operando la prima ex ante per impedire un atto invalido, e la seconda, invece, ex post per evitare che gli effetti di esso si consolidino. In tal modo, possono pure essere diversamente apprezzati gli interessi dalla medesima parte, la quale, valutata la prova, potrebbe ritenerne vantaggioso l’esito, che, in forza del principio di acquisizione, giova o nuoce indipendentemente da chi abbia dedotto il mezzo istruttorio (Cass. Sez. 6 – 3, 15/02/2018, n. 3763; Cass. Sez. 2, 19 settembre 2013, n. 21443; Cass. Sez. 6 – 2, 23/05/2013, n. 12784). Tale eccezione di inammissibilità ex ante costituirebbe comunque un’eccezione in senso proprio (Cass. Sez. 1, 20/02/2004, n. 3392; Cass. Sez. 2, 25/03/1995, n. 3550; Cass. Sez. L, 01/10/1991, n. 10206).
In ogni modo, poiché gli artt. 2721 e ss. c.c. sono accomunati dal prevedere i divieti della prova testimoniale dei contratti e le rispettive eccezioni, tutti stabiliti nell’esclusivo interesse delle parti private, e non nell’interesse pubblico al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, il regime di rilevabilità della eventuale deviazione dal modello legale non è officioso, ma viene lasciato alla disponibilità dei contendenti.
Così, l’eventuale inosservanza di dette limitazioni va necessariamente eccepita dalla parte interessata per opporsi alla richiesta di ammissione della prova; qualora, nonostante la preventiva eccezione di inammissibilità, la prova testimoniale sia stata egualmente assunta, la correlata nullità deve essere opposta dalla medesima parte nel cui interesse sostanziale è stabilito il requisito inosservato, secondo la scansione articolata dall’art. 157, comma 2, c.p.c. in funzione del corretto sviluppo dei poteri dei contendenti, verificandosene, in difetto, la sanatoria (Cass. Sez. 1, 19 febbraio 2018, n. 3956; Cass. Sez. 6 – 3, 15 febbraio 2018, n. 3763; Cass. Sez. 2, 19 settembre 2013, n. 21443; Cass. Sez. 1, 16 aprile 2008, n. 10062; Cass. Sez. 3, 14 febbraio 2006, n. 3186; Cass. Sez. 2, 3 aprile 1999, n. 3287; Cass. Sez. 2, 21 ottobre 1993, n. 10433; Cass. Sez. 1, 25 marzo 1976, n. 1069). Se l’interessato non abbia eccepito dapprima l’inammissibilità della deduzione istruttoria e poi la nullità della prova per testimoni comunque assunta, tale nullità non potrà più essere rilevata o eccepita per la prima volta in appello, e, tanto meno, in sede di legittimità (Cass. Sez. 3, 13 marzo 2012, n. 3959; Cass. Sez. 2, 25 marzo 1995, n. 3550; Cass. Sez. 2, 3 ottobre 1979, n. 5068; Cass. Sez. 2, 10 luglio 1962, n. 1828).
Peraltro, il principio secondo cui la nullità per violazione dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale sanciti dagli artt. 2721 e ss. c.c. rimane sanata, se non tempestivamente eccepita dalla parte interessata, non interferisce con il generale potere giudiziale di revoca delle ordinanze istruttorie attribuito dall’art. 177 c.p.c., né con il controllo affidato al collegio in sede di decisione della causa ai sensi dell’art. 178, comma 1, c.p.c., non essendo comunque tali strumenti esercitabili al fine di rilevare inammissibilità o nullità di cui il giudice non può disporre.
Rimane integro, in ogni caso, il potere del giudice di valutare secondo il suo prudente apprezzamento la prova testimoniale comunque assunta in ordine ai diritti ed agli obblighi derivanti dal contratto, alla volontà dei contraenti ed alla portata delle varie pattuizioni.
II.9. L’essere, del resto, la forma scritta ad probationem onere di natura disponibile, attinente esclusivamente alla tutela degli interessi privati delle parti, e perciò dalle stesse derogabile pure con un patto tacito (desumibile “per facta concludentia” dalla loro condotta, eventualmente consistente proprio nella rinuncia all’applicazione del limite della prova testimoniale ex art. 2725 c.c.), costituisce argomento utilizzato anche per giustificare l’operatività al riguardo del principio della «non contestazione». Ad esempio, si è di frequente sostenuto in giurisprudenza che, qualora siano pacifici tra le parti la stipula di una transazione e il suo contenuto (salvo quando riguardi uno dei rapporti di cui all’art. 1350 n. 12 c.c.), il giudice deve reputare tali fatti non bisognosi di prova e tenerne conto ai fini della decisione, a nulla rilevando la mancata produzione di un atto sottoscritto dai contraenti idoneo a documentare la conclusione dell’accordo (Cass. Sez. 3, 19 ottobre 2006, n. 22395; Cass. Sez. 3, 12 dicembre 2003, n. 19052; Cass. Sez. 2, 13 aprile 1999, n. 3621).
In tal senso, così come la non contestazione della stipula e del contenuto di un contratto scritto ad probationem, pur non surrogando la prova di tali fatti, rende la stessa superflua, può avvenire che le parti di un simile contratto, per quanto in disaccordo sui diritti e sugli obblighi da esso derivanti, non si oppongano al ricorso alla prova testimoniale, non facendo valere il limite di ammissibilità di cui all’art. 2725, comma 1, c.c.
Rimane evidente come del tutto diverse siano le conclusioni da adottare quando il rapporto litigioso si fonda su contratto che postula la forma scritta ad substantiam, in quanto il principio processuale di disponibilità dei fatti di causa e la derogabilità dei limiti oggettivi della prova testimoniale devono qui confrontarsi con la rilevabilità ex officio della nullità del negozio derivante dalla mancanza di uno dei requisiti di cui all’art. 1325 c.c.
11.10. In definitiva, a composizione della difformità di pronunce sulla individuata questione, va enunciato il seguente principio di diritto:
“L’inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell’art. 2725, comma 1, c. c., attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell’ammissione del mezzo istruttorio; qualora, nonostante l’eccezione d’inammissibilità, la prova sia stata egualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall’art. 157, comma 2, c.p.c., rimanendo altrimenti la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione”.
III. Facendo applicazione di tale principio nel caso in esame, il primo motivo di ricorso della s.r.l. Fresh & Fruit deve essere accolto. La Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, pronunciando sul gravame avanzato da Vito Terrusi contro la decisione di primo grado, col quale si ponevano doglianze unicamente in punto di ricostruzione dei fatti, di valutazione delle risultanze istruttorie e di attendibilità delle prove testimoniali assunte, ha compiuto un indebito rilievo d’ufficio della inammissibilità della prova testimoniale resa da Nicola Donno in primo grado, in assenza di tempestive eccezioni delle parti, con riguardo alla dedotta transazione intervenuta tra i contraenti, volta a costituire un nuovo programma obbligatorio in sostituzione di quello preesistente.
L’accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l’assorbimento delle restanti tre censure, dovendo comunque il giudice di rinvio procedere ad un nuovo esame dei fatti acquisiti uniformandosi al principio di diritto enunciato sulla questione oggetto del medesimo motivo accolto.
La sentenza impugnata va cassata, con rinvio dalla causa alla Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi al principio di diritto enunciato e provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.
P. Q. M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 10 luglio 2020.
Il Consigliere estensore
Il Presidente
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 20 dicembre 2019, n. 30244, per SS.UU, 05 agosto 2020, n. 16723, in tema di prova testimoniale
SS.UU, 05 agosto 2020, n. 16723, in tema di prova testimoniale
Nota della Avv. Valentina Petruzziello
L’eccezione e la rilevabilità dell’inammissibilità della prova testimoniale del contratto seguono regole diverse a seconda che la forma scritta sia prescritta ad probationem o ad substantiam
1. Il principio di diritto
L'inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell'art. 2725, c. 1, c.c., attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell'ammissione del mezzo istruttorio.
Qualora, nonostante l'eccezione di inammissibilità, la prova sia stata ugualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall'art. 157, c. 2, c.p.c., rimanendo altrimenti ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione.
2. Il contrasto risolto
Le Sezioni Unite dirimono il contrasto giurisprudenziale avente ad oggetto l’eccezione di inammissibilità della prova testimoniale relativa ad un contratto la cui forma scritta sia richiesta ad probationem.
Difatti, secondo un cospicuo orientamento giurisprudenziale (Cass. Sez. 1, 3 giugno 2015, n. 11479; Cass. Sez. 3, 30 marzo 2010, n. 7765), occorreva operare una distinzione a seconda del tipo di forma scritta cui il contratto è soggetto perché, mentre in materia di atti e contratti per i quali la forma scritta era richiesta ad substantiam, la prova testimoniale dell'esistenza del negozio risultava del tutto inammissibile, salvo che nell'ipotesi di perdita incolpevole del documento.
Detta inammissibilità poteva essere dedotta in ogni stato e grado del giudizio ed essere rilevata anche d'ufficio.
Di converso, per gli atti e i contratti per i quali la forma scritta era richiesta soltanto ad probationem, l'inammissibilità della prova testimoniale, non attenendo all'ordine pubblico, ma alla tutela di interessi privati, poteva essere rilevata d'ufficio e la correlata nullità doveva essere tempestivamente eccepita dalla parte interessata, entro il termine dell'art. 157, c. 2, c.p.c., nella prima istanza o difesa successiva al suo configurarsi.
Ne conseguiva che, ove la parte interessata non si fosse opposta alla richiesta di ammissione della prova testimoniale relativa ad un contratto da provare per iscritto, sollevando tempestivamente l'eccezione all'atto dell'assunzione secondo le modalità di cui all'art. 157, c. 2, c.p.c., o riproponendo la questione in sede di precisazione delle conclusioni ed in appello, la relativa nullità sarebbe stata sanata, ed al giudice dell'impugnazione sarebbe stata preclusa ogni indagine ex officio in punto di ammissibilità della prova per testimoni.
Per una contrapposta interpretazione, evincibile nella motivazione di Cass. Sez. 3, 14 agosto 2014, n. 17986, quando, per legge o per volontà delle parti, veniva prevista per un certo contratto la forma scritta ad probationem, la prova testimoniale che, implicitamente o esplicitamente, riguardava l'esistenza del medesimo era considerata inammissibile, a meno che essa non era volta a dimostrare la perdita incolpevole del documento.
Né tale inammissibilità poteva dirsi sanata dalla mancata tempestiva opposizione della parte interessata, visto che la sanatoria per acquiescenza riguardava soltanto le decadenze e le nullità previste per la prova testimoniale dall'art. 244 c.p.c e non anche la prova testimoniale illegittimamente ammessa, pertanto la relativa eccezione poteva essere utilmente formulata anche dopo l'espletamento della prova vietata.
3. Conseguenze operative
La Suprema Corte ritiene che il ravvisato contrasto debba essere risolto prescegliendo la soluzione indicata nel primo e più diffuso dei richiamati orientamenti giurisprudenziali.
La diversa disciplina da adottare è giustificata dal fatto che la forma scritta ad probationem è un onere di natura disponibile, attinente esclusivamente alla tutela degli interessi privati delle parti, e perciò dalle stesse derogabile pure con un patto tacito.
Ove l’ordinamento stabilisce che un rapporto tra privati possa essere regolato con atto per cui la forma scritta è richiesta ad probationem, le parti possono modificarlo senza necessità di forma scritta nonché provarlo a mezzo testimoni.
Del tutto diverse siano le conclusioni da adottare quando il rapporto litigioso si fonda su contratto che postula la forma scritta ad substantiam, in quanto il principio processuale di disponibilità dei fatti di causa e la derogabilità dei limiti oggettivi della prova testimoniale devono qui confrontarsi con la rilevabilità ex officio della nullità del negozio derivante dalla mancanza di uno dei requisiti di cui all'art. 1325 c.c..