Civile Sent. Sez. U Num. 18640 Anno 2022
Presidente: MANNA FELICE
Relatore: RUBINO LINA
Data pubblicazione: 09/06/2022
SENTENZA
sul ricorso 9132-2017 proposto da:
ANTINORI MARIA, DI FRAIA LUIGI, SABATINO GIUSEPPINA, BERTOGLIO RAFFAELLA, CASATI STEFANO, CENCI MASSIMO, BERNARDINI BETTI LUCA, CONFORTO FIAMMETTA, ALABISO GIUSEPPE, ARENI STEFANO, BALATA RITA ANGELA PATRIZIA, BARBANTI PIERO, CALZONI SERGIO, ALBERICO ANGELA, DI CASTRO MARICA, BASSAN FRANCO, BOTTACCIO ANNA, CASCONE ANGELINA, ARCIDIACONO GIUSEPPE, CASTAGNA GIOVANNA, CUTILLO GIUSEPPE, DE SANCTIS PIERPAOLO, DI GIOIA ROBERTO, CILIBERTI CIRO, DAL DOSSO IVANO, CHELI ANNA, CELANO ALDO, DE SANCTIS VITALIANA, ACCORSI PATRIZIA, BASILE ROSARIA MARIA CRISTINA, BRESCIANI EMANUELA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VALADIER, 43, presso lo STUDIO LEGALE ROMANO, rappresentati e difesi dagli avvocati GIOVANNI ROMANO;
– ricorrenti –
contro
REPUBBLICA ITALIANA, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– controrícorrenti –
avverso la sentenza n. 5879/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 06/10/2016.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/03/2022 dal Consigliere LINA RUBINO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale RITA SANLORENZO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito gli avvocati Giovanni Romano e Fabrizio Fedeli per l’Avvocatura Generale dello Sato.
FATTI DI CAUSA
1. – Con sentenza resa in data 6/10/2016, n.5849\2016, la Corte d’appello di Roma, in accoglimento dell’appello proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda originariamente proposta dai ricorrenti indicati in epigrafe (la dott.ssa Angela Alberico ed altri 30 medici) per la condanna dell’Amministrazione convenuta al risarcimento, in favore degli attori, dei danni da questi ultimi sofferti a seguito del mancato recepimento, da parte dello Stato italiano, delle direttive comunitarie 75/363/CEE e 82/76/CEE, avendo detti attori, dopo il conseguimento della laurea in medicina, frequentato diversi corsi di specializzazione (con iscrizione tra il 1983 e il 1991), senza percepire l’equa remunerazione al riguardo prevista dalla disciplina comunitaria a carico di ciascuno Stato nazionale, dichiarando estinto il diritto per intervenuta prescrizione.
1.2. – A fondamento della decisione assunta, la corte territoriale, premessa la durata decennale del termine di prescrizione del diritto vantato dagli originari attori, e la decorrenza di detto termine dal 27 ottobre 1999 (data di entrata in vigore della legge n. 370 del 1999), ha dichiarato l’intervenuta prescrizione delle pretese degli attori, atteso che questi ultimi, pur avendo interrotto la prescrizione con l’instaurazione di un giudizio amministrativo (connesso alle prerogative esercitate in questa sede) nell’anno 2000, avevano perduto la possibilità di avvalersi dell’effetto interruttivo permanente del periodo di prescrizione connesso alla pendenza del giudizio amministrativo, essendosi quest’ultimo successivamente estinto senza la pronuncia di alcuna decisione, ai sensi dell’art. 2945, co. 3, c.c.; ciò posto, avendo gli attori compiuto l’ultimo atto interruttivo (corrispondente appunto all’instaurazione dell’indicato giudizio amministrativo) nell’anno 2000, e proposto l’azione civile per la condanna delle controparti al pagamento di quanto loro spettante solo nel luglio-agosto 2011, il credito dagli stessi vantato doveva ritenersi irrimediabilmente estinto per prescrizione.
2. – Avverso la sentenza d’appello, le parti indicate in epigrafe hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi d’impugnazione, illustrati da successiva memoria.
3. – La Presidenza del Consiglio dei Ministri resiste con controricorso illustrato da memoria.
4. La Procura generale ha depositato conclusioni scritte con le quali chiede il rigetto del ricorso.
5. – La trattazione del ricorso è stata dapprima rimessa alla adunanza camerale della Terza sezione civile, ai sensi dell’art. 380- bis.1. c.p.c. e, in vista di essa, i ricorrenti hanno depositato istanza rivolta al Primo Presidente per la rimessione della decisione alle Sezioni Unite, che è stata rigettata non sussistendo allo stato contrasti sulle questioni di cui al ricorso. Successivamente, la Terza Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 23848 del 2021, ha segnalato a sua volta la necessità di affrontare, preferibilmente da parte delle Sezioni Unite, alcune questioni di massima di particolare importanza sottese al ricorso, e la trattazione della causa è stata devoluta a questo Collegio.
6. — E’ necessario ripercorrere preliminarmente le tappe dell’attività giudiziaria intrapresa nel caso di specie dai medici specializzandi per ottenere l’equa remunerazione per il periodo di specializzazione, accuratamente ricostruite già dall’ordinanza interlocutoria, in quanto come si vedrà i motivi di ricorso fanno riferimento a specifici snodi di essa:
a) i medici convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, con ricorso del 19 febbraio 1992, il Ministero della Sanità, il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica, il Ministero del tesoro, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici, chiedendo l’annullamento del d.m. Ministero della Sanità del 17 dicembre 1991, emesso di concerto con il Ministero dell’Università e quello del Tesoro, con cui era stato determinato il numero dei medici specializzandi destinatari del nuovo regime giuridico emergente dalla I. n. 428 del 190 e dal d.lgs. n. 257 del 1991, dispositivi della tardiva attuazione delle direttive n. 75/363/CEE; b) del decreto del Ministero per la Ricerca Scientifica e Tecnologica 28 dicembre 1991, con cui si era provveduto all’assegnazione dei posti nelle scuole di specializzazione della Repubblica Italiana; c) di ogni altro atto lesivo emanato nell’adempimento della normativa comunitaria;
b) a sostegno del ricorso i medici facevano valere il fatto che la tardiva disciplina attuativa della normativa comunitaria li aveva esclusi dai benefici previsti nonostante che essi avessero frequentato i corsi di specializzazione in condizioni simili a quelle dei colleghi per cui essi operavano;
c) con sentenza n. 601 del 1993 il T.A.R. accoglieva il ricorso, rilevando che la normativa comunitaria tardivamente attuata non consentiva di distinguere i medici che avevano frequentato al momento del tardivo adempimento e quelli frequentanti dopo di esso, con conseguente illegittimità dei decreti interministeriali impugnati che al d.lgs. n. 257 del 1991 avevano dato esecuzione;
d) il Consiglio di Stato, con sentenza n. 735 del 1994 rigettava l’appello contro la sentenza del T.A.R. e le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 7140 del 1996, rigettavano il ricorso per motivi di giurisdizione contro la sentenza del Consiglio di Stato;
e) al dichiarato scopo di dare attuazione al giudicato così formatosi sulla sentenza del T.A.R. e su altre sentenze similari dello stesso T.A.R. Lazio indicate nominatím, lo Stato Italiano emanava l’art. 11 della I. n. 370 del 1999, dettando in esso le disposizioni che dai medici destinatari dei giudicati favorevoli dovevano osservarsi per chiedere l’attuazione del giudicato, prevedendo una serie di presupposti e un termine decadenziale antro il quale attivarsi da fissarsi con decreto ministeriale, che veniva poi emanato in data 14 febbraio 2000;
f) avverso quest’ultimo decreto i medici ricorrenti proponevano distinti ricorsi al T.A.R. Lazio in data 25 e 26 maggio 2000, iscritti ai nn. 9581 e 9589 del 2000, deducendo: f1) l’illegittimità del d.m. per avere previsto un termine decadenziale di appena 90 giorni per far valere i diritti di derivazione comunitaria, là dove il termine operante sarebbe stato prescrizionale e di dieci anni a sensi dell’art. 2946 c.c.; f2) la violazione del giudicato e la violazione dei diritti nascenti direttamente dall’obbligo della retribuzione fissato dalle direttive comunitarie, nonché delle disposizioni costituzionali degli articoli 3 e 97 e dell’articolo 1223 codice civile, in quanto, non avendo i ricorrenti all’epoca della specializzazione alcun sussidio economico, il condizionamento del riconoscimento di quanto previsto dalla legge al fatto di non lavorare altrimenti, non considerava che essi non avrebbero potuto mantenersi agli studi se non lavorando seppure part-time e determinava una disparità di trattamento rispetto a chi si trovava in condizioni economiche favorevoli rispetto a chi non poteva mantenersi agli studi senza lavorare; f3) la violazione dell’art. 1223 c.c. anche in ragione della determinazione in lire 13 milioni per anno del dovuto anziché nell’importo corrispondente a ciò che aveva invece riconosciuto il decreto legislativo 257 del 1991;
g) nel corso dei due giudizi amministrativi il T.A.R. emetteva due ordinanze, l’una in data 12 gennaio e l’altra in data 22 Marzo 2004, con le quali riteneva: gl) infondato il primo motivo di gravame non apparendo né esiguo né illegittimo il termine decadenziale previsto per la presentazione della documentazione delle domande di corresponsione 5 della borsa di studio; g2) infondato il secondo motivo perché l’articolo 11 della legge n.370 del 99, attuativo dei giudicati favorevoli ottenuti dai medici specializzandi, aveva correttamente stabilito per l’accesso alla borsa di studio le medesime condizioni generali previste dal d.lgs. n. 257 del 1991, ivi compresa quella dell’inibizione del riconoscimento della somma prevista nel caso di svolgimento di qualsiasi attività libero professionale; g3) infondate le censure circa l’importo della borsa di studio in lire 13.000.000;
h) nel contempo il T.A.R. Lazio disponeva con dette ordinanze la rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 11 della legge 370 del 99 in relazione alla mancata assegnazione del punteggio attribuito ai titoli di specializzazione precomunitari;
i) la Corte costituzionale, con ordinanza n. 269 del 2005, dichiarava inammissibile la questione e i ricorrenti, in assenza della fissazione di udienza da parte del giudice amministrativo, formulavano al T.A.R. del Lazio nuove istanze di fissazione di udienza in data 21 novembre 2007, ma i ricorsi erano dichiarati estinti per perenzione con i decreti n. 29617 e n. 29806 del 2010: per quello che si evince dal tenore dei decreti, prodotti dalle Amministrazioni, l’estinzione risulta dichiarata ai sensi dell’art. 9 della I. n. 205 del 2000, cioè per mancata proposizione dell’istanza di fissazione di udienza a norma del comma 2 di quella norma e senza alcun riferimento all’istanza del novembre 2007;
l) a seguito del ricordato complessivo svolgimento della vicenda, i medici ricorrenti, anche in esito alla sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite numero 9147 del 2009, che qualificava la fattispecie occorsa come responsabilità dello Stato per mancata tempestiva trasposizione di direttive comunitarie da far valere dinanzi al giudice civile per il ristoro dei danni in conseguenza subiti da soggetti cui le direttive avessero riconosciuto una posizione giuridica soggettiva tutelabile, introducevano l’azione di cui è processo nel luglio 2011, che veniva decisa prima dal Tribunale di Roma, il quale, accertata la responsabilità dello Stato italiano per la ritardata attuazione delle direttive comunitarie, riconosceva il diritto al risarcimento del danno patito ragguagliandolo a quanto previsto dal d.lgs. n. 257 del 1992 e condannando la Repubblica Italiana al pagamento in favore degli attori della somma di 11.103,82 euro per ogni anno del corso di specializzazione;
m) l’amministrazione proponeva appello avverso la sentenza, che veniva deciso con la sentenza qui impugnata, con la quale si dichiarava estinto il diritto per intervenuta prescrizione.
7. – Con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2945, co. 2, c.c.; degli artt. 279, 310, 324 e 340 c.p.c.; degli artt. 28 e 29 della legge n. 1034/1971 e dell’art. 9 della legge n. 205/2000, per avere la corte territoriale erroneamente escluso il diritto degli attori di avvalersi della sospensione del termine di prescrizione in relazione al periodo decorrente tra l’inizio del giudizio amministrativo e le decisioni emesse dal TAR del Lazio con due ordinanze in data 12 gennaio 2004 e 22 marzo 2004, con le quali il giudice amministrativo, rimettendo gli atti alla Corte costituzionale per la definizione di una questione di legittimità costituzionale, aveva in ogni caso contestualmente deciso circa la sorte di tre dei quattro motivi di impugnazione avanzati con l’atto di introduzione del giudizio amministrativo, con la conseguente resistenza di tali provvedimenti decisori all’effetto demolitorio (della sospensione della prescrizione) derivante dalla successiva emissione del provvedimento di perenzione del giudizio amministrativo, e con conservazione dell’effetto sospensivo del corso della prescrizione nell’arco di tempo tra la data di instaurazione del giudizio amministrativo e la pronuncia delle ridette decisioni del TAR, ai sensi dell’art. 2945, co. 3, c.c.
8. – Con il secondo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2945, co. 2, c.c., nonché degli artt. 279, 310, 324 e 340 c.p.c., per avere il giudice d’appello erroneamente escluso il diritto degli attori di avvalersi della sospensione del termine di prescrizione in relazione al periodo decorrente tra l’inizio del giudizio amministrativo e la pronuncia della Corte costituzionale emessa a seguito dell’ordinanza di rimessione del TAR, essendosi trattato, con riguardo alla pronuncia della Corte costituzionale, di una decisione idonea, ai sensi dell’art. 2945 c.c., a definire (sia pure parzialmente) il giudizio, e dunque a resistere all’effetto demolitorio (della sospensione della prescrizione) derivante dalla successiva perenzione del giudizio amministrativo, con la conseguente conservazione dell’effetto sospensivo della prescrizione nell’arco di tempo indicato.
9. – Con il terzo motivo, gli attori denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 2943 c.c., per avere la corte territoriale erroneamente escluso il diritto degli attori di avvalersi della sospensione del termine di prescrizione in relazione al periodo decorrente dall’inizio del giudizio amministrativo e fino alla data di presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza ai fini della prosecuzione del giudizio amministrativo, successivamente alla risoluzione dell’incidente di costituzionalità, trattandosi di un atto pienamente idoneo a integrare i requisiti dell’atto di esercizio del proprio diritto rilevante ai fini dell’interruzione della prescrizione e equivalente ad una vera e propria domanda, essendo necessaria per la trattazione e la fissazione dell’udienza davanti al giudice amministrativo.
10. – Con il quarto motivo, gli attori censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 c.c., per avere la corte d’appello erroneamente individuato il dies a quo del termine di prescrizione in corrispondenza con la data di entrata in vigore della legge n. 370 del 1999, in contrasto con la natura permanente dell’illecito imputabile all’amministrazione debitrice, nonché con i principi di non discriminazione e di effettività della tutela dei diritti.
11. – L’ordinanza interlocutoria, nella sua complessa ricostruzione delle questioni sottese alla controversia, sottolinea che la sentenza impugnata si fonda su una premessa, inesplicitata e quindi non motivata, e tuttavia rilevante, sulla quale occorre interrogarsi e prendere consapevole posizione: che con l’introduzione dei due giudizi amministrativi poi dichiarati perenti i medici avessero inteso agire a tutela della stessa posizione di diritto soggettivo poi fatta valere dinanzi al g.o., e che ciò avesse determinato l’interruzione permanente del corso della prescrizione riguardo al diritto soggettivo poi introdotto davanti al giudice ordinario.
Sostiene poi che la sentenza impugnata trae dalla sopraindicata premessa, implicita e non motivata, una conseguenza altrettanto indimostrata e non motivata, e cioè che il predetto effetto interruttivo della prescrizione sia venuto meno a seguito del verificarsi della perenzione del giudizio amministrativo, con l’implicita assimilazione dell’istituto della perenzione, tipico del processo amministrativo, all’istituto dell’estinzione per inattività, proprio del processo civile. Aggiunge che essendo sia la premessa che la conseguenza fondate su mere quaestiones iuris, cioè sull’individuazione dell’esatta regola di diritto applicabile alla vicenda, tali questioni possono esaminarsi d’ufficio, nell’ambito del potere di correzione della motivazione di cui all’ultimo comma dell’articolo 384 c.p.c., che conferisce alla Corte di cassazione il potere di correggere la motivazione laddove si ritenga che la soluzione in concreto adottata, benchè non idoneamente giustificata, sia tuttavia quella corretta. Suggerisce quindi che, prima ancora di affrontare i motivi di ricorso, la Corte si occupi delle seguenti due questioni, di particolare importanza, che sono quaestiones iuris presupposte alla decisione e come tali esaminabili anche d’ufficio:
1) Se la situazione giuridica fatta valere dai ricorrenti nel processo amministrativo perentosi fosse la stessa fatta poi valere davanti al giudice ordinario, cioè la situazione di diritto al risarcimento del danno da inadempimento delle direttive comunitarie e quindi un diritto soggettivo (la c.d. premessa non argomentata, da cui muove la sentenza qui impugnata);
2) Ammettendo che si concluda nel senso che sia stata fatta valere la stessa situazione soggettiva, nel qual caso essa, nella ricostruzione della ordinanza interlocutoria, dovrebbe essere inevitabilmente di diritto soggettivo, perché quello che si fa valere davanti al giudice ordinario è un diritto soggettivo, e che quindi laddove lo si faccia valere davanti al giudice amministrativo è un diritto che dovrebbe rientrare nel suo ambito di giurisdizione esclusiva, l’ordinanza segnala la necessità di occuparsi di una seconda questione, anch’essa risolta positivamente dalla sentenza d’appello e data per scontata dai ricorrenti (la “conseguenza” cui fa riferimento l’ordinanza) : se l’istituto della perenzione nella disciplina del processo amministrativo si debba considerare un fenomeno effettivamente riconducibile all’articolo 2945, terzo comma c.c., quindi analogo alla estinzione del processo civile, considerando che nel caso di specie si dovrebbe applicare non il codice del processo amministrativo, che detta una chiara disposizione in tal senso, ma la disciplina precedente, ovvero la legge n. 1034 del 1971.
L’ordinanza interlocutoria suggerisce di esaminare le questioni anche alla luce degli effetti sul sistema della introduzione dell’istituto della translatio iudicii.
L’ordinanza interlocutoria segnala poi come di particolare importanza anche la questione posta dal terzo motivo di ricorso: se, nei casi in cui davanti al giudice amministrativo sia stato fatto valere un interesse legittimo strumentale rispetto a un diritto soggettivo, l’istanza di fissazione dell’udienza rivolta al giudice amministrativo costituisca atto idoneo ad interrompere la prescrizione in quanto idoneo a manifestare anche nei confronti della controparte l’esercizio alla correlata situazione di diritto soggettivo.
RAGIONI DELLA DECISIONE
12. – Il ricorso proposto dai medici specializzandi ricorrenti è infondato. Il loro diritto nei confronti dello Stato italiano a pretendere il risarcimento dei danni da ritardata attuazione della normativa comunitaria, da inquadrarsi nello schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato, di natura indennitaria, secondo la ricostruzione effettuata da Cass. S.U. n. 10813 del 2011 e successivamente unanimemente seguita dalla Corte, e sottoposto di conseguenza al termine decennale di prescrizione, è definitivamente prescritto per le ragioni che seguono.
13. – Va preliminarmente esaminata la questione, posta dal quarto motivo del ricorso, con la quale i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 c.c., per avere la Corte d’appello erroneamente individuato il dies a quo del termine decennale di prescrizione in corrispondenza con la data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, in contrasto con la natura permanente dell’illecito imputabile all’amministrazione debitrice nonché con i principi di non discriminazione e di effettività della tutela dei diritti. Qualora essa fosse fondata, infatti, sarebbe dirimente, perché il termine di prescrizione non avrebbe mai preso a correre.
I ricorrenti affermano che la decisione adottata sia in violazione di legge, dovendosi affermare il principio secondo cui il diritto all’indennità riparatoria del danno subito in conseguenza della responsabilità dello Stato per mancata tempestiva trasposizione di direttive comunitarie non sarebbe soggetto a termine di prescrizione, né ordinario né abbreviato, in quanto la direttiva, nei confronti del soggetto leso, non sarebbe stata effettivamente trasposta (principio tratto dalla sentenza della Corte di Giustizia del 25.7.1991, resa nella causa Emmott, C208/90). I ricorrenti richiamano a sostegno della loro argomentazione anche la sentenza della Corte di Giustizia nel caso Danske Slagterier, in causa C-445/06, dove si segnala, a proposito del termine di prescrizione, che una situazione caratterizzata da un’incertezza normativa significativa può costituire una violazione del principio di effettività.
Effettivamente il motivo, come suggerito dalla ordinanza interlocutoria, deve ritenersi inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., n. 1, perché si pone in contrasto con un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità senza proporre alcuna argomentazione idonea a contrastarlo adeguatamente e a convincere la Corte sulla opportunità del suo superamento. Da ultimo, con Cass. n. 8096 del 2022, Cass. n. 39421 del 2021, Cass. n. 1589 del 2020, Cass. n. 18961 del 2020, Cass. n. 14112 del 2020, Cass. n. 16452 del 2019, Cass.
S.U. n. 30649 del 2018, Cass. n. 13758 del 2018, questa Corte ha ribadito infatti il principio, già affermato da Cass. n. 10813, 10814,10815, 10816 e 17688 del 2011, Cass. n. 20/03/2014, n. 6606, Cass., 15/11/2016, n. 23199, secondo il quale “a seguito della tardiva ed incompleta trasposizione nell’ordinamento interno delle direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari – realizzata solo con il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257 – è rimasta inalterata la situazione di inadempienza dello Stato italiano in riferimento ai soggetti che avevano
maturato i necessari requisiti nel periodo che va dal 1 gennaio 1983 al termine dell’anno accademico 1990-1991. La lacuna è stata parzialmente colmata con la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, che ha riconosciuto il diritto ad una borsa di studio soltanto in favore dei beneficiari delle sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo; ne consegue che tutti gli aventi diritto ad analoga prestazione, ma tuttavia esclusi dal citato art. 11, hanno avuto da quel momento la ragionevole certezza che lo Stato non avrebbe più emanato altri atti di adempimento alla normativa Europea. Nei confronti di costoro, pertanto, la prescrizione decennale della pretesa risarcitoria comincia a decorrere dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore del menzionato art. 11”.
14. – Non inducono a diverse conclusioni i richiami alla giurisprudenza sovranazionale, contenuti e sviluppati in particolare nella memoria dei ricorrenti. La soluzione adottata non contrasta con i principi affermati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, in particolare laddove afferma e tutela il diritto di accesso al tribunale, sancito dall’art. 6, par. 1 della Convenzione. Come osservato dal Procuratore generale, dalla giurisprudenza sul punto si ricava che il diritto di accesso ad un tribunale deve essere sì “concreto ed effettivo” (Bellet c. Francia, 4.12.1995; Zubac c. Croazia, 5.4.2018) ed offrire alla persona “una chiara e concreta possibilità di opporsi ad un atto che costituisce un’ingerenza nei suoi diritti” (Bellet c.Francia, cit.; Nunes Dias c. Portogallo, 10.4.2003; Fazliyski c. Bulgaria, 16.7.2013). La Cedu ha però ripetutamente sottolineato che le norme che disciplinano le formalità e i termini da rispettare al fine della presentazione di un ricorso o di una domanda di riesame giudiziario sono finalizzate ad assicurare la corretta amministrazione della giustizia e in particolare il rispetto del principio della certezza del diritto (Canete de Goni c. Spagna, 15.10.2003), sottolineando la necessità per i tribunali nell’applicare le norme procedurali di evitare sia l’eccessivo formalismo che l’eccessiva flessibilità che vanificherebbe i requisiti procedurali stabiliti dalla legge (Hasan Tunc ad altri c. Turchia, 30.4.2017).
In relazione in particolare ai termini di prescrizione, la Cedu, proprio nel precedente richiamato dalla memoria dei ricorrenti (Miragall Escolano e altri c. Spagna, 30.4.2000) si è limitata ad affermare che il diritto di instaurare un’azione o di proporre appello deve sorgere a decorrere dal momento in cui le parti hanno potuto effettivamente essere informate di una decisione giudiziaria che impone loro un obbligo o lede potenzialmente i loro legittimi diritti o interessi. Non appare ipotizzabile nel caso di specie la possibilità di una violazione dell’art. 6 della Convenzione, solo se si consideri che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno per tardiva attuazione delle direttive comunitarie è fissata in dieci anni, secondo la chiara indicazione fornita dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 9147 del 17 Aprile 2009), e che il diritto era esercitabile immediatamente, non necessitando della proposizione preventiva dell’azione davanti al giudice amministrativo, trattandosi di diritto autonomo, scaturente dalla condotta dello Stato italiano e che la prescrizione dopo l’iniziale interruzione ha ripreso a decorrere ed è maturata a causa della mancata attivazione davanti al giudice amministrativo e della tardiva proposizione della domanda davanti al giudice ordinario.
Proprio nell’ottica di evitare che la complessità del sistema possa ridondare a pregiudizio di chi intenda agire a tutela dei propri diritti, si colloca la rilevanza conferita, ai fini della interruzione con effetto sospensivo permanente del termine di prescrizione, al giudizio amministrativo intrapreso dai ricorrenti nel 2000, al fine di evitare che la pluralità delle giurisdizioni possa apparire la manifestazione di una irragionevole previsione o costruzione giuridica atta ad ostacolare l’introduzione di una azione giudiziale ed il suo esame nel merito.
Neppure alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia che si è occupata della decorrenza e del dies a quo della prescrizione in relazione alla posizione dei medici specializzandi, ed in particolare dalle sentenze CGUE, 19 maggio 2011, C-452/09, Iaia e CGUE, 24 marzo 2009, C-445/06, Danske Slagterier, emerge un potenziale contrasto tra la soluzione adottata e il principio di effettività tutelato dal diritto Europeo, in quanto essa appare ampiamente rispettosa del richiamo a termini di prescrizione “ragionevoli”, mediante i quali sia garantita l’adeguatezza dei mezzi di tutela a fronte di un’azione giurisdizionale proposta da un singolo per ottenere la tutela dei diritti conferiti da una direttiva comunitaria, specie considerando che, come osservato dal Procuratore generale, la prescrizione si è compiuta per inazione dei ricorrenti, successiva ad una iniziale tempestiva attivazione del rimedio impugnatorio davanti ai giudici amministrativi.
15. – Sgombrato il campo dal problema preliminare, affermando che per i ricorrenti, come per gli altri specializzandi nella medesima posizione, la prescrizione del diritto al risarcimento danni da ritardata attuazione di direttiva comunitaria abbia iniziato a decorrere dal 27 ottobre 1999, occorre prendere in considerazione, conformemente a quanto auspicato dalla ordinanza interlocutoria, la validità della premessa inespressa contenuta nel provvedimento impugnato, secondo la quale la proposizione davanti al giudice amministrativo del ricorso, volto all’annullamento del decreto 14/02/2000, che fissava, tra l’altro, il breve termine di decadenza di 90 giorni per la proposizione dell’azione di risarcimento, fosse idonea a produrre l’effetto interruttivo permanente della prescrizione del diritto soggettivo al risarcimento da far valere davanti al giudice ordinario.
Si tratta, come segnalato dall’ordinanza interlocutoria, di una pura questione di diritto, che non necessita di accertamenti in fatto, ed è scrutinabile d’ufficio, anche se le parti non l’hanno sollevata, perché per poter esaminare i motivi di ricorso è necessario poter scrutinare l’esattezza dei passaggi che i ragionamenti proposti dai motivi presuppongono; l’esame della questione non è precluso, in quanto non si è formato sul punto giudicato interno, atteso che non si è avuto dibattito sul punto e quindi non costituisce un punto della decisione.
L’ordinanza interlocutoria ricostruisce la fattispecie nel senso che dinanzi al g.a. sia stata fatta valere esclusivamente una posizione di interesse legittimo, ben distinta rispetto alla posizione
di diritto soggettivo poi fatta valere dinanzi al giudice ordinario, e, pur non elevando a dubbio l’idoneità del proposto ricorso dinanzi al g.a. a fungere da atto interruttivo con efficacia permanente del termine di prescrizione relativo al diritto soggettivo da far valere dinanzi al g.o., ne trae alcune conseguenze a proposito del rilievo, su tale effetto interruttivo, della successiva perenzione del giudizio amministrativo (che verranno esaminate nel successivo par. 16).
Effettivamente, deve ritenersi che, allorquando i ricorrenti – una volta intervenuta la L. n. 370 del 1999 – impugnarono davanti al giudice amministrativo il decreto ministeriale 14 febbraio 2000, fecero valere una situazione di interesse legittimo, tanto più che agirono proprio postulando l’illegittimità di quel decreto, allo scopo di farlo annullare. In particolare, essi fecero valere una situazione di interesse legittimo pretensivo, volto all’eliminazione del termine decadenziale troppo breve per agire in giudizio, strumentale alla miglior realizzazione del diritto soggettivo. Ciò è confermato dalle domande in quella sede proposte (riportate al superiore par. 7, punto f).
Tuttavia, tale conclusione non implica necessariamente l’impossibilità di riconoscere efficacia interruttiva della prescrizione relativa al diritto soggettivo, da azionare dinanzi al giudice ordinario, al ricorso giurisdizionale proposto davanti al T.A.R., proprio perché quest’ultimo poteva considerarsi strumentale alla successiva tutela del diritto soggettivo. L’efficacia interruttiva della prescrizione di un determinato diritto compete infatti alla domanda con la quale si faccia valere quel diritto ma anche agli altri atti che si ricolleghino con stretto nesso di causalità al rapporto dedotto in giudizio. Si tratta di affermazione già numerose volte rinvenibile nella giurisprudenza della Corte, a proposito di domande diverse proposte davanti ad uno stesso plesso giurisdizionale (Cass. n. 13583 del 2004; Cass. n. 18570 del 2007; Cass. n. 10814 del 2011; Cass. n. 16293 del 2016), ma poi estesa (anche in virtù del recepimento del principio della transiatio iudicii, come suggerisce l’ordinanza interlocutoria) anche all’azione di annullamento dell’atto amministrativo illegittimo dal quale si assume derivi il danno ingiusto patito dal ricorrente: anch’essa determina un effetto interruttivo della prescrizione del corrispondente diritto al risarcimento fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il processo amministrativo (in questo senso, Cass. n. 10935 del 2012; Cass. n. 20640 del 2011; Cass. S.U. n. 9040 del 2008, Cass. n. 3726 del 2000).
Come osservato dal Procuratore generale, appaiono evidenti e condivisibili le ragioni che hanno indotto i giudici di merito quantomeno a sorvolare sulla natura della posizione soggettiva fatta valere dai ricorrenti davanti al giudice amministrativo o comunque a dare per scontata la sua natura di interesse legittimo non risultando la risposta dirimente: ai fini dell’interruzione della prescrizione ciò che risulta significativo è l’interesse sostanziale in capo alla parte, capace di collegare in rapporto di causalità o di strumentalità le due azioni, come, nei fatti, si riscontra essere avvenuto. Nel caso di specie il collegamento tra le due azioni, quella dinanzi al G.A. e quella dinanzi al G.O., si può individuare nel fatto che la neutralizzazione degli illegittimi paletti posti dalla normazione secondaria alla soddisfazione del diritto riconosciuto agli specializzandi dalle direttive comunitarie avrebbe consentito ai ricorrenti di ottenere direttamente dal G.O. il bene della vita rappresentato dall’utilità economica dispensata dall’art. 11 citato, attuativo della direttiva comunitaria, mettendo a loro disposizione per l’esercizio dell’azione un lasso di tempo adeguato. Quindi, l’annullamento del provvedimento amministrativo che stabiliva, tra l’altro, un termine decadenziale brevissimo per una tutela a lungo sospirata, può essere letto come strumentale a dare piena effettività alla tutela dinanzi al giudice ordinario, in quanto volto a rimuovere un ostacolo al legittimo esercizio di quel diritto con pienezza di mezzi.
Deve pertanto ritenersi che, pur essendo le due situazione giuridiche fatte valere ben distinte – interesse legittimo il primo, diritto soggettivo il secondo – la prima azione era strumentale al pieno esercizio del diritto tutelabile attraverso la seconda, e quindi la proposizione del ricorso amministrativo deve comunque ritenersi in questo caso atto idoneo a produrre l’interruzione della prescrizione con effetto interruttivo permanente legato al perdurare del giudizio amministrativo – del termine per far valere il diritto soggettivo al risarcimento del danno per la tardiva attuazione della direttiva comunitaria 75/363 (sorto nell’ordinamento interno dopo le sentenze Francovich del 19.11.1991 e Brasserie du Pecheur, del 5.3.1996).
Il principio affermato recepisce il richiamo contenuto nella sentenza n. 77 del 2007 della Corte costituzionale (fatto proprio dalla stessa sentenza impugnata) a che la pluralità dei giudici debba avere la funzione di assicurare una più adeguata risposta alla domanda di giustizia e non possa risolversi in una minore effettività o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale. In un ordinamento come quello italiano caratterizzato dalla frammentazione delle giurisdizioni, in cui può essere complessa e fonte di incertezza per il cittadino la stessa individuazione dell’organo giudiziario al quale chiedere tutela, occorre seguire una interpretazione elastica, che consenta di dar spazio ad una tutela effettiva, evitando che la frammentazione si traduca ingiustificatamente in un ostacolo per l’esercizio dei diritti. In quest’ottica la proposizione di quello che era esclusivamente un ricorso amministrativo volto ad ottenere la tutela di un interesse legittimo può costituire atto idoneo ad interrompere la prescrizione di un diritto soggettivo.
16. – La successiva questione da esaminarsi, in ordine logico di esame dei temi sottoposti all’attenzione della Corte, una volta data risposta alla questione precedente, nei termini – auspicati dall’ordinanza interlocutoria – della riconducibilità all’interesse legittimo della posizione azionata nel 2000 dagli attuali ricorrenti davanti al g.a., è anch’essa sottoposta dall’ordinanza interlocutoria: se l’effetto sospensivo (o interruttivo permanente) della prescrizione del diritto soggettivo ricollegabile all’esercizio della situazione di interesse legittimo ad esso collegata si conservi o meno anche nel caso in cui il giudizio amministrativo risulti definito con il meccanismo della perenzione, come è accaduto nel caso di specie.
Ovvero, occorre chiedersi se la perenzione del processo amministrativo rilevi solo con riferimento alla tutela giudiziale dell’interesse legittimo in quella sede tutelata o se incida anche sulla prescrizione del diritto soggettivo, dall’angolo visuale dell’art. 2945 c.c., comma 3, convertendo, ove assimilata alla estinzione del processo civile ed al suo modo di operare, l’effetto interruttivo permanente della prescrizione, prodotto dall’aver intrapreso l’azione di annullamento dinanzi al g.a., nel ben più blando effetto interruttivo istantaneo.
L’ordinanza interlocutoria esprime alcune perplessità in ordine alla piena assimilabilità della perenzione del giudizio amministrativo alla estinzione del processo civile, sulla base di una ricostruzione normativa diacronica: nella attuale disciplina del processo amministrativo, dettata dal codice del processo amministrativo, la risposta è agevolmente in senso positivo perché esiste una previsione espressa: l’art. 35, comma 2, lett. b) del c.p.a. prevede espressamente infatti che la perenzione, disciplinata negli artt. 81-83 citato codice, dia luogo all’estinzione del processo (e quindi, ragionevolmente, che ne produca gli effetti). L’ordinanza pone in rilievo invece che, al momento della introduzione dei giudizi amministrativi era vigente la precedente L. n. 1034 del 1971, che conteneva solo una scarna disposizione dedicata alla perenzione, all’art. 25, secondo la quale “i ricorsi si considerano abbandonati se nel corso di due anni non sia compiuto alcun atto di procedura” (prevedendo la sola ipotesi della c.d. perenzione ordinaria). A ciò l’ordinanza interlocutoria aggiunge che i decreti di perenzione sono stati pronunciati nel 2010 e si fondano sull’espresso richiamo alla L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2, di riforma della giustizia amministrativa, ovvero alla diversa ipotesi del mancato deposito, decorsi dieci anni dalla presentazione del ricorso, di una nuova istanza di fissazione dell’udienza e dunque fanno riferimento ad una fattispecie di perenzione introdotta da quella legge (c.d. perenzione straordinaria). Quindi, nella ricostruzione problematica della ordinanza interlocutoria, le pronunce di perenzione sono state emesse comunque sulla base del regime previgente all’entrata in vigore del c.p.a., laddove operava come regola generale della L. n. 1034 del 1971, art. 25, e come norma speciale della L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2, dovendo sottoporsi a verifica se il regime di perenzione, prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, operasse in maniera analoga alla estinzione nel processo civile.
Astrattamente, poiché ad andare incontro alla perenzione non è il processo avente ad oggetto il diritto della cui prescrizione si tratta, si potrebbe ritenerlo immune dalla conseguenza giuridica dettata dall’art. 2945 c.c., comma 3, secondo la quale se il processo si estingue rimane fermo il solo effetto interruttivo immediato della prescrizione, e il nuovo periodo di prescrizione decorre dalla data dell’atto interruttivo, sì da concludere che l’effetto interruttivo della prescrizione permanga per tutto il tempo in cui è rimasta sub iudice la situazione soggettiva di interesse legittimo ovvero fino alla citata perenzione.
Questa soluzione, che sembra sottesa alla prospettazione del problema da parte della ordinanza interlocutoria, non può tuttavia condividersi.
L’introduzione da parte del codice del processo amministrativo di una norma espressa che sancisce che l’estinzione del processo rappresenta l’effetto della perenzione dovuta all’inattività delle parti non ha certo alcun effetto innovativo ma si limita a portare in luce ciò che già ne derivava nel vigore della Legge del 1971, con la conseguenza che entrambe le ipotesi di perenzione determinino un un effetto estintivo del giudizio amministrativo analogo all’operatività dell’estinzione nel processo civile, con analoghe conseguenze in tema di prescrizione.
La stessa giurisprudenza amministrativa, e con essa la dottrina, sembra leggere la disposizione della L. n. 205 del 2000, introduttiva della perenzione straordinaria, in continuità con la disciplina successivamente introdotta dagli artt. 81 e 82 del codice del processo di cui al D.Lgs. n. 104 del 2010, qualificando la perenzione talvolta come causa di estinzione dei ricorsi (Cons. Stato, sez. V, n. 5344 del 2014), per effetto dell’inerzia del ricorrente protrattasi per un determinato periodo di tempo, talaltra come causa di estinzione del processo: come affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 2411 del 2020, l’istituto della perenzione ha attualmente una “doppia anima”, quella privatistica, legata alla constatazione di una tacita rinuncia agli atti del giudizio, e quella pubblicistica, la cui ratio è individuabile nell’esigenza di definizione delle controversie che vedano coinvolta la pubblica amministrazione nell’esercizio di poteri amministrativi; quindi, l’estinzione del giudizio per perenzione risponde ad un superiore interesse pubblico alla definizione delle situazioni giuridiche inerenti l’esercizio del potere amministrativo entro termini ragionevoli (cfr., sul tema, Cons. Stato, sez. V, n. 3564 del 2014); in definitiva, è funzionale alla rapida definizione del giudizio, in ossequio al principio costituzionale di ragionevole durata del processo (Cons. Stato, sez. IV, n. 3017 del 2018).
Ne deriva che, se la perenzione del processo amministrativo (sia essa ordinaria o straordinaria) è assimilabile all’estinzione del giudizio civile, sia logico che al suo verificarsi si verifichino gli effetti previsti dall’art. 2945 c.c., comma 3 (v. in questo senso Cons. Stato, sez. VI, sentenza n. 4647 del 2020, in cui, in relazione ad un ricorso amministrativo del 2002 e ad un giudizio amministrativo perento, in fattispecie in cui si faceva valere dinanzi al g.a. una posizione di diritto soggettivo, si è applicato l’art. 2945 c.c., comma 3, dichiarando l’azione estinta per prescrizione), e ciò anche qualora il giudizio per la tutela del diritto soggettivo si svolga davanti al giudice ordinario e non, in sede di giurisdizione esclusiva, dinanzi allo stesso giudice amministrativo.
Alla luce dei sopra indicati richiami giurisprudenziali, guardando agli effetti della perenzione (chiusura in rito del processo a seguito di un contegno comunque indicativo della volontà del ricorrente di non coltivarlo) ed alla ragionevolezza e coerenza del risultato complessivo (volto a garantire la tutela all’esercizio del diritto soggettivo giovandosi dell’effetto interruttivo della prescrizione finché ciò sia logicamente giustificato, ovvero fintanto che il processo (amministrativo) relativo all’interesse legittimo collegato prosegua, ne consegue che, una volta ammessa l’interruzione della prescrizione del diritto soggettivo collegato per effetto
dell’introduzione del processo amministrativo relativo all’interesse legittimo ad esso strumentale, debba trovare integrale applicazione la disciplina dell’art. 2945 c.c., e pertanto l’effetto di cui al comma 3 della richiamata disposizione si produrrà in ogni caso di chiusura in rito del processo la cui attivazione ha determinato l’effetto interruttivo della prescrizione, accostabile, quanto meno per via analogica, alla estinzione civilistica.
17. – Riepilogando il percorso sin qui fatto, si è finora affermato che:
– dinanzi al g.a. fosse stata azionata una posizione di interesse legittimo;
– nondimeno, la proposizione di tali ricorsi fosse idonea ad interrompere, con effetto interruttivo permanente, la prescrizione del diritto soggettivo al risarcimento danni da ritardato adempimento delle direttive comunitarie;
– che tuttavia, tale effetto interruttivo permanente sia venuto meno, ex art. 2945 c.c., comma 3, al verificarsi della perenzione nei giudizi amministrativi, rimanendo solo l’effetto interruttivo istantaneo della proposizione in quella sede della domanda.
Occorre quindi tornare all’esame dei primi tre motivi di ricorso, volti a sostenere l’efficacia interruttiva della prescrizione in relazione ad altri tre accadimenti verificatisi nel corso del processo amministrativo.
Con il primo motivo del ricorso i medici lamentano che la corte territoriale abbia erroneamente escluso il loro diritto di avvalersi dell’effetto sospensivo permanente della prescrizione, conseguente alla introduzione del giudizio dinanzi al giudice amministrativo, fino alla pronuncia delle due ordinanze emesse dal TAR del Lazio in data 12 gennaio 2004 e 22 marzo 2004, con le quali è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale. Ad esse i ricorrenti attribuiscono contenuto almeno parzialmente decisorio, ed idoneità al giudicato, in quanto con esse il giudice amministrativo, contestualmente alla rimessione degli atti alla Corte costituzionale per la definizione della questione di legittimità costituzionale, avrebbe deciso la sorte di tre dei quattro motivi di impugnazione avanzati con l’atto di introduzione del giudizio amministrativo, rigettandoli.
Il motivo è infondato.
Parametro normativo di riferimento è l’art. 310 c.p.c., comma 2, secondo cui l’estinzione del processo rende inefficaci gli atti compiuti ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e le pronunce che regolano la competenza: la persistente efficacia di tali sentenze rileva anche i fini dell’effetto interruttivo della prescrizione ex artt. 2943 e 2945 c.c., in modo che nonostante la successiva estinzione del processo, il corso della prescrizione continuerebbe a decorrere dalla notificazione dell’atto introduttivo del processo fino al passaggio in giudicato dei predetti provvedimenti.
La giurisprudenza civilistica ha adottato una interpretazione ampia della tipologia di sentenze suscettibili di essere ricondotte al disposto dell’art. 310 c.p.c., comma 2, e tale da ricomprendere ogni sentenza non definitiva che sia tuttavia suscettibile di passare in giudicato, precludendo l’esame della stessa questione da parte di qualsiasi altro giudice, come in ipotesi di sentenze che abbiano deciso in ordine all’eccezione di prescrizione, di improcedibilità, di inammissibilità, di proponibilità della domanda (Cass. n. 20308 del 2018; Cass. n. 23364 del 2014; da ultimo, Cass. S.U. n. 10242 del 2021 ha ritenuto, in caso di indici formali contrastanti, di privilegiare la salvaguardia del diritto all’impugnazione come criterio ermeneutico in caso di ambiguità).
Si tratta quindi di verificare se tale carattere di decisività possano essere riconosciuto alle ordinanze n. 555 e 556 del 2004, rese nei giudizi amministrativi iniziati nel 2000, in quanto, in caso affermativo, dovrebbe ritenersi che l’effetto interruttivo correlato alla proposizione della domanda in quella sede si sia protratto fino al passaggio in giudicato delle ordinanze, con conseguente salvezza dell’azione civilistica risarcitoria che, introdotta nel 2011, sarebbe rispettosa del termine decennale di prescrizione, nonostante l’intervenuta estinzione del processo amministrativo per perenzione.
Giova ricordare che nei procedimenti amministrativi introdotti dai medici attuali controricorrenti e ricorrenti incidentali nel 2000 i motivi di ricorso rigettati dalle due ordinanze del TAR riguardarono:1) la legittimità del breve termine decadenziale di 90 giorni previsto dal D.M. 14 febbraio 2000, per la presentazione della domanda di corresponsione della borsa di studio; 2) la legittimità del requisito del mancato svolgimento di alcun tipo di attività lavorativa come condizione per aver diritto al emolumento; 3) la legittimità dell’ammontare, asseritamente inferiore al dovuto, della borsa di studio. Esse contestualmente ritennero infondati quei prospettati profili di illegittimità, mentre rimisero alla Corte costituzionale l’esame della questione di legittimità costituzionale della L. n. 370 del 1999, art. 11, con riguardo al profilo della mancata attribuzione di un punteggio per i titoli di specializzazione precomunitari, sospendendo conseguentemente il giudizio.
Per verificare se da esse scaturisse una definizione parziale del merito della controversia bisogna però rapportarsi non con la giurisprudenza civilistica ma con quella amministrativa, la quale sembra escludere che possano configurarsi domande distinte per il solo fatto della deduzione di plurimi motivi di illegittimità a fondamento della domanda di annullamento di un unico provvedimento impugnato. Il Consiglio di Stato, con l’adunanza plenaria 27/04/2015 numero 5 ha espresso il principio di diritto per cui “nel giudizio impugnatorio di legittimità in primo grado, l’unicità o pluralità di domande proposte dalle parti, mediante ricorso principale motivi aggiunti o ricorso incidentale, si determina esclusivamente in funzione della richiesta di annullamento di uno o più provvedimenti autonomamente lesivi”. L’Adunanza plenaria, seguita dalla successiva giurisprudenza amministrativa, afferma quindi che ciò che conta è
soltanto l’effetto cassatorio avuto di mira, che è unico se si dispiega nei confronti di singoli e ben individuati atti, ovvero plurimo se aggredisce distinti provvedimenti.
Nel caso di specie, non vi è dubbio che i medici proposero un’unica domanda di annullamento del solo d.m. 14 febbraio 2000, sia pure fondata su quattro distinte rationes, articolate in quattro motivi di ricorso. Deve ritenersi, conformemente alla interpretazione espressa dal Consiglio di Stato, che le ordinanze del 2004 non definirono nemmeno in parte il giudizio e come tali non rientrano tra gli atti processuali che sopravvivono all’estinzione ai sensi dell’art. 310 c.p.c., comma 2.
Questa conclusione è confortata dallo stesso esame del testo delle predette ordinanze del G.A.: esse, pur esponendo le ragioni dell’infondatezza dei primi tre motivi del ricorso proposto dinanzi al TAR, dichiarano di non poter decidere sul ricorso (ne danno atto gli stessi ricorrenti incidentali) prima di risolvere la questione dell’incidente di costituzionalità e non presentano alcun contenuto dispositivo diverso da quello della rimessione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione dell’incidente di legittimità costituzionale. L’assenza formale di ogni parte dispositiva avente contenuto decisorio, unitamente all’espressa indicazione, in motivazione, di voler soprassedere sulla decisione del ricorso, preclude ogni possibilità di riconoscere a quelle ordinanze natura decisoria. Trattasi di provvedimenti interlocutori privi di idoneità al giudicato, successivamente caducati dalla perenzione dei relativi giudizi per inattività delle parti.
Ne deriva l’inidoneità di tali provvedimenti ad impedire l’effetto demolitorio dell’effetto sospensivo della prescrizione derivante dalla perenzione del giudizio amministrativo.
Il primo motivo di ricorso va pertanto rigettato.
18. -Neppure al giudizio di legittimità costituzionale, conclusosi con l’ordinanza n. 269 del 2005 di manifesta inammissibilità della questione può attribuirsi la funzione di impedire l’effetto demolitivo (della sospensione della prescrizione) derivante dalla pronuncia di estinzione del giudizio amministrativo, come prospettato dal secondo motivo di ricorso.
I ricorrenti sostengono che anche la pronuncia della Corte costituzionale costituisca, ai sensi dell’art. 2945 c.c., comma 2 un provvedimento giurisdizionale fino al quale resta sospesa la prescrizione interrotta con l’atto introduttivo del giudizio sino al quale è stato sollevato il relativo incidente di costituzionalità, ed a partire dal quale inizi a decorrere un nuovo termine.
Non può aderirsi a questa ricostruzione, per l’autonomia strutturale e funzionale del processo costituzionale rispetto al giudizio a quo: se infatti non può essere messa in discussione la sussistenza di un nesso di strumentalità tra la questione di legittimità costituzionale e la risoluzione del giudizio a quo (incarnata dal requisito della rilevanza) non vi è dubbio che i due giudizi obbediscano a due logiche diverse sì da poter essere collocati su piani paralleli: il processo a quo è preordinato a una pronuncia su situazioni giuridiche soggettive che abbia efficacia solo inter partes, il giudizio costituzionale invece è orientato a una pronuncia sulla validità della legge destinata ad operare erga omnes, qualora la legge sia riconosciuta incostituzionale.
Inoltre, per espressa previsione dell’art. 21, riproduttivo del precedente art. 18 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, la sospensione, l’interruzione e l’estinzione del processo principale non producono effetti sul giudizio davanti alla Corte costituzionale.
La dottrina costituzionalista ha affermato che la questione di legittimità costituzionale una volta che il processo dinanzi alla Corte si sia instaurato perde “il segno della sua provenienza”, coerentemente con il regime della pubblicità delle ordinanze di rimessione e con il carattere obiettivo e generale del sindacato di costituzionalità.
Ne deriva che, pur destinate ad operare erga omnes qualora dichiarino l’illegittimità costituzionale di una norma di legge, le decisioni della Corte costituzionale non rientrano nel novero di quelle sentenze citate dall’art. 2945 c.c., come idonee a spiegare efficacia interruttiva permanente della prescrizione: non può essere attribuita loro la valenza di sentenze idonee a definire il giudizio a quo. Inoltre, la declaratoria di inammissibilità non preclude la riproponibilità della questione di legittimità costituzionale.
La circostanza che il giudice abbia sollevato una questione di legittimità costituzionale comporta la sospensione del processo (L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, comma 2), il quale seguirà la sorte di tutti i processi sospesi, ovvero l’estinzione nel caso di tardiva riassunzione (Cass. n. 2616 del 2006; Cass. S.U. n. 4394 del 1996, Cass. n. 1699 del 1987).
Pertanto, puntualizzato che il processo costituzionale è svincolato dalle concrete vicende relative al processo a quo (come osservato dal Procuratore generale, la totale autonomia del processo costituzionale da quello che ha costituito occasione del suo avvio si spinge fino alla totale impermeabilità rispetto agli eventi che segnano il processo a quo, quali la sua sospensione, interruzione o estinzione), ne consegue che la relativa decisione è autonoma rispetto al giudizio di merito e non può condizionarne le sorti né può avere ricadute sulla prescrizione del diritto fatto valere.
Anche il secondo motivo del ricorso è quindi rigettato.
19.- L’ultima questione di particolare importanza da esaminare, rimessa all’attenzione delle Sezioni unite dal terzo motivo del ricorso, è quella afferente alla “efficacia determinativa di una nuova interruzione del corso della prescrizione da parte della cosiddetta istanza di prelievo”, ovvero della istanza con la quale, in data 21.11.2007, gli attuali ricorrenti chiesero al TAR di fissare l’udienza per la prosecuzione del processo (dando atto, sotto il profilo della tempestività, di aver rispettato il termine biennale dal momento in cui avevano ricevuto dalla segreteria del giudice amministrativo la comunicazione dell’avvenuta restituzione degli atti dalla Corte costituzionale unitamente con l’ordinanza di quest’ultima).
Sottolinea la Presidenza del Consiglio nel proprio controricorso che si tratti soltanto di un atto di impulso processuale volto ad ottenere la fissazione dell’udienza pubblica, non indirizzato al debitore ma al Presidente dell’Autorità giudiziaria competente e che l’istanza di fissazione di udienza non presenti le caratteristiche dell’atto di costituzione in mora, né sotto l’aspetto soggettivo né sotto l’aspetto oggettivo: sotto l’aspetto soggettivo l’istanza è rivolta appunto al Presidente dell’ufficio giudiziario, e non al debitore, sotto l’aspetto oggettivo l’istanza di fissazione di udienza non contiene alcuna richiesta di pagamento ma è un atto a contenuto esclusivamente processuale, volto ad evitare la perenzione del processo e a chiedere la fissazione dell’udienza pubblica di discussione.
L’ordinanza interlocutoria, al contrario, ipotizza che si possa attribuire ad essa autonomo effetto interruttivo della prescrizione dell’azione civile, osservando che non si tratterebbe solo di una attività endoprocessuale, perché portata a conoscenza delle parti interessate tramite la comunicazione di cancelleria (richiama Cass. n. 11016 del 2003, con la quale si attribuì valore di atto interruttivo della prescrizione all’atto di riassunzione nel processo).
Questa ricostruzione non appare condivisibile.
Ammessa in tesi l’astratta possibilità che l’istanza di prelievo, prevista dall’art. 70 c.p.a., e depositata all’interno del processo amministrativo, possa fungere da atto interruttivo della prescrizione del diritto soggettivo, bisogna però preliminarmente chiarire che qualsiasi attività svolta all’interno del giudizio amministrativo, per poter produrre l’effetto interruttivo della prescrizione del diritto soggettivo da azionarsi dinanzi al g.o., deve presentare i caratteri dell’atto interruttivo richiesti dal diritto civile. In particolar modo, trattandosi di una ipotesi di attività diversa dalla introduzione di un giudizio o dalla proposizione di una domanda, deve presentare i requisiti richiesti dall’art. 2943 c.c., comma 4, per poter fungere da atto interruttivo della prescrizione quale atto di costituzione in mora. Come più volte puntualizzato da questa Corte (v. da ultimo Cass. n. 15140 del 2021; Cass. n. 15714 del 2018), le suddette caratteristiche si compendiano nella chiara indicazione del soggetto obbligato (elemento soggettivo) e nella esplicitazione di una pretesa, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, con l’effetto sostanziale di costituire in mora il soggetto indicato (elemento oggettivo). Quanto al secondo requisito, esso, pur richiedendo la forma scritta, non impone l’uso di formule solenni né richiede l’osservanza di particolari adempimenti. E’ tuttavia essenziale che l’atto, per poter spiegare i suoi effetti anche quanto alla interruzione della prescrizione, sia portato a conoscenza del destinatario, pervenendo nella sfera di conoscenza o quantomeno di conoscibilità del soggetto passivo della pretesa.
Essendo questi i requisiti affinché un atto interno al processo possa spiegare effetto interruttivo della prescrizione quale atto di costituzione in mora, deve dirsi che l’istanza di prelievo del 2007 non li soddisfa, in quanto non contiene il contenuto minimo necessario per attribuirle l’effetto interruttivo della prescrizione. In primo luogo, essa, essendo una istanza endoprocessuale volta a provocare un’attività del giudice su impulso di parte, da un lato non conteneva una esplicita manifestazione di volontà tesa all’esercizio del diritto soggettivo, dall’altro, la stessa era esclusivamente indirizzata al giudice, e non anche all’Amministrazione parte del giudizio. Neppure i ricorrenti allegano che questa istanza sia stata su loro iniziativa comunicata o notificata alla Presidenza del Consiglio, né l’esigenza che l’atto contenente messa in mora sia portato nella sfera di conoscenza del debitore dalla parte che assume di essere creditore può essere soddisfatta dalla mera possibilità che questa comunicazione venga effettuata dall’ufficio, in quanto essa sarebbe in questo caso effettuata al diverso fine di rimettere in moto il processo amministrativo. Ne’ la conoscenza personale della costituzione in mora della parte può essere supplita dal fatto che essa stesse in giudizio, nell’ambito e ai limitati fini del processo amministrativo, con l’assistenza di un legale, in conformità a quanto più volte affermato da questa Corte nell’analogo caso della proposizione di un atto di riassunzione del processo (“l’atto di riassunzione del processo, essendo un atto di impulso processuale destinato essenzialmente a riattivare il corso del processo, non ha l’autonoma e distinta efficacia interruttiva della prescrizione attribuita agli atti indicati nei primi due commi dell’art. 2943 c.c.; i suoi effetti, pertanto, restano assorbiti e travolti dalla successiva estinzione del processo che con esso sia tardivamente riassunto, a meno che lo stesso possa essere considerato, ricorrendone gli estremi, come atto di costituzione in mora, a tal fine necessitando, però, la notificazione dell’atto stesso alla parte personalmente (od al suo rappresentante sostanziale) e non già al suo procuratore “ad litem”, il cui potere di rappresentanza è circoscritto all’esplicazione delle attività rientranti nella tutela del processuale del diritto controverso. (Sez. 3, Sentenza n. 25126 del 13/12/2010, Rv. 615059 – 01; v. anche Cass. n. 27405 del 2017; Cass. n. 14723 del 2021; Cass. n. 4523 del 1987).
Anche il terzo motivo del ricorso principale deve essere rigettato.
Conclusivamente, il ricorso è rigettato.
In ragione della novità e della complessità delle questioni affrontate, sussistono giustificati motivi per compensare le spese di lite tra le parti. Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’ art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese di giudizio tra le parti.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il 22 marzo 2022.
Il Consigliere estensore
Lina Rubino
Il Presidente
Adelaide Amendola
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 02 settembre 2021, n. 23848, per SS.UU, 09 giugno 2022, n. 18640, in tema di rapporti fra processo amministrativo e processo civile
SS.UU, 09 giugno 2022, n. 18640, in tema di rapporti fra processo amministrativo e processo civile
Nota dell'Avv. Alfonso Ciambrone
Contiguità fra processo amministrativo e processo civile ed effetti sulla prescrizione
1. I principi di diritto
La proposizione di un ricorso amministrativo volto ad ottenere la tutela di un interesse legittimo può costituire atto idoneo ad interrompere la prescrizione di un diritto soggettivo poi fatto valere dinanzi al giudice ordinario; non spiega, invece, effetto interruttivo l’istanza di prelievo ex art. 70 c.p.a., in quanto atto interno al processo, non avente i caratteri dell’atto di costituzione in mora.
La perenzione del processo amministrativo è assimilabile all’estinzione del giudizio civile, con la conseguenza che al suo verificarsi si producono gli effetti di cui all’art. 2945, c. 3, c.c..
2. Le questioni di massima di particolare importanza
L’ordinanza interlocutoria ha segnalato la necessità di affrontare alcune quaestiones iuris, presupposte alla decisione, come tali esaminabili anche d’ufficio (cfr., art. 384, c. 4, c.p.c.) e riassumibili, in termini generali, come segue:
a) se con l’introduzione di un giudizio amministrativo, a tutela di un interesse legittimo strumentale alla migliore realizzazione di un diritto soggettivo, si determini l’interruzione permanente del corso della prescrizione riguardo a quello stesso diritto (soggettivo) poi fatto valere dinanzi al giudice ordinario;
b) in caso di risposta affermativa, se l’effetto sospensivo (o interruttivo permanente) della prescrizione del diritto soggettivo, ricollegabile all’esercizio della situazione di interesse legittimo (pretensivo), si conservi, o si converta nel ben più blando effetto interruttivo istantaneo ex art. 2945, c. 3, c.c., anche nel caso in cui il giudizio amministrativo risulti definito con il meccanismo della perenzione;
c) se, nei casi in cui davanti al giudice amministrativo sia stato fatto valere un interesse legittimo strumentale rispetto a un diritto soggettivo, l’istanza di fissazione dell’udienza (c.d. istanza di prelievo) rivolta al giudice amministrativo costituisca atto idoneo ad interrompere la prescrizione, in quanto utile a manifestare anche nei confronti della controparte l’esercizio della correlata situazione di diritto soggettivo.
3. Riflessioni conclusive
Le Sezioni Unite enunciano i sopra riportati principi di diritto in ragione di distinte, articolate, argomentazioni, che è bene passare partitamente in rassegna.
Quanto all’efficacia interruttiva della prescrizione di un determinato diritto soggettivo, per effetto dell’introduzione di un giudizio amministrativo, il Supremo Consesso chiarisce che ciò che risulta significativo è l’interesse sostanziale in capo alla parte, capace di collegare le due azioni, quella dinanzi al g.a. e quella dinanzi al g.o., nel senso che la prima deve essere strumentale al pieno esercizio del diritto tutelabile attraverso la seconda (viene richiamata, tra l’altro, la sentenza n. 77 del 2007 della Corte Costituzionale).
Quanto all’assimilabilità dell’istituto della perenzione, tipico del processo amministrativo, a quello dell'estinzione per inattività, proprio del processo civile, le Sezioni Unite non condividono le perplessità espresse dall’ordinanza interlocutoria, affermando che, sia nella attuale disciplina del processo amministrativo (cfr., art. 35, c. 2, lett. b), c.p.a.), sia sotto la vigenza della L. 1034/1971, la perenzione determina un effetto estintivo del giudizio amministrativo analogo all’estinzione nel giudizio civile, con conseguenze sovrapponibili anche in tema di prescrizione (cfr., Cons. Stato, nn. 2411 e 4647 del 2020).
Quanto, poi, alla possibilità che l’istanza di prelievo ex art. 70 c.p.a. possa fungere da atto interruttivo della prescrizione del diritto soggettivo poi fatto valere dinanzi al giudice ordinario, il Supremo Collegio esclude detta evenienza (anche questa volta discostandosi dall’ordinanza interlocutoria), in quanto qualsiasi attività svolta all’interno del giudizio amministrativo deve presentare i requisiti richiesti dall’art. 2943, c. 4, c.c..
Viene infatti chiarito che l’istanza di prelievo è atto di impulso processuale, non indirizzato al debitore, volto ad ottenere la fissazione dell'udienza pubblica.
L’istanza in parola non presenta, pertanto, le caratteristiche dell’atto di costituzione in mora, né sotto l’aspetto soggettivo né sotto l'aspetto oggettivo, in conformità a quanto più volte affermato dalla Corte Suprema di Cassazione nell’analogo caso della proposizione di un atto di riassunzione del processo (cfr., n. 25126 del 13 dicembre 2010; n. 27405 del 2017; n. 14723 del 2021).
Non è superfluo aggiungere, da ultimo, come le Sezioni Unite affrontino anche la questione della riconducibilità, o meno, delle decisioni della Corte Costituzionale nel novero delle sentenze che definiscono il giudizio, come tali idonee a spiegare efficacia interruttiva permanente della prescrizione ex art. 2945, c. 2, c.c..
Nel fornire risposta negativa, viene precisato che la totale autonomia del processo costituzionale, da quello che ha costituito occasione del suo avvio, si spinge fino alla assoluta impermeabilità rispetto agli eventi che segnano il processo a quo, quali la sua sospensione, interruzione o estinzione; la relativa decisione non può, quindi, condizionare le sorti del giudizio di merito, né può avere ricadute sulla prescrizione del diritto ivi fatto valere.
Ne consegue che, se dopo la conclusione dell’incidente di costituzionalità il giudizio a quo venga dichiarato estinto o perento, il termine di prescrizione inizierà a decorrere dalla data dell’atto introduttivo del giudizio conclusosi con il provvedimento di estinzione o perenzione e non potrà essere influenzato dalla proposizione, né dalla definizione, del giudizio di legittimità costituzionale.
Si veda anche SS.UU, 31 maggio 2022, n. 17619.