Civile Ord. Sez. U Num. 6690 Anno 2020
Presidente: SPIRITO ANGELO
Relatore: VINCENTI ENZO
Data pubblicazione: 09/03/2020
ORDINANZA
sul ricorso 19232-2019 proposto da:
PLANTAMURA CONCETTA, elettivamente domiciliata in ROMA, VI G.P. DA PALESTRINA 47, presso lo STUDIO LATTANZI-CARDARELLI, rappresentata e difesa dagli avvocati FRANCESCO CARDARELLI e MICHELE LOBUONO;
– ricorrente –
contro
BELLOMO FRANCESCO, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato PIETRO GAROFALO;
– controricorrente –
CONTE GIUSEPPE, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA B. CAIROLI 6, presso lo studio dell’avvocato PIERO GUIDO ALPA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIO CONSOLO;
– controricorrente e ricorrente incidentale —
contro
BELLOMO FRANCESCO, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato PIETRO GAROFALO;
– controricorrente all’incidentale –
nonchè contro
DELOGU FRANCESCA;
– intimata –
per regolamento di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 15328/2017 del TRIBUNALE di BARI.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/01/2020 dal Consigliere ENZO VINCENTI;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale CARMELO SGROI, il quale chiede che la Corte di Cassazione, in camera di consiglio, dichiari la giurisdizione del giudice ordinario, nei termini indicati nella parte motiva, con le statuizioni conseguenti.
FATTI DI CAUSA
1. – Con citazione notificata nel settembre 2017, il dott. Francesco Bellomo, all’epoca consigliere di Stato, ha convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bari – unitamente ad altri (Antonio Paladini, Francesca Paladini e Francesca Delogu) -, il prof. Giuseppe Conte e la dott.ssa Concetta Plantamura per sentirli condannare, ai sensi degli artt. 2043, 2059, 2056 e 1226 c.c., al pagamento in solido della somma di euro 250.000,00, oltre accessori, a titolo di danni patrimoniali e non patrimoniali quali “responsabili dell’illecito plurioffensivo” meglio descritto al paragrafo Al) dello stesso atto di citazione.
1.1. – L’azione risarcitoria è stata originata dalla vicenda che ha portato all’avvio di un procedimento disciplinare a carico del dott. Bellomo (per fatti relativi alla sua attività di direttore scientifico e di docente nei corsi organizzati dalla società “Diritto e Scienza s.r.l.” – “Scuola di formazione giuridica avanzata e Centro di ricerca” – per la preparazione ai concorsi di accesso alle magistrature e per l’abilitazione all’esercizio della professione forense), con instaurazione del relativo giudizio a seguito degli accertamenti preliminari e, poi, dell’istruttoria svolta dalla commissione di cui all’art. 33 della legge 27 aprile 1982, n. 186, composta, in qualità di membri effettivi nominati dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (CPGA), dal prof. Conte, componente laico del CPGA, dalla dott.ssa Plantamura e dal dott. Manfredo Atzeni, magistrati amministrativi componenti dello stesso CPGA. Giudizio disciplinare che si è concluso, successivamente alla proposizione del giudizio civile di danni, con provvedimento di destituzione dell’incolpato dalla magistratura amministrativa, adottato dal CPGA il 12 gennaio 2018 e reso efficace con decreto del Presidente della Repubblica in data 9 febbraio 2018.
1.2. – A sostegno della domanda di danni per responsabilità civile ex art. 2043 c.c., l’attore ha dedotto (diffusamente argomentando) che l’illecito plurioffensivo (lesivo del “diritto all’equo processo”, del “diritto all’autodeterminazione”, della “libertà di ricerca e insegnamento” e del “diritto alla salute”), di cui lamenta esser rimasto vittima, sarebbe stato cagionato dall’iniziativa disciplinare e dalle “modalità con cui è stata condotta”, ossia in forza dei comportamenti antigiuridici che avrebbero posto in essere il prof. Conte e la dott.ssa Plantamura, “rispettivamente presidente e componente della Commissione, che ha gestito l’intero procedimento disciplinare”.
Entrambi avrebbero agito in base a “un disegno persecutorio”, che troverebbe evidenza nella scelta, dolosa, di negare ad esso incolpato “il contraddittorio nella fase degli accertamenti preliminari”, di “non contestare” in modo specifico le circostanze di fatto relative agli addebiti e di “non descrivere l’offesa al bene giuridico”, di “confermarsi componenti della Commissione, autopronunciandosi sulla loro ricusazione”, di condurre l’audizione dei testimoni in modo da “provocare l’emersione di elementi sfavorevoli all’incolpato”, di aver utilizzato prove illecite e gestito in maniera disinvolta i dati personali dell’incolpato stesso.
2. – Nel corso di detto giudizio civile, la dott.ssa Concetta Plantamura ha proposto regolamento preventivo di giurisdizione affinché venga dichiarato che la cognizione dell’azione risarcitoria proposta dal dott. Bellomo spetti al giudice amministrativo.
Ha resistito con controricorso il dott. Francesco Bellomo, concludendo per la conferma della giurisdizione del giudice ordinario.
Ha, quindi, depositato controricorso il prof. Giuseppe Conte, che, con annesso ricorso incidentale, ha chiesto una declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore di quella del giudice amministrativo.
Anche avverso il ricorso incidentale ha resistito con controricorso il dott. Bellomo.
Non ha svolto attività difensiva in questa sede l’intimata Francesca Delogu.
I ricorrenti, principale ed incidentale, hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Entrambi i ricorsi (dopo aver ricostruito i fatti relativi alla vicenda controversa) sviluppano argomentazioni analoghe a sostegno di un motivo (articolato su due profili), comune nella rubrica e dalle argomentazioni sostanzialmente analoghe, con cui si sostiene che la causa introdotta in sede civile dal dott. Bellomo appartenga alla giurisdizione del giudice amministrativo; il ricorso della dott.ssa Plantamura propone, poi, un secondo motivo, autonomo, con cui si postula il difetto assoluto di giurisdizione.
2. – Con il motivo comune, i ricorrenti deducono in merito alla giurisdizione del giudice ammnistrativo ai sensi degli artt. 24, 25, 103, 113 Cost., 7, 133, 135 del d.lgs. n. 104 del 2010 (c.p.a.) e 3 del d.lgs. n. 165 del 2001.
2.1. – Sotto un primo profilo, si assume che l’azione intentata dal dott. Bellomo sarebbe, invero, orientata a censurare atti o provvedimenti degli organi (in particolare, la commissione ex art. 33, comma secondo e terzo, della legge n. 186 del 1982, ma anche lo stesso CPGA, di cui la commissione è organo interno, a composizione collegiale e variabile) ai quali la stessa legge affida lo svolgimento di funzioni nell’ambito del procedimento disciplinare.
Si tratterebbe, dunque, di giudizio volto a tutelare non già diritti soggettivi asseritamente lesi da condotte integranti l’illecito aquiliano, bensì l’interesse legittimo alla regolarità del procedimento disciplinare e alla legittimità del relativo provvedimento conclusivo”, come, del resto, sarebbe confermato dalla circostanza che il dott. Bellomo ha successivamente impugnato dinanzi al T.A.R. Lazio detto provvedimento disciplinare (con ricorso presentato nel 2018) deducendo (in forza di una “assoluta simmetria dei vizi del procedimento disciplinare lamentati … in tempi diversi e in sedi diverse”) l’illegittimità degli atti istruttori e della proposta formulata dalla “Commissione” (che precedono la decisione finale del procedimento, adottata dal CPGA), “ossia gli stessi atti che avrebbero determinati i danni” oggetto dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile.
L’atto di citazione – argomentano ancora i ricorrenti – opererebbe una “voluta confusione” di piani, essendo rivolto nei confronti delle persone del prof. Conte e della dott.ssa Plantamura, ma attenendo a fatti compiuti dagli stessi in qualità di componenti della “Commissione” ex art. 33 della legge n. 186 del 1982 e nell’ambito di procedimento amministrativo che tutela il prestigio e l’immagine della magistratura amministrativa, senza che i medesimi componenti abbiano assunto decisioni individuali, avendo svolto attività sempre in forma collegiale, secondo le prescrizioni di legge.
La controversia, pertanto, rientrerebbe tra quelle devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 7 c.p.a., in quanto involgente atti e/o comportamenti tenuti nel contesto di attività istruttoria tipica (endoprocedimentale) di un procedimento amministrativo e disciplinare, costituendo condotte di esercizio del potere autoritativo e discrezionale dalla legge attribuito a ciascun funzionario amministrativo in quanto membro della “Commissione”.
Dunque, l’azione in sede civile del dott. Bellomo riguarderebbe, invero, modalità di esercizio della funzione pubblica e, quindi, comportamenti correlati all’esercizio del potere pubblico (nei termini indicati dalle sentenze della Corte costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006), eziologicamente determinativi dei danni lamentati dallo stesso attore.
2.2. – Sotto un altro profilo, i ricorrenti sostengono che la giurisdizione del giudice amministrativo sussista, nella specie, in base all’art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a., in quanto controversia relativa a rapporto di lavoro del “personale in regime di diritto pubblico”, nel quale rientrano, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, i magistrati amministrativi ed avendo il procedimento disciplinare “ontologicamente natura di controversia di lavoro” relativa al rapporto, nella specie, tra il Consiglio di Stato e il magistrato amministrativo, che si conclude con un provvedimento amministrativo adottato dal CPGA, impugnabile, ex art. 135 c.p.a., dinanzi al T.A.R. del Lazio, munito, al riguardo, di competenza territoriale inderogabile.
2.3. – I ricorrenti assumono, inoltre, che l’oggettiva sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo trovi conferma nel fatto che il dott. Bellomo si sia riservato, nel giudizio successivamente promosso dinanzi al T.A.R. del Lazio per l’impugnativa del provvedimento disciplinare, di “domandare il risarcimento del danno non patrimoniale” asseritamente patito per l’adozione di detto provvedimento, “ossia esattamente lo stesso danno il cui risarcimento è stato domandato” in sede civile ai convenuti.
Una tale operazione – avendo l’attore proposto, dinanzi al Tribunale di Bari, profili di illegittimità di atti e provvedimenti adottati in seno al procedimento disciplinare prima che si concludesse, interferendo con l’esercizio stesso del potere disciplinare – sarebbe preclusa dall’art. 25 Cost., non potendo la scelta del giudice “dipendere dalla strategia processuale della parte che agisce in giudizio”. La causa civile, infatti, si paleserebbe quale espediente volto sia a rendere incompatibili i convenuti rispetto alla decisione che sarebbe stata assunta dal CPGA, sia – per aver convenuto in giudizio due componenti soltanto della “Commissione” – al fine di radicare la giurisdizione del giudice ordinario nonostante la sostanza della domanda, siccome diretta, di fatto, nei confronti di un organo della pubblica amministrazione, ossia di una amministrazione in senso oggettivo, sussistendo, ai sensi dell’art. 103 Cost., la giurisdizione del giudice amministrativo ove si controverta (come nella specie) del cattivo esercizio del potere.
3. – La sola ricorrente principale deduce, poi, il difetto assoluto di giurisdizione “per improponibilità dell’azione” ex artt. 2, comma 1, e 4, comma 1, della legge n. 117 del 1988, in tema di responsabilità civile dei magistrati.
Nel caso di specie, sussisterebbero entrambi i presupposti – soggettivo e oggettivo – di applicabilità di detta disciplina, poiché l’illecito civile è stato addebitato alla dott.ssa Plantamura: a) nella sua qualità di magistrato amministrativo, come tale designato membro del CPGA (con d.P.R. del 24 settembre 2013) e, quindi, componente della commissione ex art. 33 della legge n. 186 del 1982; b) in forza di condotte “antigiuridiche” espressione della funzione disciplinare esercitata dal CPGA e, per esso, dalla citata commissione.
Sicché, trovando applicazione la legge n. 117 del 1988 nei casi di danno cagionato nell’esercizio delle funzioni “giudiziarie” (e, dunque, non solo giurisdizionali) del magistrato, in esse (funzioni giudiziarie) andrebbe annoverata “l’attività espletata dal magistrato togato membro dell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa in sede disciplinare”, giacché realizzata “nella sua qualità di giudice” e interamente regolata dalla legge in guisa di “manifestazione oggettiva della funzione giustiziale o contenziosa”.
Ne conseguirebbe, secondo la ricorrente, il difetto assoluto di giurisdizione sulla domanda di risarcimento danni proposta dal dott. Bellomo, essendo la scelta del legislatore quella di rendere improponibile l’azione diretta contro il magistrato e di prevedere esclusivamente la responsabilità diretta dello Stato, nei cui confronti soltanto può agire il danneggiato.
4. – La cognizione della controversia promossa dal dott. Bellomo contro (tra gli altri) il prof. Conte e la dott.ssa Plantamura spetta, per le ragioni di seguito esposte, al giudice ordinario.
5. – Giova muovere dall’esame del motivo di ricorso con cui si deduce radicalmente, nei soli confronti della dott.ssa Plantamura, il difetto assoluto di giurisdizione.
Ipotesi, questa, configurabile allorché la domanda giudiziaria non è conoscibile, in astratto e non in concreto, da alcun giudice, sicché quest’ultimo è tenuto ad “arretrare” rispetto ad una materia che non può formare oggetto di cognizione giurisdizionale (più di recente, Cass., S.U., 25 marzo 2019, n. 8311).
5.1. – La legge 13 aprile 1988, n. 117 (e successive modificazioni), sulla responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, trova applicazione (per quanto interessa in questa sede) “a tutti gli appartenenti alle magistrature” – tra cui, quindi, quella amministrativa – “che esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni” (art. 1, comma 1).
Vi è, dunque, un duplice presupposto condizionante l’applicazione della citata legge n. 117: di status (appartenenza alla magistratura, nella specie amministrativa) ed oggettivo (esercizio di attività giudiziaria).
Nella compresenza dei presupposti anzidetti, la proposizione di azione per il risarcimento del danno (per l’appunto, cagionato “nell’esercizio delle funzioni giudiziarie”, come recita il titolo della legge) direttamente nei confronti del magistrato è consentita soltanto nell’ipotesi di cui all’art. 13 della stessa n. 117 del 1988, ossia da “chi ha subìto un danno in conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni”.
Diversamente, l’azione diretta di danno può essere proposta unicamente contro lo Stato.
Ne consegue che, al di fuori dell’ipotesi disciplinata dal citato art. 13, la proposizione, in sede civile, di azione diretta contro il magistrato configura una fattispecie di improponibilità assoluta e definitiva della domanda, in quanto concernente un diritto non configurato in astratto a livello normativo dall’ordinamento (Cass., 26 giugno 2012, n. 10596).
Trattasi, dunque, di questione che, come tale, integra una deduzione di difetto assoluto di giurisdizione sindacabile in sede di regolamento preventivo di giurisdizione (o come motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 1, c.p.c.), perché attiene al perimetro, in astratto delimitato dall’ordinamento, della cognizione giurisdizionale, tale che nessun giudice può conoscere della domanda risarcitoria proposta in via diretta in sede civile per danni cagionati (con dolo o colpa grave) a seguito “di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni” (art. 6).
5.2. – Nella specie, assume rilievo il fatto, certo e assorbente ai fini della delibazione della questione di difetto assoluto di giurisdizione (e, quindi, a prescindere dal thema decidendum che più specificamente propongono i motivi di ricorso comuni ad entrambi i ricorrenti), che la controversia promossa dal dott. Bellomo nei confronti della dott.ssa Plantamura è stata instaurata sin dall’origine dinanzi al giudice civile e riguarda un’azione risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 c.c. “per gli atti, i comportamenti e le dichiarazioni effettuati” dalla convenuta “quale componente della Commissione ex art. 33, comma 2 e comma 3, della legge 27 aprile 1982, n. 186” (p. 94 atto di citazione).
La commissione anzidetta è composta da tre componenti del CPGA e costituisce organo dello stesso Consiglio di Presidenza nelle sue attribuzioni sui provvedimenti disciplinari riguardanti i magistrati (art. 13, comma secondo, n. 2, della legge n. 186 del 1982).
Essa opera, dapprima, in sede di accertamenti preliminari (comma secondo dell’art. 33 citato) e, poi, in sede istruttoria successiva alla contestazione degli addebiti (comma terzo del medesimo art. 33).
La dott.ssa Plantamura è stata componente di detta commissione in quanto magistrato amministrativo eletto quale membro del CPGA, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 186 del 1982.
5.2.1. – Posto che, per un verso, il presupposto soggettivo condizionante l’applicabilità della legge n. 117 del 1988 è da ravvisare, in capo alla dott.ssa Plantamura, proprio nello status di magistrato amministrativo e, come tale, membro (eletto) del CPGA e, quindi, in siffatta veste, nominata componente della commissione ex art. 33 della legge n. 186 del 1982; per altro verso, la proposizione dell’azione risarcitoria in sede civile, in assenza di un pregresso giudizio penale, è, altresì, fattore dirimente per escludere la configurabilità di ipotesi riconducibile all’art. 13 della citata legge n. 117.
Tale ultima norma, infatti, è stata da sempre interpretata nel senso che “l’azione risarcitoria diretta contro il magistrato per il fatto costituente reato commesso nell’esercizio delle sue funzioni … è ammessa solo nelle ipotesi in cui sia intervenuta sentenza di condanna del magistrato passata in giudicato, ovvero nel caso in cui la domanda stessa, in quanto inserita nel processo penale mediante costituzione di parte civile, possa essere oggetto di decisione (del giudice penale) contestualmente all’accertamento del verificarsi del reato, ricorrendo un’eccezionale ipotesi di pregiudizialità necessaria ‘‘ dell’accertamento penale del fatto reato, atteso che la mera deduzione della configurabilità come reato del comportamento attribuito al magistrato eluderebbe le finalità di garanzia approntate dal legislatore a difesa della funzione giurisdizionale e non già del singolo soggetto che la esercita” (da ultimo, Cass., 12 settembre 2019, n. 22729).
5.3. – Tuttavia, il denunciato difetto assoluto di giurisdizione non può, comunque, ritenersi sussistente, giacché le funzioni svolte dalla dott.ssa Plantamura in qualità di componente della commissione ex art. 33 della legge n. 186 del 1982 non costituiscono esercizio di “attività giudiziaria”, tali, dunque, da integrare l’ulteriore, e imprescindibile, presupposto, di carattere oggettivo, che condiziona, nella specie, l’applicabilità della legge n. 117 del 1988.
5.3.1. – E’ principio consolidato quello per cui l’attività svolta dal CPGA e i provvedimenti da esso resi nell’ambito delle attribuzioni disciplinari nei confronti dei magistrati amministrativi hanno natura amministrativa e non giurisdizionale, non potendo ascriversi allo stesso CPGA natura di organo giurisdizionale neppure in ragione del richiamo, operato dall’art. 32 della legge n. 186 del 1982, alle norme del procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari (efficace almeno sino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 109 del 2006, che ha espressamente escluso, all’art. 30, l’applicabilità della disciplina da esso dettata ai magistrati amministrativi e contabili), così da poter mutuare il carattere, invece, sicuramente giurisdizionale che riveste la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura (Cass., S.U., 10 aprile 2002, n. 5126; Cass., S.U., 20 aprile 2004, n. 7585).
Del resto, la tutelabilità della posizione del magistrato amministrativo interessato dal provvedimento disciplinare dinanzi al giudice amministrativo, a conferma della natura amministrativa di detto provvedimento e dell’organo che lo ha adottato, è ribadita dallo stesso codice del processo amministrativo, che, all’art. 135, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 104 del 2010, riserva alla competenza inderogabile del TAR del Lazio, sede di Roma, “le controversie relative … ai provvedimenti riguardanti i magistrati amministrativi adottati dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa”.
5.3.2. – Né la natura di procedimento giustiziale e contenzioso, in base ad un paradigma predeterminato dalla legge, dedotta dalla ricorrente, consente di immutare la natura soggettiva del CPGA e di elidere il carattere amministrativo del procedimento disciplinare a carico dei magistrati amministrativi, così da poter qualificare il relativo svolgimento come “attività giudiziaria”.
Il riferimento all’attività giudiziaria”, quale presupposto oggettivo di applicabilità della legge n. 117 del 1988, sebbene ampli lo spettro delle condotte del magistrato riconducibili nell’alveo della disciplina da essa recata, non recide il collegamento che deve comunque sussistere tra l’attività (comportamenti, atti e provvedimenti) del magistrato stesso e la funzione giurisdizionale, poiché la giustificazione di fondo di detta disciplina, speciale rispetto a quella comune, va pur sempre rinvenuta “nelle disposizioni di cui agli artt. 101 e ss. della Costituzione, che imprimono alla disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati un significato d’insieme univoco e coerente di difesa dei valori dell’autonomia ed indipendenza del giudice, i quali operano non già come privilegio personale del singolo appartenente all’ordine giudiziario o alle giurisdizioni speciali (art. 108 Cost.), bensì come tassello indefettibile, al pari di altri, nella costruzione della forma repubblicana, che, ai sensi dell’art. 139 Cost., non può in nessun caso essere oggetto di revisione” (Cass., 4 gennaio 2014, n. 41).
Pertanto, l’estensione dell’ambito applicativo della legge n. 117 del 1988, oltre quello segnato dallo svolgimento della funzione giurisdizionale in senso stretto (e, tanto più, di quella eminentemente decisoria: Cass. n. 41 del 2014, cit.), va delineata in coerenza con il collegamento anzidetto, certamente operando la disciplina legale in riferimento alle “attività che si esprimono nell’adozione di atti e provvedimenti giurisdizionali, nelle varie forme in cui la giurisdizione si estrinseca”, ma essendo capace di comprendere anche “attività” ulteriori, siccome strumentali a quella giurisdizionale, ossia “le attività che si esprimono con quegli atti che sono funzionali, in relazione al diverso ruolo ricoperto nell’organizzazione giudiziaria dal magistrato, al compimento dell’attività giurisdizionale” (Cass., 26 giugno 2012, n. 10596).
Dunque, ciò che caratterizza l’attività giudiziaria”, ai sensi della legge n. 117 del 1988, è la sua inerenza all’esercizio dell’ufficio di cui l’appartenente alla magistratura è investito e che, pertanto, rientra, in base alla legge, nelle attribuzioni (giurisdizionali o non) dell’organo giudiziario” in cui il magistrato stesso si immedesima.
5.3.3. – Tanto, come detto, non è predicabile in riferimento alla posizione del CPGA e all’attività che il Consiglio medesimo svolge (anche tramite la commissione ex art. 33 della legge n. 186 del 1982, quale suo organo) in sede disciplinare, né un siffatto esito interpretativo suscita i dubbi di compatibilità costituzionale dello specifico assetto normativo implicato che la ricorrente ha prospettato (e sviluppato soprattutto con la memoria successivamente depositata) in riferimento ai principi costituzionali di uguaglianza e di parità di trattamento rispetto alla regolamentazione dettata in materia di procedimento disciplinare per i magistrati ordinari.
La stessa Corte costituzionale (sentenza n. 87 del 2009) ha ribadito che, a differenza del procedimento disciplinare relativo ai magistrati ordinari che ha natura giurisdizionale e si svolge dinanzi alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, quello relativo ai magistrati amministrativi ha natura di procedimento amministrativo e si svolge dinanzi al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, organo amministrativo.
Si tratta di “una diversa configurazione del procedimento” che dipende da una scelta del legislatore, “che ben può articolare diversamente l’ordinamento delle singole giurisdizioni, a patto che siano rispettati i principi costituzionali comuni”.
Quest’ultimi, però, vengono in precipua considerazione in quanto investenti la posizione del magistrato incolpato, in funzione della garanzia dell’indipendenza che “rileva anche in materia di responsabilità disciplinare, perché la prospettiva dell’irrogazione di una sanzione può condizionare il magistrato nello svolgimento delle funzioni che l’ordinamento gli affida”.
Ed è il precipuo rilievo che assume detta garanzia ad imporre l’estensione al magistrato fatto oggetto di addebito disciplinare di “tutte le misure volte a evitare ogni indebito condizionamento” (e, tra queste, “quelle dirette ad assicurare un’efficace difesa”, come il farsi assistere da un avvocato, quale modalità difensiva già riconosciuta al magistrato ordinario a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. n. 511 del 1946, pronunciata
dalla sentenza n. 497 del 2000 della Corte costituzionale).
Dunque, è questa la prospettiva peculiare – ossia, quella che ha di mira la garanzia costituzionale di indipendenza del giudice incolpato in sede disciplinare – che impone uguale trattamento tra magistrati, ordinari e amministrativi, nella declinazione della disciplina dello svolgimento del procedimento disciplinare in modo tale che l’anzidetta garanzia sia assicurata e che, in vista di tale fine, rende neutra la pur diversa “natura che la legge attribuisce al procedimento e all’autorità disciplinare”.
Prospettiva, quindi, che non attiene alla posizione dell’organo che procede disciplinarmente (e, dunque, a quella dei suoi componenti), la cui natura, e la natura dell’attività da esso svolta, è definita dal legislatore in base ad una discrezionalità di scelta ampia, il cui esercizio diversificato non è suscettibile, sotto lo specifico profilo qui in esame, di destare dubbi di legittimità costituzionale per lesione dell’art. 3 Cost.
6. – Anche il motivo (comune ad entrambi i ricorrenti) con cui si sostiene la giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi degli artt. 7 e 133 del c.p.a. non può trovare accoglimento.
6.1. – A tal riguardo, occorre muovere dall’esame della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio (ossia la causa petendi) con l’azione risarcitoria dal dott. Bellomo promossa dinanzi al giudice civile, essendo il c.d. petitum sostanziale – da individuarsi in base ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione – il criterio orientativo della delibazione che questa Corte regolatrice è tenuta a compiere in punto di riparto di giurisdizione (tra le tante, Cass., S.U., 31 luglio 2018, n. 20350).
6.2. – L’attore – come già in parte sopra evidenziato (§ 1.2. dei “Fatti di causa”) – ha dedotto che l’iniziativa disciplinare e le modalità con cui è stata condotta integrano un illecito plurioffensivo” (lesivo del “diritto all’equo processo”, del “diritto all’autodeterminazione”, della “libertà di ricerca e insegnamento” e del “diritto alla salute”) e si è soffermato sulla “condotta illecita del prof. Conte e della cons. Plantamura … rispettivamente presidente e componente della Commissione, che ha gestito l’intero procedimento disciplinare”, evidenziando, anzitutto, ai punti da I a IV (pp. 37-94 dell’atto di citazione), le “condotte antigiuridiche (atti, dichiarazioni, comportamenti) perpetrate dai convenuti, essenzialmente attraverso l’esercizio illegale del potere disciplinare o facendone abuso” (assumendo che abbiano agito in base a “un disegno persecutorio”, in “mala fede” e caratterizzato da dolo), sovente intestando, direttamente e immediatamente, alla “Commissione” stessa l’operato reputato determinativo di danno che “si è cristallizzato con la formulazione della contestazione” disciplinare [a) punto I in riferimento alla fase istruttoria: violazione del diritto di difesa, ossia dei principi del contraddittorio, della parità delle armi, dell’imparzialità, dell’obbligo di motivazione, di pubblicità dell’istruttoria, di inutilizzabilità di prove acquisite illecitamente; b) punto II in riferimento alla contestazione: violazione del diritto di difesa per genericità assoluta dei capi di incolpazione; c) punto III in riferimento alla contestazione: nullità e/o illegittimità “per insussumibilità nel paradigma legale dell’illecito disciplinare” e per “insussistenza di fatti di rilievo disciplinare”; d) punto IV in riferimento al procedimento disciplinare: abuso del potere disciplinare].
Il dott. Bellomo ha, poi, argomentato in punto di responsabilità civile ex art. 2043 c.c. dei due convenuti (punto V, pp. 94-98 dell’atto di citazione), deducendo che essa va loro ascritta “a titolo proprio, per gli atti, i comportamenti e le dichiarazioni effettuati quali presidente e componente della Commissione ex art. 33, comma 2 e comma 3 della legge 27 aprile 1982, n. 186″, e precisando di rivolgere l’azione risarcitoria non contro la pubblica amministrazione, non avendo “direttamente ad oggetto la legittimità degli atti amministrativi”, bensì contro “le persone fisiche che hanno avuto la gestione del procedimento”, le cui condotte hanno “causato la lesione di diritti fondamentali della persona”.
L’attore ha dedotto, infine, che, ove “non si ritenesse sussistente la condotta persecutoria o comunque un illecito doloso imperniato sull’abuso di potere, resterebbe la responsabilità dei convenuti per l’esercizio illegale del potere disciplinare, atteso che la colpa è indiscutibile a fronte della molteplicità e gravità delle illegittimità commesse e dei comportamenti negligenti che le hanno accompagnate”.
6.3. – Emerge, dunque, dagli atti che l’azione risarcitoria promossa dal dott. Bellomo si fonda sull’allegazione di un illecito aquiliano che trova concretezza in una fattispecie materiale, postulata come sussumibile in quella legale di cui all’art. 2043 c.c., che si incentra, essenzialmente, sull’attività svolta dalla commissione ex art. 33 della citata legge n. 186 del 1982, quale organo collegiale emanazione del CPGA, nella veste, a sua volta, di soggetto pubblico (avente natura di amministrativa, come innanzi evidenziato) investito ex lege delle funzioni disciplinari nei confronti dei magistrati amministrativi; attività di carattere procedimentale che, dunque, avrebbe assunto i caratteri dell’abuso del potere disciplinare (così gli illustrati punti da I a IV dell’atto di citazione), siccome posta in essere (dolosamente e/o colposamente) deviando dal paradigma legale.
Di qui, la dedotta correlazione eziologica con il danno che ne sarebbe derivato al magistrato amministrativo incolpato (il dott. Bellomo), che la prospettazione di parte qualifica come ingiusto nei termini di lesione di una pluralità di diritti della persona costituzionalmente protetti, ma che piuttosto – come mettono in rilievo anche le conclusioni scritte del p.m. – si pone in nesso diretto con l’interesse al legittimo svolgimento del procedimento disciplinare, così da rendere conseguenze
pregiudizievoli ulteriori (“danni-conseguenza”) gli anzidetti vulnera.
Il risarcimento del danno preteso dall’attore si trova, quindi, in rapporto di causalità diretta con l’illegittimo esercizio del potere pubblico (tra le altre, Cass., S.U., 15 dicembre 2017, n. 30221), che, nella specie, si è espresso come tipica attività amministrativa in ambito disciplinare (nei confronti di magistrato amministrativo), la quale si è svolta nella fase preliminare alla decisione definitiva, rimessa all’organo compente, e ad essa strumentale.
L’azione aquiliana, tuttavia, non è rivolta contro il soggetto pubblico, titolare del potere disciplinare, bensì contro due soli componenti della citata commissione (presidente e membro dello stesso), sebbene proprio nella veste di funzionari pubblici legati ad essa da rapporto organico e per gli atti e i comportamenti tenuti nell’esercizio di dette funzioni, i quali, dunque, avrebbero (in tesi) orientato l’attività dell’intero collegio e, quindi, della commissione stessa, così da realizzare il dedotto “abuso di potere disciplinare”.
6.4. – La giurisdizione del giudice amministrativo sulla così configurata pretesa di risarcimento del danno è, dunque, postulata dai ricorrenti in base agli artt. 7 e 133, comma 1, lett. i), c.p.a., deducendosi come rilevanti sia profili concernenti la giurisdizione generale di legittimità (che, in forza del comma 4, attrae anche le controversie “relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma”), che la giurisdizione esclusiva (inclusiva delle posizioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo) sulle “controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico di lavoro”; previsione, quest’ultima, che – in ipotesi e sotto un profilo eminentemente oggettivo – si presenta, nella specie, come paradigma legale di attrazione della giurisdizione aggiormente pertinente, trovando il procedimento disciplinare radice, e non soltanto un mero collegamento occasionale, nel rapporto di impiego del magistrato amministrativo, sul cui status va direttamente ad incidere.
6.5. – Invero, la tesi dei ricorrenti non rinviene ostacolo nell’interpretazione – sicuramente valida e coerente sino ad un erto momento storico – dell’art. 28 Cost. e delle disposizioni (artt. 22 e 23 del d.P.R. n. 3 del 1957) che di tale norma fondamentale costituiscono, ancora oggi, il precipitato legislativo in materia di responsabilità dei pubblici dipendenti, siccome volta ad escludere, nei confronti di quest’ultinni, la configurabilità, in astratto, della responsabilità diretta (e solidale con quella della P.A.) in caso di lesione di posizioni di interesse legittimo, quale situazione, anch’essa, implicata, nel caso in esame, dal rilevato (ai fini dell’individuazione del petitum sostanziale ex art. 386 c.p.c.) nesso causale tra il danno lamentato e l’esercizio, contra legem, del potere amministrativo in sede disciplinare.
Diversamente che dal passato, deve ora ritenersi che l’espressione “atti compiuti in violazione dei diritti” contenuta nell’art. 28 Cost. (e, di riflesso, l’analoga espressione – “violazione dei diritti dei terzi” – utilizzata dall’art. 23 del d.P.R. n. 3 del 1957 per definire la nozione di “danno ingiusto” cui si richiama l’art. 22 dello stesso d.P.R.) sia da intendersi, in senso estensivo e traslato, come violazione di ogni interesse rilevante per l’ordinamento giuridico e meritevole di tutela, tale, dunque, a fondare la responsabilità indiretta del pubblico dipendente (per dolo o colpa grave) anche in riferimento alla lesione di una posizione di interesse legittimo del terzo danneggiato.
E’ una lettura, questa, delle norme anzidette (in tal senso, espressamente sul solo combinato disposto degli artt. 22 e 23 del T.U. del 1957, cfr. Cass., 31 luglio 2015, n. 16276, ma già in precedenza, nella giurisprudenza amministrativa, v. Cons. Stato, VI, n. 3891 del 2006), che è potuta maturare in virtù dell’evoluzione stessa dell’ordinamento, alimentata dal coordinato operare dei suoi formanti: anzitutto, la regolamentazione positiva, con particolare slancio dal d.lgs. n. 80 del 1998 (per poi giungere a definizione con la disciplina dettata dal c.p.a.: artt. 7 e 30), e, quindi, la giurisprudenza, a partire dalla sentenza, di queste Sezioni Unite, n. 500 del 22 luglio 1999.
Un’evoluzione che, del resto, ha potuto giovarsi non solo del richiamo espresso alle “leggi … civili e amministrative” presente nello stesso art. 28 Cost. (così da dare vitalità effettiva ai mutamenti normativi) e della ragione fondativa della medesima previsione costituzionale (volta a personalizzare la responsabilità della stessa P.A., istituendo una immediata relazionalità tra funzionario pubblico e cittadino, non più schermata soltanto dalla mediazione dell’apparato, secondo una traiettoria che ha trovato conferma nella disciplina sul procedimento amministrativo, con l’istituzione della figura del relativo responsabile), ma anche di un più ampio contesto giuridico-culturale, incline ad assegnare centralità, non solo ermeneutica, al principio di effettività della tutela, già scolpito in via generale nell’art. 24 Cost. (e dall’art. 113 Cost. nello specifico degli atti della pubblica amministrazione), nonché rinsaldato dal novellato art. 111 Cost. (con la previsione della garanzia del giusto processo dalla durata ragionevole) e dalle fonti sovranazionali (art. 47 della Carta di Nizza, art. 19 del Trattato sull’Unione europea, art. 6 CEDU), il quale trova la propria ragion d’essere proprio nella pretesa sostanziale la cui soddisfazione viene reclamata dinanzi al giudice.
6.6. – La domanda risarcitoria formulata nei confronti del prof. Conte e della dott.ssa Plantamura spetta, invece, alla cognizione del giudice ordinario in quanto investe unicamente le singole persone fisiche, sebbene nella veste di funzionari pubblici, e non la pubblica amministrazione per la quale hanno agito, che, come tale, non è stata destinataria di alcuna pretesa risarcitoria.
In tal senso, deve trovare applicazione il principio secondo cui “l’art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicché la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario in proprio, cui si imputi l’adozione del provvedimento illegittimo, va proposta dinanzi al giudice ordinario, non ostando a ciò la proposizione della domanda anche nei confronti dell’ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, stante l’inderogabilità per ragioni di connessione della giurisdizione” (Cass., S.U., 13 giugno 2006, n. 13659).
A tal riguardo (come, segnatamente, messo in risalto da Cass., S.U., 3 ottobre 2016, n. 19677), il presupposto della giurisdizione amministrativa alla luce dell’art. 103 Cost. “è, infatti, che la tutela giurisdizionale coinvolgente le situazioni giuridiche nella giurisdizione di legittimità ed in quella esclusiva debba avere luogo con la partecipazione in posizione attiva o passiva della pubblica amministrazione” o “del soggetto che, pur non facendo parte dell’apparato organizzatorio di essa, eserciti le attribuzioni dell’Amministrazione, così ponendosi come pubblica amministrazione in senso oggettivo”.
Il dettato costituzionale – che radica la giurisdizione del giudice amministrativo “nei confronti della pubblica amministrazione” – è confermato dallo stesso codice del processo amministrativo, il cui art. 7, comma 1, riferisce alle “pubbliche amministrazioni” (e in base al comma 2 del medesimo art. 7, anche ai soggetti ad esse “equiparati”) l’esercizio del potere suscettibile di incidere sulle posizioni di interesse legittimo e (nelle particolari materie) di diritto soggettivo e, quindi, di attivare la cognizione del giudice amministrativo a tutela di dette situazioni soggettive.
In tal senso, il perimetro della giurisdizione del giudice amministrativo non può estendersi anche alle controversie in cui il potere amministrativo “venga in discussione in quanto esercitato dai soggetti all’Amministrazione legati da rapporto organico, cioè considerandosi il solo dato che il loro agire si è esplicato formalmente come espressione del potere amministrativo”.
Il riferimento esplicito e chiaro alle forme dell’esercizio del potere in quanto poste in essere da “pubbliche amministrazioni” evidenzia come “soggettivamente la controversia esige che una delle parti sia la pubblica amministrazione e l’altra il soggetto che faccia la questione sull’interesse legittimo o sul diritto soggettivo”.
6.5.1. – Il principio sopra enunciato è affatto consolidato: ha trovato conferma in numerose, e anche recenti, decisioni (tra le altre, Cass., S.U., 5 marzo 2008, n. 5914; Cass., S.U., 17 maggio 2010, n. 11932; Cass., S.U., 8 marzo 2011, n. 5408; Cass., S.U., 2 agosto 2017, n. 19170; Cass., S.U., 18 luglio 2019, n. 19372 e n. 19373) e la stessa giurisprudenza amministrativa, con pronuncia resa dall’organo di nomofilachia del relativo plesso giurisdizionale (Consiglio di Stato, Ad. Plen.,
12 maggio 2017, n. 2), lo ha condiviso e fatto proprio.
Esso non trova smentita nei precedenti indicati nei ricorsi (che riguardano azioni risarcitorie contro la P.A.), né nella sentenza n. 22768 del 12 settembre 2019 di queste Sezioni Unite (richiamata nelle memorie depositate dai ricorrenti), poiché essa si limita a rilevare l’inammissibilità del ricorso per difetto di specificità della censura avverso la decisione di merito pur affermativa della giurisdizione del giudice amministrativo in azione risarcitoria promossa anche contro due funzionari comunali.
6.6. – Il fatto che – come prospettato dai ricorrenti – il peculiare confezionamento dell’azione giudiziaria da parte del dott. Bellomo abbia avuto di mira l’obiettivo di precostituirsi un “titolo” da far valere ai fini di una astensione in sede disciplinare dei due componenti della commissione ex art. 33 della legge n. 186 del 1982, altresì membri del CPGA (astensione, poi, effettivamente verificatasi) è circostanza semmai suscettibile di valutazione, sotto diversi profili, nell’ambito del giudizio di merito, ma non elide, ai fini del riparto di giurisdizione, il profilo della sostanza della domanda proposta.
Né, a detti specifici fini, la domanda formulata dinanzi al giudice civile integra, di per sé, un abuso processuale nella scelta del giudice munito di giurisdizione sulla pretesa risarcitoria azionata (vulnerante il principio fondamentale del giudice naturale precostituito per legge: art. 25 Cost.), poiché proprio il petitum sostanziale, come innanzi evidenziato, è, infine, risultato coerente con l’ambito della cognizione rimessa al giudice ordinario, ovviamente restando affatto impregiudicato il profilo del merito della promossa azione di risarcimento del danno.
7. – E’ dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.
La complessità delle questioni trattate impone l’integrale compensazione tra le parti delle spese del regolamento di giurisdizione; non occorre provvedere alla regolamentazione di dette spese nei confronti della parte rimasta soltanto intimata.
PER QUESTI MOTIVI
dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e compensa interamente le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezioni Unite Civili della Corte suprema di Cassazione, il 28 gennaio 2020.
Il Presidente
Allegati:
SS.UU, 09 marzo 2020, n. 6690, in tema di responsabilità civile dei magistrati
Nota dell'Avv. Alfonso Ciambrone
Le Sezioni Unite chiariscono il riparto di giurisdizione in tema di responsabilità civile dei magistrati componenti il Consiglio Superiore della Giustizia Amministrativa
1. La giurisprudenza costante e “normativa”
E’ principio consolidato che l’attività svolta dal CPGA, e i provvedimenti da esso resi nell’ambito delle attribuzioni disciplinari nei confronti dei magistrati amministrativi, abbia natura amministrativa, e non giurisdizionale, a differenza della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura (cfr., SS.UU, 10 aprile 2002, n. 5126; 20 aprile 2004, n. 7585).
In tal caso, per difetto di “esercizio di attività giudiziaria”, non può trovare applicazione la L. 117/1988 (e s.m.i.) sulla responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell’esercizio delle loro funzioni (giudiziarie, appunto), con conseguente improponibilità dell’azione diretta di danno (consentita soltanto nell’ipotesi di cui all’art. 13 della legge stessa, i.e. quando il danno è conseguenza di un fatto costituente reato).
Né osta alla configurabilità della responsabilità diretta dei magistrati la lesione di posizioni di interesse legittimo, e non di diritti soggettivi, in quanto, diversamente dal passato, l’espressione “atti compiuti in violazione dei diritti” contenuta nell’art. 28 Cost. è oramai da intendersi, in senso estensivo e traslato, come violazione di ogni interesse rilevante per l’ordinamento giuridico e meritevole di tutela.
Si noti bene, detta interpretazione è maturata in virtù dell’evoluzione dell’ordinamento, alimentata dal coordinato operare dei suoi formanti: la regolamentazione positiva e la giurisprudenza (nel caso di specie, a partire da SS.UU, 22 luglio 1999, n. 500).
2. Conseguenze operative
Posto che il criterio di riparto della giurisdizione (fra giudice amministrativo e giudice ordinario) è il c.d. petitum sostanziale della domanda (ex art. 386 c.p.c.), da individuarsi in base ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione, spetta al giudice ordinario la cognizione della controversia per responsabilità civile ex art. 2043 c.c. dei magistrati amministrativi componenti il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, allorquando la domanda risarcitoria investa unicamente le singole persone fisiche, sebbene nella veste di funzionari pubblici, e non anche la pubblica amministrazione.