SS.UU, 28 aprile 2023, n. 11193, in tema di responsabilità del magistrato
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE UNITE CIVILI
SENTENZA
sul ricorso n. 16844/2022 proposto da:
A.A., rappresentata e difesa dagli avvocati P.P. ed A.C.;
– ricorrente –
contro PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 79/2022 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata il 31/05/2022.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/02/2023 dal Consigliere L.R.;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale S.P., che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati P.P. ed A.C..
Svolgimento del processo
1. La Dott. A.A. era sottoposta a procedimento disciplinare e incolpata dell’illecito disciplinare di cui agli artt. 1 e 2, comma 1, lettera d) del d. lgs. n. 109 del 2006 per aver tenuto, in violazione del dovere di correttezza ed equilibrio, un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei magistrati che avevano presentato domanda per il conferimento dell’ufficio semidirettivo di presidente di sezione del Tribunale di (Omissis), al quale ella stessa concorreva, prospettando al Dott. B.B. la strategia da seguire al fine di prevalere sulla Dott. C.C. e sul Dott. D.D., consistente nella reiterata denigrazione di questi ultimi e nella rappresentazione di meriti professionali e titoli preferenziali superiori a quelli dei concorrenti. In particolare, nella incolpazione si evidenziava che la Dott. A.A. contattava più volte, dal 22 novembre 2017 e per il periodo successive, il Dott. B.B. con il sistema di messaggistica whatsapp al fine di:
1) realizzare una serrata strategia di discredito delle qualità caratteriali, professionali e morali, del Dott. D.D. e della Dott. C.C., anche con riguardo, relativamente a quest’ultima, a componenti della famiglia;
2) trasmettere e ricevere documentazione per rafforzare la propria posizione in danno dei predetti dottori D.D. e C.C., per esaltare i propri titoli professionali e per dimostrare l’inesistenza di profili di incompatibilità ambientale.
2. La Dott. A.A. è stata dichiarata: “responsabile dell’illecito a lei ascritto limitatamente al fatto di cui al punto 1) della incolpazione” con sentenza n. 79 del 2022 della Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura e condannata alla sanzione della censura.
3. La sentenza impugnata esamina preliminarmente la questione processuale dell’eccepita inutilizzabilità nel procedimento disciplinare del materiale rinvenuto nel telefono cellulare in uso al dottor B.B., oggetto di sequestro penale, in ragione della totale estraneità della Dott. A.A. alle vicende di rilevanza penale a carico del Dott. B.B..
Afferma che i messaggi whatsapp indicati nel capo di incolpazione erano pienamente utilizzabili, trattandosi di files contenuti in un apparato telefonico sequestrato al Dott. B.B. nell’ambito di un procedimento penale a suo carico e, quindi, di prove documentali, rientranti nella disciplina di cui all’art. 234, c.p.p. e non in quella di cui all’art. 254 dello stesso codice.
Argomenta, inoltre, che il provvedimento di sequestro di detto apparato è pienamente legittimo e che non è pertinente la pronuncia della Corte di giustizia UE C746/18, avente riguardo alla diversa problematica della c.d. data retention.
Rileva, inoltre, che i precedenti della Corte EDU, richiamati dalla difesa della Dott. A.A., non sono conferenti, facendo essi riferimento alla inutilizzabilità patologica del materiale intercettivo, che per giurisprudenza consolidata ne esclude la possibilità di utilizzazione in sede disciplinare (richiama a questo proposito SS.UU, n. 9391 del 2021).
Respinge le eccezioni difensive relative alla violazione del principio di proporzionalità e adeguatezza nell’adozione del provvedimento di sequestro penale, osservando che tali principi sono oggetto di rielaborazione giurisprudenziale allo stato minoritaria che cerca di farsi carico di una lacuna normativa in materia e della situazione di obiettiva novità determinatasi in relazione alla possibilità di acquisizione di numerosissimi dati personali contenuti in strumenti che memorizzano la messaggistica anche vocale, a fronte della quale la normativa in materia di sequestro probatorio si presenta inadeguata.
La Sezione disciplinare esclude la possibilità che il giudice disciplinare proceda a uno scrutinio di legittimità del provvedimento ablativo adottato dalla competente autorità giudiziaria penale, stante l’autonomia dei due giudizi. Chiarisce che in ogni caso sarebbe incongruo ritenere la inutilizzabilità del materiale non pertinente per l’indagine penale qualora esso sia, invece, rilevante ad altri fini, in particolar modo ai fini dell’accertamento della responsabilità disciplinare del magistrato. Ritiene poi sussistente l’elemento oggettivo dell’illecito disciplinare, consistito nella commissione, da parte della dottoressa A.A., di gravi scorrettezze nei confronti della dottoressa C.C., in quanto i messaggi contestati sono gravemente denigratori e non integrano semplicemente una legittima reazione difensiva alla campagna di discredito realizzata a suo danno dalla concorrente.
La sentenza impugnata evidenzia che l’attività della Dott. A.A. non si era limitata alla autopromozione nei confronti del Dott. B.B., – componente dell’Organo di autogoverno autonomo della Magistratura chiamato a deliberare il conferimento dell’incarico semidirettivo per il quale ella concorreva -, ma era consistita in una campagna di discredito della sua avversaria ben prima che questa, a sua volta, diffondesse presso i componenti della V Commissione del CSM la notizia di rapporti di parentela tra la dottoressa A.A. e soggetti accusati di appartenere a consorterie mafiose. Aggiunge che l’eventuale comportamento di discredito posto in essere a sua volta dalla Dott. C.C. non può essere evocato come scriminante, neppure putativa, idonea a legittimare la condotta posta in essere dalla incolpata, trattandosi di un comportamento ritorsivo, tradottosi in affermazioni di grave discredito del profilo personale, oltre che professionale, della Dott. C.C., integranti una grave scorrettezza.
La Sezione disciplinare ritiene sussistente l’elemento oggettivo della grave scorrettezza anche nei confronti del Dott. D.D., limitatamente ai commenti negativi formulati a proposito delle sue capacità organizzative. Infine, la Sezione disciplinare esclude l’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 3 bis del D.Lgs. n. 109 del 2006, in ragione dell’obiettiva gravità della condotta, tale da non poter giustificare l’applicazione della esimente.
La Sezione disciplinare considera l’attività di discredito ai danni di colleghi come un comportamento scorretto, integrante un livello di gravità elevato (richiama a questo proposito I principi espressi da SS.UU, n. 31058 del 2019).
Esclude altresì che le valutazioni positive di professionalità della Dott. A.A. nello svolgimento delle funzioni giurisdizionali, richiamate dalla difesa, possano trovare ingresso o avere rilevanza nel procedimento disciplinare, neppure ai fini della esimente della particolare tenuità del fatto.
La Sezione disciplinare esclude invece l’illecito disciplinare in riferimento alle condotte di cui al punto 2) del capo di incolpazione, perchè ritiene gli ulteriori messaggi indici rilevatori della strategia di autopromozione posta in essere dalla Dott. A.A. ma non tali da configurare una grave scorrettezza rilevante ai sensi della disposizione di cui al capo di incolpazione, non contenendo offese nè denigrazione ai danni dei colleghi concorrenti.
4. La Dott. A.A. propone ricorso per cassazione, articolato in sette motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c., per la cassazione della sentenza n. 79/2022, notificatale il 6 giugno 2022.
5. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte con le quali chiede il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la dottoressa A.A. denuncia il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. c) c.p.p., ovvero l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, nonchè la violazione degli artt. 191 e 253 c.p.p. e degli artt. 16 e 18 del d. lgs. n. 109 del 2006. Propone altresì questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 117 Cost., 7 e 8 della Cedu.
La ricorrente sostiene, in particolare, che il riferimento contenuto nella sentenza impugnata alla natura di prova documentale della messaggistica whatsapp acquisita non è idoneo a superare la sua eccezione di inutilizzabilità della medesima, trattandosi di interlocuzioni non “pertinenti” ai reati per i quali si procedeva nel procedimento penale originante il sequestro del telefono cellulare che le conteneva, sicchè le stesse, non potendo essere legittimamente trattenute nè essere valorizzate in quel procedimento, a maggior ragione non potevano esserlo in quello disciplinare a suo carico, non avendo alcun rilievo “sanante” il fatto processuale della conferma del provvedimento di sequestro da parte del Tribunale del riesame di (Omissis).
Afferma conseguentemente che la mancata “selezione” delle chat in questione, da parte del giudice penale, ai fini della trasmissione al giudice del procedimento disciplinare, importa la violazione dell’art. 253, c.p.p. in relazione all’art. 191 dello stesso codice, ed anche in relazione all’art. 15, Cost., come interpretato dalla Corte costituzionale con riguardo alle comunicazioni telematiche.
La ricorrente evoca inoltre sia la giurisprudenza della Corte EDU, quale estensiva a tal tipo di comunicazioni della tutela della corrispondenza exart. 8, CEDU sia quella della Corte di giustizia dell’Unione Europea in tema di accesso ai dati archiviati dai gestori del traffico telefonico/telematico (c.d. data retention), quale limitante tali iniziative acquisitorie all’azione di contrasto delle forme gravi di criminalità e delle gravi minacce alla pubblica sicurezza, in ogni caso in virtù della previsione di una “base legale”.
2. La censura è infondata.
Si deve rilevare anzitutto che l’affermazione del giudice disciplinare, secondo la quale la messaggistica in esame ha natura di prova documentale ed è pertanto soggetta alla relativa disciplina processualpenalistica, in parte qua applicabile al presente giudizio, risulta pienamente conforme alla giurisprudenza penale di questa Corte, derivandone l’irrilevanza del richiamo alla disciplina delle intercettazioni telefoniche.
Secondo tale giurisprudenza, infatti, i messaggi whatsapp o sms contenuti nella memoria di un telefono cellulare (sottoposto a sequestro) sono da considerarsi documenti “in senso statico” e non “dinamico”, e differiscono dalle intercettazioni, consistenti nella captazione, da parte di un terzo, dei colloqui intercorrenti tra due o più persone (cfr. Cass. pen., n. 12975 del 06/02/2020 Ud. (dep. 27/04/2020) Rv. 278808 – 0; conformi, nn. 2942628269/2019, 1822/2020). Nè può applicarsi a tali fonti probatorie la disciplina di cui all’art. 254 c.p.p., relativa all’acquisizione di corrispondenza (Cass. pen., nn. 22417/2022, 1822/2020, 1822/2018), come invece sostiene la ricorrente.
Questa Corte ha infatti affermato che “In tema di mezzi di prova, i messaggi “whatsapp” e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p., sicchè è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione nè la disciplina delle intercettazioni, nè quella relativa all’acquisizione di corrispondenza di cui all’art. 254 c.p.p. (Sez. 6 -, sentenza n. 22417 del 16/03/2022 Cc. (dep. 08/06/2022) Rv. 283319 – 01).
Al proposito (come osservato da SS.UU, n. 9733 del 12/4/2023) si è, condivisibilmente, evidenziato che detti testi non rientrano nella nozione di “corrispondenza”, poichè tale è la messaggistica oggetto di attività di spedizione in corso ovvero avviata mediante consegna del mittente a terzi per il recapito; che nemmeno può ritenersi che si tratta di risultanze di un’attività di intercettazione la quale, per sua natura, implica la captazione di un flusso di comunicazioni in corso, mentre (come nel caso di specie) i dati presenti nella memoria di un apparato telefonico cellulare acquisiti ex post rappresentano appunto la mera documentazione di un flusso comunicativo avvenuto (Cass. pen. Sez. 6 -, sentenza n. 1822 del 12/11/2019 Ud. dep. 17/01/2020 Rv. 278124 – 0).
Non risulta quindi pertinente il richiamo della ricorrente ad una nozione lata di “corrispondenza”, oggetto di tutela da parte dell’art. 15 della Costituzione, e alle garanzie stabilite dagli artt. 6, 8 e 10 CEDU. Risulta poi infondato l’ulteriore profilo della censura dedotto dalla ricorrente, in relazione all’utilizzabilità -negata- dei dati informatici in questione, per la mancanza del rapporto “pertinenziale” degli stessi ai reati oggetto del procedimento penale nel quale è stato sequestrato il dispositivo telefonico in uso al Dott. B.B. che li conteneva.
Tale eccezione (e motivo di impugnazione) è basata dalla ricorrente sulla più recente giurisprudenza penale di legittimità, riguardante i sequestri probatori. Pur essendo indubbio che i principi enunciati al riguardo dalla giurisprudenza di questa Corte sono consolidati (contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata), si deve tuttavia osservare che l’esegesi applicativa proposta dalla ricorrente appare parziale ed in ultima analisi non corretta.
La giurisprudenza in esame ha, infatti, senz’altro fissato principi che mirano a precisare la nozione normativa di “cose pertinenti al reato”. In particolare si è affermato che: “la strumentalità del bene rispetto alla condotta criminosa ed alla finalità probatoria del sequestro è uno dei canoni di valutazione della pertinenza ed assolve ad una funzione selettiva”; “la strumentalità, tuttavia, è astrattamente configurabile in un numero pressochè indefinito di casi e ciò impone di attribuire a detto requisito un significato conforme ai principi generali di adeguatezza e proporzionalità sottesi al sistema”; “il principio di proporzionalità trova un formidabile ambito applicativo con riferimento ai mezzi di ricerca della prova, idonei ad incidere su beni giuridici costituzionalmente tutelati” (Cass. Pen. 34265/2020).
In questa e nelle consonanti pronunce (v. ad es. Cass. Pen. nn. 15648-12507/2022) tali affermazioni sono tuttavia strettamente correlate all’obbligo motivazionale dei provvedimenti di sequestro, mai alla categoria giuridico-processuale della inutilizzabilità delle prove. Ed infatti le decisioni de quibus non sanciscono in alcun modo regole di esclusione probatoria e di inutilizzabilità ai sensi dell’art. 191, c.p.p..
Del resto la rilevata natura di “prova documentale” della messaggistica whatsapp, come appena sopra si è detto, di per sè esclude l’applicabilità delle disposizioni legislative riguardanti l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ovvero telematiche.
Osserva peraltro il Collegio che, nel procedimento penale dal quale le prove in esame rinvengono, il Tribunale del riesame si è pronunciato sulla legittimità del correlativo sequestro, senza che i diretti interessati ed in particolare il Dott. B.B. abbiano aggredito tale decisione incidentale.
In tale sede (propria) si è dunque accertato che le suddette prove documentali erano “pertinenti” ai reati per i quali si procedeva e, come correttamente si è rilevato nella sentenza impugnata, questo accertamento non poteva essere rimesso in discussione nel giudizio disciplinare.
Ciò posto, si deve altresì rilevare che il materiale probatorio del quale si discute è stato trasmesso integralmente all’organo titolare dell’azione disciplinare e competente alla relativa istruttoria, che lo ha selezionato in relazione alle diverse posizioni personali coinvolte, quindi utilizzato nel procedimento disciplinare; in quella sede è stato valorizzato dalla Sezione disciplinare del CSM.
Al riguardo, in termini più generali bisogna riaffermare che la disciplina processuale penale ha un ingresso nel processo disciplinare limitato dalla clausola di “compatibilità”, dunque non ha un’applicazione integrale.
E’ infatti consolidato orientamento di questa Corte che “la specialità del procedimento disciplinare, l’ampiezza dei poteri istruttori riconosciuti al P.G. (art. 16, comma 2 e 4, D.Lgs. n. 109 del 2006) ed alla stessa Sezione disciplinare, la quale può assumere “tutte le prove che ritiene utili” (art. 18, comma 3, lett. a), D.Lgs. n. citato), concorrono a far ritenere (Sez. U., n. 9733/2023, cit.; Sez. U., n. 12717/2009; Sez. U., n. 15314/2010, cit.; Sez. Un, n. 17585/2015) il procedimento disciplinare “marcatamente orientato all’accertamento dell’effettiva sussistenza dell’addebito disciplinare”, anche in ragione degli interessi pubblici coinvolti” (cfr. anche SS.UU, n. 9390/2021).
Si è poi ulteriormente specificato che, “in tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, il rispetto delle regole del codice di procedura penale è prescritto negli artt. 16 (per l’attività di indagine) e 18 (per il dibattimento) del D.Lgs. n. 109 del 2006 nei limiti della loro compatibilità col procedimento speciale, il quale è volto a garantire – sempre nel rispetto dell’inviolabile diritto di difesa dell’incolpato – l’efficacia dell’azione di accertamento e repressione degli illeciti disciplinari e, dunque, il più penetrante controllo del CSM sulla correttezza dei comportamenti dei magistrati” (SS.UU, sentenza n. 9390 del 08/04/2021, Rv. 660918 – 01).
Anche sotto questo profilo, quindi, tenuto conto della clausola di “compatibilità” contenuta negli artt. 16, comma 2, 18, comma 4, D.Lgs. n. 109 del 2006, non può accogliersi il rilievo difensivo, ampiamente sviluppato, circa la non utilizzabilità dei messaggi whatsapp valorizzati nella sentenza impugnata a causa della “non pertinenza” degli stessi ai reati per i quali si procedeva a carico del Dott. B.B..
La diversa “ontologia” e le diverse finalità del giudizio penale e di quello disciplinare a carico dei magistrati implicano necessariamente una differente considerazione e ponderazione dei valori costituzionali che vengono in gioco.
Al contrario, infatti, di quanto affermato dalla ricorrente, è evidente che l’intensità delle garanzie da riconoscere al destinatario è maggiore nel procedimento penale, dato che l’esito dello stesso può portare alla privazione della libertà personale, essendo questo bene massimamente protetto a livello costituzionale/convenzionale.
I diritti, personali e patrimoniali, dell’incolpato disciplinare devono, a loro volta, tenere conto del profilo di tutela costituzionale (ma in ultima analisi anche convenzionale/unionale) dell’Istituzione giudiziaria nella quale l’incolpato è funzionalmente inserito e della cui integrità e del cui prestigio è personalmente garante.
Nell’affermazione di utilizzabilità dei dati informatici acquisiti in questo procedimento disciplinare non vi è dunque alcuna sproporzione ermeneutica derivante da “tirannia” tra diritti, ma soltanto una diversa considerazione di tali diritti dovuta allo specifico contesto procedimentale del giudizio disciplinare a carico dei magistrati.
Neppure è pertinente il richiamo alla sentenza della Corte di giustizia UE, C-746/2018, H.K.
Come osservato, del resto, dalla sentenza impugnata, il relativo principio di diritto non è applicabile nel caso di specie, riferendosi alla disciplina normativa dell’acquisizione dei dati di flusso telematico presso i fornitori del servizio (c.d. data retention), mentre nel presente giudizio si controverte circa la legittima acquisizione/utilizzazione nel procedimento disciplinare a carico di un magistrato di elementi probatori documentali rivenienti dal sequestro probatorio penale dell’apparecchio cellulare in uso al Dott. B.B..
Le considerazioni che appena precedono deprivano di ogni fondatezza la questione di legittimità costituzionale adombrata al termine del primo motivo.
Come osservato dalla Procura generale nelle sue conclusioni scritte, la prospettazione della ricorrente mira ad una decisione manipolativa degli artt. 191 e 253 c.p.p., in quanto richiamati dagli artt. 16 e 18 del D.Lgs. n. 109 del 2006- tale da:
a) comportare una alterazione dell’autonomia tra ambito penale ed ambito disciplinare;
b) assegnare al solo giudice disciplinare il potere di decidere in merito all’utilizzabilità di materiali di prova raccolti (legittimamente) in ambito penale e che presso la giurisdizione penale non siano stati mai oggetto di censura;
c) porre nel nulla elementi di prova disciplinare acquisiti in occasione di una indagine penale e come tali semplicemente riversati nella sede appropriata, l’unica deputata a considerarne il valore ai fini dell’addebito deontologico, attraverso un sindacato svolto “ora per allora” secondo l’applicazione di norme del rito penale e su sollecitazione/eccezione di un soggetto estraneo alla prospettiva penale.
3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lettera c) c.p.p. e l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, nonchè la violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p..
Richiama alcuni precedenti di legittimità ai sensi dei quali, allorchè la Sezione disciplinare ravvisi comportamenti rilevanti, ai sensi dell’art. 18, ma fondati su fatti diversi da quelli addebitati, non può pronunciare nel merito, ma deve disporre la trasmissione degli atti all’autorità competente per la contestazione di quei fatti, operando l’integrazione del capo di incolpazione.
Sostiene che i messaggi richiamati nella motivazione della sentenza impugnata integrerebbero un fatto nuovo ed anche un fatto diverso rispetto a quelli originariamente contestati.
L’attività di autopromozione presso soggetti diversi dal Dott. B.B. sarebbe un fatto nuovo, mentre la retrodatazione di alcuni mesi della condotta disciplinarmente rilevante, rispetto alle conversazioni poste a base del capo di incolpazione, integrerebbe un fatto diverso.
Ravvisa in tutto ciò una grave violazione di norme processuali, perchè la difesa sarebbe stata privata – in assenza di specifica contestazione – della possibilità di svolgere attività difensiva su questi punti.
4. La censura è infondata.
La condotta per la quale la ricorrente è stata condannata è stata ritualmente contestata nel capo di incolpazione e rispetto ad essa la ricorrente ha potuto pienamente dispiegare il suo diritto di difesa. E’ ben vero che sono state prese in considerazione nella motivazione alcune conversazioni tra la Dott. A.A. e il Dott. B.B. precedenti al periodo cui fa riferimento il capo di incolpazione e che non fanno parte del capo di incolpazione stesso.
Ciò non conduce, però, all’accoglimento del ricorso sul punto, essendo stato rispettato il “rapporto di continenza” tra il fatto “contestato” nel capo d’incolpazione e quello “ritenuto” nel provvedimento, nel rispetto del principio di diritto, già più volte espresso da questa Corte, secondo il quale, se gli elementi costituenti il fatto ritenuto sono tutti inclusi tra gli elementi costituenti il fatto contestato, non è configurabile la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza (v. SS.UU, n. 10086 del 2020). Nè, tanto meno, si è verificato un vulnus nel diritto di difesa dell’incolpata.
Si è da ultimo ribadito che la correlazione tra circostanze addebitate con l’incolpazione e fatti posti a base della decisione sanzionatoria va accertata “in senso funzionale”, e non meramente formale (come indicato appunto dalla fondamentale decisione della Corte EDU, 11/12/2007, Drassich c. Italia), con la conseguenza che non può esservi violazione in assenza di un obiettivo pregiudizio per la concreta difesa (SS.UU, sentenza n. 26548 del 27.11.2013; SS.UU, sentenza n. 9557 del 18.4.2018; SS.UU, sentenza n. 10445 del 22.2.2022).
La sentenza da ultimo citata (SS.UU, sentenza n. 10445 del 22.2.2022) precisa che le conclusioni appena esposte sono confortate da Corte Cost. 103/10, nella cui motivazione si afferma che l’art. 521 c.p.p. può dirsi violato quando la condanna muti, rispetto al capo di imputazione, “l’elemento psicologico, la condotta, l’evento e il nesso di causalità” (p. 2 dei “Considerato in diritto”).
SS.UU, pen., sentenza n. 36551 del 15.7.2010 hanno, a loro volta, affermato che, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale s i riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisce un reale pregiudizio dei diritti della difesa.
Ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza, perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto della imputazione (in senso conforme Sez. 3, n. 36817 del 14.6.2011, Rv 251081-01; Sez. 6, n. 6346 del 09.11.2012, Rv 254888-01; Sez. 2, n. 34969 del 10.5.2013, Rv 257782-01; Sez. 4, n. 4497 del 16.12.2015, Rv 265946-01; Sez. 2, n. 12328 del 24.10.2018, Rv 276955-01; Sez. 6, n. 422 del 19.11.2019, Rv 278093-01; Sez. 3, n. 7146 del 04.2.2021, Rv 281477-01).
Nel caso di specie, la Dott. A.A. è stata incolpata di avere posto in essere una strategia di discredito delle qualità della Dott. C.C. e del Dott. D.D. – che concorrevano allo stesso posto semidirettivo al quale era interessata – nei giorni immediatamente precedenti l’esame in commissione delle candidature, mediante numerose interlocuzioni con il Dott. B.B..
In relazione a queste contestazioni la ricorrente si è difesa, spiegando che le sue conversazioni erano frutto non di un intento denigratorio, ma costituivano una reazione, per quanto veemente e sopra le righe, al tentativo di discredito posto in essere a sua volta dalla stessa Dott. C.C. nei suoi confronti, presso altri componenti del CSM.
Per verificare la fondatezza di questa tesi difensiva, la Sezione disciplinare ha preso in considerazione anche altri messaggi, precedenti rispetto a quelli citati nel capo di incolpazione, legittimamente acquisiti perchè inclusi nei messaggi salvati nell’hard disk sequestrato al Dott. B.B., dai quali emerge una condotta di autopromozione messa in atto da tempo dalla Dott. A.A. presso altri componenti del CSM.
Si tratta, come ben evidenzia la Procura generale, di messaggi contenuti nel fascicolo processuale e conosciuti dall’incolpata, i quali, una volta entrati a far parte del materiale del procedimento, possono essere utilizzati dal giudice quali elementi dell’argomentazione per confutare la tesi difensiva. Dunque, nessuna inosservanza delle norme processuali e nessuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza viene in rilievo dalla lettura della sentenza, la cui motivazione si limita a contrastare le prospettazioni difensive sulla base di elementi tratti dal fascicolo processuale.
5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, oltre alla violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c) c.p.p., la mancanza e la contraddittorietà della motivazione ovvero il carattere apparente della motivazione in relazione alla configurabilità dell’elemento oggettivo della fattispecie disciplinare contestata.
La ricorrente critica la decisione impugnata là dove la Sezione disciplinare ha escluso che il comportamento della Dott. A.A. si potesse qualificare come legittima reazione difensiva rispetto alla campagna di discredito posta in essere a suo danno dalla collega C.C., e ha osservato che si trattava piuttosto di una ritorsione, consistita nella propalazione di affermazioni gravemente denigratorie del profilo personale, oltre che professionale, dell’avversaria.
La ricorrente osserva di non avere mai sollecitato il riconoscimento di una scriminante, bensì l’esclusione della rilevanza disciplinare del proprio comportamento, tradottosi in alcune osservazioni critiche nell’ambito di contatti personali, privi di alcuna intenzione strategica, e dai toni talora esasperati da cui aveva successivamente anche preso le distanze.
Sottolinea di aver rappresentato al giudice disciplinare che non si può parlare di reiterata denigrazione in riferimento a messaggi che si sono susseguiti nel breve volgere di 14 minuti in un solo giorno.
Evidenzia che dalle chat cosiddette “aggiuntive”, non ricomprese nel capo di incolpazione, emerge al più un comportamento di autopromozione -non contestato- e non di denigrazione dell’avversaria.
Nega, quindi, che le sue dichiarazioni possano esser considerate oggetto di una strategia di discredito ed espressione di una grave scorrettezza e segnala che la motivazione del provvedimento impugnato ha mancato di rispondere ai rilievi difensivi in prelazione all’insussistenza dell’elemento oggettivo dell’illecito.
Infine, riporta alcuni passi tratti dalla istruttoria disciplinare, dai quali, a suo avviso, emerge la conferma di un suo stato d’animo alterato dalle scorrettezze poste in essere da parte della collega, consistite nell’avere sottoposto all’attenzione di componenti della commissione del CSM l’esistenza di sue lontane parentele con soggetti implicati in rapporti con mafiosi, questione già esaminata dal C.S.M.
Evidenzia che la Sezione disciplinare non avrebbe sostanzialmente motivato, essendosi limitata ad affermare che la sensazione della incolpata di essere vittima a sua volta di un’azione di discredito si fondava su “elementi piuttosto labili”.
6. Il motivo è infondato.
La Sezione disciplinare ha valutato nel suo complesso il comportamento posto in essere dalla Dott. A.A., consistito in una serie di messaggi, indirizzati ad un magistrato eletto al C.S.M. e componente della commissione competente al conferimento dell’incarico semidirettivo richiesto, e quindi ben in grado di incidere sulla decisione da prendere.
Tale condotta integra una grave scorrettezza, ai sensi dell’art. 2 comma 1, lett. d) del D.Lgs. n. 109 del 2006, in quanto volta ad incidere sul processo decisionale mediante la rappresentazione di elementi ulteriori e diversi rispetto a quelli contenuti nel fascicolo personale e posti a base della domanda, volti a screditare l’altra candidata Dott. C.C..
Tale condotta è stata ritenuta non scriminata dalla Sezione disciplinare che, con argomentazione completa e immune da vizi logici e giuridici, ha spiegato l’irrilevanza della motivazione sottesa ad un comportamento gravemente scorretto in quanto volto ad influenzare la procedura concorsuale di esclusiva competenza del C.S.M.
La valutazione è conforme ai principi già affermati da questa Corte, secondo cui “In tema di illecito disciplinare del magistrato, le interlocuzioni tra magistrati e componenti del Consiglio Superiore della Magistratura aventi ad oggetto le valutazioni procedimentali per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi degli uffici giudiziari costituiscono “comportamenti abitualmente o gravemente scorretti”, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d), del D.Lgs. n. 109 del 2006, dovendo ritenersi imposto ad ogni magistrato il dovere di astenersi da qualsiasi intervento -salvo se contemplato dalla disciplina legislativa del procedimento- che sia volto, in guisa di pressione o concertazione, ad esprimere discredito o disistima o, all’opposto, a manifestare gradimento o sostegno nei confronti di alcuno degli aspiranti, essendo la comparazione di questi ultimi riservata ai componenti dell’organo di autogoverno, senza alcuno spazio alla compartecipazione di soggetti estranei (quali, ad esempio, gli esponenti dell’associazionismo giudiziario o della politica)” (SS.UU, n. 34380/2022; conf. SS.UU, n. 22302/2021).
E’ dunque chiaro che le condotte così accertate nel merito superano la “soglia” di illiceità disciplinare configurata dalla contestata disposizione del D.Lgs. n. 109 del 2006, sì come precisata dalla citata recente giurisprudenza di questa Corte. In questa stringente ermeneutica la motivazione della sentenza impugnata non si presta affatto alla censura di carenza, illogicità, contraddittorietà mossale dalla ricorrente, avendo il giudice disciplinare correttamente argomentato che i messaggi inviati dalla Dott. A.A. al Dott. B.B., erano rappresentativi, di per sè, di “interlocuzioni illecite” ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 109 del 2006.
La ricorrente sembra non cogliere che l’esistenza di pregressi rapporti di conoscenza personale tra un magistrato e un componente del CSM, ancor più se tale componente è anche membro o, come nella specie, presidente della commissione chiamata a valutare sul conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, non fa venir meno il dovere del magistrato di astenersi dall’avere contatti riservati con lo stesso in merito all’incarico cui è interessato.
Incontestato che tali contatti siano avvenuti in plurime occasioni, la Sezione disciplinare ha poi accertato che gli stessi non sono stati semplicemente informativi, ma – come emerge dalla riproduzione del testo di molteplici messaggi riportati nella motivazione – sono stati rivolti a svalutare il profilo professionale della Dott. C.C. mediante espressioni denigratorie, e a perseguire finalità di autopromozione.
Quindi, nel caso di specie, nell’ambito della non consentita intrusione in ambiti riservati in via esclusiva al CSM, si innesta, oltre all’illegittimità della autopromozione, l’altrui denigrazione, in una progressione di gravità sulla base della quale la Sezione disciplinare ha ritenuto provato l’elemento oggettivo dell’illecito e (come si dirà di seguito) ha escluso che lo stesso, per la sua pregnanza, potesse essere ritenuto di particolare tenuità.
7. Con il quarto motivo la dottoressa A.A. denuncia il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lettere b) ed e) c.p.p. nonchè la violazione ed erronea applicazione dell’art. 2, comma 1, lett. d) del d. lgs. n. 109 del 2006 e la mancanza di motivazione sulla configurabilità dell’elemento soggettivo della fattispecie disciplinare contestata.
Segnala che la decisione impugnata non affronta affatto il profilo dell’animus dell’incolpato, violando l’art. 2, perchè l’elemento soggettivo, anzichè essere presunto, doveva essere accertato nella sua esistenza: si doveva accertare se le dichiarazioni della Dott. A.A., forse poco opportune ed anche eccessive nella forma di esternazione, fossero finalizzate a realizzare effettivamente una serrata strategia di discredito dei concorrenti Dott. D.D. e Dott. C.C..
Mancherebbe, invece, ogni considerazione del profilo soggettivo della condotta, valutata solo sul piano della rilevanza oggettiva.
8. Il motivo è infondato.
La mancata percezione del disvalore della propria condotta, evidente nella linea difensiva della Dott. A.A., che tuttora sostiene che nelle proprie private conversazioni con l’amico Dott. B.B. poteva dire ciò che desiderava, anche in relazione al concorso per posto semidirettivo in atto e al quale ella stessa partecipava, non equivale a mancanza dell’elemento soggettivo dell’illecito disciplinare. Ad integrare l’elemento psicologico dell’illecito non è necessaria la “coscienza dell’antigiuridicità” del comportamento integrante la violazione del precetto, ma è sufficiente la colpa, che si traduce nella conoscenza di quelle circostanze di fatto (propria partecipazione al concorso; ruolo dell’interlocutore di membro della commissione giudicante) in presenza delle quali la ricorrente avrebbe dovuto cogliere la necessità di astenersi dal comportamento sanzionato (v. SS.UU, n. 227 del 2001) e comprendere la portata oggettivamente denigratoria delle sue affermazioni.
Peraltro, come osserva la Procura generale nelle sue conclusioni scritte, la fattispecie disciplinare in esame non presuppone il dolo specifico, ovvero la deliberata volontà del soggetto agente di recare discredito ad altri magistrati.
9. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione di cui all’art. 606, comma 1, lettera b) del c.p.p. nonchè la violazione dell’art. 15 della Costituzione, in particolar modo l’erronea applicazione della legge e dei principi che qualificano la grave scorrettezza, il difetto di tassatività e prevedibilità dell’addebito e dell’illecito disciplinare e denuncia anche il vizio di contraddittorietà della motivazione.
10. Il motivo è infondato.
La decisione appare rispettosa della nozione di “grave scorrettezza” richiamata dall’art. 2, comma 1, lett. d), del D.Lgs. n. 109 del 2006, che, nel rendere sanzionabili disciplinarmente i comportamenti del magistrato nei confronti delle parti, dei difensori, di altri magistrati e di chiunque abbia con esso rapporti nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ha carattere “elastico” (principio più volte affermato da queste Sezioni Unite: SS.UU, n. 29823 del 2020; Cass. n. 31058 del 2019).
In funzione del giudizio di sussunzione dei fatti accertati nella norma che tipizza il predetto illecito, il giudice disciplinare deve attingere sia ai principi che la disposizione (anche implicitamente) richiama, sia a fattori esterni presenti nella coscienza comune, così da fornire concretezza alla parte mobile della disposizione che, come tale, è suscettibile di adeguamento rispetto al contesto storico sociale in cui deve trovare operatività.
Ne consegue che appare corretta la valutazione della Sezione disciplinare che ha ritenuto i messaggi scambiati dalla Dott. A.A. con il Dott. B.B., membro del CSM e all’epoca presidente della commissione competente sull’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi, e volti ad autopromuovere la propria candidatura e a svilire i profili professionali e/o personali degli avversari per ottenere un giudizio di prevalenza sugli stessi, integranti una grave scorrettezza, in quanto idonei a pregiudicare sensibilmente il prestigio della funzione ed anche ad alterare la parità di condizioni dei concorrenti al posto semidirettivo a suo vantaggio con pregiudizio degli avversari.
La decisione impugnata, sul punto, è inoltre conforme al principio secondo il quale “In tema di illecito disciplinare del magistrato, le interlocuzioni tra magistrati e componenti del Consiglio Superiore della Magistratura aventi ad oggetto le valutazioni procedimentali per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi degli uffici giudiziari costituiscono “comportamenti abitualmente o gravemente scorretti”, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d), del D.Lgs. n. 109 del 2006, dovendosi ritenere imposto ad ogni magistrato il dovere di astenersi da qualsiasi intervento – salvo se contemplato dalla disciplina legislativa del procedimento – che sia volto, in guisa di pressione o di concertazione, ad esprimere discredito o disistima o, all’opposto, a manifestare gradimento o sostegno nei confronti di alcuno degli aspiranti, essendo la comparazione di questi ultimi riservata ai componenti dell’organo di autogoverno, senza alcuno spazio alla compartecipazione di soggetti estranei (quali, ad esempio, gli esponenti dell’associazionismo giudiziario o della politica) (SS.UU, n. 34380 del 2022; v. anche SS.UU, n. 34675 del 2022).
Con le sentenze da ultimo citate si è chiarito che tali interlocuzioni non possono considerarsi alla stregua di semplici conversazioni tra privati, coperte dalla tutela costituzionale riservata alla segretezza della corrispondenza, nè espressioni della libera manifestazione del pensiero (in disparte che anche le conversazioni private e confidenziali con un solo altro interlocutore, ove aventi ad oggetto la professionalità di altro collega, sono state ritenute insuscettibili di fondare la responsabilità disciplinare solo se rispettose del criterio della continenza: v. SS.UU, n. 24969 del 2017).
11. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. b) del c.p.p., l’erronea applicazione della legge penale, la violazione e l’erronea applicazione degli artt. 2, comma 1, lettera d) e dell’art. 3-bis del d. lgs. n. 109 del 2006.
12. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia la violazione di cui all’art. 606 comma 1, lettera e) del c.p.p., nonchè la mancanza di motivazione ovvero la motivazione apparente sulla configurabilità del fatto di scarsa rilevanza ex art. 3-bis del d. lgs. n. 109 del 2006.
Sostiene la ricorrente che, anche laddove non si aderisse alla denunciata violazione di legge sull’interpretazione delle condizioni di applicabilità dell’esimente di cui all’art. 3-bis, la sentenza impugnata è, comunque, completamente carente di motivazione sul punto ovvero connotata da motivazione apparente, perchè si limita ad affermare che l’attività di discredito a danni di colleghi si colloca senz’altro ad un livello di gravità elevato, tale da non poter giustificare l’applicazione dell’invocata esimente, con affermazione del tutto apodittica.
Non verrebbe affatto esaminato il pregiudizio arrecato in concreto dal comportamento della Dott. A.A. al buon andamento dell’ufficio giudiziario cui ella appartiene, nè tanto meno il prestigio del quale ella gode presso il predetto ufficio giudiziario, da effettuarsi con verifica in concreto ex post e non con verifica in astratto ex ante (ed in relazione al quale, in memoria, segnala di aver conseguito all’unanimità il parere di conferma nelle funzioni semi-direttive svolte, ottenendo unanimi riconoscimenti del suo valore professionale e spessore umano).
Ad avviso della ricorrente non si chiarisce se la ritenuta gravità, non scriminabile, si fondi sulla diffusività del discredito -diffusività da escludersi in concreto perchè la Dott. A.A. ha parlato con una sola persona- o sulla ripercussione che essa avrebbe avuto sugli sviluppi di carriera degli interessati, o sulla loro onorabilità, non pregiudicata dalle sue affermazioni.
Infine, la ricorrente critica la sentenza impugnata laddove ha affermato che ai fini di verificare l’applicabilità dell’esimente non è stata presa in considerazione la professionalità della stessa autrice della violazione.
13. I due motivi possono essere esaminati congiuntamente perchè correlati.
Devono escludersi sia la denunciata violazione di legge sia il vizio di motivazione.
Non sussiste la violazione di legge, in quanto la Sezione disciplinare si è uniformata al principio di diritto recentemente espresso da questa Corte in relazione ai presupposti di applicabilità dell’esimente proprio in riferimento all’illecito in questa sede contestato, caratterizzato dall’esistenza della gravità della condotta come elemento integrante la fattispecie dell’illecito stesso.
Richiama, infatti, i precedenti di questa Corte di legittimità (SS.UU, n. 31058 del 2019; SS.UU, n. 29823 del 2020) in cui si è affermato il principio di diritto secondo cui “In tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, l’accertamento della condotta disciplinarmente irrilevante in applicazione dell’esimente di cui all’art. 3 bis del D.Lgs. n. 109 del 2006 (da identificarsi in quella che, riguardata “ex post” ed in concreto, non comprometta l’immagine del magistrato), deve compiersi senza sovvertire il principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari; pertanto, nell’ipotesi in cui il bene giuridico individuato specificamente dal legislatore in rapporto al singolo illecito disciplinare non coincida con quello protetto dal citato art. 3 bis, il giudizio di “scarsa rilevanza del fatto” dovrà anzitutto tenere conto della consistenza della lesione arrecata al bene giuridico “specifico” e, solo se l’offesa non sia apprezzabile in termini di gravità, occorrerà ulteriormente verificare se quello stesso fatto, che integra l’illecito tipizzato, abbia però determinato un’effettiva lesione dell’immagine pubblica del magistrato, risultando applicabile la detta esimente soltanto in caso di esito negativo di entrambe le verifiche. (Nella specie, relativa ad un giudizio disciplinare riguardante un sostituto procuratore incolpato di aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti del procuratore della Repubblica ff., la S.C. ha cassato la sentenza della sezione disciplinare, la quale aveva escluso l’applicabilità dell’esimente senza esprimere il necessario giudizio, da effettuarsi in concreto ed “ex post”, sulla “non scarsa rilevanza”, in primo luogo, della lesione del bene giuridico direttamente tutelato ex art. 2, comma 1, lett. d) del D.Lgs. n. 109 del 2006, consistente nel buon andamento dell’ufficio giudiziario e della sua unitarietà funzionale, e, in secondo luogo, di quella dell’immagine del magistrato, tutelata dall’art. 3 bis dello stesso decreto, rimanendo invece su un piano di non consentita astrattezza nel postulare soltanto una potenziale lesione dell’immagine dell’ufficio giudiziario)”.
Ai fini dell’applicazione di tale esimente, il giudice deve procedere ad una valutazione d’ufficio, sulla base dei fatti acquisiti al procedimento e prendendo in considerazione le caratteristiche e le circostanze oggettive della vicenda addebitata, anche riferibili al comportamento dell’incolpato, purchè strettamente attinenti allo stesso, con giudizio globale diretto a riscontrare se l’immagine del magistrato sia stata effettivamente compromessa dall’illecito (SS.UU, 31 marzo 2015, n. 6468; SS.UU, 05 giugno 2017, n. 13911; SS.UU, 10 settembre 2019, n. 22577; Cass. n. 31058 del 2019).
Come osservato da SS.UU, n. 31058 del 2019, l’art. 3 -bis, dunque, introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, per cui richiede un riscontro, in concreto ed ex post, della lesione del bene giuridico tutelato (tra le altre, SS.UU, 13 dicembre 2010, n. 25091), che, come detto, è da individuarsi, in particolare, nell’immagine, pubblica, del magistrato, ossia nel prestigio di cui il medesimo deve godere nell’ambiente in cui lavora, e, in senso lato, nella “giustizia” (SS.UU, 08 ottobre 2018, n. 24672) e, quindi, nel “prestigio dell’ordine giudiziario” (SS.UU, 24 giugno 2010, n. 15314).
Effettuato il corretto richiamo giurisprudenziale, la sentenza disciplinare provvede poi alla valutazione in concreto, ex post, della non scarsa rilevanza del fatto, facendo corretta applicazione dei principi sopra richiamati e dandone un idoneo riscontro motivazionale, a pag. 14, là dove afferma che “Con riferimento all’applicabilità del 3 bis, la stessa deve ritenersi esclusa in ragione della obiettiva gravità della condotta che ha attinto una soglia tale da non poter giustificare l’applicazione della invocata esimente. Ciò in quanto l’attività di discredito a danno dei colleghi si colloca senz’altro ad un livello di gravità elevato, incompatibile con l’applicazione dell’art. 3 bis, in ragione della non scarsa rilevanza delle condotte poste in essere nei termini dianzi illustrati”.
Va ulteriormente precisato che, in relazione all’illecito contestato, la valutazione di scarsa rilevanza della violazione va operata in relazione al bene leso, che deve individuarsi nel pregiudizio della immagine stessa del magistrato quale appartenente all’ordine giudiziario, correttamente individuata come sussistente e grave, nel caso di specie, a prescindere dalla eventuale ininfluenza di tale comportamento sul buon andamento dell’Ufficio giudiziario di appartenenza, e dalla stima professionale ed anche personale di cui il magistrato possa godere.
E’ ben possibile, infatti, che i magistrati che competono per un incarico direttivo o semidirettivo siano tutti in grado di ricoprirlo con efficienza e professionalità: ciò che conta, però, è che le regole della selezione del più meritevole non siano alterate, come in questo caso, con non consentiti comportamenti di avvicinamento dei soggetti coinvolti nel procedimento decisorio di attribuzione degli incarichi, volti al conseguimento dell’incarico desiderato mediante la denigrazione dell’avversario: è questo, nel caso di specie, il comportamento lesivo dell’immagine del magistrato ed, attraverso di esso, dell’intera magistratura posto in essere dalla Dott. A.A. e stimato correttamente dalla sentenza impugnata come di non scarsa rilevanza.
Il ricorso è pertanto rigettato.
Nulla per le spese del giudizio di Cassazione, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2023
Allegati:
SS.UU, 28 aprile 2023, n. 11305, in tema di responsabilità del magistrato
Nota del Dott. Luca De Laurentiis
Sui comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nelle interlocuzioni tra magistrati e componenti del CSM
1. I principi di diritto
Le interlocuzioni tra magistrati e componenti del CSM aventi ad oggetto valutazioni procedimentali per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi degli uffici giudiziari costituiscono “comportamenti abitualmente o gravemente scorretti”, ai sensi dell’art. 2, c. 1, lett. d), del D.Lgs. 109/2006, dovendosi ritenere imposto ad ogni magistrato il dovere di astenersi da qualsiasi intervento – salvo se contemplato dalla disciplina legislativa del procedimento – che sia volto, in guisa di pressione o di concertazione, ad esprimere discredito o disistima, o all’opposto, a manifestare gradimento o sostegno nei confronti di alcuno degli aspiranti, essendo la comparizione di questi ultimi riservata ai componenti dell’organo di autogoverno, senza alcuno spazio alla compartecipazione di soggetti estranei (quali, ad esempio, gli esponenti dell’associazionismo giudiziario o della politica).
L’accertamento della condotta disciplinarmente irrilevante in applicazione della esimente di cui all’art. 3 bis del D.Lgs. 109/2006 – da identificarsi in quella che, riguardata ex post ed in concreto, non comprometta l’immagine del magistrato – deve compiersi senza sovvertire il principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari; pertanto, nell’ipotesi in cui il bene giuridico individuato specificatamente dal legislatore in rapporto al singolo illecito disciplinare non coincida con quello protetto dal citato art. 3 bis, il giudizio di “scarsa rilevanza del fatto” dovrà anzitutto tenere conto della consistenza della lesione arrecata al bene giuridico specifico e, solo se l’offesa non sia apprezzabile in termini di gravità, occorrerà verificare se quello stesso fatto, che integra l’illecito tipizzato, abbia però determinato un’effettiva lesione dell’immagine pubblica del magistrato, risultando applicabile la detta esimente soltanto in caso di esito negativo di entrambe le verifiche.
2. La fattispecie
La Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha sanzionato un magistrato per la violazione degli artt. 1 e 2, c. 1, lett. d), del D.Lgs. 109/2006, per aver tenuto un comportamento gravemente scorretto verso altri magistrati.
La contestazione ha riguardato, in particolare, il discredito e la reiterata denigrazione di altri due concorrenti per l’ufficio semidirettivo della presidenza di una sezione di tribunale, rappresentando, altresì, ad un componente dell’organo di autogoverno chiamato a decidere sull’incarico, di essere in possesso di meriti professionali e titoli preferenziali superiori.
3. Riflessioni conclusive
Le Sezioni Unite chiariscono che la nozione di “grave scorrettezza”, richiamata dall’art. 2, c. 1, lett. d), del D.Lgs. 109/2006, ha carattere elastico (cfr., SS.UU, 28 novembre 2019, n. 31058; SS.UU, 30 dicembre 2020, n. 29823).
Il giudice disciplinare, secondo la Cassazione, deve attingere sia ai principi che la norma richiama, sia a fattori esterni presenti nella coscienza comune, in modo tale da fornire concretezza alla parte mobile della disposizione, che è suscettibile di adeguamento rispetto al contesto storico sociale nel quale deve operare.
Ai fini poi dell’applicazione dell’esimente dell’art. 3 bis del D. Lgs. 106/2009 – il fatto di scarsa importanza – occorre procedere ad una valutazione non solo dei fatti acquisiti al procedimento, ma anche delle caratteristiche e circostanze, soggettive e oggettive, della vicenda (cfr., SS.UU, 27 novembre 2019, n. 31058; 10 settembre 2019, n. 22577; 05 giugno 2017, n. 13911; 31 marzo 2015, n. 6468).
Giova segnalare, infine, che l’art. 3 bis introduce nella materia disciplinare il principio di offensività del diritto penale, per cui è richiesto un riscontro, sia in concreto sia ex post, della lesione del bene giuridico tutelato, che è da rinvenire nell’immagine pubblica del magistrato; o meglio, nel prestigio di cui il medesimo deve godere nell’ambiente in cui lavora e in senso lato nella “giustizia” (cfr., SS.UU, 08 ottobre 2008, n. 24672), e di conseguenza nel prestigio dell’ordinamento giudiziario (cfr., SS.UU, 24 giugno 2010, n. 15314).