Civile Sent. Sez. U Num. 13143 Anno 2022
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: TERRUSI FRANCESCO
Data pubblicazione: 27/04/2022
SENTENZA
sul ricorso 23186-2019 proposto da:
MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– ricorrente –
contro
ALLEGRI ROBERTO; AMANDOLA ELVIRA; MORANDO OLGA, MORANDO GIUSEPPINA, MORANDO GIOVANNA FRANCA, MORANDO MICHELA, CIOLI GRAZIA nella qualità di eredi di Ariano Fiorina; BARONE MONFRIN SERGIO; BATTISTI ANNA; BERRINO LAURA nella qualità di erede di Berrino Giovanni; BERTOLDO UGO, BERTOLDO DANIELA nella qualità di eredi di Bertoldo Roberto; BOZ ANTONIO; CAVALLO ENZO; COSTA ARMANDO; CRAVERO PIETRO; CROSETTO RICCARDO; DE VICARI ANTONELLA; FRANCIA MARTA; FURINI MARCO in proprio e nella qualità di erede di Furini Leonardo e Guzzinati Egle; GENTINA BRUNA in proprio e nella qualità di erede di Ferrero Giacominetto Luciana; ESPOSITO GIOVANNA nella qualità di erede di Leone Giuseppina; MAINA SECONDINO, MANGANO ANGELA, MARCHETTI ANTONIO, MICHELASSI CLARICE, MORANDO GIUSEPPINA; MORANDO MICHELA, CIOLI GRAZIA nella qualità di eredi di Morando Walter; MORANDO OLGA; PAPALINI NEVIO; POSSAMAI LAURA; RAIMONDO PAOLO; RIBBA MATILDE; RIZZO ROBERTO; SABATTINI EVA; SABATTINI FEDERICA; SABATTINI LEONARDO; SALUSSO GIOVANNI; SILVANO CARLO in proprio e nella
qualità di erede d Silvano Mario; TABACHIN GIUSEPPE; TABACHIN IVO; TOSCO AMILCARE; TOSCO FULVIO; TOSCO SILVIA nella qualità di erede di Tosco Sergio; ZACCO SUSANNA, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA LUDOVISI 36, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI MUSITANO, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati PAOLA PAMPANA e GIOVAN BATTISTA MARRONE; FONTANA DAVIDE, nella qualità di coerede universale di Fontana Luciano, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso da sé medesimo;
– controricorrenti –
nonchè contro
UGOLINI MASSIMO e UGOLINI MAURIZIO nella qualità di eredi di UGOLINI NAVARRO; BERTOLDO ROBERTO, DE PAU ANTONIO, LOCCI IOLE, GUZZINATE EGLE, CIOLI GIUSEPPINA, PASTORE ODETTA, SILVANO ROBERTO PAOLO, TILOTTA LEONARDO, TRONCI PIETRO;
– intimati –
avverso la sentenza n. 3112/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 13/05/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/01/2022 dal Consigliere FRANCESCO TERRUSI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, che ha concluso per il rigetto del primo motivo del ricorso;
uditi gli avvocati Paolo Gentili per l’Avvocatura Generale dello Stato, Giovanni Musitano e Giovan Battista Marrone in proprio e per delega dell’avvocato Davide Fontana.
Fatti di causa
Roberto Allegri e gli altri soggetti in epigrafe indicati convennero davanti al tribunale di Roma il Ministero dello sviluppo economico (d’ora in poi breviter Mise), e ne chiesero la condanna al risarcimento del danno rappresentato dalla perdita dei capitali da ciascuno conferiti nelle società fiduciarie s.p.a. e Reno s.p.a. e Previdenza s.p.a.
Sostennero che le due società erano state amministrate contra legem da Luciano Sgarlata, direttamente (nel primo caso) e indirettamente, tramite la moglie, (nel secondo), e che, essendo le stesse soggette a vigilanza ex Lege n. 1966 del 1939, il danno dovevasi parimenti ascrivere a responsabilità extracontrattuale del Ministero, che aveva omesso di correttamente esercitare la potestà di controllo.
Il Tribunale accolse la domanda reputando infondata l’eccezione di prescrizione quinquennale opposta dal Mise, attesa l’interruzione del termine dovuta all’insinuazione degli investitori al passivo della liquidazione coatta amministrativa (l.c.a.) di Previdenza s.p.a. e la sospensione del successivo decorso fino alla chiusura della procedura concorsuale.
Condannò quindi il Mise al pagamento della somma pari al capitale investito da ogni attore, con rivalutazione e interessi legali calcolati sulla sorte capitale rivalutata anno per anno.
La decisione venne impugnata dal Mise, sia in ordine al profilo della prescrizione, sia in ordine all’accertamento della responsabilità e alla liquidazione del danno conseguente.
Quanto alla prescrizione l’appellante, in particolare, eccepì l’inesistenza del vincolo solidale con la Previdenza in l.c.a., stante la diversità dei titoli spesi: quello contrattuale, rilevante per la Previdenza siccome obbligata verso gli attori per il mancato adempimento dell’obbligo discendente dal mandato fiduciario di restituire loro le somme versate; quello extracontrattuale, rilevante quanto al Mise siccome ritenuto responsabile di un illecito ex art. 2043 c.c., per la presunta omissione della vigilanza sulla società.
La corte d’appello di Roma, con sentenza del 13 maggio 2019, ha respinto il gravame, ritenendo che l’effetto interruttivo/sospensivo (recte, l’effetto interruttivo permanente) della prescrizione – conseguito, ai sensi dell’art. 2943 c.c., comma 1 e art. 2945 c.c., comma 2, alla presentazione della domanda di ammissione al passivo nella liquidazione coatta amministrativa e perdurante fino alla chiusura della procedura concorsuale – dovesse considerarsi esteso, ex art. 1310 c.c., comma 1, anche al Mise, poichè solidalmente responsabile ai sensi dell’art. 2055 c.c..
Ha in particolare richiamato l’insegnamento di questa Corte per il quale il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti ex art. 2055, richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, anche se le condotte lesive siano tra loro autonome, e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna, perchè l’unicità del fatto dannoso deve essere riferita unicamente al danneggiato senza poter essere intesa come identità delle norme giuridiche violate.
Dopodiché la corte territoriale ha respinto altresì le censure svolte dal Mise a proposito dell’an e del quantum debeatur, condividendo, in ordine al primo profilo (che ancora unicamente rileva), l’addebito di omessa vigilanza sull’intera operazione di cessione compiuta dalla Reno s.p.a. nei confronti della Previdenza s.p.a., attese le ripercussioni relative ai contratti per la probabile replica da parte della cessionaria delle modalità contra legem con le quali era stato gestito il pubblico risparmio dalla cedente. Il che, secondo il giudice del merito, era avvenuto in circostanze che ben avrebbero potuto essere scoperte nell’indagine ispettiva culminata con la revoca dell’autorizzazione alla Reno fin dall’ottobre 1983, prima cioè della messa in liquidazione della Previdenza – le quali circostanze, emerse fin da allora come implicanti la riconduzione di tutta l’attività alla stessa persona di Luciano Sgarlata, avrebbero dovuto indurre il Mise a impedire la cessione del portafoglio, ovvero a verificare più incisivamente e tempestivamente la modalità gestoria delle attività della cessionaria.
Per completezza va detto che, in punto di quantum, la corte d’appello ha rilevato che nessuna prova era stata fornita a proposito dell’avvenuto anche parziale recupero di somme da parte degli investitori a seguito dell’insinuazione al passivo; e ancora che il danno, costituito dal mancato recupero del capitale, era da considerare immediatamente e direttamente correlabile alla mala gestio delle due società non tempestivamente intercettata e sanzionata dall’organo di vigilanza, senza rilevanza, dal punto di vista causalistico, della asserita aleatorietà dell’investimento in sè.
Il Mise ha proposto ricorso per cassazione avverso la ripetuta sentenza, deducendo tre motivi.
Alcuni degli investitori hanno replicato con controricorsi, mentre altri (come da epigrafe) sono rimasti intimati.
Con ordinanza interlocutoria n. 18817 del 2021 la Terza sezione di questa Corte ha ordinato la rinnovazione della notifica del ricorso a uno degli intimati (Navarro Ugolini) e contestualmente, su sollecitazione fatta dall’avvocatura erariale nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., ha rimesso gli atti al primo presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite.
La rimessione, alla quale la Terza sezione ha ritenuto non esser di ostacolo l’ordine di rinnovazione alla luce del principio di ragionevole durata del processo (ordine peraltro nelle more adempiuto dall’amministrazione ricorrente), è stata sollecitata in considerazione del contrasto registrabile sulla questione dal Mise prospettata nel primo motivo di ricorso, il quale investe la sentenza nella parte in cui ha ritenuto estensibile l’effetto interruttivo e sospensivo della prescrizione, conseguente alla insinuazione al passivo della l.c.a. della Previdenza s.p.a., al terzo (il Mise, appunto) estraneo al rapporto obbligatorio tra il creditore insinuato e il debitore sottoposto a l.c.a..
Il primo presidente ha disposto in conformità.
Il procuratore generale ha depositato conclusioni scritte.
L’amministrazione ricorrente ha depositato una memoria.
Ragioni della decisione
I. – Il ricorso per cassazione è affidato ai seguenti mezzi:
(i) violazione o falsa applicazione dell’art. 2055 c.c., art. 2943 c.c., comma 2, art. 2945 c.c., comma 1, art. 1310 c.c., comma 1, per avere l’impugnata sentenza ritenuto estensibile l’effetto interruttivo e sospensivo della prescrizione, conseguente alla insinuazione al passivo della l.c.a. di Previdenza s.p.a., al Mise da considerare terzo rispetto al rapporto obbligatorio tra il creditore insinuato e il debitore sottoposto a l.c.a., per quanto asseritamente responsabile a titolo extracontrattuale per omessa vigilanza;
(ii) violazione e falsa applicazione dell’art. 40 c.p., comma 2, e dell’art. 2043 c.c., nonchè della L. n. 2248 del 1865, art. 4, all. E, della L. n. 1966 del 1939, art. 2 e del r.g. n. 531 del 1940, art. 3, poichè non poteva ritenersi sussistente alcun obbligo del Mise di pubblicare il decreto di revoca dell’autorizzazione alla Reno s.p.a., nè di svolgere altre specifiche attività informative, con conseguente insussistenza dell’elemento causalistico presupposto dall’omissione sanzionata dalla corte d’appello;
(iii) ulteriore violazione dell’art. 40 c.p. e art. 2043 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., L. n. 1966 del 1939, art. 2 e del r.g. n. 531 del 1940, art. 3, nonchè violazione dell’art. 132 c.p.c., per omessa motivazione su punti decisivi, stante il fatto che tutti gli strumenti a disposizione erano stati posti in essere dal Mise, mentre dalla corte territoriale non era stata offerta spiegazione in ordine al rischio da fronteggiare con una diversa e più adeguata attività; difatti in sede ispettiva era emerso un mero disordine amministrativo-contabile della società, ma non anche lo stato di insolvenza; e comunque, essendo irrilevante la riconducibilità di entrambe le fiduciarie a Sgarlata (tanto più che, dopo la revoca dell’autorizzazione alla Reno, era stata prevista la nomina di un commissario permanente presso la Previdenza), nessuna motivazione era stata fornita dalla sentenza sul nesso esistente tra le informazioni omesse e il danno.
II. – Le argomentazioni del Mise a corredo del primo motivo, nel quale si colloca la questione che ha determinato l’assegnazione del ricorso alle Sezioni unite, sono incentrate sul concetto di solidarietà implicato dall’art. 2055 c.c. e sulla irragionevolezza dell’effetto estensivo sia istantaneo che permanente predicato dalla corte d’appello, in relazione agli artt. 1310, 2943 e 2945 c.c..
La premessa è che ai fini specifici non rileverebbe quanto affermato dal precedente evocato dalla corte territoriale (Cass. Sez. U. n. 16503-09), perchè la questione all’esame è diversa da quella scrutinata in quel precedente, relativo alla possibilità di estendere, o meno, a beneficio del debitore solidale estraneo al processo, il concorso di colpa del danneggiato di cui all’art. 1227 c.c., comma 1, in ipotesi di pacifica corresponsabilità ex art. 2055 c.c..
Il ricorrente di conseguenza assume che l’art. 2055, sebbene menzionante il “fatto dannoso”, si riferisce in verità al fatto colposo esattamente come l’art. 2043 c.c., poichè letteralmente recita che quel fatto (“dannoso”) deve essere infine “imputabile” a più persone; dunque un fatto colposo, tale da legittimare la conclusione di una solidarietà (per concorso di “più persone” nel medesimo fatto) per il caso di imputabilità del danno ai pretesi autori all’unico titolo extracontrattuale, anche se per condotte indipendenti.
Tale conclusione sarebbe evincibile anche dalla collocazione dell’art. 2055 nella parte del codice civile dedicata alla materia della responsabilità extracontrattuale, e sarebbe altresì imposta dal carattere di stretta interpretazione della norma di riferimento, prevtdente un’ipotesi legale di estensione della responsabilità solidale al di là della disciplina dell’art. 1294 c.c..
Poichè il presupposto della solidarietà, in base all’art. 1292 c.c., è che i diversi debitori, pur sulla base di distinte causae obligandi, siano tenuti alla medesima prestazione, sicchè l’adempimento di uno possa liberare tutti, l’errore della corte d’appello starebbe nel non aver considerato che nessuna comunanza intercorreva tra l’obbligo delle società fiduciarie di restituire a titolo contrattuale le somme loro affidate in gestione e l’obbligo, gravante sul Mise, di risarcire il danno, peraltro neppure necessariamente coincidente con l’importo delle somme affidate.
Da questo punto di vista l’avvocatura ricorrente sottolinea che la solidarietà è da escludere se le condotte realizzate da più soggetti hanno leso separatamente interessi diversi del danneggiato, esattamente come accaduto nel caso concreto, in cui altra sarebbe la lesione dell’interesse negativo a non stipulare i mandati fiduciari, conseguente all’omissione imputata al Mise, altra la lesione dell’interesse positivo all’adempimento del mandato da parte delle società fiduciarie.
Tutto ciò minerebbe il fondamento dell’affermazione di solidarietà alla base dell’estensione dell’effetto interruttivo della prescrizione conseguente alla domanda giudiziale insita nell’insinuazione concorsuale. Ma in ogni caso, ai sensi dell’art. 1310 c.c., comma 2, non potrebbe produrre nei confronti del Mise anche l’effetto sospensivo della prescrizione, appunto perchè il Mise sarebbe solo un terzo condebitore solidale, il quale se non conosce l’atto interruttivo comunicato all’altro debitore, tanto meno, in quanto terzo estraneo, è in grado di influire sulla durata degli eventi sospensivi, ivi compresa la durata dei procedimenti giudiziari o concorsuali iniziati dal creditore con l’atto interruttivo i cui effetti si vorrebbero estendere.
Il che, in parole più semplici, vuol dire che sarebbe erroneo, in rapporto agli artt. 3 e 24 Cost., l’orientamento teso a estendere al condebitore solidale anche l’effetto sospensivo “giudiziale”, poichè in tal modo, secondo l’avvocatura, verrebbe sottoposto all’estensione un soggetto che potrebbe perfino ignorare l’esistenza della procedura concorsuale, e che comunque non sarebbe in grado di influire sulla sua durata.
III. – In relazione a quanto costì affermato dall’amministrazione ricorrente, la Terza sezione ha sollecitato la rimessione della causa alle Sezioni unite nell’interrogativo se la domanda, con cui l’investitore si sia insinuato al passivo della procedura concorsuale a carico di una società fiduciaria ex Lege n. 1966 del 1939, col fine di ottenere la restituzione del capitale consegnato per la relativa amministrazione, produca o meno l’effetto interruttivo della prescrizione per la durata della procedura stessa anche nei confronti dell’ente deputato alla vigilanza (art. 1310 c.c., comma 1), contro il quale gli investitori abbiano separatamente e successivamente agito come nella specie – per ottenere il risarcimento del danno da perdita del capitale.
La Terza sezione ha ravvisato un contrasto in seno alla Corte tra due orientamenti, l’uno ampiamente maggioritario, attestato nel senso affermativo sostenuto anche dall’impugnata sentenza, l’altro ordinato invece in senso negativo, ed esplicato in una recente decisione (Cass. Sez. 3 n. 4683-20) facente leva, giustappunto, sulla diversità degli interessi oggetto delle autonome condotte dannose imputabili ai soggetti obbligati a vario titolo, e sul difetto di un vincolo di solidarietà tra codesti.
IV. – Occorre dire che, sebbene l’ordinanza ultima citata abbia motivato il proprio assunto a valle della ritenuta inammissibilità del ricorso per cassazione ivi scrutinato – per eccesso di esposizione (cd. assemblaggio) -, il contrasto (segnalato dalla Terza sezione) è da considerare esistente, perchè la Corte di Cassazione ha sempre la facoltà di enunciare principi di diritto ai sensi dell’art. 363 c.p.c., anche ove reputi il ricorso inammissibile.
Il diverso principio consapevolmente rinvenibile in Cass. Sez. 3 n. 4683-20, rispetto all’orientamento individuato come dominante nella giurisprudenza della Corte, può quindi essere considerato come espressione effettiva di un contrasto, ancorchè in motivazione non sia stato menzionato l’art. 363 citato.
Può utilmente aggiungersi che, in ogni caso, sulla questione sollevata dall’avvocatura erariale si registra una qualche incrinatura anche in seno all’orientamento dominante, in motivazioni qua e là rinvenibili al confine col tema della concorsualità.
Difatti l’interrogativo nel quale il contrasto è stato compendiato reca riferimenti tali da intercettare macro-temi ulteriori di una certa complessità, per i riflessi che ne derivano su quello specificamente affrontato nell’ordinanza interlocutoria.
E dunque anche su codesti necessita soffermare l’attenzione mediante trattazioni in certo qual modo dedicate.
Rispetto al tema centrale relativo ai nessi tra solidarietà e responsabilità civile, che agita la fattispecie, la linea di intersezione corre, innanzi tutto, lungo il crinale dell’accertamento del passivo, che nella l.c.a. possiede una disciplina giuridica del tutto peculiare.
Essa incrocia – poi – l’oggetto delle obbligazioni specificamente discendenti dal contratto di mandato per l’amministrazione fiduciaria dei capitali, per l’eventualità che in questo l’organo commissariale non abbia dichiarato di subentrare; donde il contratto (come normalmente avviene in ipotesi di dichiarazione d’insolvenza di una società fiduciaria) sia da considerare sciolto e il credito dei fiducianti sia stato fatto valere nel passivo in relazione all’avvenuta perdita dei capitali conferiti.
V. – Ciò premesso, la considerazione da fare è che sul versante dei nessi tra principio di solidarietà e responsabilità civile questa Corte, con orientamento di gran lunga prevalente, si è nel tempo determinata nel senso della configurabilità del vincolo anche tra coobbligati tenuti a diverso titolo: l’uno a titolo di responsabilità contrattuale e l’altro a titolo di responsabilità extracontrattuale.
L’orientamento ha preso le mosse dalla tradizionale correlazione con la formula in termini complessivi sottesa agli artt. 1292 c.c. e segg., a proposito dell’obbligazione solidale, visto che l’art. 1292, non identifica l’obbligazione solidale come obbligazione nascente da un unico atto o fatto giuridico che dia luogo a un medesimo e unico obbligo di prestazione da parte di più soggetti, bensì come situazione nella quale si diano più soggetti obbligati alla medesima prestazione, in guisa tale che l’adempimento dell’uno libera gli altri: “l’obbligazione è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo che ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità e l’adempimento di uno libera gli altri”.
In questa prospettiva si è detto più volte che è irrilevante la unicità o la pluralità dei fatti o dei mezzi giuridici in conseguenza dei quali è nato l’obbligo a adempiere quella medesima prestazione, essendo invece essenziale che tutti i debitori siano obbligati, non a più prestazioni identiche, ma a un’unica sostanziale prestazione (v. già Cass. Sez. 1 n. 212096, Cass. Sez. 2 n. 1415-99).
Simile preambolo ha consentito di affrontare l’esegesi dell’art. 2055 c.c., in base alla risalente e tradizionale notazione che si tratta di norma di richiamo, che vuole specificare, nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, i principi già codificati dagli artt. 1292 c.c. e segg..
Da qui il principio per cui (v. Cass. Sez. 3 n. 7507-01) la norma va letta in giustapposizione all’art. 2043 c.c., che fa sorgere l’obbligo del risarcimento dalla commissione di un fatto doloso o colposo, visto che considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il solo “fatto dannoso”. Sicchè, mentre la prima norma (art. 2043) si riferisce all’azione del soggetto che cagiona l’evento, la seconda (art. 2055) guarda alla posizione di quello che subisce il danno, e in cui favore è stabilita la solidarietà.
E da qui anche la conseguenza che l’unicità del fatto dannoso, richiesta dal ricordato art. 2055, per la legittima affermazione di una responsabilità solidale tra gli autori dell’illecito, deve essere intesa in senso non assoluto ma relativo al danneggiato, ricorrendo, pertanto, tale forma di responsabilità pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni od omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, e anche diversi, semprechè le singole azioni od omissioni abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno (v. ex plurimis Cass. Sez. 1 n. 1327206, Cass. Sez. 3 n. 17397-07, Cass. Sez. 3 n. 6041-10, Cass. Sez. 3 n. 20192-14, Cass. Sez. 3 n. 18889-15).
VI. – Giova dire che codesto principio è stato richiamato adesivamente, in motivazione, anche e proprio dalla sentenza di queste Sezioni unite citata dalla corte d’appello di Roma (Cass. Sez. U. n. 16503-09), che quindi, contrariamente a quanto sostenuto dall’avvocatura erariale a premessa del suo ricorso, ben può ascriversi al filone giurisprudenziale maggioritario, sebbene nella specificità della questione in quel caso scrutinata e decisa.
Anche nel detto precedente, cioè, le Sezioni unite dissero – anzi ribadirono – che in contrapposizione all’art. 2043 c.c., che fa sorgere l’obbligo del risarcimento dalla commissione di un fatto doloso o colposo, il successivo art. 2055, “considera, ai fini della solidarietà nel risarcimento stesso, il “fatto dannoso”, sicchè, mentre la prima norma si riferisce all’azione del soggetto che cagiona l’evento, la seconda riguarda la posizione di quello che subisce il danno, ed in cui favore è stabilita la solidarietà”. Di riflesso ad altre decisioni (Cass. n. 27713-05 e Cass. n. 418-96), le Sezioni unite specificarono pure che per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l’art. 2055 c.c., “richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorchè le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui sia configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l’unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate”.
Ciò vale a escludere il fondamento della diversa ricostruzione operata a tal riguardo dall’avvocatura ricorrente, sviluppata più compiutamente in memoria, secondo la quale si potrebbe parlare di solidarietà ex art. 2055 c.c., solo allorchè l’oggetto dell’obbligazione sia il medesimo nello specifico senso “dell’identità del titolo, dell’oggetto e dell’interesse”.
Così non è per le ragioni già indicate nel precedente del 2009, e perchè l’art. 2055, ponendosi nell’ottica della tutela (e dell’interesse) del danneggiato, guarda solo all’unicità del fatto dannoso imputabile a più soggetti, secondo la rilevanza della serie causale nel quale è inserito.
D’altronde è da ricordare che l’assunto, alla base dell’orientamento appena menzionato, ha trovato ampi spunti di conferma sul versante dell’efficienza causale da omissione (che sostanzialmente viene al pettine pure nella situazione di specie).
Ed è condivisa anche in dottrina la ricostruzione che in tema di responsabilità civile, qualora l’evento dannoso si ricolleghi a più azioni od omissioni, vede risolto il problema del concorso delle cause nell’alveo della teoria cd. di equivalenza; e quindi in base all’art. 41 c.p., secondo il criterio per il quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’omissione, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l’evento, essendo quest’ultimo riconducibile a tutte; salvo che naturalmente sia stata accertata l’esclusiva efficienza causale di una di esse (v. per tutte Cass. Sez. 3 n. 18753-17).
VII. – In caso di responsabilità solidale non si dubita dell’applicazione dell’art. 1310 c.c., comma 1, perchè – come più volte è stato sottolineato – l’effetto precipuo (comune) di ogni atto interruttivo, appositamente definito, a volte, come effetto “conservativo” (v. C. Cost. n. 8 del 1975, su cui si tornerà), consiste (per l’appunto) nella “conservazione” del diritto del creditore a ricevere la prestazione nei confronti di tutti i debitori solidali, e quindi nella cessazione di qualsiasi utilità del periodo di tempo già decorso prima dell’atto interruttivo e nell’inizio di un periodo nuovo, senza rilevanza della conoscenza o meno dell’atto medesimo da parte dei singoli; cosa che viene rafforzata dalla considerazione della differente rilevanza degli effetti della mora, i quali per converso presuppongono la conoscenza del soggetto in relazione al quale gli effetti dell’atto abbiano a prodursi; quando, invece, gli effetti interruttivi della prescrizione, anche in ipotesi di semplice costituzione in mora, restano comunque salvi, proprio ai sensi del medesimo art. 1310, riguardo a tutti gli altri (art. 1308 c.c.).
VIII. – L’indirizzo sopra menzionato, come detto assolutamente maggioritario (v. Cass. Sez. 1 n. 17353-17, Cass. Sez. 3 n. 13365-18, Cass. Sez. 1 n. 27118-18, Cass. Sez. 3 n. 1070-19, Cass. Sez. 3 n. 22164-19, Cass. Sez. 3 n. 22524-19, Cass. Sez. 3 n. 7016-20), risulta corroborato da alcuni aggiuntivi rilievi sulla corresponsabilità da omissione degli organi di vigilanza.
Il riscontro è segnatamente individuabile nella giurisprudenza formatasi sulle società di intermediazione finanziaria, soggette a controllo della Consob secondo la disciplina del Decreto Legislativo n. 58 del 1998 (cd. T.u.f.), quanto ai danni patiti dagli investitori per la perdita dei capitali impiegati nei prodotti finanziari.
In questi casi si è detto che la domanda di ammissione al passivo di tali società, assoggettate a procedura concorsuale, che sia finalizzata alla “restituzione” dei menzionati capitali, è idonea a interrompere il decorso del termine di prescrizione del diritto al risarcimento nei confronti della Consob, fondato sull’illecito extracontrattuale consistente nella mancata vigilanza sull’operato della medesima società di intermediazione; e questo perchè deve aversi riguardo non alla differente natura, restitutoria o risarcitoria, dei crediti azionati o alla diversità delle condotte contestate e dei soggetti coinvolti, ma all’unicità dell’evento pregiudizievole (Cass. Sez. 3 n. 7016-20), che, derivando da azioni od omissioni tutte causalmente convergenti alla sua produzione, comporta una responsabilità solidale ex art. 2055 c.c..
Anche a ciò segue la ritenuta applicabilità dell’effetto estensivo interruttivo della prescrizione di cui all’art. 1310 c.c., comma 1.
IX. – A petto di tali affermazioni è da riscontrare, peraltro, anche un primo – forse marginale, ma comunque concettualmente definito – profilo di divergenza, che pur si colloca in seno al comune (citato) indirizzo interpretativo dell’art. 2055 c.c., da considerare prevalente.
Tale profilo merita di essere affrontato espressamente, perchè in alcuni casi è stato posto al confine (come all’inizio si diceva) del modo di intendere il contenuto dell’insinuazione concorsuale.
In caso di procedura concorsuale una parte della giurisprudenza, per quanto riconoscendo la validità del menzionato ragionamento dell’indirizzo maggioritario, assume doversi operare un distinguo a seconda dell’oggetto dell’insinuazione, che se finalizzata a ottenere semplicemente la restituzione del capitale investito andrebbe estraniata dai fondamenti della solidarietà rispetto al credito risarcitorio azionabile nei confronti dell’autorità di vigilanza (v. in particolare Cass. Sez. 3 n. 1070-19 e Cass. Sez. 3 n. 2711818).
Così Cass. Sez. 3 n. 1070-19, richiamata anche dalla sentenza della corte d’appello di Roma, nell’affermare il principio per cui la responsabilità solidale dei danneggianti, ex art. 2055 c.c., “richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorchè le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone ed anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale”, per la decisiva constatazione dell’unicità del fatto dannoso riferibile, nella considerazione della norma, al solo danneggiato, ha anche precisato (in fattispecie caratterizzata da un’insinuazione fallimentare) che altra sarebbe la soluzione dinanzi alla pretesa concorsuale solo restitutoria. E questo perchè l’esercizio in sede di insinuazione concorsuale di un mero diritto restitutorio sarebbe incompatibile col diritto al risarcimento del danno esercitabile nei confronti dell’altro soggetto, che così non verrebbe ad assumere la qualità di coobbligato solidale; con il consequenziale venir meno, nei di lui confronti, dell’effetto interruttivo della prescrizione derivante dalla domanda di ammissione al passivo.
Detto altrimenti: secondo questa tesi la pretesa restitutoria, sebbene azionata con l’insinuazione dopo la dichiarazione d’insolvenza, sarebbe (o potrebbe essere) teoricamente estranea al debito risarcitorio, in quanto avente fondamento non in un danno ma nella mancanza di causa (originaria o sopravvenuta) del pagamento eseguito.
Una considerazione non dissimile, per quanto in maniera più larvata, si individua anche nelle odierne difese del Mise.
X. – Occorre subito chiarire che una simile distinzione, ove si discorra sia del fallimento, sia e massimamente della l.c.a. della società fiduciaria soggetta alla L. n. 1966 del 1939, non è conducente.
Come meglio si dirà, dinanzi alla perdita del capitale conferito in gestione a una fiduciaria, e dinanzi alla dedotta mala gestio della fiduciaria medesima (dichiarata insolvente) come base causale di quella perdita (tale è la fattispecie concreta, secondo postulazione), non ha alcun senso discorrere di un semplice credito restitutorio.
La perdita del capitale conferito espone la fiduciaria al risarcimento del danno da inadempimento del mandato ad amministrare, secondo quanto stabilito per il tipo di società di cui alla L. n. 1966 del 1939; sicchè oggetto della pretesa fatta valere mediante l’insinuazione concorsuale resta – in queste fattispecie – sempre e solo il danno da inadempimento, ancorchè parametrato alla perdita del capitale conferito.
XI. – In modo frontale, rispetto all’orientamento nel complesso suscettibile di esser considerato prevalente (anche se contraddistinto dalla appena ricordata incrinatura sul versante dei nessi con l’insinuazione concorsuale in sè considerata), si è contrapposta – invece – l’ordinanza n. 4683 del 2020 della medesima Terza sezione, la quale, come segnalato dall’ordinanza interlocutoria, in fattispecie praticamente sovrapponibile a quella oggetto del ricorso in esame, ha sviluppato le seguenti considerazioni:
(i) la domanda di ammissione al passivo del credito vantato nei confronti della società assoggettata alla procedura concorsuale ha natura contrattuale, e non può interrompere anche la prescrizione del (diverso) diritto (di natura risarcitoria) fatto valere nei confronti del Mise; questo perchè il Mise non risponde dell’obbligazione di restituzione dei capitali investiti, oggetto della domanda di ammissione al passivo dalla società finanziaria, ma risponde (a diverso titolo, e cioè ai sensi dell’art. 2043 c.c.) esclusivamente del danno causato agli investitori in virtù di una specifica condotta propria, per non avere impedito lo svolgimento dell’attività finanziaria da parte della società divenuta insolvente;
(ii) non si tratta di obbligazioni solidali, perchè il credito risarcitorio fatto valere dagli investitori nei confronti del Mise non solo ha natura diversa rispetto a quello fatto valere nei confronti della società (quale obbligata alla restituzione dei capitali investiti) in sede di ammissione al passivo, ma ha anche un oggetto diverso: si tratta, cioè, del diritto al risarcimento, richiesto ai sensi dell’art. 2043 c.c., derivante dall’omessa vigilanza sulla società finanziaria e dall’omessa tempestiva revoca dell’autorizzazione a operare; sicchè la responsabilità ascrivibile al Mise non ha per oggetto l’adempimento del contratto di amministrazione fiduciaria del denaro conferito alla società dall’investitore, ma il danno derivato a ciascuno in dipendenza dell’avvenuta stipulazione del detto contratto con una società inaffidabile e, poi, inadempiente;
(iii) si è in presenza, quindi, di ipotesi diversa da quella del concorso tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, nella quale comunemente l’unico danno è imputabile a più soggetti, di cui uno solo in rapporto obbligatorio con il danneggiato: lo è in quanto diverso è il fatto imputabile (all’uno e all’altro dei soggetti) e diverso è anche il danno conseguente; in particolare la responsabilità risarcitoria del Mise sussiste solo nella misura in cui il credito contro la società non possa trovare soddisfazione; ma fermo restando che i due diritti azionabili rimangono autonomi e distinti, come pure (di conseguenza) le azioni.
XII. – Il nucleo centrale del pensiero enunciato nel detto precedente è sostanzialmente replicato nella già citata memoria del Mise, a mezzo della considerazione che nella specie “la domanda fatta valere in sede di ammissione al passivo della società finanziaria non è una domanda di risarcimento del danno, ma di adempimento contrattuale”, e che invece “il Ministero non risponde in alcun modo dell’adempimento di quella obbligazione contrattuale (nè degli eventuali danni direttamente conseguenti al relativo inadempimento), ma risponde esclusivamente del danno causato agli investitori per aver confidato nella regolarità della gestione dell’attività della società finanziaria ed aver quindi deciso di stipulare con la stessa il contratto poi rimasto inadempiuto”.
Da ciò la conseguenza che, essendo la situazione imputabile al Mise diversa per “natura e oggetto” dal diritto fatto valere contro la società mediante l’azione di adempimento contrattuale, lo sarebbe anche il danno conseguente, e lo sarebbero, dunque, i diritti fatti valere, siccome correlati a “titolo e contenuto diversi”, oltre che determinativi della “lesione di interessi diversi del danneggiato, a prescindere dalle interferenze che possano esistere in ordine al conseguimento della soddisfazione dei rispettivi (differenti) crediti”.
Il nesso tra i due diritti, da qualificare come distinti e autonomi, come pure il nesso tra le due azioni volte a farli valere in giudizio, si manifesterebbe, secondo il Mise, esclusivamente nella necessità di liquidare il danno, nell’azione di responsabilità, tenendo conto (eventualmente con un giudizio prognostico futuro) delle prospettive di recupero del credito contrattuale nei confronti della società, in quanto il pregiudizio subito dagli investitori in conseguenza della condotta illecita imputabile al Ministero consisterebbe “esclusivamente nella differenza tra il credito del singolo investitore nei confronti della società finanziaria e la parte di esso effettivamente recuperabile da quest’ultima”; al punto che ove nella procedura concorsuale esistesse un congruo attivo, tale da far ritenere presumibilmente recuperabile una parte consistente dei crediti ammessi, il Ministero non potrebbe che essere condannato all’importo di detti crediti che si ritenga non recuperabile, non anche al pagamento integrale delle somme ammesse al passivo, in solido con la società. Così come, a fortiori, se l’attivo fosse ampiamente sufficiente a pagare il passivo, il danno andrebbe escluso in radice.
Ne risulterebbe confermato, ad avviso dell’avvocatura dello Stato, il rilievo per cui non si è in presenza della medesima obbligazione, con diversi debitori tenuti in solido al suo adempimento, ma di obbligazioni del tutto distinte e autonome, volte a soddisfare differenti interessi del creditore, che presentano possibili interferenze solo in relazione al momento attuativo, con riguardo alla completa soddisfazione della complessiva posizione giuridica del creditore stesso.
XIII. – Sennonchè deve dissentirsi dalla trama appena esposta nella parte in cui assume la necessità di intendere la domanda di insinuazione al passivo come una domanda di adempimento contrattuale, in contrasto, quindi, con la domanda risarcitoria formulata nei riguardi del Mise.
In generale un’azione di adempimento non può essere avanzata contro una società fiduciaria assoggettata a procedura concorsuale (sia essa il fallimento, sia essa la l.c.a.) in semplice dipendenza di un contratto pendente al momento in cui quella procedura è instaurata.
In base alla L. Fall., art. 72, richiamato nell’art. 201 stessa legge ai fini della l.c.a., l’esecuzione di ogni contratto (salvi i casi ulteriori testualmente disciplinati nel titolo II, capo III, sezione IV) che al momento risulti non ancora adempiuto rimane sospesa fino a quando gli organi della procedura (curatore o commissario) dichiarino di subentrare nel contratto medesimo, assumendo i relativi diritti e obblighi, ovvero di sciogliersi da esso.
Ciò accade salvo che nei contratti a effetti reali nei quali sia già avvenuto il trasferimento del diritto.
Ma non è tale, secondo quanto meglio si dirà a breve, il mandato ad amministrare stipulato con una società fiduciaria, poichè astretto dallo schema della fiducia cd. germanistica.
Sicchè è totalmente infondato sostenere che la posizione del Mise possa essere in qualche modo diversificata, in giudizi come quello in esame, per il fatto di divergere da quella fatta valere contro una società insolvente a titolo di adempimento del contratto di amministrazione fiduciaria del denaro a essa conferito.
Da questo punto di vista il nucleo qualificante della tesi del ricorrente – e anche, per certi versi, delle affermazioni rese dall’ordinanza n. 4683 del 2020 – appare in contraddizione con la disciplina normativa che rileva.
Non senza considerare che l’ipotesi di un’azione di adempimento di un mandato fiduciario, nel quale gli organi della procedura siano da ritenere subentrati, cozza con la finalità meramente liquidatoria della l.c.a., proprio in ragione della quale, ove si tratti di società, è prevista (dalla L. Fall., art. 200) la cessazione delle funzioni delle assemblee e degli organi di amministrazione e controllo.
XIV. – Prima di affrontare il nodo della relazione corrente tra la solidarietà e la responsabilità civile, è necessario portare a ulteriore compimento la considerazione relativa alla procedura concorsuale di l.c.a.; procedura che d’altronde ha caratterizzato anche la fattispecie decisa da Cass. Sez. 3 n. 4683-20.
La formazione dello stato passivo nella l.c.a. si discosta, infatti, dalla disciplina dell’insinuazione fallimentare.
Ciò per la significativa peculiarità che le norme sulla l.c.a. identificano l’insinuazione come avvinta da una prima (necessaria) fase niente affatto incentrata sull’intervento del giudice, sebbene e solo sul potere officioso del commissario liquidatore.
Secondo la L. Fall., art. 201, il commissario, entro un mese dalla nomina, comunica a ciascun creditore il suo indirizzo di posta elettronica certificata e le somme risultanti a credito di ciascuno secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa. Dopodichè (L. Fall., art. 207) i creditori (e coloro che possono far valere domande di rivendicazione, restituzione e separazione su cose mobili possedute dall’impresa) possono far pervenire al commissario mediante posta elettronica certificata le loro osservazioni o istanze.
In questa fase non ci sono propriamente delle “domande” di parte.
Ci sono (meglio ci possono essere) delle “osservazioni o istanze”, che per consolidata opinione non producono gli effetti di una domanda di ammissione al passivo, e quindi neppure gli effetti di una domanda “giudiziale”.
Di contro i creditori pretermessi hanno diritto (L. Fall., art. 208) di chiedere il riconoscimento dei propri crediti (o la restituzione dei propri beni) con comunicazione raccomandata entro sessanta giorni dalla pubblicazione del provvedimento di liquidazione.
Neppure tali istanze, non essendo rivolte al giudice nè implicandone l’intervento, costituiscono “domande giudiziali”.
E tuttavia producono comunque l’effetto interruttivo della prescrizione, in modo permanente per tutta la durata della procedura concorsuale.
Per costante giurisprudenza infatti la diversa conformazione, rispetto a quello fallimentare, del procedimento di verifica dei crediti nella l.c.a. (come pure, d’altronde, nell’amministrazione straordinaria) non è di ostacolo a ravvisare l’applicazione dei medesimi principi pure nell’ambito di detta procedura (v. Cass. Sez. 1 n. 17955-03, Cass. Sez. 1 n. 4209-04, nonchè, di recente, Cass. Sez. 1 n. 12559-21).
In ciò è da ravvisare un approdo condivisibile, perchè coerente con quanto affermato da questa Corte anche a proposito dell’amministrazione straordinaria (v. Cass. Sez. 1 n. 11983-20, Cass. Sez. 1 n. 14527-20), visto che nell’amministrazione straordinaria (segnatamente in quella sottoposta alla disciplina originaria di cui alla L. n. 95 del 1979), l’esecutività dello stato passivo depositato dal commissario, ai sensi L. Fall., citato art. 209 (appositamente richiamato), determina l’interruzione della prescrizione con effetto permanente anche per i creditori ammessi direttamente a seguito della comunicazione inviata ai sensi dell’art. 207, comma 1.
La ragione è rettamente individuabile nelle seguenti proposizioni: (i) il combinato dell’art. 2493 c.c., comma 4 e art. 2945 c.c., comma 4, e, poi, la giurisprudenza di questa Corte, inducono a constatare l’esistenza nell’ordinamento di più casi in cui l’azione giudiziaria può essere instaurata solo dopo l’effettuazione di un procedimento anche extragiudiziario e non necessariamente contenzioso, il quale è tuttavia suscettibile di esser promosso dall’avente diritto con istanza equiparata, in tema di prescrizione, alla domanda giudiziale; (ii) la presentazione della domanda giudiziale non è da considerare, così, la condizione esclusiva per la produzione del cd. effetto interruttivo permanente della prescrizione; (iii) nel sistema vigente la regolamentazione della procedura fallimentare si pone come elemento informatore della disciplina delle altre procedure di origine e tratto più marcatamente amministrativo; (iv) infine, e in particolare, la L. Fall., art. 209, comma 2, è teso a uniformare, rispetto al fallimento, i procedimenti impugnatori (col richiamo agli artt. 98, 99, 101 e 103), e sottostante all’uniformazione è da reputare presupposta anche la parificazione del piano sostanziale, quanto agli esiti delle rispettive fasi di accertamento e dei relativi effetti.
Può essere utile aggiungere che, nell’ambito della procedura di l.c.a., non sarebbe del resto giustificabile una disparità di trattamento fra i creditori ammessi allo stato passivo in ragione del vittorioso esperimento dell’opposizione (creditori che certamente hanno a loro disposizione l’effetto della domanda giudiziale) e i creditori la cui partecipazione al concorso segua in via immediata alla comunicazione del commissario L. Fall., ex art. 207, o all’accoglimento dell’istanza di ammissione a questo rivolta. Per i quali invero l’ammissione al passivo non è regolata dal principio della domanda giudiziale ma avviene, alternativamente, per impulso d’ufficio o per riconoscimento della fondatezza dell’istanza amministrativa, e per i quali tuttavia l’effetto interruttivo permanente della prescrizione si determina egualmente, sebbene al momento del definitivo, e non più revocabile, deposito in cancelleria dell’elenco dei crediti ammessi (L. Fall., art. 209, comma 1).
In conclusione su questo, deve essere confermato il principio per cui l’ammissione del credito al passivo della l.c.a. determina un effetto interruttivo permanente del termine di prescrizione per l’intera durata della procedura, a far data dal deposito dell’elenco dei creditori ammessi, ove si tratti di ammissione d’ufficio, e a far data dalla domanda, rivolta al commissario liquidatore, per l’inclusione del credito al passivo, nel caso previsto dalla L. Fall., art. 208.
XV. – L’estensione di tale effetto al Mise, terzo obbligato per il risarcimento del danno, implica allora – e soltanto – che sia dato rinvenirne la responsabilità solidale nella perdita azionata dagli investitori insinuati al passivo, ex art. 2055 c.c..
A questo riguardo deve darsi continuità all’indirizzo tradizionale e risalente, le cui conclusioni – che inducono a rispondere affermativamente all’interrogativo appena menzionato – non appaiono scalfite dagli argomenti resi da Cass. Sez. 3 n. 4683-20.
Alcuni di questi argomenti – e specificamente quello incentrato sull’ipotetica divergenza delle azioni, l’una (integrata dall’insinuazione concorsuale) tesa a ottenere l’adempimento del mandato fiduciario e l’altra (verso il Mise) rivolta al risarcimento del danno – sono infondati per la ragione già sottolineata.
Gli altri non resistono a ciò che da almeno sessant’anni si assume essere la caratteristica principale della regola dettata dall’art. 2055 c.c..
XVI. – Al fondo della ricostruzione di un principio di solidarietà anche sul terreno della responsabilità civile, oltre che su quello dell’assunzione volontaria del vincolo (artt. 1292 c.c. e segg.), è da individuare non già una comunanza di interessi alla prestazione dal lato dei soggetti, quanto piuttosto l’unificazione delle posizioni debitorie a cagione del principio dell’equivalenza delle cause del danno.
Questa constatazione è validata dal tradizionale assunto per cui l’art. 2055 costituisce, nel codice civile, la traduzione normativa del principio di causalità materiale, salvi i soli correttivi della causalità adeguata in correlazione al principio del rischio specifico.
La ricostruzione è da far risalire all’indirizzo, inaugurato negli anni ’50 del secolo scorso, secondo cui il fatto, individuato nell’art. 2055, va considerato unitariamente.
Esso è tale quando le cause siano collegate tra loro nel dinamismo convergente di un’azione complessa ovvero quando il processo causale si sviluppi attraverso il progressivo intervento di fattori diversi ma rispondenti a un nesso consequenziale, presente o astrattamente prevedibile dagli autori (cfr. Cass. Sez. 1 n. 1126-54, che dell’indirizzo anzidetto rappresenta la pietra angolare).
Non è necessario soffermarsi sulla ricostruzione dogmatica (del resto notissima) al fondo di simili concetti.
Quel che appare indiscutibile è che alla base dell’art. 2055, vi sia in ogni caso la propensione del legislatore verso l’interesse del danneggiato a vedersi ristorato il danno subito in dipendenza di più concause. Cosa che ha indotto la norma a concentrarsi sul “fatto dannoso”, mediante una sintesi verbale in ciò – per l’appunto – diversa da quella propria dell’art. 1156 c.c. del 1865, invece riferita all’illecito (“se il delitto o il quasi-delitto è imputabile a più persone, queste sono tenute in solido al risarcimento del danno cagionato”).
La considerazione pratica della difficoltà della parte danneggiata di determinare la porzione di responsabilità ascrivibile a ciascun soggetto responsabile del danno ha certamente concorso a determinare il legislatore nel senso della unificazione delle posizioni debitorie per via normativa.
E – come convincentemente osservato anche in dottrina – connaturata a essa è la valorizzazione massima (centrale) del solo interesse del danneggiato, da preservare mediante una regola espressiva della condicio sine qua non, tesa a unificare, come detto, a presidio di tale interesse, le singole concorrenti quote di responsabilità a ciascun soggetto ascrivibili, quale ne sia il titolo.
Per questa ragione, diversamente da quanto insiste nel dire il Mise nel caso di specie, non rileva l’unicità della fonte contrattuale o meno – della responsabilità, ma solo l’unitarietà del fatto dannoso come base dell’obbligazione risarcitoria.
L’aggregazione delle posizioni soggettive avviene per la semplice constatazione che unico è il danno patito dal creditore, e l’unicità del danno induce il legislatore a utilizzare in suo favore il mezzo della solidarietà, in modo funzionale a perseguire l’interesse sotteso, che è quello del danneggiato a essere comunque risarcito.
Va quindi in generale condiviso, e confermato, il principio secondo cui, per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti, l’art. 2055 c.c., comma 1, richiede che sia accertato il nesso di causalità tra le condotte secondo il criterio di cui all’art. 41 c.p., e quindi solo che il fatto dannoso sia in questo senso imputabile a più soggetti, ancorchè le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuno, e anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, atteso che l’unicità del fatto dannoso – considerata normativamente – deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche violate.
XVII. – Ora, come più sopra in certo qual modo anticipato, la conclusione, sebbene certamente in astratto correlata all’esegesi della domanda fatta valere in giudizio, non determina soverchie distinzioni ove si tratti del danno derivante dalla perdita dei capitali conferiti a società fiduciarie ex Lege n. 1939 del 1966; e ciò soprattutto se quelle società siano state dichiarate insolventi e assoggettate a procedura concorsuale.
Va qui ricordato che le società fiduciarie sono dalla legge regolate secondo lo schema invalso sotto il nome di “fiducia germanistica”.
Allorchè sia svolta in forma di impresa, l’attività sottostante presuppone, in base alla legge citata, che la società assuma l’amministrazione di beni per conto di terzi e la rappresentanza dei portatori di azioni o di obbligazioni (art. 1), sì da rimanere destinataria della sola legittimazione all’esercizio dei diritti relativi ai beni o ai capitali conferiti, senza trasferimento effettivo di proprietà.
Le società fiduciarie sono soggette a vigilanza del Mise (art. 2) in quanto strumento di costituzione di un patrimonio amministrato in forma anonima, senza trasferimento di proprietà.
Ciò comporta che le attività tipiche prese in considerazione dalla L. n. 1966 del 1939, sono, in pratica, tutte sussumibili nel concetto di amministrazione di elementi patrimoniali altrui, mediante contratti che legittimano le società a operare in nome proprio sui capitali affidati secondo lo schema del mandato senza rappresentanza.
Questa Corte ha da tempo riconosciuto la rilevanza di simile fenomeno, sempre sostanzialmente ripetendo che nella società fiduciaria i fiducianti vanno identificati come gli effettivi proprietari dei beni da loro affidati alla fiduciaria e a questa strumentalmente intestati (v. Cass. Sez. 1 n. 736418). Cosa che, per esempio, ha condotto a precisare che il mandato dei fiducianti a investire danaro, anche quando rimetta alla discrezione professionale della società fiduciaria l’opzione tra le diverse ipotesi di investimento considerate nel mandato, volge a costituire patrimoni separati da quello della società stessa e intangibili dai creditori di quest’ultima; tanto che l’eventuale mala gestio dei beni dei fiducianti, da parte degli amministratori e dei sindaci della società, non comporta una lesione all’integrità del patrimonio sociale, di modo che, ancora per esempio, i commissari liquidatori sono normalmente ritenuti privi di legittimazione ad agire per far valere la responsabilità degli amministratori e dei sindaci, visto che questa si compone nei confronti non della generalità dei creditori (per avere compromesso la funzione di generica garanzia del patrimonio sociale, ledendone l’integrità), bensì dei fiducianti medesimi; ai quali in vero (come ai terzi danneggiati) spetta la legittimazione in ordine all’azione individuale di cui all’art. 2395 c.c. (v. Cass. Sez. 1 n. 4943-99, e v. pure per le diverse situazioni possibili Cass. Sez. 1 n. 22099-13, Cass. Sez. 1 n. 23560-08, Cass. n. 29410-20).
La conseguenza fondamentale è duplice: da un lato lo strumento giuridico utilizzato per l’adempimento è, quanto alle società di cui alla citata L. n. 1966 del 1939, quello del mandato fiduciario senza rappresentanza finalizzato alla mera amministrazione dei beni conferiti, salva rimanendo la proprietà effettiva di questi in capo ai mandanti; dall’altro e conseguentemente la società fiduciaria che abbia gestito malamente il capitale conferito, e che non sia quindi in grado di riversarlo ai mandanti perchè divenuta insolvente, risponde essa stessa del danno correlato all’inadempimento del mandato e alla violazione del patto fiduciario.
Così che la relativa obbligazione, quando azionata mediante l’insinuazione concorsuale, se anche parametrata all’ammontare del capitale conferito e perduto, è sempre un’obbligazione risarcitoria da inadempimento del mandato.
Non è giustificato distinguere, allora, da questo punto di vista, come in parte è fatto in alcune delle richiamate decisioni di questa Corte e come in generale è preteso dall’avvocatura ricorrente, a riguardo dell’essere azionato, nella sede dell’insinuazione concorsuale, un diritto restitutorio, anzichè risarcitorio, quanto ai capitali conferiti in amministrazione fiduciaria alla società sottoposta a l.c.a., così da impedire nel terzo (il Mise) l’assunzione della veste del coobbligato solidale – con il consequenziale venir meno dell’effetto interruttivo della prescrizione derivante dall’ammissione al passivo.
La domanda di restituzione dei capitali andati in fumo è in ogni caso, per l’investitore, il presidio della reintegrazione patrimoniale, e quindi (sotto questo profilo) del danno da inadempimento del mandato fiduciariamente conferito.
Nè rileva, per la risposta all’interrogativo di fondo circa l’estensione dell’effetto interruttivo della prescrizione nei riguardi del terzo, quale sia (e se vi sia), in base a un giudizio volto in prognosi, la prospettiva di recupero del credito in base all’insinuazione concorsuale.
Questo problema non interessa per la configurabilità del fatto dannoso imputabile (anche) al terzo.
è in grado di incidere solo sull’assetto quantitativo della fattispecie, vale a dire sulla possibile determinazione dell’entità patrimoniale ancora esigibile nei confronti del terzo corresponsabile ove vi sia stato – aliunde – un recupero anche parziale; cosa che peraltro, nella specie, l’impugnata sentenza ha escluso.
XVIII. – Trattandosi, nel senso dianzi sottolineato, dell’unico fatto dannoso imputabile sia alla società inadempiente al mandato fiduciario, sia al Mise quale organo di vigilanza, in dipendenza dell’asserito omesso esercizio dei poteri di controllo, l’effetto interruttivo permanente derivato dall’ammissione dei creditori al passivo si estende secondo il disposto dell’art. 1310 c.c., comma 1.
è da questo punto di vista infondata pure la seconda obiezione svolta dall’avvocatura erariale a conclusione del primo motivo di ricorso.
Si assume che l’art. 1310 c.c., comma 2, osterebbe quanto meno a estendere l’effetto sospensivo della prescrizione, essendo il Mise semplicemente terzo condebitore solidale, non a conoscenza dell’atto interruttivo e non in grado di influire sulla durata degli eventi sospensivi connaturati alla procedura concorsuale.
In contrario è sufficiente osservare che il richiamato art. 1310, comma 2, è riferito all’istituto della sospensione della prescrizione, che, ove rilevante nei rapporti di uno dei debitori o di uno dei creditori in solido, non ha effetto riguardo agli altri.
Viceversa, nel caso concreto non si discute di sospensione ma solo di interruzione della prescrizione, seppure con effetto permanente e non soltanto istantaneo.
Viene cioè in considerazione unicamente l’art. 1310 c.c., comma 1.
In ordine alla rilevanza dell’effetto permanente, quanto alla sfera del condebitore non evocato, è utile riprendere le considerazioni già accennate, e ricordare che il principio di propagazione all’intera obbligazione soggettivamente complessa degli effetti di ogni atto interruttivo della prescrizione è stata affermata come conforme a costituzione.
Difatti la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1310 c.c., comma 1, “nella parte in cui dispone che l’interruzione della prescrizione nei confronti di un condebitore abbia effetto anche nei confronti di altri debitori solidali”, in riferimento all’art. 3 Cost., comma 1 e art. 24 Cost., comma 2, è stata ritenuta non fondata dalla Corte costituzionale mercè il decisivo rilievo che la regola giuridica enunciata dell’art. 1310, comma 1, si rinviene nell’effetto tipico ed essenziale dell’atto considerato dalla legge (v. C. Cost. n. 8 del 1975).
In sostanza per le obbligazioni solidali, di qualsivoglia tipo esse siano, il legislatore ha specificato che se il creditore compie un atto di esercizio del diritto nei confronti di un condebitore solidale si producono gli effetti tipici essenziali (interruttivi) di quel medesimo atto.
Tali effetti hanno portata conservativa e incidono direttamente sulla posizione del creditore nell’ambito dell’obbligazione solidale, e cioè sul diritto del creditore a una data prestazione nei confronti di tutti i condebitori solidali.
Sicchè si riflettono automaticamente e inevitabilmente (“per necessità logica e in mancanza di una regola in senso contrario”, affermò C. Cost. n. 8 del 1975 cit.) sulla posizione di tutti i condebitori solidali e di ciascuno di essi.
In altre e più semplici parole, l’effetto, data la sua natura, coinvolge l’intero rapporto obbligatorio. E lo coinvolge conformemente all’unità di scopo in ragione della quale il legislatore considera unitariamente le singole obbligazioni dei condebitori verso i creditori, secondo uno schema concettuale già noto al codice civile del 1865; il cui regime (art. 2131 c.c. abr.) è stato in vero per questa parte (vale a dire per l’interruzione della prescrizione) sostanzialmente riprodotto con indicazione di diversità rispetto al criterio “personale” accolto per la sospensione; la quale, come noto, non era disciplinata nel codice civile del 1865 quanto alla solidarietà passiva, sebbene solo dal lato del rapporto (attivo) con uno dei concreditori solidali (art. 2122 c.c. abr.).
Dunque, perchè l’effetto interruttivo si produca non è richiesto che dell’atto che lo fa sorgere sia a conoscenza il destinatario, esattamente come accade, del resto, per l’intimazione di cui all’art. 1219 c.c., stante quanto previsto dall’art. 1308, in relazione giustappunto all’art. 1310: la costituzione in mora di tutti i condebitori solidali si determina solo se a ognuno di questi l’atto venga notificato o comunicato, mentre il ripetuto effetto interruttivo si produce, invece, nei confronti di tutti sol che l’atto sia portato a conoscenza di uno di essi.
Da questa angolazione l’effetto è lo stesso quale che sia il tipo di atto interruttivo, sia esso a efficacia istantanea, sia esso a efficacia permanente (come la domanda).
Tutto ciò ha una sua logica, e si giustifica per il fatto che, a differenza degli altri effetti tipici essenziali, quello comunemente chiamato “conservativo” tocca direttamente il rapporto, e non immediatamente ed esclusivamente la sfera giuridica del (singolo) condebitore solidale.
Il condebitore solidale, che non sia a conoscenza dell’atto interruttivo, in dipendenza dell’estensione nei suoi confronti del relativo effetto (conservativo) non viene a perdere (immediatamente) alcun diritto e non viene inciso in una qualsiasi situazione giuridica soggettiva di cui sia titolare; donde, come ampiamente osservato dalla Corte costituzionale nella richiamata sentenza n. 8 del 1975, nessuna disparità ingiustificata di trattamento può esser ravvisata tra il condebitore solidale a cui non sia rivolto l’atto interruttivo e l’eventuale altro condebitore solidale che invece riceva quell’atto: il principio di eguaglianza non risulta violato ove si mettano a raffronto i detti condebitori solidali, perchè l’essere o meno a conoscenza dell’atto interruttivo, ai fini della produzione del ripetuto effetto conservativo, è, per le ragioni sopra dette, ininfluente; l’art. 24 Cost., non risulta violato, perchè l’effetto conservativo di cui si tratta è operativo sul terreno del diritto sostanziale e quindi si muove su una base non coperta dalla detta garanzia costituzionale.
XIX. – A conclusione del discorso è quindi possibile enunciare i seguenti principi di diritto, tutti quanti astretti dal fine di risolvere il contrasto di giurisprudenza nei suoi vari aspetti.
(i) Ai fini della responsabilità solidale di cui all’art. 2055 c.c., comma 1, che è norma sulla causalità materiale integrata nel senso dell’art. 41 c.p., è richiesto solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorchè le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale), in quanto la norma considera essenzialmente l’unicità del fatto dannoso, e tale unicità riferisce unicamente al danneggiato, senza intenderla come identità di norme giuridiche violate; la fattispecie di responsabilità implica che sia accertato il nesso di causalità tra le condotte caso per caso, per modo da potersi escludere se a uno degli antecedenti causali possa essere riconosciuta efficienza determinante e assorbente tale da escludere il nesso tra l’evento dannoso e gli altri fatti ridotti al semplice rango di occasioni.
(ii) In caso di capitali conferiti a società fiduciarie di cui alla L. n. 1966 del 1939, lo strumento giuridico utilizzato per l’adempimento è quello del mandato fiduciario senza rappresentanza finalizzato alla mera amministrazione dei capitali medesimi, salva rimanendo la proprietà effettiva di questi in capo ai mandanti; conseguentemente la società fiduciaria che abbia mal gestito il capitale conferito, e che non sia quindi in grado di riversarlo ai mandanti perchè divenuta insolvente, risponde sempre ed essenzialmente del danno correlato all’inadempimento del mandato e alla violazione del patto fiduciario, e la relativa obbligazione, quand’anche azionata mediante l’insinuazione concorsuale, e quand’anche parametrata all’ammontare del capitale conferito e perduto, è sempre un’obbligazione risarcitoria da inadempimento del mandato, la quale concorre, ai sensi dell’art. 2055 c.c., con quella eventuale dell’organo (il Mise) chiamato a esercitare l’attività di vigilanza.
(iii) Nel caso di società fiduciaria posta in l.c.a., l’ammissione allo stato passivo determina, sia per i creditori ammessi direttamente a seguito della comunicazione inviata dal commissario liquidatore ai sensi della L. Fall., art. 207, comma 1, sia per i creditori ammessi a domanda ai sensi dell’art. 208 stessa Legge, l’interruzione della prescrizione con effetto permanente per tutta la durata della procedura, a far data dal deposito dell’elenco dei creditori ammessi, ove si tratti di ammissione d’ufficio, o a far data dalla domanda rivolta al commissario liquidatore per l’inclusione del credito al passivo, nel caso previsto dalla L. Fall., art. 208; tale effetto, ai sensi dell’art. 1310, comma 1, c.c., si estende anche al Mise, ove coobbligato solidale per il risarcimento del danno da perdita dei capitali fiduciariamente conferiti nella società soggetta a vigilanza divenuta insolvente.
XX. – Il primo motivo di ricorso è rigettato.
I restanti motivi possono essere affidati al vaglio della sezione semplice rimettente.
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, rigetta il primo motivo di ricorso e ordina la restituzione degli atti alla terza sezione per l’esame dei rimanenti.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili, addì 25 gennaio 2022.
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 02 luglio 2021, n. 18817, per SS.UU, 27 aprile 2022, n. 13143, in tema di responsabilità solidale
SS.UU, 27 aprile 2022, n. 13143, in tema di responsabilità solidale
Nota dell’Avv. Gisella Rosa Conforti
Il risarcimento (e la prescrizione) del danno da perdita dei capitali conferiti in società fiduciaria
1. I principi di diritto
Ai fini della responsabilità solidale di cui all’art. 2055, c. 1, c.c., che è norma sulla causalità materiale integrata nel senso dell’art. 41 c.p., è richiesto solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale), in quanto la norma considera essenzialmente l’unicità del fatto dannoso, e tale unicità riferisce unicamente al danneggiato, senza intenderla come identità di norme giuridiche violate.
La fattispecie di responsabilità de qua implica che il nesso di causalità tra le condotte sia accertato caso per caso, dovendosi escludere il nesso fra l’evento danno e gli altri fatti, ridotti al semplice rango di occasioni, allorquando ad uno degli antecedenti causali possa essere riconosciuta efficienza determinante e assorbente.
In caso di capitali conferiti a società fiduciarie di cui alla L. 1966/1939, lo strumento giuridico utilizzato per l’adempimento è quello del mandato fiduciario senza rappresentanza, finalizzato alla mera amministrazione dei capitali stessi, salva rimanendo la loro proprietà effettiva in capo ai mandanti.
Ne consegue che la società fiduciaria che abbia mal gestito il capitale conferito, e che non sia quindi in grado di riversarlo ai mandanti perché divenuta insolvente, risponde sempre ed essenzialmente del danno correlato all’inadempimento del mandato e alla violazione del patto fiduciario; la relativa obbligazione, quand’anche azionata mediante l’insinuazione concorsuale, e quand’anche parametrata all’ammontare del capitale conferito e perduto, è sempre un’obbligazione risarcitoria (da inadempimento del mandato) che concorre, ai sensi dell’art. 2055 c.c., con quella, eventuale, dell’organo chiamato a esercitare l’attività di vigilanza.
Nel caso di società fiduciaria posta in liquidazione coatta amministrativa, l’ammissione allo stato passivo determina, sia per i creditori ammessi direttamente sia per quelli ammessi a domanda, l’interruzione della prescrizione, con effetto permanente per tutta la durata della procedura, a far data dal deposito dell’elenco dei creditori ammessi ovvero dalla domanda.
Tale effetto, ai sensi dell'art. 1310, c. 1, c.c., si estende anche al coobbligato, solidale, per il risarcimento del danno da perdita dei capitali fiduciariamente conferiti nella società soggetta a vigilanza e divenuta insolvente.
2. Il contrasto risolto
La rimessione è stata sollecitata in considerazione del contrasto esistente sulla questione della estensibilità, o meno, dell’effetto interruttivo e sospensivo della prescrizione, conseguente alla insinuazione al passivo di una società fiduciaria ai sensi della L. 1966/1939, all’ente deputato alla vigilanza, terzo estraneo al rapporto obbligatorio tra il creditore insinuato e il debitore sottoposto a procedura concorsuale.
L’orientamento maggioritario (cfr., Cass., n. 17353 del 2017; n. 13365 del 2018; n. 27118 del 2018; Cass., n. 1070 del 2019; Cass., n. 22164 del 2019; Cass., n. 22524 del 2019; Cass., n. 7016 del 2020) si è attestato in senso affermativo, mentre l’altro, di recente esposto dalla stessa Sezione Terza remittente (cfr., n. 4683 del 2020) ha concluso in senso negativo, facendo leva sulla diversità degli interessi oggetto delle autonome condotte dannose imputabili ai soggetti obbligati a vario titolo, e sul difetto di un vincolo di solidarietà tra codesti.
3. Riflessioni conclusive
Per le Sezioni Unite, che aderiscono al filone giurisprudenziale dominante, “quel che appare indiscutibile” è che alla base dell’art. 2055 c.c. vi sia, in ogni caso, la propensione del legislatore verso l’interesse del danneggiato a vedersi ristorato il danno subito in dipendenza di più concause.
Ciò ha indotto la norma a concentrarsi sul “fatto dannoso”, mediante una sintesi verbale in ciò diversa da quella propria dell’art. 1156 del codice civile del 1865, invece riferita allo “illecito” (“se il delitto o il quasi-delitto è imputabile a più persone, queste sono tenute in solido al risarcimento del danno cagionato”).
La considerazione pratica della difficoltà della parte danneggiata di determinare la porzione di responsabilità ascrivibile a ciascun soggetto responsabile del danno ha certamente concorso a determinare il legislatore nel senso della unificazione delle posizioni debitorie per via normativa.
Per questa ragione, precisano le Sezioni Unite, non rileva l’unicità della fonte della responsabilità, ma solo l’unitarietà dell’evento pregiudizievole come base dell’obbligazione risarcitoria.
L’unicità del danno patito dal creditore induce il legislatore a utilizzare in suo favore il mezzo della solidarietà, in modo funzionale a perseguire l’interesse sotteso, che è quello del danneggiato a essere comunque risarcito.
E in caso di responsabilità solidale non si dubita dell’applicazione dell’effetto estensivo, interruttivo della prescrizione, di cui all’art. 1310, c. 1, c.c..