Civile Sent. Sez. U Num. 32061 Anno 2022
Presidente: DE CHIARA CARLO
Relatore: MERCOLINO GUIDO
Data pubblicazione: 31/10/2022
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 27264/2018 R.G. proposto da
MIGLIACCIO RAFFAELE, rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Di Meglio, con domicilio eletto in Roma, via di Porta Pinciana, n. 4, presso lo studio dello Avv. Mario Santaroni;
– ricorrente –
contro
MIGLIACCIO GIANFRANCO, MIGLIACCIO DIEGO, MIGLIACCIO CARMINE e MIGLIACCIO ALESSANDRO;
– intimati –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 3318/18, depositata il 2 luglio 2018.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 19 luglio 2022 dal Consigliere Guido Mercolino;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alberto CARDINO, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. Raffaele Migliaccio propose opposizione al precetto notificatogli il 26 maggio 2014, con cui Gianfranco, Francesco, Diego, Carmine ed Alessandro Migliaccio gli avevano intimato il pagamento della somma di Euro 5.587,89, a titolo di onorari liquidati in favore degl’intimanti nella sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 678/14 del 14 febbraio 2014, e della somma di Euro 394,19, a titolo di spese e compensi relativi all’atto di precetto.
A sostegno della domanda, l’attore dedusse la nullità del precetto per difetto di procura ad litem e mancata indicazione della data di apposizione della formula esecutiva e della data di notificazione del titolo esecutivo, sostenendo inoltre che l’importo dovuto per le spese del giudizio di appello era pari ad Euro 140,00, anziché ad Euro 250,00, mentre il compenso dovuto per l’atto di precetto era pari ad Euro 135,00, anziché ad Euro 225,00.
Si costituirono i convenuti, e riconobbero di aver erroneamente indicato un maggiore importo di Euro 110,00, a titolo di spese liquidate per il giudizio d’appello, chiedendo la dichiarazione d’inammissibilità dell’opposizione.
1.1. Con sentenza dell’8 maggio 2017, il Tribunale di Napoli, Sezione di-staccata di Ischia, accolse parzialmente l’opposizione, riconoscendo il diritto dei creditori di procedere ad esecuzione forzata limitatamente all’importo di Euro 5.740,85, e compensando per la metà le spese processuali, che per il residuo pose a carico dei convenuti.
2. Sull’appello proposto da Gianfranco, Diego, Carmine ed Alessandro Migliaccio spiegarono intervento nel giudizio Gianfranco, Diego, Carmine, Alessandro, Gabriele ed Elena Migliaccio ed Elisa Gilda Trofa, in qualità di eredi di Francesco Migliaccio.
2.1. Con sentenza del 2 luglio 2018, la Corte d’appello di Napoli ha accolto parzialmente l’impugnazione, dichiarando sussistente il diritto degli appellanti di procedere ad esecuzione forzata, limitatamente all’importo di Euro 5.872,08, compensando per un decimo le spese di entrambi i gradi di giudizio e condannando Raffaele Migliaccio al pagamento del residuo.
A fondamento della decisione, la Corte ha riconosciuto innanzitutto l’ammissibilità delle censure riguardanti la determinazione della somma dovuta, il regolamento delle spese e l’applicazione dell’art. 96 cod. proc. civ., in quanto qualificabili come motivi di opposizione all’esecuzione, dichiarando invece inammissibile la questione concernente la nullità del precetto per difetto di procura, in quanto espressamente disattesa dalla sentenza di primo grado e non riproposta dall’appellato con gravame incidentale. Ha dichiarato altresì inammissibile l’intervento spiegato dai terzi, non avendo gli stessi dimostrato la loro qualità di eredi, non essendo configurabile un litisconsorzio necessario con gli altri creditori, ed essendo ormai decorso il termine per l’appello.
Nel merito, la Corte ha ritenuto sussistente l’interesse ad agire, nono-stante l’esiguità dell’importo contestato, rilevando che l’opposizione aveva ad oggetto anche altri profili dell’atto di precetto, e dichiarando invece inammissibile, per difetto d’interesse, la questione concernente la cessazione della materia del contendere, poiché dalla relativa pronuncia non sarebbe derivato alcun effetto utile per i convenuti, dovendo la fondatezza dell’opposizione es-sere valutata ai fini del regolamento delle spese processuali. Ha escluso comunque che i convenuti avessero rinunciato all’importo indebitamente richiesto, ritenendo invece fondate le censure riguardanti l’ammontare del compenso dovuto per la redazione dell’atto di precetto, da determinarsi sulla base dell’importo del credito fatto valere con il precetto, e quindi dei compensi liquidati nel titolo esecutivo, maggiorati di IVA e CPA e delle spese vive, ed escluso invece il rimborso delle spese generali, non indicate nel titolo né richieste con il precetto.
3. Avverso la predetta sentenza Raffaele Migliaccio ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo, illustrato anche con memoria. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione dinanzi alla Terza Sezione civile, che con ordinanza del 14 ottobre 2021 ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per l’assegnazione alle Sezioni Unite, dando atto dell’avvenuta proposizione della seguente questione, ritenuta di particolare importanza, in ordine alla quale si registrano orientamenti contrastanti: «se sia corretta e costituzionalmente orientata l’interpretazione dell’art. 92 cod. proc. civ. secondo cui, nel caso di rilevante divario tra petitum e decisum, l’attore parzialmente vittorioso possa essere condannato alla rifusione di un’aliquota delle spese di lite in favore della controparte».
Ai fini della decisione del ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in camera di consiglio, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, ai sensi dell’art. 23, comma 8-bis, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 di-cembre 2020, n. 176, in combinato disposto con l’art. 16, comma primo, del d.l. 30 dicembre 2021, n. 228 (che ne ha prorogato l’applicazione alla data del 31 dicembre 2022).
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., anche in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la compensazione di un decimo delle spese processuali, ponendo a suo carico il residuo. Premesso che, ai fini del regolamento delle spese, occorre tenere presente l’esito complessivo della lite, da valutarsi unitariamente, indipendentemente da quello delle singole fasi processuali, osserva che egli era risultato parzialmente vittorioso in entrambi i gradi del giudizio, essendo stata riconosciuta la fondatezza di un motivo di opposizione, con la conseguente rideterminazione dell’importo richiesto con l’atto di precetto. Afferma pertanto l’illegittimità della condanna alle spese, sostenendo che le stesse non avrebbero potuto essere poste nep-pure parzialmente a suo carico, ma solo compensate totalmente o parzialmente, con la condanna, in quest’ultimo caso, a carico dei convenuti.
2. Come ha rilevato la Terza Sezione civile nell’ordinanza interlocutoria, in ordine alla questione sollevata dal ricorrente, avente ad oggetto la possibilità di porre le spese processuali a carico della parte parzialmente vittoriosa, si sono sviluppati nella giurisprudenza di legittimità due diversi orientamenti.
2.1. Un primo orientamento, risalente nel tempo ma ancor oggi ampia-mente diffuso, fornisce al predetto quesito una risposta negativa, affermando che in caso di accoglimento parziale della domanda il giudice può, ai sensi dell’art. 92 cod. proc. civ., ed in applicazione del cosiddetto principio di causalità, escludere la ripetizione di spese sostenute dalla parte vittoriosa ove le ritenga eccessive o superflue, ma non anche condannare la stessa parte vittoriosa ad un rimborso di spese sostenute dalla controparte, indipendente-mente dalla soccombenza, poiché tale condanna è consentita dall’ordina-mento solo per l’ipotesi eccezionale (la cui ricorrenza richiede una specifica ed espressa motivazione) in cui tali spese siano state causate all’altra parte attraverso la trasgressione del dovere di cui all’art. 88 cod. proc. civ.; ne consegue che, qualora la parte attrice sia rimasta vittoriosa in misura più o meno significativamente inferiore rispetto all’entità del bene che attraverso il processo ed in forza della pronuncia giurisdizionale si proponeva di conseguire, e la parte convenuta abbia adottato posizioni difensive concilianti o di parziale contestazione degli avversari assunti, possono ravvisarsi (secondo il discrezionale apprezzamento, ad opera del giudice, del loro vario atteggiarsi) i giusti motivi atti a legittimare la compensazione, pro quota o per intero, delle spese tra le parti e non anche un’ipotesi di soccombenza reciproca (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. III, 19/10/2015, n. 21083; 21/03/1994, n. 2653; Cass., Sez. I, 23/01/2012, n. 901; Cass., Sez. lav., 9/04/1986, n. 2493).
Secondo tale impostazione, la nozione di soccombenza, che ai sensi dello art. 91 cod. proc. civ. costituisce il presupposto della condanna alle spese, si identifica esclusivamente con il rigetto integrale della domanda, e non risulta pertanto integrata ove con la sentenza venga liquidata una somma sensibilmente inferiore a quella richiesta dalla parte: la mera resistenza del convenuto alla pretesa dell’attore, in quanto eccessiva o solo parzialmente fondata, anche quando trova consenso nella statuizione del giudice, che accolga sol-tanto in parte la domanda, non si trasforma infatti in domanda riconvenzionale, e non può quindi dar luogo alla soccombenza reciproca, la quale presuppone invece una pluralità di pretese contrapposte, totalmente o parzialmente accolte o rigettate dal giudice, con la conseguente attribuzione di vantaggi e svantaggi rispettivamente a favore ed a carico di entrambe le parti. Il criterio della soccombenza, ai fini dell’attribuzione dell’onere delle spese processuali, viene poi ritenuto non frazionabile in relazione all’esito delle varie fasi del giudizio, dovendo essere riferito in modo unitario e globale all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi definitivamente soccombente abbia conseguito un esito ad essa favorevole (cfr. Cass., Sez. VI, 23/03/2016, n. 5820; Cass., Sez. VI, 18/03/ 2014, n. 6259; Cass., Sez. III, 28/09/2015, n. 19122; 12/05/2015, n. 9587).
Tale impostazione è stata fatta propria, in particolare, da una pronuncia in tema di opposizione all’esecuzione, la quale, in riferimento ad una fattispecie analoga a quella che costituisce oggetto del presente giudizio, ha affermato che, ove si accerti che il creditore abbia chiesto con il precetto il paga-mento di una somma anche di poco eccedente quella dovuta, con conseguente accoglimento in parte qua dell’opposizione, è illegittima la condanna dell’opponente alla rifusione delle spese di lite, perché le spese sostenute dalla parte vittoriosa possono essere compensate, ma non addebitate alla stessa, neppure parzialmente (cfr. Cass., Sez. III, 11/10/2016, n. 20374).
2.2. Al predetto indirizzo se ne contrappone un altro, affermatosi in epoca più recente ed improntato al principio di causalità, secondo cui la soccombenza reciproca, che ai sensi dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. giustifica la compensazione totale o parziale delle spese processuali, può es-sere ravvisata non solo in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti, ma anche nell’ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto nel caso in cui la stessa sia articolata in più capi, alcuni dei quali soltanto siano stati accolti, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento: pertanto, laddove sia disposta la compensazione parziale delle spese di lite, è la parte che abbia dato causa in misura prevalente agli oneri processuali, e alla quale quindi questi ultimi siano in maggior misura imputabili, quella che può essere condannata al pagamento di tale corrispondente maggior misura (cfr. Cass., Sez. III, 15/01/2020, n. 516; 22/02/2016, n. 3438; Cass., Sez. I, 24/04/ 2018, n. 10113; Cass., Sez. VI, 23/09/2013, n. 21089).
A sostegno di tale principio, viene evidenziata l’unicità della nozione di soccombenza, riferibile tanto alla legittimazione all’impugnazione quanto alla regolamentazione delle spese processuali, osservandosi che, anche in caso di accoglimento dell’unica domanda proposta, così come in caso di accoglimento soltanto di alcune domande proposte dall’attore, non può negarsi la sussistenza di una parziale reciproca soccombenza delle parti, dal momento che, in caso contrario, l’attore, in quanto non soccombente, non potrebbe essere neppure considerato legittimato ad impugnare la sentenza che abbia accolto la sua domanda soltanto in parte. Viene altresì sottolineata la comune radice del principio di causalità e di quello di soccombenza, entrambi espressivi della regola secondo cui alla parte le cui richieste siano state disattese dal giudice si imputano gli oneri processuali necessari ai fini della relativa decisione, per avervi dato causa: si rileva tuttavia che, mentre per il caso in cui vi sia una parte integralmente soccombente ed una integralmente vincitrice l’art. 91 cod. proc. civ. stabilisce, quale criterio di regolazione delle spese di lite, il principio della soccombenza, per il caso di soccombenza reciproca l’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. si limita a prevedere la possibilità (non l’obbligo) della compensazione integrale o parziale, senza individuare il criterio in base al quale operare la scelta, il quale dev’essere quindi individuato nel principio di causalità. Ai fini dell’identificazione della parte alla quale sono imputabili in misura prevalente gli oneri processuali, si afferma poi che il giudice di merito deve effettuare una valutazione discrezionale (sebbene non arbitraria ma fondata sul criterio costituito dal principio di causalità), la quale si specifica nell’imputare idealmente a ciascuna parte gli oneri processuali causati all’altra per aver resistito a pretese fondate ovvero per aver avanzato pretese infondate, e nell’operare un’ideale compensazione tra gli stessi (con la precisazione che, in tale ideale compensazione, alla parte che agisce vanno riconosciuti per intero gli oneri necessari per la proposizione delle pretese fondate, ridotti in ragione della maggior quota differenziale degli oneri necessari alla controparte per resistere anche alle pretese infondate), e ciò sempre che non sussistano particolari motivi (da esplicitare in motivazione) tali da giustificare l’integrale compensazione, o comunque una modifica del carico delle spese (sotto il profilo della esclusione della ripetibilità di una quota di esse in favore della parte pur vittoriosa) in base alle circostanze di cui è possibile legittimamente tener conto ai sensi degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., nel loro testo temporalmente vigente.
2.3. Non mancano peraltro decisioni che, ispirandosi ad un’opinione in qualche modo intermedia, e prendendo spunto anche dalle modifiche appor-tate all’art. 91 cod. proc. civ. dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, hanno ritenuto configurabile la soccombenza reciproca anche a fronte dell’accoglimento parziale di una pluralità di domande o dell’unica domanda proposta, ma hanno escluso, in tali ipotesi, la possibilità di porre le spese processuali in tutto o in parte a carico della parte risultata vittoriosa, affermando che tale condanna è consentita dall’ordinamento soltanto per l’ipotesi eccezionale di accogli-mento della domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa (cfr. Cass., Sez. III, 24/10/2018, n. 26918; 23/01/2018, n. 1572).
2.4. Nel sollecitare la rimessione della questione all’esame delle Sezioni Unite, la Terza Sezione civile svolge sei ordini di considerazioni, a suo avviso contrastanti con l’orientamento che ritiene ammissibile la condanna della par-te parzialmente vittoriosa alla rifusione delle spese di lite, e riassumibili come segue: a) sul piano dell’interpretazione letterale, il rapporto tra la condanna alle spese e la compensazione delle stesse si configura come un rapporto di regola ad eccezione, risultando la prima prevista in via generale dall’art. 91 cod. proc. civ. e la seconda consentita dall’art. 92 a determinate condizioni (violazione del dovere di correttezza, soccombenza reciproca o sussistenza di gravi motivi), in assenza delle quali torna ad operare la regola «victus victori», b) sul piano dell’interpretazione logica, l’affermazione secondo cui la proposizione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringe il convenuto a sostenere maggiori oneri di difesa trascura il fatto che il diritto al rimborso delle spese non preesiste alla sentenza, ma sorge con essa, e prescinde dalla considerazione delle spese che la parte soccombente ha dovuto sostenere per contrastare l’iniziativa giudiziaria avversa, c) nel caso in cui la domanda risulti eccessiva, il soccombente è tutelato dal principio, stabilito dall’art. 5, comma primo, del d.m. 10 marzo 2014, n. 55, per cui le spese dovute alla parte vittoriosa vanno liquidate in base al decisum, d) sotto il profilo pratico, distinguere i maggiori oneri che il convenuto ha dovuto affrontare a causa dell’esosità della pretesa dell’attore da quelli che avrebbe dovuto comunque sostenere per la propria difesa potrebbe risultare velleitario, oltre che incompatibile con le esigenze di semplificazione ricollegabili al principio di ragionevole durata di cui all’art. 111, secondo comma, Cost., e) qualificare la vittoria parziale come soccombenza parziale significa equiparare la posizione dell’attore a quella del convenuto, trascurando il fatto che solo il primo è costretto a ricorrere al giudice per far valere il proprio diritto, ed inducendolo pertanto indirettamente ad astenersi dal suo esercizio, in tutti i casi in cui il costo della lite possa superare il valore della stessa, in contrasto con l’art. 24 Cost., f) l’orientamento in questione allarga eccessiva-mente l’area della discrezionalità del giudicante, attribuendogli poteri valutativi assai ampi ed insindacabili in sede di legittimità.
2.5. Alcune delle obiezioni sollevate dall’ordinanza interlocutoria colgono sicuramente nel segno, pur richiedendo qualche precisazione.
In particolare, pur dovendosi condividere l’individuazione del principio di soccombenza quale canone generale in tema di regolamentazione delle spese di lite, non può ritenersi del tutto corretta l’affermazione secondo cui tra l’imposizione del relativo onere a carico della parte soccombente e la compensa-zione delle spese intercorre un rapporto di regola ad eccezione. Tale opinione aveva già costituito oggetto di critica sotto la vigenza del testo originario degli artt. 91, primo comma, e 92, secondo comma, cod. proc. civ., in virtù dell’osservazione che, mentre la prima disposizione stabiliva in linea generale che «il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte», la seconda non limitava l’ammissibilità della compensazione all’ipotesi di soccombenza reciproca, ma consentiva di disporla anche in presenza di «giusti motivi»: l’ampiezza di tale nozione, considerata riferibile ad ipotesi non suscettibili di riconduzione ad una specifica enunciazione o elencazione, aveva in-dotto infatti a riconoscere il carattere discrezionale della valutazione rimessa al giudice in ordine alla sussistenza dei predetti motivi ed alla loro idoneità a giustificare la compensazione, ritenuta non sindacabile in sede di legittimità, a meno che non risultasse fondata su un ragionamento illogico od erroneo. Tale discrezionalità, com’è noto, aveva subìto una rilevante limitazione dapprima per effetto dell’art. 2, comma primo, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, che, al fine di porre rimedio ad un eccessivo e sovente ingiustificato ricorso alla compensazione, aveva modificato il secondo comma dell’art. 92, introducendovi un inciso che richiedeva l’esplicita indicazione in motivazione dei giusti motivi ritenuti idonei a legittimarla, ed in seguito ad opera dell’art. 45, comma undicesimo, della legge n. 69 del 2009, che aveva ulteriormente ristretto l’ambito del potere discrezionale spettante al giudice, sostituendo la locuzione «giusti motivi» con quella, ben più pregnante, «gravi ed eccezionali ragioni», anch’esse da indicarsi esplicitamente in motivazione. Soltanto con l’art. 13, comma primo, del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, il legislatore ha provveduto ad individuare specificamente le ipotesi in cui è consentita la compensazione delle spese, sopprimendo il riferimento alle «gravi eccezionali ragioni», e sostituendolo con quello all’«assoluta novità della questione trattata» o al «mutamento della giurisprudenza, rispetto alle questioni dirimenti». La tassatività di tale elencazione ha tuttavia subìto un parziale temperamento per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 2018, che ha ripristinato il predetto potere discrezionale, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 92, secondo comma, nella parte in cui non prevedeva che il giudice potesse compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistessero altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.
In tale occasione, il Giudice delle leggi ha avuto modo di precisare la portata del principio stabilito dall’art. 91 cod. proc. civ., richiamando proprie precedenti pronunce, nelle quali aveva affermato che «l’istituto della con-danna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene pro-filare la derogabilità sia su iniziativa del giudice nel singolo processo, quando ricorrono giusti motivi ex art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per previsione di legge – con riguardo al tipo di procedimento – in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale» (cfr. ord. n. 117 del 1999, avente ad oggetto la dichiarazione d’infondatezza della questione di legittimità costituzionale della legge 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui non consente di condannare il ricorrente, nel caso di soccombenza, e salva l’applicazione dell’art. 92 cod. proc. civ., al pagamento delle spese di lite in favore dell’amministrazione resistente costituitasi a mezzo di propri funzionari; sent. n. 196 del 1982, avente ad oggetto la dichiara-zione d’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 39 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, nella parte in cui escludeva la condanna alle spese nel processo tributario; sent. n. 222 del 1985, avente ad oggetto la dichiarazione d’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 489, ultimo comma, cod. proc. pen. previgente, nella parte in cui non consentiva la compensazione delle spese processuali tra l’imputato e la parte civile).
Il carattere tutt’altro che inderogabile del principio di soccombenza è stato evidenziato anche da parte della dottrina, la quale, nell’individuarne la ratio nell’esigenza di evitare che il processo vada a detrimento di chi ha ragione, e quindi di assicurare alla parte vittoriosa la restituzione di un diritto pienamente integro anche sotto il profilo economico, ha segnalato l’esistenza di una serie di ipotesi in cui la sua applicazione non potrebbe trovare una ragionevole giustificazione. In quest’ottica, si è affermata per un verso la natura indennitaria della condanna alle spese, non riconducibile ad una condotta illecita della parte a carico della quale viene pronunciata, ma al dato obiettivo della soccombenza, e quindi svincolata dalla valutazione dell’elemento soggettivo, che può dar luogo alle conseguenze risarcitorie previste dall’art. 96 cod. proc. civ.; per altro verso, si è osservato che il principio in esame non è riferibile a quei casi in cui il ricorso al giudice risulta inevitabile per la parte che intenda ottenere determinati effetti, pur in presenza dell’adesione della controparte alla pretesa azionata, o comunque della mancata contestazione del diritto al conseguimento del provvedimento richiesto: sono state richiamate, in proposito, oltre all’ipotesi della condanna alle spese del contumace ed alle azioni costitutive necessarie, quella del giudizio di divisione, in cui le spese sono poste a carico della massa o di ciascuno degli eredi, quella del giudizio di verificazione delle scritture, ove la domanda sia proposta in via principale, quella dell’estinzione del processo per inattività delle parti, in cui le spese restano a carico delle parti che le hanno anticipate, quella della rinuncia agli atti, in cui le spese restano a carico del rinunciante, e quella del processo di esecuzione, in cui le spese sono poste a carico del debitore, pur in assenza di una controversia in ordine all’esistenza del diritto azionato.
E’ proprio l’esistenza di siffatte ipotesi ad aver indotto parte della dottrina ad individuare il fondamento della condanna alle spese in un principio più generale, quello di causalità, in virtù del quale i costi del processo devono essere fatti gravare, in definitiva, sulla parte che avrebbe potuto evitare la lite e che invece vi ha dato causa: tale principio, del quale il criterio della soccombenza costituirebbe soltanto un’applicazione o un indice rivelatore, implica una valutazione della condotta tenuta dalla parte sia prima che nello ambito del processo, al fine di verificare se la stessa vi abbia dato origine, lasciando insoddisfatta un pretesa della quale sia stata poi accertata la fondatezza o azionando una pretesa della quale sia stata riconosciuta l’infondatezza, o ne abbia prolungato la durata, resistendovi in forme o con argomenti non conformi al diritto (cfr. nella giurisprudenza di legittimità, Cass., Sez. III, 30/03/2010, n. 7625, riguardante un genitore, convenuto in riconvenzionale nella qualità di legale rappresentante del figlio minore, che, a seguito del rigetto della domanda riconvenzionale in primo grado, si era costituito in appello unitamente al figlio, divenuto maggiorenne nelle more del giudizio di primo grado, resistendo all’impugnazione della controparte; 15/10/2004, n. 20335, relativa al caso in cui un attore aveva dedotto, in via alternativa o solidale, come fatti costitutivi di un medesimo evento dannoso ed in funzione di un’unica domanda di risarcimento dei danni, comportamenti illeciti di soggetti diversi; Cass., Sez. II, 26/01/2006, n. 1513, avente ad oggetto una controversia relativa all’estinzione del processo).
La necessità che i costi del processo siano sopportati dalla parte che con il suo comportamento ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento è stata riconosciuta anche dalla Corte costituzionale (cfr. sent. n. 135 del 1987), la quale, tuttavia, pur desumendone l’irragionevolezza della disciplina dettata dall’art. 13, comma primo, del d.l. n. 132 del 2014, nonché il contrasto della stessa con i canoni del giusto pro-cesso e del diritto alla tutela giurisdizionale, nella parte in cui escludeva la facoltà del giudice di compensare le spese di lite in caso di soccombenza to-tale, anche nell’ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti o in quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla medesima disposizione, ha tenuto a ribadire la portata generale del principio di soccombenza, affermando che «l’alea del processo grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite, non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente», ed aggiungendo che «è giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa»; in proposito, essa ha posto in risalto anche l’accessorietà della regolamenta-zione delle spese rispetto alla pronuncia che definisce il giudizio, nonché il carattere funzionalmente servente di tale regolamentazione rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito, precisando che, sebbene non costituisca una regola assoluta, la liquida-zione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa costituisce il normale complemento dell’accoglimento della domanda (cfr. sent. n. 77 del 2018; v. anche sent. n. 303 del 1986).
In quest’ottica, pur dovendosi escludere il carattere eccezionale della compensazione, non limitata ad ipotesi tassativamente previste ma riferibile anche ad altre situazioni la cui valutazione è rimessa alla discrezionalità del giudice, non può condividersi l’ampia applicazione del principio di causalità propugnata dall’orientamento giurisprudenziale che ritiene ammissibile la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali, nono-stante il parziale accoglimento della domanda. Se è vero, infatti, che nel nostro ordinamento processuale coesistono criteri diversi di regolamentazione delle spese di lite, non tutti improntati al principio di soccombenza e destinati a far fronte a situazioni diverse, è anche vero, però, che al di fuori di tali ipotesi torna a trovare applicazione la regola generale, la quale esige che a sopportare le spese del processo sia colui che, come affermato da un’autorevole dottrina, risulta vinto nella lotta giudiziale: e tale è indubbiamente anche la parte che, pur avendo agito o resistito in giudizio con argomentazioni ritenute parzialmente fondate dal giudice, abbia visto accogliere, sia pure in mi-sura ridotta, quelle della controparte. In tal senso depone chiaramente l’insistenza del Giudice delle leggi sulla «gravità ed eccezionalità» delle ragioni richieste ai fini della compensazione, nonché la sottolineatura da parte dello stesso del rischio, posto in rilievo anche dall’ordinanza interlocutoria, che la prospettiva di una condanna alle spese possa scoraggiare la parte che ha ragione dal far valere in giudizio i propri diritti, con conseguente menoma-zione del diritto alla tutela giurisdizionale, garantito dagli artt. 24 e 111 Cost. In senso contrario ad un’ampia operatività del principio di causalità è stata peraltro sottolineata anche l’opinabilità degli esiti di una valutazione estesa al comportamento preprocessuale delle parti, in ordine al quale il giudice di-spone per lo più d’informazioni sommarie ed incomplete, tali da impedire o da rendere comunque estremamente difficoltosa l’individuazione della parte che, al di là del torto o della ragione riconosciutale dal provvedimento che risolve la lite, vi ha dato effettivamente causa, ingiustificatamente insistendo in una pretesa poi rivelatasi parzialmente infondata o resistendo ad una pretesa poi risultata parzialmente fondata. Non può d’altronde non rilevarsi che, in buona parte delle ipotesi prese in considerazione dalla dottrina a sostegno della ritenuta operatività di criteri diversi da quello della soccombenza, l’inapplicabilità di quest’ultimo trova giustificazione proprio nella difficoltà di individuare una parte vittoriosa, a causa della mancata adozione di una pronuncia sul merito della controversia: emblematici, in proposito, sono il caso dell’estinzione del processo per inattività, nel quale le spese restano a carico di ciascuna delle parti soltanto nell’ipotesi in cui non insorgano contestazioni relativamente all’avvenuta verificazione dell’effetto estintivo (cfr. Cass., Sez. II, 14/07/2021, n. 20073; 27/06/2005, n. 13736; Cass., Sez. VI, 14/01/ 2016, n. 533), e quello della divisione, in cui l’imposizione delle spese a carico della massa, giustificata dal comune interesse dei condividenti allo sciogli-mento della comunione, incontra un limite con riguardo a quelle derivanti da eccessive pretese o inutili resistenze, che vanno regolate in base al principio della soccombenza, salva la possibilità di disporne la compensazione (cfr. Cass., Sez. II, 24/01/2020, n. 1635; 8/10/2013, n. 22903; 13/02/2006, n. 3083). Carattere effettivamente eccezionale riveste invece l’ipotesi, contemplata dal secondo periodo dell’art. 91, primo comma, cod. proc. civ., intro-dotto dall’art. 45, comma decimo, della legge n. 69 del 2009, della condanna alle spese della parte che abbia visto accogliere la propria domanda in misura non superiore alla proposta conciliativa, trattandosi di una misura ritenuta lato sensu sanzionatoria, e comunque volta ad incentivare l’adesione alla predetta proposta, la cui previsione non smentisce affatto, ma semmai conferma, l’impossibilità di far gravare altrimenti le spese sulla parte vittoriosa, in caso di accoglimento non integrale della domanda.
Al di là di tali obiezioni, ciò che non convince, nell’orientamento che ritiene ammissibile la predetta condanna, è la stessa nozione di soccombenza reciproca, ritenuta comprensiva non solo dell’ipotesi in cui siano state avanzate una pluralità di domande contrapposte o anche solo una domanda arti-colata in una pluralità di capi, ma anche di quella in cui sia stata proposta una unica domanda, accolta in misura sensibilmente ridotta: e ciò sia in considerazione della valenza semantica generalmente attribuita all’aggettivo «reciproca», la cui utilizzazione da parte del legislatore evoca una pluralità di azioni rivolte in direzione opposta tra i medesimi soggetti, sia in ragione della difficoltà di accomunare, sotto il profilo concettuale, la soccombenza che giustifica la condanna alle spese a quella che legittima la parte all’impugnazione della decisione. Determinante, in senso contrario a tale assimilazione, appare la diversità del parametro da adottare come riferimento ai fini della relativa va-lutazione, costituito nel secondo caso dal mancato accoglimento ad opera del provvedimento impugnato anche soltanto di alcune delle istanze proposte dalla parte, e nel primo dall’esito complessivo della lite, comprendente anche le istanze eventualmente accolte o rigettate nei precedenti gradi di giudizio: significativa, al riguardo, è la circostanza che la riforma o la cassazione anche parziale della decisione impugnata comporti la caducazione della statuizione relativa alle spese processuali, imponendo la totale rinnovazione del relativo regolamento, ai fini del quale occorre tenere conto anche delle predette istanze.
Sotto il profilo pratico, infine, l’orientamento in discussione presenta difficoltà applicative di non scarso rilievo, risultando tutt’altro che agevole tanto l’individuazione in concreto della misura, astrattamente definita «sensibile», oltre la quale la soccombenza unilaterale è destinata a trasformarsi in soccombenza reciproca, quanto la determinazione dei maggiori oneri processuali che la parte resistente ha dovuto sopportare a causa della parziale infondatezza della pretesa avanzata dalla controparte; impraticabile deve ritenersi, a tal fine, l’operazione di ideale imputazione ipotizzata da una delle pronunce richiamate (cfr. Cass., Sez. III, 22/02/2016, n. 3438), la quale, oltre a presupporre la possibilità di distinguere, tra gli oneri sopportati dalla parte, quelli sostenuti per avanzare pretese fondate o per resistere a pretese infondate da quelli sopportati per aver avanzato pretese infondate o per aver resistito a pretese fondate, si pone in contrasto con la natura stessa della compensa-zione prevista dall’art. 92 cod. proc. civ.: poiché, infatti, come correttamente rilevato dall’ordinanza interlocutoria, l’obbligo di rifondere le spese processuali non preesiste alla sentenza che definisce il processo, ma sorge soltanto a seguito della stessa, che individua la parte tenuta a sopportarne il carico e ne determina anche la misura, l’istituto in esame non è in alcun modo assimilabile a quello disciplinato dagli artt. 1241 e ss. cod. civ., il quale postula invece la coesistenza di reciproche ragioni di credito e di debito, suscettibili di estinzione per quantità corrispondenti, ma dev’essere inteso più propria-mente come esclusione totale o parziale della ripetibilità delle spese processuali, che non richiede affatto la predeterminazione di quelle dovute a ciascuna delle parti.
Preferibile appare dunque la conferma dell’opposto indirizzo, che circo-scrive la fattispecie della soccombenza reciproca all’ipotesi di pluralità di do-mande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ritenendola configurabile anche in presenza di un’unica domanda articolata in più capi, dei quali soltanto alcuni siano stati accolti, ed escludendola invece nel caso in cui sia stata proposta una domanda articolata in un unico capo, il cui accoglimento, anche in misura sensibilmente ridotta, non consente la con-danna della parte risultata comunque vittoriosa al pagamento delle spese processuali, potendone giustificare, al più, la compensazione totale o parziale.
Tale orientamento, infatti, oltre a risultare maggiormente conforme alla disciplina dettata dal codice di rito, orientata in senso favorevole ad una limitazione della discrezionalità spettante al giudice in materia di regolamenta-zione delle spese processuali, prospetta una regola di facile e pronta applica-zione, idonea a garantire il pieno dispiegamento del diritto alla tutela giurisdizionale, evitando, nel contempo, incertezze operative foriere d’impugna-zioni limitate alle spese, in linea con il principio di ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost., che impone di preferire, per quanto possibile, soluzioni mirate al contenimento delle fasi e dei tempi del giudizio.
Conclusivamente, il contrasto di giurisprudenza segnalato dall’ordinanza interlocutoria può essere risolto mediante l’enunciazione del principio di di-ritto secondo cui «in tema di spese processuali, l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda artico-lata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza de-gli altri presupposti previsti dall’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.».
2.6. Alla stregua di tale principio, non può condividersi la sentenza impugnata, nella parte in cui, facendo leva sull’esito estremamente limitato della opposizione a precetto, che aveva comportato la riduzione del credito azionato per un importo assai esiguo, e ponendo altresì in risalto l’accoglimento parziale dell’appello proposto dagl’intimanti, ha individuato nell’opponente la parte sostanzialmente soccombente, condannandolo al pagamento dei nove decimi delle spese processuali, e dichiarando compensato il residuo.
Tale statuizione, oltre a porsi in contrasto con le considerazioni svolte in precedenza, non tiene conto dell’esito complessivo del giudizio, contrassegnato dall’accertamento della fondatezza delle contestazioni sollevate dall’op-ponente in ordine all’importo del credito azionato con l’atto di precetto, né del comportamento processuale tenuto dagl’intimanti, i quali, come evidenziato dalla stessa sentenza impugnata, pur avendo riconosciuto di aver commesso un errore nell’indicazione della somma dovuta, non avevano mai espressa-mente rinunciato al maggior importo richiesto, in tal modo rendendo necessaria la proposizione della domanda giudiziale.
3. La sentenza impugnata va pertanto cassata, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., con l’integrale compensazione delle spese dei due gradi di merito.
La complessità della questione trattata, oggetto di contrastanti orienta-menti della giurisprudenza di legittimità, giustifica anche la compensazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, e, decidendo nel merito, compensa integralmente le spese dei primi due gradi di giudizio. Compensa integralmente le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 19/07//2022
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 14 ottobre 2021, n. 28048,per SS.UU, 31 ottobre 2022, n. 32061, in tema di spese di lite
SS.UU, 31 ottobre 2022, n. 32061, in tema di spese di lite
Nota dell'Avv. Valentina Petruzziello
Soccombenza (reciproca) e spese di lite
1. Il principio di diritto
L’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza - configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi - e non consente, quindi, la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione, totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, c. 2, c.p.c..
2. Il contrasto risolto
Le Sezioni Unite sono tornate ad occuparsi del complesso tema della condanna al pagamento delle spese di lite e, in particolare, della possibilità di porle a carico della parte parzialmente vittoriosa.
Secondo un primo orientamento (cfr., Cass., 21 marzo 1994, n. 2653; 19 ottobre 2015, n. 21083), in caso di accoglimento parziale della domanda, il giudice può, ai sensi dell’art. 92 c.p.c. ed in applicazione del c.d. principio di causalità, escludere la ripetizione di spese sostenute dalla parte vittoriosa, ove le ritenga eccessive o superflue, ma non anche condannarla al rimborso delle spese sostenute dalla controparte, e ciò indipendentemente dalla soccombenza, poiché tale condanna è consentita dall’ordinamento solo nell’ipotesi eccezionale di violazione del dovere di cui all’art. 88 c.p.c..
In ogni caso, la nozione di soccombenza, che ai sensi dell’art. 91 c.p.c. costituisce il presupposto della condanna alle spese, sussisterebbe soltanto a fronte del rigetto integrale della domanda e non anche ove con la sentenza venga liquidata una somma sensibilmente inferiore a quella richiesta dalla parte.
La mera resistenza del convenuto alla pretesa dell’attore, anche quando trova consenso nella statuizione del giudice, che accolga soltanto in parte la domanda, non si trasforma, quindi, in domanda riconvenzionale, e non può dar luogo a soccombenza reciproca, che presuppone invece una pluralità di domande contrapposte, totalmente o parzialmente accolte o rigettate, con ogni conseguenza di legge in punto di spese di lite.
Secondo un altro, più recente indirizzo (cfr., Cass., 22 febbraio 2016; 15 gennaio 2020, n. 516), la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione totale o parziale delle spese processuali, può essere ravvisata anche nell’ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto nel caso in cui la stessa sia articolata in più capi, alcuni dei quali soltanto siano stati accolti, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento.
3. Riflessioni conclusive
Il Supremo Collegio circoscrive la soccombenza reciproca all’ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ed al caso in cui vi sia un’unica domanda articolata in più capi, dei quali soltanto alcuni siano stati accolti.
La esclude, invece, laddove la (unica) domanda sia stata articolata in un solo capo, il cui accoglimento, anche in misura sensibilmente ridotta, non consente la condanna della parte risultata comunque vittoriosa al pagamento delle spese processuali, potendone giustificare, al più, la compensazione, totale o parziale.
In tal modo si prospetta una regola di facile e pronta applicazione, idonea a garantire il pieno dispiegamento del diritto alla tutela giurisdizionale, evitando incertezze operative foriere d’impugnazioni limitate al capo delle spese, in linea con il principio di ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111, c. 2, Cost..