Civile Sent. Sez. U Num. 12571 Anno 2023
Presidente: VIRGILIO BIAGIO
Relatore: CARRATO ALDO
Data pubblicazione: 10/05/2023
SENTENZA
sul ricorso 27601-2017 proposto da:
ENEL PRODUZIONE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RUGGERO FAURO 43, presso lo studio dell’avvocato UGO PETRONIO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI VILLALAGO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ALESSIO OLIVIERI 45/B, presso lo studio dell’avvocato CLARA PALESSE, rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO CIANCARELLI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1688/2017 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 20/09/2017.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 4 aprile 2023 dal Consigliere ALDO CARRATO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale ALESSANDRO PEPE, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avvocati Ugo Petronio e Francesco Cantelmi, per delega dell’avvocato Domenico Ciancarelli.
RITENUTO IN FATTO
1. Con decreto del Prefetto dell’Aquila del 14 agosto 1927 erano stati espropriati per pubblica utilità terreni appartenenti al Comune di Villalago (AQ) in favore di Ferrovie dello Stato, per l’esecuzione di impianti idroelettrici. Sui medesimi terreni il 22 dicembre 2000 veniva effettuata una Verifica Demaniale, che ne accertava la persistente natura civica; erano successivamente acquistati da Enel Produzione s.p.a., insieme al diritto di utilizzo di altri, anch’essi ritenuti di uso civico. Peraltro, dopo la stipulazione del contratto con il citato Comune, Enel Produzione veniva a conoscenza che tutti i predetti terreni – già oggetto di espropriazione per pubblica utilità – appartenevano in realtà alla stessa società, sorta dalla scissione di Enel, che era a sua volta avente causa di Ferrovie dello Stato.
Tanto premesso, Enel Distribuzione s.p.a. citava in giudizio il Comune di Villalago per ottenere l’annullamento o la declaratoria di nullità del contratto 24 gennaio 2008 per errore essenziale, con la restituzione delle somme corrisposte a controparte.
2. Con sentenza n. 147/2014 il Tribunale di Sulmona rigettava la domanda di Enel Produzione s.p.a. e, in accoglimento della domanda riconvenzionale del Comune, condannava la società attrice al pagamento di € 102.931,18, a titolo di canoni maturati e maturandi.
3. Decidendo sul gravame della società soccombente, la Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza n. 1688/2017 (pubblicata il 20 settembre 2017), ha confermato la pronuncia di primo grado.
Ha osservato la Corte territoriale che il decreto del 14 agosto 1927, invocato dall’appellante, avrebbe, in realtà, costituito soltanto un diritto reale di godimento sui beni controversi, la cui proprietà sarebbe stata confermata in capo al Comune di Villalago, pur vincolata agli usi civici, dalla Verifica demaniale del 2000. La natura demaniale avrebbe escluso qualunque ipotesi di alienabilità, in assenza di preventiva sclassificazione, da cui solo poteva discendere la perdita della destinazione in proprietà collettiva.
4. Per la cassazione della predetta sentenza ha proposto ricorso Enel Produzione s.p.a., affidato a otto motivi.
Ha tempestivamente proposto controricorso il Comune di Villalago.
I difensori di entrambe le parti hanno, rispettivamente, depositato anche memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi di ricorso.
1.1) Con la prima censura, la ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 101, 112 e 324 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c. Afferma che, in primo grado, il thema decidendum si incentrava sulla possibilità che i terreni di uso civico potessero essere espropriati per pubblica utilità, pur in assenza di un provvedimento di mutamento di destinazione, né il Comune avrebbe contestato che il decreto prefettizio avesse natura espropriativa, tanto che la domanda attorea era stata respinta sul presupposto dell’illegittimità del decreto di espropriazione. In appello le posizioni erano rimaste immutate, ma la Corte aveva inopinatamente negato la natura di decreto di espropriazione al provvedimento prefettizio, incorrendo così nei vizi di ultrapetizione e violazione del principio del contraddittorio.
1.2) Con il secondo mezzo d’impugnazione, articolato in una pluralità di censure, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 preleggi, degli artt. 1362-1371 c.c. e della l. 25 giugno 1865 n. 2359, ex art. 360 n. 3 c.p.c., oltre che la violazione del principio di tipicità degli atti amministrativi. Lamenta che l’interpretazione del provvedimento prefettizio non sarebbe stata fatta in base alle norme allora vigenti e che l’atto sarebbe stato emesso in esito al procedimento di espropriazione per pubblica utilità, perfezionato in tutte le sue fasi. La situazione di fatto avrebbe dimostrato inequivocabilmente che l’intenzione della P.A. era quella di espropriare i terreni e che il provvedimento avrebbe avuto natura ed effetti espropriativi.
1.3) Mediante il terzo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 832 ss., 957 ss., 978-1026 c.c., ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., omessa valutazione di una circostanza decisiva ai fini del giudizio, ex art. 360 n. 5 c.p.c., nonché violazione dell’art. 112 c.p.c. Afferma che il riferimento ad un diritto reale di godimento generico sarebbe stato illegittimo, stante la tipicità degli stessi ed avrebbe altresì impedito di comprendere quale o quali diritti fossero rimasti in capo al Comune di Villalago.
1.4) La quarta doglianza si appunta sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 12 prel. c.c. in relazione all’art. 12 l. 1766/1927, degli artt. 15 e 29 R.D. n. 332/28, 52 l. n. 2359/1865, 4 D.P.R. n. 327/01, oltre che sulla violazione dell’art. 111 Cost., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. La sentenza impugnata avrebbe erroneamente assimilato i beni di uso civico ai beni demaniali, tanto più che né la legge sugli usi civici né la legge in materia di espropriazione per pubblica utilità avrebbero escluso dall’espropriazione le terre di uso pubblico, anche senza necessità di un preventivo provvedimento di mutamento della destinazione.
1.5) La quinta censura si focalizza sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 34 e 324 c.p.c., dell’art. 12 l. 1766/1927, degli artt. 15, 29 e 41 R.D. n. 332/28, 52 l. n. 2359/1865, 3 l. n. 25/88, oltre che sulla violazione degli artt. 156 e 183 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. In buona sostanza, secondo la ricorrente, la Corte abruzzese avrebbe erroneamente affermato il passaggio in giudicato dell’accertamento incidentale circa la Verifica demaniale del 22 dicembre 2000, da effettuare al fine della disapplicazione di un atto amministrativo.
1.6) Con la sesta doglianza, Enel Produzione assume la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 l. 1766/1927, degli artt. 15, 29 e 41 R.D. n. 332/28, 52 l. n. 2359/1865, oltre che degli artt. 145 c.c. e 156 c.p.c., 112 c.p.c., 3 l. n. 25/88, 156 e 183 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. La Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto la notifica della Verifica 22 dicembre 2000 regolare o comunque sanata dal raggiungimento dello scopo, benché la comunicazione fosse stata inviata a Enel Green Power presso un ufficio di Ascoli Piceno e benché i beni oggetto della verifica fossero di proprietà di un soggetto giuridico diverso, Enel Produzione.
1.7) La settima censura si incentra sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 12 preleggi, degli artt. 1350, 1418, 832 e ss, 1418 e ss. nonché 1425 ss. c.c. e dell’art. 112 c.p.c., ex art. 360 n. 3 c.p.c. La ricorrente sottolinea che, pur ritenendo che l’atto di espropriazione abbia in realtà trasferito solo un diritto reale di godimento, sarebbe comunque stata necessaria la forma scritta per la rinuncia a tale diritto.
1.8) Con l’ottavo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e del D.M. n. 55/2014, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., per aver la sentenza impugnata liquidato le spese di lite anche per la fase istruttoria/trattazione che non vi era stata.
2. L’ordinanza interlocutoria n. 36355/2022
Con questa ordinanza interlocutoria, il designato collegio ha rilevato che il punto dirimente del giudizio è costituito dall’esame del quarto motivo di ricorso, implicante la verifica della necessità (o meno) del previo decreto di sdemanializzazione rispetto alla espropriazione per pubblica utilità, operata all’epoca attraverso un provvedimento prefettizio. Invero, dalla risposta circa l’obbligatorietà o meno della previa sdemanializzazione dipende l’accertamento circa la legittimità dell’esproprio in favore delle Ferrovie dello Stato e dunque, in ultima analisi, la sussistenza della proprietà dei fondi in capo all’avente causa Enel Produzione s.p.a. nel momento in cui quest’ultima concludeva il contratto di acquisto del 24 gennaio 2008 con il Comune di Villalago.
Al riguardo si è osservato che la questione, la quale nell’impostazione della sentenza impugnata costituisce un’autonoma ratio decidendi, non è stata finora affrontata funditus da pronunce di legittimità, segnalandosi che su analoga fattispecie, sempre la II Sezione – con ordinanza n. 34460 depositata il 23 novembre 2022 – ha disposto la rimessione degli atti al Primo Presidente per l’adozione dei provvedimenti del caso, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c.
La citata questione, ritenuta di massima di particolare importanza, è stata rimessa dal Primo Presidente alle Sezioni unite, come già verificatosi in dipendenza dalla su citata ordinanza interlocutoria n. 34460/2022.
3. L’oggetto della questione di massima di particolare importanza.
La questione di massima di particolare importanza di cui trattasi si può compendiare nei seguenti interrogativi:
“è ammissibile l’espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da usi civici di dominio della collettività, prescindendo da una loro preventiva espressa sdemanializzazione? O si può ritenere sussistente una incommerciabilità (rectius: una indisponibilità) relativa di tali beni, che viene a cessare allorquando sopravvenga e si faccia valere un diverso interesse statale (o pubblico che sia), del tipo di quelli che si accertano e realizzano con il procedimento espropriativo per pubblica utilità ovvero con altri atti formali?”
4. Lo stato della legislazione attuale nella materia degli usi civici.
Nel 1924 venne costituita una Commissione ministeriale alla quale venne affidato il compito di redigere il testo del disegno di legge sul riordinamento degli usi civici, poi divenuto il regio decreto legge n. 751 del 24 maggio 1924.
Il predetto decreto disciplinò gli usi civici con particolare riferimento a quelli insistenti su terre private e a quelli del demanio civico, derivanti dal demanio universale appartenuto alle universitatis ed attribuito ai Comuni.
Il decreto costituì la normativa di riferimento per gli usi civici insistenti sull’intero territorio nazionale attribuendo un ruolo particolarmente rilevante al Comune, quale ente esponenziale della collettività, e distinse tra terre adatte al pascolo e terre idonee all’agricoltura, disciplinando al contempo le associazioni e le università agrarie. Si stabilì, inoltre, che il riconoscimento degli usi civici, non esercitati, dovesse essere richiesto entro due anni. Si giunse, quindi, alla emanazione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, che venne considerata, da una parte della dottrina, come un’opera “ben fatta… vigorosa nelle formulazioni normative e allo stesso tempo sufficientemente elastica, così da permettere all’interpretazione giurisprudenziale e amministrativa notevole capacità di sviluppo”; da altri autori venne considerata falsamente unificante, per altri ancora come un punto di equilibrio tra esigenze diverse, ritenendosi ambigua la dizione usi civici, sotto la quale vi erano unificati diversi e vari istituti, valutandosi contestualmente positivo il confronto con la dottrina giuridica relativa alla legislazione eversiva napoletana. La citata legge base n. 1766 del 1927 si compone di 43 articoli, suddivisi in quattro capi.
Il primo disciplina l’accertamento, la valutazione e l’affrancazione degli usi civici; il secondo riguarda la destinazione delle terre gravate da usi civici e di quelle provenienti da affrancazione; il terzo la giurisdizione e la procedura; il quarto le disposizioni generali e transitorie. L’espressione usi civici è contemplata nell’art. 1, il quale chiarisce l’ambito di applicazione della legge relativo anche all’accertamento ed alla liquidazione degli usi civici e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento delle terre spettanti agli abitanti di un Comune o di una frazione di Comune. L’art. 4 distingue gli usi civici in essenziali, riconosciuti come tali per i bisogni della vita, e utili se comprendono in modo prevalente carattere e scopo di industria. Dall’esame congiunto degli artt. 1 e 3 emerge che nell’ambito delle situazioni dominicali collettive individuate dal legislatore esistono quattro classi di situazioni giuridiche diversamente strutturate. La prima comprende i diritti reali collettivi di godimento su fondo altrui; la seconda include le proprietà collettive e, più in particolare, le proprietà collettive aperte (definite, da parte di alcuni orientamenti dottrinali, dominii collettivi, demani civici, demani universali, demani comunali, terre d’uso civico); la terza classe comprende proprietà collettive chiuse formate dai discendenti di particolari comunità; la quarta classe, infine, include le condizioni di promiscuità ossia situazioni di promiscuo godimento dello stesso fondo da parte della collettività.
Gli artt. 5, 6 e 7 regolano la misura del compenso per la liquidazione dei diritti. L’art. 9 riguarda le terre di uso civico appartenenti ai Comuni, alle frazioni ed alle associazioni e disciplina la possibilità, a domanda degli eventuali occupatori, di legittimazione, a determinate condizioni, e, in assenza, la restituzione al Comune. Tale disposizione consente di affermare che i fondi di cui innanzi sono soggetti a un regime di indisponibilità, che trova deroga nelle sole (limitate) ipotesi previste dalla legge n. 1766/1927 (legittimazioni: art. 9; autorizzazioni all’alienazione e al mutamento di destinazione: art. 12; quotizzazioni: art. 13, e da altrettante limitate previsioni di leggi speciali). Assumono in questa sede particolare rilievo gli artt. 11 e 12, contenuti nel capo II che regola la destinazione delle terre gravate da usi civici e di quelle provenienti dall’affrancazione. L’art. 11 prevede che “i terreni assegnati ai Comuni o alle frazioni in esecuzione di leggi precedenti relative alla liquidazione dei diritti di cui all’art. 1, e quelli che perverranno ad essi in applicazione della presente legge, nonché gli altri posseduti da Comuni o frazioni di Comuni, università, ed altre associazioni agrarie comunque denominate, sui quali si esercitano usi civici, saranno distinti in due categorie: a) terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente; b) terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria”. L’art. 12 prevede che “per i terreni di cui alla lettera a) si osserveranno le norme stabilite nel capo 2° del titolo 4° del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3267. I Comuni e le associazioni non potranno, senza l’autorizzazione del Ministero dell’economia nazionale, alienarli o mutarne la destinazione. I diritti delle popolazioni su detti terreni saranno conservati ed esercitati in conformità del piano economico e degli articoli 130 e 135 del citato decreto, e non potranno eccedere i limiti stabiliti dall’ art. 521 del Codice civile”. Le ulteriori norme della citata legge, che non vengono qui in rilievo, sono relative alla giurisdizione ed alla procedura. Accanto alla legge di cui innanzi viene in considerazione il r.d. 26 febbraio 1928, n. 332, recante il regolamento per l’esecuzione della citata legge 16 giugno 1927, n. 1766 sul riordinamento degli usi civici del Regno e costituito da 85 articoli suddivisi in quattro titoli. In particolare, rilevano in questa sede gli artt. 39 e 41. Il primo disciplina il procedimento per ottenere l’autorizzazione all’alienazione, mentre il secondo le modalità di mutamento di destinazione del fondo gravato da uso civico. Va, inoltre, evidenziato come, nel corso degli anni, gli usi civici abbiano assunto una valenza ambientale e paesaggistica sempre di maggior rilievo. Dapprima fu approvata la legge n. 1497 del 1939, la quale già prevedeva vincoli paesaggistici ma di natura eminentemente amministrativa (poiché collegati al provvedimento amministrativo ed alle sue vicende); è sopravvenuta, poi, la legge 8 agosto 1985, n. 431 (cd. legge Galasso), il cui art. 1, lett. h, modificando l’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977, ha sottoposto a vincolo paesaggistico, tra gli altri beni, le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici. Rileva, altresì, l’art. 1-bis della stessa legge n. 431 del 1985, la quale ha prescritto che le Regioni redigano piani territoriali paesaggistici o piani urbanistico-territoriali con medesime finalità di salvaguardia dei valori paesistici ed ambientali. Il successivo d.P.R. 7 gennaio 1992 ha individuato i criteri di integrazione e di coordinamento delle attività conoscitive dello Stato, delle autorità di bacino e delle Regioni, e annovera tra i dati conoscitivi gli usi civici ai fini della redazione dei piani di bacino previsti dalla legge 18 maggio 1989, n. 183. Gli usi civici sono, inoltre, disciplinati dalla legge quadro sulle aree protette n. 394 del 6 dicembre 1991, nell’ambito del regolamento del parco e del piano parco (artt. 11 e 12). Deve essere rimarcato, per il rilievo dello stesso in un’ottica storico-evolutiva della disciplina degli usi civici, il disposto dell’art. 74 della legge 28 dicembre 2015, n. 221 recante “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali“ (che ha modificato l’art. 4 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327), il quale – come già sottolineato nell’ordinanza interlocutoria – prevede che: “Ai fini della gestione e dello sviluppo sostenibile del territorio e delle opere pubbliche o di pubblica utilità nonché della corretta gestione e tutela degli usi civici, all’articolo 4 (L) del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1-bis. I beni gravati da uso civico non possono essere espropriati o asserviti coattivamente se non viene pronunciato il mutamento di destinazione d’uso, fatte salve le ipotesi in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia compatibile con l’esercizio dell’uso civico». Viene, infine, in considerazione la legge 20 novembre 2017 n. 168, la quale ha riconosciuto i domini collettivi come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie (su cui si ritornerà in seguito).
5. La distinta tipologia, la natura e il regime giuridico degli usi civici
Come già posto in risalto, la legge n. 1766 del 1927 nasce con la finalità di disciplinare in modo esaustivo e unitario tutti gli usi civici, indipendentemente dalle peculiarità storico-geografiche, e conseguentemente normative, che li avevano contraddistinti nel passato. Purtuttavia, all’interno di detti usi due categorie e due regimi normativi sono stati comunque individuati, in considerazione della diversità originaria della proprietà del terreno. La citata legge base del 1927 non reca, in effetti, una definizione espressa degli usi civici, ma li qualifica indistintamente come riconducibili a due diversi diritti di godimento delle terre che ne costituiscono oggetto: l’uso civico propriamente detto e il c.d. demanio civico. La natura giuridica dei primi è ricondotta, dai prevalenti orientamenti scientifici, sia sulla base del riferimento letterale normativo che della inerente “ratio”, a quella di diritti reali “sui generis” gravanti su terre altrui e dal tratto proprio, siccome caratterizzati dall’inerenza al bene, dal diritto di seguito, dall’assolutezza e dalla dimensione “erga omnes” delle tutele; la connotazione peculiare consiste nel realizzare un uso di matrice non codicistica che spetta alla persona “uti civis”, ossia quale membro di un ampio gruppo di soggetti e non come singolo individuo. La natura giuridica dei secondi è condizionata dal caratterizzarsi come beni di c.d. proprietà collettiva, la cui disciplina – così come condensata, principalmente, negli artt. 9, 11, 12, 13, 21 e 29 della stessa legge fondamentale n. 1766 del 1927 (la cui regolamentazione è stata conservata e rafforzata dagli interventi normativi sopravvenuti) – è, nella sua essenza, equiparabile a quella dei beni demaniali, per quanto si desume dal loro regime di inalienabilità, inusucapibilità, immodificabilità e di conservazione del vincolo di destinazione, il quale può subire una deroga solo mediante un’apposita “sdemanializzazione”. Quindi, i diritti civici “in re aliena” consentono l’esercizio del diritto di trarre alcune utilità (pascolo, legnatico, fungatico, caccia, pesca, acquatico, cava dei sassi, semina) da un fondo altrui; invece, il c.d. demanio civico (qualificato anche dominio collettivo o demanio universale o comunale) consiste nel godimento di terre proprie della collettività (“in re propria”). Gli usi che gravano sui terreni dei privati sono destinati alla liquidazione ossia alla soppressione mediante apporzionamento dei terreni stessi ed assegnazione di una porzione al Comune, quale ente esponente della collettività titolare dell’uso civico.
Solo a questi – secondo la giurisprudenza di legittimità – è destinato l’onere di denuncia di cui all’art. 3 della legge n. 1766 del 1927, nonché lo speciale procedimento di liquidazione e solo su tali fondi va sostenuto che, in caso di espropriazione per causa di pubblica utilità, i diritti di uso civico si trasferiscono sull’indennità di espropriazione (come chiarito con la fondamentale sentenza delle SU n. 1671 del 1973, su cui si ritornerà, in modo più approfondito, in seguito). Agli usi civici in re propria si riferiscono le disposizioni concernenti l’accertamento delle arbitrarie occupazioni da parte dei privati al fine alternativo della legittimazione a favore dell’occupatore o della reintegra per la destinazione dei terreni al soddisfacimento di pubbliche finalità nei modi previsti dalla legge. Il regime di inalienabilità ed indisponibilità analogo a quello dei beni demaniali comporta, peraltro, che l’inalienabilità permanga, fino all’eventuale provvedimento del Ministero dell’Agricoltura e foreste (ora della Regione) che ne autorizza “l’alienazione” (o la sottrazione, peraltro non definitiva, alla loro attuale destinazione), provvedimento nel quale (e nel quale soltanto) può ravvisarsi un atto di sdemanializzazione (art. 12 della legge n. 1766/1927 e artt. 39 e 41 del regolamento approvato con r.d. n. 332/1928).
Il quadro normativo degli usi civici collettivi è stato innovato, integrato e specificato con ulteriori successivi interventi normativi, che hanno corroborato – come già messo in evidenza – la loro già stringente e peculiare disciplina giuridica.
In questa direzione – soprattutto nell’ottica di valorizzarne la tutela ambientale e paesaggistica – è intervenuta la legge 8 agosto 1985, n. 431 (c.d. legge “Galasso”) che, come già evidenziato, ha assoggettato al vincolo paesaggistico “le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”. Anche la legge quadro sulle “aree protette” – la n. 394 del 6 dicembre 1991 – ha, come già rimarcato, previsto la generale conservazione e valorizzazione dei beni gravati da uso civico eventualmente presenti nel territorio sul quale si estende il parco.
Un importante rilievo, inoltre, va conferito al d. lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali) e, in ultimo, della Legge n. 168/2017 (Norme in materia di domini collettivi).
Difatti, mentre l’articolo 142 del Codice dei beni culturali prevede che “sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo Titolo:…h) le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”, l’articolo 3, comma primo, della Legge n. 168/2017 recita: “l’ordinamento giuridico garantisce l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio. Tale vincolo è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici”. Il terzo comma dello stesso art. 3 di quest’ultima legge, poi, sancisce che: “Il regime giuridico dei beni di cui al comma 1 resta quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione agro-silvo-pastorale”, laddove – si noti – l’uso del verbo “resta” va ritenuto manifestazione consapevole di quanto già previsto dalla legge del 1927 e l’aggiunta specificativa della “perpetua destinazione agro-silvo-pastorale” è sintomatica di una connotazione di “intangibilità di tali beni” nella loro funzione e nella finalità che perseguono, da cui – ad avviso dei predominanti orientamenti dottrinali – scaturirebbe la loro inassoggettabilità alla procedura “incondizionata” di espropriazione per pubblica utilità, da intendersi, perciò, attuabile solo previa “sdemanializzazione” o “sclassificazione” da parte della competente autorità.
In altri termini, all’indisponibilità dei diritti di uso civico fa riscontro il regime di intangibilità, che quei diritti caratterizza, preservandoli, in via generale, da ogni negativa interferenza, suscettibile di provenire dall’esterno (regime, questo, che deve ritenersi avvalorato anche dalla previsione generale di cui all’art. 4, comma 1, del d.P.R. n. 327/2001, recante il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, secondo cui “I beni appartenenti al demanio pubblico non possono essere espropriati fino a quando non ne viene pronunciata la sdemanializzazione”).
E’ particolarmente rilevante osservare come – a seguito delle ultime pronunce della Corte costituzionale (le sentenze n. 71/2020 e n. 236/2022), dichiarative dell’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni normative regionali invasive della competenza statale (come prevista dall’art. 117, comma 2, lett. s), Cost.), in quanto determinanti una non consentita compressione della proprietà collettiva – sia stata ancor più esaltata la nuova dimensione, in un’ottica costituzionale, che hanno assunto gli usi civici “in re propria”, a seguito dell’ultimo intervento legislativo di cui alla citata legge n. 168/2017 (alla quale, con l’art. 63-bis del recente d.l. 31 maggio 2021, n. 77, conv. dalla legge 29 luglio 2021, n. 108, sono stati aggiunti, nell’art. 3, i nuovi commi 8 bis, ter e quater), per effetto della quale la salvaguardia del regime dei beni di uso civico collettivo deve operare in assoluta sinergia con la tutela paesistico-ambientale, con la conseguenza che i domini collettivi, da qualificarsi come “ordinamento giuridico primario delle comunità originarie e riferiti ad una collettività di membri, che traggono normalmente utilità dal fondo”, vanno riconosciuti come un istituto costituente attuazione anche degli artt. 2, 9, 42, comma 2, e 43 Cost.
6. La risoluzione della questione di massima di particolare importanza alla luce del pregresso stato giurisprudenziale e dell’evoluzione normativa nella materia degli usi civici.
E’ arrivato il momento di pervenire alla conclusione risolutiva della questione di massima di particolare importanza prospettata con il ricorso sull’ammissibilità o meno dell’espropriazione per pubblica utilità dei beni gravati da usi civici di dominio della collettività, ovvero prescindendo da una loro preventiva (siccome da considerarsi non necessaria) sdemanializzazione oppure irrealizzabile senza un precedente provvedimento espresso di sdemanializzazione.
Queste Sezioni unite propendono – così come la prevalente dottrina e la precedente giurisprudenza di questa Corte, quasi del tutto univoca – per la tesi negativa: se l’espropriazione deve escludersi per tutti i beni appartenenti al patrimonio indisponibile “poiché questi non possono essere sottratti alla loro destinazione” se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 828 c.c.), per cui occorre un’espressa norma di legge per consentirne l’espropriazione per pubblica utilità, lo stesso principio deve essere estendibile – a maggior ragione – al demanio pubblico (dello Stato e degli enti territoriali), che ha già una destinazione di interesse pubblico, la quale può essere modificata solo con il venir meno della demanialità, o con la destinazione ad altro uso, disposta dall’autorità competente.
Questa impostazione è applicabile anche ai beni di uso civico collettivo una volta che – propria od impropria che sia la loro qualificazione di beni demaniali (ai quali, tuttavia, sono certamente assimilabili) – essa implica un regime di loro indisponibilità.
La stessa Corte costituzionale – con due sentenze più risalenti ma più chiare ed univoche di quelle più recenti – ha sostenuto che tutta la materia degli usi civici dei beni di proprietà collettiva rientra nell’ambito del diritto pubblico (sentenza n. 67 del 1957) e che la natura di tali beni (equiparabile a quella dei beni demaniali) non consente di sottoporli ad espropriazione per pubblica utilità potendo questa effettuarsi solo per la proprietà privata terriera (sentenza n. 78 del 1961).
Anche il Consiglio di Stato, nei vari pareri espressi, ha messo in evidenza che, più che un’astratta inespropriabilità, deve affermarsi che i citati beni di uso civico, come per i beni indisponibili in genere, la destinazione ad altre finalità di pubblico interesse può avvenire solo in virtù di un atto di sclassificazione, che deve contenere “la comparazione dei vari interessi”; tale atto può avere come motivo di pubblico interesse l’esecuzione di un’opera pubblica, ma nel suo oggetto deve sempre contenere un provvedimento diretto alla sclassificazione dei beni.
Ma soprattutto questa Corte – nella stessa composizione a Sezioni unite (ancorché pronunciandosi in tema di giurisdizione) – già nel 1973, con la dirimente sentenza n. 1671 (in precedenza più volte richiamata), aveva, affrontando la controversa questione in modo frontale, condiviso la su esposta soluzione affermando, in modo inequivoco, il seguente complessivo principio di diritto: “Qualora i beni appartenenti a privati, sui quali si esercita l’uso civico, vengano espropriati per pubblica utilità prima della liquidazione prevista dalla legislazione in materia (legge 16 giugno 1927, n 1766 e r.d. 26 febbraio 1928, n 332) le ragioni derivanti dai diritti di uso civico si trasferiscono sulla indennità di espropriazione. Se, invece, l’uso civico si esercita su beni appartenenti alla collettività (terre possedute dai comuni, frazioni di comune, comunanze, partecipanze, università ed altre associazioni agrarie), il regime di inalienabilità e di indisponibilità cui i beni stessi sono assoggettati – e che permane, per quelli concessi in enfiteusi, fino all’eventuale affrancazione, e per quelli conservati ad uso civico fino al decreto del ministro dell’ agricoltura che ne autorizza l’alienazione – comporta che i beni anzidetti non sono espropriabili per pubblica utilità se non previa ‘sdemanializzazione’. Poiché l’atto di sdemanializzazione può ravvisarsi soltanto nel provvedimento previsto dalla legge, il Commissario per gli Usi civici conserva la propria giurisdizione – in tema di verifica delle occupazioni arbitrarie secondo le norme della citata legislazione – anche se il terreno oggetto d’indagine, ai fini della sua appartenenza o meno alla collettività degli utenti, risulti espropriato per pubblica utilità, in quanto né la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, né il provvedimento di espropriazione possono avere efficacia equipollente all’atto di sdemanializzazione del bene”.
Nell’ampia motivazione svolta (poggiante su un’adeguata impostazione logico-sistematica del quadro normativo e giurisprudenziale in materia), che poi costituì la premessa necessaria per adottare la soluzione attinente alla questione di giurisdizione di cui le Sezioni unite erano state investite, si osservò, in primo luogo, che non può ritenersi equivalente ad un provvedimento di sdemanializzazione di beni civici (di dominio collettivo) la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera in vista della quale viene, poi, dato seguito all’espropriazione dei terreni gravati da siffatti usi civici. Si aggiunse, poi, che, a voler prescindere dalla considerazione che il provvedimento di ”sdemanializzazione” – ravvisabile nell’autorizzazione (ad alienare i terreni o sottrarli alla destinazione civica in atto) da parte (allora) del Ministro per l’Agricoltura e Foreste di cui all’art. 12 della legge n. 1766 del 1927 – non ammette equipollenti, sta di fatto che un equipollente non potrebbe rinvenirsi in un provvedimento emesso da una diversa autorità nell’esercizio di un potere diverso da quello attribuito in materia di usi civici (e non attribuito per la composizione di interessi pubblici eventualmente in contrasto): in un provvedimento, in definitiva, munito di una sua funzione tipica quale provvedimento costituente presupposto dell’espropriazione per causa di pubblica utilità. E lo stesso è da dire per la detta espropriazione, la quale lungi dall’incidere sulla qualità dei beni cui si riferisce nel senso di operarne (se siano civici) la sdemanializzazione, presuppone proprio quest’ultima attività quale condizione per l’insorgenza dello stesso potere espropriativo.
Pertanto, concludono le Sezioni unite nella sentenza n. 1671 del 1973 in esame, la tesi del ricorrente (in quel caso), secondo cui l’asserita demanialità civica dei terreni sarebbe venuta meno in conseguenza dell’espropriazione per pubblica utilità, poggia evidentemente sull’erroneo presupposto che l’espropriazione determini ex se o quanto meno ipso iure l’obiettiva sclassificazione del bene civico (una sdemanializzazione, cioè, per equipollente o di diritto), con la conseguente conversione in diritto all’indennità, al pari di qualsiasi proprietà privata, dell’uso civico delle popolazioni su terre proprie.
Tale soluzione – ad avviso di queste Sezioni unite – è da confermare e la sua condivisibilità risulta avvalorata da tutte le pregresse considerazioni, anche in relazione ai menzionati sopravvenuti interventi normativi.
Del resto, l’unica vera pronuncia contraria successiva – la sentenza n. 9986 del 2007 della II Sezione civile – è sostanzialmente apodittica, ponendo riferimento, a fronte di un motivo, rigettato, ampiamente approfondito e sviluppato (basato sull’univoco quadro giurisprudenziale precedente), ad un’asserita interpretazione sistematica – avallata dalla sentenza n. 391/1989 della Corte costituzionale – conducente alla conclusione che “diversamente dalla disciplina dei beni demaniali in senso stretto e tecnico, al regime di inalienabilità dei beni di uso civico non inerisce la condizione di beni non suscettibili di espropriazione forzata per pubblica utilità”, con la loro conseguente assoggettabilità a quest’ultima procedura. Conclusione, invero, adottata senza confrontarsi con la pregressa giurisprudenza di legittimità, ivi inclusa la citata sentenza delle Sezioni unite n. 1671/1973, ed obliterando anche la pressoché univoca giurisprudenza costituzionale, pur essa contraria alla tesi dell’espropriabilità per pubblica utilità dei beni collettivi gravati da usi civici (oltre alla pronuncia della Corte costituzionale n. 156/1995, si ricordano le ulteriori, precedenti, decisioni recanti i nn. 78/1961, 18/1965, 99/1969 e 93/1970), come desumibile – per quanto prima posto in risalto – anche da quella successiva e più recente.
Ciò che, peraltro, è avvenuto anche con la giurisprudenza di questa Corte.
Così, ad esempio, la sentenza della II Sezione n. 17595 del 2020, nell’escludere la sussistenza di un rapporto di specialità tra il r.d. 1755 del 1933 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici) e la legge n. 1766 del 1927, afferma che “la comparazione tra i contrapposti interessi oggetto di tutela, al fine di stabilire la prevalenza degli uni rispetto agli altri, è compito del legislatore e nel r. d. n. 1775 del 1933 non vi è alcuna norma che possa essere interpretata nel senso indicato dalla ricorrente. Laddove, invece, il legislatore ha voluto affermare l’estinzione dei diritti di uso civico lo ha fatto espressamente: basti pensare, a solo titolo esemplificativo e con riferimento all’espropriazione per pubblica utilità, all’art. 12, comma 2, della legge 31 gennaio 1994, n. 97, il quale ha previsto che “nei comuni montani i decreti di espropriazione per opere pubbliche o di pubblica utilità, per i quali i soggetti espropriati abbiano ottenuto, ove necessario, l’autorizzazione di cui all’articolo 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, e quella del Ministero dell’ambiente, determinano la cessazione degli usi civici eventualmente gravanti sui beni oggetto di espropriazione”.
Rileva, inoltre, anche la precedente sentenza della III Sezione n. 19792 del 2011, la quale ha affermato che “un bene gravato da uso civico non può essere oggetto di espropriazione forzata, per il particolare regime della sua titolarità e della sua circolazione, che lo assimila ad un bene appartenente al demanio, nemmeno potendo per esso configurarsi una cosiddetta sdemanializzazione di fatto. L’incommerciabilità derivante da tale regime comporta, che, al di fuori dei procedimenti di liquidazione dell’uso civico e prima del loro formale completamento, la preminenza di quel pubblico interesse, che ha impresso al bene immobile il vincolo dell’uso civico stesso, ne vieti qualunque circolazione, compresa quella derivante dal processo esecutivo, quest’ultimo essendo posto a tutela dell’interesse del singolo creditore, e dovendo perciò recedere dinanzi al carattere superindividuale e lato sensu pubblicistico dell’interesse legittimante l’imposizione dell’uso civico; siffatto divieto comporta, pertanto, la non assoggettabilità del bene gravato da uso civico ad alcuno degli atti del processo esecutivo, a partire dal pignoramento”. Occorre evidenziare che il predetto principio, che è stato affermato in relazione al processo esecutivo non in rilievo in questa sede, muove da principi e rilevanti considerazioni generali in tema di beni gravati da usi civici, comunque importanti ed asseverativi del peculiare regime giuridico al quale sono sottoposti gli usi civici collettivi. La sentenza, infatti, dopo aver ricostruito storicamente l’origine degli usi civici, analizza gli interventi normativi che si sono avvicendati nel tempo incidendo sulla loro originaria funzione. Si afferma, quindi, che la persistente vitalità dell’istituto – nonostante fin dal 1927 se ne fosse prevista appunto la “liquidazione” – poggia ora su di una sua tendenziale mutazione funzionale, essendo, cioè, riconosciuta all’uso civico una nuova caratterizzazione della sua natura di bene collettivo, in quanto utile – anche se non soprattutto – alla conservazione del bene ambiente e, oltretutto, per ciò stesso non soltanto a favore dei singoli appartenenti alla collettività dei fruitori del bene nel singolo contesto territoriale collegato alle possibilità di concreto utilizzo dell’immobile, ma evidentemente alla generalità dei consociati. Sicché, si osserva ulteriormente nella sentenza in discorso, “tale mutamento di funzione non rileva, in questa sede, dinanzi alla chiarezza della legislazione nazionale e regionale tuttora in vigore, la quale continua a disciplinare l’istituto coi suoi caratteri originari, salvo a prevedere forme sempre più agili di superamento del rigoroso regime di gestione e di circolazione”. Muovendo da quanto innanzi, la stessa sentenza evidenzia come la giurisprudenza di legittimità riconduca i beni gravati da uso civico a quelli demaniali, alla luce delle caratteristiche che li accomunano, prima fra tutte l’inalienabilità.
7. Conclusioni.
Poiché i beni gravati da uso civico di dominio collettivo sono assimilabili a quelli demaniali (costituendone – secondo alcuni indirizzi – una particolare categoria), l’approdo ermeneutico, in relazione al loro regime giuridico sul punto, non può essere che lo stesso, nel senso che l’esperimento della procedura espropriativa per pubblica utilità, affinché possa essere ritenuta legittima, deve essere proceduta dalla preventiva “sdemanializzazione” di siffatti tipi di beni.
Pertanto la “sdemanializzazione degli usi civici collettivi” non può verificarsi – “mediatamente” – direttamente con l’esecuzione di una procedura di espropriazione per pubblica utilità e ciò anche in virtù della ragione di fondo che, a fronte della garanzia della quale godono gli interessi primari della persona (anche nella forma della soggettività collettiva, propriamente tutelata dalla disciplina degli usi civici “in re propria”), nessuno spazio può considerarsi aperto a valutazioni discrezionali di autorità amministrative o, comunque, esercenti attività di corrispondente natura, potendo e dovendo esse operare nella più stretta osservanza delle norme e dei criteri prefissati dalla legge; il che induce a configurare i relativi provvedimenti come atti vincolati, ovvero adottabili con mera efficacia esecutiva, in virtù della funzione peculiarmente assolta.
La “sdemanializzazione” deve, quindi, realizzarsi tramite le procedure e sulla base dei criteri individuati dalla legge per ciascuna categoria di beni pubblici e non attraverso una mera comparazione di interessi pubblici connessi all’utilizzazione del bene attuata dall’autorità espropriante secondo le regole del diritto amministrativo comune.
Una diversa interpretazione si porrebbe in contrasto con la disciplina e la finalità stessa degli usi civici.
In definitiva, con riferimento alla questione di massima di particolare importanza sottoposta al vaglio di queste Sezioni unite, va affermato il principio in virtù del quale i diritti di uso civico gravanti su beni collettivi non possono essere posti nel nulla (ovvero considerati implicitamente estinti) per effetto di un decreto di espropriazione per pubblica utilità, poiché la loro natura giuridica assimilabile a quella demaniale lo impedisce, essendo, perciò, necessario, per l’attuazione di una siffatta forma di espropriazione, un formale provvedimento di sdemanializzazione, la cui mancanza rende invalido il citato decreto espropriativo che implichi l’estinzione di eventuali usi civici di questo tipo ed il correlato trasferimento dei relativi diritti sull’indennità di espropriazione.
Ne consegue che, con riferimento alla controversia in questione, deve ritenersi conforme a diritto l’impugnata sentenza della Corte di appello dell’Aquila, con cui è stato affermato il principio in base al quale la natura demaniale dei terreni assoggettati ad uso civico “in re propria” esclude in nuce qualsivoglia ipotesi di alienabilità in assenza di preventiva sclassificazione – nei limiti e modi previsti dalla legge e da considerarsi eccezionale rispetto al regime ordinario che qualifica detti beni come indisponibili – da cui solo può discendere la perdita della loro destinazione in proprietà collettiva di una comunità di abitanti. Correttamente, quindi, la citata Corte territoriale ha rigettato il motivo di appello, con il quale era stata contestata la legittimità della D.D. del 14.7.2006 n. DH7/559/usi civici di sclassificazione, fondata sulla Verifica di demanialità.
Di conseguenza, deve essere respinto il quarto motivo del ricorso (relativo alla confutazione della statuizione, appena richiamata, adottata con l’impugnata sentenza di appello), che involge specificamente la questione di massima di particolare importanza risolta con la presente sentenza.
L’esame degli altri motivi del ricorso viene rimessa alla Seconda Sezione civile, che provvederà a regolare anche le spese di questa parte del giudizio trattata e definita da queste Sezioni unite.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, rigetta il quarto motivo del ricorso.
Rimette l’esame degli altri motivi del ricorso alla Seconda Sezione civile, a cui demanda anche la regolazione delle spese del giudizio svoltosi dinanzi alle Sezioni unite.
Così deciso nella camera di consiglio delle Sezioni unite in data 4
Allegati:
Ordinanza interlocutoria, 13 dicembre 2022, n. 36355, per SS.UU, 10 maggio 2023, n. 12571, in tema di usi civici
SS.UU, 10 maggio 2023, n. 12571, in tema di usi civici
Nota dell’Avv.ta Matilde Santini
Espropriazione dei beni gravati da usi civici di dominio collettivo
1. Il principio di diritto
I diritti di uso civico gravanti su beni collettivi (cd. “demanio civico”) non possono essere oggetto di espropriazione per pubblica utilità in assenza di un preventivo provvedimento di sdemanializzazione adottato dall’autorità competente.
In mancanza di detto provvedimento, il decreto di esproprio che implichi l’estinzione degli usi civici gravanti sul bene collettivo deve ritenersi invalido e non è ammesso il trasferimento dei relativi diritti civici sull’indennità di espropriazione (al contrario di quanto avviene nel caso degli usi civici gravanti su beni di proprietà privata, cc.dd. diritti civici “in re aliena”).
2. La questione di massima di particolare importanza
Per rispondere al quesito posto dall’ordinanza di rimessione, le Sezioni Unite sciolgono preventivamente due questioni preliminari relative:
1) alla natura demaniale dei beni gravati da usi civici;
2) alla non equipollenza tra il decreto di esproprio e la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, da un lato, e l’atto di sdemanializzazione, dall’altro.
Quanto alla prima, la Suprema Corte, dopo aver effettuato una ricognizione della normativa applicabile agli usi civici, ne individua i caratteri fondamentali e, in particolare, la natura indisponibile di tali diritti, con il peculiare regime proprietario al quale sono assoggettati.
La Cassazione assimila gli usi civici ai beni demaniali, date le caratteristiche comuni, con la conseguente necessità della preventiva sdemanializzazione ai fini dell’assoggettabilità al procedimento di espropriazione.
Quanto alla seconda questione, le Sezioni Unite ritengono non equivalenti il provvedimento di sdemanializzazione dei beni collettivi alla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera (o il successivo decreto di esproprio).
Alla base di tale assunto vi è, precisa il Supremo Collegio, l’impossibilità della pubblica amministrazione di procedere a una sdemanializzazione “mediata” attraverso l’adozione da parte di un’autorità (peraltro diversa da quella competente in materia di usi civici) del provvedimento di esproprio, in quanto avente contenuti e funzioni completamente diversi rispetto all’atto di sclassificazione.
3. Riflessioni conclusive
La ratio di fondo della decisione si rinviene nella garanzia di cui godono gli interessi primari della persona (anche nella forma della soggettività collettiva), che non lascia spazi alla discrezionalità delle pubbliche amministrazioni, soggette al principio di legalità.
Ne consegue l’esigenza che la sdemanializzazione si realizzi tramite le procedure e sulla base dei criteri individuati dalla legge per ciascuna categoria di beni pubblici, e non mediante una semplice comparazione degli interessi connessi all’utilizzazione del bene, come avviene invece nell’ambito della procedura di esproprio.
Le Sezioni Unite si pongono in linea rispetto alla pregressa giurisprudenza sul punto.
In passato la Corte Costituzionale (25 maggio 1957, n. 67 e 30 dicembre 1961, n. 78) ha sostenuto la natura pubblicistica della disciplina inerente agli usi civici e la non assoggettabilità dei beni gravati all’espropriazione; anche il Consiglio di Stato ha chiarito che per i beni di uso civico la destinazione ad altre finalità di pubblico interesse può avvenire solo in virtù di un atto di sclassificazione.